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© 2011 di Dilhani Heemba. Tutti i diritti riservati.
ISBN: 9788890725821
A Silvia, Sabina e Manu
Copertina: Livia De Simone
Editor: Grey Delacroix
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Sommario
Prologo ........................................................................................ 4
Capitolo 1 .................................................................................... 7
Capitolo 2 ................................................................................. 15
Capitolo 3 ................................................................................. 24
Capitolo 4 ................................................................................. 33
Capitolo 5 ................................................................................. 44
Capitolo 6 ................................................................................. 57
Capitolo 7 ................................................................................. 65
Capitolo 8 ................................................................................. 69
Capitolo 9 ................................................................................. 80
Capitolo 10 ............................................................................... 92
Capitolo 11 .............................................................................. 103
Capitolo 12 ............................................................................. 110
Capitolo 13 ............................................................................. 120
Capitolo 14 ............................................................................. 127
Epilogo .................................................................................... 137
Note dell’autore ................................................................... 144
Ringraziamenti .................................................................... 148
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Prologo
So close no matter how far
couldn’t be much more from the heart
forever trusting who we are
and nothing else matters.
Nothing Else Matters - Metallica
Anno 2002
I fiori colorati profumavano di maggio, d’amore e spensiera-
tezza. Nel cielo di novembre, però, un tuono cupo rimbombò
tra le nubi basse.
Ryker Mancini toccò con la punta delle dita l’immagine
della madre, una foto di cinque anni prima, quando lei era
ancora una persona sana e il suo sorriso non nascondeva
l’irrequietezza di una malattia che non voleva andarsene.
Il ragazzo scostò i capelli color cenere dalla fronte e sollevò
il viso a guardare le statue di alcuni bambini davanti a una
cappella di famiglia che si sollevava proprio dietro la tomba
di sua madre. Una statua era più grande delle altre, rappre-
sentava un angelo con le mani congiunte in una preghiera
che sorrideva con dolcezza verso di lui.
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Il cimitero del Verano, nel cuore di Roma, aveva delle scul-
ture talmente belle che lui sarebbe rimasto a guardarle per
ore, così, sospeso a metà in quel posto astratto dal tempo e
dalla realtà, tra le foto antiche e ingiallite e il profumo dei ci-
pressi. Ma un’ombra dietro una seconda cappella catturò la
sua attenzione, facendogli respirare la fragranza di rose sel-
vagge.
Deglutì e si trovò a fissare gli occhi profondi di una ragaz-
zina, mezza nascosta da una colonna in marmo bianco. Occhi
neri come la notte, come un tuono, come un ultimo respiro.
Neri come la morte. Ryker scosse il capo, incredulo a quei
pensieri, e la bambina distolse lo sguardo da lui posandolo
sulla sorellina del ragazzo.
Non lo faceva spesso, eppure si trovò a deglutire di nuovo,
a disagio: non esiste il nero come l’ultimo respiro. Cosa aveva
quella bambina? La pelle liscia troppo scura; i capelli a ca-
schetto troppo chiari; la mano destra che si muoveva come
brezza spostando una rosa nera; le ali troppo grandi.
Il giovane sbatté le palpebre e riprese aria solo quando si
accorse di fissare la statua dell’angelo e le sue immense ali
piumate, leggere e morbide, intagliate nella pietra dura. Si
voltò a guardare la sorella che, inginocchiata a terra, stringe-
va gli occhi e le dita incrociate tra loro mormorando l’Ave
Maria. Come era giusto che fosse, non si era accorta di nulla.
Le accarezzò la testa bionda con dolcezza, come se stesse
toccando qualcosa di troppo fragile. Lei aprì gli occhi e gli
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sorrise con espressione mesta; dopo il funerale, lui non
l’aveva più vista piangere. Né ridere.
«Andiamo a casa, Lulù», le disse con voce sicura.
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Capitolo 1
Journey on to the eternal reward
It’s a long way to go
A black angel at your side
Black Angel - The Cult
Anno 2006
Nel cielo di Roma non c’erano nubi, neanche la più piccola
velatura.
Vanth Kriera Nefthari, figlia di Ananke, però, non riusciva
a scorgere più di qualche stella nel blu ovattato della notte.
Fece una smorfia e mosse l’aria davanti a sé con la mano,
come a scacciare l’inquinamento della Città Eterna. Chiuse
gli occhi e abbassò il viso concentrandosi sulle percezioni
non umane del suo corpo.
Di colpo aprì le palpebre, iniziò a correre in uno dei vicoli
di Trastevere e con il passo felpato di un gatto poggiò i piedi
su una panchina, un muro sporco, un lampione spento e di
nuovo sul muro fino a superare il cornicione di un palazzo. Si
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fermò sul corrimano di una scala di ferro che portava su una
terrazza privata, accucciandosi sulle gambe; quindi voltò il
viso verso il Vittoriano e sorrise.
Dietro i cavalli al galoppo, bloccati per l’eternità in cima al
monumento, un essere bianco come neve osservava le mac-
chine sotto di sé. La ragazza fece forza sui talloni, infilati con-
tro ogni buon gusto negli anfibi, e si librò nell’aria, spalan-
cando lunghe ali grigie dietro le spalle. Tre, forse quattro bat-
titi e le suole di gomma si adagiarono sul lato opposto a dove
si trovava l’altra creatura che, vedendola arrivare, inclinò il
capo e le sorrise con affettazione.
Anch’egli spalancò le ali bianche, tuttavia si limitò a un vo-
lo radente al bordo frontale del Vittoriano, quasi lo stesse ac-
carezzando con i sandali dorati. Invisibile a occhi umani, ag-
girò la Vittoria alata sulla biga di bronzo e si fermò. «Thari»,
esordì con una voce mielata. «Quell’uomo deve vivere.»
«Akel», replicò lei senza il minimo tentennamento,
«quell’uomo deve morire. Stanotte.»
Lui spostò il peso del corpo su un lato, sfiorando con la
mano una delle ruote della scultura e guardando la ragazza,
immobile due gradoni più sotto rispetto a lui. «Io non vi
comprendo: trovo ridicola la testardaggine di voi Moire.»
Thari sorrise a quell’appellativo. «Non lo devi comprendere
e non capisco neppure perché tu stia tentando di farlo da così
tanto tempo. Ucciderò quell’uomo, Akel, Figlio della Luce, e
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ucciderò anche te se tenterai di impedirmelo; sai che lo fa-
rò.»
Lui fece scorrere lo sguardo su di lei, indugiando sulla sua
pelle più nera della pece; indossava due distinti pezzi di stof-
fa: il primo le copriva il bacino come una gonna corta e legge-
ra, il secondo era un lungo tessuto incrociato davanti e die-
tro, drappeggiato in modo da coprirle il seno e stretto da una
cordicella sulla vita. Era una delle poche figlie di Ananke a
vestire in quel modo. Akel era convinto che fosse ridicolo:
troppo corta la gonna, troppo strano l’incrocio delle vesti e
troppo fuori posto gli anfibi; ma ammetteva che, ora che il
corpo di lei aveva assunto quella forma, la rendeva appieno
donna. Una donna sensuale, tuttavia imperfetta.
«Sai, per me è piuttosto frustrante dover combattere con
te, insomma, eri una bambina fino a pochissimi anni fa e lo
sei stata così a lungo che nessuno pensava più a un cambia-
mento. Un caso che spero di non dover ritrovare in futuro.
Non so come tu ti sia guadagnata un posto nonostante il tuo
sangue, io non te lo avrei concesso», aggiunse con voce ta-
gliente.
«Non fare l’angioletto sprovveduto, sai benissimo che non
ero una bambina, se non nella forma. O stai ragionando in
termini umani?» lo stuzzicò.
Akel strinse appena le palpebre. «Tesoro, non è la forma
che ti rendeva una bambina, era la tua incapacità di essere
demone. Deve essere dura combattere con il lato umano.»
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«Continui a fare lo sprovveduto, o forse speri solo di farmi
perdere la pazienza. Gli umani possono chiamarvi angeli, tut-
tavia siete dei demoni quanto noi, e come tali siete a metà tra
l’essere umano e la divinità; vuoi negarlo, Akel?»
Senza preavviso, lui scoppiò a ridere, scuotendo i capelli
biondi e lucidi anche nel buio della notte. «Thari, sei molto
gentile a farmi queste lezioni di demonologia, un ripasso fa
sempre bene. Tu, però, sei nata perché tua madre aveva deci-
so di farsi una sana scopata con un umano.» Fece una pausa.
«Vuoi forse negarlo?» le fece il verso.
«Non nego mai ciò che sono, Figlio della Luce.» replicò ge-
lida, spostandosi sul gradone più alto senza smettere di
guardarlo. «Al contrario di voi altri, mi sono guadagnata il
mio posto e il mio lavoro.»
«Uccidere umani innocenti?»
«Esattamente.»
Una folata di vento scompigliò a entrambi i capelli chiari.
«Non credi che sia crudele?»
Thari abbassò un poco il mento, sollevò con calma la mano
destra, che portò dietro le scapole piumate, e impugnò l’elsa
della sua spada; la lama emise un sibilo uscendo dalla fodera
che la sosteneva. «Voi angioletti avete la noiosissima capacità
di farmi sempre le stesse identiche domande. Non capisco se
sia un modo per farmi perdere tempo o se siete davvero così
interessati alla mia natura, all’etica del mio sangue e al tenta-
tivo di farmi cambiare idea. Purtroppo ho un uomo da far ri-
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nascere e un equilibrio da mantenere: se vuoi tentare di fer-
marmi, fallo; ma chiudi la bocca.»
L’aria calda dell’estate mosse la toga di Akel, che estrasse la
sua spada, aggrottando la fronte. «Sei ingiusta. Lo siete tutte
voi, porterete dolore e lacrime e odio nei confronti di Dio.»
«Porterò Patrizio Esposito nelle mani di Dio, dovresti esse-
re contento», ribatté lei asciutta.
«Non puoi sapere dove andrà.»
Lei alzò gli occhi al cielo, puntò i piedi a terra e sollevò la
spada; in un batter di ciglia si avvicinò all’avversario con un
affondo. Akel parò con la propria arma, senza scansarsi, e lei
gli fissò gli occhi grigi a pochissimi centimetri di distanza.
«Hai ragione, non so dove andrà, ma so che rinascerà tra po-
co. E anche tu.»
Lui balzò indietro, flessuoso ed elegante, e con un salto si
posò sul sedere di uno dei cavalli, poggiando i sandali con la
morbidezza di una piuma. «Quanti angeli hai ucciso? Uno,
due?»
Lei lo raggiunse adagiandosi con grazia sulla testa del qua-
drupede. «Hai paura di me, Akel?»
«Sai che il Bene prima o poi trionfa sul Male?» le rispose
lui volteggiando intorno a lei.
Thari sfiorò la lama di lui con la propria, quasi volesse sag-
giarlo con delicatezza. «Chi ti racconta queste favolette, tua
madre? E scrivi anche a Babbo Natale, magari.» La punta
della sua spada disegnò un cerchio perfetto attorno a quella
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di Akel, la scontrò, la sospinse indietro e l’allontanò dal pro-
prio torace.
Lui la spostò senza demordere, fluttuò sulla cima del mo-
numento e affondò su di lei, mirando al cuore. «Certo che gli
scrivo», rispose, parlando più forte dello stridere acuto delle
lame a contatto. «Io non vado in giro a far morire le persone.
Sono un bambino buono.»
La ragazza volò insieme a lui, le ali appena aperte per non
farle scontrare con quelle di Akel. La bellezza di un perfetto
passo di valzer, ma le armi scesero a incastrarsi sulle impu-
gnature, bloccandoli a vicenda. Entrambi posarono i piedi sul
pavimento della terrazza, tenendosi stretti in un abbraccio.
Lei alzò il viso verso di lui, avrebbe quasi potuto baciarlo.
«Però i tuoi occhi bramano la mia morte», commentò causti-
ca.
Lui sorrise, con una dolcezza che sembrava sincera. «Per-
ché tu sei il Male, tesoro.»
E, prima che potesse rendersene conto, la lama di un pu-
gnale le perforò il fianco sinistro.
Gemette.
Liberò la propria spada e fece due passi indietro, guardan-
dosi la ferita, da cui usciva sangue rosso. Sangue umano. Lo
stesso che era rimasto sulla lama che l’aveva colpita. Guardò
Akel e la soddisfazione sul suo volto. «Non puoi uccidermi
con quello», disse senza riuscire a dissimulare la sorpresa di
tale mossa.
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«Lo so», replicò lui, atono. «Ma posso farti molto male. E
quando sarai debole ti finirò con la spada. È questo il bello di
essere del tutto demoni: tu non puoi ferirmi, se non con la
tua spada.»
Thari poggiò il palmo della mano sulla ferita, avvertendo il
calore della propria energia. Akel aveva ragione, era svantag-
giata. Poteva evitare lo scontro, curarsi e tornare all’attacco,
ma non aveva tempo a sufficienza: l’umano doveva rinascere
e non avrebbe potuto farlo senza di lei. Continuando a tenere
la mano sulla lesione, alzò di nuovo l’arma contro il suo ne-
mico. Lui sorrise compiaciuto, parando tutti i suoi colpi.
Lei serrò le mascelle e isolò il mondo attorno a sé. Le mille
luci di Roma sparirono, e così il Vittoriano, la brezza tesa sui
tetti, il suono borbottante delle automobili e gli autobus not-
turni, il fondo scuro dei Fori Imperiali, il cielo, la terra.
C’erano solo loro due. I fendenti precisi che scivolavano come
pennellate, i corpi che si muovevano agili roteando con i mu-
scoli tesi.
E il dolore. Il dolore che divampava subito sotto le costole.
Thari chiuse gli occhi e si concentrò sulla percezione mentale
del corpo e l’essenza di lui. E le sue lame.
Vanth Kriera Nefthari era veloce; lo sapevano tutti.
Gli scatti, i volteggi, i balzi felini di Akel non servirono a
molto: quando lei riaprì le palpebre di un nero corvino, lui
era a terra e le stava puntando contro solo il pugnale. Con la
coda dell’occhio poteva scorgere la spada di lui troppo lonta-
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na dalla sua mano, non si voltò a guardarla: il volto del nemi-
co ora non riusciva a nascondere la paura. La morte, la vita,
la rinascita; tutti temono ciò che non conoscono.
Lei imprecò in silenzio perché quella paura era nettare
troppo dolce; e troppo crudele anche per lei.
«Uccidimi pure, demone dell’inferno, sarà il Bene a vince-
re.» La voce di Akel era bassa, tagliente e non tradiva il terro-
re dipinto nei lineamenti.
Thari gli spostò la toga con la punta della sua arma, sco-
prendo il petto del colore dell’alabastro. Prese l’impugnatura
con entrambe le mani e il suo corpo perfetto mostrò tutta la
sicurezza di ciò in cui credeva. «Che Dio ti benedica, Figlio
della Luce», sussurrò.
E la lama rifletté il disco rossiccio della luna che sorgeva a
est, prima di affondare nel cuore azzurro di Akel.
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Capitolo 2
You’re my angel, Come and save me tonight.
You’re my angel, Come and make it all right.
Angel – Aerosmith
Anno 2009
Ryker lasciò la matita sulla scrivania, tra i mille libri aperti,
tutti sottolineati con la penna nera. Poggiò le mani sul viso e
dopo poco si strofinò gli occhi arrossati.
Sospirò osservando le poche righe che aveva scritto sul por-
tatile e lo spense. A breve sarebbe stata ora di cena e non a-
veva pensato a preparare nulla. Dopo essersi lavato le mani
raggiunse la cucina, barcollando per la stanchezza.
Lucrezia Mancini gli lanciò un’occhiata e sorrise eccitata.
«Ta-dan!» Con le presine afferrò una teglia fumante e gliela
mostrò.
«Che roba è?» domandò lui sbigottito.
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Lei gonfiò il petto. «Lasagna. Sei arrivato giusto in tempo,
volevo farti una sorpresa. Forse l’avrei dovuta lasciare un pa-
io di minuti in più, ma quando sei uscito dalla camera l’ho ti-
rata subito fuori.»
Lui parve imbarazzato. «Non ti ho neanche sentita», si
rammaricò annusando il profumino nella ccucina.
«Lo so, sei troppo preso dalla tesi. Avanti, siediti, fratello.
Mangia al mio regale banchetto.»
Lui si sedette. «Matteo…»
«Matteo l’ho già chiamato. Arriverà; sai com’è, no?»
Lo sapeva. Sapeva che suo fratello viveva in un mondo tutto
suo, fatto di computer, manga e Play Station e sapeva che era
in una fase di rifiuto totale del mondo e delle imposizioni. A
diciannove anni sembrava un quindicenne scontroso a metà
tra il nerd e il poeta maledetto.
Lucrezia invece ricordava una bambola di porcellana: pelle
liscia e chiara, occhi celesti e capelli biondi; sembrava che
potesse rompersi da un momento all’altro. A sedici anni pas-
sava da momenti di euforia a momenti di silenzio e nostalgia
con troppa facilità.
Mangiarono chiacchierando dei compagni di classe della
ragazzina, fino a che il telefono non squillò.
«Questo è papà.» Lucrezia strisciò la sedia sul pavimento e
prese il cordless sul ripiano accanto ai fornelli. «Pronto?
…sì» Fece una smorfia, piegando il lato del labbro inferiore
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in un broncio. «Sì, glielo passo.» Allungò il telefono al fratel-
lo maggiore. «Vogliono te.»
Lui osservò il prefisso della Libia e si allontanò dalla cucina.
Lucrezia tese le orecchie ascoltando la voce profonda e som-
messa del fratello maggiore e cercando di non farsi assalire
dal martellio del cuore nel petto: suo padre era in Libia per
lavoro, e se non era stato lui a chiamare, doveva essergli suc-
cesso qualcosa.
Matteo entrò nella stanza, con lo stesso sospetto sul viso, i
muscoli facciali tesi sotto la pelle diafana. Fiutavano il peggio
senza avere il coraggio di condividerlo.
Dopo qualche minuto Ryker tornò e fece un sorriso tirato.
«Tra quattro giorni torna papà.» Nonostante lo sforzo, nella
voce non c’era nessuna nota di allegria.
«E?» azzardò Matteo.
Gli occhi azzurri di Ryker, che aveva preso dalla madre da-
nese - insieme al nome - tremarono di un dolore che tutti lo-
ro conoscevano. «Sta bene. Deve solo essere operato ai piedi,
lui...» La smorfia infantile e innaturale sul visino paffuto del-
la sorella gli colpì il cuore come una frustata su una ferita a-
perta. «Starà bene, Lulù. Non preoccuparti. È solo…»
Lei si alzò in piedi, urtando la sedia alla cassettiera. «Non
voglio sapere niente. Niente!» L’urlo che aveva pensato di
emettere si frammentò in un suono querulo pieno di lacrime
invisibili e violente. Corse in camera chiudendo la porta a
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chiave con un cigolio ferruginoso, un secondo prima che
Ryker riuscisse ad afferrare la maniglia.
Lui la chiamò tentando di spiegarle che non era nulla di
grave, tuttavia gli risposero lo stereo a tutto volume e il ru-
more sordo della porta della camera di Matteo che si chiude-
va con veemenza.
Imprecò a bassa voce. Prese le chiavi di casa, il guinzaglio e
guidò Mars, il loro cane, fuori dall’appartamento. Uscì sulla
piazzetta davanti al loro portone e l’aria calda delle ottobrate
romane lo investì.
«Ehi, Mars, decidi tu dove andare.» Il cane dal pelo color
sabbia scodinzolò e lo strattonò verso il Lungotevere. Cam-
minarono per diverso tempo senza una vera meta, sotto i pla-
tani ondeggianti. Ryker era assorto nei suoi mille pensieri,
nel fiume di emozioni, di odio e rabbia per quella vita ingiu-
sta: suo padre lavorava duro, aveva dato tutto se stesso per
loro da quando la madre era morta, e null’altro poteva capi-
targli. Ma al telefono erano stati piuttosto chiari: avrebbe po-
tuto perdere l’uso delle gambe.
Strinse i pugni e si accorse di essere tornato indietro, verso
casa, tre vicoli prima. Nello stesso momento, Mars puntò le
zampe sui sampietrini, ringhiando; Ryker strinse le dita in-
torno al guinzaglio e guardò nella direzione in cui puntava il
cane.
L’ombra troppo nera di una ragazza lo fissò immobile alcu-
ni istanti, quindi con uno scatto si voltò e corse via. Il ragazzo
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strattonò Mars e la rincorse con tutta la forza che aveva nelle
gambe, ripercorrendo i vicoli da cui era venuto. Giunto sul
Lungotevere Cenci, pensò di averla persa; poi, però,
un’ombra si infilò tra due macchine e con la grazia di un gat-
to saltò oltre il muretto che delimitava i muri di contenimen-
to del Tevere. Ryker dovette aspettare che passassero due
macchine, infine attraversò la strada e si affacciò dove la ra-
gazza era saltata.
Al di sotto, lungo la banchina, non vi era nulla a parte un
grosso ratto che, ignaro di qualsiasi altro essere vivente,
sbocconcellava qualcosa di molliccio. Il ragazzo batté il pal-
mo sul marmo del parapetto, chiedendosi come si potesse fa-
re un salto di oltre dieci metri e riuscire a scappare illesi. Si
voltò a guardare il cane con l’intento di rassicurarlo, ma quel-
lo gli rispose con uno sguardo incuriosito piegando il capo e
sbattendo la coda allegramente. «Oh, Mars, l’hai vista anche
tu. Ora non puoi dirmi che l’ho sognata, vero?» Ma nella sua
voce c’era incertezza.
***
Il sole tingeva di rosso le punte dei platani nelle strade. Le
foglie secche scendevano dagli alberi con una danza cremisi e
volteggiavano di nuovo beige fino a poggiarsi leggere sul fiu-
me, che in un attimo le divorava con la sua foga.
Gli infiniti riflessi color cannella degli alberi e dei tetti di
Roma riempivano la vista scontrandosi con il cielo limpido di
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quel giorno. Thari socchiuse gli occhi e assaporò il gusto
morbido degli ultimi raggi sulla pelle.
«Per mille pergamene, non me ne importa un accidenti di
niente: anelo con ardore tali stivali di magna beltà e saranno
miei, che le tue sorelle proferissero critiche nei miei confron-
ti.»
La ragazza aprì le palpebre evitando di fare una smorfia e
guardò la donna accanto a sé puntare un tallone su una delle
tegole dell’ospedale Fatebenefratelli, sull’Isola Tiberina. «Le
mie sorelle, Iside, sono anche le tue», replicò. «E non man-
cheranno di criticarti per il resto della tua lunghissima vita;
ne so qualcosa.»
L’altra sollevò le spalle e le fece una linguaccia. I suoi occhi
brillarono come fiamme vive riflettendo il sole. «Mi impos-
sesserò di cotali scarpe, ranocchietta.» Indicò un’antenna
poco distante da sé. «Che quell’immondo pentacolo mi sia
testimone, saranno mie.»
Thari sorrise. «Non avevo dubbi.»
«Fai bene, graziosa infante, le mie membra ti amano per
questo e… ooohm, la tua voce dovrebbe delucidarmi sui re-
centi avvenimenti. Codeste orecchie hanno udito losche fac-
cende sulla tua persona.»
Thari aprì la bocca e la richiuse. Benché fosse abituata ai
repentini cambiamenti di argomento di Iside, impiegava
sempre qualche secondo per comprenderla; inoltre, in quel
caso, non era certa di voler affrontare l’argomento.
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«Corpo di mille balene, non fare il pesciolino, ranocchiet-
ta.»
«Scusami. Non credevo che la notizia si fosse già sparsa»,
rispose Thari, senza osservarla.
Iside si sedette di peso accanto a lei. «Perdincibacco! Dalle
tue labbra non dovrebbero uscire tali scuse, piuttosto il tuo
cuore dovrebbe orsù domandarsi perché mai non ha proferi-
to parola al mio, tenera infante.»
La ragazza si morse un labbro. Iside era per lei un’amica,
una persona che per anni le aveva fatto da madre e l’unica
che non avesse mai avuto da ridire riguardo al suo essere
mezza umana, tuttavia proprio per questo legame che aveva
con lei aveva paura di deluderla. Ora, però, non poteva evita-
re quell’argomento. «Mi spiace, Iside. Speravo che nessuno
se ne fosse accorto e quindi pensavo che la faccenda sarebbe
finita nel nulla.»
La donna ondeggiò il capo. «Ranocchietta, le tue ali volano
sulla città dell’Impero Romano, come pretendi che nessuno
ne venga al corrente? Illuminami su come l’umano ha potuto
importunarti.»
«Non è stata colpa sua. Ero io che lo seguivo, beh, non lui,
la sorella a dire il vero, ma vedi, io…» Thari sospirò osser-
vando la cupola fulva della Sinagoga trattenere gli ultimi ba-
gliori del sole. «Lo sai, Iside: se mi rendo visibile riesco a
percepire meglio gli umani, il loro corpo, le loro emozioni.»
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«Lo appresi notevole tempo fa e non ti biasimavo per code-
sta abitudine, quando ti tenevo meco.»
Thari annuì. «Ora le cose sono diverse. Al mio corpo è stato
concesso di crescere e così al mio ruolo.»
«E sei mirabile nel tuo dovere. Anche se domandi troppo
spesso talune sensazioni.» Le lanciò un’occhiata significativa.
La ragazza sapeva a cosa si riferisse, perché spesso chiedeva
come fosse far rinascere i bambini e, non solo le Figlie di A-
nanke non avrebbero dovuto provare nulla, ma non avrebbe-
ro neanche dovuto chiederselo: non era nella loro natura.
«Se il capo delle milizie verrà a sapere, un grande trambusto
colpirà questo lato dell’orbe.»
«Prima, però, lo sapranno i demoni e mi ostacoleranno in
tutti i modi, chiunque di loro ne venga a conoscenza, vero?»
Thari aveva abbassato la voce fino a farla diventare un sus-
surro. Il racconto di ciò che aveva fatto non si sarebbe sparso
subito perché nessuno di loro voleva conoscere l’ira di chi era
più potente, tuttavia chi ne fosse stato a conoscenza avrebbe
tentato di eliminare Vanth Kriera Nefthari per aver disobbe-
dito alle regole. «Ho rovinato tutto», sussurrò.
«Oh, ranocchietta.» Iside aprì le ali piumate e con una sfio-
rò le spalle della ragazza e la strinse in un abbraccio. «Dacché
verranno a bramare la tua carne, io consiglierei, qualsivoglia
loco ove ti trovi, di correr sulle gambe e dissolverti lontano.»
L’altra le posò la testa sulla spalla. «Non posso fuggire, do-
vrò combattere contro chi mi attaccherà. Non sono colpevole
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di come mia madre mi ha messa al mondo, ma se ora la si-
tuazione è questa è solo per colpa mia, e devo tirarmene fuori
in qualche modo.»
Iside la strinse più forte, sapendo quanto quelle parole fos-
sero vere.
Il sole scivolò oltre l’orizzonte e il cielo si tinse di un rosso
vermiglio, come il sangue di Thari.
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Capitolo 3
Thank you for making me feel like I am guilty,
making it easy to murder your sweet memory.
The Undertaker (Renholder Mix) -Puscifer
Anno 2009
«Signore, questa zucca gialla è buonissima», gracchiò
un’anziana pulendo un carciofo con un coltello e mostrando
la bocca sdentata a un uomo pelato.
Thari aggirò la bancarella di frutta e verdura, notando
quanto fossero agili le dita rugose di lei, e si spostò per far
passare una donna che, altrimenti, l’avrebbe attraversata -
percependo un brivido - due secondi più tardi. Sorrise osser-
vandola tenere per mano una bambina, che a sua volta tene-
va per mano una piccola Befana su una scopa di paglia. Un
uomo gridò le bontà della carne del suo banchetto e un altro
si lamentò di dover portare un piccolo albero di Natale da so-
lo.
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La ragazza si inebriò del profumo intenso degli aghi
dell’abete, quindi alzò gli occhi verso la statua scura di Gior-
dano Bruno, che la fissava severo da sotto il cappuccio, e de-
cise che vi fossero troppi piccioni; aprì le ali e si appollaiò
sulla ringhiera in ferro battuto di uno dei balconcini di piazza
Campo de’ Fiori. Fin da quando avevano smesso di compiere
le esecuzioni capitali andava spesso in quel luogo, sia di gior-
no che di notte, a respirarne l’aria rilassata, dal sapore since-
ro di paese; tuttavia ora era là a seguire Ryker e Lucrezia
Mancini mentre facevano la spesa.
La ragazzina, il viso incorniciato dai morbidi capelli biondi
che uscivano dal cappello di lana, teneva tra le dita bianche
un pezzo di torrone al miele che le aveva regalato il ragazzo
del bar, e le sue sottili labbra rosate erano macchiate di cioc-
colato, mentre sorrideva al fratello. Lui le stava dicendo
qualcosa che Thari non riusciva a distinguere in mezzo ai
mille rumori del mercato.
Con le braccia poggiate sulle gambe si beava del frastuono
armonioso degli esseri umani, quello presente nei loro corpi
e nelle loro menti. Sapeva che c’erano dei demoni nelle vici-
nanze, eppure non si aspettava di trovarne proprio nella
piazza in quel momento. Due occhi neri si sollevarono a
guardarla e subito dopo misero a fuoco Ryker dalla parte op-
posta della piazza. La ragazza quasi planò a terra con un bal-
zo leggero, attutito dalle suole di gomma e rallentato dalle ali
26
appena aperte. Estrasse la propria spada cristallina, aggrot-
tando la fronte.
L’altro demone, una donna, le lanciò un’occhiata astiosa
che non riusciva a dissimulare una vaga paura, e imboccò via
dei Giubbonari. Thari la bloccò prima che potesse prendere il
volo e la spinse in un vicolo più stretto. «Lascia in pace quel
ragazzo», sibilò.
«Ero solo venuta a controllare», farfugliò in risposta l’altra
cercando di liberare il polso dalla presa ferrea di Thari.
Mormorò qualcosa e si spostò guardinga lungo la strada, tra-
scinando la ragazza dietro di sé.
Thari la strattonò e studiò i suoi lineamenti contratti, trat-
tenendola su un lato del vicolo. Stessa madre, padri diversi;
era così per la maggior parte delle figlie di Ananke. Quella
che aveva di fronte era molto più giovane di lei, nonostante
avesse un corpo di donna da molto più tempo; non era molto
forte, ma soprattutto non era così coraggiosa. In
quell’istante, percependo la presenza di un altro demone,
Thari comprese. «Merda!»
«Thari…» Gli occhi dell’altra si spalancarono per lo stupo-
re, mentre si rendeva conto della lama che la trapassava. «Io
non…» provò a dire, tuttavia le parole si affievolirono sulle
sue labbra nere. Una luce azzurrognola filtrò dal suo petto,
divenne sempre più scura e divampò in bagliori quasi tangi-
bili, come i riflessi di un’ossidiana.
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Thari estrasse l’arma dal corpo del demone e batté un pu-
gno sul muro, assaporando il piacere intenso di ciò che aveva
fatto e imprecando per lo stesso motivo. Era conscia di come
le sue mani si muovessero, irrazionali, prima del pensiero;
chiuse gli occhi e dopo un momento li riaprì. «Che Dio ti be-
nedica.» Lo disse con sincerità, come faceva sempre, ma la
rabbia la divorò di nuovo un istante dopo e si fiondò nella
piazza affollata, con in mano la spada ancora grondante di
sangue azzurro.
L’altro demone, sul bordo più alto dell’unica fontana, situa-
ta nel lato nordovest, si preparò all’attacco.
Le loro lame si scontrarono con un fragore acuto; i loro
muscoli si tesero carichi di adrenalina. I piedi erano a qual-
che centimetro sul pelo dell’acqua, che borbottava ignara nel
freddo dell’inverno.
Thari dovette torcere il corpo in un movimento fulmineo e
fare uno spostamento indietro. «Tua sorella è rinata, Se-
khmet Nesert», disse con vago tono accusatorio.
«Tua sorella mi serviva solo a distrarti», replicò parando
con facilità un affondo di Tahri, che sollevò le gambe, evitan-
do un colpo dell’avversaria, la quale, però, le prese di striscio
l’estremità di un’ala. Fingendo noncuranza, voltò su se stessa
per dare più forza all’arma. L’altra demone, tuttavia, si allon-
tanò e si fermò sul tetto dell’edicola accanto. «L’avresti già
perso, se quella mocciosetta della sorella non lo avesse fatto
28
entrare dentro quell’affollatissimo forno», disse Sekhmet con
voce tagliente.
«Non puoi farlo senza permesso», la redarguì, atona.
«No, ma è divertente, quasi come te. E poi lo dovresti sape-
re: posso ferirlo quanto voglio, basta non farlo rinascere. Lui
sa e non dovrebbe: se qualcuno lo scoprisse, e non è tuo inte-
resse, non avrà da ridire.» Le campane di una chiesa poco
lontana rintoccarono le ore. «Quanto a te, posso farti rina-
scere quando mi pare.»
Thari alzò il mento. «Fallo», la sfidò socchiudendo appena
le palpebre.
Sekhmet sorrise beffarda, i lineamenti felini e i capelli vo-
luminosi immobili sotto i raggi del sole abbagliante di mez-
zogiorno. «Voglio prima giocare con l’umano, e oggi non pos-
so. Il nostro lavoro non aspetta, lo sai.»
Lo sapeva. Puntò l’arma verso di lei. «Quando vuoi.»
«Con piacere.»
***
Due ragazze gemelle dalla chioma riccia e rossa entrarono ri-
dendo nel locale. Avevano il naso piccolo, le lentiggini e gli
occhi verdi come il prato dopo un temporale.
«Ci sono un italiano, un’etiope, un mezzo danese e due ir-
landesi. Mi sembra un buon inizio per una barzelletta.» I
denti chiari di Helina risaltarono sulla sua carnagione bruna.
29
Andrea le fece un gesto di disapprovazione con la mano e
seguì lo sguardo di Ryker. «Quelle sì che sono due fighe. Fac-
ciamo una per uno?»
Helina gli assestò un pugno nello stomaco e Andrea finse di
provare un piacere masochista.
Ryker li guardò e sorrise. «Ringrazia il cielo che in questa
terra ci sia almeno Helina a sopportati.»
Il ragazzo fece una boccaccia e strinse Helina schioccando-
le un bacio sulle labbra; lei si dimenò ridacchiando. «Va be-
ne, Ryker. Mi accontento della moretta e ti lascio la prima e
la seconda roscia.»
«Come sei gentile, grazie», rispose sarcastico.
«Cos’è questo tono? Non ti accontenti di due strafighe,
buongustaio?» Gli lanciò un’occhiata maliziosa. «Dai, avanti,
sfodera le tue doti di perfetto corteggiatore. Non cascano cer-
to dal pero! Io e Helina ci possiamo benissimo consolare da
soli; pago io, tu vai.»
Ryker osservò la birra nel boccale e la fece girare nel fondo.
Il liquido luccicò riflettendo le luci soffuse del pub. «Tra poco
devo andare via.»
Andrea fece un gesto infastidito con la mano. «A te Cene-
rentola te fa ’n baffo», commentò in romano. «Nemmeno mi’
nonna va a letto così presto.»
Sul vetro, dietro la testa di Ryker, era disegnato un Colos-
seo stilizzato, che proiettava la propria ombra sul tavolo di
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legno. Lui ne seguì il contorno con le dita affusolate. «Devo
andare a prendere Lucrezia.»
«Mandaci Matteo.»
Scosse il capo. «Stasera sta a casa con papà. E poi è mio
dovere…»
«Oh, per favore», lo interruppe l’amico, più aspro di quan-
to avesse desiderato. «Ma perché è sempre tuo dovere?» do-
mandò con più dolcezza. «Tua sorella ha sedici anni, non è
una bambina, o pensi di starle dietro anche quando avrà qua-
rant’anni? Ryker, tutte le tue ragazze ti hanno mollato per
questo. Io capisco la situazione di tuo padre e tutti gli impicci
che hai, ma tua sorella… Alessandra, quando ti ha lasciato,
ha detto che dedicavi più tempo a Lucrezia che a voi due.»
Ryker si strinse nelle spalle. «Non siamo stati insieme»,
replicò laconico.
«Non è questo il punto e tu lo sai. Lei ti ha lasciato per-
ché...»
«So benissimo perché mi ha lasciato. Ma non credo che tu
possa capire.» C’era una nota di accusa, per nulla velata, nel-
la sua voce: Andrea non faceva che parlare male della propria
sorella.
Ryker lo guardò negli occhi. Non era così ingenuo da crede-
re che in tutte le famiglie si vivesse d’amore e d’accordo o per
pensare che tutti si dedicassero al prossimo, tuttavia riteneva
che gli altri non avessero a che fare con Lucrezia.
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Poche persone sapevano cosa volesse dire vivere i primi
dieci anni della propria vita con una madre malata, magris-
sima, priva di capelli e la pelle perennemente sudata, e poche
di quelle persone avevano il carattere introverso e sensibile
di sua sorella. Era adesso che lei stava rinascendo, adesso che
riusciva a parlare con gli estranei senza trasformare le sue
guance lattiginose in due pomodori maturi. Nell’ultimo anno
Lucrezia Mancini era migliorata a scuola, aveva iniziato a
suonare il pianoforte davanti a qualche amica e ad andare a
qualche festa senza di lui.
A patto che lui fosse vicino, reperibile in ogni momento e
pronto ad andarla a prendere. Lei ricambiava aiutando il pa-
dre con le stampelle e facendosi sentire mentre chiacchierava
allegramente al telefono con le amiche, come tutte le sue coe-
tanee.
Ryker sapeva che prima o poi avrebbe volato da sola, ed era
quello che si augurava, quello che pregava tutti i santi giorni
da quando erano bambini. Ora, però, sua sorella iniziava a
mettere per la prima volta il visino all’esterno, a toccare la vi-
ta, ad annusarla e sbuffarci addosso come fanno i cavalli
prima di leccare una mano tesa. E lui per niente al mondo
avrebbe tradito proprio adesso la sua fiducia.
Andrea stava borbottando qualcosa, qualcosa che Ryker
non aveva ascoltato. Helina diede una leggera botta alla
gamba di lui, poi allungò un braccio e poggiò le dita del colo-
re del cioccolato fondente su quelle ben più chiare di Ryker.
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Gli occhi neri e liquidi di lei lo guardarono con
un’espressione carica di tenerezza da dietro la cascata di ric-
cioli crespi, su cui si stemperava la luce bianca di una candela
dietro il suo capo. Lei e Ryker si conoscevano dal liceo, e mai
in tutti quegli anni Helina gli aveva fatto pesare le abitudini
della sua famiglia o fatto pressione. «Non ascoltare questo
scemo», disse con voce bassa, smorzando la tensione. «Noi
ragazze siamo molto più comprensive: se le tue ex hanno a-
vuto da ridire, si vede che non ne valeva la pena.»
Ryker le sorrise, grato. Come sempre.
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Capitolo 4
The worst is over now and we can breathe again I wanna hold you high, you steal my pain away
There’s so much left to learn, and no one left to fight I wanna hold you high and steal your pain.
Broken -Amy Lee feat Seether
Anno 2010
Ryker uscì sulla strada e tirò su la cerniera lampo del giac-
chetto fino al collo. Le luci giallognole dei lampioni distorce-
vano le ombre su palazzi, sampietrini e angoli di asfalto. Una
coppia gli passò accanto chiacchierando di un film e poi sparì
verso il ghetto.
Strofinò i palmi delle mani tra loro e si incamminò verso
casa. Al centro di Roma, in tutte le strade sembra esserci
sempre qualcuno: svoltò più di una volta e incontrò un uomo
che camminava di corsa, tre ragazzi che fumavano e una si-
gnora con un cane.
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Arrivò davanti al portone di casa sua e tirò fuori le chiavi
dalla tasca, nell’inserirle notò che qualcosa di molto scuro si
rifletteva sulla placca d’ottone. Qualcosa che era al posto del-
la fontana di marmo della piazzetta.
Si voltò di scatto. Qualsiasi cosa fosse sussultò, e subito
dopo sgusciò dietro a una macchina. Ryker non perse tempo,
attraversò lo slargo e raggiunse le auto parcheggiate. La figu-
ra, più nera del nero, si spostò e con un balzo lo oltrepassò e
corse in un vicolo buio.
Il ragazzo la seguì, ma nell’ombra quell’essere spiccò il volo
e saltò con i piedi da una parete all’altra dei palazzi fino a
raggiungere i tetti, oltre i cornicioni intagliati.
Ryker fissò il cielo e strinse i pugni. «Maledizione», sussur-
rò a denti stretti. «Io non ti sto immaginando, io ti ho visto.
Che roba sei?» domandò a due piccole stelle sbiadite. Fece
un passo indietro e abbassò il mento. «Le chiavi!» Le aveva
lasciate attaccate al portone.
Si voltò.
Con un tonfo sordo, qualcosa piombò davanti a lui rotolan-
do: un latrato di cani e un fruscio di ali frementi. Ali. Piume.
Si immobilizzò terrorizzato dalla paura. Le due o forse tre
creature a terra erano talmente nere da distinguersi
nell’oscurità della strada.
Nel gelo della notte, Ryker provò un’ondata di caldo segui-
to da un brivido di freddo, come se lava e ghiaccio si stessero
abbattendo sul suo corpo. Non era in grado neppure di ri-
35
chiudere la bocca, mentre le bestie, i mostri o quello che era-
no combattevano a meno di due metri da lui.
Poi una delle tre si staccò, si sollevò in piedi e lo guardò. Il
nero della sua figura delineava le forme di una donna, tutta-
via due grosse ali grigie si spalancarono dietro di lei, lo rag-
giunsero e, con una forza che lui non avrebbe mai potuto so-
spettare sulla punta piumata di alcun uccello, lo attirarono al
viso femminile.
L’essere aprì la bocca mostrando un ghigno di pura crudel-
tà.
Un altro rumore sordo. Uno scricchiolio. Un urlo.
Nell’aria una tensione fatta di elettricità, di suoni non udi-
bili a orecchio umano e di un dolore bestiale, si liberò come
un’esplosione. Lui, però, non l’avvertì.
«Lascialo andare.» Una voce quasi cristallina provenne da
dietro le spalle del mostro, che liberò il ragazzo con un rin-
ghio stridulo e, prima che lui se ne potesse rendere conto,
mosse una delle due ali verso il fianco del giovane e lo squar-
ciò.
Lo lasciò e con uno scatto fulmineo saltò, prese la creatura
a terra e sparì librandosi nell’aria. Ryker, incredulo, boc-
cheggiò e crollò sulle ginocchia. «Aiuto!» pensò di aver grida-
to. «Aiuto…» ripeté, ma la voce si spense sulle sue labbra.
Uno spostamento d’aria, un giramento di testa; credeva di
essere caduto sul selciato, invece cadeva verso il cielo e le due
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uniche scialbe stelle nella notte romana. La terra… dov’è la
terra? La creatura lo fece sdraiare su un piano sconnesso.
Tegole.
«Ti prego, non…» rantolò.
«Shh.» Dita veloci gli aprirono il giacchetto, sollevarono il
maglione e la camicia e lo tastarono. «Credevo peggio.»
Un tepore rassicurante gli accarezzò il fianco, come il sole
sulla pelle in pieno inverno, solo più denso. Poi la ragazza -
perché lui aveva sempre pensato che fosse una ragazza - posò
una mano dove era stato colpito e lo guardò.
Occhi neri come il petrolio, come gli abissi più profondi
della terra. Come la notte. Neri come l’ultimo respiro. Come
l’ultimo respiro? Non può essere. Ma erano proprio così.
Dannatamente umani per via della sclera bianca che faceva
risaltare l’iride.
«Cosa sei?» chiese Ryker con voce flebile.
«Mi chiamo Thari.» I suoi capelli argentati scivolarono se-
rici sul volto di lui, mentre lei avvicinava le labbra alla sua
fronte, senza toccarla. «Sai di vita», disse, e il ragazzo respirò
il suo profumo di rose selvatiche. «Potevi morire, ma ora stai
bene.» Allontanò il viso da lui, ma non spostò la mano.
«Cosa sei?» domandò di nuovo Ryker.
Thari aprì e richiuse le ali dietro le spalle. «Secondo te, co-
sa sono?»
«Un… angelo. La morte. Un angelo della morte!» farfugliò.
«Oh, beh, non lo so.»
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Lei ridacchiò come una bambina. «A volte gli umani ci
hanno chiamati così. Ma siamo demoni. Io sono un demone
della rinascita.»
«Per questo mi hai salvato la vita?»
Lei scosse il capo e la sua capigliatura scintillò in un susse-
guirsi di fili di raso azzurrino. Spostò la mano e analizzò lo
strato di pelle trafitto che ora aveva solo una leggera macchia
rossa. «Non puoi capire, perché sei umano.»
«Cosa non posso capire?»
La ragazza si sedette sui talloni e guardò i tetti della Città
Eterna seguire pigri la linea ondulata dei colli capitolini. Da
quel punto, attraverso terrazze, antenne e paraboliche, pote-
va scorgere la cupola di San Pietro, silenziosa in un giallo pe-
netrante. Le illuminazioni che dal basso salivano verso la ci-
ma dell’enorme basilica incontravano, oltre agli uccelli not-
turni, due figure in lotta tra loro: una figlia di Ananke e un
Figlio della Luce. «Un demone della rinascita», ripeté, e si
voltò a scrutarlo. «Non della vita; la vita come la intendete
voi.»
Lui si sollevò sui gomiti, sbattendo le palpebre. Confusione
e incredulità non lo lasciavano pensare in maniera logica; un
susseguirsi di domande affollava la sua mente. «Tu…» non
era certo di quello che stesse per dire. «Tu eri al funerale di
mia madre. E al cimitero. Ti ho sognata?»
«No.»
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Scorse l’estremità di un’elsa spuntare dietro di lei. «Hai
portato tu via mia madre? Tu sei la morte.»
Si limitò a fissarlo.
Lui provò una morsa allo stomaco, un peso insostenibile.
«Oh, no, sei qui per me, tu… io… mio Dio.»
«Non pronunciare il nome di Dio invano», bisbigliò lei.
«E… non sono qui per te. Non proprio.»
Il ragazzo si sollevò a sedere e studiò la ferita rimarginata
nella luce fioca. «Cosa vuoi da me?» La voce si incrinò.
«Ryker…»
«Come sai il mio nome?» la interruppe brusco.
Lei allungò una mano verso la sua, ma lui la spostò. «Non
sono qui per te. Non nel senso che hai capito: mi incuriosivi e
ti seguivo, nonostante sia contro gli ordini. So che mi hai vi-
sta un paio di volte, per sbaglio. Io ti ho seguito molte volte
in più. Ma tu non devi ancora rinascere. Vedi, gli umani mo-
rirebbero per cause naturali, sempre; noi ristabiliamo
l’equilibrio. Quando le persone nascono, abbiamo più o meno
idea dell’anima che si troverà in quel corpo e sappiamo
quando la dovremo prendere e portare a nuova vita. Gli anti-
chi per tanto tempo ci hanno definite Moire, il fato, il desti-
no. Sbagliando. Noi decidiamo il momento della rinascita,
non il destino.»
Lui la guardò perplesso. «Eri solo una bambina quando hai
ucciso mia madre.»
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«Quando ho fatto rinascere tua madre» replicò con un
suono che vibrò come un diamante «non ero una bambina,
sebbene avessi quell’aspetto. E sebbene ora abbia questo.
Non abbiamo un’età, non in termini umani.»
Lui piegò le gambe e le incrociò, abbracciandosi per non
sentire freddo e facendo attenzione a non guardare verso il
basso. «Siete eterni?»
«Solo Dio e Satana sono eterni.»
«Allora esistono davvero? E cosa dice Dio di quello che fa-
te? Di noi?»
«Ryker, non sono interessati alla vostra vita, non come
pensate voi: avete il libero arbitrio, è tutto quello che importa
loro. È quando rinascerete che avrete importanza per loro; le
conseguenze delle vostre libere scelte hanno importanza,
nient’altro. Sono il Bene e il Male, lo saranno sempre e non è
comprensibile per voi.»
«E com’è questa vita dopo la morte?»
Lei si strinse nelle spalle. «Non lo so.»
Ryker rise, per nulla felice. «Questo è un incubo. Non può
essere reale, non posso trovarmi quassù con te, con una cosa
come te, tu…»
«Io sono reale e non sono una ‘cosa’. E…» si fermò strin-
gendo le palpebre. Con un unico movimento fluido e silen-
zioso si mise in piedi. «Devo portarti a casa. Non puoi stare
qui.»
«Certo che no, sono su un tetto», ironizzò.
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Thari lo fulminò con lo sguardo e lui pensò che fulminare
fosse un eufemismo; una scossa lo percorse in tutto il corpo.
«Ne va della tua vita», disse alzandolo di peso, senza il mi-
nimo sforzo.
«Quella di ora o quella che sarà?»
«Quella di ora», rispose lei senza scomporsi. «Ti ho rac-
contato troppe cose. E non dovevo.» Scivolò dietro di lui e lo
afferrò alla vita, poco sopra la ferita. Prima che lui potesse
anche solo pensare di protestare, lo strinse e si alzò in volo
veloce, ma con un battito d’ali lento e aggraziato.
Ryker chiuse gli occhi aggrappandosi alle sue braccia sottili
e forti e li riaprì lentamente poco dopo. Roma si disegnò sot-
to i suoi piedi, con le sue mille luci notturne, i suoi monu-
menti magici e il suo fiume scuro, mentre volteggiavano
nell’aria; possibile che nessuno li potesse vedere?
«In questo momento non siamo visibili a occhi umani»,
spiegò lei come se gli avesse letto nel pensiero. Virò e puntò
verso il suo palazzo, il suo piano, la sua finestra.
«Ci schianteremo!» gracchiò impaurito, ma la sua finestra
si aprì come se qualcuno li stesse invitando a entrare, e loro
piombarono dentro.
Ryker dovette respirare a bocca aperta e ritrovare
l’equilibro appena Thari lo lasciò libero. «Morirò lo stesso.
Per cause naturali: infarto.»
«L’infarto non rientra nelle cause naturali», lo informò lei
pragmatica.
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«Ah, no?» chiese, poggiandosi al muro della sua camera e
saggiando la resistenza delle sue gambe.
Lei fece un gesto con la mano. «Lascia perdere. Troppo
complicato per uno come te.»
Ryker spostò le dita sulla parete e, senza staccare gli occhi
da lei, accese la luce. Entrambi sbatterono le palpebre e Thari
chiuse le ali dietro di sé meccanicamente. Indossava un velo
nero come il suo corpo, che le copriva il bacino e il seno; non
aveva nient’altro, a parte gli anfibi.
Lui fece un passo verso di lei, che ne fece uno indietro.
«Hai paura di me, signora Morte?» la apostrofò con una nota
dolce che non aveva previsto.
Lei si morse un labbro color pece, con i denti bianchi come
neve immacolata. «Nessun umano mi ha mai vista.»
«Io sì», ribatté lui fermandosi a venti centimetri da lei.
Thari sollevò il viso verso di lui, con aria sicura. «Ma non
così», precisò perdendosi nei suoi occhi azzurri, che le ricor-
davano i cieli limpidi delle steppe del nord Europa.
«Non così», convenne e le poggiò una mano sulla guancia,
in un tocco di seta, ma come se stesse studiando un oggetto,
invece che una persona. «Di cosa sei fatta?»
Lei lo fissò come se non avesse udito la domanda. Inchio-
data dallo sguardo di lui, si sforzò di celare un’ondata di pa-
nico che non sapeva giustificare. Il suo cuore vermiglio pul-
sava fremente e rimbombava con mille eco in ogni singola
parte del corpo. Spostò l’attenzione oltre le spalle di lui, dove
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si trovava una foto della famiglia Mancini di molti anni pri-
ma: due adulti e tre bambini dai capelli biondo oro e morbidi
riflessi di sole. «Sono un demone», rispose quasi in un sus-
surro «e i demoni sono in parte umani e in parte no. Quello
che vedi è un corpo umano con poteri non umani.»
Ryker osservò i suoi lineamenti perfetti, le labbra piene e
socchiuse, il naso delicato; sollevò l’altra mano. «E le tue a-
li?» domandò toccandole.
«Sono fatte di muscoli, tendini, pelle e piume. Ossa e san-
gue.»
Se il profumo di rose selvatiche che emanava da quel corpo
così scuro fosse stato nettare da bere, lui non ne sarebbe mai
stato sazio. Le sfiorò la spalla scoperta. «E la tua carnagione?
Troppo sole?» Sorrise.
«È la mia essenza.»
Il ragazzo scostò le dita con uno scatto e lei strinse le lab-
bra, pentendosi di avergli risposto la pura verità. Thari chiu-
se gli occhi. «Devo andare. Metti sulla tua ferita una pomata
per le scottature», aggiunse.
«Mi scorderò di tutto questo, vero?»
Tornò a guardarlo e con tre passi lenti, all’indietro, rag-
giunse la finestra e spalancò i battenti con mani invisibili. Il
vento metallico e sferzante di gennaio colpì Ryker, che anco-
ra una volta si strinse nella giacca. «Se avessi tale potere, ri-
sparmierei a entrambi i guai che sicuramente seguiranno a
causa di questa notte.»
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Capitolo 5
I wonder every day as I look upon your face, aw huh...
everything you gave, and nothing you would take, aw huh...
nothing you would take everything you gave.
Did I say that I need you?
Just Breathe - Pearl Jam
Anno 2010
Il ticchettio monotono dell’orologio tamburellava implacabile
nella sua mente. Ryker mugolò schiacciando il cuscino con
un pugno. La sveglia segnava le dieci del mattino, era merco-
ledì e suo padre era a una visita medica con Matteo, mentre
Lucrezia era a scuola; e lui sarebbe dovuto essere già fuori
casa, al ricevimento del suo relatore.
Non era da lui dormire a lungo la mattina, eppure in quel
periodo passava le notti tra incubi e insonnia e l’alba tardiva
dell’inverno giungeva fin troppo rapida e luminosa.
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Si preparò in fretta e raggiunse l’università con la metro,
maledicendo il sudiciume della linea B, che sembrava volergli
restare sulle dita per giorni interi. Il suo professore gli disse
che le vacanze natalizie lo avevano distratto troppo e che a-
vrebbe dovuto fare qualcosa, magari scendere dalle nuvole e
tornare in mezzo ai mortali. Ryker pensava che la richiesta
fosse quantomeno plausibile.
Rimase in biblioteca, cercando di concentrarsi; un tentati-
vo vano che gli costava una forte emicrania. Gli occhi neri di
Thari lo perseguitavano da quando era stato sul tetto assieme
a lei. Per non parlare del fatto che non fosse per niente certo
di aver vissuto quel momento e tutti quelli a seguire in cui
avvertiva fruscii e risatine.
Si era svegliato nella sua camera, il mattino dopo quel pri-
mo incontro, certo di aver fatto un brutto sogno. Poco dopo,
però, il portiere aveva portato le loro chiavi, raccontando di
averle trovate attaccate al portone. La famiglia gli aveva chie-
sto come fosse riuscito a entrare in casa senza, e il padre,
Massimo, lo aveva accusato di essere tornato ubriaco. Ryker
avrebbe voluto rispondere loro qualcosa di sensato, ma dalle
sue labbra uscivano solo parole sconnesse.
Non era ubriaco, non aveva neppure bevuto tanto quella
sera e, anche fosse stato, non avrebbe potuto aprire la porta
di casa con il solo potere dell’alcool. Ma cosa doveva dire, che
aveva visto la Morte? Che era volato su un tetto e aveva fatto
quattro chiacchiere sul Bene e il Male? Ryker non sapeva a
46
cosa credere: se le sue chiavi non fossero rimaste alla portata
di tutti, forse il resto avrebbe avuto un senso. Forse qualcuno
lo aveva aggredito per strada, lacerandogli i vestiti e brucian-
dogli un fianco, ma le sue chiavi erano rimaste là.
Se solo suo padre non avesse avuto una marea di problemi
di cui occuparsi, lui avrebbe potuto parlargliene. Ma non era
così, e non gli avrebbe regalato l’ulteriore impiccio di un fi-
glio pazzo.
Poco dopo le diciannove uscì dalla biblioteca e inviò un
messaggio alla sorella, avvisandola del ritardo. Decise di per-
correre l’ultimo tratto di strada a piedi per non dover aspet-
tare l’autobus.
Durante il giorno era piovuto, e ora l’aria fredda e umida
sembrava intenzionata a voler raggiungere le ossa di qualsia-
si essere vivente. Un sospiro gli uscì vaporoso dalla bocca
congelata.
Accelerò il passo, poi qualcosa lo bloccò, come se qualcuno
lo avesse trattenuto per la giacca. Si voltò a guardare dietro
di sé, ma vide solo una ragazzina imbacuccata e del tutto ve-
stita di viola portare a spasso il cane, che aveva un guinzaglio
dello stesso colore. Ryker sorrise, la osservò imboccare un al-
tro vicolo e tornò sui suoi passi.
Un fruscio veloce raggiunse le sue orecchie e lui si fermò.
Uno spostamento d’aria, un altro fruscio. Lui aggrottò la
fronte e tese le orecchie. Qualcosa gli sfiorò una guancia, si-
mile a una carezza.
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«Thari?» mormorò.
Gli rispose il gocciolare d’acqua di una grondaia.
Poi un brivido, una frazione di secondo in cui tutto divenne
buio - un solo istante - come se la luce si fosse spenta e riac-
cesa per un abbassamento di tensione. Ryker sbatté le palpe-
bre, pensando che l’impressione fosse quella che lo sposta-
mento d’aria fosse dentro di lui. «Thari, sei tu?» ripeté, e si
sentì uno sciocco.
Stava impazzendo. Aveva le traveggole, sentiva rumori, ve-
deva la Morte, si sentiva pedinato. Stava diventando matto,
come le persone che si vedono nei thriller o negli horror. Sa-
rebbe finito da uno psichiatra, lui… l’unico che aveva supera-
to indenne la morte della madre. Forse non era andata pro-
prio così. Forse adesso manifestava ciò che per anni aveva ta-
ciuto, il suo squilibrio era rimasto latente e ora veniva a galla.
In fondo i suoi fratelli non erano normali.
Provò una fitta di dolore a quel pensiero. Il cuore gli salì in
gola. Paura e rabbia, come infinite punture di spilli nel petto.
Si obbligò a correre verso casa, ma non appena allungò un
passo qualcosa lo fece cadere.
I palmi delle mani strusciarono a terra e bruciarono, lui li
girò e li guardò con il respiro corto. Irrigidita dal freddo, la
pelle si era subito spaccata, sanguinando. I guanti, la crema,
non usava mai nulla. Ma a cosa sto pensando? Ryker si
guardò intorno, il fruscio insistente, la sensazione che avreb-
48
be potuto piangere come un moccioso. Cercò di fare un respi-
ro profondo.
«Lasciami in pace...» La voce era carica del panico che lo
stava divorando.
Una folata di vento, un battito d’ali e di nuovo tornò ad a-
scoltare il gocciolare secco dell’acqua piovana.
***
Il termometro segnava 36,6 gradi. Ryker sbuffò.
Era a letto e sentì che suo padre stava lavando i piatti,
compito che avrebbe dovuto svolgere lui. Incubi e traveggole
lo perseguitavano e la sua famiglia lo guardava preoccupata
pur non sapendo cosa stesse vivendo. Lanciò un pugno al cu-
scino, come faceva spesso, e rimase a sentire i rumori della
casa, fino a che Massimo Mancini uscì dall’appartamento con
passo claudicante.
Non aveva la febbre, quindi si alzò per fare una doccia cal-
da. In camera si vestì con insofferenza e poi cercò di sistema-
re la stanza; stava rimettendo dei libri su uno scaffale quando
un brivido di freddo lo colpì alla schiena.
Si voltò e trasalì. «Thari!»
«Ciao. Non volevo spaventarti.» La finestra si richiuse sen-
za emettere suoni.
Lui strabuzzò gli occhi, il battito ancora accelerato. «Non
volevi… Porca miseria, che stai combinando? Non potevi
bussare al vetro?»
49
«Prima che tu potessi vedermi e aprire, mi avrebbe vista
tutto il tuo quartiere.»
Indicò la porta. «La prossima volta bussi da là.»
Thari pencolò sulle gambe. «Ti va di uscire? Non mi trovo a
mio agio qui. Devo parlarti.»
Ryker poggiò le spalle alla parete e premette tra gli occhi
con le dita. Era mattina e già aveva l’emicrania. «Ancora non
capisco se sto sognando. Portami dove vuoi.» La finestra si
riaprì. «Oh, no; dimmi che non dobbiamo volare.»
Volarono.
Il corpo di Ryker rigido tra le braccia di Thari, l’aria friz-
zantina che pizzicava la pelle, il cielo terso che brillava infini-
to sulla città. Roma sembrava un animale in collera, una di-
stricata distesa di vene pulsanti, dal respiro spezzato; giaceva
turbolenta nel prato verde, e tutt’intorno la neve. La neve dei
monti laziali, silenzioso guanto a cingere la rabbia.
Prima di poter osservare il mare a ovest, i piedi del ragazzo
toccarono una superficie dura. Thari non lo lasciò e lo poggiò
con straordinaria delicatezza sulla parte più alta del Colosse-
o.
«Devi sempre scegliere posti così alti?» Si lamentò Ryker.
Lei gli mostrò un sorriso, la dolcezza illuminava il suo viso
scuro. «Soffri di vertigini?»
«No», rispose troppo velocemente. Guardò un gruppo di
turisti adolescenti ai piedi dell’anfiteatro. «Ecco, non vorrei
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finire spiaccicato in mezzo a quella bolgia di ragazzini urlan-
ti. Le nuove generazioni sono insopportabili.»
Lei si sedette, obbligandolo a fare lo stesso. «Non finirai
spiaccicato da nessuna parte.»
Ryker sospirò, tentando di liberare il polso dalla stretta di
lei, la quale, però, non lo lasciò. «Starò anche diventando
matto, ma posso farcela.»
«Ne sono certa. Tuttavia se perdi il contatto con me, risul-
terai visibile a tutti. Allora sì che tutti ti penseranno matto
per startene tutto solo in cima all’anfiteatro Flavio.» Fece
penzolare i piedi oltre il bordo esterno del monumento e
guardò Ryker incrociare le gambe e poggiare il palmo sul tra-
vertino. Lei liberò il suo polso e poggiò la propria mano su
quella di lui.
«Quindi dobbiamo toccarci sempre?» domandò Ryker os-
servando la loro differenza di colore. Lei parve in imbarazzo,
allora lui proseguì cambiando discorso. «Che cosa volevi
dirmi? Che sono pazzo perché parlo con la Morte?»
«Non sei pazzo. Sei solo venuto a conoscenza di un mondo
che gli umani non dovrebbero conoscere», rispose con sem-
plicità. «Anzi, direi che l’hai presa piuttosto bene.»
«Così bene che farei il bis.» Le lanciò un’occhiataccia.
Lei piegò il capo e rimase in silenzio. I capelli scivolavano
nell’aria, scomposti; le coprivano parte del volto, avevano il
candore della neve e come neve brillavano di azzurro e
d’argento sotto il cielo. La pelle nera, alla luce del giorno, as-
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sumeva dei riflessi più chiari come fosse ossidiana. Ryker no-
tò che, a differenza di Helina, la pelle di Thari non era una
tonalità scura del marrone, bensì del grigio.
«Mi piace quello che provi per la tua famiglia», disse lei os-
servando un gabbiano volteggiare nell’aria. «Tu sei un uma-
no strano: ti dedichi a loro senza volere nulla in cambio, mai.
Non ami la tua famiglia perché è perfetta, perché ti fa ridere
e ti permette un dialogo, non la ami perché ti lascia libero o
perché devi. La ami perché non puoi fare diversamente, nutri
un sentimento che trovo difficile assaporare su questa terra.
Non è l’amore che alcune madri provano per i figli, è qualco-
sa di diverso. Ed è intenso, riempie il tuo essere.»
Ryker aveva aggrottato la fronte, nel tentativo di compren-
dere cosa il demone stesse dicendo. «Beh, sai, la morte di
mia madre…»
«Lo eri anche prima», lo interruppe con dolcezza. «Lo sei
sempre stato, hai sempre avuto questo amore puro per loro,
il desiderio implacabile di dare il tuo meglio per essere
d’aiuto.» Thari strinse le labbra. «È per questo che ti seguivo:
la percezione di ciò che provi, di quello che vivi, mi affascina
e mi invade. Io sono figlia di un umano e rendermi visibile mi
permette di avvertire meglio alcune sensazioni.»
«Perché?»
Si strinse nelle spalle. «Non lo so. Da quando sono nata
non ho mai conosciuto nessuno come me. Sono figlia di un
uomo di questa epoca.»
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«Quale epoca?»
Lei mosse una mano a disegnare un semicerchio intorno a
loro. «Questa. Quella che conoscete voi. In altre epoche, epo-
che che voi neppure immaginate, ci sono stati figli come me,
che nascevano dall’incontro di esseri umani e demoni. Ma i
demoni hanno compiti precisi, incomprensibili agli umani, e
gli umani impazziscono facilmente, così è stato vietato ogni
legame. Quando mia madre ha infranto questa regola non
erano ancora previste conseguenze. Ora sono stata io a in-
frangerla e ci sono conseguenze ben precise. Se nessuno a-
vesse saputo, avresti potuto continuare a vivere la tua vita e
io la mia. Se il capo delle milizie dovesse venirne a conoscen-
za, tu potresti salvarti con una perdita di memoria di ciò che
sai, tuttavia in quel caso io non avrei più la possibilità di agi-
re su questo piano dell’esistenza, sul piano umano. Perderei
l’essenza di ciò che sono, come figlia di Ananke, come demo-
ne della rinascita. Di fatto, perderei la parte più importante
di me.» Thari fece una pausa. Scrutò l’espressione concentra-
ta di lui, le ombre della confusione. Osservò i riflessi biondi
tra i capelli color cenere e sperò che lui potesse comprendere
almeno in parte. «Al momento il capo delle milizie non ne è a
conoscenza, ma alcuni demoni lo hanno saputo. Questo vuol
dire che si sentono liberi di poterti dare fastidio.»
«Sono loro a perseguitarmi quando sono solo?» chiese lui a
voce bassissima.
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«Sì. Ed è il minimo, quello che potrebbero fare può andare
molto oltre. Non abbiamo molto tempo a nostra disposizio-
ne: passiamo l’esistenza a far rinascere umani e a seguire co-
loro per i quali è stata stabilita una morte non naturale, per
studiare i loro comportamenti, la loro anima, per studiare il
modo più giusto di farli rinascere.»
«Ci meritiamo il modo migliore per morire?» domandò
sorpreso Ryker.
«No. Il modo migliore per noi.»
«E per te il modo migliore per far morire mia madre era un
cancro all’utero? Una malattia durata più di cinque anni?»
Thari fu investita dalla collera di lui, dal dolore e dal’odio.
Era l’odio, in una persona che non lo aveva mai provato, a
farla fremere. Premette la mano su quella agitata del ragazzo
per non lasciarla andare.
«Perché? Dimmi almeno perché?» Lo sguardo mesto negli
occhi blu aveva un sapore amaro.
«Ryker,» mormorò, «non farmi domande di cui non vuoi
conoscere la risposta. Non sei in grado di comprenderle, non
puoi farlo. Posso dirti solo che le sofferenze che vivete, alcu-
ne di esse, non sono frutto delle vostre azioni. Non sono io a
decidere quando una persona deve rinascere, né il modo in
cui avviene. Noi riportiamo quello che vediamo e altri deci-
dono come e quando dobbiamo agire.»
«E tu non puoi smettere di farlo? Non sai il dolore che pro-
vochi?» C’era ancora rabbia nella sua voce.
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C’erano figlie di Ananke che sul momento di far rinascere
alcune persone non trovavano la forza. Erano là, accanto a
loro, ma poi se ne andavano lasciando la loro fragranza di ro-
se selvatiche, senza terminare il lavoro per cui erano nate e
subendone tutte le conseguenze. Lei non sapeva cosa volesse
dire. «Smetteresti di respirare, se sapessi che fa male a qual-
cuno?»
Ryker rimase in silenzio, lo sconcerto sul viso, il battito ac-
celerato. «Perché mi fanno questo? Perché lo trovano diver-
tente?»
Thari abbassò il mento. «Per alcuni di noi è divertente e…»
Si morse un labbro. «È un modo per prendersela anche con
me.»
«Con te?»
«Mio padre era un umano: è come se mi mancasse qualco-
sa, come se non fossi una di loro. Ho un compito che, per al-
cuni, non mi spetta. Ho commesso un errore, e non avrei mai
dovuto farlo, lo pagherò caro.» Posò di nuovo lo sguardo su
di lui. «Mi dispiace, Ryker, non volevo farti questo. Loro non
si comporteranno bene con te e non so a cosa dovrai andare
incontro.» Negli occhi tremò una luce di dispiacere e di-
sprezzo. Disprezzo per se stessa.
Lui la fissò, tentando di districarsi in quel groviglio di emo-
zioni: rabbia e frustrazione, la paura che si arrampicava nel
suo corpo come edera opprimente e ondate di vertigini che si
abbattevano su di lui graffiando e ruggendo. Non ultimo un
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senso di tenerezza. Tenerezza per quel demone dalla pelle
corvina, che avrebbe potuto essere una qualsiasi ragazza sin-
cera e bellissima sotto i raggi del sole. Tuttavia non lo era:
era un demone della rinascita, della morte, che aveva portato
via sua madre, lo aveva seguito per anni e ora aveva rovinato
la sua vita e la sua sanità mentale. E gli altri demoni, ora, Dio
solo sapeva cosa gli avrebbero fatto. «Non serve a nulla pre-
gare?» chiese infine.
Lei strinse le palpebre, senza capire se fosse un tentativo di
cambiare argomento. «Dipende.»
«Oh, fantastico!» Il ragazzo guardò accigliato i giardini del
Monte Oppio sollevarsi fin quasi alla loro altezza.
«Pregare per chiedere qualcosa non serve a molto, non c’è
nessuno ad ascoltarti. Ma pregare con il cuore serve alla co-
struzione della vita che sarà. Se preghi con sincerità, sarà la
tua anima a beneficiarne, non il tuo corpo.»
Ryker fece un gesto brusco con la mano libera, come a dire
di lasciar perdere.
«E sono ascoltate le preghiere contro la possessione degli
umani», continuò lei. «Per evitare di essere posseduti o per
far andare via chi possiede un corpo umano», spiegò.
«Ah, sì? E cosa hanno di particolare queste preghiere?»
chiese in tono scettico.
«Non si possono possedere gli umani: viola il libero arbi-
trio.»
56
Lui scosse il capo. Come se non volesse accettare o non vo-
lesse più capire altro. «Ora che mi hai detto queste cose, cosa
vuoi che faccia? Cosa vuoi da me?»
Un fruscio sordo. «Perdincibacco, le mie ali giungono al
momento appropriato.»
Ryker trasalì, mentre due occhi spaventosi lo fissarono,
all’improvviso, da molto vicino.
57
Capitolo 6
Now that I know what I’m without you can’t just leave me.
Breathe into me and make me real Bring me to life.
Bring me to life - Evanescence
Anno 2010
Il volo più alto che aveva fatto a terra era stato a dieci anni,
da un muretto alto un metro e mezzo, mentre rincorreva un
compagno di scuola nel giardino delle elementari, arrampi-
candosi - a detta della maestra - come un selvaggio. Il mondo
si era rivoltato per la frazione di un secondo, le ginocchia a-
vevano iniziato a bruciargli in maniera insopportabile, così
come le mani e il gomito che aveva strusciato la parete, spel-
landolo. Si era fatto male, ma era rimasto a casa due giorni,
lo avevano sgridato e poi coccolato e i suoi compagni gli ave-
vano fatto un sacco di domande; era stato divertente.
Cadere dal punto più alto del Colosseo non gli parve altret-
tanto divertente. Ryker ringraziò di essere perfettamente al
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centro del muro di travertino. Dal basso non sembrava nep-
pure così largo, come in effetti era nella realtà.
Il demone davanti a lui scostò il viso e ciondolò il capo.
«Codesto figliolo ha lo faccino di un cherubino», disse a Tha-
ri. «Ma la sua beltà ha il mio rispettabile, totale, consenso.
Oh, perdona il riprovevole ritardo, ranocchietta: il dottore
non permetteva alle mie abili mani di far rinascere il suo in-
sulso paziente.»
Ryker, immobile, studiava la donna alata. Era simile a Tha-
ri, ma più formosa, poco più bassa, con le vesti lunghe e i ca-
pelli, chiarissimi, raccolti sopra la nuca; tuttavia a renderla
davvero diversa erano gli occhi: privi di pupilla, iride o scle-
ra, erano del tutto neri e liquidi, e sembravano osservalo co-
me animali in agguato.
Thari, a sua volta, rimase a studiare il ragazzo, i suoi sen-
timenti e le espressioni del volto. Di nuovo strinse le dita sul
polso di lui e avvertì le pulsazioni veloci. «Lei è Iside», disse.
L’altra staccò i piedi dal monumento, aprì le ali allonta-
nandosi di circa un metro, nell’aria, davanti al ragazzo.
«Hskateltre Mpteri Iside, figlia di Ananke.» Fece un elegante
e profondo inchino.
Ryker non nascose la sua confusione; incerto, allungò una
mano. «Ryker Mancini, figlio… di Massimo.»
Si diede dell’imbecille, ma Iside mostrò un sorriso sfolgo-
rante, gli afferrò la mano con entrambe le sue e gliela baciò
sul dorso chiaro. «Ah, ranocchietta, questo biondo fanciullo
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lubrifica gli occhi miei.» Lo lasciò e volteggiò nell’aria. «Da
quanto lo conosci?» domandò alla ragazza.
«Da qualche giorno.»
«A dire il vero», intervenne Ryker con una nota di rimpro-
vero «ci conosciamo da otto anni.»
Thari aggrottò la fronte, voltandosi a guardarlo. «A dire il
vero, ti conosco da quando sei nato», precisò scontrosa.
Iside sbatté le ali. «Oh, bene, bene, c’è un’astiosa confusio-
ne tra voi due. Mi sono impossessata degli stivali che tanto
bramavo proprio ieri.»
«Cosa?» chiese Ryker, incredulo per quel repentino cambio
di argomento.
«Oh, sì, umano fanciullo, proprio ieri. Dove desiderano
andare le tue virili gambe? Io un luogo in tale borbottante
orbe lo posseggo.» Gli occhi lucenti di Iside lo fissarono.
«Cosa?» ripeté Ryker.
Lei guardò Thari. «Le sue corde vocali non esprimevano il
dissenso nel rimanere in codesta urbe?»
L’altra scosse il capo. «No, quando sei arrivata mi stava
chiedendo cosa volessi da lui.»
«Oh, i miei pensieri hanno viaggiato di puerile fantasia. Bi-
sogna, dunque, ristabilire l’ordine di tale favella.»
Il ragazzo fece un gesto spazientito con la mano. «Non c’è
nulla da riordinare: voglio solo sapere come posso liberarmi
da chi mi perseguita. E di tutta questa storia.»
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«Per mille pargoli! Raffredda il core palpitante e lo spirito
bollente», lo rimbeccò Iside. «Or dunque, spalanca i padi-
glioni, e odi quanto ho da dire, misero umano fanciullo: mia
sorella, Vanth Kriera Nefthari, demone della rinascita, figlia
di Ananke e di un disperso, rinato et strabiliante umano, par-
lò meco e mi illustrò la raccapricciante situazione.» Poggiò
una mano su un fianco e con l’altra lo indicò. «Tu venisti a
conoscenza del mondo superiore, a causa della sua inosser-
vanza delle leggi della milizia celeste.» Indicò Thari e poi di
nuovo lui. «Tu attirasti l’attenzione dei demoni venuti a co-
noscenza dell’orrido misfatto e subisti le loro perfide anghe-
rie. Sekhmet Nesert in particolar modo, amante della bieca
violenza, della vendetta e dell’umana paura, trova in te un
degno divertimento. Non temendo l’ira del capo delle da me
citate milizie, in quanto nessun demone è, orsù, interessato a
riferire il verbo a chi comanda e possiede reazioni impreve-
dibili, continuerà a infliggere su te la sua efferata goduria.»
Iside tamburellò le dita sul capo. «È corretto, ranocchietta?»
Thari esitò un istante e poi annuì.
«Poiché Sekhmet, figlia di Ananke, nell’odierna epoca ri-
porta a vita nuova gli abitanti della Città Eterna e dell’italica
penisola, le mie labbra coraggiose consigliano di raggiungere
lidi ben lontani, per qualche ellissi di luna.»
«Che cosa vuol dire?» domandò il ragazzo.
61
«Vuol dire» gli rispose Thari «che devi lasciare l’Italia per
un po’ di tempo, e che dovresti vivere in un luogo isolato: do-
ve non vi sono altri umani, non vi sono altri demoni.»
Ryker emise un suono basso, una risata disarticolata. «Stai
scherzando?»
«Giammai!» tuonò Iside. «Dalla mia elegante bocca non
puoi udire uscir menzogne, pargolo umano.»
«Voi… voi non sapete di cosa state parlando. Ho una tesi
da dare, mia sorella va a scuola, mio fratello lavora e mio pa-
dre…»
«Loro rimarranno qui», lo interruppe con dolcezza la ra-
gazza.
«Oh, certo, che sciocco che sono a pensare di poter andare
con qualcuno. E poi dove dovrei mai andare?»
Le ali di Iside sbatterono con palese allegria. «Oh, nella
mia… nella mia… domus... domus, come si dice, per mille te-
gole rotte?»
«Casa», suggerì Thari.
«Andrai nella mia immensa et sicurissima casa che sorge
occultata nell’ambrato deserto del Sahara.» La donna parve
felice e dondolò il capo.
Ryker guardò perplesso Thari e di nuovo Iside. Non poteva
credere a quanto stesse accadendo, a quello che stava viven-
do in quell’ultimo periodo, era davvero troppo; e ciò che Isi-
de gli stava proponendo era così assurdo che quasi gli veniva
da ridere. «No. Io non vado da nessuna parte.»
62
«Soave fanciullo, ardisci replicare?»
«Io non ardisco niente, questa è la mia vita, e la mia fami-
glia ha bisogno di me, qui.» Le scoccò un’occhiataccia, che
non produsse nessun effetto.
«Orbene, allora attenderai che le acque si calmeranno da sé
o che il capo delle milizie venga a sapere del fatto e ti strappi
un po’ di memoria.» Iside volteggiò incurante intorno a loro
e infine posò i piedi stretti in luminosi sandali argentati sul
travertino. Le sue vesti svolazzarono sopra l’anfiteatro, dise-
gnando morbide figure circolari che parevano danzare una
musica che il ragazzo non era in grado di udire; tutto ciò che
sentiva era il borbottio delle automobili, degli autobus e dei
motorini che dal rione Monti, da San Giovanni o dal vicino
Circo Massimo si riversavano sotto di loro. E udiva il battito
appena un po’ accelerato del proprio cuore. «Posso scende-
re?»
La donna piegò il viso versò di lui; il sole penetrò i suoi oc-
chi demoniaci che, nel guardarlo, scivolarono come anguille
bagnate. Ryker strinse le labbra e spostò lo sguardo su Thari,
costringendosi a non spostarlo più, neppure quando l’altra
parlò.
«Le tue braccia si apprestano a fare le valige?» domandò.
Lui scosse la testa. «Torno a casa e, se possibile, vorrei non
vedere più nessuno di voi. È possibile?» chiese con un tono
di voce troppo basso.
Questa volta fu la ragazza e distogliere lo sguardo.
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«Oh, vi è una tale penuria di delicatezza negli umani»,
commentò Iside, rimanendo immobile quanto il Colosseo.
«Ranocchietta, non lasciarti avviluppare dallo scoramento,
lascia stare: siffatte creature non posseggono il dono
dell’empatia. Ah, se fossi stata il Creatore di tutti noi, io avrei
lasciato loro una buona dose di inumana comprensione. Ma
per l’appunto…» Si accucciò sulle gambe e osservò distratta-
mente verso la strada. «Il fatto è terribilmente increscioso,
biondo infante, tuttavia possiamo lasciarti condurre la tua
vita senza di noi, ma nulla possiamo fare per altri demoni che
ti perseguiteranno, potrai solo attendere che si dimentichino
della tua nuova conoscenza e del loro rapporto con Thari, la
qualcosa richiede tempore inimmaginato, poiché a tutto ciò
io non posso rispondere. Questo tipo di veggenza non ci ap-
partiene.» La donna farfugliò qualcosa in una lingua che
Ryker non conosceva, né avrebbe potuto conoscere.
Quando rimase in silenzio, fu Thari ad annuire. Si voltò in
maniera tanto brusca che la punta della sua spada grattò sul
travertino. «Allora sei certo di non volere il tipo di aiuto che
ti offriamo e di non volere più avere a che fare con noi due, al
costo di combattere da solo con chi verrà a disturbarti?»
Ryker aprì la bocca e la richiuse. Vista in quel modo, la si-
tuazione non era affatto rosea, tuttavia ora che sapeva che
dei demoni avevano l’intenzione di giocare con lui e spaven-
tarlo, sapeva di poter resistere. Non desiderava uscire dalla
sua camera passando per la finestra, né finire su qualche alto
64
monumento della Capitale; e sicuramente non aveva nessuna
intenzione di andare nel Sahara. Tuttavia, quando rispose,
non la guardò. «Sì.»
Thari, invece, lo guardò a lungo prima di parlare con un
tono privo di qualsiasi emozione. «Ti porto a casa.»
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Capitolo 7
Waking up I see that everything is ok The first time in my life and now it’s so great
Slowing down I look around and I am so amazed I think about the little things that make life great
I wouldn’t change a thing about it This is the best feeling
Innocence - Avril Lavigne
Anno 2010
C’era un silenzio insolito, quasi fastidioso.
Ryker iniziava a odiare la mattina: si svegliava sempre
troppo presto, la notte dormiva male e quando scendeva dal
letto si sentiva come se avesse un macigno addosso; la tesi, i
documenti e la stampa lo stavano facendo impazzire e, come
se questo in una perfetta vita normale non fosse già abba-
stanza, due o tre volte a settimana veniva qualche demone,
che lui neppure vedeva, a strattonarlo, a frusciare le ali nelle
sue orecchie e Dio solo sa cos’altro combinassero.
Lui faceva finta di nulla, come se vi fossero delle mosche
fastidiose intorno a lui, dalle quali non voleva essere distratto
per nessun motivo. Sperava che si stancassero quanto prima,
ma temeva che le cose stessero solo peggiorando perché chi-
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unque fosse a compiere quei dispetti prendeva la sua indiffe-
renza come una sfida e talvolta era andato a importunarlo in
pieno giorno, tra la gente. Se non divento pazzo, saranno gli
altri a credere che lo sia. Si ripeteva ogni volta.
Sospirò rigirandosi nelle coperte. Tese le orecchie per capi-
re come mai vi fosse tutto quel silenzio, poi un rumore sordo
lo fece sobbalzare. La porta di Lucrezia, dall’altra parte della
casa, aveva sbattuto con violenza; poi i passi concitati nel
corridoio.
Ryker si mise a sedere nel momento esatto in cui la sorella
entrava in camera. Il sorriso infantile che riempiva il volto di
lei lo stupì. «Ehi, pigrone di un fratello,» gridò eccitata «ne-
vica!» Lo afferrò per un braccio e lo tirò fuori dal letto. «Vie-
ni. Vieni a vedere. Nevica, ma una cifra!»
Lui, ancora rintronato, la seguì, senza riuscire a mettersi le
pantofole. Anche Matteo li seguì e in sala trovarono il padre,
già davanti alla finestra.
Massimo Mancini si voltò e sorrise ai figli. «Ce l’ha fatta a
nevicare, quest’anno.»
I ragazzi si affacciarono insieme a lui e guardarono fuori.
Una neve fitta e bianchissima scendeva dal cielo, copiosa e
senza sosta, ricoprendo tutto ciò che poteva: le auto, i moto-
rini, la piccola fontana della piazza, i lampioni, i bidoni.
L’asfalto non era più visibile.
Stava nevicando, a Roma, e Lucrezia e Matteo Mancini non
avevano mai visto la neve lì. A dire il vero, neppure Ryker a-
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veva visto tutta quella neve nella capitale, ma era attratto, ol-
tre che dalla neve, dal leggero riflesso della sua sorridente
famiglia sul vetro della finestra.
Quella mattina lo riempì di una gioia delicata. Lucrezia en-
trò a scuola alla seconda ora e lui giocò con lei e Matteo per
strada come fossero dei bambini, poiché i romani, quando
vedono la neve nella propria città, diventano tutti un po’
bambini. Ne era convinto.
Matteo era particolarmente gentile e divertente, lasciava
che la neve gli cadesse ovattata sul viso e i capelli biondo ce-
nere, e quando i fiocchi scendevano più veloci si lanciava ver-
so i fratelli cercando di farli finire a terra. Lucrezia aveva tira-
to palle di neve a dei ragazzi che non conosceva, aveva mo-
strato il suo roseo sorriso tutto il tempo e i suoi profondi oc-
chi azzurri - così simili a quelli della madre - avevano brillato
di una luce che Ryker le aveva visto pochissime volte e mai
fuori casa.
Il pomeriggio uscì il sole e gran parte della neve si sciolse,
sotto il cielo ora limpido di febbraio. Pensava che quella mat-
tinata sarebbe rimasta a lungo nella sua mente, come una
perfetta foto della sua amata famiglia.
Andò a cena da Helina, quella sera, e risero così tanto che
alla fine gli faceva male la pancia. Una fantastica giornata in-
vernale, un bianco venerdì tra famiglia, amici e bellissime ri-
sate.
68
Quando si salutarono sul portone di casa stavano ancora
facendo battute. Infine si decise a raggiungere la macchina
parcheggiata in via Salaria. Fu un attimo. Il secco suono di
un battito d’ali, il fruscio graffiante nelle orecchie, la terra
che si staccava dai piedi, come se fosse il mondo a muoversi
senza di lui.
Ryker tentò di urlare, tuttavia il grido si bloccò nella sua
gola e si ruppe in un singulto quando, pochi attimi dopo,
qualsiasi cosa lo avesse afferrato lo lasciò rotolare nel prato
umido di Vill’Ada. Si voltò cercando di recuperare aria; due
immense ali si stagliarono davanti a lui coprendo la luna pie-
na, e due occhi scuri su un volto che non poteva distinguere
fremettero di un rosso vermiglio.
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Capitolo 8
(Pray) Cause nobody ever survives Prayin’ to stay in your arms just
Until I can die a little longer Saviors and saints,
Devils and heathens alike She’ll eat you alive
Puscifer - Rev 22:20
Anno 2010
Ryker sbatté le palpebre più volte, ma la notte restava notte
e la paura rimaneva paura.
Il demone donna davanti a lui si schiarì la voce con fare te-
atrale. «Ryker Mancini, l’amichetto di Thari», esordì con vo-
ce soave. «Sekhmet sosteneva che fossi un bel ragazzo e non
posso darle torto. Sostiene anche che tu sia molto divertente,
tuttavia devo ancora valutare la situazione.» Fece un passo
indietro e indicò lo spazio accanto a loro. «Conosci l’uscita
più vicina del parco?»
Lui non era neppure in grado di risponderle. Rimase im-
mobile con i gomiti conficcati nel terreno fangoso.
70
«Mmm», commentò l’altra. «Non era la risposta che mi
aspettavo.» Mosse la testa e i capelli chiarissimi rifletterono i
raggi lunari. «Facciamo così, io ti dico dove andare e tu ti alzi
e te ne vai. Ti do tre minuti, se arrivi all’uscita prima dei tre
minuti non ti darò più fastidio.» Lo prese con entrambe le
mani e lo mise in piedi come avrebbe potuto fare con un
bambino piccolo. «Vai, bimbo biondo, l’uscita è di là.» Indicò
con un dito verso destra e gli diede una leggera spinta. «Cor-
ri», sussurrò.
Ryker corse. Corse veloce verso il pendio che la donna gli
aveva indicato. Corse perché a spingerlo era stata l’ultima pa-
rola di lei, non il significato, bensì la carezza gelida che lo a-
veva accarezzato fin sotto i vestiti, mentre la pronunciava.
Non sapeva se le sue gambe stessero andando veloci, non
sapeva se stesse ancora respirando, ma sapeva che i tre mi-
nuti che il demone gli aveva dato non erano passati quando
inciampò e si ritrovò di nuovo a terra. Qualcosa lo spinse e
lui rotolò lungo la collina; quando solo poco dopo riuscì a or-
dinare alle mani di fermarlo, pensò che il suo istinto di so-
pravvivenza doveva essere andato in tilt.
Nell’aria si udì un fruscio e subito dopo lui fu sollevato e la-
sciato di nuovo.
Il demone comparve davanti a lui e rise con fare innocente,
facendo ballare i boccoli che le incorniciavano il viso. «Ebbe-
ne, devo ammettere che ora sei anche divertente.»
71
Il ragazzo rispose con un lamento sommesso che fece ride-
re ancora di più la creatura alata. Con un movimento troppo
veloce per lui, lei lo spinse e lo bloccò a terra con un piede.
«La mezza umana ogni tanto fa qualcosa di buono per noi
sorelline. Sai, le regole sono così ferree che tutto diventa di
una noia infinita.» Lo lasciò, staccandosi dal terreno e svo-
lazzando su di lui con la spensieratezza di una farfalla.
Ryker, però, non aveva in mente né farfalle, né momenti
spensierati; pur stando a terra, ebbe la sensazione di una ver-
tigine. La mente si annebbiò e subito dopo si schiarì nella
percezione inconfondibile del dolore.
L’estremità di un’ala del demone gli perforava la coscia de-
stra. Boccheggiò incredulo e, quando lei estrasse l’ala, senza
neppure pensarci si girò su se stesso e tentò una fuga carpo-
ni; non si rendeva neppure conto di quanto il tentativo fosse
vano.
La donna lo afferrò per le gambe, strattonandolo così velo-
cemente che Ryker perse l’aria nei polmoni e, quando la ri-
trovò, il gelo sembrò penetrargli fino allo stomaco. Scalciò
con tutta la forza che aveva nel corpo e per alcuni, brevissimi
istanti pensò di essere riuscito nell’intento di liberarsi. Tutta-
via il demone lo tirò in piedi con un unico movimento e lo
scosse a una velocità non umana.
Se ne avesse avuto la capacità avrebbe urlato, ma ancora
una volta si sentiva come ovattato, come se galleggiasse den-
tro un incubo. E si sarebbe abbandonato presto a quella sen-
72
sazione, se lei non lo avesse liberato all’improvviso, lascian-
dolo accasciare a terra.
Ryker aprì la bocca in cerca di ossigeno e i suoi occhi pieni
di lacrime brucianti intravidero la figura nera di un altro de-
mone, che planava verso di loro con una spada in mano.
La creatura che fino a ora lo aveva torturato estrasse la
propria arma dal fodero dietro la schiena e la piegò un poco
davanti a sé, pronta a parare l’attacco. Le ali spalancate, il
corpo teso, fu ciò che riuscì a cogliere Ryker prima che le la-
me stridessero tra loro.
Ciò che venne dopo fu un movimento di corpi neri, ali gri-
gie e spade bianche. Rapido, troppo rapido per lui.
Non riusciva a distinguere le due figure: solo prima che
l’altro demone colpisse l’aguzzina ne aveva intravisto la scle-
ra chiara, ora non poteva sapere chi fosse chi. Strinse i denti
per non farsi distrarre dal dolore alla coscia e si concentrò sul
suono cadenzato delle armi che si scontravano.
Una danza frenetica, uno spazio quasi illimitato tra cielo e
terra.
Thari deviò un colpo scartando su un lato, saltò agile, con-
trattaccò e di nuovo parò. L’altra prese l’elsa della spada con
due mani, la innalzò e la scagliò sulla ragazza, che bloccò il
movimento con la propria arma.
Ignare del vento gelido di febbraio continuarono il duello,
fino a che le loro armi si incastrarono insieme. Un silenzio
irreale scese sotto gli alti pini della villa. Thari guardò l’altra
73
negli occhi liquidi. «Se te ne vai e prometti di lasciarlo in pa-
ce, farò lo stesso con te.»
L’altro demone alzò il mento e digrignò i denti lampeggian-
ti nell’oscurità. Con un colpo delle ali si spostò indietro, libe-
rando le armi, e con una sola ala mirò alle gambe della ragaz-
za, che le piegò verso l’alto e di nuovo tornò all’attacco. Schi-
varono e sferrarono colpi fluidi e precisi, e troppo veloci per
gli occhi di Ryker. Il tempo in cui si muovevano era qualcosa
di non calcolabile in termini umani.
La donna che aveva rapito il ragazzo indietreggiò e attaccò.
In quel momento la punta della spada di Thari compì un cer-
chio perfetto nell’aria scintillando sotto i raggi della luna, e
subito dopo inserendosi nello spazio creatosi tra l’arma e il
torace dell’avversaria ; poi colpì l’altro demone su un fianco e
di nuovo uscì da quel corpo nero. Infine, con un’unica velo-
cissima mossa, si conficcò nel petto, all’altezza del cuore,
schizzando sangue ceruleo.
Ci fu un attimo di immobilità, poi dallo squarcio uscì una
luce densa, che divenne sempre più scura. Ryker non riusciva
a capire cosa fosse: ai suoi occhi sembrava nebbia nera che
brillava di luce propria, contro ogni legge fisica; guardò Thari
leccarsi lentamente le labbra e alzare il mento. Lei chiuse gli
occhi e deglutì, il piacere disegnato sul volto nitido nella not-
te lattiginosa. Quando estrasse l’arma, il corpo dell’altra sparì
in onde acquose, come un miraggio.
74
La ragazza respirò a fondo, riprendendo il controllo di sé e
del suo corpo.
Ryker, con i gomiti ancora a terra, indietreggiò vedendola
arrivare.
Senza una parola, lei si chinò su di lui, lasciò sull’erba la
spada e gli prese la gamba ferita. La studiò per qualche se-
condo e poi vi poggiò sopra il palmo della mano per diversi
minuti. Quando la lasciò, cercò di riavvicinare i lembi laceri
dei vestiti. «Mi dispiace per tutto questo, Ryker.»
Lui la scrutò in volto per alcuni istanti, incerto su cosa dire.
«Grazie per avermi salvato», mormorò con la voce roca per
non aver parlato fino a quel momento.
Thari fece per rispondere, ma si voltò di scatto e afferrò la
spada. Si allontanò con due passi volanti e Ryker udì lo stri-
dore di due lame; si mise a sedere, senza riuscire a capire: la
ragazza sembrava combattere da sola con l’aria, girando su se
stessa, torcendosi, scartando e attaccando; e continuò a farlo
per cinque lunghissimi minuti, fino a che il nulla con cui sta-
va combattendo la spinse verso un albero dal tronco largo e
le radici nodose, bloccandole i polsi sopra il capo.
Ryker si alzò. Stava per avvicinarsi, ma davanti alla ragazza
si materializzò una luce intensa che disegnò un corpo candi-
do, di circa due metri, dalle ali diafane. La figura - i capelli di
un biondo splendente e la pelle accesa come avesse una fonte
di luce dentro di sé - teneva un pugnale conficcato
75
nell’addome di Thari; senza lasciarla, si voltò a guardare il
ragazzo.
«Ehi, piccolo umano, vuoi vedere come sanguina di rosso
la tua amica?»
Estrasse l’arma e la spinse di nuovo dentro il ventre di lei,
che ansimò. Anche Ryker ansimò.
Il cuore gli rimbombava ovunque potesse, la rabbia e la pa-
ura sembravano soffocarlo. Gli occhi azzurri come il cielo
d’estate della creatura gli sorrisero, quasi con compassione;
forse fu quello che gli diede la forza per slanciarsi verso di lo-
ro e saltare contro l’uomo alato.
«Ryker, no!»
Il grido di Thari lo raggiunse quando lui stava già volando
indietro. Niente attutì il colpo sulla schiena, ma non ebbe il
tempo di pensarci: il demone angelico lo afferrò e, sollevatolo
da terra, lo fissò. La sua algida bellezza fece rabbrividire il
ragazzo. «Sei troppo lento per potermi saltare addosso, uma-
no», commentò con tono pacato. «Non hai demoni della ri-
nascita alle calcagna, credo che la tua vita debba essere anco-
ra lunga, salvo errori di Sekhmet.» Aveva le sopracciglia così
chiare che sembravano inesistenti, tuttavia ne alzò una,
quando Ryker cercò di liberarsi dalla sua presa. «Stai calmo,
non desidero te. Voglio la piccola demone figlia di Ananke.»
«Se lei muore», riuscì a rispondere l’altro cercando di ve-
dere dove fosse Thari, «muoio anche io. Sono io che ne so
troppo, prenditela con me.»
76
Il demone sorrise con dolcezza. «Non sai neppure di cosa
parli. Le leggi che regolano tutto ciò non ti sono note - ed è
bene che non lo siano -, ma sappi che un demone della rina-
scita in meno equivale ad almeno una ventina di vite umane
in più.»
Mentre diceva quelle parole, l’aria frusciò di piume e di
freddo.
Sekhmet Neseret si materializzò accanto a loro. «Ehi, an-
gioletto, non è con lui che dovresti stare a chiacchierare.»
La creatura bianca poggiò Ryker e la guardò. «Ricordati
che non puoi farlo rinascere.»
«So benissimo cosa posso o non posso fare», replicò Se-
khmet e strattonò il ragazzo. «Non ti ho fatto venire qui per
questo.» Con un’ala sfiorò la guancia della sua preda, che si
accigliò al morbido tocco delle piume. «So che gli umani ti
piacciono...» Con la stessa ala incise la pelle del giovane lun-
go il collo che, poco prima, fuori dalla villa, era coperto dai
vestiti ben chiusi.
«Lascialo.»
Sekhmet sorrise soddisfatta nell’udire quel sussurro legge-
ro dietro di loro. Inclinò appena il capo verso Thari. «Ma sei
qui per lei, vero?» Non attese la risposta del luminoso demo-
ne, scagliò Ryker a una decina di metri da loro e subito dopo
gli fu sopra.
Era magra e longilinea, aveva lunghissimi capelli volumi-
nosi, e gli occhi neri parevano avere una tempesta elettrica
77
dentro le orbite; lampi cremisi riempivano il suo sguardo,
che si posò sicuro sul corpo ansimante di Ryker.
Lì dove Thari lo aveva guarito, lei affondò una serie di col-
pi, lacerando stoffa e carne. Lui lanciò urla spezzate che non
riusciva a trattenere e, quando lei gli strappò i vestiti con le
mani, il freddo che sbatté con veemenza contro la sua pelle
sanguinante fu un piacevole anestetico.
Le immagini si confusero, il buio lo assalì e la paura lo di-
vorò. Poi volò; in una frazione di secondo. Non sapeva da do-
ve a dove stesse volando - in vero, troppe erano le cose che
non riusciva a comprendere da quando si era ritrovato nel
parco -, tuttavia avvertì l’urto con la terra bagnata, la stessa
su cui quel giorno era caduta la neve immacolata.
Un grido si sprigionò dai suoi polmoni, mentre una fitta di
dolore dal suo braccio si espandeva su tutto il corpo. Fu
l’ultima cosa che udì.
***
Thari rantolò nel sentire le prime urla di Ryker. «Dovresti
salvare gli umani: è questo il tuo compito», disse rivolta
all’essere bianco con un filo di voce. Si sedette sui talloni, con
l’intenzione di alzarsi, ma l’uomo la bloccò.
«Non ha intenzione di farlo rinascere. E non potrebbe far-
lo, senza infrangere le leggi.» Si chinò su di lei e subito dopo
l’aiutò ad alzarsi.
78
La ragazza lo guardò negli occhi. «Se riuscisse a farlo appa-
rire come un incidente, potrebbe anche farlo. Vattene e per-
mettimi di salvarlo.»
Lui abbassò il mento verso di lei e lasciò che il silenzio fos-
se riempito da urla e lamenti di Ryker. «Perché ti interessa
così tanto? È solo un umano e prima o poi rinascerà. Non
puoi essere interessata a lui e io non me ne andrò.»
Thari serrò i pugni. Aveva il torace pieno di ferite, ma nes-
suno dei due aveva una spada in mano: nella frazione di un
secondo, valutò la possibilità di attaccare. Le sue braccia si
mossero prima di avere il permesso, si scagliarono contro
l’uomo con raffiche veloci, colpendolo ovunque potesse.
L’altro, dopo un attimo di incertezza, parò e rispose
all’attacco. Di nuovo i movimenti furono troppo veloci, i mu-
scoli tesi al massimo, le ali frementi. Un corpo a corpo tra un
essere del tutto bianco e uno del tutto nero, egualmente forti.
Ma Thari era stanca, perdeva sangue dalle troppe ferite che
aveva nel corpo e le grida e la paura di Ryker riempivano la
sua mente annebbiata. L’altro la bloccò e con forza la costrin-
se a inginocchiarsi a terra, facendole perdere il respiro. In
piedi dietro di lei, le afferrò i capelli e le strattonò il capo
all’indietro; si piegò appena in avanti, in modo da guardarla
in viso. «È davvero sciocco da parte tua esserti ritrovata in
questa situazione per un misero umano.»
Lei sollevò le mani per afferrare i polsi di lui, ma non riuscì
a liberarsi e il demone la trascinò lungo il prato in direzione
79
della spada bianca, che brillava di luna sull’erba scura. Poi
l’uomo si fermò bruscamente e la lasciò. Thari sorrise afflo-
sciandosi sul terreno sconnesso.
Con una velocità inaudita, un’altra spada tagliò l’aria della
notte, emettendo un leggerissimo sibilo. L’uomo tentò di cor-
rere verso la propria arma, ma dare le spalle all’avversaria gli
fu fatale: la lama penetrò nella schiena, poco sotto le ali, e lui
si ritrovò a terra.
«Tergerai il tuo copioso sangue, angioletto. E non mi rin-
cresce affatto!»
In un unico movimento, il corpo di Iside si sollevò, liberò la
sua spada insanguinata e la inserì tra le scapole diafane, se-
guendo una linea precisa e obliqua. Con entrambe le mani
spinse dentro il corpo del demone, che mormorò qualcosa di
incomprensibile. «Che Dio ti benedica, fedifrago Figlio della
Luce.»
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Capitolo 9
I feel so light This is all I want to feel tonight
I feel so light Tonight and the rest of my life
Nina Gordon - Tonight And The Rest Of My Life
Anno 2010
Un soffio leggero e caldo scivolava morbido nell’aria, carez-
ze disperse che si rincorrevano tra loro srotolandosi allegre e
accarezzando la pelle con delicatezza.
Una sensazione di beatitudine avvolgeva la mente rilassata
di Ryker nelle giornate tiepide dell’estate. L’estate. Il ragazzo
spalancò gli occhi e fissò un soffitto beige con piccoli intagli
floreali. Si mise a sedere e si guardò intorno confuso: era in
un grosso letto a baldacchino e intorno vi erano tende color
pesca che svolazzavano appena. C’era un’unica porta, con
doppie ante, e nessuna finestra. La stanza era molto ampia e
lui si trovava al centro di essa.
Aveva semplici lenzuola di cotone eppure non sentiva fred-
do. Scese dal letto e si accorse di non indossare nulla, a parte
81
una stoffa colorata intorno alla vita, che dovette legare me-
glio per non farla cadere. Traballò sulle gambe, ma appena si
rese conto di poter camminare uscì dalla porta.
Non aveva pensato a cosa si sarebbe trovato fuori, tuttavia
non si era aspettato di vedere una fontana con acqua cristal-
lina in una grande stanza ottagonale. Rimase fermo qualche
secondo, notando che su ogni lato c’era una porta. «Ehi, c’è
nessuno?» Gli risposero i giochi gorgoglianti dell’acqua.
Preso da isterismo, all’improvviso iniziò a percorrere lo
spazio esterno di quella sorta di sala e aprì tutte le porte. In
ognuna di esse si trovava un letto matrimoniale, tutti molto
diversi tra loro e dalle forme insolite.
Quando le ebbe aperte tutte, fissò la scala in marmo che
partiva da un lato della fontana e saliva verso il soffitto a cu-
pola. Esitò un solo istante, poi salì i gradini di corsa e ben
presto si ritrovò al centro di un’altra sala, questa volta esago-
nale. Su tre lati vi era l’inizio di altre scale. Negli altri angoli
colonne dorate, sulle pareti bassorilievi bianchi contornati da
tende in broccato e sul pavimento un complicato mosaico.
«Dove diavolo sono?» gridò.
Era indeciso sulla direzione da prendere, ma quando si de-
cise udì un battito d’ali. «Ryker, non dovevi essere già sve-
glio.»
Lui fissò la ragazza accigliata davanti a sé. Si era fermata a
qualche metro da lui e lo stava fissando a sua volta. «Dove
diamine sono?» domandò con voce dura.
82
Lei si morse un labbro. «Ryker, tu non…»
«Thari! Dimmi dove siamo.»
Il demone spostò lo sguardo. «Nel deserto.»
Lui emise un suono molto simile a una risata, benché fosse
lontana dall’essere felice. «Ti prego, dimmi che non è quello
penso. Dimmi che non è il Sahara.»
«Ti trovi a casa di Iside. Deserto del Sahara, Libia.» Fece
un passo verso di lui. «Torna a letto, hai…»
«Perché? Dimmi solo perché.»
«Emmoragia, trauma cranico e frattura dell’omero,
dell’ulna e del radio. I motivi principali. Ferite ovunque, per-
dita di coscienza, trauma psicologico. Necessità di metterti al
sicuro.»
«E non potevi portarmi in un ospedale? Un ospedale di
Roma.»
Lei scosse il capo. «Avevo bisogno di cure anche io.»
«Da quanto sono qui?»
Le ali di Thari, chiuse dietro la schiena, spostarono un poco
l’aria attorno a lei. «Quarantadue giorni.»
«Che cosa?»
«Ryker, mi dispiace.» La ragazza gli si avvicinò e gli toccò
un braccio. «Avevi bisogno di essere curato, curato da noi.
Avevi bisogno di stare qui. Ricordi? Pochi umani, pochi de-
moni.» Lui si spostò, guardandola male. «Non so cosa ricordi
della sera in cui sei stato ferito, hai perso conoscenza più di
una volta. Non potevi rimanere in Italia; non potevi stare in
83
nessun posto che non fosse come questo, al riparo da altri at-
tacchi. E vale anche per me. Iside ci ha portati qui subito do-
po perché non avrebbe potuto fare altro; ti ha curato come
curiamo noi gli esseri umani e… ha fatto la cosa migliore.»
«Forse avrei dovuto scegliere io quale fosse la cosa migliore
per me.» Ryker strinse le palpebre. «Portami a casa.»
«Non posso. Tu non puoi.»
«Mi stai tenendo prigioniero qui?»
Lei esitò. «No. Non mi è permesso. Ma faresti la scelta sba-
gliata, hai bisogno di rimetterti in sesto, hai bisogno di essere
protetto e io… ho bisogno che tu rimanga qui. Temo che mol-
to presto qualcuno verrà a sapere, anzi forse già sanno, e non
so cosa succederà allora.»
Ryker si voltò e si passò una mano sulla fronte. «La mia
famiglia ha bisogno di me.»
«La tua famiglia sarà in pericolo se torni a casa.»
Sospirò. «Mi avranno dato per morto.»
«Rapito. Per avere un riscatto.»
Lui aggrottò la fronte girandosi a guardarla. «Che vuol di-
re?»
«È ciò che sanno. La polizia ti sta cercando e sa che alcuni
rapitori ti tengono segregato da qualche parte; hanno già
chiesto i soldi.»
«E chi lo avrebbe fatto?»
«Iside. Ovviamente non vuole i soldi, ma la polizia non
gliene darà. La cosa importante è che fino a che rimarrà a-
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perta questa pista, in pochi ti daranno per morto; e immagi-
no sia quello che volevi.»
«Io non volevo niente di tutto ciò!» sbottò. «Dimmi la veri-
tà, Thari, che succederà alla fine di questa storia?»
Lei sospirò. «Non lo so. Non lo so più. Con ogni probabili-
tà, tu avrai dei vuoti di memoria e io… beh, lo sai.»
Lo sapeva; lei glielo aveva rivelato quel giorno sopra al Co-
losseo.
«Mi dispiace, davvero. Spero che il giorno in cui succederà
arrivi presto, così tornerai a vivere la tua vita. Al sicuro.»
«Tu però perderai la tua essenza come figlia di Ananke.»
Annuì.
«Perché speri che succeda presto, allora?»
«Non mi credi, quando dico che mi dispiace? Che mi di-
spiace per te, che vorrei solo che la tua vita tornasse quella di
prima?»
Ryker chiuse gli occhi. «Credo che impazzirò. Questo cre-
do.»
***
«Vuoi dire che in queste stanze ci sono tutti letti, nonostante
voi non abbiate bisogno di dormire?»
«Iside li colleziona.»
«Lo trovo ridicolo.»
Thari si strinse nelle spalle, salendo le scale davanti a lui.
«Anche voi umani collezionate cose ridicole», replicò ada-
85
mantina, e cambiò argomento. «Ho preso della frutta, perché
sapevo che ti saresti svegliato. Ma non ho nient’altro. Andrò
a prendere qualcosa.»
«Dove?»
«In qualche villaggio degli umani», rispose con ovvietà.
«Sono lontani da qui, ma non ci mettiamo molto a spostarci
noi demoni.»
Ryker annuì.«Questo è davvero un posto strano per una
che parla come Dante Alighieri», commentò osservando una
composizione tipica dell’arte contemporanea che percorreva
tutta la parete. «Poi spiegami perché dovrebbe avere una ca-
sa come questa, anzi spiegami, come fa ad avere una casa
come questa? Con tanto di scale in marmo, luci, bocche
d’aria e acqua corrente in pieno deserto.»
«Non puoi capire.»
«Provaci.»
«Avete mai capito come hanno fatto le piramidi e a che pe-
riodo risalgono?» Si voltò e lo guardò negli occhi. «Te lo dico
io: no. Quindi non puoi capire; non me lo chiedere.» In silen-
zio ripresero a salire, fino a che la scala si fece ampia e molto
luminosa.
Luce naturale.
Ryker sgranò gli occhi osservando lo spazio che si apriva
intorno a lui e che presentava sul pavimento erba verde e
mattonelle da giardino. Il soffitto, non molto alto, era un in-
treccio di fiori e stelle disegnati con colori pastello. E sui due
86
lati più corti vi erano due balconate gemelle che si affaccia-
vano sul deserto sabbioso.
«Questo è quello che Iside chiama il terrazzo. Bello, vero?»
Il ragazzo chiuse la bocca e osservò l’acqua uscire dalle an-
fore di due putti, le torce bruciare nella semioscurità dei lati
più lunghi, i divani bianchi e i tavolini in vimini accanto alla
piccola fontana. Nell’aria si respirava un profumo di vaniglia
appena dolciastro, equilibrato da un leggero odore di menta.
«Direi che “bello” è riduttivo. È meraviglioso.»
Lei sorrise e aprì le ali muovendole lentamente avanti e in-
dietro. «Sono cresciuta qui, con lei.»
Ryker ebbe l’impulso di abbracciarla, per via del tono ma-
linconico con cui lo aveva detto e l’espressione da bambina
che si era disegnata sul volto scuro. Invece, spostò lo sguardo
verso le dune sabbiose e il cielo intenso del Sahara. «Provi
piacere a uccidere?» domandò continuando a fissare il cele-
ste contro il deserto.
Lei richiuse le ali. «Cosa vuoi sapere?»
«Proprio quello che ti ho chiesto.»
«Allora, forse, la risposta già la conosci.»
Nelle note della voce vibrò il senso di colpa e lui si voltò
verso di lei. «Ti dispiace?»
Thari fece una smorfia. «Fa parte del gioco. Del dovere. Fa
parte di ciò che sono: far rinascere gli umani, come del resto
altri demoni, è una cosa naturale. Serve a mantenere
l’equilibrio.»
87
«Ma perché provare piacere?» insistette lui.
«Iside sostiene che sia come la riproduzione: una sorta di
dovere di ogni specie, aiutata dal puro piacere dell’atto ses-
suale.»
Ryker aggrottò la fronte, poi scoppiò a ridere. «Iside dice
questo? Forse la devo rivalutare», osservò.
Rimase, ma i giorni erano troppo lenti, il deserto oltremo-
do silenzioso, e Ryker credeva che avrebbe finito per contare
i secondi, soprattutto quando Thari andava via. Gli aveva
detto che andava a prendere da mangiare per lui e lui non
pensava che potesse non essere così. Quello che lei riteneva il
suo lavoro, a suo dire, lo stava svolgendo Iside, caricandosi
del dovere di entrambe, e lui era certo che lei non stesse
mentendo.
Le faceva moltissime domande, tuttavia lei non rispondeva
o rimaneva vaga sulle risposte che secondo lei lo avrebbero
solo scosso. ‘Era un umano e non poteva capire’ era la rispo-
sta più frequente.
Thari lo osservava spesso da sotto la frangia candida dei
capelli, ma quando lui la sorprendeva spostava lo sguardo,
imbarazzata, fingendo di analizzare qualsiasi cosa avesse in
mano o davanti a sé. Seguire i suoi discorsi era difficile, poi-
ché lei parlava di Iside e della sua vita di frequente, ma nei
racconti lasciava lacune che non sarebbero mai state colmate.
Ryker ascoltava quella voce cristallina, perplesso e affascina-
to.
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A volte si svegliava di soprassalto senza ricordare dove fos-
se, aveva gli incubi e una costante agitazione. Stringeva in vi-
ta l’unico vestito di cui disponeva e faceva la doccia nei bagni
ultra moderni di quella casa due volte al giorno. Ne erano
passati solo cinque da quando si era svegliato nel letto a bal-
dacchino, eppure gli sembrava un tempo senza fine. Pensava
che la sua seduta di tesi era saltata e che la sua famiglia con
ogni probabilità si stesse disperando. Non era giusto.
Rimosse quel pensiero scrollando il corpo.
Sul terrazzo coperto, Thari puliva la sua spada con atten-
zione maniacale. Lui si accucciò davanti a lei e con delicatez-
za gliela tolse dalle mani, prendendo l’elsa. «Puoi uccidermi
con questa?»
Lei spalancò gli occhi. «No.»
«Lo immaginavo. Nessuno l’ha mai usata su di me, neppu-
re per farmi un graffietto.» Si mise in piedi e lei lo imitò. «Mi
piacerebbe imparare a usare una spada, dovrebbe essere ec-
citante.» La mosse nell’aria e poi la inclinò piano, osservando
il riflesso cinabro del fuoco delle torce muoversi sulla lama.
«Quando hai ucciso quel demone, il primo, dal suo corpo è
uscito un sangue chiaro, come se fosse latte.»
«Non era latte, era l’effetto della luna sul sangue azzurro.
Tutte le creature superiori hanno il sangue azzurro.» Ridac-
chiò. «Ora sai perché i nobili affermavano di avere il sangue
blu.»
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Lui si riempì della risata delicata di lei, infine posò l’arma
sul tavolino. «Non ti ho mai ringraziata per quella sera a
Vill’Ada. Per me è successo così tutto in fretta, ancora non so
se sia reale. Però, grazie.»
«Prego», replicò lei troppo velocemente. Si spostò per ac-
centuare la distanza tra di loro, poi trasse un lungo respiro.
«Anche io devo ringraziarti per quella sera: se tu non fossi
saltato addosso al mio amico angioletto, forse a quest’ora do-
vrei fare i conti con Ade.»
Ryker le mostrò i denti bianchi e perfetti. «Sei divertente.
Te l’ho mai detto?»
Lei gli lanciò un’occhiata. «Oh, beninteso, Ade non esiste,
non quello che vi siete inventato voi, almeno.»
Il ragazzo inclinò il capo. «Dicevi che non esistono neppure
gli angeli.»
«A dire il vero, è una sorta di presa in giro nei confronti dei
Figli della Luce. Non so bene il motivo, ma è sempre stato co-
sì e loro non amano farsi chiamare da noi in questo modo,
mentre lo apprezzano se sono gli umani a farlo. Ma gli umani
non possono capire.»
«Ovviamente», replicò lui sarcastico, poi tornò serio. «Per-
ché ce l’hanno con te, Thari? Perché ce l’hanno con te così
tanto e trovano divertente farti soffrire?»
Non era molto più bassa di lui, sicuramente superava il me-
tro e settanta, tuttavia, all’improvviso, sembrò farsi minuta e
con l’espressione mesta di una bambina. Fece un altro passo
90
indietro. «Lo sai perché. Non mi ritengono all’altezza e, visto
questo pasticcio che ho combinato, forse hanno ragione. Per
loro sono quello che voi chiamate mezzosangue: il mio corpo
ha sangue umano, sangue rosso. È un corpo a metà, un corpo
difettoso.»
«Il tuo corpo è bellissimo così com’è.» Ryker riempì la di-
stanza che lei aveva creato e con una mano le sfiorò i capelli.
«Perché mi hai seguito per tutti questi anni?» domandò in
un sussurro, osservando le piume vibrare appena.
«Io non… non… Io…» Thari sapeva che stava balbettando e
si sforzò di mantenere la voce ferma. «Per una serie di motivi
che non posso dirti», riuscì a dire.
«Perché sono un essere umano?» scherzò con voce calda, e
le tirò una ciocca.
La ragazza non rispose.
Lui l’aveva vista combattere, uccidere e godere del piacere
di quell’atto. L’aveva vista difendere lei stessa e lui, e aveva
perso il ritmo dei suoi colpi perché lei era troppo veloce. Non
l’aveva mai vista tirasi indietro.
Eppure il proprio sguardo la faceva tremare.
Le labbra di lei, piene e soffici, avevano assaporato il gusto
della morte e ora lui desiderava solo farle sue. Contemplò i
lineamenti delicati di lei, il naso proporzionato, gli occhi neri
che mettevano i brividi e che adesso si muovevano frenetici
cercando in lui qualcosa che lei non osava chiedere.
91
Con il battito appena un po’ accelerato e la mente persa in
un senso di irrazionalità, Ryker piegò il viso e sfiorò le labbra
di Thari. Se lei era la Morte, quella era una Morte morbidis-
sima; e lui ne assaporò il gusto fresco, la pelle liscia come pe-
tali di fiore.
Il cuore di lei, invece, le rimbombava nelle orecchie, men-
tre schiudeva la bocca sotto la leggera pressione di lui. Chiuse
gli occhi seguendo la danza lenta e calda delle loro lingue, ri-
cambiando quel bacio che mai avrebbe sperato.
Ryker indugiò con le labbra sulle sue e poi allontanò il viso.
Scosse il capo con un movimento leggero, un poco sconsola-
to. «Quando tutto questo finirà, io sarò un uomo fuori di
senno», bisbigliò. «Dimmi che non è vero. Dimmi che sto so-
lo sognando.»
Lei avrebbe voluto chiedere l’esatto contrario. Dimmi che è
vero, dimmi che non è solo un sogno. Si limitò a fissarlo in
silenzio, fino a quando lui tornò a baciarla.
92
Capitolo 10
I can’t handle this confusion I’m unable come and take me away
I feel like I’m all alone All by myself I need to get around this
my words are cold I don’t want them to hurt you
If I show you I don’t think you’d understand
‘Cause no one understands I’m going nowhere on and on and
Take me away - Avril Lavigne
«Torno presto.» Questo gli aveva detto Thari andandosene.
Ma erano passati tre giorni e lui non poteva più resistere. Si
era coperto con i lenzuoli del proprio letto e con uno aveva
creato una sacca in cui mettere le bottiglie d’acqua e i biscot-
ti. Non era certo di quello che stesse per fare, ma la frustra-
zione e la sensazione che tutto ciò che stava vivendo fosse ol-
tre le capacità umane gli diede la spinta per avventurarsi.
Nord est. Quella era la direzione in cui, a detta di Thari, si
trovava il primo villaggio; doveva solo seguire quella direzio-
ne e con tre, forse quattro giorni di marcia sarebbe arrivato.
93
Là avrebbe chiesto aiuto e in qualche modo sarebbe tornato a
casa, a Roma.
Lei non glielo aveva detto, ma il ragazzo aveva capito dalle
poche informazioni che aveva fornito che Thari era nella ca-
pitale italiana per far rinascere una persona. A quanto pareva
i demoni della rinascita erano così occupati nell’espletare i
loro doveri che Iside non riusciva a coprire sempre il lavoro
di entrambe. E c’erano rinascite che non potevano aspettare.
Sotto il sole africano Ryker sospirò.
Come poteva essere finito in quel guaio? Guardando dietro
di sé si accorse di non avere più idea di dove fosse la casa di
Iside. Decise di non voltarsi più e di proseguire il più veloce-
mente possibile.
Tuttavia, quando il sole si fece alto nel cielo, l’aria divenne
secca e respirare significava raschiare dentro naso e bocca.
Dovette rallentare il passo e bere più volte a piccoli sorsi. Fu
solo dopo il tramonto, però, che si rese conto
dell’insensatezza di quella decisione; eppure lo sapeva che il
deserto era infame, lo sapeva che la notte poteva essere geli-
da e che la sabbia poteva nascondere bestie velenose.
Lui che tutta la vita aveva calcolato i pro e i contro di ogni
azione, che non aveva fatto scelte senza prevederne le conse-
guenze, ora si trovava, come un qualsiasi sprovveduto, da so-
lo nel deserto con qualche lenzuolo di cotone e pochissimi vi-
veri.
94
La sua vita era cambiata. Lui era cambiato. Questo era il
punto a cui non riusciva a dare voce: Thari lo aveva trasfor-
mato per sempre, con il suo mondo, le sue battaglie, i suoi
stupidi complessi da ragazzina emarginata.
Thari e la sua forza. Thari e la sua dolcezza. Thari e il suo
bellissimo viso. Come aveva fatto a cedere a qualcosa di così
irreale? Per quello si trovava nel bel mezzo del Sahara.
O forse non era andata così: Thari si era innamorata di lui
prima che lui potesse anche solo sapere di quel mondo di
demoni che regolava la vita degli umani. Ryker emise una ri-
sata disarticolata, priva di felicità: aveva allontato qualsiasi
ragazza che avesse frequentato prima che potesse diventare
qualcosa di serio, perché non poteva permettersi di abban-
donare la famiglia, di allontanarsi, non ancora.
E mai lontananza da casa fu più reale di quella.
Avrebbe aspettato anche questa volta, ma Thari si era in-
namorata prima.
Si addormentò, tremando di freddo e chiedendosi se a-
vrebbe mai rivisto il padre, Matteo e Lucrezia. Lucrezia, la
sua piccola Lucrezia.
L’alba nel cielo infinito lo svegliò quando a ovest si vedeva-
no ancora le stelle. Non si rese neppure conto di aver di nuo-
vo iniziato a camminare e si riscosse sorpreso quando le du-
ne sabbiose lasciarono il posto a un deserto piatto, dalla terra
brulla e polverosa.
95
A sud est, in lontananza, delle montagne si alzavano isolate
e inquietanti. Ryker sospirò e continuò a camminare sotto il
sole mischiando il viso candido di Lulù a quello onice di Tha-
ri; le immagini, del tutto diverse tra loro, apparivano confuse
nella sua mente stanca.
In quello stato passò due giorni, fino a quando nel tardo
pomeriggio scorse una macchina venirgli in contro.
Il ragazzo strinse le palpebre, tentando di mettere a fuoco,
e, nel comprendere che fosse una jeep, alzò le braccia
d’istinto e urlò: «Sono qui.»
La vettura lo raggiunse e ne scesero due uomini dalla car-
nagione olivastra che indossavano abiti europei. Uno dei due
puntò un’arma corta verso di lui, mentre l’altro si avvicinava.
«Ehi, sono italiano», provò a dire Ryker facendo un passo
indietro. Ma l’altro gli rispose in una lingua sconosciuta, con
un tono alto e frettoloso. Lo afferrò per un braccio e gli chiese
qualcosa.
«Sono italiano», ripeté Ryker, questa volta in inglese. «Mi
sono perso e devo raggiungere l’ambasciata italiana.» La sua
voce tremò di una paura atavica nell’osservare l’arma contro
di lui.
«Aş-Şmt!» Fu tutto quello che gli risposero gli uomini e
senza neppure tentare di comprenderlo. Quello più vicino lo
tirò, allora Ryker fece resistenza e tentò di divincolarsi;
l’altro non ci pensò neppure un attimo: sferrò un pugno con
la destra e lo colpì in volto.
96
Ryker ansimò per la sorpresa più che per il dolore e il san-
gue gli colò lungo la guancia. Insieme i due uomini lo trasci-
narono dentro la macchina, dove lo ammanettarono e lo
bendarono.
Nel buio completo Ryker li sentì parlare e si sentì ripetere
sottovoce. «Sono italiano.»
***
Doveva essersi addormentato, perché quando la macchina si
fermò fece uno scatto in avanti e da sotto la benda che gli co-
priva gli occhi vide filtrare luce solare.
Qualcuno lo prese e lo fece scendere fuori dal veicolo, poi lo
spinse parlottando in quella che il ragazzo pensava fosse lin-
gua araba. Lo condusse lungo un cammino rettilineo, poi
svoltarono un paio di volte fino a fermarsi davanti a una por-
ta. L’altro l’aprì e lo spinse dentro, senza una parola.
Rimase immobile per diversi minuti, chiedendosi se ci fos-
se almeno un muscolo del suo corpo che non dolesse. E pen-
sò che no, non c’era. Infine la porta fu aperta di nuovo e un
paio di mani, dalle dita ruvide e callose, gli sciolse la benda; il
possessore di quelle dita lo studiò qualche secondo e, aggrot-
tando la fronte, gli domandò qualcosa.
«Non capisco», replicò il ragazzo senza riuscire a nascon-
dere la frustrazione e la rabbia.
L’uomo si grattò la barba brizzolata e urlò verso fuori. Poco
dopo lo raggiunse un altro uomo, armato, che tirò fuori da
97
una delle sue tasche un foglio logoro e ripiegato più volte su
se stesso; lo aprì e lo stese per bene, mostrandolo a Ryker.
Lui lo guardò perplesso. L’uomo che era entrato per primo
batté l’indice sul suo petto e poi sul foglio che rappresentava
la cartina dell’Europa. Ryker allora indicò l’Italia.
Il secondo uomo agitò la pistola e borbottò qualcosa, mani-
festando palese dissenso. L’altro non vi badò, ripiegò la car-
tina girando sui tacchi e uscendo dalla stanza.
«Ehi, slegatemi le mani.»
L’uomo armato, che doveva avere una trentina di anni,
sogghignò guardandolo sollevare i polsi legati, e rise ancora
di più quando lo stomaco del ragazzo brontolò. Uscì chiu-
dendo di nuovo a chiave la porta.
Ryker poggiò le spalle al muro e strinse le labbra, osser-
vando la stanza piccola, buia e dalle pareti senza intonaco.
Scivolò a terra e batté il capo al muro meccanicamente: non
poteva credere a quella situazione. Imprecò sottovoce e poi
rise, una risata disperata che si spense gradualmente, mentre
davanti a lui si materializzava un corpo nero.
Si irrigidì e poi si rilassò mettendo a fuoco la sclera bianca
delle orbite. «Thari», mormorò.
Lei inclinò il viso, con un’espressione molto seria. «Almeno
te la ridi», commentò, inchinandosi sulle gambe.
«Mio Dio», replicò lui. «Questa volta spero che tu sia reale,
dimmi che sei reale, che sei qui e mi porterai via.»
98
Lei osservò il taglio che il ragazzo aveva sotto l’occhio, pro-
vocato dal pugno che gli avevano dato. Aprì la bocca per dire
qualcosa, ma la richiuse; quindi allungò una mano e la pog-
giò sulla sua guancia.
Lui rimase immobile avvertendo il calore che emanava dal
palmo di lei. «Mi dispiace», disse a bassa voce. «Thari, mi di-
spiace davvero. Non stavo scappando… da te. Io non lo so
perché l’ho fatto.»
Lei gli fece cenno di fare silenzio. «Vuoi rimanere qui o
tornare a casa di Iside?» chiese atona, alzandosi e senza
guardarlo.
«Tornare con te.»
Lo fissò per un minuto interminabile, infine lo sollevò da
terra con la solita facilità e aggrottò la fronte. «Sei sicuro?»
Lui scosse il capo. «Pensi davvero…»
«Allora chiudi gli occhi», lo interruppe, gelida.
«Perché?»
«Chiudi gli occhi e basta, Ryker. Chiudi gli occhi e fai silen-
zio; entrambe le cose fino a che non dico il contrario.»
***
Il gorgogliare di una delle fontane della casa riempiva l’eco di
un’allegria sommessa, tra le pareti senza tempo che silenzio-
se raccoglievano i movimenti calcolati del demone e
dell’umano. Ryker aveva mangiato e fatto una doccia, infine
99
aveva riposato a lungo nel letto a baldacchino in cui aveva
sempre dormito quei giorni.
Doveva essere primo pomeriggio e le tende frusciavano
leggere. Spostò la mano sul cuscino setoso ed emise un sospi-
ro appena percepibile. Cinque dita vellutate si poggiarono
lentamente sulle sue: il tocco di una farfalla che si posa su un
fiore, il calore di un raggio di sole.
«Ryker?»
La sua voce era troppo dolce, una dolcezza che stordiva,
perché lei lo stordiva. Con il dolore graffiante, la rabbia mil-
lenaria, l’amore serico, tenero e sensuale. Quel sentimento
puro penetrava nella pelle, un veleno troppo buono. Il tuo
amore mi ucciderà.
«Ryker?»
Ripetilo mille e mille volte; e non mi basterà. Il proprio
nome che risuonava cristallino sulle labbra di lei, breve. Così
breve. E nient’altro sarebbe stato concesso loro.
«Ryker. Perché non mi rispondi?» La nota di paura,
l’infrangersi del cuore su scogli taglienti privi di pietà.
Quando mai si era sentito così? Quando mai una donna a-
veva dipinto immagini reali solo con le parole, con i senti-
menti che lui assorbiva per osmosi o pronunciando il nome
di lui? Mai.
«Thari?» Poteva chiamarla senza guastare quei fragili lem-
bi di perfezione?
Lei spostò la mano e lui aprì gli occhi. Non poteva.
100
Thari voltò il viso, nascondendo emozioni e paure. Sedeva
sul bordo del letto, le mani sul grembo, le ali congiunte quasi
in una preghiera. «Come stai?» domandò fissando l’arco del-
la porta.
Lui si mosse lentamente e si mise a sedere. «Tu come
stai?»
Il modo in cui lei voltò il viso nella sua direzione, il modo in
cui i suoi occhi tremarono appena, gli fecero pensare che po-
chissime persone nella sua lunga vita le avevano posto quella
domanda.
Thari passò le dita sottili sulle pieghe del lenzuolo, un rosso
ramato che si perdeva nell’oscurità della sua pelle. «Perché
sei andato via?»
Che gioco era quello di porsi solo domande? Che gioco è
quello in cui una donna chiede solo per farsi del male? Vanth
Kriera Nefthari era troppo umana e lo era troppo poco.
Ryker si piegò in avanti, le prese un polso con delicatezza e
l’attrasse a sé, tenendola stretta in un abbraccio di piume e
respiri. Se lei non avesse chiesto, se lei non si fosse innamo-
rata, se lei non fosse stata un demone. «Credo che quegli
uomini stessero pensando a un riscatto. Forse speravano fos-
si di qualche altra nazionalità.»
Lei esitò e poi sciolse l’abbraccio. «Perché? Perché sei an-
dato via? Perché adesso? Perché così?» Solo un rivolo di di-
sperazione avvinghiato a quel timbro scevro da qualsiasi tipo
di collera.
101
«Non dovresti chiedermelo. Lo sai perché l’ho fatto. Tu non
c’eri e io…» qualsiasi parola avrebbe fatto male «Thari, io
impazzisco qui. Ho bisogno di tornare a casa.»
Lei annuì e si alzò. Lui fece lo stesso, tenendo stretta intor-
no alla vita quell’unica stoffa che da giorni era il suo vestito.
Voleva dirle che gli dispiaceva, che per lui era doloroso. Tut-
tavia lei si fermò e puntò gli occhi in quelli di lui. «Non posso
tenerti qui contro la tua volontà, come Figlia di Ananke non
posso in nessun modo intaccare il tuo libero arbitrio. Ma non
condivido questa scelta: la trovo avventata, egoistica, illogica.
La trovo stupida.»
La sofferenza che stillava ora da quella rabbia non fu abba-
stanza. «Te la dico io una cosa che non puoi capire, questo:
l’amore per la famiglia, la normalità della vita; il bisogno di
logica e concretezza.»
Lei alzò il viso. «Non è questo il punto, Ryker. Non dob-
biamo per forza capirci, non te l’ho neppure mai chiesto; il
punto è che se sei qui è perché ne va della tua vita, oltre che
della mia. È perché se non è la vita a essere in pericolo è la
tua sanità mentale, e lo hai visto da solo cosa vuol dire. A-
spettare che la situazione si calmi è un compito duro per te,
lo so, ma non attendere qui è da sciocchi.»
«Io devo tornare. La mia famiglia ha bisogno di me», repli-
cò lui laconico.
Le estremità delle ali di lei si mossero in un movimento
piccolissimo, fendendo l’aria dietro di sé. «La tua famiglia
102
non ti avrà più, se torni adesso. Qualche demone vorrà farti
rinascere; non lo capisci?»
Ryker fece uno scatto con la mano. «Oh, basta con questa
storia del rinascere: uccidere! Uccidere! Voi uccidete le per-
sone, voi vi uccidete a vicenda. Tu uccidi. E mi hai coinvolto
in questo casino.»
Thari fece per rispondere, ma le parole le vennero meno e
richiuse la bocca distogliendo lo sguardo. Si morse l’interno
della guancia fino a sentire il sapore metallico del suo sangue
umano; il tentativo di non manifestare nessuna emozione
che falliva miseramente sugli angoli piegati delle sopracci-
glia, gli angoli della bocca, sotto le palpebre semisocchiuse.
Il tuo amore mi ucciderà.
«Lasciami solo, per favore.»
103
Capitolo 11
Baby you’re all that I want When you’re lyin’ here in my arms
I’m findin’ it hard to believe We’re in heaven
And love is all that I need And I found it here in your heart
It isn’t too hard to see We’re in heaven
Heaven - Bryan Adams
Il sole tremolava incerto sull’orizzonte, come se combattes-
se il caldo che proveniva dalla sabbia del deserto. Thari lo
guardava assorta nei suoi mille pensieri e nel suo senso di
colpa, che la schiacciava come una cascata che non la lasciava
respirare.
Non era in grado di gestire quel momento, non era in grado
di dare un senso alle azioni che aveva compiuto, senza darsi
della stupida. Le leggi che da tempi remoti regolavano il si-
stema le parvero all’improvviso insindacabili; e lei le aveva
infrante.
104
Le aveva infrante due volte: quando si era resa visibile a un
umano e quando si era innamorata di un umano. E quella era
una legge che avrebbe dovuto tenere presente fin da subito;
invece non lo aveva fatto. Con la scusa di praticare una parte
del suo lavoro, aveva imparato a conoscere Ryker fin dentro
l’anima. Quel luogo inaccessibile anche agli stessi umani.
In quel modo lo aveva amato; in quel modo lo aveva tradi-
to.
Tradito perché ora sapeva, tradito perché non sapeva. Tra-
dito perché lo amava.
Le leggi non servono a nulla, se esiste il libero arbitrio. Le
leggi non servono a nulla, se il cuore non è in grado di seguir-
le. Aveva infranto le leggi e presto avrebbe infranto ben altre
cose.
Con la coda dell’occhio vide Ryker giungere sulla terrazza,
con il suo passo virile e la dolcezza dei movimenti; Thari
strinse le braccia attorno alle ginocchia. Lui si sedette accan-
to a lei, guardando il Sahara. «Scusami per prima», disse,
senza alcuna esitazione.
«Oh, non importa. Hai ragione: sono un demone e quello
che faccio è togliere vite umane; ed è colpa mia se sei blocca-
to qui», mormorò.
Lui si voltò e le diede una leggera botta con la spalla. «Que-
sto è poco ma sicuro.» commentò in tono canzonatorio.
Lei abbassò il mento e lui la cinse con le braccia, lasciando
che Thari poggiasse la testa su di lui, il quale si riempì il naso
105
di rose selvatiche, mentre la cullava con delicatezza. «Per me
non è facile. Non è facile stare qui, stare lontano da casa, ac-
cettare tutto ciò che è successo nell’ultimo tempo», disse len-
tamente, dosando ogni singola parola. «Tuttavia non sono
così sciocco da pensare che per te sia una questione semplice
o un capriccio: so che lo stai facendo per me, per riparare a
qualcosa che tu hai fatto, ma in cui io ormai sono coinvolto.
Perdonami se a volte non riesco a sopportare questa situa-
zione; non sono arrabbiato con te o forse sì, non ha impor-
tanza, ormai.» Le accarezzò la testa. «Grazie per quello che
stai facendo adesso. Va bene così.» Il tono era basso e deciso,
un timbro rassicurante. «Davvero, Thari.»
Lei chiuse gli occhi per un momento, ascoltando l’eco mor-
bida del proprio nome sulle labbra di lui. Un tomento deli-
zioso e troppo breve. Così breve. Il cielo sfolgorò i mille colo-
ri del tramonto quando il sole scivolò oltre la linea della ter-
ra. «Faccio un sacco di guai.» La voce cristallina incrinata
nella consapevolezza delle proprie azioni.
L’errore, il tradimento, la colpa.
«Per essere un demone sei fin troppo umana.»
«Non so se prenderlo come un complimento.» Alzò il viso
verso di lui. «Mi odi per tutto questo?» domandò con voce
querula.
Ryker sorrise. Il sorriso dolce di chi era abituato a farlo, il
sorriso generoso di chi ci mette amore e comprensione. «Un
po’.» Con il pollice le sfiorò la guancia, subito sotto l’occhio,
106
chiedendosi se dei demoni potessero mai piangere, e trovò il
fatto talmente ironico che si dovette sforzare per non ridere;
non desiderava in nessun modo farle credere che stesse ri-
dendo di lei, né desiderava farla sentire a disagio. Invero, de-
siderava che gli angoli delle sue labbra si curvassero verso
l’alto.
Ma Thari le teneva piegate in un vago broncio infantile, lo
sguardo perso negli occhi azzurri di lui, la pelle avida del re-
spiro soffice di Ryker. Lui piegò il viso e la baciò con gentilez-
za.
Thari chiuse gli occhi, sciogliendo i muscoli tesi, e gli prese
il viso con entrambe le mani. Avrebbe voluto essere
un’essenza sola con lui, avrebbe voluto che lui non smettesse
di baciarla per tutta la breve vita che le rimaneva. «È possibi-
le desiderare il tuo corpo e la tua mente più di quanto io ab-
bia mai immaginato?» mormorò sulle sue labbra; le ali che si
muovevano appena, placide, dietro di lei.
Ryker continuò a baciarla crogiolandosi nel suono delle pa-
role di lei, sul significato delicato e nello stesso tempo invi-
tante; infine sorrise. «Io non avevo mai immaginato nulla di
tutto questo.» Con la lingua seguì la linea dritta della mandi-
bola, quindi fece una leggera pressione su di lei con la mano,
facendola sdraiare sul pavimento di prato, morbido letto dai
riflessi smeraldini. Il denso calore del sangue, che percorreva
il suo corpo, che colmava la sua brama, era un fiume di seta
privo di dighe. «Se vuoi farmi impazzire in questa storia,
107
fammi impazzire come si deve», bisbigliò al suo orecchio,
prima di baciarle il collo.
Lei respirò a fondo; lo stomaco stretto in una morsa di dol-
ce tensione. Le ali del tutto spalancate sull’erba, rilassate,
mentre il corpo di lui scivolava sul suo. Ryker le sciolse la
cordicella che le teneva fermi i vestiti e quelli si aprirono si-
lenziosi, scoprendole il seno sodo. Le labbra bagnate di lui
scesero a baciarli e Thari ansimò inarcando la schiena.
Le infinite tonalità del blu invasero il cielo del Sahara, fuori
dalla terrazza coperta, e, dentro, il fuoco delle torce si dipin-
geva danzante su di loro. La ragazza chiuse gli occhi, mentre
il desiderio stillava umido da lei alla ricerca di un sentimento
vivo e passionale. La bocca di lui disegnava percorsi invisibili
sul corpo nero, che fremette sotto le sue mani candide e sicu-
re quando le sciolsero la gonna; le piume grigie carezzarono i
fili d’erba in un breve sussulto. Thari prese il viso del ragazzo
e lo attrasse al proprio; lo guardò negli occhi, senza esitazio-
ni. «Se nella vita il mio cuore ha mai desiderato qualcosa più
dell’aria, quel qualcosa sei tu. Adesso.»
L’errore, il tradimento, la colpa.
L’amore. L’amore fulgido, l’eternità di un sentimento senza
luogo, senza spazio, senza misura. Luce e ombra di un estre-
mo volere, impalpabile egoismo.
Non posso.
La menzogna, l’omissione, la colpa.
108
Ryker le sfiorò i capelli dai riflessi argentei e la baciò a lun-
go. Poi si staccò da lei e le baciò il naso. «Thari, non so se ri-
vivrò questo momento solo nei miei attimi più onirici, né
come finirà questa storia; ma so che, qualsiasi cosa tu sia, sei
la cosa più bella che potessi avere e il demone più dolce che
potessi conoscere.»
L’amore. Lucida follia; lacrima di gioia, attraente delirio di
anime sognanti. La mente, il corpo: il risucchio dei sensi, ol-
tre la logica delle leggi universali.
Non posso.
L’omissione.
Il tradimento.
La colpa.
L’amore. Thari gli rivolse un sorriso disarmante, carico di
tutto ciò che provava per lui. Con la punta delle dita gli per-
corse la colonna vertebrale in tutta la sua lunghezza, fino alle
natiche; lo liberò della stoffa drappeggiata sulla vita e fece ri-
salire le mani. Gliele poggiò sul petto e osservò il diamante
corvino sul bianco velluto; le fece scorrere su di lui lentamen-
te e lo attrasse a sé.
Ryker assaporò quel bacio caldo, assaporò ogni parte di lei
e lei si sciolse, languida, sotto di lui. L’intensa voluttà rim-
bombava nelle vene e il tempo le parve, per una volta, magi-
camente infinito. Il risucchio dei sensi.
Trattenne il respiro quando lui si fece strada dentro di lei:
si aspettava che sarebbe fuggito da un momento all’altro, che
109
avrebbe scoperto qualcosa di non umano che lo avrebbe ter-
rorizzato. Tuttavia lui incastrò lo sguardo nei suoi profondi
occhi color pece e gustò ogni istante di quel percorso, fino a
che arrivò alla fine ed entrambi gemettero.
L’amore. Oltre la logica delle leggi universali, e parte di
esse.
Thari socchiuse le labbra in un muto grido di dolore e pia-
cere; lui scese a baciargliele e lei chiuse le palpebre. La sua
mente contemplò il sentimento delicato che scaturiva dal
cuore di lui e lei si beò della sensazione di quell’intreccio per-
fetto, di lui dentro di sé, del bianco e del nero, dell’umano e
del demone. Erano forgiati insieme nello spazio impalpabile
di un tramonto senza fine. Il mio amore ti ucciderà. «Sono
tua, ora.» sussurrò, cingendolo con le gambe.
«Sarai mia per sempre», replicò Ryker con voce roca, senza
sapere che quelle parole piene di una irreale promessa di e-
ternità racchiudevano un doloroso nocciolo di verità.
Lei fece per rispondere, ma lui uscì e affondò nuovamente
dentro di lei. Thari avvampò e il suo bacino si sollevò, avido,
verso di lui.
110
Capitolo 12
I looked away, Then I looked back at you,
You try to say, The things that you can’t undo
If I had my way, I’d never get over you.
Today is the day I pray that we make it through.
Make it through the fall.
Make it through it all
Fall to pieces - Avril Lvigne
Le ciglia sbatterono appena. Lunghe, curve, nere. Nere su
nero. Sugli occhi che tanto lo avevano spaventato. Ryker pre-
se il viso di Thari tra le mani e le sfiorò le labbra continuando
a guardarla.
La morte, le tenebre, due pozzi senza fine.
Conosceva quegli occhi da quando era bambino, ne cono-
sceva la paura che suscitavano in lui. Tuttavia, allora non co-
nosceva la dolcezza e l’umanità di quello sguardo che credeva
solo di sognare nei momenti più tristi.
111
Non c’era tristezza, però: c’erano due occhi che poteva a-
mare. E non importava cosa sarebbe successo, era troppo ir-
reale, troppo lontano. Non desiderava neppure pensarci, an-
che se avrebbe dovuto, avrebbe dovuto fare un sacco di cose;
eppure era là, con lei, un mezzogiorno infuocato oltre il ter-
razzo, sul deserto silenzioso.
Thari si mosse appena e lo strinse.
Lui sorrise, ricambiandola. «Sai cos’è la cosa più strana, te-
soro? Le tue ali.»
«Le ali?»
Ryker annuì. «Sì. Ti stupisce?»
Lei si strinse nelle spalle. «Pensavo che fosse il colore della
pelle. O gli occhi. O i capelli bianchi.»
«No. Sono le ali, perché il resto è umano, molto umano, e
se non lo fosse lo è diventato insieme a te. Ma le ali… Thari,
sono scomodissime!»
La ragazza ridacchiò. «Signor Mancini, come può dire una
tale eresia? Le ali sono la parte del corpo più comoda e utile
al mondo.»
«Più del cuore e del cervello?»
«A parte quelli.»
Ryker la costrinse a guardarlo piegandole il viso. «Non
penso che siano le uniche cose utili, o più utili, quando fai
l’amore con me.»
112
Lei rise di nuovo con il suono cristallino che sgorgava dalla
sua bocca. «Va bene, come vuoi; ma le ali sono utili e sono
comodissime. Non sai quante cose non potrei fare, senza.»
«Per esempio?» chiese lui corrugando la fronte.
Gli lanciò un’occhiata, fingendo impazienza. «Volare?»
«Non sono un sacco di cose», commentò Ryker di riman-
do.
«Sì, invece», protestò «è che tu…»
«Non puoi capire», concluse per lei.
Thari scosse il capo. «Non vuoi capire: non è possibile sin-
dacare sull’utilità del volo, delle ali, dell’equilibrio. È così ov-
vio.»
Il ragazzo le tirò una ciocca. «Penso proprio che tu sia ter-
ribilmente donna, Nefthari, e quindi vuoi sempre avere
l’ultima parola.»
Lei non replicò per qualche minuto, lasciando pensare a
Ryker di averla offesa, anche se lui non ne vedeva il motivo.
«Sai», disse infine «nessuno mi chiama Nefthari.»
«Peccato. È un bel nome, per una come te.»
«Come lo conosci? Il nome intero, intendo.»
Lui ci dovette pensare alcuni istanti. «Lo ha detto Iside,
quando l’ho conosciuta, sul Colosseo. Oh, cielo, sul Colosseo!
Mai avrei pensato di poter dire sul Colosseo, al posto di ac-
canto, davanti, dentro; è tutta colpa tua.»
Lei lo guardò con un’intensità tale che lui ne fu quasi imba-
razzato. «Lo so. Non avrei mai dovuto farti tutto questo, se io
113
fossi stata attenta alle mie stupide emozioni ti avrei evitato
tante sofferenze.»
Lui fece per ribattere e dire che non era più certo di quella
realtà, ma lei, con una forza che lui in quel momento non si
aspettava, lo spinse da una parte con una sola mano.
Ryker sbatté le palpebre; troppo sorpreso anche per chie-
derle cosa accidenti le fosse venuto in mente, la guardò alzar-
si in piedi e piegarsi poco più in là per prendere la spada.
Quando si voltò, lo sguardo di lei era quello più duro e meno
umano che le conoscesse.
Aprì la bocca, ma qualcosa piombò nella terrazza con uno
svolazzare di piume grigie, e dalle sue labbra non uscì nulla.
Thari strinse l’impugnatura assumendo la posizione tipica
di quando combatteva. «Stai violando l’abitazione di Iside
senza il suo consenso, puoi andare incontro a un richiamo uf-
ficiale in merito. Non sei la benvenuta, Sekhmet.»
L’altra sollevò un sopracciglio e si toccò i lunghi capelli se-
tosi. «Senti da quale pulpito. Sono venuta qua giusto per por-
tarti da chi di dovere. Riportare te e il tuo amichetto umano
al cospetto del capo delle milizie.»
«Cosa?»
«Hai capito bene. A quanto pare, qualcuno ha spifferato
tutto e tu hai finito di giocare all’umana innamorata. Se tutto
va per il meglio ti sarà tolto il tuo corpo da donna e dovrai
seguire le ultime persone che devono rinascere, puoi solo
sperare che sia così.»
114
Thari alzò la spada. «Stai mentendo.»
«Assolutamente no.»
«Perché non sono venuti loro a prendermi?»
L’altra indicò con il capo Ryker, che era rimasto immobile
in un angolo del terrazzo, sul prato. «In realtà devo prendere
lui, ma ho pensato che fosse utile richiamarti all’ordine, so-
rellina. In fondo, non avrai libertà per molto tempo: sai che
per queste cose c’è un processo.» Schioccò la lingua. «O forse
non lo sai perché sei mezza umana? Ti è sfuggito?»
«Stai mentendo», ripeté.
«Sul fatto di essere mezza umana? Oh, no; lo sanno tutti.»
La ragazza strinse gli occhi e parlò con timbro fermo e sicu-
ro. «Non su questo.»
«Puoi crederci o meno. Io mi prendo il fanciullo e tu puoi
fare ciò che vuoi; non mi interessa.»
Thari poggiò la punta della spada su quella di Sekhmet.
«Prendilo, allora», sibilò.
«Subito.» Il demone affondò sulla ragazza, che scartò sulla
destra e cercò di colpirla di nuovo.
I muscoli si tesero all’istante sotto la pelle scura, le loro la-
me stridettero al contatto forzato e rapido, gli occhi di Se-
khmet Neseret lampeggiarono di fulmini vermigli nella pro-
fondità delle tenebre, le loro ali sbatterono nell’aria con colpi
poderosi e controllati.
115
Quando l’arma di Thari sfiorò il fianco della donna, quella
indietreggiò, creando una certa distanza tra loro due. «La-
scialo tornare al suo mondo, Thari.»
«Lo farò. A tempo debito, quando la situazione si risolverà,
ma di certo non lo lascerò nelle tue mani avide di vendetta.»
Con la coda dell’occhio vide il ragazzo alzarsi e osservarle da
poco lontano.
L’altra inclinò un poco il viso. «Pensi davvero che sia que-
sto il motivo? In così tanto tempo non sei riuscita a capire
quale fosse il nostro dovere? Il tuo dovere come Figlia di A-
nanke, con obblighi e doveri precisi, con un equilibrio uni-
versale da rispettare. Lui non può essere tuo e tu non puoi
continuare a fuggire: tornerà alla sua vita e tu pagherai le
conseguenze delle tue azioni.» Le lanciò un’occhiata algida.
«Non sono io a decidere queste regole. Come non sono stata
io a decidere di donarti un corpo degno di nostra madre. E sì,
io non ero d’accordo perché non sei un demone puro: saresti
caduta in errore, prima o poi, e quell’errore è arrivato. Non
mi dispiace affatto dire che io lo avevo previsto, Thari. Que-
sta è la realtà, e tuttavia non mi interessa torcere neppure un
capello a quel bambino: finiti tutti i tuoi compiti perderai la
tua essenza di demone della rinascita, ed è questo quello che
conta, perché tu non lo sei!» La fissò con il suo sguardo li-
quido e si avvicinò di un paio di passi. «Non è vendetta; è
giustizia.»
116
«Potresti avere ragione, ma non te lo lascerò prendere co-
me se fosse un giocattolo cui hai diritto.»
Sekhmet non aspettò neppure che finisse la frase, le saltò
addosso con la spada inclinata verso di lei. La luce delle torce
baluginò sulle armi bianche e, colpita alla base del pollice con
un taglio rapido e profondo, Thari fu costretta lasciare
l’impugnatura.
Fu questione di attimi. La ragazza arretrò e scansò alcuni
colpi di spada, ma non aveva nulla per difendersi; sapeva
come sarebbe finita e si maledisse una volta di più. Lanciò
uno sguardo a Ryker, subito dietro le spalle del demone, per
comunicargli tutto il suo dispiacere, ma lui interpretò quel
gesto in modo diverso.
Con tutta la forza che aveva, il ragazzo corse e balzò al collo
di Sekhmet. Lei emise un suono sordo, con un movimento
troppo repentino per lui, indietreggiò spingendo con le ali e
lo sbatté contro il muro; prima che lui potesse comprendere,
lo afferrò per il collo, rigirandolo e stringendolo a sé.
Thari, che aveva ripreso la propria arma, si bloccò vedendo
che quella di Sekhmet era alla giugulare del ragazzo. «Non
puoi farlo rinascere», le uscì un mormorio incerto.
Lei piegò ancora di più il gomito intorno alla gola di lui.
«Non voglio farlo rinascere. Voglio portare lui, e te con lui, al
vostro posto.»
Ryker boccheggiò, pieno di rabbia, premendo le dita sul
braccio di lei. «Io non voglio andare da nessuna parte.»
117
«Del resto, lo sai, non puoi tenerlo qui contro la sua volon-
tà», continuò Sekhmet senza ascoltarlo.
«Non è contro la mia volontà», insistette lui.
«Ah, no? Strano.» Lo strattonò leggermente. «Forse perché
tu, Thari, non gli hai detto che tra meno di un mese devi uc-
cidere sua sorella.»
Il silenzio che seguì fu una stilettata di dolore dentro il pet-
to; mura di castelli che si sgretolavano inesorabili al suolo,
sotto i piedi. Tutto, ma non Lulù. Ryker alzò gli occhi verso
Thari, la quale aprì la bocca senza essere in grado di farne
uscire mezza parola; si sforzò di deglutire, distogliendo lo
sguardo da quello angosciato e incredulo di lui.
L’omissione, il tradimento, la colpa.
Abbassò l’arma, puntata verso di loro.
«È vero?» domandò lui con un filo di voce.
Lei mosse appena la testa in un movimento circolare, come
se non fosse capace di fare altro.
«Certo che è vero.» Sekhmet lo sentì allentare la presa sul
proprio braccio.
«È vero?» chiese di nuovo.
Il mio amore ti ucciderà. «Sì…» sussurrò.
Lui esitò alcuni istanti, poi esplose. «Non seguivi me, dopo
mia madre. Seguivi lei.»
«Io…»
«Mi hai mentito. Tutto quello che hai detto era una menzo-
gna. Hai fatto tutto questo perché dovevi uccidere lei!»
118
Lei scosse il capo con vigore. «No, Ryker. Dovevo seguire
lei, ma mi sono innamorata di te, di quello che sei, di come
vivi le tue emozioni; è la verità.»
Tutto, ma non Lulù. Lei doveva vivere, lei doveva essere fe-
lice. Lei ne stava uscendo con tutta la sua forza. Non lo meri-
tava, nessuno di loro poteva meritare un’altra simile trage-
dia. «Se fosse così, me lo avresti detto.»
«Ben detto», osservò Sekhmet che sorrise soddisfatta die-
tro i capelli color cenere del ragazzo.
Lui lasciò cadere le braccia lungo i fianchi. Dentro di sé il
panico lo stava assalendo, ma non voleva farlo vedere, perché
la rabbia per tutto ciò che gli era successo, per le bugie, per
quei sentimenti troppo violenti, lo avrebbero fatto urlare per
il resto della sua vita. «Portami a casa, demone. Non voglio
ricordare nulla di tutto questo.» L’asprezza di quella frase
colpì Thari come una pugnalata nello stomaco.
Sekhmet lasciò la spada e lo afferrò per la vita, compiaciuta
di quanto le cose fossero state più brevi del previsto. A volte
bastavano poche parole e gli eventi prendevano pieghe diver-
se, inspiegabili, dure. Un attimo prima lui desiderava salvare
una persona e forse ucciderne un’altra; ora chiedeva con te-
tra fermezza di essere portato via dalla seconda e di abban-
donare alla propria sofferenza la prima.
«Mi dispiace», cercò di dire ancora la ragazza.
«Lo hai sempre detto, ma sono solo parole.» E le sue parole
erano scagliate verso di lei come coltelli affilati.
119
L’amore. Lucida follia; oltre la logica delle leggi universa-
li, e parte di esse. «Lo so. E so cosa lei significhi per te. Ma
non potevo dirti di lei, non potevo dirti quanto ti amassi.»
Fece mezzo passo insicuro verso di lui.
Ryker voltò il viso e guardò gli occhi disumani di Sekhmet.
«Portami via. Ora!» Crudele, giusto, ferito.
Il demone gli fece chiudere le palpebre e lui non vide il cor-
po di Thari cedere sotto quel dolore senza fine, nei meandri
dilaniati dell’anima.
L’impotenza.
La colpa.
L’amore.
120
Capitolo 13
I know you’ll be a star
in somebody else’s sky, but why,
why, why, Can’t it be, can’t it be mine?
Black - Pearl Jam
Il silenzio era un tormento inaudito. E durava da troppo
tempo.
Lei aveva voglia di vivere, vivere come un’umana, sentire
l’umanità della sua pelle, del suo sangue, i battiti di un cuore
vermiglio, in un corpo nero come la notte; e invece tutto sa-
rebbe finito.
Ora che ti ho trovato, ora che mi hai trovata.
Thari sospirò.
Era relegata nella dimensione dei demoni, in attesa, a me-
ditare sulle leggi infrante. Troppe.
Poi lo scalpitio di piccoli piedi dentro scarpe morbide rie-
cheggiò nella sua camera. Finalmente un rumore. Una donna
121
entrò attraversando il grande arco che dava verso ovest, la
luce rosata del sole brillò sui capelli corvini.
«Madre…» mormorò Thari con un piccolo, impacciato in-
chino.
L’altra piegò il capo in un breve segno di saluto. «Ciao,
Vanth.» Aveva una voce dolcissima, calda, che usciva dalle
labbra rosate con piccole note tondeggianti, quasi si potesse-
ro toccare. «È tanto tempo che non ci vediamo. Mi dispiace.»
Fece un passo verso di lei, ma Thari si allontanò, spostando-
si; nell’aria pulviscoli dorati danzarono allegri.
Abbassò appena gli occhi.
«Non sono quella che gli umani definiscono una madre
presente, vero?»
Thari fissò lo sguardo sulle tende color pesca. «Non sei
neppure umana, se è per questo, madre.»
«No, non lo sono. Ma conosco l’umanità da un tempo mol-
to lungo, conosco anche le loro critiche.» Sorrise mostrando
un’espressione deliziosa. «E conosco le loro emozioni, la loro
forza, il loro potere su di noi. Loro…»
«Lo sapevi?» la interruppe sua figlia, brusca.
Ananke la guardò incerta. La pelle liscissima, color noce,
sembrava brillare d’oro.
«Sapevi che sarebbe successo, che avrei fatto questa fine,
che prima o poi avrei fallito.»
L’altra scosse il capo. «No. Non potevo saperlo; nemmeno
tu potevi saperlo, Vanth. Nessuno ha questo potere e quello
122
che sei, quello che sei oggi, tutte le tue azioni, non nascono
dal tuo sangue.» Aprì una mano e con grazia indicò intorno a
sé. «Si ostineranno sempre a sostenere il contrario, tuttavia
non è così. Siamo demoni: siamo umani anche noi, in parte;
e tu, tesoro, non hai fallito. Hai fatto le tue scelte e le hai fatte
con il cuore.»
Thari piegò il capo e lo scosse forte. «No, non è così. Io…»
Strinse i pugni. «Io ho le ali, ho la pelle nera, vivo la dimen-
sione dei demoni; io provo piacere nel far rinascere gli uma-
ni. Ma il mio sangue è rosso.»
«Non fare quest’errore, figlia mia, non fare l’errore che
fanno tutti: non guardare solo fuori. È dentro che devi sco-
prire chi sei e cosa desideri; non ti dirò che sia facile, ma pro-
va a farlo.»
La ragazza scosse ancora la testa, con meno forza. «È tutto
così complicato, lo è sempre stato. Desidero solo una vita
semplice: rispondere alle esigenze del mio corpo e a quelle
del mio cuore, ma farlo mi ha portata a perdere tutto.»
Sua madre sollevò leggera una mano e le accarezzò una
guancia. «Lo so; per me la vita è stata assai più facile, eppure
ho dovuto fare le mie scelte, e nelle nostre lunghissime vite di
scelte bisogna farne molte.» Gli occhi cangianti di Ananke la
scrutarono, passando dal nero al viola e infine all’azzurro.
«Tuo padre» continuò facendo un passo indietro e guardan-
do a sua volta le tende «è stato uno dei pochi che ho amato:
non sarei stata con uno sciocco, effimero umano, se non lo
123
avessi amato. So che questo ha portato alla tua sofferenza,
più della mia, e mi dispiace dire che non rimpiango ciò che
abbiamo vissuto.» Per un attimo lo sguardo si perse lontano
nel tempo, poi tornò a posarsi sulla figlia. «Le leggi oggi sono
altre, forse più giuste, io non ho il diritto di sindacarle. Desi-
deravo solo dirti che sei frutto dell’amore. E che per quanto
ristrette, hai la possibilità di fare delle scelte anche tu; cosa
desideri di più di tutto in questo momento?»
«Salvare Ryker.»
«Non gli accadrà nulla: quando il capo delle milizie parlerà
con voi, lui perderà la memoria di questi ultimi eventi e tor-
nerà alla sua vita.»
Con uno scatto Thari si allontanò di nuovo. «Non è questo
il punto: si tratta di Lucrezia; se la farò rinascere, lui impaz-
zirà. È così difficile da capire?»
«No, non lo è. Ma a te importa così tanto se lui impazzirà o
meno? Non ricorderà nulla di tutto ciò.»
In risposta, Thari le rivolse un’occhiataccia che non avreb-
be potuto permettersi, trattandosi di Ananke, ma la donna
non si scompose né glielo fece notare. Sospirò. «Hai due
giorni per riflettere su ciò che più desideri.»
«So già cosa desidero. Ma nulla dipende da me», replicò la
ragazza con meno foga.
«Sì, è piuttosto evidente; tuttavia, come dicevo, non è vero
che nulla dipende da te.» Sua madre fece un passo indietro;
gli occhi si tinsero di un tenue verde acqua. «Rifletti a fondo,
124
Vanth, perché esiste un modo e quel modo dipende solo da
te. Se seguirai alcune strade, forse io potrò aiutarti; ma quelle
strade le devi prendere da sola.»
***
Thari rimase immobile, così come solo un demone poteva fa-
re. Poi delle mani nere e amiche la toccarono sulla spalla,
prima di darle un buffetto rapido su una gota tesa.
«Ah, dolce mesto sguardo, tenera infante. Mi hai chiama-
ta?» Iside aprì le braccia, senza attendere risposta.
E Thari non rispose se non gettandosi in quell’abbraccio. Si
tennero strette, ma non troppo a lungo perché il tempo a loro
disposizione era pochissimo. «Perderò tutto.» mormorò la
ragazza sulla spalla dell’amica. «Perderò le mie qualità di
demone e con essa una parte di me, sarò relegata a un mondo
in cui non potrò avere contatti con gli umani, in cui non po-
trò seguire le loro vite. E perderò Ryker perché dovrò far ri-
nascere sua sorella.» Soffocò un singhiozzo e si allontanò da
Iside. «Avrei desiderato avere più tempo, avrei desiderato
fargli capire chi ero davvero, chi siamo noi figlie di Ananke:
avrei voluto fargli capire che a volte siamo anche degli angeli
custodi.»
Iside dondolò la testa.
«Beh, è così che li chiamano gli umani, ma era complicato;
è sempre stato complicato con loro, le nostre logiche sono…
oh, Iside», mormorò «Ho sbagliato tutto, così come tutti mi
125
facevano sempre presente; alla fine hanno avuto ragione lo-
ro.»
«Lo pensi davvero?»
Thari si strinse nelle spalle, lisciandosi la stoffa del gonnel-
lino. «Ananke dice che non dipende dalla mia natura.»
«Ananke non permette alle menzogne di invadere le sue
labbra.»
Thari annuì e prima di continuare si asciugò le lacrime dal
viso, quindi alzò il capo con più decisione. «Nostra madre mi
ha detto di riflettere perché esiste un modo, credo alludesse a
Lucrezia, tuttavia io… non lo conosco. Come posso farla ri-
manere sulla terra ancora a lungo?»
L’altra sbatté le palpebre.
«Mi ha detto di riflettere a fondo, che dipende solo da me,
da ciò che desidero. I giorni sono passati e io non ho compre-
so. Lei non ha voluto dirmi nulla, nessuno ha voluto dirmi
nulla; so che c’è qualcosa che non mi è stato detto, forse per-
ché sono Mezzosangue?»
Di nuovo l’amica sbatté le palpebre.
«Iside!» la voce di Thari uscì con un lamento strozzato.
«Tu lo sai? Iside, ti prego, se lo sai dimmelo. Qual è questo
modo, perché nessuno vuole dirmelo?»
Il demone deglutì e si voltò.
«Sono pronta a tutto e tu sei mia amica, l’unica che io ab-
bia, perché ci metti tanto a dirmelo? Rimangono pochi minu-
ti.»
126
E proprio allora uno dei messaggeri del capo delle milizie la
chiamò.
Iside gli lanciò un’occhiata, quindi afferrò un polso a Thari.
«Non vorrei proferir parola proprio perché siamo strabilianti
amiche, perché siamo sorelle, ranocchietta, tu incarni la so-
rella migliore che si possa possedere e noi ne possediamo fin
troppe.» La guardò in quegli occhi così umani, così diversi
dai suoi. «Ti perderò in ogni caso, le mie membra brameran-
no infinito odio e terribile vendetta, quando non sarai più
meco. E se ora dalle mie labbra uscisse la verità, codesta
vendetta sarà ancora peggiore.»
«Per favore…» supplicò Thari, senza capire.
Il messaggero si schiarì la voce, ma Iside non smise di par-
lare.
«Te lo dirò», sussurrò «perché possiedi il diritto di sceglie-
re; solo per questo.»
127
Capitolo 14
I find the love
that I know that I miss. I lost my love, my life,
that night.
Last Kiss - Pearl Jam
L’alta tecnologia dei demoni e di tutte le creature superiori
invadeva la sala rossa del giudizio. Un’architettura dell’antico
Oriente rendeva all’occhio umano un complesso insieme di
arte e comodità. Passato e futuro. Ma, in quel momento, nel-
la sala era presente un unico umano ed era, fra l’altro, semi-
cosciente.
Thari si morse l’interno della guancia nel guardarlo ancora
una volta, chiuso in una gabbia invisibile, lo sguardo perso.
Ryker aveva passato gli ultimi giorni in uno stato catatonico e
non solo per i poteri derivati dai demoni: era come se lui
stesso non accettasse nulla di tutto ciò.
Tuttavia l’unica a esserne preoccupata era Thari.
128
Gli altri presenti si erano appena tranquillizzati perché si
era sparsa la voce che il Principe delle Milizie Superiori fosse
di buon umore e ben disposto nei confronti di tutti; non che
di solito non lo fosse, però ogni demone sapeva che odiava
scendere in quel livello e faceva rispettare le sue leggi con
una severità indifferente.
Un demone, in forma di bambino umano dai capelli rossi,
annunciò l’entrata del capo delle milizie, e per alcuni istanti
Thari pensò di gridare. Invece rimase in silenzio, osservando
la luce che entrava da dietro le pesanti tende bordeaux.
Una luce acquosa, chiara, in grado di muoversi nell’aria,
nello spazio, nel tempo, come una bolla di sapone che brilla
di luce propria. La cosa più bella che ognuno di loro avesse
mai visto, e anche la più temibile: nella sua bellezza,
quell’essenza incuteva un timore atavico.
«Messaggeri delle milizie, Ananke, Figlie di Ananke e Figli
della Luce, benvenuti», salutò.
Le sue parole si diffusero nell’etere senza voce, una sempli-
ce, dolce vibrazione che raggiungeva le menti di chi gli era
davanti. Un pubblico che si chinò di fronte a lui per alcuni at-
timi.
Ryker rimase immobile, gli occhi sgranati, la sensazione di
avere qualche essere dentro di lui: sebbene potesse vedere e
udire, percepiva quell’essere, qualsiasi cosa fosse, come se ri-
siedesse dentro il proprio corpo. Fece un passo indietro,
129
quando si sentì guardato da quella creatura inumana, nono-
stante quella non avesse un paio d’occhi in alcun punto.
Scontrò la schiena contro la sua gabbia invisibile e rimase a
fissare il Principe delle Milizie, che ora parlava con voce soa-
ve, lenta, quasi una carezza. Benché la testa gli dolesse, ten-
tava di ascoltare con attenzione.
Anche Thari ascoltava e non perse una parola né del di-
scorso del capo, né del resoconto dei Messaggeri. La vita di
lei, da quando era nato Ryker, venne raccontata con
un’infinità di dettagli, narrando di lei, della famiglia Mancini,
di Iside, di Sekhmet, di ogni mortale e immortale che aveva
avuto un ruolo in quella storia.
Oltre alla voce cadenzata dei Messaggeri, vi erano il silen-
zio assoluto e il respiro di Ryker.
«In questo processo» concluse uno dei Messaggeri «si ri-
tengono colpevoli Vanth Kriera Nefthari, Hskateltre Mpteri
Iside, Sekhmet Neseret e altre due Figlie di Ananke, già rina-
te, e un Figlio della Luce, già rinato anche lui. I Messaggeri
delle Milizie lasciano la parola al giudizio del Principe delle
Milizie.»
Sull’essenza acquosa passarono vari colori, prima che si
muovesse con un movimento fluido verso Sekhmet, che si in-
ginocchiò. «Figlia di Ananke, sei accusata di aver rischiato la
rinascita non programmata di Ryker Mancini, qui presente.
Come ti dichiari?»
130
Il demone abbassò il capo, chinandosi in avanti, e i suoi
lunghi capelli sfiorarono il pavimento. «Non colpevole, Prin-
cipe», rispose senza esitazione.
Thari aggrottò le sopracciglia, guardandola; era in piedi, a
qualche metro da lei. Tra di loro si trovava Iside, che ora si
chinava come aveva fatto la loro sorella di fronte alla luce
splendente. «Figlia di Ananke, sei accusata di aver fatto rina-
scere un Figlio della Luce in una battaglia non autorizzata.
Come ti dichiari?»
«Non colpevole, Principe», replicò anche lei senza tenten-
namenti.
Il capo delle milizie si avvicinò a Thari, senza commentare,
nessuno poteva conoscere i suoi pensieri e i suoi voleri. La
ragazza fissò quella luce bella e inquietante per alcuni istanti,
quasi volesse comprenderne l’essenza; come lei, tutti la igno-
ravano, e mai l’avrebbe conosciuta nelle sue profondità, nep-
pure ora che la sua vita da demone della rinascita stava per
finire.
Si genuflesse e piegò il capo attendendo la domanda. «Fi-
glia di Ananke, sei accusata di aver fatto rinascere due tue so-
relle. Come ti dichiari?»
«Colpevole, Principe.»
Vide l’occhiata di dissenso che le aveva lanciato Iside e
chiuse gli occhi.
131
La luce non si mosse: come tutti già si aspettavano, rimase
davanti alla ragazza. «Sei accusata di aver mostrato il mondo
superiore a un umano. Come ti dichiari?»
«Colpevole, Principe.»
L’ombra vibrò appena. «Figlia di Ananke, sei a conoscenza
delle conseguenze di questo atto?»
«Sì, Principe.»
«Sai che perderai il tuo compito di Demone della Rinascita,
alla fine del tuo ultimo compito e che il tuo corpo subirà delle
modifiche? Sai che non potrai più varcare la dimensione de-
gli uomini?»
Lei si morse un labbro. «Lo so, Principe», mormorò.
«Figlia di Ananke, Vanth Kriera Nefthari, sei accusata di
esserti innamorata di un umano, di averlo indotto a ricam-
biare il tuo sentimento, di avere avuto rapporti sessuali con
lui e di aver quindi violato una delle leggi più importanti del-
le relazioni tra uomini e demoni. Come ti dichiari?»
«Non mi ha indotto», biascicò Ryker schiacciato sul muro
della gabbia che esisteva solo per lui.
Il capo delle milizie non badò a lui; nel corso di tutto il pro-
cesso lo aveva guardato solo una volta e riteneva che le sue
parole non fossero importanti. La protesta, qualsiasi essa
fosse, non giungeva alla luce densa, ferma nella sala, come se
non avesse proferito parola.
Thari, però, aprì le palpebre e sollevò il capo. Lui aveva gli
occhi cerchiati, in respiro appena ansimante, le mani premu-
132
te su qualcosa che solo lui sentiva. I loro sguardi si incontra-
rono e lei si sentì stringere lo stomaco. Tornò ad abbassare la
testa.
La colpa. L’amore. «Colpevole. Principe.»
Senza una parola, la luce divenne azzurrina e poi rosata,
mentre raggiungeva il posto di partenza. Per molto tempo
gravò un silenzio rotto solo dall’ansimare del ragazzo.
Poi il demone bambino si avvicinò alle tre donne demone e
si librò nell’aria raggiungendo l’altezza dei loro visi.
«Hskateltre Mpteri Iside, Sekhmet Neseret, siete ritenute
colpevoli e per questo non potrete portare a termine i vostri
compiti per cento cicli solari, né potrete entrare nel mondo
degli umani per un intero ciclo solare.» disse con la sua voce
da bambino che risuonò, delicata, in tutta la sala.
Iside e Sekhmet non si guardarono, nell’estrarre le proprie
armi e consegnarle al piccolo demone. Il bambino prese le
spade bianche e le fece dissolvere nelle sue manine chiare e
morbide; quindi si mosse verso Thari, mentre le due donne si
allontanavano dal punto in cui erano state fino ad allora.
«Vanth Kriera Nefthari, sei colpevole di aver infranto una
delle leggi universali delle relazioni tra uomini e demoni, di
aver mostrato il mondo superiore a un umano, di aver fatto
rinascere due tue sorelle, Figlie di Ananke; e per questo mo-
tivo dovrai lasciare per sempre il ruolo di demone della rina-
scita e il corpo che ora ti appartiene, e non potrai più accede-
re al mondo degli umani; questo da quando l’ultimo umano a
133
te affidato sarà stato fatto rinascere, e quindi tra undici cicli
solari.»
Thari annuì fissando gli occhi smeraldini del bambino, poi
inspirò, proprio mentre il demone stava per tornare sui suoi
passi. «Aspetta», sussurrò. Sollevò gli occhi sulla luce ora
bianca, bianchissima. «Principe… Principe delle Milizie, io
ho…» la voce le tremò «Io ho una richiesta da farvi.»
Tutti gli occhi si voltarono verso di lei, occhi profondi, dai
diversi colori, tutti inumani. La luce acquosa sembrò defor-
marsi un poco, prima di spostarsi nella sala e raggiungerla; le
girò attorno e lei si costrinse a rimanere con la testa alta.
«Ebbene, quale richiesta?»
La ragazza strinse i pugni un paio di volte, manifestando il
suo umano nervosismo. Si voltò a guardare Iside, in piedi ac-
canto a Ryker e senza la sua spada. L’amica piegò il capo da
un lato e le fece un sorriso che non raggiunse gli occhi liquidi.
Thari lanciò un’occhiata al ragazzo, che con la fronte ag-
grottata e i capelli scompigliati seguiva la scena senza batter
ciglio, come se nonostante lo stordimento cercasse di rima-
nere vigile. «Principe, mi è stato ricordato che, quando un
demone della rinascita non vuole far rinascere un umano,
può rifiutarsi di farlo.»
La luce si fermò. Thari vide sua madre, Ananke, annuire e
incrociare il suo sguardo. Ryker emise un mugolio, pensando
che finalmente quell’essere era sorpreso da qualcosa.
134
«È vero. E ti hanno anche ricordato, demone della rinasci-
ta, le conseguenze di tale gesto?»
«Sì, mio principe», rispose Thari con voce più sicura. «Ne
conosco le conseguenze e sono pronta ad accettarle a favore
della vita umana e attuale di Lucrezia Mancini, sorella di
Ryker Mancini, qui presente. Affinché non rinasca se non per
cause naturali.»
Thari sapeva che la stavano fissando, ed era anche abba-
stanza certa che il principe stesse facendo altrettanto.
Ryker grugnì appena e allungò una mano per toccare un’ala
di Iside, benché la gabbia lo bloccasse. «Che succede?» le
domandò. «Che vuol dire? Cosa faranno a mia sorella?»
Iside gli lanciò un’occhiata incomprensibile.
Il bambino demone svolazzò nell’aria con il suo volo inno-
cente e i messaggeri delle Milizie lo seguirono, passando in
due file accanto a Thari, che senza una parola li seguì.
Poi la ragazza ci ripensò, creando un certo mormorio nella
stanza. Raggiunse Ryker. Solo lui era bloccato da quel muro
invisibile, sicché lei allungò una mano, per prendere quella di
lui.
«Tua sorella vivrà», sussurrò, pur sapendo che tutti, lì den-
tro, potevano sentire.
Ryker si rilassò e le sorrise, stringendole la mano a sua vol-
ta. «Hai visto, alla fine è stato facile; mi dispiace se non po-
trai più…»
135
Thari gli poggiò un dito sulle labbra. Gli occhi azzurri, la
pelle chiara, la purezza dei suoi sentimenti, l’imperfezione
dell’essere un semplice umano. «Torna a casa, Ryker, prendi-
ti cura della tua famiglia come hai sempre fatto.»
Lui sbatté le palpebre; un senso di vuoto gli attraversò le
viscere. Il tuo amore mi ucciderà. «E tu cosa farai?»
Thari gli accarezzò il viso con la punta di un’ala, notando
con la coda dell’occhio il bambino demone fluttuare verso di
lei con i suoi folti capelli cremisi. «Non importa: non ricorde-
rai niente di tutto questo.»
Ora che ti ho trovato, ora che mi hai trovata.
Ti perdo.
Lo lasciò e seguì il demone; non si voltò mai.
Di nuovo Ryker si schiacciò sulla gabbia per seguirla con lo
sguardo, perché all’improvviso gli parve tutto privo di logica.
Non voleva dimenticare, anche se lo aveva detto. Voleva ri-
cordarsi tutto, ricordarsi di lei, di loro due. Una sottile rabbia
impotente gli fece stringere i pugni.
«Iside, fai qualcosa!»
Lei lo fulminò, tuttavia lui non demorse.
«Non posso dimenticare tutto questo.»
«Invece lo farai», quasi ringhiò mentre alcuni Figli della
Luce lasciavano la stanza in fila indiana.
«Oh, ti prego», quasi piagnucolò. «Allora, ti prego, promet-
timi, Iside, per favore, prometti che per tutta l’eternità che
136
dovete vivere le ricorderai quanto la amo. Io non gliel’ho det-
to, io…»
Lei fece un gesto con la mano. «Sei libero», disse solo, e fe-
ce per allontanarsi. Ryker afferrò Iside per un braccio e la
strattonò.
Ma dovette lasciarla: il demone lo guardò con quei due oc-
chi che sembravano due anguille e sulle palpebre si affolla-
vano lacrime umane. Lacrime di dolore. Lacrime che lui non
comprendeva. «Che c’è? Sai qualcosa che io non so?»
«Non dovrei dirtelo, ma sono già stata condannata e le tue
membra non ricorderanno, idiota di un infante.» Le lacrime
uscirono oltre i bordi delle ciglia.
I demoni potevano piangere.
Qualcosa nel cuore di Ryker si spezzò. «Cosa? Iside, cosa?»
«Non hai compreso, stupido umano? Thari ha donato la
sua vita per quella di tua sorella.»
Ryker indietreggiò, quasi lo avessero colpito nello stomaco;
mille domande gli affollarono la mente, tumultuose. Perché?
Perché? Perché?
Tentò di respirare e recuperare un battito normale, il cuore
gli pulsava nelle viscere; cercò di tornare vicino a Iside, pron-
to a riempirla di quesiti ai quali doveva rispondere. Non a-
vrebbe accettato scuse.
Ma la luce acquosa, fluida e intensa brillò, si espanse in tut-
ta la sala e Ryker dovette coprirsi gli occhi.
137
Epilogo
‘Cause I am your lady And you are my man
Wherever you reach for me I’ll do all that I can
The Power Of Love - Celine Dion
Anno 2011
Il dottor Filippo Martini scrisse un appunto sul suo qua-
derno prima di sollevare lo sguardo sulla sua paziente in at-
tesa. Batté la penna due volte sulla scrivania in legno massel-
lo e si decise a guardarla.
Lei invece distolse lo sguardo fissandosi le mani. Era stata
la sua paziente più difficile da quando aveva iniziato a lavora-
re e lo era stata per tutto il team che l’aveva seguita e conti-
nuava a seguirla. Timida, impaurita dal mondo e spesso im-
pacciata, ora stava finalmente sbocciando. Lentamente.
Tuttavia non era quella la sua particolarità: era la sua fami-
glia e la sua memoria, o meglio, la sua completa mancanza di
memoria. E in questo non era progredita.
138
L’incidente automobilistico da cui era scampata sembrava
non averle spezzato un capello, eppure ne era uscita con un
deficit inimmaginabile: una ragazza perde ogni ricordo di
ventuno anni di vita. All’inizio era stato un vantaggio, perché
la sua famiglia era morta nel rogo e di loro non era rimasto
nulla, lei non li ricordava e non aveva sofferto, poi però il do-
lore era arrivato. Il dolore di non sapere chi si è stati per ven-
tuno anni, e il fatto che fosse straniera non era certo d’aiuto:
la casa in cui viveva era nuova, non c’erano ricordi, solo qual-
che mobile, degli scatoloni con dei vestiti e dei quadri ancora
imballati.
Il resto della sua vita era stato identificato da una carta
d’identità - che riportava luogo di nascita straniero e cittadi-
nanza italiana - e un diario segreto, nel quale lei non si ritro-
vava.
Il dottor Martini trattenne un sospiro e si alzò. «Vieni, ti
accompagno alla porta», le disse aggirando la scrivania. Di
solito la visitava in ospedale, perché lei non poteva permet-
tersi delle spese, ma lui aveva trovato il suo caso tanto inte-
ressante da non preoccuparsi di riceverla in studio; e ormai
l’aveva a cuore.
«Hai già segnato il prossimo appuntamento?»
«Sì, dottore.»
Lui aprì la porta. «Bene, allora non ti preoccupare. Come ti
ho già detto non c’è nulla da temere.» Ed era vero, perché, se
nulla migliorava, nulla neppure peggiorava. Il suo era un
139
semplice mistero: irrisolvibile. «E, se serve, non esitare a
chiamarmi.» Le sorrise e le diede un buffetto sulla guancia
come faceva con la figlia la mattina quando l’accompagnava a
scuola. «È una bella giornata, fatti una passeggiata. E fai un
buon pranzo.»
La ragazza obbedì. Si incamminò per i vicoli assolati della
città mangiando un pezzo di pizza, con passo lento; lavorava
in uno studio medico dove la donna che da anni faceva la se-
gretaria era in maternità, ma quel giorno aveva preso per-
messo e poteva camminare tranquilla per un bel po’, prima di
tornare a casa.
Nel suo diario c’era scritto che amava fare fotografie, ma
non aveva macchinette fotografiche, così a volte rimaneva a
guardare dei punti immaginando di poterli ritrarre; forse a-
vrebbe dovuto disegnare, se lo ripeteva da un po’ ed era certa
che avrebbe iniziato a farlo molto presto.
Sul suo diario aveva anche scritto che partiva per una meta
lontana, che non sarebbe tornata indietro, ma che lei e la sua
famiglia ne erano felici. In un appunto laterale aveva scritto
che sua madre le aveva salvato la vita. Aveva fissato quella
frase a lungo, un sacco di volte, eppure nulla le era tornato
alla mente; chissà a cosa si riferiva.
Erano troppe le cose che voleva sapere e che non avrebbe
mai saputo; ormai ne era certa.
Beh, pazienza, devo pensare al futuro, si disse, come face-
va sempre. Camminò per un po’, poi arrivò nella piccola
140
piazza Mattei e si sedette sul bordo di un grosso vaso tondo, a
osservare la Fontana delle Tartarughe.
«Ehi!» gridò qualcuno «Ehi, vieni qui!»
La ragazza si girò in tempo per vedere un grosso cane dal
pelo color sabbia venire verso di lei; la bestia abbaiò e poi
ringhiò. Lei aggrottò la fronte, impaurita, però si piegò un
poco in avanti e disse: «Ciao, cagnolone.»
«Mars! Vieni subito qui.» Un ragazzo spuntò da un vicolo.
Lei non perse d’occhio il cane, che aveva smesso di abbaia-
re. «Ciao, Mars», lo salutò con dolcezza, ma senza toccarlo.
Il ragazzo li raggiunse. «Scusami, di solito lo porta a spasso
mia sorella, ma è in vacanza con le amiche, così l’ho portato
al lavoro e ora non vedeva l’ora di uscire, mi è sfuggito. Ti ha
toccata? Ti sei spaventata?»
Lei scosse il capo e sollevò il viso. «No, si è solo fermato a
guardarmi.» Il suo sguardo incontrò gli occhi azzurri di lui e
per alcuni secondi rimase a fissarlo. «Io… ti conosco», disse
incerta.
Lui piegò appena un po’ il capo, scrutando gli scurissimi
occhi di lei, la pelle come il cioccolato, i capelli neri sciolti
sulle spalle, il naso piccolo. «Sì, ti ho vista da qualche parte»,
rispose infine, piegandosi ad accarezzare il proprio cane, sen-
za riuscire a smettere di guardare la giovane.
Lei sorrise, un sorriso dolcissimo. «Ho capito: ti ho visto
dal dottor Martini, qualche volta.»
«Oh, è vero, ora mi ricordo di te. Sei spesso da lui.»
141
Lei annuì. «Sì, il dottore è molto interessato alla mia perdi-
ta di memoria.» Fece una smorfia gentile.
«Anche alla mia.» replicò lui sedendosi accanto a lei. «Ho
dei vuoti di memoria su un periodo di prigionia di cui non ri-
cordo nulla e vari buchi sparsi del periodo precedente, ma a
quanto pare il mio cervello sta benissimo.»
Lei osservò le sue labbra alcuni istanti, non era certa di vo-
ler parlare dei suoi problemi, ma lui sembrava un tipo cor-
diale. Sul proprio diario aveva scritto di non fidarsi di nessu-
no, ma di seguire il cuore.
Sorrise a quel pensiero da ragazzina e tornò a concentrarsi
su di lui. «Abiti qui?»
«Sì, qui vicino.»
«Anche io», replicò con voce cristallina. «Beh, possiamo
andarci a bere qualcosa, ogni tanto, così ti racconto la mia
assurda storia.»
Lui fece una risata bassa e calda. «Più strana della mia?»
«A giudicare da ciò che mi ha detto l’equipe dei medici che
si è presa cura di me, temo di sì.»
Mars scodinzolò, annusandole una scarpa. Il ragazzo le
porse la mano. «Allora per me va bene. Io sono Ryker Man-
cini.»
Lei abbassò il viso a guardare la mano chiara di lui, prima
di offrirgli la propria. «Io sono Nefthari Kriera.»
***
142
«Ciao, Iside, che c’è?»
«Si sono ricongiunti. No, che blatero, si sono parlati, le loro
bocche si sono…»
«Doveva succedere prima o poi.»
«Orbene, mi sono quasi emozionata.»
«Iside, non puoi stare nel livello umano, e non puoi emo-
zionarti per queste cose, o cacceranno via anche te. Anzi, lo
hanno già fatto. E io non ti aiuterò a uscirne.»
«Ne sono a conoscenza, madre. Gioisco della salvezza che
hai concesso alla mia amata sorella.»
Ananke le rivolse un’occhiata indecifrabile. «Vanth ha scel-
to da sola la sua strada, ha scelto da sola di dare la sua vita al
posto della ragazzina; il fatto che questo per una figlia di un
umano significhi poter scegliere tra rinascere o abbandonare
questa dimensione per diventare un’umana, beh, non l’ho
deciso io.»
«No, ma tu lo rimembrasti a tutti. Non lo avresti fatto con
noi altre.»
La donna sorrise. «Sì, è vero, ma voi altre non siete figlie di
umani.»
«Non siamo prole dell’amore», la corresse il demone.
«Oh, Iside, per favore, sparisci. Non mi piace avere nulla a
che fare con le mie figlie. Su, vai, io e te non abbiamo nulla
da dirci.»
143
«Perdincibacco, madre! Me ne vado, me ne vado. La mia
mirabile presenza non è ben voluta, e io andrò a piangere in
qualche altro loco per le scarpe umane che mi son negate.»
144
Note dell’autore
Chi è Ananke? La parola sembra provenga da una radice
semitica basata sulle consonanti hnk da cui derivano diverse
parole, compresa quella greca per "necessità", nel senso di
qualcosa di inevitabile. Per Omero era la forza che regolava
tutte le cose. In generale, nella mitologia greca, era la perso-
nificazione del destino e per alcuni, oltre a essere la madre di
Adrastea, era anche madre delle Moire.
Sì, ma chi erano le Moire? In greco antico moira significa
"sorte", "destino" o "partecipazione". Erano tre donne anzia-
ne che servivano l’Ade: Cloto, nome che in greco antico signi-
fica "io filo", che appunto filava lo stame della vita; Lachesi,
che significa "destino", che lo svolgeva sul fuso e Atropo, che
significa "inevitabile", che con lucide cesoie lo recideva, ine-
sorabile. La lunghezza dei fili prodotti può variare, esatta-
mente come quella della vita degli uomini. (da Wiki)
Nel racconto la protagonista è un demone: nella cultura re-
ligiosa e nella filosofia greca, un essere che si pone a metà
strada fra ciò che è Divino e ciò che è umano, con la funzione
di intermediare tra queste due dimensioni. (sempre da Wiki)
Di solito rappresentato come malvagio e soprannaturale, in
particolar modo nella cultura cristiana, dove il più famoso è
145
sicuramente Lucifero. Alcuni ricollegano i demoni agli extra-
terresti. Nel credo Islamico questi esseri sono a metà tra an-
geli e uomini, una categoria non proprio soprannaturale,
quasi umana.
Uno dei nomi della protagonista è Vanth: nella mitologia
etrusca rappresentava il fato inevitabile (che trova quindi
corrispondenza con le Moire greche, nonché con le Parche
romane). La sua iconografia la vuole alata, vestita di un corto
chitone dalle bretelle incrociate all’altezza del petto, che la-
sciano scoperto il seno.
Iside: secondo il mito, assemblò le parti del corpo di Osiri-
de (fratello e sposo), riportandolo alla vita. Per questo era
considerata una divinità associata all’oltretomba.
Sekhmet Nesert: divinità egizia. Era la terribile dea della
guerra che, personificando i raggi dal calore mortale del sole,
incarnava il potere distruttivo dell’astro, ma anche l’aria ro-
vente del deserto i cui venti erano il suo alito di fuoco e con i
quali puniva i nemici che si ribellavano al volere divino. Por-
tava morte all’umanità. Veniva raffigurata come leonessa o
come una donna dalla testa leonina.
In piazza Campo de’ Fiori: avevano luogo le esecuzioni ca-
pitali e le punizioni con tratti di corda. Nell’anno 1600 vi fu
146
arso vivo il filosofo e frate domenicano Giordano Bruno, ac-
cusato di eresia. In ricordo del filosofo, nel 1888 fu realizzato
sul luogo stesso del rogo un monumento bronzeo.
Per chi non lo sapesse, si dice che quando avviene un mira-
colo si senta profumo di rose, o di fiori in generale.
Il Colosseo è fatto di travertino, ma non so con certezza se
il bordo superiore sia dello stesso materiale, se sia stato usato
nel tempo intonaco color travertino (come in altri punti) o se
addirittura sia fatto di qualche altro materiale. Non sono riu-
scita a trovare informazioni in merito.
Sul modo di dire “sangue blu” esistono diverse teorie: ov-
viamente questa nel racconto è la mia.
I luoghi di Roma che cito esistono tutti.
Sono abbastanza contenta, più che altro perché non è la fi-
ne che avevo previsto, come l’avevo prevista: è diversa e que-
sta mi piace di più.
Tuttavia rimane un lavoro che non mi soddisfa a pieno. “Le
Figlie di Ananke” nasce come un racconto per il web e mi ero
data alcune direttive (per esempio, capitoli brevi, non troppi
personaggi, linearità); oggi, quando lo rileggo, lo trovo solo
fastidioso. Indipendentemente dall’essere prolissi, mi sem-
147
bra che accada tutto troppo velocemente e non in termini di
trama, ma proprio di racconto, di esperienze, di passaggi,
nonché di emozioni.
Forse perché esco da un’esperienza come “Nuova Terra”, in
cui ho guardato al dettaglio, al famoso raccontato, ho cercato
di sviscerare tutto. Nel mio romanzo sono legata ai perso-
naggi, vivo e rivivo la loro storia sentendomela sulla pelle,
anzi, sotto la pelle; con Thari e soprattutto con Ryker mi
manca qualcosa. Da lettrice, mi manca il sense of wonder, e
ho detto tutto! Forse non sono fatta per i racconti, del resto
non amo neppure leggerli. Imparerò la lezione.
148
Ringraziamenti
Un grazie di cuore a tutti i lettori che hanno seguito la sto-
ria sul mio blog e perdonatemi se per la fine avete dovuto at-
tendere così tanto. Spero ne sia valsa la pena.
Grazie quindi a chi mi ha linkata e rilinkata, commentata e
messo “mi piace”. In particolare, grazie a Claudio Cordella,
Faith, Flyingpaw, Manu, Nasreen, Sam, e SaraSunbeam-
Black.
Grazie a Luca Tarenzi, che mi ha corretta per quanto possi-
bile, lo apprezzo davvero.
E soprattutto, grazie a Livia De Simone e Grey Delacoix, ri-
spettivamente illustratrice ed editor di questo racconto:
quando guardo questa fantastica copertina o tutto il lavoro di
correzione, mi sembra che il mio lavoro non ne sia all'altez-
za… Auguro a entrambi di sfondare, con tutto il cuore.
Dilhani Heemba Nata nello Sri Lanka, è italiana per adozione. Ama scrivere, leggere e disegnare fin da bambina. È autrice della saga di Nuova Terra. Dilhani Heemba è uno pseudonimo: Dilhani è uno dei nomi più usati nello Sri Lanka, dove è nata. http://www.dilhaniheemba.com/
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