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batterie d’auto ospitò i soldati dell’Onuche abbandonarono al loro destino gliabitanti della città. Grandi capannoniarrugginiti, muti testimonidell’indifferenza del mondo. ŠehidaAbdurahmanovic, dell’associazionemadri di Srebrenica, afferma: “Siamomolto sole. Viviamo diricordi”. Che, a sentirla, tisi gela il sangue nellevene. Per arrivare qui daSarajevo non c’è uncartello stradale che siauno, se non a pochichilometri dalla città,come se non esistesse. Cisi deve affidare alla guidao al satellitare.A fianco della più grandemoschea di Mostar, inuna delle vie principali,c’è un grande cimitero “acielo aperto”, nonnascosto da siepi. Suogni lapide, e sonotante, una data, il 1993,l’anno più terribile.Un’Agenzia dellademocrazia locale provaa pensare la città del

futuro, dove non si tengono elezionimunicipali dal 2008 a causa delledivisioni tra le forze politiche,coinvolgendo i giovani di tutte le etnie.Ci vorranno anni.Sulla strada per Sarajevo, i cimiterisono nei giardini di casa. Nella capitale,l’albergo dove alloggiamo ci “accoglie”con un cartello che indica il divieto diintroduzione delle armi. Di fronte, lacollina dall’altra parte della Miljackache prima della guerra era un parco,ora è un cimitero a perdita d’occhio.Faris Focak, nostra guida e interprete,riflette: “Durante l’assedio della cittàc’è stata solidarietà tra gli abitanti, oravedo molto individualismo, anche tra igiovani. Se c’è un futuro per la Bosnianon può che essere dentro la Nato el’Unione europea”.Il presente è fatto anche di progetti chepartono dal basso, come a Bratunac.Qui, per la coltivazione dei piccoli fruttisostenuta dalla cooperazione trentina,si è avviato un processo diriconciliazione grazie anche alla

Mostar: vista del Vecchio Ponte (Stari Most) e, sotto,

gli studenti in visita alla città

foto Lucia Cattani

L’incontro con l’Associazione Madri di Srebrenicafoto Vittoria Leonardelli

6 24 aprile 2016

vita trentina

di Paolo Piffer

P assato il confine a sud, traCroazia e BosniaErzegovina, all’altezza diMetkovic, dopo pochi

chilometri si arriva ad un bivio. Asinistra si prosegue per il santuariodi Medjugorje, a destra versoMostar. Le indicazioni stradali incirillico sono cancellate, i serbifurono i primi ad andarsene dallealture intorno alla città, campo dibattaglia, casa per casa, trabosgnacchi e croati, prima che ibombardamenti di questi ultimidistruggessero il ponte del XVIsecolo. “Dove smette la logica iniziala Bosnia” è una frase che abbiamosentito più volte, in pochi giorni.A vent’anni dalla fine della guerrala Bosnia Erzegovina è un Paesediviso, dove la separazione etnicamessa nero su bianco dagli accordidi Dayton altro non ha fatto chefotografare la situazione sulterreno. E, da allora, nulla si èmosso.

La presidenza della Repubblica è arotazione, ogni otto mesi, tracroati, bosgnacchi e serbi. Unapluralità puramente simbolica chenon crea altro che un fatale ecostante stallo istituzionale. LaBosnia Erzegovina è costituitainfatti da due entità governativeprincipali: la Repubblica Srpska e laFederazione croato-musulmanadivisa a sua volta in dieci cantoniautonomi specchio anch’essi delladivisione etnico-territorialeinterna.Il ponte di Mostar è statoricostruito, come l’antico quartieremusulmano raso al suolo nei primianni Novanta, grazie a valangate disoldi per la ricostruzione, arrivatidall’Europa e non solo, quasi adespiare una responsabilità frutto diignavia e di mancanza di unavolontà politica che in tutta la exJugoslavia ha reso possibile ilmassacro, alla porta meridionale diun’Unione oggi in via didisgregazione sulla spinta di milionidi profughi che scappano da altreguerre.Al memoriale di Potocari, aSrebrenica, si cammina, in silenzio,tra le 6241 tombe che testimonianoil genocidio dei bosgnacchi adopera delle truppe serbo-bosniachedel generale Mladic. Dall’altra partedella strada, l’ex fabbrica per

SehidaAbdurahmanovic.Sotto, il memoriale di Potocari vicino a Srebrenicafoto Francesca De Tomas L’ex generale Jovan Diviak

foto Federico Maggipinto

creazione di posti di lavoro. O aSarajevo, dove l’associazione Youth forPeace promuove iniziative diconvivenza interetnica e interreligiosa.L’ex generale Jovan Divjak, a capo dellaDifesa territoriale di Sarajevo durantegli oltre 1000 giorni dell’assedio, sioccupa degli orfani di guerra.Commenta: “I ragazzi voglionocollaborare, ma non ci sono lecondizioni. I crimini di guerra li hannocompiuti tutti, musulmani, serbi,croati. E nessuno, tra i politici, vuolescusarsi. Tra loro non c’è nessun WillyBrandt”.Salendo a nord, tra Bosnia e Croazia etra Croazia e Slovenia controllano idocumenti come si fosse ai tempi dellacortina di ferro. Nell’attesa, tra unconfine e l’altro, non resta cheattraversare a piedi il ponte sulla Sava,nella terra di nessuno, alle porte diun’Europa in agonia.