Marco Magnani
SETTE ANNI
DI VACCHE SOBRIE
Come sarà l’Italia del 2020? Sfide e opportunità di crescita
per sopravvivere alla crisi
Con la collaborazione di Angelo Ciancarella
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Sette anni di vacche sobrie
Attività culturali e crescita economica
Il settore creativo e culturale in senso stretto rappresenta il
4-5% del Pil dell’Unione europea e il 3% degli occupati. Ma se
si estende il perimetro a tutte le attività delle tre aree, la percen-
tuale di occupati è più che doppia: il 7%. Le attività culturali
sono anche uno degli aggregati più dinamici del commercio
internazionale: nel 2008 rappresentavano il 4% delle esporta-
zioni mondiali, con un incremento superiore al 14% in sei anni
(10% l’Italia) grazie soprattutto alle arti visive e figurative, alla
pubblicità, all’architettura. L’Italia è il quinto esportatore di
attività creative, con il secondo miglior saldo mondiale della
bilancia commerciale culturale (quasi 23 miliardi di euro).
Il rapporto Unioncamere-Fondazione Symbola 2013, Io
sono cultura, segnala una battuta d’arresto sull’occupazione e
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il valore aggiunto (a fronte dell’arretramento generale negli al-
tri settori), però conferma l’andamento positivo nel quinquen-
nio 2007-2012, sia per gli occupati (+1,5%) che per il valore
aggiunto (+2,5%). Architettura, moda, design, musica e au-
diovisivi sono stati gli artefici di questa performance positiva.
Colpisce lo scarso contributo del patrimonio storico-artistico,
di poco superiore al miliardo di euro, l’1,4% dei 75,5 miliardi
di euro di valore aggiunto dell’intero settore creativo-cultura-
le, che dà lavoro al 5,7% degli occupati.
La domanda di attività culturali e creative, almeno sul lungo
periodo, è crescente ed è alimentata dai mercati emergenti. Il
Rapporto Federculture 2012 misurava nel 2,6% dei casi l’incre-
mento di spesa per le attività culturali da parte delle famiglie
italiane nel 2011. Incremento in linea con la media del decen-
nio 2001-2011, in totale cresciuta del 26,3%, con preferenza
per il teatro e la musica lirica, rispetto ai musei e gallerie. Nel
2013, però, il rapporto, per la prima volta dopo un decennio,
segnala una flessione del 4,4% della spesa, che supera l’8%
per i teatri e i concerti; e un forte arretramento delle presenze,
prossimo al 12%. I musei statali, in particolare, hanno perso
un decimo dei visitatori, scesi da 40 a 36 milioni. I musei di
Londra, da soli, sfiorano lo stesso numero di visitatori.
Numeri pesanti, ma fotografano il fondo della crisi. Non ri-
dimensionano, e anzi rafforzano, la prospettiva di medio-lun-
go periodo che caratterizza queste riflessioni, con le relative
proposte. Il legame fra cultura, creatività e crescita economica
si basa sull’innovazione. Le attività culturali cercano nuove
espressioni e generano conoscenza, attraverso l’accumulazione
di savoir faire: in ambito artistico e culturale, qualcosa di più
del “semplice” know how. Il lancio di un nuovo film prodotto
Cultura, creatività, sviluppo
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Sette anni di vacche sobrie
a Hollywood o della nuova produzione artistica di una rino-
mata bottega artigiana hanno un obiettivo simile: stimolare
una domanda inesplorata, grazie al valore dell’innovazione e
alla capacità di farne uso in un ciclo produttivo e distributivo.
Poi, certo, le industrie sottostanti sono ben diverse, per di-
mensioni e organizzazione. Le imprese creative e culturali sono
in genere piccole. La gestione diretta dei lavoratori è molto più
diffusa e, al contrario di quanto avviene in altri settori, può ri-
velarsi efficiente. La presenza di capitale umano è ovviamente
elevata: la loro natura e il loro successo dipendono in gran parte
dal talento individuale o di squadra. Artisti, architetti, musici-
sti, attori, sarti, designers: un mix di abilità innate, istruzione,
formazione, accumulo di esperienza. Poco sfruttato, ma fonda-
mentale, è il legame con il turismo, finora potenzialmente perce-
pito solo nelle grandi città e in alcuni siti di notorietà universale.
Il Louvre o gli Uffizi, l’Harvest Festival in Westminster Abbey
o il festival dei Due Mondi di Spoleto sono luoghi o eventi che
attraggono da soli decine di migliaia di visitatori e spettatori,
in gran parte dall’estero. Altrettanto avviene per i pellegrinaggi
religiosi, dal Cammino di Santiago di Compostela in Spagna ai
numerosi santuari italiani, dalla calabrese Madonna dello Sco-
glio a Sant’Antonio da Padova, passando per decine di luoghi
urbani o rurali, ricchi di storia e di tradizioni.
Ce n’è abbastanza per sostenere lo sviluppo economico lo-
cale, valorizzando ciò che si possiede o instaurando legami e
collaborazioni fra luoghi diversi, spesso scioccamente in com-
petizione. Molti distretti culturali e città creative italiane sono
ben riconoscibili e hanno una buona reputazione a livello in-
ternazionale. L’inserimento in un circuito di qualità, un siste-
ma di marchi collettivi o individuali, può rafforzare i risultati o
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semplificarne il conseguimento: dalle strade del vino costellate
di denominazioni protette, ai presidi enogastronomici, ai siti
Patrimonio dell’umanità protetti dall’Unesco, dei quali si è già
detto. Forme e dimensioni in cui si manifesta la cultura mate-
riale sono infiniti e diversissimi: si pensi al distretto milanese
della moda e del design, ai vetri artistici di Murano e ai labora-
tori del presepe napoletano. Gli studi di Cinecittà a Roma, le
televisioni e radio locali intorno alle città o in pieno centro sto-
rico sono invece alcune forme della produzione di contenuti.
Tre casi di industria culturale: cibo, editoria, Firenze
La scelta di tre case studies italiani rispetta lo schema dei set-
tori produttivi dell’industria culturale, qui adottato. Il Parmi-
giano Reggiano è un ottimo (anche nel senso di gustoso) esem-
pio di cultura materiale plurisecolare, trasformata in attività
di successo internazionale, non solo per il distretto emiliano
di produzione ma per l’Italia intera. L’evoluzione dell’editoria
italiana e i processi associativi in atto sono un buon osservato-
rio della produzione di contenuti, informazione e comunica-
zione. La varietà e vitalità delle fondazioni culturali fiorentine
permette di analizzare le prospettive di governance e valorizza-
zione dell’intero patrimonio storico e artistico.
1. Il Parmigiano Reggiano
Considerare un prodotto alimentare come fonte di sviluppo
basato sulla creatività può apparire una provocazione. Invece
il Parmigiano Reggiano non è solo un esempio virtuoso dell’in-
Cultura, creatività, sviluppo
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dustria italiana del gusto; è un caso riuscito di valorizzazione
di un prodotto tradizionale (la creatività non sta nell’averlo in-
ventato, ma nell’averlo saputo valorizzare) attraverso l’azione
coordinata di istituzioni, persone, imprese. Al punto da essere
uno dei prodotti italiani più conosciuti (nonché imitati e con-
traffatti) al mondo.
L’industria del gusto è una dinamica realtà produttiva, con
un fatturato in crescita (2,3% nel 2012, in linea con il +2,4%
del 2011) e una spiccata vocazione internazionale: esporta in
valore 25 miliardi di euro, il 19% della produzione industriale
agroalimentare, circa il 7% del totale export italiano. Il valore
delle esportazioni 2012 è aumentato dell’8% rispetto all’anno
precedente, quando viaggiava intorno al 10%. Quasi due terzi
delle esportazioni riguardano prodotti di qualità, a marchio
Made in Italy.
In questo ambito il Parmigiano Reggiano corre. La produ-
zione di 3,3 milioni di forme, da qualche anno in crescita di
almeno 2 punti percentuali (con il 2012 frenato dai terremoti
primaverili) è destinata per un quarto all’esportazione, a sua
volta raddoppiata rispetto al 2005. A sostenere questo trend
sono soprattutto i grandi mercati occidentali – Francia, Ger-
mania, Gran Bretagna, Stati Uniti e Canada – che assorbono
i tre quarti dell’export. Ma cresce la nuova domanda dall’E-
stremo Oriente, con incrementi annuali talvolta superiori al
50% (Giappone, Singapore) o perfino triplicati (Cina). E non
potrà essere soddisfatta con l’incremento della produzione,
già oltre la soglia di 3,2 milioni di forme indicata dal piano
produttivo 2014-2016. Parliamo di una creazione casearia ar-
tigianale antica di 800 anni, che un disciplinare volutamente
rigoroso circoscrive a cinque province (due delle quali in mi-
Sette anni di vacche sobrie
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sura marginale), a 400 produttori consorziati, a 4mila alleva-
menti produttori di latte.
L’Unione europea ha da tempo concesso la Dop, la de-
nominazione di origine protetta, ma solo dal 2012 è stata ri-
conosciuta la piena conformità al disciplinare che vincola al
territorio, oltre alla produzione e alla stagionatura, anche il
confezionamento.
Ben prima del “timbro” europeo, da ottant’anni il Consor-
zio del formaggio Parmigiano Reggiano coordina la produ-
zione, la valorizzazione e l’export; tutela allevatori e marchio;
garantisce origine, qualità, rispetto delle procedure dalla stalla
alla distribuzione. Le competenze sono diffuse lungo la filiera:
abilità agricole, conoscenze biologiche, chimiche, economi-
che, ambientali. Dal 1972 fornisce collaborazione e servizi il
Crpa, il Centro ricerche produzioni animali, società pubbli-
co-privata partecipata da enti territoriali, sistema camerale,
associazioni agricole. Collegato alla facoltà reggiana di Scienze
della produzione animale, il centro ha creato quattro labora-
tori di analisi e ricerca, che forniscono consulenza e servizi al
Parmigiano Reggiano e ad altre eccellenze del territorio, come
il Prosciutto di Parma. Prodotto artigianale e antico sì, ma og-
getto di continua innovazione grazie alla ricerca scientifica e
alla promozione, che rafforzano i legami con i produttori di
latte e accrescono gli standard qualitativi.
La piattaforma Sipr, Sistema informativo della filiera Parmi-
giano Reggiano, raccoglie ed elabora dati in tempo reale, per
monitorare l’intero processo produttivo e distributivo, merca-
ti esteri inclusi. Anche gli antichi canali distributivi, come la
vendita diretta in fattoria, sono riscoperti e affiancati da studi
e progetti estesi al territorio: impatto ambientale, enogastro-
Cultura, creatività, sviluppo
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Sette anni di vacche sobrie
nomia, sviluppo rurale, connessioni turistiche, diffusione di
competenze attraverso la scuola casearia.
L’ambiente locale, la rete di imprese e industrie agroalimen-
tari “cooperanti” a vario titolo e in modi diversi svolgono un
ruolo cruciale, insieme al capitale umano e ad alcune istituzio-
ni orientate allo sviluppo, che hanno favorito la nascita della
rete dei musei del Cibo della provincia di Parma, dell’Italian
Food Academy Barilla, di Alma, scuola internazionale di Cu-
cina italiana, nella Reggia di Colorno. Non a caso, dieci anni
fa, Parma è stata scelta come sede dell’Efsa, l’Autorità europea
per la sicurezza alimentare, agenzia indipendente istituita dal-
la Ue a tutela dei 500 milioni di consumatori europei, per la
valutazione scientifica del rischio degli alimenti e dei mangimi.
Questo caso sinergico e impegnativo si basa su una lunga
storia, certo. Ma proprio perché è sperimentato può essere ri-
prodotto in altri territori, valorizzando e razionalizzando ciò
che esiste. La trasmissione di conoscenze secolari deve essere
istituzionalizzata con azioni strategiche, che trasformano la
creatività della cultura materiale in istruzione e innovazione di
successo, sul piano produttivo ed economico.
2. Le traiettorie dell’editoria
Il comparto editoriale e della stampa è il maggiore fra le indu-
strie creative e culturali italiane: primo in termini di valore ag-
giunto (19,2% nel 2012), secondo per occupazione (17,3%),
con un modestissimo arretramento rispetto al 2011, secondo
la classificazione del Rapporto Federculture. Ma per l’editoria
in senso stretto il 2012 è stato l’annus horribilis secondo l’Aie,
l’Associazione italiana editori, che ha rilevato un arretramen-
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Cultura, creatività, sviluppo
to superiore all’8% nel settore (al netto del cosiddetto “non
book”), tornato poco sotto la soglia dei tre miliardi di euro.
Il contributo dell’ebook è raddoppiato in un solo anno, ma
rappresenta ancora una quota modesta (intorno al 2%; si trat-
ta però di una stima, a causa del riserbo opposto dai player
internazionali come Amazon alla diffusione dei propri dati di
vendita). La produzione di titoli è stabile, a quota 61mila. Sul
lungo periodo aumenta di circa 10mila titoli ogni decennio,
dai 40mila dei primi anni novanta, ai 50mila del 2000. Ma la
tiratura si assottiglia: con 220 milioni di copie 2012, il settore
ne ha bruciate un quinto in un solo anno.
In questo scenario, la presenza di piccole e medie impre-
se familiari è significativa, nonostante il peso di pochi grandi
gruppi. Parlare di editoria in modo aggregato, con i numeri
dell’anagrafe, è però distorsivo. Quelli censiti da Ie, Informa-
zioni editoriali, che pubblica le banche dati per gli operatori
del settore e i librai (come Alice, il catalogo dei libri in commer-
cio), sono aumentati nel decennio 2000-2010 di quasi la metà,
arrivando a quota 7600. Ma quelli considerati attivi dall’Istat
sono appena un terzo, 2700, e hanno seguito una dinamica
inversa, arretrando del 20% nel decennio. Ancor meno quelli
che abbiano prodotto almeno un titolo nell’anno considerato:
grosso modo il 60% di quelli censiti, e perciò meno di 1650
secondo le elaborazioni Aie (la quale rappresenta il 90% del
mercato, ma non dichiara il numero degli associati).
Nuovi editori, alcune centinaia l’anno all’inizio del secolo,
oggi si affacciano sulla scena con il contagocce, poche deci-
ne l’anno. Resta però vero che negli ultimi vent’anni le stori-
che case editrici (almeno quelle sopravvissute ai processi di
aggregazione e di estinzione) sono state affiancate da nuovi
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Sette anni di vacche sobrie
e moderni editori, con strutture leggere capaci di sfruttare al
meglio le tecnologie digitali e la distribuzione via internet. L’e-
ditoria comprende un ampio spettro di attività creative: ide-
azione, editing, diritti intellettuali, traduzione, promozione,
distribuzione. Quasi tutte le case editrici tradizionali sono o
erano dotate di tutte queste funzioni. Quelle più moderne si
specializzano in poche fasi del processo editoriale.
L’innovazione è un tratto fondamentale del settore, travolto
e sollecitato da rivoluzioni tecnologiche il cui impatto è para-
gonabile e forse superiore all’invenzione dei caratteri mobili.
Si sopravvive e si rinasce solo con strutture flessibili, elevata
specializzazione, investimenti nelle nuove forme di produzio-
ne e distribuzione. A misurare il polso dell’editoria naziona-
le e della lettura, e a far sottoscrivere accordi e cessione di
diritti, provvedono le grandi rassegne internazionali come la
Buchmesse di Francoforte. Sul mercato domestico i punti di
riferimento sono il Salone internazionale del Libro di Torino e
la Fiera del libro per ragazzi di Bologna.
Le case editrici minori stringono accordi a livello territoria-
le, soprattutto per coordinare e rafforzare la distribuzione, la
promozione e la comunicazione, la partecipazione agli eventi.
Ma anche per favorire trasmissione di conoscenza e forma-
zione professionale. Negli ultimi anni sono nate associazioni
fra gli editori modenesi, abruzzesi, del Veneto e dell’Umbria.
Nel Mezzogiorno, con scopi anche più ambiziosi e la presenza
di editori prestigiosi e di considerevole dimensione, operano
Edica, Editori campani associati, e le associazioni fra gli edito-
ri pugliesi e sardi. Gli statuti consentono l’adesione a organiz-
zazioni nazionali o prevedono che la stessa associazione possa
aderirvi e collaborare. Non a caso Aie, che pure ha un gruppo
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Cultura, creatività, sviluppo
Piccoli editori al quale appartiene uno dei vicepresidenti, ha
costituito rappresentanze regionali (sei, finora, tre delle quali
al Sud) con compiti statutari analoghi a quelli delle associazio-
ni regionali autonome.
Il Rapporto Aie 2013 sullo stato dell’editoria in Italia conta
nelle sei regioni del Mezzogiorno 318 editori attivi, quasi il
20% del totale, che hanno pubblicato oltre 4100 titoli, poco
meno del 7% del totale. Numeri che segnalano difficoltà, ma
anche voglia di reagire e di fare rete come mai in passato. Con
almeno tre effetti rilevanti: sul piano economico, consentire la
riduzione di costi come la traduzione, il marketing, il magaz-
zino, divenuti insostenibili a livello individuale, specie per i
piccoli; sul piano editoriale, permettere a ciascuno di coltivare
una specializzazione o di valorizzare il territorio e gli autori
locali; sul piano della rappresentanza, conferire autorevolezza
e maggior forza contrattuale nel rapporto con gli enti territo-
riali, gli stampatori e i distributori, le organizzazioni nazionali.
3. Fondazioni culturali a Firenze
Il patrimonio storico e artistico è prezioso ma non dà ricchez-
za. O almeno l’Italia non è stata finora capace di cavarne. È
un po’ come il valore delle quote della Banca d’Italia, posse-
dute (formalmente) dalle banche azioniste. Decine di miliardi
di euro; o almeno sette, dicono gli esperti, perché gran par-
te delle voci all’attivo, come le riserve valutarie, non appar-
tengono agli azionisti ma al Paese, magari a tutti i cittadini
dell’euro. Insomma, sono indisponibili, proprio come gran
parte del patrimonio storico e artistico. Ma indisponibili non
vuol dire senza valore e, soprattutto, che non possano essere
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Sette anni di vacche sobrie
valorizzati. Come le quote della Banca d’Italia, finora iscritte
nei bilanci quasi sempre al valore nominale: appena 156mila
euro in totale.
Nell’autunno 2013 la questione – ricorrente di tanto in tan-
to, proprio come la tutela e la valorizzazione del patrimonio
artistico – si è rimessa in moto. E stavolta pare proprio sul
punto di essere risolta, perché serve sia alle banche, per raffor-
zare lo stato patrimoniale senza dover fare aumenti di capitale
indigesti al mercato; sia allo Stato, perché ha fretta di incassare
l’imposta sulla plusvalenza e così far quadrare la legge di sta-
bilità e il rapporto deficit/Pil del 2014. Per questo l’esempio è
parso appropriato, al di là della coincidenza temporale: l’asso-
luta urgenza della soluzione, una volta tanto, fa ben sperare.
Nel bilancio dell’industria culturale, il comparto del patri-
monio storico-artistico rappresenta appena l’1,4% in termini
di valore aggiunto ed è equilibrato in termini occupaziona-
li (1,6%). Il rilievo modesto e l’equilibrio occupazionale, va
sottolineato, sono dovuti al fatto che solo le attività private
collegate all’uso del patrimonio artistico sono considerate nel
Rapporto Federculture 2013. La gestione pubblica è certa-
mente meno efficiente e sovradimensionata dal punto di vista
occupazionale. Ma il Libro bianco sulla creatività misura in 104
milioni di euro l’incasso derivante da 34,6 milioni di visitatori
che, nel 2006, acquistarono il biglietto per 402 musei (su 4739
censiti dal MiBac) e un numero imprecisato di monumenti e
aree archeologiche, fra gli oltre 5600 censiti. Questi numeri
danno appena un’idea del gigantesco potenziale da valorizza-
re, senza tener conto – per intuibili ragioni – del patrimonio
ecclesiastico, prossimo ai 60mila edifici o complessi, fra chie-
se, monasteri e conventi.
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Cultura, creatività, sviluppo
Almeno una parte dei 62mila archivi e delle 12 400 biblio-
teche pubbliche e private dovrebbero alimentare investimen-
ti tecnologici in vari ambiti: nuovi materiali per i restauri, e
sistemi diagnostici indispensabili anche per il successivo mo-
nitoraggio; impianti e installazioni; sistemi di sicurezza; di-
gitalizzazione dei contenuti; marketing e promozione; senza
escludere servizi collegati, come la gestione dei flussi turistici.
Esiste naturalmente un problema di risorse, il coordina-
mento, nell’attuale assetto delle istituzioni culturali, è arduo
almeno quanto la ritrosia a collaborare, la presenza di free
riders, gli scrocconi, è elevata. Non riguarda tanto i fruitori,
quanto i gruppi e le organizzazioni che utilizzano a proprio
favore investimenti e luoghi pubblici, dirottandoli su attività
private (prive di concessioni, responsabilità, costi) che gioca-
no sull’ambiguità, l’equivoco, la prossimità a un museo, un
sito archeologico, un monumento.
Per questi motivi le fondazioni culturali possono rappre-
sentare una scelta vincente per valorizzare gli immensi benefìci
di lungo periodo che possono derivare dal nostro patrimonio.
L’attività coordinata fra diverse fondazioni può attrarre nuova
domanda, investire in istruzione, offrire opzioni per soddi-
sfare preferenze diverse, promuovere e sostenere partnership
pubblico-privato. Esempi del genere esistono: quello toscano,
di Firenze in particolare, rappresenta un interessante case stu-
dy, replicabile in molti luoghi con gli opportuni adattamenti.
Le industrie culturali e creative toscane rappresentano (se-
condo il citato Rapporto Federculture 2013) il 6,7% del valore
aggiunto e il 7,7% degli occupati, rispetto al totale nazionale.
L’imprenditoria culturale fiorentina vale quasi il 12% delle
imprese attive in provincia. Nello stesso territorio operano 45
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Sette anni di vacche sobrie
fondazioni culturali, in un ampio ventaglio di settori: arti e lin-
guistica, come l’Accademia della Crusca e quella delle Arti del
disegno; cura di archivi e fondi personali, come la Fondazione
Giovanni Boccaccio; musei specializzati, come l’Istituto fioren-
tino di preistoria “Paolo Graziosi”; tutela e valorizzazione di siti
culturali, come la Fondazione Palazzo Strozzi; attività cultura-
li, come la Fondazione Florens. Nonostante le molte diversità
di competenze e scopi statutari, le fondazioni fiorentine sono
un esempio flessibile di governance del patrimonio storico-ar-
tistico, in grado di coinvolgere e far operare insieme cittadini,
banche, imprese, associazioni e pubbliche amministrazioni,
per migliorare il coordinamento delle iniziative e dell’offerta in
un territorio ricchissimo di luoghi ed eventi culturali.
Particolarmente interessante è la Fondazione Palazzo
Strozzi, creata nel 2006 da enti pubblici, imprese e fondazioni
private, per rivitalizzare il valore culturale ed economico del
palazzo emblema del Rinascimento fiorentino. Scopo ambizio-
so, perseguito con la riscoperta degli spazi artistici, progetti
culturali e di inclusione sociale, eventi dedicati alla cultura ma-
teriale e con il coinvolgimento del territorio, com’è avvenuto
per la manifestazione “Palazzo Strozzi e il Chianti”, che ebbe
grande risonanza nell’estate 2011. La promozione si è spinta
anche all’estero, con il Progetto Cina. La fondazione svolge
anche attività di ricerca in collaborazione con le maggiori real-
tà fiorentine, come lo studio bilingue Rinnovare l’immagine di
una città d’arte. Analisi di un benchmark internazionale.
I segnali che le fondazioni riescano a combinare creazioni
originali, talenti e innovazione in modo vantaggioso per tutti,
non mancano. Soprattutto per il coinvolgimento di enti pub-
blici e imprese private, ciascuno intenzionato a svolgere al
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Cultura, creatività, sviluppo
meglio il suo ruolo istituzionale: garantire l’uso corretto del
patrimonio pubblico, da una parte; perseguire l’efficienza e
rendere compatibili gli eventi culturali con la sostenibilità eco-
nomica, dall’altra. Una contaminazione virtuosa.
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