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PROFILO DELLE TEORIE PEDAGOGICHE
Contributi per un sapere dell’insegnare
Pubblicato con il titolo Natura e finalità del processo educativo e didattico nella sua dimensione storica in G.Bonansea, P.Bottale, (a cura di), Il maestro del 2000, Tuttoscuola, Roma,1999, pp.81 – 107. Enrico Bottero
Il punto di vista di questo saggio sarà un’attenzione alla ricerca pedagogica e didattica. Prenderemo
dunque in esame, anche se in modo inevitabilmente sommario, quegli orientamenti pedagogici e di
scienze dell’educazione che più hanno concorso e concorrono a delineare il quadro di riferimento
culturale, didattico e organizzativo della scuola in Italia. I riferimenti legislativi e organizzativi sono alla
scuola primaria, ma l’impianto culturale descritto ha un valore generale.
Non pretendiamo, naturalmente, di esaurire un quadro che si presenta molto variegato. E’ certo, però,
che dal punto di vista di chi opera nella scuola si possono individuare approcci pedagogici e didattici
che più di altri hanno contribuito a mutare gli scenari dell’insegnamento elementare. La situazione
attuale, dal punto di vista pedagogico - didattico, riflette la progressiva sedimentazione degli
orientamenti prevalenti nella cultura e nella pedagogia italiana di questo secolo.
1.La pedagogia dell’attivismo
Il primo di essi, in ordine di tempo, è certamente l’attivismo e tutto il movimento denominato
dell’educazione nuova. Sull’onda delle mutate condizioni sociali, in cui alla scuola viene riconosciuto un
ruolo centrale di sviluppo della società democratica, nella prima metà del ventesimo secolo si articola
la crisi di una pedagogia e di una didattica tradizionali, le cui caratteristiche principali erano (e sono, in
parte, tuttora): curricolo centrato sulle materie intese come insiemi di contenuti, forte asimmetria
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insegnanti - alunni, verbalismo nozionistico, scarsa attenzione all’autonoma costruzione del sapere. A
fronte di questi limiti l’attivismo, nelle sue varie articolazioni, propone i suoi nuovi orientamenti:
1. enfasi sul soggetto in apprendimento ( il cosiddetto “puerocentrismo”) ;
2. importanza della motivazione all’apprendimento (ogni attività di insegnamento, se
vuole mirare ad un effettivo apprendimento deve muovere dai reali bisogni conoscitivi
degli alunni, anche sollecitandoli) ;
3. attenzione alle discipline e alle scienze nel loro aspetto creativo ed operativo. Di qui la
centralità del “fare”, orientato alla soluzione di problemi rispetto a cui le discipline si
caratterizzano soprattutto come strumenti;
4. importanza della socializzazione intesa come valorizzazione sociale dei singoli individui.
Tutto ciò sul piano del setting relazionale significava anche riduzione della distanza tra insegnanti e
alunni, un’effettiva limitazione dell’autoritarismo con cui da sempre l’adulto imponeva al bambino i suoi
modelli e i suoi fini. Il movimento attivistico, nonostante l’accusa frequente di mistica e mitizzazione
dell’infanzia, ha visto un proliferare di esperienze pedagogiche in molti paesi dell’Occidente, Italia
compresa. Il loro forte spirito innovativo si accompagnò però a una certa sporadicità, al loro essere
inevitabilmente legate alle personalità e all’iniziativa dei promotori (Iìin Italia, si pensi a Boschetti
Alberti, alle sorelle Agazzi, alla Pizzigoni). Questa sporadicità viene superata solo quando si è trattato
di esperienze più caratterizzate in senso sociale e politico (ad esempio, Cousinet e Freinet in Francia) e
come tali in grado di garantirsi un seguito attraverso movimenti e associazioni, alcune delle quali ancora
attive ai nostri giorni (si vedano, ad esempio, i C.E.M.E.A., Centri di sperimentazione per i metodi
educativi attivi, e il Movimento di Cooperazione Educativa). Con alcuni teorici dell’attivismo, come
Decroly, Montessori, Claparede, Ferriere, viene anche ad affermarsi una nuova tendenza solo in parte
presente nelle esperienze degli innovatori: la relazione privilegiata tra pedagogia e scienze umane, in
particolare con la psicologia e la sociologia dell’educazione. Soprattutto la prima, nei suoi diversi
orientamenti, diventerà, come vedremo, il principale punto di riferimento di una pedagogia plurale,
sempre meno filosofica e sempre più scienza dell’educazione. E’ intorno all’Istituto J.J. Rousseau di
Ginevra e alla sua ricerca psicologica in campo educativo che prende corpo nella prima metà del secolo
la scuola a cui faranno riferimento Claparede, Ferriere, Piaget. Quest’ultimo, vero e proprio ispiratore
(suo malgrado, essendo egli sostanzialmente un epistemologo), anche in anni recenti, di una pedagogia
attiva centrata sull’adeguamento di ogni intervento didattico alle fasi di sviluppo psicologico
dell’intelligenza. Nella prima metà del secolo è dunque già presente quell’orientamento scientifico della
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pedagogia che si affermerà solo più avanti con lo sviluppo della scuola di massa e le nuove funzioni di
fatto assunte dai sistemi di istruzione nei paesi ad economia avanzata.
2. La pedagogia dell’idealismo e dello spiritualismo
In questo panorama, che vede delinearsi, anche se non ancora diffondersi in modo capillare, un indirizzo
“scientifico” in pedagogia, si distingue la realtà italiana, segnata dalla cultura dell’idealismo e dello
spiritualismo pedagogico. La pedagogia idealista richiama naturalmente il nome di Giovanni Gentile,
filosofo, pedagogista e Ministro dell’Istruzione nei primi anni del fascismo, principale artefice della
Riforma scolastica del 1923, che influenzò ( e influenza tuttora) profondamente la scuola italiana. Ostile
ad ogni scientismo che pretenda di indagare l’uomo in modo oggettivistico, al centro del suo pensiero sta
la filosofia, intesa come processo di realizzazione dello spirito. Lo sviluppo del pensiero si identifica con
lo stesso sviluppo dell’uomo, che non “è”, ma “si fa” storicamente. In questo senso, in quanto processo
di autoeducazione, la stessa filosofia è pedagogia: lo spirito, oggetto della filosofia, si identifica con la
stessa formazione dello spirito, oggetto della pedagogia. I soggetti non sono, per Gentile, fatti psichici,
oggetti empirici e come tali osservabili, ma atti viventi nel loro svolgimento storico. La vita spirituale si
realizza nella relazione maestro - scolaro. In questa relazione, tuttavia, identificandosi di fatto il maestro
con il sapere storico depositato, è a lui che l’alunno deve guardare come punto di riferimento. La
centralità dell’insegnante e della sua autorità sono del resto del tutto comprensibili in una visione che
riabilita sì la soggettività, ma non i singoli soggetti. Questi ultimi si devono collocare in soggettività più
ampie, quelle della storia, della cultura, della filosofia, di cui sono depositari indiscussi l’insegnante e lo
Stato che egli rappresenta. Di qui l’inevitabile sottovalutazione delle questioni concrete del fare educativo
e dell’insegnamento. La didattica, rifiutando ogni tipo di ricerca empirica e richiamandosi solo a principi
generali di comunicazione spirituale, non viene tematizzata come sapere specifico, con la naturale
conseguenza di non modificare lo statu quo, a favore di una didattica trasmissiva e autoritaria che
condizionerà ancora a lungo la scuola italiana. E’ tuttavia merito di Gentile aver riconosciuto la natura
non oggettiva, meramente naturalistica, ma di incontro tra soggetti, dell’esperienza educativa, anche se
l’annullamento delle singole soggettività nelle forme storiche della cultura non contribuì, di fatto, a
innovare le pratiche didattiche, ma caso mai a ingessare i vecchi metodi tipici della scuola di ceto. La
concezione pedagogica gentiliana condizionò profondamente la scuola italiana.
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La sua Riforma prefigurò una scuola più selettiva che socializzante, con al centro degli studi i saperi
umanistici, le cui scuole di riferimento ( i Licei) vennero opportunamente separate da quelle tecniche e
di avviamento al lavoro1. nella configurazione piramidale delle istituzioni scolastiche prevista da Gentile
prevalgono così i saperi storico - letterari, visti come gli autentici depositari dello sviluppo dello spirito2.
La pedagogia dell’idealismo italiano condizionò a lungo la pratica formativa nella scuola in una
direzione apertamente critica rispetto alla tradizione scientifica del positivismo. In qualche caso,
tuttavia, come quello di Giuseppe Lombardo Radice, l’attenzione allo “spirito” diviene anche
preoccupazione per i soggetti e per le loro concrete relazioni. In questo senso è interessante la sua
visione della didattica come ripensamento dell’azione, riflessione sull’attività svolta, riflessione che,
essendo farsi spirituale3, non si può congelare in astratte formule catalogatorie4.
Nel dopoguerra, dopo la breve stagione dei programmi scolastici del 1945, promulgati sull’onda della
necessità di “mettere la scuola elementare italiana nelle condizioni favorevoli perché possa contribuire
alla rinascita della vita nazionale”, sono i programmi Ermini del 1955 a segnare per lungo tempo gli
orientamenti pedagogici. I Programmi Ermini rappresentano un’innovazione significativa sotto molteplici
aspetti. In primo luogo è presente un forte richiamo alla dottrina cristiana, considerata “ fondamento e
coronamento” di tutto l’insegnamento elementare. E’ il segno della rinnovata presenza della cultura dello
spiritualismo pedagogico anche per le mutate condizioni politiche. A livello teorico la pedagogia cristiana
faceva riferimento a Hessen, Maritain, Mounier, e, in Italia, Stefanini, Catalfamo, Casotti, Flores
d’Arcais, solo per citarne alcuni. Al centro della loro riflessione c’è un’apertura alle novità dell’attivismo
all’interno di un quadro che vede al centro l’educazione integrale della persona con un rilievo
particolare ai suoi valori spirituali. I Programmi del 1955 segnano anche l’innovazione didattica . Si
sottolinea, ad esempio, la necessità di muovere dal mondo concreto del fanciullo, “tutto intuizione,
fantasia, sentimento”. Si ribadisce l’importanza della motivazione ad apprendere, insieme a una
concezione dell’insegnamento che non deve limitarsi a impartire nozioni, ma favorire maieuticamente “il
processo formativo dell’alunno senza interventi che ne soffochino o ne forzino la spontanea fioritura e
maturazione”, al fine di comunicargli “la gioia e il gusto di imparare e di fare da sé”. Al centro
dell’interesse educativo è il soggetto - alunno, considerato portatore di valori spirituali. Inevitabilmente
l’esigenza di unitarietà della persona alimenta quella di unitarietà dell’insegnamento. In questo modo si
evita ancora quella svolta scientifica della pedagogia che in quegli stessi anni Francesco De Bartolomeis
già auspicava e teorizzava con convinzione5. La centralità della persona suggerisce fiducia in un discorso
pedagogico che mantenga la sua unitarietà senza disperdersi nei mille rivoli delle scienze particolari. Era
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un’esigenza sostenuta da un forte impianto valoriale derivante dallo spiritualismo cristiano. Ma va anche
sottolineato che i Programmi del 1955 presentavano forti aperture alla cultura dell’attivismo pedagogico.
L’attenzione all’alunno - persona significava preoccupazione per il naturale globalismo dei primi anni,
ma anche centralità dell’ambiente, punto di riferimento obbligato di ogni attività di osservazione, di
ricerca, di riflessione, da cui solo gradualmente può emergere la cultura delle discipline. Si bandisce, così,
in pieno spirito attivistico, “ogni pretesa di prematura sistematicità del sapere” e si promuovono le libere
attività creative ( mimica, drammatizzazione, disegno spontaneo, pittura, ecc.) e le attività manuali e
pratiche. Purtroppo molte di queste indicazioni resteranno lettera morta nella scuola. Il tradizionale
curricolo centrato sulle materie, con al centro l’immodificabile programma (quello dei contenuti, non
certo delle innovazioni didattiche viste sopra), rimase spesso inalterato, anche per le mancate riforme
organizzative e l’assenza di formazione continua degli insegnanti.
3. La stagione della ricerca
I primi segnali di forte cambiamento nel costume didattico e non solo nella teoresi pedagogica si hanno
con l’affermarsi della scuola di massa. Negli anni sessanta, in naturale coincidenza con il boom
economico, la scuola secondaria e l’Università si aprono definitivamente a tutti i ceti sociali. La società
non guarda più alla scuola come ad un’istituzione immodificabile, ma anche come ad un’organizzazione
in grado di trasmettere saperi e orientare i soggetti ad adattarsi, attraverso adeguati processi cognitivi,
alle condizioni di una società industriale complessa e , come tale, in costante mutamento. Entra così in
crisi l’impianto piramidale della scuola gentiliana, pur rimanendo intatto nella forma. La scuola
elementare, che nell’impianto precedente si caratterizzava per molti come l’unica occasione di
alfabetizzazione culturale (la scuola del leggere, scrivere, far di conto) sente la necessità di doversi
costituire come il primo gradino di un processo di costruzione culturale sempre più orientato alla
specializzazione e alla differenziazione dei saperi. Si inizia così finalmente a toccar con mano le
problematiche educative che aveva dovuto affrontare Dewey alcuni decenni prima sull’onda dei più
precoci sviluppi della società americana. Una società tecnologicamente avanzata richiede una scuola
che non selezioni più i soggetti, bensì i saperi. Si sente la necessità di formare negli alunni capacità
critiche e di orientamento, proprio perché la complessità di informazioni, che rende forse meno
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problematica la questione dei contenuti , in assenza di una compensazione educativa, può anche essere
fortemente disorientante 6.
Queste esigenze furono ben presenti nella stagione della cosiddetta metodologia della ricerca, quando la
componente socio - politica venne assunta come un elemento centrale dell’innovazione didattica. Di qui
l’adozione del modello della scienza nei suoi aspetti produttivi e creativi, non come regno della certezza,
ma di ipotesi, scoperta, generalizzazione al fine di risolvere problemi umani: “Problemi sono conoscenze
da acquisire, spiegazioni da dare, leggi da formulare, oggetti da produrre, modificazioni da determinare”7.
In questo senso, obiettivo vero del curricolo non è l’acquisizione di contenuti e neppure ( come si
sosterrà più avanti, nella stagione del cognitivismo) di strutture concettuali. Entrambi vengono in
second’ordine rispetto allo sviluppo della capacità di progettare, di mettere in atto strumenti operativi
cooperando in gruppo. Insomma la centralità di un metodo (non inteso in senso disciplinare, anche se con
evidente riferimento alla scienza) che parte da problemi emergenti nel reale per ritornare ad esso
mettendo a disposizione strumenti operativi di cambiamento. Gli stessi contenuti disciplinari, pur
caratterizzando in specifico differenti forme di ricerca ( storica, scientifica, geografica, tecnologica, ecc. ),
vengono presi in considerazione in quanto utili alla soluzione di problemi e quindi al consolidamento
nell’alunno di capacità critiche e metacritiche. A questo impianto pedagogico - didattico, di forte marca
deweyana, diede un contributo, sia pur in qualche modo involontario , il costruttivismo piagetiano. La
descrizione delle strutture generali soggiacenti all’evoluzione del pensiero nelle sue varie fasi per mezzo
di ristrutturazioni qualitative giustificò la cosiddetta teoria dell’idoneità all’apprendimento8. L’insegnante
dovrebbe inserirsi nel naturale sviluppo cognitivo del bambino adeguando i suoi interventi al procedere
delle fasi evolutive. La sua funzione non deve essere iperstimolante, precorritrice, ma di abile regia, nel
rispetto della successione con cui i concetti emergono nello sviluppo cognitivo spontaneo del bambino.
L’apprendimento segue e non precede la maturazione delle strutture mentali. L’insegnamento non fa che
adeguarsi a questo principio. Il punto di vista piagetiano rafforza così un altro punto fermo della didattica
della ricerca, insieme alla centralità del metodo e della motivazione, quella dell’alunno. Essa si riconnette,
così, in continuità ideale, con la stagione dell’attivismo. Un corollario non secondario della didattica della
ricerca è la sua tendenza a intervenire per modificare radicalmente tutto il setting didattico, compreso
l’impianto organizzativo in cui si colloca. La centralità del metodo, l’attenzione al percorso spontaneo di
crescita del bambino si coniugano inevitabilmente con il ridimensionamento dell’autorità dell’insegnante
la necessità della programmazione didattica. la programmazione investe necessariamente anche
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l’organizzazione degli spazi e delle attività (prevalentemente laboratoriali, nel caso della ricerca) in modo
flessibile anche prescindendo dalla rigida struttura della classe.
La didattica della ricerca esercitò forti suggestioni nella scuola, soprattutto elementare, intorno agli anni
settanta, in pieno boom economico. Non incontrò tuttavia mai larga diffusione anche se, come vedremo,
contribuì a creare le condizioni per cambiamenti più generali. La sua scarsa sistematicità non rispondeva
alle esigenze prevalenti nella scuola di organizzare un curricolo completo anche dal punto di vista dei
contenuti. La didattica della ricerca, quand’anche svolta con competenza da parte dell’insegnante,
richiedeva tempi piuttosto lunghi, con scarse possibilità di potersi occupare in modo organico di una
disciplina a livello di contenuti e di strutture portanti. La ricerca è per sua natura monografica,
specialistica, e richiede materiali e strumenti (anche mentali e culturali) che spesso vanno ben al di là di
quelli a disposizione a scuola. Essa presenta, dunque, anche problemi di fattibilità, non ultimo la
dimestichezza da parte dell’insegnante con le tecniche di ricerca9. Queste obiezioni trovarono terreno
fertile nell’immobilismo dell’istituzione, abituata a non mettere in discussione i propri tempi,
l’organizzazione rigida e la centralità dei contenuti come veicolo del sapere. La didattica della ricerca
esigeva invece uno sconvolgimento non da poco nelle abitudini non solo dei soggetti, ma
dell’organizzazione in quanto tale.
4. La scienza come modello: lo strutturalismo didattico
L’obiezione forse più credibile alla didattica della ricerca , e che non mancò di condizionare per questo
anche gli ambienti più innovativi, venne dalla psicologia strutturale e cognitiva. Insieme a Piaget
cominciavano a circolare le teorie bruneriane. Jerome Bruner, psicologo cognitivo americano, si era
impegnato fin dagli anni cinquanta nel suo paese per uno sviluppo dell’insegnamento scientifico nella
scuola. L’impegno in questa direzione fu molto sentito negli Stati Uniti, soprattutto a seguito del
crescente divario tra progresso della scienza e insegnamento scolastico10. Il differente contesto politico
ed economico - sociale (il ruolo cruciale degli USA nella guerra fredda con l’U.R.S.S., una tradizione
educativa poco avvezza a programmi didattici uniformi stabiliti da autorità centrali, ecc.) aveva da
tempo stimolato nei paesi anglosassoni quel dibattito sul curricolo che in Italia viene assunto in modo
esplicito solo a partire dagli anni sessanta. Anche nel nostro paese questo dibattito ha avuto un punto di
riferimento nella teoria bruneriana. Ma che c’entra Bruner, psicologo cognitivo, con le teorie del
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curricolo? Anzitutto va precisato che la questione del curricolo non costituisce affatto una novità .
Curricolo è ciò di cui hanno sempre fatto esperienza gli alunni in ogni ordine di scuola, cioè una
selezione più o meno organica di contenuti e attività di insegnamento \ apprendimento. Il problema è
che essi sono in perenne evoluzione, essendo gli assetti dei contenuti dell’istruzione in relazione alla
destinazione sociale assegnata ai sistemi educativi in un determinato contesto storico.
Nel periodo di cui ci stiamo occupando si prende consapevolezza della necessità di organizzare il
curricolo in modo intenzionale secondo due assi: 1. determinare obiettivi educativi e didattici anche in
periferia operando delle scelte nell’universo culturale e sociale. Un progetto curricolare efficace ha senso
solo se in rapporto ad un determinato contesto ambientale. Non ci si può limitare a un curricolo generale
(programma) ma si deve articolarlo in modo specifico e particolarizzante. Di qui il tema della
programmazione a cui sono chiamate le singole scuole e i gruppi docenti. 2. La tendenza a razionalizzare
i processi organizzativi e di insegnamento. E’ l’esigenza di controllare l’efficacia (grado in cui sono stati
raggiunti gli obiettivi previsti) e l’efficienza (rapporto risorse investite \ risultati), sempre più all’ordine
del giorno. Si sposta così l’interesse dal micro livello della didattica al livello più generale
dell’organizzazione ( tema già intuito dalla didattica della ricerca). Ma torniamo a Bruner e vediamo in
che senso l’approccio struttural - cognitivo contribuì allo sviluppo della ricerca e all’innovazione
curricolare11.
Bruner assume da Piaget una concezione dello sviluppo dell’intelligenza come un processo evolutivo
per successive ristrutturazioni qualitative e non per semplice accumulo quantitativo come era nella
tradizione associazionista-comportamentista. La conoscenza viene costruita dal soggetto più che
registrata o recepita. Ciò implica l’evenienza di forme di rappresentazione strutturata dell’esperienza a
partire da quella percettiva. Conoscere, in questo senso, significa soprattutto codificare e categorizzare
la realtà. Quest’attività assiomatica non si sviluppa da sé, ma ha luogo attraverso un processo di
interiorizzazione di modi di agire, immaginare e simbolizzare che esistono nella cultura. Le diverse fasi
di rappresentazione dell’esperienza descritte da Bruner (attiva, iconica, simbolica) sono modalità di
organizzazione che predominano in determinati periodi dello sviluppo cognitivo. In corrispondenza di
ciascuna delle tre fasi di rappresentazione l’uomo si è costruito strumenti tecnologici, veri e propri
amplificatori culturali per conoscere e dominare il reale. Tra gli strumenti più evoluti, che corrispondono
alla fase simbolica, Bruner individua il linguaggio, le teorie scientifiche, le discipline.
Nell’apprendimento, dunque, il soggetto abbina un ruolo attivo e un ruolo passivo. Viene mantenuto,
come in Piaget, un soggetto che organizza costruttivamente in strutture i suoi processi, ma ciò ha luogo
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anche grazie alla capacità di integrare strutture esterne e sistemi culturali (le discipline). E’ evidente qui
l’assonanza con lo psicologo sovietico Vygotsky, che già molti anni prima aveva sostenuto che le
operazioni e le strutture cognitive individuali sono il risultato dell’interiorizzazione di sistemi funzionali
esterni12. L’apprendimento non avviene comunque, ma nelle relazioni sociali e grazie ai processi
culturali di cui le singole discipline scientifiche sono gli indispensabili mediatori. Con Vygotsky, per
certi aspetti, si assiste a un ribaltamento della posizione piagetiana. Secondo lo psicologo sovietico, che
nel nostro paese ebbe una tarda quanto vasta eco, l’apprendimento crea una zona di sviluppo
prossimale, cioè mette in atto uno sviluppo che ha luogo solo nel momento dell’interazione con
l’esterno. Lo sviluppo raggiunto entra successivamente a far parte del patrimonio evolutivo del
bambino. Dunque l’apprendimento non solo non attende lo sviluppo (teoria dell’idoneità), ma quasi lo
anticipa. Le conseguenze didattiche di queste premesse sono facilmente prevedibili. L’educazione ( che,
non dimentichiamolo, per i cognitivisti è soprattutto educazione dell’intelligenza) si deve proporre di far
acquisire agli alunni le strutture fondamentali delle discipline, i loro principi essenziali, i concetti
attraverso cui ciascuna di esse tenta di spiegare una certa area di fenomeni. Dunque ciò che caratterizza
la disciplina non è solo il metodo ma anche i suoi concetti fondanti, sulla cui falsariga il metodo opera.
Centro dell’attività didattica diventa la disciplina, indagata nella sua autenticità scientifica. Di più: la
didattica stessa, in quanto struttura di collegamento tra matrice psicologica del soggetto e discipline,
deve essere “scientifica”. La struttura della scienza condiziona la struttura dell’insegnamento e della
didattica13. Questa acquisizione concettuale, una volta universalmente acquisita, non mancò di avere
una specifica ricaduta istituzionale. I Programmi didattici ( ne sono un esempio i Programmi della scuola
elementare del 1985) non vengono più elaborati da filosofi dell’educazione ma da esperti disciplinari e
da psicologi cognitivi. Se qualcosa della struttura dei modelli cognitivi ha a che fare con le nostre
tecniche per rappresentare la realtà (le discipline) la competenza didattica si costruisce all’incrocio tra
quella sullo sviluppo dei processi cognitivi e quella sulle strutture delle discipline. Se le scienze
costituiscono un effettivo amplificatore culturale dello sviluppo cognitivo esse vanno insegnate nella loro
autenticità scientifica. Ciò non significa un puro e semplice ritorno ai contenuti, ma attenzione ad alcune
idee - forza di ogni disciplina, ben esemplificate attraverso determinati nuclei tematici. I contenuti non
vengono più identificati con le nozioni, ma , semmai, con le procedure e le strutture concettuali con cui
ciascuna disciplina indaga la realtà. Il modello struttural - cognitivista di marca bruneriana presentava
indubbi vantaggi pratici rispetto alla didattica della ricerca. Attraverso il principio dell’attenzione alle
idee - forza della disciplina è possibile garantire una sistematicità all’insegnamento senza pretendere di
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esaurire i contenuti. Di essi si propone una semplificazione, ma con un preciso criterio concettuale. I
nuclei tematici delle unità didattiche vengono scelti in base alla loro significatività strutturale. Il
problema dell’esaurimento dei contenuti - nozioni investe maggiormente l’istruzione superiore.
Non mancarono interessanti tentativi di coniugare le esigenze poste dalla didattica della ricerca con
quelle delle strutturalismo didattico. E’ il caso, ad esempio, de La scuola come centro di ricerca ,
ipotesi didattica elaborata da Alfredo Giunti negli ormai lontani anni settanta14. L’impianto della
proposta è ispirato alla didattica della ricerca: la realtà come radice della formazione culturale, la cultura
intesa come qualcosa di operativo nella realtà sociale. Indagando la realtà, secondo Giunti, emergono
tuttavia punti di vista specifici attraverso cui ordinare e raccogliere ipotesi di ricerca. Questi punti di
vista sono i metodi di lavoro delle discipline, veri e propri mezzi di indagine sulla realtà. Giunti coniuga
così una concezione delle discipline (e della cultura) come capacità di intervento razionale sulla realtà
con la capacità, attraverso esse, di dare significato alla realtà stessa, il che richiede l’acquisizione della
padronanza dei linguaggi della conoscenza. Obiettivo è ricostruire il linguaggio delle singole scienze ma
attraverso un processo graduale di costruzione di reti formali di interpretazione dei fenomeni al fine di
risolvere problemi. Il modello di riferimento è la spiegazione scientifica e questo è proprio il punto che
rimane aperto: quando si parla di “metodo scientifico” a quale disciplina si fa riferimento poiché più che
di metodo si dovrebbe parlare di “metodi”? La tendenza strutturalista è un’opzione a favore della
scienza in senso stretto. Di qui la preferenza nel curricolo per le discipline a più alto tasso
epistemologico, come la matematica (questo era già evidente in Bruner) e la lingua (interpretata,
naturalmente, secondo un’ottica strutturale). Era inevitabile, pertanto, una qualche gerarchizzazione
delle discipline in rapporto alla maggiore o minore compatibilità del loro impianto con quello strutturale.
Come ha notato Damiano, si tende a semplificare tutta l’attività scolastica al suo “nocciolo” più interno
e più “duro”, quello appunto di natura intellettuale”15. E’ il rischio che hanno corso gli stessi Programmi
del 1985, ma con una contropartita importante : la legittimazione culturale dei cosiddetti apprendimento
“minori”, in posizione di tutto rispetto nel curricolo (ci riferiamo, ad esempio, all’educazione
all’immagine, all’educazione al suono e alla musica, all’educazione motoria)16.
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5. La razionalità dell’azione didattica : la Pedagogia per obiettivi
La necessità di superare il divario tra scuola e ricerca scientifica e la conseguente esigenza di garantire
efficacia \ efficienza ai risultati scolastici è alla base anche dell’altro modello didattico, che si presenta
sulla scena più o meno negli stessi anni.: la Pedagogia per obiettivi. E’ sempre la scienza a ispirare il
modello, ma da un altro punto di vista. Mentre con lo strutturalismo didattico la scienza ispira i curricoli
formativi delle discipline, con la Pedagogia per Obiettivi ci si propone di strutturare scientificamente i
curricolo, facendo propri i criteri della razionalità a livello di ingegneria curricolare. Secondo Damiano
è possibile distinguere i due approcci “scientifici” alla didattica per due versi:
(1) per il grado di formalizzazione rispetto ai saperi scolastici. Mentre lo “strutturalismo” si colloca all’interno dei saperi, considerati ciascuno nella propria specificità disciplinare e per le particolari competenze simboliche che mira ad abilitare, gli “obiettivi” trascendono i singoli saperi ed ambiscono al perseguimento di risultati di padronanza generale (sia pure da coniugare, di volta in volta, con particolari campi di conoscenze);
(2) per il punto di vista che assumono sull’insegnamento. Lo “strutturalismo” esamina l’insegnamento sotto il profilo degli oggetti culturali, producendo un’analisi dei processi cognitivi implicati dalle discipline di studio; al contrario la “programmazione” (si sottintende “per obiettivi” n.d.r.) sceglie come oggetto privilegiato l’azione didattica, considerata nella sua logistica. Potremmo dire che il primo modello vede l’insegnamento nell’ottica della psicologia della cultura ( o della psicologia cognitiva dell’educazione), l’altro nella prospettiva dell’ingegneria curricolare. Il paradigma, pertanto, non muta, è la scienza in senso moderno ad ispirare due varianti della ricerca didattica, che possono apparire opposte perché si pongono, rispetto all’insegnamento, da osservatori dislocati, non antagonisti, fra loro.17
Con la Pedagogia per obiettivi l’interesse si sposta dalle discipline di studio all’azione didattica in
quanto tale, al fine di garantire meglio la sua efficacia grazie alla dettagliata e puntuale
programmazione\valutazione dei processi formativi. Il paese guida della programmazione per obiettivi è
ancora una volta gli Stati Uniti, fin dagli anni cinquanta, con Tyler, Bloom, Taba, Mager18. In Italia la
Pedagogia per obiettivi si affaccia sulla scena pedagogica negli anni settanta. E’ allora che, sull’onda di
una mutazione genetica della scuola, divenuta fenomeno di massa, il tema della programmazione per
obiettivi fu all’ordine del giorno dell’agenda pedagogica, non solo per garantire efficienza \ efficacia
alla didattica d’aula, ma per dare una risposta a esigenze di cambiamento a livello di sistema scolastico.
Un sistema burocratico e centralistico dell’istruzione, in cui le singoli scuole si caratterizzavano come
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terminali del potere centrale, sentiva l’esigenza di ridistribuire le competenze a favore sia degli
insegnanti19, chiamati a essere direttamente responsabili della programmazione didattica ed educativa, sia
dei genitori e della comunità sociale, chiamati a partecipare direttamente alla gestione della scuola20. In
questo senso si può dire che fin dall’inizio il tema del curricolo e della programmazione furono
interpretati come esigenza di maggior autonomia delle istituzioni scolastiche nelle scelte didattiche e
organizzative a fronte di una tradizione rigidamente centralista. Il rapporto centro - periferia, con la
sopravvenuta esigenza di una scuola non più istituzione autoreferenziale ma in continuo e dinamico
interscambio con l’ambiente, andava ridefinito a favore della periferia, cioè delle singole scuole, da
considerare vere e proprie organizzazioni autonome, caratterizzate da comunanza di intenti e di
obiettivi, da valori condivisi al proprio interno e negoziati con gli utenti. E’ questa la parabola che dalla
Legge 820 del 1971 (istituzione del tempo pieno) ai Decreti Delegati del 1974 , passando per la Legge
n. 517\1977, porta all’autonomia scolastica (Legge 59\ 1997, con annessa normativa secondaria in via
di emanazione). Con la programmazione per obiettivi il livello micro della didattica d’aula si congiunge
con quello macro dell’organizzazione scolastica, non più considerata variabile indipendente, ma
elemento centrale e determinante lo stesso curricolo didattico.
Vediamo ora, in sintesi, quali i punti di riferimento della Pedagogia per obiettivi dal punto di vista
didattico. L’interesse, s’è già detto, è centrato sulla finalità dell’azione didattica, sulla sua efficacia. Ciò
significa che gli obiettivi di apprendimento che ci si propone di raggiungere devono essere presi in
considerazione non solo sulla base della loro perseguibilità, ma soprattutto della possibilità di verificarne
il raggiungimento. Ogni unità didattica e, cumulativamente, ogni corso di studi, deve prevedere obiettivi
verificabili attraverso prove oggettive e misurazioni quantitative. Programmare l’attività didattica deve
soprattutto voler dire programmare il controllo e la verifica (di qui le fortune della docimologia, scienza
che si occupa, appunto delle modalità di controllo dei risultati di apprendimento). L’obiettivo, per
favorirne la verifica, deve essere operazionalizzato, cioè espresso attraverso operazioni che l’alunno
deve essere in grado di mettere in atto al termine di un certo percorso. Una definizione precisa degli
obiettivi, si sostiene, favorirebbe anche la comunicazione fra i docenti nella programmazione comune e
nella comunicazione degli esiti ai genitori. In questo contesto la valutazione non viene più considerata in
quanto momento rituale selettivo (tipico della vecchia scuola di ceto) per divenire sempre più
processuale e formativa21. Essa viene intesa, cioè, come come strumento di autoregolazione e
correzione in itinere del processo formativo ( in termini cibernetici, esercitando la funzione del feed
back). Naturalmente il punto di vista tecnologico assunto dalla Pedagogia per obiettivi ritiene che una
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corretta valutazione formativa implichi la massima cura nell’accertamento di abilità specifiche,
comportamentali, attraverso strumenti di tipo quantitativo (prove oggettive, test, ecc.). Questa strategia
di apprendimento lineare, non esente da suggestioni comportamentiste22, richiedeva, per la concreta
applicazione, una sistematizzazione degli obiettivi di apprendimento in modo da rendere possibile
un’effettiva programmazione dei curricoli. E’ ciò che si fece con le cosiddette tassonomie, vere e proprie
articolazioni di obiettivi in ordine gerarchico di progressiva complessità in cui ogni livello superiore si
fonda su quello inferiore. La tassonomia più nota, quella di Bloom, prevede sei fondamentali
suddivisioni in termini di obiettivi:
1. conoscenza (capacità di ricordare dati, metodi, criteri, classificazioni, principi, ecc.) ;
2. comprensione (capacità di offrire una nuova formulazione del dato e di mostrare che il
messaggio proposto ha un significato per il fruitore);
3. applicazione (capacità di trovare e di applicare il metodo, il principio nella risoluzione di un
problema nuovo) ;
4. analisi (capacità di chiarire la gerarchia delle idee in un argomento e di esplicitarne le relazioni) ;
5. sintesi (capacità di organizzare le parti di un tutto, di costruire un modello o una struttura non
precedentemente dati) ;
6. valutazione (si manifesta nella capacità di emettere giudizi qualitativi e quantitativi che si
riferiscono al modo in cui contenuti e\o metodi rispondono ai criteri)23.
In ogni momento di verifica l’incontro tra il singolo obiettivo specifico e le capacità intellettuali
suindicate permetterebbe di individuare quale tipo di comportamento si sta effettivamente misurando (ad
esempio, accorgersi che la maggior parte dei problemi che vengono posti agli alunni appartengono alla
categoria “conoscenze”) e qual è la capacità che emerge nella risposta. Naturalmente tutto l’impianto
delle tassonomie si fonda su un presupposto non dimostrato secondo cui la costruzione della
conoscenza sarebbe un processo analitico e gerarchico. Molti cognitivisti, ad esempio, non sarebbero
d’accordo, nella consapevolezza che lo sviluppo cognitivo avrebbe luogo per progressive
ristrutturazioni qualitative che concorrono a ridefinire tutta la rete cognitiva e non semplicemente una
sua parte. I processi di pensiero, da questo punto di vista, non sono necessariamente traducibili in
comportamenti osservabili. Ma la Pedagogia per obiettivi si fonda su altri presupposti e, in ogni caso,
l’esigenza di rendere controllabile il processo di insegnamento \ apprendimento allo stadio finale
giustificherebbe qualche semplificazione di troppo. De resto, si dice, a scuola non si può né si deve
occuparsi di tutto ciò che avviene nei processi di pensiero dell’alunno, ma solo di ciò che ha rilevanza
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oggettiva, è osservabile e, come tale, utile per la società. Si assiste così a un ulteriore restringimento dei
compiti formativi della scuola, una sorta di limitazione del campo d’azione in nome di maggiore
scientificità e certezza dei risultati. Dewey vedeva il problema del curricolo come rapporto tra
“esperienza del bambino” e “programma di studi”. L’esperienza educativa è infatti, a suo parere,
un’esperienza sociale e cognitiva insieme, è storica e come tale non descrivibile né catalogabile
attraverso una tecnologia specifica ( sotto un altro punto di vista questo aspetto “artistico” del processo
educativo era presente anche, come s’è visto, nella pedagogia gentiliana). Psicologia, sociologia, sono
certamente fonti dell’esperienza educativa, ma non forniscono specifiche regole d’azione24. Bruner
interpreta il curricolo come rapporto tra sviluppo mentale e cultura. Il compito della scuola viene
individuato in modo più specifico nell’educazione dell’intelligenza attraverso le discipline. L’inevitabile
restringersi di orizzonti, col venir meno di un approccio generale al fenomeno educativo, raggiunge il
suo apice con la Pedagogia per obiettivi. Compito della scuola è allora far acquisire competenze e
abilità osservabili. Aumenta la precisione, la puntualità dell’intervento didattico a scapito dell’ampiezza
di orizzonti del fenomeno educativo nel suo complesso25.
Gli indubbi vantaggi pratici della Pedagogia per obiettivi, anzitutto quello di prevedere gli esiti di
apprendimento rendendo così trasparente agli utenti l’attività scolastica, è alla base del suo maggiore
successo rispetto ai modelli didattici precedenti. Le possibilità di controllo della progettazione e dei
risultati di apprendimento è il segreto della sua adozione, per certi aspetti, anche da parte del Ministero
della Pubblica Istruzione (I Programmi del 1985 sono ispirati anche a questo modello didattico, oltre che
allo strutturalismo bruneriano).Si resero subito evidenti, tuttavia, le difficoltà di applicazione del
modello, perlomeno nella sua versione ufficiale, caratterizzata da una connessione rigorosa e lineare tra
finalità educative, obiettivi e comportamenti osservabili. La naturale storicità dei processi educativi,
soggetti a negoziazione continua, mise subito in crisi, nei fatti, l’asse portante del modello, la
prevedibilità anticipata dei risultati. La prevedibilità dell’apprendimento si fondava, infatti, sull’assunto
indimostrato secondo cui l’insegnamento è causa diretta dell’apprendimento. E’ vero certamente che
ogni insegnamento è finalizzato a determinare l’apprendimento, ma è anche vero che la natura
probabilistica della loro relazione rende difficile, per non dire impossibile, prevedere in anticipo gli esiti.
Essendo in gioco nell’apprendimento altri fattori (le condizioni sociali esterne, aspetti cognitivi interni e,
in ultima analisi, la libertà e l’imprevedibilità del soggetto) l’azione di insegnamento non può che
procedere per successivi aggiustamenti (di qui la programmazione e la valutazione in itinere che viene di
fatto riconosciuta come momento di riaggiustamento quando si parla di valutazione formativa).
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L’obiettivo, insomma, viene di fatto negoziato e modificato nel percorso nel rapporto dei soggetti tra
loro e con gli oggetti culturali disciplinari. Come fa notare Damiano, nell’azione di insegnare
“ la combinatoria è clinica, idiografica, e la drammatica del rapporto tra due soggettività implicate è storica, nel senso che non può essere risolta tutta all’inizio, bensì è tenuta ad accompagnarsi reagendo, caso per caso, ai cambiamenti eventuali che essa intende provocare lungo il percorso”26.
Non è in discussione, in questo caso, la necessità di programmare l’azione didattica né l’esigenza di
rendere più trasparenti possibile i suoi esiti. Ciò che è limitativo è la centralità dell’obiettivo, inteso come
verifica anticipata, non essendo il percorso curricolare una via deduttiva, di connessione rigorosa, ma un
complesso processo interattivo in cui, tra l’altro, l’insegnante è parte in causa e non un puro osservatore
esterno.
6. Le nuove teorie cognitiviste: dall’approccio “elaborazione dell’informazione” alla psicologia
“culturale”
A queste conclusioni critiche si giunge anche alla luce dei più recenti sviluppi delle teorie cognitiviste,
ecologiche, neurobiologiche, sistemiche. Il sistemismo tecnologico della Pedagogia per obiettivi, inteso
in modo lineare, oltre a non corrispondere alla pratica educativa quotidiana, non è neppure fedele alle
specifiche esigenze del soggetto. Esso sembra convergere, piuttosto, con un modello di funzionamento
della mente di tipo computazionale che, sull’onda della ricerca sul pensiero artificiali, ha consentito
ipotesi piuttosto deterministiche sul funzionamento cognitivo. La mente e le sue rappresentazioni
vengono considerate come eventi di un sistema formale rappresentabile computazionalmente. Ciò ha
consentito molti progressi nelle applicazioni tecnologiche, dalla robotica all’elaborazione delle immagini.
Questo approccio cognitivo (definito dell’ information processing), tuttavia, negli ultimi anni ha rivelato
i suoi limiti. Prima di tutto l’approccio dell’elaborazione di informazione sarebbe deliberatamente
abiologico, avendo pochi elementi in comune con il modo di operare effettivo del sistema nervoso27. Nel
cervello reale, infatti, non esistono regole o processori centrali e l’informazione non viene
immagazzinata in modo preciso. Esso presenta sì una capacità auto-organizzatrice, ma ciò non implica la
presenza di sistemi centrali di elaborazione. Descrivere il cervello come un flusso orientato di
informazioni sequenziali sembra ormai inadeguato28 . L’interesse dei ricercatori si sposta dunque
dall’elaborazione delle informazioni ai prodotti della mente umana e, specificamente, ai vari veicoli
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simbolici di cui si servono gli uomini. Molti ricercatori di area cognitiva (D. Feldman, D.Olson,
G.Salomon, H.Gardner e lo stesso Bruner)29 hanno deciso di concentrare la loro attenzione sui sistemi
simbolici dell’uomo. Gran parte di ciò che c’è di tipico nella cognizione implica, infatti, l’uso di differenti
sistemi di simboli. Con ciò viene minata definitivamente la nozione di intelligenza come capacità o
potenziale generale. Essa sarebbe piuttosto da intendersi come un medium, una capacità di risolvere
problemi e di creare prodotti apprezzati in uno o più contesti culturali. E’ così che Gardner giunge a
sostenere che nell’individuo reale è presente una combinazione di intelligenze che rende possibile la
soluzione di problemi e la creazione di prodotti. Ogni intelligenza è relativamente indipendente dalle
altre: le doti intellettuali di un individuo, per esempio in musica, non possono essere inferite dalle sue
abilità matematiche o linguistiche30. Anche Olson propone un modello “culturale” dell’intelligenza .
Essa media tra l’uomo e la cultura più che tra l’uomo e la natura. Anzi, essa stessa è culturalmente
determinata potendo essere considerata come l’insieme delle competenze acquisite. Se l’intelligenza è
l’abilità in un determinato medium viene definitivamente superata l’idea che corrisponda a un concetto
universale31. Questi orientamenti di psicologia “culturale” trovano riscontro nelle ricerche del
cosiddetto costruttivismo radicale (Von Glaserfeld, Bateson, Watzlawick). Riprendendo la tesi
piagetiana (“l’intelligenza organizza il mondo organizzando se stessa”) il costruttivismo sviluppa una
teoria della conoscenza che non riguarda più la realtà oggettiva, ma più semplicemente il nostro modo di
dare organizzazione alle esperienze. La conoscenza non appare più come ricerca di conformità al reale,
ma riguarda piuttosto la ricerca di atteggiamenti e di modi di pensare adeguati. Ricorda von Glaserfeld:
“Il sapere viene costruito dall’organismo vivente per ordinare nella misura del possibile il flusso
dell’esperienza di per sé informe in esperienze ripetibili e in rapporti relativamente attendibili tra di
esse”32.Questa sorta di scetticismo conoscitivo per cui non ci sarebbe dato il mondo oggettivo, ma solo
“un accesso possibile a una meta da noi scelta nel nostro mondo dell’esperienza”, è fertile di
conseguenze pedagogiche. Se infatti le stesse teorie psicologiche non pretendono più di dirci “come
stanno realmente le cose” a proposito dell’apprendimento è lecito dubitare che l’esperienza educativa e
didattica debbano continuare a identificarsi, in nome dell’assolutezza scientifica, con l’applicazione sul
campo di determinate conoscenze. Va rifiutata l’idea di “modello didattico” in senso prescrittivo,
secondo cui da una concezione dell’apprendimento si deduce una teoria dell’insegnamento. Questo
paradigma non è adeguato a render conto dell’insegnamento. Infatti quest’ultimo:
“riguarda due soggetti diversi fra loro (insegnamento e apprendimento, ndr.) quanto l’insegnante e
l’alunno;
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per quanto l’alunno possa condividere il progetto educativo dell’insegnante un tipo di azione è quella
che esercita l’insegnante, sia pure finalizzata a ottenere l’apprendimento dell’alunno, altro quella
dell’alunno, che consiste effettivamente in comportamento apprenditivo;
infine, non è detto che ad un’azione di insegnamento corrisponda, in dipendenza necessaria e sufficiente,
un’azione di apprendimento (e viceversa); anzi, che questo possa o debba accadere è il problema della
didattica (non dell’apprendimento).”33
Va rifiutata dunque un’operazione dogmatica e letterale di traduzione di teorie psicologiche in
impostazioni didattiche (ad esempio, da Piaget all’insiemistica, dalle teorie cognitiviste sull’intelligenza
plurale ai teatri cognitivi delle discipline, ecc.). Si tratta di semplificazioni ingenue, segno della minorità
della didattica e che non hanno giovato né ad essa né alla psicologia cognitiva (che ,a detta dei suoi
stessi esponenti, si muove su un altro terreno). L’esperienza educativa e didattica ha una sua autonomia
e quand’anche io sapessi esattamente “come funziona la mente” del soggetto alunno (oltre che, si spera,
la mia ) non avrei per questo trovato risposte esaurienti sull’organizzazione didattico - educativa. Essa si
costituisce a partire da una dimensione più ampia di quella strettamente cognitiva, cioè dalla relazione
- reciproca. L’esperienza educativa e didattica vivono nella dimensione della prassi, in quanto ciascuno
di noi appartiene a una società, a una cultura, a un linguaggio e a un contesto vitale. La necessità
attenersi alla relazione nasce dalla consapevolezza della responsabilità educativa, che ci richiama a
vivere senza deleghe né alibi un incontro tra soggetti di diversa età ed esperienza34. Se non ci si attiene
alla relazione, se non si costruisce la relazione, le reciproche intenzionalità di insegnante ed alunni non
possono comunicare tra loro e pertanto neppure accedere ad un comune processo di costruzione della
conoscenza (si badi, ”comune”, non unilaterale) che, come ha riconosciuto lo stesso Bruner, ha a che
fare con il significato che ciascuno di noi dà al mondo35. E’ per questo che l’attenzione al come si
conosce non va ristretta a limitati ambiti di esperienza, come già faceva notare Dewey. E’ necessario
uno spostamento di attenzione non solo dai prodotti ai processi cognitivi nell’alunno ma un serio
atteggiamento critico da parte dell’insegnante prima di tutto su se stesso, sui suoi processi, quelli che gli
rendono possibile o viceversa gli ostacolano lo spazio relazionale . Dal punto di vista didattico ciò
potrebbe voler dire maggiore distacco dalla preoccupazione ricorrente nella scuola di ricondurre al più
presto il sapere dei soggetti all’acquisizione di codici (spesso senza preoccuparsi più di tanto del come
della loro assimilazione) per lasciare più spazio ad un ampio uso di differenti sistemi simbolici (dalla
multimedialità alla musica-suono, dall’immagine alla lingua) nella consapevolezza che la conoscenza si
elabora in un incontro costruttivo con la realtà attraverso un medium (Olson, Gardner, ecc.).
18
7. Le nuove proposte didattiche
E’ sulla base di queste esigenze che negli anni sono venute emergendo nuove proposte didattiche che
tendono a declinare in modo non prescrittivo, “modellistico”, la cultura della programmazione didattica.
Dopo la Pedagogia per obiettivi a ispirazione industrial - tecnologica, si sono venute affermando la
programmazione per sfondi, il progettare per situazioni, la postprogrammazione36.
La programmazione per sfondi , ideata negli anni Ottanta da un gruppo di ricercatori bolognesi
(Canevaro, Zanelli, ecc.) si colloca apertamente in una prospettiva ecologica. La reciproca influenza fra
elementi e contesto suggerisce una programmazione in cui il progetto didattico è un itinerario aperto,
una ricerca continua. L’insegnante - regista programma le condizioni ambientali che possano consentire
al bambino di auto - organizzarsi. In questo senso gli obiettivi non sono un elemento rigido, ma vengono
negoziati periodicamente e individualizzati37.
Affine alla programmazione per sfondi è la proposta del progettare per situazioni. Il punto di
riferimento teorico è, oltre all’epistemologia piagetiana, il sistemismo ecologico e costruttivista (Von
Foerster, Maturana, Varela, Bateson, Watzlawick). A seguito dell’osservazione iniziale l’insegnante
propone una situazione didattica intesa come spazio relazionale e cognitivo. I percorsi non vengono
precostitutiti, ma si lavora molto sulla problematizzazione. I sistemi di valutazione previsti sono
soprattutto di tipo qualitativo38.
La postprogrammazione è ancora più critica nei confronti di una didattica interventista. Dalla centralità
dei modelli si passa alla centralità dei soggetti (insegnanti e alunni). La didattica è vista come un sapere
narrativo, una sorta di storia dei soggetti e delle loro elaborazioni. Essa si pensa come progetto e non
tanto come programmazione, termine che richiamerebbe le rigidità della Pedagogia per Obiettivi. I punti
di riferimento teorici della postprogrammazione sono la fenomenologia - ermeneutica (Husserl -
Heidegger - Gadamer) e le teorie della complessità (Bateson, Von Foerster, Morin, Ceruti)39.
8. Per un curricolo flessibile
Con tutta evidenza questi approcci didattici emergenti condividono un’esigenza di correzione del
modello di curricolo tecnologico della Pedagogia per Obiettivi (anzi, criticano la stessa idea di modello
in pedagogia - didattica). Sembra imporsi, dunque, una visione sistemica aperta e flessibile del curricolo
19
che non appare più come un tracciato sequenziale e lineare (analisi della situazione - definizione degli
obiettivi - specificazione di metodi e contenuti dell’intervento - condizioni organizzative - modalità di
valutazione\verifica), ma una trama di relazioni e interrelazioni complesse. Il curricolo include, dunque,
sia ciò che normalmente si intende con programma (con i suoi punti-fermi definiti a livello generale) sia
le scansioni fondamentali della progettazione. Esse sono individuabili in riferimento alle componenti
strutturali di qualunque azione educativa: le condizioni, gli scopi e i valori, le interazioni, i mezzi
dell’azione, la valutazione. L’ultimo momento, quello valutativo, è un elemento fondamentale di
regolazione del percorso, ma l’esigenza di documentare \ valutare non può né deve giungere a
condizionare gli scopi stessi del percorso formativo (per cui tutto ciò che non è oggettivamente
documentabile non merita attenzione nell’azione didattico - educativa). Su questo curricolo d’aula
agisce una dimensione macrosistemica, riferibile al contesto culturale esterno, alla struttura della scuola
come istituzione, alla cultura e al clima del singolo istituto scolastico. Oggi l’attenzione a questa
dimensione più generale del curricolo non può che essere una scelta obbligata. Le mutate funzioni della
scuola nella società di massa e la caduta della sua autoreferenzialità impongono un’attenzione continua
al setting organizzativo oltre che a quello didattico specifico. E ciò per garantire alla didattica condizioni
non formali di operatività . Quelle esigenze di apertura all’esterno (efficacia \ efficienza) che la
Pedagogia per Obiettivi traduceva in un curricolo esasperatamente lineare e deduttivo rimangono
tuttora presenti. Esse richiamano gli insegnanti in primo luogo alla collegialità , vista non più come
fatto opzionale o di libera partecipazione, ma come precisa esigenza pedagogica e di funzionalità del
servizio. Gli spazi individuali di ciascun docente vanno coniugati con le complesse esigenze di un
servizio rispetto a cui i contributi dei singoli sono inevitabilmente parziali. Un gruppo - docente (ad
esempio, di modulo) che si proponga di divenire gruppo di progetto si propone di costruire
pazientemente una tavola comune di significati, di scelte formative su cui orientare l’azione didattica.
Ciò, su tematiche più generali (aspetti formativi generali, scelte organizzative), va perseguito anche a
livello di Istituto, il quale, nell’ottica dell’autonomia, dovrà orientarsi sempre più a costruire al suo
interno un’identità culturale e organizzativa pena l’impossibilità di dialogare con le molteplici
sollecitazioni esterne40. Solo così, a partire dalla coscienza di una sua responsabilità educativa, la scuola
potrà continuare a esercitare quella funzione di filtro culturale e di semplificazione di una vita sociale
ipercomplessa ( e perciò disorientante), come auspicato da Dewey in tempi ormai lontani41.
L’esigenza della collegialità si coniuga con quella, già richiamata, della flessibilità. La presa di
coscienza, a partire dagli anni sessanta, del curricolo organizzativo come variabile determinante del
20
processo didattico impone l’attenzione alla flessibilità organizzativa. E’ quanto si è venuto affermando
con la costituzione dei gruppi - docenti come soggetti della programmazione, con l’individualizzazione
dell’insegnamento, una minore rigidità dei tempi e del gruppo classe. Molte di queste esigenze sono
state fatte proprie anche a livello istituzionale42.
Tutti questi segni di innovazione curricolare vanno nella direzione dell’abbattimento delle rigidità
organizzative ad ogni livello. Se i contenuti culturali (le discipline), i soggetti, gli spazi sono più
comunicanti tra loro anche obiettivi e contenuti dell’attività didattica devono essere adattabili alle
differenti condizioni dei contesti ( programma non più rigido, ma, a partire da confini più generali
definiti a livello nazionale, libertà di progettazione didattica; il che spiega, come s’è visto, il successo
iniziale della Pedagogia per Obiettivi). Dopo una fase di profonda apertura nella direzione della
flessibilità organizzativa e della collegialità (interdisciplinarità, team teaching, allungamento del tempo
- scuola inserimento degli alunni portatori di handicap, ecc.) la Legge 148\1990 ha sentito l’esigenza di
mettere ordine in una situazione troppo variegata. Di qui l’istituzione della figura dell’insegnante di
ambito, di tempi più definiti per le discipline e per la programmazione, ecc.43 . Ciò impone, a maggior
ragione oggi, attenzione alla collegialità, affinché esigenze puramente contabili (ad esempio la necessità
di rispettare i tempi delle discipline) non si sostituiscano agli obiettivi formativi e ad ogni altro criterio
pedagogico costituendo così un facile alibi per scelte di comodo. Non va dimenticato che la
strutturazione organizzativa è e rimane un semplice strumento per favorire il setting didattico e non
costituisce un valore a sé. Al contrario, i momenti collegiali di valutazione tra insegnanti sono anche
occasioni di aggiustamento delle azioni didattiche e delle scelte organizzative quando queste non si
siano rivelate funzionali agli obiettivi formativi. Per obiettivi formativi dobbiamo intendere non la
semplice esigenza di esaurire dei contenuti né quella di perseguire comportamenti \ abilità finali negli
alunni. Le esigenze dell’attività didattica fanno riferimento, come s’è visto, a quell’insieme di relazioni
complesse che è l’attività educativa in cui l’insegnante è implicato, sia pur in una diversa posizione, non
meno dei suoi alunni.
NOTE 1 Cfr. F.RAVAGLIOLI, Profilo delle teorie moderne dell’educazione, Roma, Armando, 1995, p. 18 e segg. 2 E’ pur vero che la prevalenza di saperi storico - letterari può essere letta come segno distintivo di una scuola di ceto e di elite. Non si deve dimenticare, però, soprattutto nel contesto attuale, che il rapporto con la nostra tradizione storica e linguistica ha a che fare anche con la costruzione di un’identità collettiva e di valori condivisi. Ciò ha tanto più valore oggi, nel momento in cui essa viene insidiata dalla globalizzazione dell’economia e dal venir meno di un’autentica
21
relazione educativa tra generazioni. Su questo tema si cfr. il mio Del valutare: dal mito dell’oggetto ad una cultura fenomenologico - ermeneutica, in A.A.V.V , La valutazione possibile, Firenze, la Nuova Italia , 1999. 3 Cfr. G. LOMBARDO RADICE, Lezioni di didattica, Firenze, la Nuova Italia. 4 Cfr. F.CAMBI, Storia della pedagogia, Roma- Bari, Laterza, 1995, pp. 451 - 452. 5 Il riferimento è a F. DE BARTOLOMEIS, La pedagogia come scienza, Firenze, la Nuova Italia, 1953. F. De Bartolomeis, già studioso dell’attivismo, rompe definitivamente con la tradizione pedagogica spiritualista e idealista che vede l’educazione come un fatto unitario in nome di una pedagogia scientifica che si alimenti dei dati positiivi delle scienze dell’educazione. De Bartolomeis, come si vedrà, fu buon profeta. 6 Cfr. J.DEWEY, Democrazia ed educazione, Firenze, la Nuova Italia, 1949, p. 26 e segg. 7 F. DE BARTOLOMEIS, La ricerca come antipedagogia, Milano, Feltrinelli, 1969, p. 86.
8 E’ pur vero che Piaget distingueva tra i fattori dello sviluppo cognitivo, oltre a quelli biologici e di equilibrazione, quelli sociali e di trasmissione educativa e culturale. Tuttavia è noto come egli attribuisse ai fattori culturali un’incidenza limitata di regola ai contenuti. Di qui l’interpretazione della teoria piagetiana come priorità dello sviluppo rispetto all’apprendimento esterno. La teoria dell’idoneità si presenta come la declinazione didattica, un po’ volgarizzata, di questo principio psicologico. 9 Per queste ed altre possibili obiezioni alla didattica della ricerca si veda E.DAMIANO, L’azione didattica. Per una teoria dell’insegnamento, Roma, Armando, 1993, p. 148 e segg. 10 Al Congresso di Woods Hole del 1959 , nota Damiano “gli scienziati staunitensi presero coscienza del rischio di perdere la competitività spaziale con l’U.R.S.S. e, insieme, della responsabilità della scuola - e dell’attivismo ispirato dal Dewey - per quella sfida perdente... Bruner - scopertosi pedagogista in quell’occasione - può essere considerato il capofila di quella produzione di materiali didattici di varia fonte - con il comune denominatore dell’ispirazione cognitivista ed epistemica - che avrebbero portato a rivedere i rapporti fra scienza e insegnamento nei curricolo scolastici dei paesi occidentali”. E.DAMIANO, La razionalità dell’insegnare. Per un bilancio della “Pedagogia per obiettivi”, in “Il Quadrante Scolastico”, , n.51, dic.1991, pp. 20 - 21. 11 Il testo di Bruner più significativo anche per la sua rilevanza sulle teorie dell’insegnamento è J.BRUNER, Verso una teoria dell’istruzione, Roma Armando,1967. 12 Si cfr. L.S.VYGOTSKY, Pensiero e linguaggio, Firenze, Giunti Barbera, 1966. 13 Su questi temi si può consultare E. DAMIANO, Epistemologia e didattica. Analisi di curricoli per la scuola elementare, Brescia, La Scuola, 1988. 14 Si veda, a questo proposito, A.GIUNTI, La scuola come centro di ricerca, Brescia, La Scuola, 1973. 15 E.DAMIANO, Istruzione ed espressione, in “Animazione ed espressione”, n.127, maggio - giugno 1984, p.263. 16 Questo rischio viene corso molto meno da Giunti. La centralità della ricerca sulla realtà e della problematizzazione del reale come punto di partenza ineludibile del percorso didattico permette di valorizzare meglio, e senza improprie gerarchizzazioni, tutti gli specifici mezzi di indagine sulla realtà, compreso quello storico, geografico, antropologico e perfino religioso. 17 E. DAMIANO, La razionalità dell’insegnare. Per un bilancio della “Pedagogia per Obiettivi”, op.cit. , p.23. 18 Per le pubblicazioni in lingua italiana si veda, ad esempio, R.F.MAGER, L’analisi degli obiettivi, Teramo, EIT, 1974. 19 Il D.P.R. 416\1974 , all’art. 4 ,lettera a) recita : “Il collegio dei docenti.....cura la programmazione dell’azione educativa anche al fine di adeguare, nell’ambito degli ordinamenti della scuola stabiliti dallo Stato, i programmi d’insegnamento alle specifiche esigenze ambientali e di favorire il coordinamento interdisciplinare”. E più avanti, alla lettera c) : “Il collegio dei docenti valuta periodicamente l’andamento complessivo dell’azione didattica per verificarne l’efficacia in rapporto agli orientamenti e agli obiettivi programmati”. Il principio della programmazione viene così fatto proprio a livello istituzionale. 20 A questo proposito si veda, più in generale, tutto il D.P.R. 416\1974 che contiene le norme sugli Organi Collegiali. 21 Sulla valutazione da punto di vista della pedagogia per obiettivi si veda ,ad esempio B VERTECCHI, Valutazione formativa, Torino, Loescher, 1976 ; B. VERTECCHI, Decisione didattica e valutazione, Firenze, La Nuova Italia, 1993. Per un punto di vista critico rispetto alla pedagogia per obiettivi si veda il già citato A.A.V.V., La valutazione possibile, Firenze, La Nuova Italia, 1999. 22 Se al centro non è più il soggetto costruttore di sapere ma il comportamento osservabile, la Pedagogia per Obiettivi rivela una certa parentela con la scuola psicologica che in America aveva preceduto il cognitivismo e poi convissuto con esso: il comportamentismo. Il comportamentismo interpreta l’apprendimento attraverso i meccanismi di associazione stimolo - risposta, discriminazione, generalizzazione. Negli anni cinquanta la tradizione associazionista ispirò specifici settori di ricerca sull’insegnamento: l’istruzione programmata (Skinner) e la ricerca sull’addestramento militare che diede origine all’ “ingegneria umana”.
22
23 Ricordiamo che altre tassonomie importanti sono quelle di Guilford e di Gagné. per un’analisi di queste tassonomie oltre che per un’indagine sulla valutazione intesa come strumento di autoregolazione pedagogica cfr. C.PONTECORVO, Psicologia dell’educazione. Obiettivi e valutazione nel processo educativo, Teramo, Giunti e Lisciani, 1990. 24 Su Dewey e su Gentile si veda F.RAVAGLIOLI, Profilo delle teorie moderne dell’educazione, Roma, Armando, 1995. 25 Per le problematiche curricolari nel rapporto tra Dewey e lo strutturalismo bruneriano si veda L.TORNATORE , Prefazione, in A.A.V.V., La struttura della conoscenza e il curricolo, Firenze, La NUova Italia, 1971, pp. VII - XXV. 26 E.DAMIANO, L’azione didattica , op.cit., p. 169. 27 Per queste e altre critiche all’approccio elaborazione dell’informazione si cfr. H.GARDNER, Formae mentis. Saggio sulla pluralità dell’intelligenza, Milano, Feltrinelli, 1987. 28 Si veda, a questo proposito, F.VARELA, Scienza e tecnologia della cognizione,Firenze, Hopeful Monster,1987. 29 Significativo di questa svolta culturale in “psicologia” da parte di Bruner è J.BRUNER, La ricerca del significato, Torino, Boringhieri, 1992. Bruner nota che nell’approccio cognitivo computazionale non c’è più spazio per la mente intesa nel senso di stati intenzionali, credenze, aspettative. Tutto ciò che attiene al significato che noi diamo al mondo è l’essenziale di ogni psicologia autentica. Egli richiamandosi alla prima rivoluzione cognitiva, propone perciò una psicologia “culturale”. Varrebbe la pena di ricordare che di queste conclusioni la fenomenologia husserliana è già da tempo consapevole, ma questo è un discorso che porterebbe lontano. A proposito della psicologia “culturale” si veda anche D.OLSON, Linguaggi, media e processi educativi, Torino, Loescher, 1979; D.FABBRI, A.MUNARI, Strategie del sapere. Verso una psicologia culturale, Bari, Dedalo, 1984. 30 Cfr. H. GARDNER, Formae mentis. Saggio sulla pluralità dell’intelligenza, op. cit. 31 Cfr. D.OLSON, Linguaggi, media e processi educativi, op.cit. 32 E.VON GLASERFELD, Introduzione al costruttivismo radicale, in P.WATZLAWICK (a cura di), La realtà inventata, Milano, Feltrinelli, 1988, p. 35. 33 E.DAMIANO, L’azione didattica. Per una teoria dell’insegnamento, op.cit., p. 100. 34 Su questi temi si cfr. P.BERTOLINI, L’esistere pedagogico, Firenze, la Nuova Italia, 1988, p. 140 e segg; P.BERTOLINI, La responsabilità educativa, Torino, Il Segnalibro, 1996. 35 Cfr. J.BRUNER, La ricerca del significato, op. cit. 36 Per queste nuove proposte didattiche, oltre che per una rivisitazione sintetica della Pedagogia per obiettivi e della didattica con i concetti (Damiano) cfr. F. AZZALI, D.CRISTIANINI, Programmare oggi. Le fonti, i modelli, le azioni, Milano, Fabbri, 1995. 37 Per un maggiore approfondimento sulla programmazione per sfondi cfr. P.ZANELLI, Uno sfondo per integrare, Bologna, Cappelli, 1986; A.CANEVARO,G.LIPPI,P.ZANELLI, Una scuola, uno sfondo, Bologna, Nicola Milano, 1988. 38 per un eventuale approfondimento si può consultare W.FORNASA, Curricolo, programmazione e progettazione, in S.MANTOVANI (a cura di), La scuola del bambino, Bergamo, Juvenilia, 1993. 39 Per l’approfondimento si veda G.BOSELLI, Postprogrammazione, Firenze, La Nuova Italia, 1991. 40 Per un approfondimento di queste tematiche si veda P.ROMEI, Autonomia e progettualità. La scuola come laboratorio di gestione della complessità sociale, Firenze, la Nuova Italia, 1995. 41 Cfr. J.DEWEY, Democrazia ed educazione, Firenze, La Nuova Italia, 1949, p. 26 e segg. 42 Per prevenire il rischio di una ripartizione rigida del tempo degli insegnamenti di disciplinari nella scuola elementare la C.M. 271\91 ricordava la necessità di sottoporre a verifica periodica i tempi settimanali per gli opportuni adattamenti. La successiva C.M. 116\96 ha richiamato l’opportunità di costruire orari settimanali (o plurisettimanali) “ scanditi sulla base di tempi di ambito, distribuendo con flessibilità nel corso dell’anno il tempo di insegnamento di ciascuna disciplina”. Per ciò che riguarda l’apertura del gruppo classe e l’individualizzazione dell’insegnamento, già la Legge 517\77 all’art. 2 stabiliva che “la programmazione educativa può comprendere attività scolastiche integrative organizzate per gruppi di alunni della stessa classe oppure di classi diverse anche allo scopo di realizzare interventi individualizzati in relazioni alle esigenze dei singoli alunni”. Lo stesso art. 2 prosegue aprendo alla possibilità di forme di integrazione a favore degli alunni portatori di handicaps, altro esempio di significativa flessibilità curricolare. 43 Sul nuovo ordinamento della scuola elementare si veda F.FERRARESI, Il nuovo ordinamento della scuola elementare, Firenze, la Nuova Italia, 1990 (In Appendice il testo della Legge di Riforma , delle Circolari applicative e la sintesi delle disposizioni legislative e amministrative che hanno preceduto la Riforma dal 1971 ad oggi). Si cfr. anche Il nuovo ordinamento della scuola elementare, in “Annali della Pubblica Istruzione”, Studi e Documenti , n.53 , 1990 ( in Appendice i Programmi didattici della scuola primaria e la Riforma degli Ordinamenti); L’organizzazione didattica della scuola elementare, in “Annali della Pubblica Istruzione”, Studi e Documenti, n.66, 1993.
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