Penitenza e Unzione degli Infermi 2012-2013 - 1
Penitenza e Unzione degli Infermi
Ateneo Pontificio Regina Apostolorum
Facoltà di Teologia
Corso PTEO1024
Professore: P. Miguel Paz LC.
Dispense ufficiali corso accademico 2016-2017
Presentazione
Il Catechismo della Chiesa Cattolica colloca la Penitenza e l'Unzione dei malati nel gruppo dei
Sacramenti di guarigione, (1211, 1420, 1421) i quali vengono in aiuto della debolezza del «homo viator»,
l'uomo «in cammino», quello che ha ricevuto la vita nuova di Cristo, ma ancora la porta «in vasi di creta»
(2Cor 4,7), in modo che può essere indebolita e persino perduta a causa del peccato.
È il dramma dell'uomo in cammino, «simul iustus et peccator», che deve prendere «ogni giorno» (Lc
9,23) la sua croce e seguire Cristo. Un cammino in lotta contro forze avverse: il mondo, il demonio e la
propria debolezza, segnato quindi dalla dialettica tra il peccato e la grazia; ma un cammino nel quale Cristo
«è sempre con noi, fino alla fine dei tempi» (Mt 28,20) nella sua Chiesa, e «ha vinto il mondo» e il «principe
di questo mondo» (Gv 12,3; 16,11).
Queste debolezze o fragilità sono di due ordini: morali, che portano al peccato; e fisiche, che portano
alla morte; ma la grazia di Dio può fare di queste debolezze proprio l'occasione «perché si manifesti la gloria
di Dio», come disse Gesù del cieco nato e di Lazzaro (cfr. Gv 9,3; 11,4). Giacché la forza di Dio si manifesta
nella debolezza (cfr. 2Cor 12,9).
Così, nella Chiesa, di fronte alla debolezza morale e al peccato del battezzato, abbiamo la Penitenza
(o Riconciliazione), il sacramento della seconda (o successive) opportunità: restituisce la grazia se perduta,
l'aumenta se diminuita. Di fronte alla debolezza fisica e alla prospettiva della morte, abbiamo l'Unzione,
come guarigione della debolezza spirituale conseguenza della debolezza fisica, non esclusa la possibilità di
guarigione fisica, sebbene non miracolosa.
Riguardo alla Penitenza, ne cercheremo il fondamento biblico, per poi fare un percorso storico per
vedere l'evoluzione della prassi e, strada facendo, verranno fuori le diverse riflessioni teoriche a seconda dei
problemi e delle questioni che ogni epoca ha messo più in rilievo. Speciale riguardo meriteranno la dottrina
del Vaticano II e i temi più attuali, come l'«ordo» attuale e il modo di considerare la pratica delle indulgenze
Quanto all'Unzione degli infermi, cominceremo con un accenno alla visione cristiana sulla malattia e
la morte. Pio intraprenderemo un percorso prima biblico, con speciale attenzione al rito descritto nella lettera
di Giacomo, poi storico, in cerca dell'affermazione esplicita e sistematica della sacramentalità dell'Unzione,
cercando di far chiarezza sul valore delle antiche testimonianze, non sempre abbastanza precise nella
distinzione tra uso sacramentale e l’uso devozionale dell'unzione con l'olio. Concluderemo con una
trattazione sistematica del sacramento.
Per la Penitenza, seguiremo fondamentalmente il libro di Adnès; per l'Unzione, quello di Nicolau,
tranne la parte storica, nella quale egli si mostra troppo massimalista, pretendendo di vedere troppe
testimonianze dell'uso sacramentale dell'Unzione, e invece seguiremo Adnès che è molto più preciso nelle
sue valutazioni.
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Il libricino di Adnès sull'unzione dei malati, edito dalle Paoline è comunque sufficiente come libro di
testo per quelli di lingua italiana.
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Bibliografia su Penitenza e Unzione
TESTI
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COLLO, C., Riconciliazione e penitenza, Ed. S. Paolo, Cinisello Balsamo MI 1993.
NICOLAU, M., La unción de los enfermos. Estudio histórico dogmático, BAC, Madrid 1975.
ADNÉS, P., L’Unzione degli Infermi. Storia e Teologia, Ed. S. Paolo, Cinisello Balsamo MI 1996.
BIBLIOGRAFIA COMPLEMENTARIA
a. Penitenza e Unzione degli Infermi
AUER, J. - RATZINGER, J., I sacramenti della Chiesa (Piccola dogmatica cattolica, v. VII), Citadella,
Assisi 19892.
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enfermos), Sígueme, Salamanca 19902.
FLÓREZ G., Penitencia y Unción de enfermos, B.A.C., Madrid 1993 (contiene bibliografía).
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MARSILI, S., I segni del mistero di Cristo, teologia liturgica dei sacramenti, Roma 1987, (La penitenza e
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MIRALLES, A., I sacramenti di guarigione, Piemme, Casale Monferrato (AL) 1992
NICOLAS, J.-H., Synthèse dogmatique, Ed. Universitaires Fribourg Suisse - Ed. Beauchesne Paris, 1986.
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Vaticana).
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b. Penitenza
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VOGEL, C., Il peccatore e la penitenza nella Chiesa Antica, LDC, Torino-Leumann, 1967.
c. Unzione degli infermi
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LARRABE, J. L., La Iglesia y el sacramento de la unción de los enfermos, Sígueme, Salamanca 1974.
LUSTIGER, J. M., L'unzione degli infermi, Piemme, Casale Monferrato (AL) 1991.
ORTEMANN, C., Il sacramento degli infermi, LDC, Torino 1972.
RAHNER, K., Sull'unzione degli infermi, Queriniana, Brescia 1967.
d. Dizionari
Si possono consultare le voci corrispondenti a Penitenza e Unzione degli infermi e temi relativi (peccato,
perdono, riconciliazione, malattia….) in dizionari ed enciclopedie:
Diccionario Teológico Interdisciplinar, Sígueme, Salamanca 1983. (Orig, It. Marietti, Casale Monferrato AL
19772).
Dictionnaire de Théologie catholique, Leteuzey et Anè, Paris 1909-1972.
Dizionario enciclopedico del pensiero di San Tommaso D'Aquino, (B. MONDIN), ESD, Bologna 1991.
Gran Enciclopedia Rialp, Rialp, Madrid, 1971-1987.
Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo MI 19882.
Liturgia, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo MI 2001.
Teologia, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo MI 2002.
e. Magistero
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Vedere le parti corrispondenti a penitenza e Unzione degli infermi in:
DENZINGER, E., El Magisterio de la Iglesia, Herder, Barcelona 1963. (Ver índice temático).
DENZINGER, E. - SCHÖNMETZER, A., Enchiridion symbolorum, definitionum et declarationum, Herder,
Barcelona, 1965. (Ver índice temático).
DENZINGER, E. – HÜNERMANN, P.,.Enchiridion symbolorum, definitionum et declarationum. EDB,
Bologna 1995.
COLLANTES, J., La fe de la Iglesia Católica, BAC, Madrid, 19833. (Penitencia y Unción, pp. 695-740.)
(Incluye Concilio Vaticano II.)
Codice di Diritto Canonico commentato. Ed. Àncora, Monza 2004.
Código de Derecho Canónico. Edición bilingüe comentada. BAC, Madrid 19867.
Dizionario del Nuovo Codice di Diritto Canonico, (L. CHIAPPETTA), Dehoniane, Napoli 19862.
MORGANTE, M., I sacramenti nel Codice di Diritto Canonico, Ed. Paoline, C.B. (MI) 1986.
Enchiridion Liturgico, (CENTRO AZIONE LITURGICA), Piemme, Casale Monferrato (AL), 1989.
Catechismo della Chiesa Cattolica (1992) (nn. 1420-1532).
Catechismo della Chiesa Cattolica. Compendio (2005) (nn. 296-320).
Per la Penitenza conviene vedere:
Enchiridion indulgentiarum (1968).
GIOVANNI PAOLO II, lett. enc. Dives in misericordia (1980).
- es. ap. Reconciliatio et paenitentia (1984).
- mot prop. Misericordia Dei (2002)
COMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, La riconciliazione e la penitenza (1982).
FRANCESCO, bolla Misericordiæ vultus (2015)
Per l’Unzione:
GIOVANNI PAOLO II, lett. ap. Salvifici doloris (1984).
f. Colpa e perdono
LAFONT, G., Dio, il tempo e l'essere, Piemme, Casale Monferrato 1992.
RICOEUR, P., Finitudine e colpa, Il Mulino, Bologna 1970.
ELIADE, M., Il mito dell'eterno ritorno, Borla, Torino 1968.
SCHIMMEL, S., Wounds not healed by time. The power of Repentance and Forgiveness. Oxford University
Press, New York, 2002.
FUENTES, M. A., Terapia del perdón, Ediciones del Verbo Encarnado, San Rafael (Mendoza, Ar.) 2008.
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Il sacramento della Penitenza
Come viene chiamato questo sacramento?
(dal Catechismo della Chiesa Cattolica)
1423 È chiamato sacramento della Conversione poiché realizza sacramentalmente l'appello di Gesù
alla conversione, il cammino di ritorno al Padre da cui ci si è allontanati con il peccato.
È chiamato sacramento della Penitenza poiché consacra un cammino personale ed ecclesiale di
conversione, di pentimento e di soddisfazione del cristiano peccatore.
1424 È chiamato sacramento della Confessione poiché l'accusa, la confessione dei peccati davanti
al sacerdote è un elemento essenziale di questo sacramento. In un senso profondo esso è anche una
«confessione», riconoscimento e lode della santità di Dio e della sua misericordia verso l'uomo
peccatore.
È chiamato sacramento del Perdono poiché, attraverso l'assoluzione sacramentale del sacerdote,
Dio accorda al penitente «il perdono e la pace».
È chiamato sacramento della Riconciliazione perché dona al peccatore l'amore di Dio che
riconcilia: «Lasciatevi riconciliare con Dio» (2 Cor 5,20). Colui che vive dell'amore misericordioso
di Dio è pronto a rispondere all'invito del Signore: «Va' prima a riconciliarti con il tuo fratello» (Mt
5,24).
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I. La penitenza nella Sacra Scrittura
1. Antico Testamento
L’AT ci mostra l’uomo come peccatore davanti a Dio, e l’atteggiamento di Dio di fronte al
peccato e al peccatore. Dio è fedele alla sua alleanza. Il castigo è pedagogico, è una chiamata al ritorno.
Inoltre, presenta degli elementi di pratica penitenziale che ritroveremo in parte nel sacramento cristiano della
penitenza.
Introduzione all’AT
La penitenza come fenomeno naturale
L'uomo, sin dall'inizio della sua storia ha voluto riparare per il male fatto1, ma non sempre ha avuto
molto chiaro il concetto di peccato e di perdono; infatti, vediamo per la storia delle religioni che spesso il
male viene considerato frutto d'inavvertenza, d'ignoranza, del destino cieco, della naturale decadenza dei
costumi, della lontananza ontologica dal divino... Colpa volontaria e finitudine involontaria vengo spesso
confuse, e non sempre ci si rapporta a un Dio personale, ma si concepisce il peccato come una trasgressione
delle leggi dell'universo o della società, e la penitenza come un modo di ristabilire questo ordine infranto,
concepito però come qualcosa di esterno a la persona e alle sue decisioni o atteggiamenti.
Concetto pagano di peccato e penitenza:
Nella mentalità religiosa pagana, il comportamento dell’uomo è soggetto ai determinismi ciclici
dell’“eterno ritorno”. In questi cicli, l’armonia iniziale dell’universo viene infranta, per un processo di
degenerazione inevitabile con il trascorso del tempo, e richiede una riparazione, per tornar all’ordine
primigenio, il quale tornerà a infrangersi, e così via. Normalmente il sorgere del male fisico: malattia,
calamità, ecc... viene interpretato come segno dell’esistenza di un male morale che bisogna riparare. Questa
mentalità si trova parzialmente anche nell’Antico Testamento e rimane ai tempi di Gesù (cfr. l’episodio del
cieco nato: Gv 9,2). Allora il peccato si concepisce come la violazione, volontaria o involontaria, di un
“tabù” (qualcosa che è proibita per sola tradizione), o come violazione di un precetto morale (leggi
dell'esistenza del individuo e della comunità), persino come offesa a un dio, ma coinvolto anche lui
nell’inesorabile divenire cosmico. La penitenza (con confessione, suppliche, sacrifici di riparazione) è uno
sforzo da parte dell’uomo per ristabilire la giustizia e quindi tornare allo stato originario. Non è tanto il
ricupero della persona ciò che conta ma la restaurazione dell’ordine cosmico.
Concetto biblico di peccato e di penitenza:
Il concetto biblico di peccato e di penitenza parte da un rapporto personale di comunione di vita con
Dio (Alleanza), stabilito liberamente dalla grazia di Dio, senza merito da parte dell'uomo, e liberamente
infranto dall'uomo; questo rapporto personale non è statico come nel mito dell'eterno ritorno, ma di per sé
tende verso una pienezza escatologica e pone l'uomo in stato di via, di cammino verso quella pienezza,
mentre dura la sua vita sulla terra. La penitenza, conversione, riconciliazione... consiste nel ristabilire
l'alleanza, in cui l'iniziativa corrisponde di nuovo a Dio, ma va accompagnata dalla collaborazione libera
dell'uomo, resa possibile dalla stessa grazia. Nella Sacra Scrittura, la misericordia di Dio è l’espressione della
sua fedeltà all'Alleanza, anche di fronte all’infedeltà dell'uomo. Il castigo o la sua minaccia vuole dire
chiamata al ritorno, alla conversione, e viene accompagnata dalla promessa di una Nuova Alleanza, che
metterà l’uomo di nuovo en cammino verso la pienezza del rapporto con Dio. Il castigo è anche chiamata,
1 Per S. Tommaso D’Aquino, fare penitenza é connaturale all’uomo, un fatto di diritto naturale. Cfr. Summa Theologiae III, q 84, a 7,
ad 1.
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perché nel fare provare la propria indigenza, risveglia la nostalgia della situazione anteriore (cfr. parabola
del Figlio Prodigo)
Già sin dall’inizio (cfr. cps. 1-3 della Genesi) si parte da una situazione di alleanza, di comunione, di
condivisione di vita: Dio dona all’uomo l’essere, e persino condivide qualcosa della sua vita divina con lui.
L’uomo è chiamato a rispondere a Dio in gratitudine, in un dialogo di donazione: donazione di sé, donazione
delle cose, manifestato nella comunione con i fratelli.
Il peccato è la rottura dell’alleanza: il peccatore, sollecitato dallo spirito del sospetto, si sottrae alla
mutua appartenenza con Dio. Ma così facendo, affronta il proprio niente, la propria autodistruzione, e
avviene la rottura dei rapporti di comunione con i fratelli. Allo stesso tempo, continua a sentire la chiamata
di Dio: «Dove sei?» «Dov'è il tuo fratello?». Dio non lo abbandona, ma cerca di ricuperarlo, non ha perso
tutto il valore ai suoi occhi, né vuole rompere la sua alleanza per sempre. È una chiamata dolorosa, perché lo
fa rendersi conto del proprio niente, ma amorevole, in quanto suscita la nostalgia del bene perduto. Resistere
a questa chiamata provoca un più grande dolore, è l'inizio dell’inferno; rispondere è l’inizio della
conversione.
Il riconoscimento e il dolore per il peccato insieme al desiderio del ritorno, con la susseguente
richiesta di perdono e la volontà di riparare, si manifesta en diversi atti di penitenza, a cui pone l’ultimo
sigillo e pienezza il perdono di Dio. Nessuno supera il peccato da solo, ma sempre in rapporto con Dio, il
quale continua a essere la fonte della conversione e il perdono, senza togliere, però la necessaria
collaborazione dell’uomo, resa possibile dal dono di Dio, e la mediazione dei fratelli, costituiti da Dio in
comunità di salvezza.
Questo intervento del potere/amore infinito di Dio risolve il problema che di solito affronta il
paganesimo e che si trova alla base dell’“eterno ritorno” o della mitologia della rincarnazione, vale a dire,
l’impossibilità di una riparazione semplicemente umana: «Troppo grande è la mia colpa per ottenere
perdono» dice Caino (Gn 4,13). Come cancellare il passato? il bene non fatto resta non fatto, il passato passa,
ma continua a condizionare il presente… E poi, non è l’amore un Dio infinito ad essere offeso? Soltanto il
potere/amore infinito di Dio può cancellare il peccato, e soltanto Dio può coinvolgere l’essere umano in
questo potere/amore, e questo si realizzerà nell’Incarnazione e il Mistero pasquale di Cristo.
La penitenza nella Bibbia si pone in una visione equidistante da:
Una concezione cosmica e impersonale, in fondo fatalista, in cui l’uomo si vede trascinato da forze
inesorabili.
Una concezione antropocentrica individualista, in cui l’uomo affronta un’impossibile riparazione di
se stesso - ormai segnato da un passato incancellabile - e delle conseguenze del peccato che scappano al suo
controllo.
Il potere/amore infinito di Dio, da una parte salva la persona, le dona un cuore nuovo, coinvolge la
sua libertà, la rende capace di rapporti nuovi con Lui, con gli altri, con le cose; e dall’altra, è capace di trarre
bene dal male, offrendo la prospettiva di una restaurazione finale, anche cosmica, in cui avrà dimora la
giustizia.
Per approfondire:
GIOVANNI PAOLO II lett. enc. Dives in misericordia. Il ritorno (= Parola, Spirito e Vita, n. 22). Peccato e misericordia (=Parola, Spirito e Vita, n. 29). Eliade, M., Il mito dell'eterno ritorno, Brola, Torino 1968.
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1. Dottrina penitenziale
a. L’idea biblica di peccato
L’idea di peccato viene impostata nel contrasto tra male (ra’) e bene (tob). L'uomo, a partire da una
certa età, è capace di scegliere tra il male e il bene, cfr. Dt 30,15-202:
15 Vedi, oggi ti ho proposto la vita e la felicità, la morte e la sventura; 16 perciò ti ordino oggi di amare il Signore tuo Dio, di
camminare per le sue vie e di osservare i suoi precetti, i suoi ordini e i suoi decreti; allora tu vivrai, ti moltiplicherai, e il Signore tuo
Dio ti benedirà sulla terra verso la quale tu vai per conquistarla. 17 Ma se il tuo cuore si svia e non ascolti, se ti lasci trascinare e ti
prostri davanti ad altri dèi e li servi, 18 oggi vi dichiaro: perirete di certo e non prolungherete i vostri giorni sulla terra verso la quale
tu vai, attraversando il Giordano per conquistarla. 19 Prendo a testimoni contro di voi oggi il cielo e la terra: ti ho proposto la vita e
la morte, la benedizione e la maledizione. Scegli la vita, perché viva tu e la tua discendenza, 20 amando il Signore tuo Dio,
ascoltando la sua voce e aderendo a lui: perché lui è la tua vita e la lunghezza dei tuoi giorni; perché tu possa dimorare sulla terra che
il Signore ha giurato ai tuoi padri, ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe di dare loro».
Ma non si tratta di concetti astratti, in riferimento a un ordine cosmico o alla natura umana come tale,
ma sempre in rapporto con Dio. (È implicito che essendo Dio il mio Creatore, ciò che mi comanda è il mio
bene, l'espressione delle esigenze della mia natura)
Fare il bene significa cercare Dio. Facendo il male, il peccato, l’uomo si oppone e rifiuta Dio, "fa ciò
che é male ai suoi occhi"
Cfr. 1Re, 14,22; 15,26; 15,34; ecc... Questo ritornello si trova come conclusione delle vite di quasi tutti i re d'Israele e di Giuda.
Nell'AT non c'è un termine astratto per la realtà del peccato. Ci sono diverse parole-immagine che
dipingono l’attività o situazione dell’uomo che commette il male3:
- "hata": «mancare il bersaglio», cioè, lasciare incompiuti i decreti di Dio;
- "pèsa": ribellarsi: infedeltà, sollevarsi contro Dio;
- "awon": deviare dal cammino tracciato da Dio, “andare per sentieri tortuosi”, smarrirsi, allontanarsi da Dio,
con il disordine e il rompimento della comunione che comporta.
Cfr. S 51 (Miserere) anche Dn 3,29: poiché noi abbiamo peccato, abbiamo agito da iniqui, allontanandoci da te, abbiamo mancato in
ogni modo. Non abbiamo obbedito ai tuoi comandamenti…
Quest’ultima immagine è basica per il concetto biblico di peccato e conversione, e mette in rilievo il
senso dinamico dell'Alleanza come una situazione che tende a un compimento escatologico: la vita dell'uomo
è un camminare insieme a Dio, come il popolo d'Israele per il deserto; la via è la legge di Dio, la condizione
dell'Alleanza; deviare dal cammino è allo stesso tempo, tagliare i legami di comunione con Dio. Cfr. Dt
10,12-13 6 Mic 6,8; Sal 1; 25; 119,26-32.
Ci sono altri termini, che esprimono pure le idee di sollevamento, infedeltà, trasgressione, deviazione,
allontanamento, abbandono, prigionia... Nel giudaismo rabbinico intertestamentario, s'impose il termine
"hobá", debito, che sarà ripreso da Gesù (ad esempio, nel Padrenostro).
La realtà del peccato in quanto abbandono di Dio, provoca il sentimento di abbandono da parte di Dio.
Dio si sente irritato a causa del peccato. Così si esprime il carattere di offesa personale a Dio che ogni
peccato possiede. Ma allo stesso tempo si mette bene in rilievo che a fin dei conti è l'uomo a far male a se
stesso ed è l'artefice del proprio castigo
Cfr. Ger 7,19: Forse che essi offendono me, oracolo del Signore, o non piuttosto se stessi a loro stessa vergogna?
2 Cfr. anche Sir 5,11-21. 3 Cfr. anche: GIOVANNI PAOLO II, Udienza generale, 24 ottobre 2002.
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In conclusione, l'idea di peccato è sempre presentata in modo esistenziale e religioso, nell'insieme dei
rapporti tra l'uomo e Dio, della chiamata che Dio fa all'uomo all'alleanza con Lui, e non soltanto in riguardo
alle esigenze di una natura umana, più o meno astrattamente considerata.
Cfr. Lv 19,2: Siate santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo; 20,26: Sarete santi per me, poiché io, il Signore, sono santo e
vi ho separati dagli altri popoli, perché siate miei.
b. Impurità e peccato
L’impurità rituale o legale viene a esprimere il senso della differenza infinita tra Dio e l’uomo e la
difficoltà di comunicare con Lui. Si conserva ancora in certa misura la confusione tra finitudine e
colpevolezza. Ma pian piano si perviene a capire che ciò che veramente separa l’uomo da Dio è il peccato.
Ancora ai tempi di Cristo, però, la nozione d'impurità legale non si distingueva bene da quella di peccato. Ma
già nell’Antico Testamento, la finitudine umana viene presentata come un motivo per la misericordia di Dio,
quasi come una scusante per l’uomo.
Cfr. S 103, 13-14: «Come un padre ha pietà dei suoi figli, così il Signore ha pietà di quanti lo temono. Perché egli sa di che siamo
plasmati, ricorda che noi siamo polvere».
c. L’idea biblica di penitenza o conversione
Lo sforzo per ritornare a YHWH nell’AT è designato con la forma verbale “shub” (ritornare; o la
forma sostantivata “teshuvá”: ritorno) che nei LXX viene tradotta con la parola greca "epistrephein", che ha
il senso di cambiamento esterno della condotta.
Pure con ll termine “niham” (in greco "metanoiein") che significa il cambiamento interiore
dell’atteggiamento. Da qui la distinzione tra penitenza interiore (compunzione, contrizione) e penitenza
esteriore o opere di penitenza. Non sono termini equivalenti ma complementari, e s'implicano a vicenda.
d. L’idea biblica di misericordia e perdono
Solo Dio ha potere sul peccato e solo Lui può perdonare le offese che l’uomo commette. È contro di
Lui che in ultim'analisi si pecca (cfr. S 51: "contro di te solo ho peccato"). Il male si fa “ai suoi occhi”:
provoca il giudizio di Dio. Solo Dio ridona l'Alleanza con Lui.
La misericordia è l’attributo divino più visibile per l’uomo in questa vita, Viene simboleggiato dalle “spalle
di Dio”,
cfr. Es 34,6-7: «6 Il Signore passò davanti a lui e gridò: “Il Signore, il Signore, Dio di pietà e misericordia, lento all'ira e ricco di
grazia e verità (hesed w’emet), 7 che conserva grazia per mille generazioni, sopporta colpa, trasgressione e peccato, ma senza
ritenerli innocenti, che visita la colpa dei padri sui figli e sui figli dei figli fino alla terza e fino alla quarta generazione”».
Il testo viene ripreso da Dt 6,9-10, che pone però l’accento nella responsabilità individuale: la colpa dei padri non ricade più sui figli.
«Riconoscete, dunque, che il Signore vostro Dio è Dio, il Dio fedele (emet), che mantiene la sua alleanza e benevolenza (hesed) per
mille generazioni, con coloro che l'amano e osservano i suoi comandamenti; ma ripaga nella loro persona coloro che lo odiano,
facendoli perire; non concede una dilazione a chi lo odia, ma nella sua stessa persona lo ripaga».
Una traduzione più esatta del versetto 6 sarebbe: «Il Signore passò davanti a lui proclamando: “Il
Signore, il Signore, Dio misericordioso (raham) e pietoso (hanan), lento all'ira e ricco di grazia (hesed) e di
fedeltà (emet)». Nella quale troviamo la terminologia biblica della misericordia:
- “hanan”: Condiscendenza del signore sul suddito, che lo eleva e onora. Trova grazia ai suoi occhi.
- “hesed”: Benevolenza di chi ha fatto un patto e ci rimane fedele, quindi, pronto a riallacciare i rapporti,
malgrado l’infedeltà della controparte.
- “raham”: Amore intimo della madre o del padre “per il figlio delle loro viscere”.
Penitenza e Unzione degli Infermi 2012-2013 - 13
Dio è compassionevole e misericordioso4. La definizione di Dio come «misericordioso» o «ricco in
misericordia» attraversa la Sacra Scrittura; cfr. ad esempio: Es 34,6; Num 14,18; Sal 86,5; 103,8; 145,8; Ger
3,12; Is 57,16; Gio 4,2; Ef 2,4.
Dio prende l’iniziativa nel richiamare l’uomo o il popolo alla penitenza e il perdono di Dio ha il potere
di ricreare: purifica e dà un cuore nuovo all’uomo. Lui rende possibile il ritorno.
Dio prende l’iniziativa: «Facci ritornare a te e noi ritorneremo» (Lam 5, 21; cfr. Ger 31,18b)
Dio completa la conversione: «Ritornate a me e io tornerò a voi» (Ml 3, 17)
Terminologia del perdono:
- “machach” cancellare. Dio ha un libro in cui tutto è scritto (cf. S 9,6; 69, 29) dal quale cancella il peccato e
non lo vede più.
- “kabas” lavare, e in modo intensivo, energico.
- “tahar” mondare, purificare. Si usa per la purificazione della lebbra, per le purificazioni rituali, ma anche
per designare il perdono del peccato.
e. Simbolica della riconciliazione
A questo punto, allo stesso modo che per il peccato, possiamo osservare alcuni simboli che rendono
l’idea della riconciliazione:
Il cammino, la simbolica itinerante: allontanamento (smarrimento), esilio, ritorno, riammissione. Anche
quella della caduta e il rialzarsi
La guarigione, la simbolica medicinale: malattia, medicina, guarigione. Insieme con quella della macchia e
della pulizia o purificazione. Persino con quella della morte e la risurrezione.
Il giudizio, la simbolica giuridica: colpevolezza, penitenza (prigionia = esilio), perdono.
Il debito, la simbolica economica: debito, pagamento, condono.
La comunione, la simbolica familiare: rottura dei rapporti, richiesta di perdono, riconciliazione.
La dimenticanza e il ricordo (ma dimenticanza colpevole, per mancanza di attenzione, d'interessamento) +
memoriale.
E' prevalso nella riflessione teologica (con fondamento nel Nuovo Testamento, come vedremo) quello
del giudizio, ma va capito e completato alla luce di tutti gli altri: Dio è giudice, ma anche “go'el”, redentore,
vendicatore, liberatore.
f. La predicazione dei profeti; i Salmi
I profeti sono il mezzo di cui Dio si avvale per chiamare alla penitenza. Hanno il compito di
richiamare l'attenzione del popolo sui loro peccati affinché facciano penitenza. Allo stesso tempo,
richiamano l'attenzione sulla bontà di Dio che non dimentica il suo popolo, e quindi lo esortano a ricordarsi
di Dio. Nella loro predicazione insistono sull'incapacità dell'uomo di cambiare da solo, e insistono nella
petizione a Dio di un cuore nuovo e purificato.
Il profeta Osea parla di Dio come sposo fedele all’alleanza sponsale, che cerca di ricuperare la sposa che è
stata infedele. Si noti che in Osea, come in altre libri della Scrittura, giustizia e diritto vengono associati
all'amore e alla misericordia (cfr. Os 2,21). In Os 2,20, si presenta la riconciliazione come una nuova
creazione, un ritorno all’armonia originaria.
4 Per un approfondimento nel concetto biblico di «misericordia» cfr. GIOVANNI PAOLO II, enc. Dives in misericordia, nota 52 (del n.
4).
Penitenza e Unzione degli Infermi 2012-2013 - 14
Geremia fa notare che la conversione a Dio si trova al di là degli sforzi umani, è una grazia, come abbiamo
visto «Facci ritornare a te e noi ritorneremo» (31,18b; cfr. anche Lam 5, 20-21; Sal 80,4; 85,5. Dio promette
di scrivere una nuova legge sul cuore dell'uomo nella Nuova Alleanza (cfr. 31,33).
Ezechiele parla del carattere personale della conversione (cfr. 18, 20-22) e della necessità di un cuore nuovo
e uno spirito nuovo (cfr. 18,30-32) che Dio crea nell'uomo (cfr. 36,26-27).
Secondo Malachia, Dio stesso farà la purificazione del popolo nel "giorno del Signore" (cfr. Mal 3,13-24.)
Idee simili si trovano nei Salmi penitenziali,5 specialmente nei Salmi 51 ("miserere") e 130 ("de
profundis") «Da te procede il perdono, perciò infondi il rispetto»: la grandezza di Dio si manifesta nel
perdono. Si noti l'insistenza nel valore del «cuore contrito» come vero sacrificio di riconciliazione, sia nel
Sal 51,18-19, sia in Dn 3,38-39. Infatti, il «cuore indurito» si spezza per il dolore e diventa «cuore contrito».
Il Sal 103 è uno dei più begli inni alla misericordia di Dio.
I Sal 105 e 106 ricordano la fedeltà di Dio all'Alleanza nonostante le ripetute infedeltà del popolo.
g. L'Esilio come grande «fatto penitenziale» del popolo di Dio.
Bisogna sottolineare l’importanza dell’esperienza dell'Esilio come grande «fatto penitenziale» del
popolo di Dio. Molti salmi e parte dell’insegnamento dei libri profetici si ispirano a questa esperienza.
In questo momento non avevano nessuno dei mezzi concessi da Dio per avvicinarsi a Lui. Soltanto il
ricordo delle bontà di Dio, l'esperienza della propria impotenza, che porta all'invocazione di Dio, alla
confessione della bontà di Dio e delle proprie colpe, e al cuore contrito, che passa dal dolore (compunzione)
al cambio di atteggiamento e di decisione (contrizione), affidandosi alla misericordia di Dio. La giustizia di
Dio si è manifestata con il castigo: l'Esilio; adesso resta la misericordia, il perdono e il cuore nuovo in
cambio di quello infranto (cfr. Dn 3, 38, Baruc 1,14; 2,5; 3,1-8). Con la purificazione da ogni tentativo di
manipolare Dio: resta l'ascolto della parola e la risposta con la lode, il ringraziamento e la vita.
Il ritorno dall’Esilio viene presentato come un nuovo Esodo, una nuova Pasqua, e comporta un solenne
rinnovamento dell’Alleanza (cfr. Ne 8-10) . È come una nuova creazione, o come una risurrezione del
Popolo di Dio (cfr. Ez 37). Possiamo dire che, tipologicamente, l'Esodo sta al Battesimo come l'Esilio-
Ritorno alla Penitenza.
Questi «fatti di conversione», che sono dei rinnovamenti dell'Alleanza, come si esprimono
ritualmente?
2. Le pratiche penitenziali
a. Le liturgie collettive della penitenza
Esprimono il desiderio di ritorno a Dio e si trovano in molti testi dell'Antico Testamento. Si celebrano
a causa di calamità (guerre, epidemie, piaghe...), considerate castighi per il peccato. Si facevano atti
personali: digiuni, preghiere, lamenti, elemosine... e cerimonie pubbliche nelle quali partecipava tutto il
popolo, guidato da un capo o dal re. In queste occasioni si faceva una confessione pubblica dei peccati che
allo stesso tempo era una lode a Dio (“berekah”) e un ricordo (“zikkaron”) delle sue bontà con riguardo al
popolo. Frequentemente si offriva un sacrificio e la risposta di YHWH si otteneva gettando le sorti con
l'“efod” (i “tummim” e “urim”), o tramite l’oracolo di un profeta.
5 Si ricordi che adoperiamo la numerazione dei salmi del testo masoretico.
Penitenza e Unzione degli Infermi 2012-2013 - 15
La parola “confessione” (verbo "yadah", nella bibbia dei LXX "exhomologeisthai") significa
riconoscere il peccato, confessarlo, proclamarlo e nello stesso tempo dare gloria al nome di Dio, lodare il suo
potere salvifico, la sua misericordia, e riconoscere le sue meraviglie.
Di particolare importanza fu la grande liturgia penitenziale con rinnovamento dell’Alleanza al ritorno dell’Esilio, che troviamo nel
libro di Neemia (cap. 8-9-10), è la ritualizzazione del nuovo Esodo e della nuova Pasqua. Le sue fasi: 1. Preparazione: digiuno,
sacco, ceneri, confessione dei peccati. 2. Intermezzo: lettura della Paola di Dio, con esame di coscienza, confronto con la Volontà di
Dio. 3. Preghiera dei leviti (“berekah”): benedizione – lode – ringraziamento – ricordo. 4. Confessione -ricordo (“exhomologesis” –
“anàmnesis”) delle bontà di Dio, e confessione-ricordo del peccato del popolo. 5. Implorazione del perdono e promessa della fedeltà
futura con rinnovamento dell'Alleanza.
Altri passi di cerimonie o preghiere di penitenza: Gl 1,13-14; 2,12-17 (in occasione di una piaga di locuste; usata nella Liturgia come
prima lettura del mercoledì delle ceneri). Am 4,4-12. Is 63,7; 64,1-8. Esd 9,5-15. Dn 3,25-45. Bar 3,1-8. S 51.
Le pratiche personali che di solito accompagnavano le liturgie consistevano nella triade: preghiere, digiuni,
elemosine, tendenti a ristabilire i rapporti con Dio, le cose e gli altri, rispettivamente. Questa triade si è
conservata nella pratica penitenziale cristiana.
b. Il grande giorno dell'espiazione ("yom kippur")
Il "Yom kippur" si celebrava il 10 del mese di Tishri (sett. - ott.), cfr. Lv 16. Era una cerimonia antica, di
ambiente nomade, "del deserto". Il sommo sacerdote aspergeva il sangue d'un capretto sopra il propiziatorio
(“kapporet”) del "santo dei santi"6, e si confessavano i peccati "scaricandoli" su un’altro capro che si
mandava nel deserto "per Azazel" (un diavolo). Si concludeva con una benedizione solenne nella quale per
l'unica volta pronunciava il nome di YHWH (Cfr. Sir 50,22-23 [20-21]). Questa benedizione per gli ebrei
equivaleva a un’assoluzione per chi fosse pentito.
c. I sacrifici per il peccato
I sacrifici intendevano mondare dall'impurità legale e dai peccati commessi per trascuratezza o
inavvertenza. Ma il peccato commesso formalmente come disprezzo della legge divina non poteva essere
perdonato con questo sacrificio. C'erano vittime diverse a seconda dei peccati e sembra che una certa
confessione dei peccati venisse richiesta. Si potevano fare pure pratiche private di penitenza, di solito con i
gesti che accompagnavano le pratiche pubbliche, la triade preghiera - digiuno - elemosina.
Con il passar del tempo, e soprattutto attraverso la predicazione dei profeti, si costata l'impotenza dei
sacrifici rituali contro il peccato. Il sacrificio che Dio vuole è il compiere la legge, «strappare il cuore e non
le vesti» (Gl 2, 13); cfr. anche Os 6,6: «voglio la misericordia e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più
degli olocausti». Nei profeti e dopo l'Esilio si fa avanti l'idea del "sacrificio di lode", gradito a Dio, e lo si fa
coincidere con il sacrificio del "cuore contrito" (cfr S 50–51) e la disposizione a compiere la volontà di Dio
(cfr. S. 40,7-10)7. Dio stesso fará questa purificazione del cuore (cfr. Dn 3,38-39. S 130. S 143,10. S 40,9).
d. Le abluzioni
Le abluzioni acquistano maggiore importanza dopo l'esilio. Prima del cristianesimo si usava
l’abluzione, al posto della circoncisione, per introdurre i pagani proseliti al giudaismo. In generale era il
modo di purificazione rituale, soprattutto prima del culto (cfr. Es. 30,19).
e. La scomunica penitenziale
La scomunica penitenziale serviva a purificare la comunità da quelli che avevano commesso peccati
specialmente gravi. All'inizio si castigavano con la morte l’idolatria, il sacrilegio, l’adulterio e l’ostinazione
nel male o nel rigetto dell'autorità legittima. In altri casi si parla solo di escludere dal popolo il colpevole, che
6 Si trattava del coperchio dell’Arca dell’Alleanza. 7 Realizzato da Cristo secondo la lettera agli Ebrei 10,5-10.
Penitenza e Unzione degli Infermi 2012-2013 - 16
poteva in alcuni casi essere riammesso nella comunità (così può essere interpretato l’episodio di Maria,
sorella di Mosè, cfr. Num 12). In prossimità dell'era cristiana troviamo una scomunica penitenziale da parte
della Sinagoga, simile per qualche verso alla pratica della primitiva Chiesa. Ce n'erano di diversi gradi, e nei
casi più gravi non c'era possibilità di reintegrazione. Nel Vangelo s'annuncia che i cristiani sarebbero vittime
di questa scomunica da parte dei giudei. Secondo Gv 12, 42, già durante la vita di Gesù.
Se Dio, per l’Alleanza, abitava in mezzo al suo popolo, la separazione dal popolo, significava la separazione dall’Alleanza. Questa
pratica passerà alla Chiesa e sarà il primo modo di praticare il sacramento della penitenza, come vedremo. Ma nella Chiesa, la
possibilità di reintegrazione rimase sempre aperta.
f. Qumran
Questo è un caso particolare dell’ambiente giudaico di tendenza escatologica vicino all'età cristiana,
nel quale si era fatta sentire la necessità di maggiore purificazione e conversione per prepararsi alla venuta
del Messia. Anche da loro esisteva la scomunica penitenziale. Il Consiglio della comunità decideva se
reintegrare o no colui che aveva dato prova di pentimento. Alcuni casi sono però definitivi: quando si pecca
contro la legge in modo deliberato o per rilassamento. Ogni contatto con lo scomunicato era vietato.
g. Giovanni Battista
A cavallo tra i due Testamenti, il Battista è il rappresentante più tipico di questo ambiente di attesa
escatologica del Regno di Dio. Cfr. Mt 3,1-12; Mc 1,1-18; Lc 3, 1-18. Annunzia la prossimità del giudizio e
l'inutilità di dirsi figli di Abramo se non si danno «frutti di penitenza». Esige una "metanoia" che implica il
pentimento interiore e l'efficace cambiamento di condotta. Il suo battesimo è segno di tale conversione, e si
riceve dopo la confessione orale dei peccati. Quelli che così si preparano, riceveranno il Messia non come
giudice, ma come fondatore del Regno di Dio. Il Messia opererà in loro una purificazione più profonda, con
l'effusione dello Spirito Santo. Lui riporta ai figli "i cuori dei padri", cioè di quelli che furono fedeli
all'Alleanza (Lc 1,16-17), si parla del "cuore nuovo" dei profeti. Quindi, non una semplice pulizia, ma una
reintegrazione nell'Alleanza.
Penitenza e Unzione degli Infermi 2012-2013 - 17
2. La Penitenza nei Vangeli
A. Visione storico-salvifica del fatto della penitenza
1) Dio inserisce, nella storia, con la sua misericordia, la capacità di fare penitenza da parte dell'uomo,
2) penitenza che Egli stesso accoglie e culmina con il suo perdono.
Questo lo realizza in pienezza in Cristo, Verbo di Dio, Figlio di Dio fattosi uomo.
1) Dio assume nel Figlio il processo penitenziale dell’uomo, che lui stesso ha suscitato. Il processo
penitenziale diventa intratrinitario per partecipazione.
2) E ci dà i mezzi visibili sulla terra per ricevere il perdono, il suo perdono. I segni portano al perdono
e lo danno efficacemente.
Il piano di salvezza consiste proprio nel fatto che gli eterni disegni divini di salvezza, la misericordia
eterna (che è in cielo) si riversa nella storia, pienamente in Cristo (sulla terra) e si continua nei sacramenti
della Chiesa.
Nell’Antico Testamento si rivela e comincia a attuare la misericordia infinita di Dio, ma non ancora
in pienezza.
S 100,5: Poiché buono è il Signore, / eterna la sua misericordia; / la sua fedeltà per ogni generazione;
S 36,6 = 57,11: O Signore, fino ai cieli è la tua misericordia, / fino alle nubi la tua fedeltà.
La misericordia eterna di Dio fondamenta le successive opportunità per l’uomo e il popolo peccatori
ogniqualvolta l’Alleanza con Dio viene tradita.
Genesi: grazia originaria, a cui segue la caduta, a cui segue la promessa.
Abramo: si rinnova la promessa.
Esodo: prima liberazione, e Alleanza.
Vitello d'oro: prima infedeltà d’Israele all’Alleanza.
40 anni nel deserto: penitenza d’Israele.
Giudici: se il popolo è infedele, viene dato in mano in mano ai nemici, ma salvato dal giudice.
I Profeti proclamano che Dio ci converte, ci rinnova il cuore, ci infonde il suo Spirito…
L’Esilio e il Ritorno sono il grande fatto penitenziale d'Israele.
Il processo di penitenza-perdono si esprime ritualmente nelle liturgie penitenziali: individuali e
collettive, nei sacrifici, battesimi, scomuniche penitenziali.
Ma i Profeti denunciano l’esteriorità con cui si vivono le liturgie penitenziali dell'Antico Testamento,
e insistono sul fatto che il cuore contrito è il vero sacrificio gradito a Dio, e allo stesso tempo è un dono di
Dio (cfr. S 50). Annunziano una Nuova Alleanza sigillata da un sacrificio perfetto.
B. Cristo realizza la penitenza nella sua umanità
1. Gesù realizza “pro nobis” il fatto penitenziale sulla terra
Cristo introduce nell’umanità pienamente la penitenza, la conversione al Padre8, o meglio, introduce
l’umanità peccatrice nel suo ritorno al Padre, che è realizzazione sulla terra del suo eterno essere rivolto
(con-verso) al Padre (cfr. Gv1,1 di cui meglio che “presso Dio” si dovrebbe tradurre “rivolto a Dio”). Gesù
8 Per ampliare si veda: RATZINGER, J. (BENEDETTO XVI), Gesù di Nazaret. Dal ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, L. E.
Vaticana, Roma 2007. Cfr. Cp. 8 §3: La morte di Gesù come riconciliazione (espiazione) e salvezza, (pp. 255-268).
Penitenza e Unzione degli Infermi 2012-2013 - 18
realizza i fatti (il fatto penitenziale) e realizza i gesti e le parole che poi passeranno ai riti. La sua
Incarnazione è per la sua Pasqua, e dalla Pasqua sorgono la penitenza prima: il Battesimo; la penitenza
seconda: il sacramento della Penitenza; e la pienezza dell’unione al suo sacrificio: l’Eucaristia.
a. La sua incarnazione lo inizia
L’incarnazione è l’esilio del Figlio dalla condizione divina alla condizione umana segnata dal
peccato, per fare da questa condizione, e “pro nobis”, il più grande atto d’amore e obbedienza al Padre, di
valore infinito ed eterno (cfr. Flp 2, 6-11).
(Cristo Gesù) … pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso (un oggetto di rapina) la sua uguaglianza con Dio, ma
svuotò se stesso, assumendo la condizione di servo, e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte e morte di croce. Per questo Dio lo ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni
altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù
Cristo è Signore, a gloria di Dio Padre.
Il Salmo penitenziale 40 (7-9), che esprime l’incapacità dei sacrifici rituali e la necessità dell’offerta
di sé nell’obbedienza (“le orecchie mi hai ben aperto!”), viene ripreso dalla Lettera agli Ebrei (10, 5-7) e
applicato a Cristo nella sua Incarnazione il cui fine è fare pienamente la volontà del Padre (“entrando nel
mondo dice”). Lui è la Parola di Dio Incarnata (“tu mi hai preparato un corpo”), per cui realizza pienamente
la seconda parte del versetto 9 del S. 40 (omessa in Ebr. 10) “la tua legge sta dentro le mie viscere”. Il
perfetto compimento della volontà di Dio per amore, il perfetto “sacrificio per il peccato”, si concretizza
sulla terra in Gesù, un essere umano concreto, nel suo corpo e nella sua anima.
S 40, 7-9: 7 Sacrifici e offerte tu non gradisci, / le orecchie mi hai ben aperto! / Olocausto e sacrificio per il peccato tu non domandi.
/ 8 Allora dissi: «Ecco, vengo! / Nel rotolo del libro per me c'è scritto / 9 che faccia la tua volontà. / Sì, mio Dio, lo voglio: / la tua
legge sta dentro le mie viscere».
Eb 10, 5-10: 5 Perciò, entrando nel mondo dice: Non hai voluto sacrificio, né oblazione, ma tu mi hai preparato un corpo. / 6 Non
hai gradito olocausti, né sacrifici per i peccati. / 7 Allora io dissi: ecco vengo, nel rotolo del libro è stato scritto di me, o Dio, per fare
la tua volontà. 8 Anzitutto dice: “Non hai voluto né gradito sacrifici né oblazioni né olocausti né sacrifici per il peccato”, che
vengono offerti secondo la legge. 9 Poi dice: “Ecco vengo per fare la tua volontà”: toglie via la prima cosa, per stabilire la seconda.
10 Nella quale volontà siamo stati santificati mediante l'offerta del corpo di Gesù Cristo una volta per sempre.
Cf. pure Eb 9, 11.12.24: Con il proprio sangue entrò una volta per sempre nel santuario dei cieli e ci ottenne un redenzione eterna.
b. La sua Pasqua lo culmina
La sua Pasqua è la conversione dell'umanità come tale, il sacrificio in cui tutti siamo potenzialmente inclusi e
a cui tutti possiamo partecipare. Lui, infatti, è il primogenito, il capo dell’umanità. Gesù, dalla sua umanità,
che è l’umanità del Figlio, realizza la Pasqua eterna. Culmina l’esilio penitenziale iniziato nell’Incarnazione
quando rimane abbandonato sulla croce senza i mezzi esterni di contatto con Dio, soltanto con il suo corpo e
la sua offerta filale di obbedienza e amore nello Spirito Santo.
Cfr. Eb 13,11.12: è portato “fuori dalla città” (come il capro espiatorio e la giovenca del Sinai).
All’abbandono di Dio (“mio Dio… perché mi hai abbandonato?”) risponde con l’abbandono a Dio,
riconosciuto comunque come Padre misericordioso (“Padre, nelle tue mani affido il mio spirito”). La
Passione di Cristo è il grande esilio, la grande scomunica: discese negli inferi, ma sempre all'interno
dell'unione di amore con il Padre, che è lo Spirito Santo, unione infinitamente più grande della distanza
creata dal peccato.
La risurrezione di Gesù è il suo ritorno definitivo al Padre, e anche l’accettazione del Padre del suo esilio a
nostro favore. Il Primogenito è introdotto in corpo e anima nel seno della Trinità, “seduto alla destra del
Padre”, e apre al resto dell’umanità per sempre il cammino alla salvezza, alla vita eterna. Gesù diventa anche
la fonte del perdono sulla terra.
Penitenza e Unzione degli Infermi 2012-2013 - 19
Cfe. Eb 5, 8-9: Imparò l’obbedienza da ciò che patì e divenne causa di salvezza per coloro che l’obbediscono.
Questi eventi non passano, segnano la natura umana e la sua storia, si realizzano nel prolungamento
dell'umanità di Cristo, che è la Chiesa, depositaria del suo Spirito. (Cfr. Catechismo n. 1085).
2. Gesù realizza i gesti e le parole che annunziano la sua Pasqua
a. Gesù Cristo introduce sulla terra la conversione
1. Gesù chiama alla conversione
Cristo dichiara d'essere venuto per i peccatori e li spinge alla conversione. Con la sua chiamata dona
il potere di realizzare una vera conversione.
Mt 9,12-13: 12 Egli, saputolo, disse: “Non hanno bisogno del medico i sani, ma i malati. 13 Andate e imparate che cosa vuol dire:
Misericordia cerco e non sacrificio (Os 6,6). Non sono venuto infatti a chiamare i giusti, ma i peccatori”.
Lc 19,10: “Infatti il Figlio dell'uomo è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto”.
Per questo accetta la chiamata di Giovanni Battista alla conversione (“metanoia”) che distoglie gli
uomini dal peccato: questo è il vero Regno di Dio. Ma aggiunge: “credete al Vangelo”.
Mt 4,17: “convertitevi, poiché è vicino il regno dei cieli”.
Mc 1,15: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo”.
Quindi esige una risposta di fede, manifestata nella conversione, che produce la remissione dei
peccati, perché la fede nella persona di Cristo, e nella misericordia di Dio manifestata in Lui muove alle
opere di conversione e alla richiesta di perdono.
Lc 7,50: la peccatrice: "la tua fede ti ha salvata"
Mt 9,2: il paralitico: "vedendo la loro fede..."
Questo si vede anche quando Gesù proclama nella sinagoga di Nazaret "l’anno di grazia del Signore"
(Cfr. Lc 4, 16-21 → Is 61,1-2 → Lv 25,8-16), nel quale, secondo la legge, venivano liberati gli schiavi, le
terre erano ridate ai proprietari originari, ecc. Gesú viene “a promulgare l'anno di misericordia del Signore”
(Is 61,2) e omette la seconda parte del versetto di Isaia: “un giorno di vendetta per il nostro Dio”. Soltanto la
conversione, che presuppone la fede in Gesù permette all’uomo di ricevere i beni messianici.
2. Natura della conversione evangelica
La "metanoia" ("pentimento" o meglio, "conversione") del NT (se ne parla 56 volte) è un
cambiamento del modo di pensare e di considerarsi al cospetto di Dio. Riconoscersi peccatori, chiedere
perdono, lamentare il passato ed esigersi un cambiamento continuo di vita (alle volte viene messo in
parallelo con "epistrephein", che ha un significato più pratico, esteriore, como vedremo più avanti, cfr. At
3,19; 26,20). Non si tratta solo di un cambiamento affettivo, ma è un cambiamento totale della vita. Si può
dire che unisce i due termini dell'AT: "shub"9 e "niham". Per Cristo poco contano i soli segni esterni della
penitenza, quello che importa è il cambiamento del cuore, che è la sede della vita morale (cfr. Mt 6,1-8;
15,19) (anche se raccoglie la chiamata del Battista a dare "frutti di penitenza").
3. Esigenze del processo di conversione
Si possono vedere in diversi passi dei Vangeli:
- La presa di coscienza del peccato (come il Figlio Prodigo);
- l'amore che deplora il passato (la peccatrice, Zaccheo);
9 “Shub” è il verbo, il sostantivo sarebbe “teshuvà”, letteralmente: “ritorno”.
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- l'umile appello alla misericordia divina e la fiducia in essa (come il pubblicano);
- la volontà radicale di cambiamento con cuore sincero come un bambino (Mc 10,15); e anche pronto al
sacrificio: “se la tua mano ti scandalizza...” (Mt 18.8). La conversione è un distacco da qualcosa d'interno, di
fortemente radicato nel nostro essere, ed esige tagliare le radici del peccato.
- lo sforzo continuo per “cercare il Regno di Dio e la giustizia” (Mt 6,33); regolare la condotta secondo la
nuova legge del Vangelo e “fare la volontà del Padre che è nei cieli” (Mt 7,21); “prendere ogni giorno la
croce...”(Lc 9,23). Suppone un distacco da se stesso continuo e profondo.
La conversione esige l'impegno di tutta la persona, ma è sempre un dono gratuito di Dio: il pastore
va a cercare la pecora, il creditore condona il debito a quelli che non hanno denaro per pagare.
La conversione, in quanto dipende dal cuore, è tendenzialmente definitiva, è una decisione "per
sempre", anche se soggetta alla debolezza umana.
b. Gesù introduce sulla terra il perdono
1. Gesù perdona i peccati
Gesù rivendica per sé il potere di perdonare i peccati direttamente, come nel caso del paralitico
calato dal tetto (cfr. Mt 9,1-8: “I tuoi peccati ti sono perdonati”), cosa che nessuno aveva osato prima. Di
fronte allo scandalo degli altri, afferma di avere il potere di perdonare i peccati “sulla terra”. Gesù è il Figlio
dell’Uomo annunciato dal profeta Daniele (cfr. Dn 7,13-14), colui che ha il potere di giudicare e che quindi,
anticipa qui sulla terra il giudizio di Dio, sempre con il desiderio di perdonare. Il racconto in Matteo di
questo episodio si conclude notando che “la folla... rese gloria a Dio che aveva dato un tale potere agli
uomini”, vale a dire: riconoscono che il potere di perdonare i peccati è entrato nell’umanità, almeno in questo
uomo10.
2. Il cristiano che ha peccato può ottenere il perdono
Il cammino per ottenere il perdono dei peccati è il battesimo, come proclama S. Pietro il giorno della
Pentecoste (cfr. At 2,38). Ma c'è perdono dopo il battesimo? Cristo chiede una conversione sincera,
irrevocabile, ma sa che la debolezza dell'uomo continua a essere grande, ed è possibile una ricaduta. Per ciò
nel Padrenostro insegna ai suoi discepoli a chiedere il perdono per i peccati. Ammonisce Pietro a perdonare
il fratello fino a settanta volte sette (numero indefinito) (cfr. Mt 18,21). E dichiara che saremo perdonati nella
misura in cui perdoneremo i fratelli (cfr. Mt 18,35). Il termine adoperato è "aphesis" (remissione di un
debito), che sottolinea la connotazione di gratuità. L'espressione tecnica "aphesis amarthiôn" passerà dal NT
nelle antiche professioni di fede.
Quindi, ammessa da Cristo la reiterabilità del perdono, ci si domanda se esiste per il cristiano un
modo oggettivo, istituzionale, ecclesiale, rituale, per il perdono dei peccati, o se questo dipende soltanto dalla
penitenza interiore, soggettiva del peccatore. Analizziamo i testi-chiave.
Questi testi, da una parte ci rivelano la trasmissione dei poteri alla Chiesa, e in speciale agli apostoli,
allo stesso tempo ci danno tracce, accenni, sul modo concreto, rituale in cui il perdono viene concesso ai
cristiani all'interno della Chiesa.
3. Gesù trasmette il potere di perdonare
a. Il potere di "legare e sciogliere" in S. Matteo
10 Adnès osserva che forse Mt voleva anche indicare con ciò l'estensione di questo potere ad altri uomini, i quali lo ricevono da
Cristo.
Penitenza e Unzione degli Infermi 2012-2013 - 21
Le espressioni che troviamo in S. Matteo corrispondono alla fase prepasquale, in cui il potere è
concesso da Cristo a modo di promessa, e deve ancora ottenere la sua definitiva e reale efficacia, quella che
sorge dalla sua morte e risurrezione. Il Vangelo di S. Giovanni ci mostra la concessione pospasquale, quindi
effettiva, di questo potere agli apostoli.
1. Mt 16, 17-19: il potere dato a Pietro
17 “Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l'hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli. 18 E io ti
dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa.
19 A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò
che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli”.
La Chiesa è il corpo di Cristo, continuazione della visibilità della salvezza realizzatasi in Cristo, è la
comunità di quelli in cui Cristo vive, e che vivono in Cristo. La comunità messianica in cui si prefigura, si
prepara e realizza sulla terra il Regno di Dio. Essa ha la missione di strappare gli uomini dal peccato e donare
loro la vita divina.
Allo steso modo che il processo di conversione personale prende le mosse dalla fede in Cristo, così il
perdono concesso dalla Chiesa si fondamenta sulla fede della Chiesa in Cristo. Per questo, dopo che Pietro
ha fatto la sua professione di fede nella messianità e nella filiazione divina di Cristo, questi gli promette:
- che sarà la roccia su cui edificherà la sua Chiesa, della quale è costituito capo visibile;
- che avrà le chiavi del Regno dei Cieli, già presente nella Chiesa; si tratta d'un potere vicario: le chiavi sono
segno dell'amministratore (cfr. Is 22,22); Quindi non un potere per sé, ma nel nome e con il potere di Cristo.
- che ha il potere di legare-sciogliere (in greco "dein" - "lyein"), che, secondo l'uso rabbinico del termine
all'epoca, significava:
a. dichiarare ciò che è vietato e ciò che è permesso secondo la Legge: potere magisteriale.
b. scomunicare dalla comunità (legare) e riammettere in essa (sciogliere): potere giudiziale.
In questo modo s'indica che Pietro ha il potere magisteriale per interpretare la dottrina e la legge di
Cristo; e che ha il potere disciplinare di giudicare, di escludere dalla Chiesa o di riammettere in essa, con
conseguenze non soltanto terrene, ma anche soprannaturali, “in cielo”. Sono due potestà complementari.
Essere « legato » nel mondo antico e biblico, era la condizione del prigioniero, del separato della
comunità, gettato nel carcere, nelle tenebre; è anche lo stato di chi ridotto in schiavitù. « Sciolto » è il
liberato, il perdonato, il reintegrato alla comunione nella comunità. Dio si serve di un gesto analogo alle
procedure penali in uso all'epoca come segno per manifestare il suo castigo e il suo perdono.
Così, i re di Giuda sono condotti alla cattività in catene (cf. 2 Cr 33,11; 36,6); così anche nella prigionia di S. Pietro (cf. At 21,13),
e nella persecuzione di Saulo contro i cristiani (cf. At 9,2.21) il quale forse per questo poi si gloriava delle sue catene portate per la causa di
Cristo (cf. Ef 6,20; etc. ).
Le catene e i lacci significano anche il peccato come tale, come i lacci dell'adultera (cf. Qo 7,26) o i « lacci d'iniquità » di Simon
Mago (cf. At 8,23).
Più spesso significano il castigo di Dio per il peccato e quindi, la condizione in cui si trova il peccatore a causa del suo peccato:
legato e gettato nelle tenebre (cf. Gb 36,7-8; Sal 107, 10-14; 149,8; Ez 3,25; 4,7-8; Mt 22,13). In linea con questa tradizione, in italiano si
dice « cattivo » per significare « malvagio ».
Questa è anche la condizione dei demoni: Satana è legato con catene (cf. Ap 20,1-3), e ai diavoli sono riservate le tenebre (cf. Gd
13).
Ma il diavolo può anche legare, e queste legature sono la malattia fisica come nel caso della donna rattrappita guarita da Gesù (cf.
Lc 13,16), o il male morale, come nel caso di Simone Mago.
Sciogliere le catene è segno della liberazione e del perdono che vengono da Dio (cf. Sal 116,3-4.16) ed è anche la condizione che
Dio pone all'uomo che vuole essere perdonato (cf. Is 58,6).
Possiamo dire che tra le diverse analogie per la comprensione del sacramento, l'analogia giuridica
rimane quella centrale, stando ai testi biblici.
Penitenza e Unzione degli Infermi 2012-2013 - 22
2. L’estensione del potere a tutti gli apostoli: Mt 18,15-18
Mt 18,18: «In verità vi dico: tutto ciò che avrete legato sulla terra resterà legato nel cielo; e tutto ciò che
avrete sciolto sulla terra resterà sciolto nel cielo».
Questo testo si colloca nel capitolo 18, dedicato alla carità fraterna e al perdono. Il passo è incluso in
una serie d'insegnamenti che Gesù dirige ai suoi discepoli (cfr. Mt 18,1), i quali, secondo una fondata
opinione, sono gli apostoli. Sarebbe l'opinione più probabile, sia alla luce della prassi rabbinica, perché il
potere di espellere da o di riammettere nella comunità veniva esercitato dai capi, sia alla luce della prassi
degli stessi apostoli, come vediamo negli scritti del NT, sia alla luce della tradizione della Chiesa.
Non si tratta del potere delle chiavi, ma di un potere partecipato da esercitarsi in dipendenza da
Pietro. Si trova dopo la parabola della pecorella smarrita (cfr. Mt 18,12-14), che indica sia la volontà
salvifica universale di Cristo, sia la sollecitudine con cui i pastori devono aver cura del loro gregge11.
Il contesto immediato (vv. 15-17) indica il modo in cui procedere con un peccatore che è "fratello",
cioè, cristiano.
15 «Se il tuo fratello pecca (contro di te), va', riprendilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai riacquistato il tuo fratello. 16 Se
invece non ti ascolterà, prendi con te una o due persone, affinché sulla bocca di due o tre testimoni si stabilisca ogni cosa. 17 Se non
ascolterà neppure loro, deferiscilo alla chiesa e se neppure alla chiesa darà ascolto, sia egli per te come il pagano e il pubblicano.
Non si tratterebbe esattamente del problema della correzione fraterna: l'espressione originaria
sarebbe "se il tuo fratello commette una colpa"; l'aggiunta che alle volte troviamo nelle traduzioni, "contro di
te", è posteriore. Si riferisce certamente a una mancanza grave, che in caso di pertinacia, si deve sottoporre al
giudizio della Chiesa. I versetti, infatti, sembrano descrivere un certo "processo" in cui l'atteggiamento di
fede e conversione ottiene il perdono. In caso di pertinacia si fa ricorso alla scomunica penitenziale.
Sarebbe l’abbozzo di una primitiva prassi di scomunica penitenziale con possibilità di riammissione,
altrimenti non si parlerebbe di "tutto ciò che scioglierete". Il potere concesso ai discepoli è illimitato sia
quanto alla qualità dei peccati, sia quanto alla possibilità di essere concesso: "settanta volte sette" (vv. 21-
22). Il sette, nella simbologia biblica, indica totalità12.
21 Allora Pietro si fece avanti e gli domandò: «Signore, quante volte, se il mio fratello peccherà (contro di me), dovrò perdonargli?
Fino a sette volte?». 22 Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette».
3. Altre ipotesi sulla espressione “legare-sciogliere”
Quella suddetta è l’interpretazione del senso di legare-sciogliere più accettata, ma esistono altre
teorie, non necessariamente opposte, ma complementari.
1) L’idea di totalità: legare-sciogliere, come altre opposizioni di termini contrari, sarebbe un'espressione che
indica "tutto". In Mt 16 si mette in rapporto con “le chiavi” (il potere): sarebbe un potere totale. In Mt 18 il
contesto è l’unità fraterna, e l’espressione indicherebbe che tutto ciò che fanno i discepoli in materia di carità
e concordia è approvato da Dio. Ma c'è da dire che oltre a questo possibile significato generico, conosciamo
il significato concreto e specifico di questa espressione dal senso che aveva nel giudaismo rabbinico del
tempo, come abbiamo spiegato.
2) L’idea di potere demonologico: si è cercato d'interpretare l’espressione nel contesto della lotta tra Cristo e
il peccato, in modo che la vita in peccato s'intende come un sottomettersi a Satana (legare) e la redenzione è
11 L’immagine della pecora smarrita, la troviamo già nell’AT, cfr. S 119,76; Ez 34,6.
12 Mt 18, 21-22 trova il suo parallelo in Lc 17, 3-4, con l’aggiunta lucana del fatto che il penitente manifesta il suo pentimento. Forse
il testo veterotestamentario che sta alla base di Mt 18,15 sia Lv 19, 17, che spiega il modo di risolvere conflitti all’interno della
comunità, ma in questo caso sarebbe applicato all’apostolo, con la novità del perdono cristiano.
Penitenza e Unzione degli Infermi 2012-2013 - 23
la liberazione da questo potere del demonio (sciogliere). Questa spiegazione non si oppone al uso rabbinico
dell'espressione, e forse si tratta di un approfondimento nel senso di questo uso, da quanto si vede in altri
passi della Scrittura. Il diavolo viene presentato come legato, ma ancora capace di legare.
4. Sulla terra e in cielo
Questo testo testimonia una pratica molto simile alla disciplina della scomunica in seno al
giudaismo. Perciò alcuni interpretano il potere che Cristo ha dato a Pietro e agli apostoli nel senso di una
scomunica a livello di sola disciplina ecclesiastica, senza che si alluda a un perdono personale, come
qualcosa che si limita soltanto al foro esterno della Chiesa e non arriva al foro interno della coscienza. Ma
questa differenza tra fori interno ed esterno è relativamente moderna, appartiene all'attuale diritto canonico, e
non si può applicare ai testi della Scrittura.
Se il potere di legare-sciogliere è per "la terra e il cielo", questo vuol dire che le decisioni sono
ratificate da Dio stesso, hanno ripercussione a livello soprannaturale, sono espressione di ciò che succede
davanti a Dio. Non si tratta quindi di una procedura meramente disciplinare, organizzativa, bensì di un potere
sacramentale che deriva dal fatto della presenza di Cristo nella sua Chiesa radunata in assemblea liturgica,
come indicano i versetti di Mt 18, 19-20: si tratta di un raduno "nel nome di Gesù", ed egli è "in mezzo a
loro".
19 «Ancora: in verità vi dico che, se due di voi sulla terra saranno d'accordo su qualche cosa da chiedere, qualunque essa sia, sarà
loro concessa dal Padre mio che è nei cieli. 20 Infatti, dove sono riuniti due o tre nel mio nome, ivi sono io, in mezzo a loro».
Si tratterebbe di ciò che oggi chiamiamo un’assemblea liturgica: il raduno "nel nome di Gesù", cioè,
con il suo potere salvifico, un potere che dà efficacia alla preghiera dell’assemblea, la quale conta con la
"presenza (sacramentale) di Cristo in mezzo a loro" per attuare e partecipare il suo mistero salvifico. L’essere
concordi a pregare sulla terra, porta effetto dal Padre che è in cielo. La penitenza riconciliazione degli
uomini si fa nella Chiesa: portatrice del valore della riconciliazione operata da Cristo davanti al Padre.
La Chiesa è più che una comunità umana, è la presenza del Regno di Dio nella sua realizzazione tra
gli uomini, la salvezza in atto nella storia, come il prolungamento dell'umanità di Cristo. Rimanere legato
sulla terra da una sentenza di esclusione, è rimanere fuori del Regno. Rimanere sciolto è essere riammesso, e
questo suppone la scomparsa del peccato, che è l’ostacolo all’entrata nel Regno. "Terra e cielo" vengono ad
indicare i due livelli inseparabili del sacramento: quello del segno visibile nella Chiesa, e quello della realtà
soprannaturale che significa e realizza. La Chiesa come sacramento: segno e istrumento (e anche tempo e
luogo) dell'unità degli uomini con Dio e tra di loro13.
In ogni modo, troviamo il potere di perdonare i peccati più chiaramente enunciato, ed efficacemente
conferito, nell’episodio pospasquale narrato nel Vangelo di S. Giovanni.
b. Il potere di perdonare e di ritenere i peccati in san Giovanni
1. La lavanda dei piedi e il suo senso penitenziale (13, 1-17)
Questo episodio accade durante l’ultima cena, in contesto ancora prepasquale ma prossimo ormai
alla morte e risurrezione di Cristo. Il senso ovvio del versetto è l’esempio di servizio dato da Cristo e l'invito
a seguirlo, ma, inoltre, la frase: "Chi ha fatto il bagno non ha bisogno di lavarsi se non i piedi, ed è tutto
mondo" (13,10), suggerisce la possibilità e la necessità di un perdono posbattesimale dei peccati. Il bagno
totale significa il battesimo, e malgrado ciò, Cristo esige da Pietro di lasciarsi lavare i piedi se vuole avere
13 Nel Padrenostro troviamo la petizione: “sia fatta la tua volontà sulla terra come in cielo”. Sulla terra si è fatta la volontà di Dio
soltanto grazie all'umanità di Cristo, che ha offerto l'unico sacrificio per il peccato gradito a Dio. Adesso la Chiesa ha il potere di
estendere la capacità di partecipare nell'unico sacrificio di Cristo a tutti quanti, credendo in Lui, hanno il cuore veramente contrito.
Penitenza e Unzione degli Infermi 2012-2013 - 24
parte con lui. È anche possibile supporre che questo episodio fosse un annunzio del potere di perdonare i
peccati che sarebbe stato conferito nella risurrezione.
2. Gesù Conferisce agli apostoli il potere sul peccato (20,19-23)
In Gv 20,19-23 Gesù risorto si presenta ai discepoli (con ogni probabilità, gli apostoli)14, nel
Cenacolo e dice loro: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi”. Si vede un’analogia,
anzi una continuità tra la missione di Cristo e quella degli apostoli in quanto alla sua origine, e possiamo dire
che anche quanto alla finalità: la liberazione dal peccato (Gv 1,29).
Dopodiché dice loro: “Ricevete lo Spirito Santo”. Cristo, nel vangelo di S. Giovanni, ha parlato
previamente della promessa della venuta dello Spirito Santo per consolare, illuminare, ecc. ma non sembra
trattare di questo il nostro testo. Sembra una infusione speciale agli apostoli anteriore a quella di Pentecoste
destinata a tutta la Chiesa.
Qui l’infusione dello Spirito Santo dà i mezzi alla Chiesa per compiere la missione di continuare
l’opera di Cristo. L’attività principale di questa missione viene indicata nel versetto 23:
“a chi rimetterete i peccati, saranno rimessi, e a chi li riterrete, resteranno ritenuti”.15
Si suppone: “davanti Dio o nei cieli”: è ciò che suggerisce la forma passiva impersonale del verbo: la
“passiva divina”, frequente nel testo di S. Giovanni.
3. “Perdonare” e “ritenere”
Il verbo "aphiemi" (perdonare, rimettere) appare nei sinottici - nel Padrenostro (Mt 6,12); nella
parabola del servo debitore (Mt 18, 27) - nella prima lettera di S. Giovanni e negli scritti paolini. Si applica al
perdono dei peccati sia da parte di Cristo sia da parte del Padre. Rende l'idea di un conto saldato, non più da
esigere. L’espressione “ritenere i peccati” è più difficile, giacché è propria ed esclusiva di questo brano. Il
verbo "kratein" (ritenere) ha un senso positivo, di “essere forte” o “dominare”, non sembra significare un
mero rifiutarsi di perdonare i peccati, ma realizzare un’azione nei loro riguardi. Il suo significato verrà alla
luce nel confronto con il testo di Matteo.
4. Comparazione con Matteo
“Ritenere” in Giovanni e “legare” in Matteo esprimono la stessa idea ma con diverse immagini.
"Kratein" in altri passi del NT ha il significato di "prendere", "catturare", "arrestare", “afferrare”… con
l'intenzione di mettere in carcere (cfr. Mc 12,12), il che ci rimanda, per associazione d'idee al "legare" di
Matteo. "Aphiemi", dal canto suo, significa, in alcuni passi, la liberazione dei prigionieri, degli oppressi (cfr.
Lc 4,18) e quindi, rende l'idea di "sciogliere".
La ritenzione del peccato, a questa luce, si vede come qualcosa di attivo: si tratta dell’azione della
Chiesa per cui essa "lega" il peccatore nell'atto di scomunicarlo: cioè, la sentenza di scomunica penitenziale,
con gli obblighi di conversione e penitenza per poter essere riammessi, e anche la capacità di mantenere in
disparte il contumace.
D’altra parte, se Matteo ci aiuta a capire Giovanni, adesso è Giovanni con l’espressione “perdonare”
che ci aiuta a capire l’espressione “sciogliere” di Matteo. Questa fa intendere che quando la Chiesa revoca
l’esclusione da essa, ciò che avviene è il perdono del peccatore, il quale per ciò è entrato di nuovo nella vita
14 Come può dedursi dall'indicazione posteriore: "Tommaso, uno dei dodici, non era con loro" (20,24). Secondo R. E. Brown, questo
episodio appartiene alla "tradizione dei dodici". 15 Si noti che l’antica versione ufficiale CEI (1971): "a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno
non rimessi", e quella più recente (2008): "a coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non
saranno perdonati", non rendono perfettamente il senso dell'originale greco.
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di grazia. Così Matteo e Giovanni esprimono la stessa cosa con diverse immagini: il primo è più ecclesiale e
disciplinare e il secondo è più spirituale e pneumatico.
In ogni caso sembra trattarsi sempre di qualcuno appartenente alla Chiesa, su di cui si realizza
un'azione di separare (se è il caso) o di reintegrare.
5. Predicazione, Battesimo, Penitenza
Un'opinione comune in area protestante dice che il potere conferito agli apostoli in Gv 20,19-23, si
limiterebbe al potere di predicare il perdono o al potere di battezzare, ma non farebbe accenno al potere di
perdonare i peccati dopo il Battesimo. Possiamo però confutare questa opinione se compariamo il nostro
testo con altri testi dell’apparizione di Cristo agli Apostoli dopo la risurrezione, e ne mettiamo in rilievo
l’originalità.
In Lc 24, 36-47 Cristo chiede agli apostoli di proclamare nel suo nome la conversione per il perdono
dei peccati. Ma nel testo di S. Giovanni il mandato non si riduce alla sola predicazione. Il perdono, di certo,
suppone la predicazione della misericordia, dalla quale il peccatore è mosso alla conversione e a chiedere il
perdono, ma in S. Giovanni, questo potere di predicare è incluso previamente nel potere che Cristo dà agli
apostoli di continuare la sua missione. Nel passo in questione, invece, si conferisce un ulteriore potere,
perché con la sola predicazione non si potrebbero "ritenere" i peccati.
In Mt 28,18-20 e in Mc 16,14-16 si pone il Battesimo in rapporto con il perdono dei peccati. La
missione di battezzare viene alle volte riferita dai Padri anche al testo di Giovanni: si riferisce questo testo,
come quelli suddetti, unicamente al perdono dei peccati per mezzo del battesimo? Qui si pone di nuovo la
questione del "ritenere" i peccati. Non si tratta semplicemente di rifiutarsi di dare il battesimo: la Chiesa non
può ritenere i peccati in senso positivo, attivo, se non a quelli che già sono cristiani, e questo avviene quando
vengono esclusi dalla Chiesa. Questo vs. Lutero, che pensava che ogni perdono era gratuito, quindi, dato dal
battesimo o dal semplice ricordo del battesimo per ravvivare la fede.
Finalmente rispondiamo a un’ulteriore difficoltà: Se la missione della Chiesa è quella di perdonare,
perché si parla di "legare" o "ritenere" il peccato?
Senz'altro il potere è quello di perdonare, ma indica anche la capacità di porre le condizioni perché il
penitente prenda coscienza del peccato, se non l’aveva, e per autenticare un pentimento degno di perdono,
nonché per riparare le conseguenze del peccato, nella misura del possibile, e per ottenere la maggiore
purificazione della persona: la purificazione dei “residui”, vale a dire, delle cattive tendenze lasciate dal
peccato. Per cui il “ritenere” è sempre in funzione del “perdonare”, e garantisce la piena partecipazione del
penitente nel suo processo penitenziale.
Il perdono, essendo il peccato un’offesa a Dio, è sempre gratuito, non può essere richiamato, soltanto implorato, ma si
richiede da parte del penitente un pentimento autentico, che non è solo condizione, ma anche con-causa, della riconciliazione con Dio
e del perdono del peccato. Gli atti del penitente sono anch’essi frutto della grazia, dono di Dio. Su questo punto torneremo a più
riprese nel corso.
4. Gesù dà efficacia reale ai riti penitenziali dell’Antico Testamento
Gli antichi sacrifici vengono sostituiti dall’unico sacrificio per il peccato, quello realizzato da Gesù
sulla croce e attualizzato perennemente nell’Eucaristia.
Il rito penitenziale del battesimo riceve l’efficacia di essere la prima penitenza cristiana, conversione
alla fede e alla grazia, in cui i peccati vengono perdonati senza imposizione di atti penitenziali. Sono
sufficienti la confessione della fede e il sincero pentimento interiore.
I riti di ammonimento e ricupero del peccatore ormai presenti nelle comunità ebraiche ricevono
l’efficacia di essere la seconda conversione per il cristiano peccatore. Includono atti di penitenza, sia per
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garantire la sincerità e profondità della conversione, sia per stimolare alla penitenza gli ostinati nel peccato.
Le tracce di questa ritualità primitiva penitenziale li possiamo ricavare dei passi già visti:
- L’espressione “legare – sciogliere” di Mt 16,19 e 18,18 fa riferimento alla prassi rabbinica
dell’allontanamento (legare) del peccatore dalla comunità e alla sua eventuale riammissione (sciogliere) una
volta pentito.
- L’espressione “rimettere – ritenere” di Gv 20, 23 fa riferimento anche a una pratica in cui i peccati
vengono perdonati (rimettere) ma che non esclude la possibilità di imporre delle condizioni (ritenere) per
ottenere il perdono.
- Che questo potere venga esercitato dagli apostoli lo possiamo dedurre dal fatto che in Mt 16 viene
concesso a Pietro, e in Mt 18 il contesto sembra indicare che l’insegnamento di Gesù va indirizzato al pastore
della comunità e versa su suo atteggiamento verso il peccatore. In Gv 20, è più evidente che questa missione
viene conferita agli apostoli.
L'apostolo, rappresenta (o meglio, ri-presenta) Cristo-Capo, vale a dire, Cristo fonte di grazia e di
unità per tutto il Corpo. L'incontro di salvezza del fedele con l’apostolo è incontro con Cristo e a sua volta
riproduce e partecipa l'”incontro” di Cristo con il Padre.
In Mt 18,12-14, Gesù narra la parabola del buon pastore che cerca la pecorella smarrita, quindi, indica la responsabilità del pastore
per il ricupero del fratello peccatore.
Mt 18,15-17, come abbiamo visto, contiene un abbozzo di pratica penitenziale. Se si prescinde del “contro di te”, che sembra
un’aggiunta posteriore, si tratterebbe del modo in cui l’apostolo deve procedere con un peccatore grave a seconda delle sue
disposizioni:
- ammonimento individuale per il pentimento
- se ancora non si pente, ammonimento collettivo per il pentimento
- e se ancora non si pente, separazione dalla comunità, ma sempre per il pentimento.
L’ammonimento provoca il pentimento e questo a sua volta la richiesta sincera di perdono, il quale viene concesso.
Se l’ammonimento fallisce, allora avviene la separazione, ma sempre per il pentimento.
In Mt 18,19, Gesù parla di due o tre “riuniti nel nome di Gesù”, il che accennerebbe a un raduno a carattere liturgico.
In Mt 18,21, Gesù dichiara questa possibilità di perdono reiterabile senza limiti, con l’espressione “fino a settanta volte sette”.
5. Conclusione
1. Gesù è il Verbo di Dio “converso” al Padre dall’eternità, il quale, con la sua Incarnazione e con
la sua morte, accetta la situazione penitenziale dell’umanità a causa del peccato (esilio) e con il suo
amore e obbedienza al Padre la coinvolge definitivamente nella sua “conversione” eterna al Padre
(ritorno), manifestata nella risurrezione. Con Lui, il potere di perdonare i peccati rimane “sulla
terra” nella sua umanità e nel prolungamento della sua visibilità sulla terra che è la Chiesa.
2. I testi evangelici offrono dati sufficienti per affermare che Cristo conferì agli apostoli il potere di
perdonare i peccati nel suo nome; non soltanto quelli commessi prima del Battesimo, ma anche
quelli commessi dai battezzati che se ne pentono. Il modo concreto di esercitare questo potere si
vede più chiaramente nell'analisi degli altri scritti del Nuovo Testamento, ma già nei Vangeli
troviamo indizi che puntano verso un processo di esortazione al pentimento e alla richiesta di
perdono, e nei casi più gravi, di separazione dalla comunità, ma sempre con possibilità di
reintegrazione.
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3. La testimonianza degli scritti apostolici
1. Gli Atti degli Apostoli e il cristiano peccatore
a. La conversione per i giudei e per i pagani
Negli Atti degli Apostoli appare frequentemente il termine "metanoein" ma è più caratteristico
"epistrephein". In due occasioni si giustappone a "metanoiein", il che indica una differenza di sfumatura.
Pietro nel Tempio dopo la guarigione dello storpio, esorta: "Pentitevi dunque e cambiate vita, perché
siano perdonati i vostri peccati" (At 3,19) (metanoésate - 'epistrépsate). Paolo davanti ad Agrippa: "...
predicavo di convertirsi e di rivolgersi a Dio, compiendo opere di vera conversione" (At 26,20) (metanoeîn -
'epistréphein - metanoías) (cf. i « frutti di penitenza » di Mt 3,8).
"Epistrephein" significa volgersi verso, convertirsi. La conversione implica, per i pagani, abbracciare
la fede, e per i giudei, riconoscere che Cristo è il Signore. Ma questo si capisce in modo pratico: impegnarsi
in un genere di vita nuova, orientato verso Dio e che cambia totalmente l’esistenza del credente. La ricezione
del Battesimo sigilla questa conversione.
Già nella prima predica della nascente Chiesa (Atti 2, 22 ss) in compimento del mandato del
Signore, si denuncia il peccato che ha portato alla morte del Figlio e si annunzia la misericordia del Padre,
che, inaspettatamente, si è riversata proprio a causa di questa morte. Il dolore per il male commesso (la
compunzione, il “cuore trafitto”) è frutto della presa di coscienza dell’Esilio definitivo: abbiamo ucciso il
Salvatore, che ci resta?. Ma a questa situazione risponde la definitiva misericordia del Padre. Il peccatore si
riconosce causante della morte del Figlio e vuole condividere questa morte.
At 2, 22 Uomini d'Israele, udite queste parole: Gesù il Nazareno fu un uomo accreditato da Dio presso di voi con prodigi, portenti e
miracoli, che per mezzo di lui il Signore operò in mezzo a voi, come voi ben sapete;
23 Dio, nel suo volere e nella sua provvidenza, ha permesso che egli vi fosse consegnato: e voi, per mano di empi senza legge, lo
avete ucciso inchiodandolo al patibolo. 24 Ma Dio lo ha risuscitato, liberandolo dalle doglie della morte; poiché non era possibile
che la morte lo possedesse.
36 Sappia dunque con certezza tutta la casa d'Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo questo Gesù che voi avete crocifisso».
37 All’udire queste cose, si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: «Che cosa dobbiamo fare, fratelli?».
38 Pietro rispose loro: «Pentitevi (metanoésate) e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo per ottenere il perdono
dei vostri peccati: e riceverete il dono del Santo Spirito.
b. La conversione per i cristiani
Solo in due occasioni si parla negli Atti degli Apostoli del cristiano che cade in peccato grave. In una
si racconta il caso d’Anania e Safira (At 5,1-11), che hanno ingannato gli apostoli e muoiono senza
opportunità di pentimento. Sembra un caso di “esclusione” allo stile dell’Antico Testamento, ma realizzato
direttamente da Dio. Questa storia sembra essere stata utilizzata come paradigma nella predicazione degli
apostoli per esprimere la serietà dell'impegno con la Chiesa e porre in risalto che l’inganno alla Chiesa è
inganno a Dio e viceversa. Non è una “pena di morte “ per i peccati, anzi, il testo sembra riservarla alla sola
giustizia divina.
L’altro caso è quello di Simone il Mago (At 8 18-24), il quale cerca di comprare il potere di donare
lo Spirito Santo (da cui proviene la parola simonia). Pietro e Giovanni lo ammoniscono, rimproverano ed
esortano al pentimento; Simone li ascolta e si pente chiedendo loro d'intercedere per lui davanti a Dio. In
questo caso a Simone non viene applicata la scomunica penitenziale. Sebbene gli avvertano che si trova
avvolto nei "lacci d'iniquità" (At 8,23), questa è soltanto un'espressione dichiarativa, e non una sentenza di
"legare". Da questo possiamo dedurre che la Chiesa primitiva praticava il perdono non soltanto tramite
l'esclusione e riammissione, ma anche con la non-imposizione di questa punizione quando il penitente si
pente immediatamente, il che è un esercizio implicito del potere di perdonare.
Penitenza e Unzione degli Infermi 2012-2013 - 28
2. La scomunica penitenziale in san Paolo
La Chiesa è, secondo S. Paolo, per vocazione e per essenza, una società di santi. Non che tutti
abbiano raggiunto questo fine, ma l’unione del battezzato con Cristo esige una vita senza peccato, e lo
Spirito di Dio che abita in lui è la legge essenziale che deve reggere la sua vita (cfr. Rm 5,5).
La situazione del battezzato è dinamica: “in cammino”. S. Paolo Riprende la metafora biblica del
cammino in Gal 5,16: “Camminate secondo lo Spirito”, e la presenta come una lotta tra la “carne” (non è il
“corpo”, ma l’intero uomo abbandonato alle proprie forze) e lo “spirito” (la forza che viene da Dio, il dono
della vita divina). La radice del peccato si trova nella “carne di peccato” (l’uomo nella sua debolezza
morale). Il cristiano non deve più seguire la legge della “carne”, ma quella dello “spirito”.
a. Esortazione alla penitenza e ammonizione
Nelle lettere di S. Paolo si scopre che la Chiesa ha le sue macchie e rughe, per i peccati molti di essi
gravi, (cfr. 1Cor 3,3; 11,18; 2Cor 12,20-21) e S. Paolo avvisa che coloro che rimangono in questi peccati non
entreranno nel Regno dei Cieli (cfr. Gal 5,21; 1Cor 6,9).
1Cor 5, 11: “Ma ora vi scrivo di non immischiarvi con chi si dice fratello, ed è impudico, o cupido, o idolatra, o blasfemo, o
ubriacone, o ladro: con questi tali non dovete neanche mettervi a mensa. 12 Tocca forse a me giudicare quelli di fuori? Non sono
quelli di dentro che voi giudicate? 13 Quelli di fuori li giudicherà Dio. Togliete quel perverso di mezzo a voi!”.
Nonostante, supplica ai battezzati di tornare a "riconciliarsi con Dio" (2Cor 5,20) e si rallegra di
coloro che si sono mossi al pentimento ("metanoia"), che proviene da una "tristezza che è secondo Dio"
(2Cor 7, 8-11). Di nuovo troviamo la compunzione che, per la fede nella misericordia di Dio, diventa
contrizione del cuore, conversione.
2Co 5, 17 Quindi se uno è in Cristo, è creatura nuova; le vecchie cose sono passate, ne sono nate di nuove!
18 E tutto è da Dio, il quale ci ha riconciliati con sé mediante Cristo, e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione;
19 è stato Dio, infatti, a riconciliare con sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola
della riconciliazione (kerigma e missione dell’apostolo).
20 Noi fungiamo quindi da ambasciatori per Cristo, ed è come se Dio esortasse per mezzo nostro. Vi supplichiamo in nome di Cristo:
riconciliatevi con Dio. (ammonimento)
21 Colui che non conobbe peccato, egli lo fece peccato per noi, affinché noi potessimo diventare giustizia di Dio in Lui
(la sua umanità passò dal peccato-morte alla vita, e noi con Lui)
Si noti che, inoltre, Paolo scoraggia quelli che hanno coscienza di peccato grave, anche se segreto, di
recarsi a ricevere la comunione (cfr. 1Cor 11,28). Non specifica però come devono fare penitenza.
La Chiesa non può rimanere passiva davanti al peccato grave di uno dei suoi membri: Paolo esorta a
un'ammonizione pubblica del peccatore da parte del capo (o capi) della comunità (1Tm 5,20). Qualche volta
poteva essere fatta fraternamente, dagli spirituali della comunità (Gal 6,1).
b. L'esclusione del peccatore
Ci sono dei casi in cui l’ammonizione e correzione non bastano, e la Chiesa deve intervenire con
autorità, escludendo il peccatore dalla comunità. Il termine "scomunica" non esiste nel NT, ma è quello che
meglio corrisponde a questa pratica (da non confondersi col senso attuale, giuridico - canonico del termine).
La chiamiamo "scomunica penitenziale" perché offre sempre l'opportunità di pentimento e di conversione.
È una certa separazione dalla Chiesa, l’espressione del potere di legare / ritenere i peccati "sulla
terra", ma per la conversione: il peccatore continua a essere "un fratello" (2Tess 3,15; 2Co 2,6-7), in qualche
modo rimane sotto la cura della Chiesa. Si applica al peccato notorio ed entro certi limiti, pubblico. Non
appare una forma rituale propriamente detta, ma vediamo certi elementi essenziali:
- confessione o conoscenza del peccato
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- ammonizione o imposizione della separazione (l’apostolo, o qualcuno della comunità con l‘autorità
dell’apostolo, impone la separazione = la penitenza)
- richiesta del perdono (con proposito di non peccare più)
- riconciliazione con, forse, imposizione delle mani e preghiera d'intercessione (fatta dall’apostolo o da chi
ha ricevuto la sua autorità)
- realizzata nel nome e con il potere di Cristo, come continuità della sua opera salvifica.
Pare che ci fossero diversi gradi, anche se non certo regolati canonicamente. Sembra corrispondano a
decisioni prudenziali di S. Paolo a seconda dei diversi casi.
- Separare. Il grado minore consiste nel mantenere il colpevole separato dalla comunità per un periodo (cfr.
2Ts 3,14) allo scopo di provocare il pentimento.
- Rompere (Rifiutare). Ciò nonostante, vediamo che S. Paolo comanda Tito di “rompere” con l’eretico restio
alle ammonizioni (cfr. Tit 3,10-11). Il vocabolo "paraitoû" ha ricevuto diverse traduzioni, forse la più esatta
sia "rifiuta" o "rigetta", nel senso di "non ammettere".
- Espellere. Qualcosa di simile vediamo in 1Cor 5,9-13, benché con tono più severo: si tratta di "gettare via"
o "espellere" il malvagio.
- Consegnare a Satana. Il maggior grado di scomunica è la "consegna del colpevole a Satana", come nel caso
dell’incestuoso di Corinto (cfr. 1Cor 5,1-5). L’espressione ricorda la cerimonia ebraica del capro espiatorio.
È S. Paolo stesso a pronunciare la sentenza. Malgrado ciò, non si esclude la possibilità di salvezza: si dice
che rimarrà così “per la rovina della sua carne”, probabilmente allusione ai dolori o penitenza che dovrà
patire, o forse alla distruzione della debolezza morale (la carne)16. Tuttavia, "lo spirito potrà ottenere la
salvezza nel giorno del Signore"17. La stessa espressione si adopera nei confronti di due individui in 1Tim
1,19-20, ma "perché imparino".
c. Riammissione del peccatore
Non appare molto chiaro l’atto per il quale il peccatore viene riammesso. Abbiamo alcuni indizi in
2Cor 2,5-11 dove Paolo esorta la comunità a perdonare e incoraggiare uno che è stato scomunicato, e a “far
prevalere nei suoi riguardi la carità” (2Cor 2,8 kyrôsai eis autou agápen) (Adnès traduce: "confermare la
comunione con lui"), prima che cada in balia di Satana e lo porti via. Il termine-chiave è "ágape" (amore,
carità, comunione), pertanto, la riammissione suppone un recupero della grazia, una salvezza: il processo non
è qualcosa di semplicemente giuridico o disciplinare.
Si realizzava un’imposizione delle mani? In 1Tim 5,22 S. Paolo chiede a Timoteo di “non aver fretta
di imporre le mani ad alcuno”. Alcuni esegeti considerano che Paolo si riferisce al gesto dell’ordinazione al
ministero, altri all’atto di perdonare, dato il contesto immediato. E’ una spiegazione probabile, ma non certa.
S. Paolo potrebbe riferirsi alla riconciliazione del ministro infedele, ma potrebbe essere anche un consiglio di
non affettarsi a ordinare ministri (con l’imposizione delle mani) senza essere sicuro della loro idoneità.
In ogni modo, le scomuniche penitenziali in San Paolo sono dei casi eccezionali. È da supporre che
esisterebbe un altro modo di perdonare i peccati meno gravi e veniali.
d. Si tratta de un ministero degli Apostoli e i loro successori
16 L’umiliazione sarebbe la “tristezza secondo Dio” che sarebbe una partecipazione alla morte di Cristo. 17 Lo Spirito, la presenza di Dio, rimane attiva e è capace di ottenere la salvezza. “Lo spirito” che “potrà ottenere la salvezza” non è
l’anima, ma la presenza di Dio nell’anima che fa sì che l’uomo intero si salvi e risusciti. (Rm 8,11: “E se lo Spirito di colui che ha
risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del
suo Spirito che abita in voi”).
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Diversi passi di S. Paolo mostrano che il ministero della riconciliazione, al meno per i peccati gravi,
è di competenza esclusiva degli apostoli:
- «Ha affidato a noi (apostoli) il ministero della riconciliazione» (2Co 5,18)
- Nel caso dell'incestuoso (1Cor 5,3): «Orbene, io, assente nel corpo ma presente nello spirito, ho già
giudicato, come se fossi presente, l'autore di tale misfatto. Nel nome del Signore nostro Gesù, convocati
insieme voi, il mio spirito e la potenza del Signore nostro Gesù…»
- S. Paolo usa la sua autorità per comandare a Tito di “rompere” con l’eretico restio alle ammonizioni (cfr.
Tit 3,10-11)
- Il passo della lettera a Timoteo già visto (cfr. 1Tim 5,22) nel caso che si riferisca alla riconciliazione,
testimonierebbe a favore della riconciliazione concessa dal successore dell’Apostolo.
3. Confessione e preghiera d’intercessione in S. Giacomo
a. Ammonimento alla penitenza
Nella lettera di S. Giacomo si percepisce la tensione fra l’ideale di perfezione e la realtà quotidiana
di una comunità che vive nella tiepidezza, e persino nel peccato. San Giacomo rimprovera chi ascolta la
parola senza metterla in pratica, e la fede morta di chi non ha opere. Ma insegna anche che la correzione
fraterna ha grande efficacia: chi aiuta e ammonisce un fratello perduto, salva la sua anima e seppellisce
un'infinità di peccati (cfr. 5,19-20). La redazione è ambigua: si salva l'anima di chi ammonisce o di chi viene
ammonito? secondo Adnès, quella di quest'ultimo.
b. Confessione mutua e preghiera come rimedio per i peccati meno gravi.
Ma un mezzo ordinario per il perdono delle mancanze è la confessione dei peccati con la preghiera di
intercessione (cfr. 5,16). Può farsi questa confessione dinanzi a Dio, ma può anche essere manifestata dinanzi
a tutti, seguita dall'orazione degli uni per gli altri. Il passo si situa immediatamente dopo quello che tratta
della imposizione delle mani e della preghiera sugli infermi, ma S. Giacomo parla di confessarsi i peccati
reciprocamente, perciò è poco probabile che si riferisca a una confessione fatta dagli infermi ai presbiteri che
li ascoltano, perché non sarebbe reciproca. La preghiera pubblica per i peccati è fatta dalla comunità, non si
dice soltanto dai presbiteri, senza escluderli però. La sua efficacia si attribuisce al fatto d’essere l’orazione
“di un giusto”. Non si dice "nel nome del Signore", il che deporrebbe a favore della sua qualità di
sacramento.
c. Un rito penitenziale pubblico non sacramentale?
Probabilmente questa procedura riguarda i peccati veniali o meno gravi, giacché secondo il
testimonio della Didaché (un documento d’epoca e ambiente vicino alla lettera di S. Giacomo) in Palestina e
Siria agli inizi del secolo II esisteva un rito di confessione all’inizio delle assemblee liturgiche, per mezzo del
quale si otteneva la purificazione necessaria per partecipare ad esse, in particolare all’Eucaristia. Ciò
nonostante, nello stesso documento si prevede anche la scomunica per i peccati specialmente gravi.
4. Il cristiano impeccabile e peccatore nella prima lettera di San Giovanni
San Giovanni nella sua prima lettera, non soltanto insegna che il cristiano non deve peccare (cfr.
3,6), ma anche che non può peccare (cfr. 3,9). A che cosa si riferisce? Dice, infatti: “Chiunque è nato da Dio
non commette peccato, perché un germe divino dimora in lui, e non può peccare perché è nato da Dio”. Il
"germe" sarebbe, secondo alcune opinioni, la presenza della Parola nell’anima, o dello Spirito Santo, o dello
stesso Cristo; infatti, le tre presenze sono intrinsecamente correlate, perché è Cristo a parlare per mezzo dello
Spirito Santo nella sua Parola. Il “germe divino” di S. Giovanni equivarrebbe a “lo Spirito” di S. Paolo.
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Certamente, questo “non può peccare” è da prendersi come realtà di diritto più che di fatto, e si
avvera nella misura in cui il cristiano si unisce al principio di vita divina che risiede in lui, permettendogli
così di crescere e di svilupparsi.
A riprova di questo, troviamo che S. Giovanni, d'altro canto, esorta i cristiani a riconoscere di essere
peccatori se non vogliono ingannarsi (cfr. 1,8). Lo afferma soprattutto dinnanzi agli gnostici, che credono di
essere spirituali, superiori a tutti e incapaci di peccare. Raccomanda la confessione umile e pentita dei
peccati a Dio (cfr. 1,9). Non parla esplicitamente della confessione comunitaria e liturgica, ma possiamo
congetturare che si riferisce ad essa, alla luce di quanto già visto nella lettera di S. Giacomo.
Non si deduce direttamente da S. Giacomo e S. Giovanni la necessità del nostro attuale modo di
attuare la confessione sacramentale, ma possiamo affermare che già tra i primi cristiani vi fosse una
confessione (exhomologesis), pubblica o privata, dei peccati.
5. L’esortazione al pentimento nell’Apocalisse
L’Apocalisse, nelle lettere alle sette Chiese, numero forse simbolico, rispecchia una situazione
morale e spirituale un po' pessimistica. Coloro che sono ricaduti nel peccato vengono energicamente esortati
al pentimento: “convèrtiti!” ("metanoeson"). Si denunciano le mancanze gravi (eresie, idolatrie ed
immoralità), ed altre meno gravi: negligenza, accomodamento, tiepidezza (cfr. 2,4-5; 3,1-3; 3,15-19). Gli
angeli delle Chiese (i vescovi, secondo una comune opinione) non devono tollerare queste mancanze.
Tuttavia, persino per i peccati gravi esiste la possibilità di riconciliazione per mezzo della conversione del
cuore: ai peccatori viene offerta “l’occasione di pentirsi”. Si esorta a “tornare all’amore di prima”, a
“ricordarsi da dove si è caduto” (Ap. 2,4)
L’Apocalisse non fa menzione esplicita dei mezzi esterni e istituzionali per il perdono dei peccati; ma
neanche li nega: si limita a sottolineare la necessità di conversione interna o del cuore.
6. Riassunto sulla penitenza nell’epoca apostolica.
In sunto, nell’epoca apostolica.
Per il peccato grave e pubblico esiste un processo di ricupero: Ammonizione per il pentimento, e in
caso di persistenza, imposizione della scomunica (anche per il pentimento). Una volta pentito, il peccatore
viene riconciliato.
Per il peccato lieve, una confessione, forse generica, una preghiera comunitaria d’intercessione degli
uni per gli altri, da cui segue il perdono.
Per il peccato grave ma privato od occulto, vediamo che S. Paolo ordina esaminare la coscienza
prima di recarsi a fare la comunione, e in caso di trovarsi in peccato grave, non farla. Si tratterebbe di una
“scomunica” segreta, non imposta da nessun atto di autorità, ma non si dice come deve fare il peccatore per
ricevere il perdono. Possiamo supporre, dalla pratica della Chiesa in epoca patristica, che una volta pentito si
recava dall’apostolo o dal episcopo-presbitero per ricevere la penitenza e eventualmente il perdono.
7. Riflessione teologica sulla penitenza nel NT
a. Soltanto Cristo ha percorso fino in fondo il cammino di conversione, nel nostro nome, realizzando
una penitenza di valore infinito.
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Come abbiamo visto già, Gesù Cristo, Il Figlio di Dio diventato uomo, percorre all'inverso il
cammino del peccato che percorse l'uomo quando volle essere « come Dio » ma senza Dio, anzi, contro Dio.
Cristo, per obbedienza al Padre, essendo Dio si fece « come gli uomini » e accettò di prendere su di sé la
nostra colpa, la nostra condizione di « carne di peccato », con le sue conseguenze di allontanamento da Dio.
Cristo compie la sua “kenosi”, il suo “esilio” alla “condizione di servo”, ma sempre rimanendo con il Padre
nell’unità dello Spirito.
Come dice S. Paolo:
«Mandando il proprio Figlio in una carne simile a quella del peccato e in vista del peccato, egli (Dio) ha condannato il peccato nella
carne, perché la giustizia della legge si adempisse in noi » (Rm 8,3-4). « Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato
in nostro favore, perché noi potessimo diventare giustizia di Dio in Lui » (2 Co 5,21) « Cristo, risuscitato dai morti non muore più, la
morte non ha più potere su di lui. Per quanto riguarda la sua morte, egli morì al peccato una volta per tutte; ora invece, per il fatto che
egli vive, vive per Dio» (Rm 6,9-10).
« (Cristo Gesù) … pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso (un oggetto di rapina) la sua uguaglianza con Dio,
ma svuotò se stesso, assumendo la condizione di servo, e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte e morte di croce. Per questo Dio lo ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni
altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù
Cristo è Signore, a gloria di Dio Padre » (Flp 2,6-11).
Cf. anche Eb 5, 8-9: «imparò l’obbedienza da ciò che patì … e divenne causa di salvezza per coloro che l’obbediscono».
b. Il cristiano percorre, in Cristo, questo cammino nel sacramento della penitenza
Nel nome di Cristo S. Paolo grida: « riconciliatevi con Dio! » (2Co 5,20). A partire da Cristo si
capisce come non c'è peccato che non possa essere perdonato se il peccatore aderisce a Cristo attraverso la
sua Chiesa18 e così diventa « giustizia di Dio in Cristo».
Così S. Paolo:
« Dio, ricco in misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con
Cristo: per grazia infatti siete stati salvati. Con lui ci ha anche risuscitati e ci ha fatti sedere nei cieli, in Cristo Gesù » (Ef 2,4-6).
E si capisce anche che non mancherà mai a chi è nella Chiesa durante questa vita, la fonte costante
del perdono che è il sacramento della penitenza, per mezzo del quale partecipa più e più volte della penitenza
infinita di Cristo.
Così dice S. Giovanni:
« Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se riconosciamo i nostri peccati, egli, che è
fedele e giusto ci perdonerà i peccati e ci purificherà da ogni colpa. Se diciamo che non abbiamo peccato, facciamo di lui un bugiardo
e la sua parola non è in noi. Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate, ma se qualcuno ha peccato, abbiamo un
avvocato presso il Padre: Gesù Cristo il Giusto. Egli è vittima di riconciliazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma
anche per quelli di tutto il mondo » (1Gv 1,8 - 2,2).
E S. Paolo ci ricorda che:
« La speranza poi, non delude, perché l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato
dato. Infatti, mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi nel tempo stabilito. Ora, a stento si trova chi sia disposto
a morire per un giusto; forse ci può essere chi ha il coraggio di morire per una persona dabbene. Ma Dio dimostra il suo amore verso
di noi perché mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. A maggior ragione, ora, giustificati per il suo sangue, saremo
salvati dell'ira per mezzo di lui. Se infatti, quando eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio, per mezzo della morte del Figlio
suo, molto più ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita » (Rm 5,5-10).
Soltanto un atteggiamento di chiusura al perdono può frustrare questo definitivo manifestarsi della
misericordia di Dio in Cristo. Il cristiano non deve sottovalutare la possibilità di dannarsi, ma sa di avere alla
sua portata la pienezza dello Spirito, la definitiva effusione di grazia e di misericordia, il che è saldissima
fonte della sua speranza.
Nel sacramento della penitenza, ogni cristiano ripete l'itinerario della riconciliazione. C'è stato il
peccato, la separazione, lo strappo nei rapporti di comunione, una « scomunica » volontaria a cui segue la «
18 Qui non entra in questione la possibilità di salvezza dei non-battezzati. L’azione salvifica della Chiesa si stende al di là dei suoi
limiti visibili.
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scomunica » penitenziale da parte di Dio manifestata per mezzo della comunità di salvezza, che comunque
non è meramente punitiva, ma viene accompagnata dall'annunzio della misericordia e l'esortazione al
pentimento.
La scomunica penitenziale è una scomunica all'interno della comunione, che riproduce lo stato
penitenziale di Cristo sulla croce: paradossalmente più unito che mai al Padre nel momento in cui accetta per
noi la separazione che il Padre gli chiede.
Il peccatore, prendendo coscienza del suo miserevole stato, e fiducioso nell'annunzio della
misericordia, si duole e decide di cambiare vita, e di tornare alla comunione con Dio e con il fratello,
accettando la sua situazione di dolore, pronto a compiere le azioni di penitenza e riparazione necessarie, e
confessando, come segno di rinnovata fiducia e dedizione, il peccato che lo aveva ridotto in quella
condizione. Con ciò si sottomette alla decisione di Dio su di lui, al giudizio che viene da Dio per mezzo della
comunità di salvezza, radunata e animata dallo Spirito.
Si tratta di una comunità gerarchicamente organizzata, nella quale il ministero sacramentale del
perdono è affidato al vescovo e ai suoi collaboratori, i presbiteri, che agiscono nella persona di Cristo, ma
senza escludere la collaborazione degli altri membri, con i loro esempi, consigli e preghiere.
In questo modo, il penitente, la cui azione è parte integrante dello stesso sacramento, partecipa in
modo simbolico - reale (sacramentale) al cammino di conversione realizzato da Gesù Cristo. Pertanto riceve
la riconciliazione, che è una sentenza non di stretta giustizia, ma di perdono, fondata sulla misericordia di
Dio, resa storicamente efficace per i meriti infiniti del sacrificio di Cristo.
Ma il sacramento della penitenza è qualcosa di più di un'applicazione « dal di fuori », meramente
passiva, di questi meriti: il penitente viene introdotto nel cammino di salvezza realizzato da Gesù Cristo a
nostro favore. Si tratta di una partecipazione attiva nella grazia della conversione, coronata dal perdono –
riconciliazione. La soddisfazione imposta dal confessore ha anch’essa un valore sacramentale, quello di
lottare e soffrire nella condizione di “viator”, ma con Cristo e in Cristo. Nel percorrere attivamente con
Cristo e in Cristo questo cammino, per mezzo di un sacramento della Chiesa, il penitente riceve questa
misericordia e questi meriti, e pertanto, la guarigione dal suo male e il ristabilimento della vita divina, vale a
dire, la comunione con il Padre, per mezzo del Figlio nell'unità dello Spirito.
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4. Il problema del “peccato irremissibile” Consideriamo adesso se secondo il Nuovo Testamento, ci siano dei peccati che per la loro natura non
si possono perdonare. È ciò che sembrano suggerire alcuni testi:
- nella Lettera agli Ebrei e nella prima lettera di S. Giovanni, per i battezzati;
- con un’ampiezza più universale nei Sinottici;
1. La «bestemmia contro lo Spirito Santo» nei Sinottici
a. Marco e Matteo
Mc 3, 28-29: [28]In verità vi dico: tutti i peccati saranno perdonati ai figli degli uomini e anche tutte le
bestemmie che diranno; [29]ma chi avrà bestemmiato contro lo Spirito Santo, non avrà perdono in eterno:
sarà reo di colpa eterna».
In Marco (3,28-29) il contesto è quello di una disputa con i farisei circa l’origine del potere di Gesù
per cacciare i demoni19. Gesù afferma che chi bestemmia contro lo Spirito Santo si carica di un peccato
perpetuo. Dal contesto si vede che si tratta del peccato di colui che non vuole vedere l’azione dello Spirito
Santo nelle opere che Cristo fa. Infatti, chiamano “spirito immondo” proprio lo Spirito che manifesta la
misericordia di Dio.
Mt 12, 31-32: [31]Perciò io vi dico: Qualunque peccato e bestemmia sarà perdonata agli uomini, ma la
bestemmia contro lo Spirito non sarà perdonata. [32]A chiunque parlerà male del Figlio dell'uomo sarà
perdonato; ma la bestemmia contro lo Spirito, non gli sarà perdonata né in questo secolo, né in quello futuro.
In Matteo (12,31-32) troviamo lo stesso contesto20, ma con una sentenza più complicata: colui che
bestemmierà contro il Figlio dell’uomo potrà essere perdonato, ma non colui che bestemmierà contro lo
Spirito Santo. Si capisce che colui che nega la messianità di Cristo a causa della sua condizione umana, gode
di una certa scusabilità (magari per pregiudizio invincibile), non così colui che si rifiuta di riconoscere che le
opere che Egli compie vengono da Dio, cioè, che Dio attua per mezzo di Gesù. Questo peccato si pone
volontariamente contro ogni perdono, giacché ne esclude la condizione fondamentale: l’adesione a Cristo
salvatore.
Un'altra interpretazione potrebbe essere questa: la formula matteana sarebbe una rielaborazione
pospasquale della formula originale di Gesù. Il peccato contro il Figlio dell’Uomo corrisponderebbe al
ministero terreno di Gesù. Era il tempo dell'ignoranza; dopo la Pasqua, non ci sarebbero scuse, alla luce dei
19 Mc 3 [22]Ma gli scribi, che erano discesi da Gerusalemme, dicevano: «Costui è posseduto da Beelzebùl e scaccia i demòni per
mezzo del principe dei demòni». [23]Ma egli, chiamatili, diceva loro in parabole: «Come può satana scacciare satana? [24]Se un
regno è diviso in se stesso, quel regno non può reggersi; [25]se una casa è divisa in se stessa, quella casa non può reggersi. [26]Alla
stessa maniera, se satana si ribella contro se stesso ed è diviso, non può resistere, ma sta per finire. [27]Nessuno può entrare nella
casa di un uomo forte e rapire le sue cose se prima non avrà legato l'uomo forte; allora ne saccheggerà la casa. [28]In verità vi dico:
tutti i peccati saranno perdonati ai figli degli uomini e anche tutte le bestemmie che diranno; [29]ma chi avrà bestemmiato contro lo
Spirito santo, non avrà perdono in eterno: sarà reo di colpa eterna». [30]Poiché dicevano: «E' posseduto da uno spirito immondo».
20 Mt 12 [25]Ma egli, conosciuto il loro pensiero, disse loro: «Ogni regno discorde cade in rovina e nessuna città o famiglia discorde
può reggersi. [26]Ora, se satana scaccia satana, egli è discorde con se stesso; come potrà dunque reggersi il suo regno? [27]E se io
scaccio i demòni in nome di Beelzebùl, i vostri figli in nome di chi li scacciano? Per questo loro stessi saranno i vostri giudici.
[28]Ma se io scaccio i demòni per virtù dello Spirito di Dio, è certo giunto fra voi il regno di Dio. [29]Come potrebbe uno penetrare
nella casa dell'uomo forte e rapirgli le sue cose, se prima non lo lega? Allora soltanto gli potrà saccheggiare la casa. [30]Chi non è
con me è contro di me, e chi non raccoglie con me, disperde. [31]Perciò io vi dico: Qualunque peccato e bestemmia sarà perdonata
agli uomini, ma la bestemmia contro lo Spirito non sarà perdonata. [32]A chiunque parlerà male del Figlio dell'uomo sarà perdonato;
ma la bestemmia contro lo Spirito, non gli sarà perdonata né in questo secolo, né in quello futuro.
Penitenza e Unzione degli Infermi 2012-2013 - 36
segni evidenti che offre lo Spirito Santo nella Chiesa. Infatti, nel discorso della Pentecoste, (Att 2,22ss) S.
Pietro rimprovera i giudei di Gerusalemme per aver ucciso Gesù, ma al contempo, offre loro l’opportunità
del perdono con il Battesimo, e di ricevere lo Spirito Santo. Ovviamente, se adesso rifiutano anche questo,
non possono ottenere il perdono.
b. La versione lucana
Lc 12,10: Chiunque parlerà contro il Figlio dell'uomo gli sarà perdonato, ma chi bestemmierà lo Spirito
Santo non gli sarà perdonato.
In Lc 12,10 si menziona come in Matteo, il "logion" della bestemmia contro lo Spirito Santo, ma si
presenta dentro del discorso esortativo ai discepoli perché parlino senza timore21. Può darsi che sia una
trasposizione intenzionata, ma è anche possibile che Cristo trattasse questo tema in diverse occasioni, con
delle applicazioni diverse. Come in Matteo, si parla dei due tipi di bestemmie.
Alcuni esegeti22, non applicano il "logion" ai discepoli, in base ai versetti seguenti (11 e 12), dove si
parla di quello che devono fare i discepoli quando saranno portati davanti ai tribunali. Applicano il "logion"
ai magistrati dei tribunali: a coloro che senza mala fede bestemmiano il Figlio dell'Uomo, si può cancellare il
peccato; non così a coloro che rifiutano la luce dello Spirito Santo, che si manifesterebbe nelle risposte dei
discepoli.
Altri esegeti23, guidati dai versetti anteriori (8-9), in cui si parla della possibile negazione di Cristo da
parte dei discepoli, dicono che il "logion" deve applicarsi a questi. Così, gli estranei che per ignoranza
rifiutano Gesù, potranno essere perdonati, ma non i cristiani che lo rifiutano avendolo conosciuto per opera
dello Spirito Santo.
Una terza spiegazione sarebbe: c'è chi nega Gesù per timore e debolezza (bestemmia contro il Figlio
dell'Uomo), e c'è chi lo nega per un rifiuto interiore della fede. Il primo potrà essere perdonato, il secondo
no, perché egli stesso si esclude dalla salvezza.
c. Interpretazione dell'enciclica Dominum et vivificantem (vedere appendice)
Finalmente, un’interpretazione più generica di questi tre passi evangelici, la troviamo nell'enciclica
Dominum et vivificantem, di Giovanni Paolo II (n. 46): la bestemmia contro lo Spirito Santo sarebbe il
peccato di credersi in diritto a rimanere nel peccato; il peccato di non voler essere perdonato:
Ora la bestemmia contro lo Spirito Santo è il peccato commesso dall'uomo, che rivendica un suo presunto
«diritto» di perseverare nel male - in qualsiasi peccato - e rifiuta così la redenzione. L'uomo resta chiuso nel
peccato, rendendo da parte sua impossibile la sua conversione e, dunque, anche la remissione dei peccati, che
ritiene non essenziale o non importante per la sua vita. È, questa, una condizione di rovina spirituale, perché la
bestemmia contro lo Spirito Santo non permette all'uomo di uscire dalla sua autoprigionia e di aprirsi alle fonti
divine della purificazione delle coscienze e della remissione dei peccati.
21 Lc 12 [4]A voi miei amici, dico: Non temete coloro che uccidono il corpo e dopo non possono far più nulla. [5]Vi mostrerò invece
chi dovete temere: temete Colui che, dopo aver ucciso, ha il potere di gettare nella Geenna. Sì, ve lo dico, temete Costui. [6]Cinque
passeri non si vendono forse per due soldi? Eppure nemmeno uno di essi è dimenticato davanti a Dio. [7]Anche i capelli del vostro
capo sono tutti contati. Non temete, voi valete più di molti passeri. [8]Inoltre vi dico: Chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini,
anche il Figlio dell'uomo lo riconoscerà davanti agli angeli di Dio; [9]ma chi mi rinnegherà davanti agli uomini sarà rinnegato
davanti agli angeli di Dio. [10]Chiunque parlerà contro il Figlio dell'uomo gli sarà perdonato, ma chi bestemmierà lo Spirito Santo
non gli sarà perdonato. [11]Quando vi condurranno davanti alle sinagoghe, ai magistrati e alle autorità, non preoccupatevi come
discolparvi o che cosa dire; [12]perché lo Spirito Santo vi insegnerà in quel momento ciò che bisogna dire».
22 Come Schanz, Knabenbauer, Weiss, Wellhausen.
23 Come Lagrange, Lemonnyer e Marchall.
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Non sarebbe tanto il rifiuto teorico di Gesù, quanto il rifiuto morale, pratico del perdono che egli
porta. Nei tempi moderni, a partire dall’Illuminismo, si da un ateismo teorico o pratico che nega la necessità
di una salvezza dell’uomo da parte di Dio, affermando la possibilità per l’uomo di superare i suoi problemi
morali con le sole proprie forze. Questo, a lungo andare porta l’uomo a negare rilevanza morale a quei settori
del suo comportamento che non riesce a dominare. Si finisce per fare del male morale la norma, fino a
perseguitare come “discriminatore” chi osa continuare ad affermare che certi atti morali sono peccato.
2. L'«impossibile rinnovamento» nella lettera agli Ebrei
Nella Lettera agli ebrei si può leggere:
Eb 6,4-6: [4]Quelli infatti che sono stati una volta illuminati, che hanno gustato il dono celeste, sono
diventati partecipi dello Spirito Santo [5]e hanno gustato la buona parola di Dio e le meraviglie del mondo
futuro. [6]Tuttavia se sono caduti, è impossibile rinnovarli una seconda volta portandoli alla conversione, dal
momento che per loro conto crocifiggono di nuovo il Figlio di Dio e lo espongono all'infamia.
Eb 6,4-6 sembra chiudere ogni speranza a chi pecca gravemente. Questo è un testo base per i
rigoristi dei primi secoli e, secondo alcuni storici moderni del dogma, esprimerebbe la concezione della
santità della maggior parte delle comunità cristiane primitive, in cui a coloro che peccavano gravemente non
restava che l'esclusione dalla comunione con la Chiesa, senza possibilità di riammissione.
Ma l’interpretazione è falsa perché la caduta di cui si tratta non è qualunque peccato grave, ma uno
determinato, quello di coloro che hanno apostato dalla fede: i giudei convertiti che ritornavano alle pratiche
giudaiche.
Questo si evince da quanto è detto immediatamente prima:
Eb 6, 1-3 [1]Perciò, lasciando da parte l'insegnamento iniziale su Cristo, passiamo a ciò che è più
completo, senza gettare di nuovo le fondamenta della rinunzia alle opere morte e della fede in Dio, [2]della
dottrina dei battesimi, dell'imposizione delle mani, della risurrezione dei morti e del giudizio
eterno. [3]Questo noi intendiamo fare, se Dio lo permette.
È chiaro che l’autore vuole rivolgere il suo scritto a quelli che hanno accettato gli insegnamenti
inziali del cristianesimo. Poi il suo pensiero si rivolge a quelli che avendoli accettati, non gli accettano più.
Infatti, come vedremo, nel linguaggio patristico, “caduti” saranno chiamati quelli che hanno apostatato.
Resta da spiegare perché l’epistola afferma che "è impossibile rinnovarli per una seconda volta".
Secondo le opinioni riportate de P. Adnès24, questo può far riferimento a:
- L’impossibilità di reiterare il Battesimo per coloro che hanno apostatato25. Il Battesimo, infatti, è
irrepetibile, ma non si parla qui dell’impossibilità della Penitenza ecclesiale.
- L’impossibilità di ricupero sarebbe dovuta alle disposizioni soggettive dei peccatori stessi. Sarebbe
una impossibilità umana, psicologica, ma non una impossibilità oggettiva di perdono.
- L’impossibilità di fare ritornare alla fede gli apostati per via di spiegar loro di nuovo i rudimenti
della fede cristiana, giacché li hanno rigettati. Per questo, l’autore dichiara di non volere ripetere questi
insegnamenti e di passare a spiegare cose più elevate.
24 P. ADNÈS, La Penitencia, pp. 68ss. 25 Così argomentava Sant’Ambrogio nel Trattato de penitenza contro i novaziani, che usavano questo testo per negare la possibilità
della penitenza ecclesiastica. E molti altri Padri. Anche S. Tommaso segue questa opinione (cfr. Summa Theol II, q.84 a.10 ad1).
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- L’impossibilità di ricupero a causa della natura stessa del peccato. Perché l’apostata si allontana
dalla fede in Cristo e quindi, si pone fuori della sfera della salvezza, mentre che colui che pecca senza
perdere la fede, ha sempre la porta aperta alla conversione. La forma grammaticale dei verbi che esprimono
questo atteggiamento danno un’idea di persistenza: possiamo pensare che è questa persistenza a rendere
impossibile il perdono26.
- L’impossibilità di crocifiggere Cristo di nuovo, riferendosi all'ebreo convertito che apostata e ritorna
a un giudaismo ormai vuoto di speranza messianica27. La redenzione si è compiuta “di una volta per tutte”
con il sacrificio di Cristo, come dirà più avanti (Eb 7,27). I sacrifici dell’Antica Legge, che lo prefiguravano,
sarebbero ormai inutili.
In conclusione, nell'epistola si evidenzia che per colui che colpevolmente si separa da Cristo,
mediatore della Nuova e definitiva Alleanza, e persiste nel suo atteggiamento, non esiste alcun altro
cammino di salvezza. Non dice che sia impossibile il perdono per coloro che cadono gravemente persistendo
tuttavia nella fede.
3. Il «peccato che conduce alla morte» nella prima lettera di S. Giovanni
1Gv 5, 16-17: [16]Se uno vede il proprio fratello commettere un peccato che non conduce alla morte, preghi,
e Dio gli darà la vita; s'intende a coloro che commettono un peccato che non conduce alla morte: c'è infatti
un peccato che conduce alla morte; per questo dico di non pregare. [17]Ogni iniquità è peccato, ma c'è il
peccato che non conduce alla morte.
Quando Giovanni nella sua prima lettera parla della preghiera per i peccatori, allude a «un peccato
che conduce alla morte», per il quale chiede «di non pregare» (5,16). È da supporre che si riferisce alle
celebrazioni penitenziali nelle quali, come abbiamo visto nella lettera di san Giacomo, si fa preghiera per i
peccatori e con ciò si ottiene il perdono. Qui vediamo che per lo meno qualche tipo di peccato non può essere
perdonato così. Si vede che l’espressione non si riferisce direttamente a quello che la teologia ha chiamato
posteriormente “peccato mortale”. Non si tratta di un peccato grave qualsiasi, ma d’un atteggiamento
peccaminoso di tipo speciale.
Può far riferimento all'apostasia contumace: la parola morte in S. Giovanni viene sempre collegata al
fatto di non credere in Cristo. Potrebbe anche trattarsi di qualche tipo di eresia, come quella che nega "che
Gesù è il Cristo" (2,22): finché l'eretico persiste nel suo rifiuto della fede, esclude se stesso dal perdono. Non
sembra negare che l'apostatata e l'eretico si possano convertire, ne proibire di pregare per la loro conversione.
Ciò che sembra sconsigliare, perché inutile, è la preghiera per ottenere il perdono di uno che persiste nella
sua avversione a Cristo.
4. Conclusione
Tutti questi testi vanno compresi non in rapporto all’impossibilità di penitenza per certi peccati
commessi dopo il Battesimo, ma alla necessità di essere uniti a Cristo per la fede come condizione
per ricevere il perdono dei peccati. Non si tratta soltanto dell’indurimento definitivo nel peccato,
ma soprattutto della negazione colpevole di Cristo come unico mediatore della Nuova Alleanza, e
dello Spirito Santo da Lui donato per il perdono dei peccati.
26 “Illuminati”, “caduti” sono in aoristo, indicano un’azione passata, ma “crocefiggendo”, “esponendo all’infamia” sono in presente,
indicano persistenza, e anche eventualità: “mentre che continuino a crocefiggere…”. Sembra che l’impossibilità del ricupero sia
condizionata da questa persistenza, se finisce la persistenza, se aprirebbe la possibilità di ricupero. (Cfr. P. ADNÈS, La Penitencia, p.
70.) 27Secondo questo, le parole "eis metanoian" (per il pentimento) non dipendente dall’infinito "anakainizaein" (rinnovare), ma dal
participio "anastaurountas" (crocifiggendo di nuovo). . (Cfr. P. ADNÈS, La Penitencia, p. 70.)
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Appendice: Il peccato contro lo Spirito Santo nella Dominum et vivificantem
http://www.vatican.va/edocs/ITA1216/__PE.HTM
46. Sullo sfondo di ciò che abbiamo detto finora, diventano più comprensibili alcune altre parole, impressionanti e
sconvolgenti, di Gesù. Le potremmo chiamare le parole del «non-perdono». Esse ci sono riferite dai Sinottici in
rapporto ad un particolare peccato, che è chiamato «bestemmia contro lo Spirito Santo». Eccole come sono state riferite
nella triplice loro redazione.
Matteo:
«Qualunque peccato e bestemmia sarà perdonata agli uomini, ma la bestemmia contro lo Spirito non sarà perdonata. A
chiunque parlerà male del Figlio dell'uomo sarà perdonato; ma la bestemmia contro lo Spirito non gli sarà perdonata né
in questo secolo, né in quello futuro».
Marco:
«Tutti i peccati saranno perdonati ai figli degli uomini, e anche tutte le bestemmie che diranno, ma chi avrà
bestemmiato contro lo Spirito Santo, non avrà perdono in eterno: sarà reo di colpa eterna».
Luca:
«Chiunque parlerà contro il Figlio dell'uomo gli sarà perdonato, ma a chi bestemmierà lo Spirito Santo non sarà
perdonato».
Perché la bestemmia contro lo Spirito Santo è imperdonabile?
Come intendere questa bestemmia? Risponde san Tommaso d'Aquino che si tratta di un peccato:
«irremissibile secondo la sua natura, in quanto esclude quegli elementi, grazie ai quali avviene la remissione dei
peccati». Secondo una tale esegesi la «bestemmia» non consiste propriamente nell'offendere con le parole lo Spirito
Santo; consiste, invece, nel rifiuto di accettare la salvezza che Dio offre all'uomo mediante lo Spirito Santo, operante in
virtù del sacrificio della Croce. Se l'uomo rifiuta quel «convincere quanto al peccato», che proviene dallo Spirito Santo
ed ha carattere salvifico, egli insieme rifiuta la «venuta» del consolatore - quella «venuta» che si è attuata nel mistero
pasquale, in unità con la potenza redentrice del sangue di Cristo: il sangue che «purifica la coscienza dalle opere
morte». Sappiamo che frutto di una tale purificazione è la remissione dei peccati. Pertanto, chi rifiuta lo Spirito e il
sangue rimane nelle «opere morte», nel peccato. E la bestemmia contro lo Spirito Santo consiste proprio nel rifiuto
radicale di accettare questa remissione, di cui egli è l'intimo dispensatore e che presuppone la reale conversione, da lui
operata nella coscienza. Se Gesù dice che la bestemmia contro lo Spirito Santo non può essere rimessa né in questa vita
né in quella futura, è perché questa «non-remissione» è legata, come a sua causa, alla «non penitenza», cioè al radicale
rifiuto di convertirsi. Il che significa il rifiuto di raggiungere le fonti della redenzione, le quali, tuttavia, rimangono
«sempre» aperte nell'economia della salvezza, in cui si compie la missione dello Spirito Santo. Questi ha l'infinita
potenza di attingere a queste fonti: «Prenderà del mio», ha detto Gesù. In questo modo egli completa nelle anime umane
l'opera della redenzione, compiuta da Cristo, dispensandone i frutti. Ora la bestemmia contro lo Spirito Santo è il
peccato commesso dall'uomo, che rivendica un suo presunto «diritto» di perseverare nel male - in qualsiasi peccato - e
rifiuta così la redenzione. L'uomo resta chiuso nel peccato, rendendo da parte sua impossibile la sua conversione e,
dunque, anche la remissione dei peccati, che ritiene non essenziale o non importante per la sua vita. È, questa, una
condizione di rovina spirituale, perché la bestemmia contro lo Spirito Santo non permette all'uomo di uscire dalla sua
autoprigionia e di aprirsi alle fonti divine della purificazione delle coscienze e della remissione dei peccati.
47. L'azione dello Spirito di verità, che tende al salvifico «convincere quanto al peccato», incontra nell'uomo che si
trova in tale condizione una resistenza interiore, quasi un'impermeabilità della coscienza, uno stato d'animo che si
direbbe consolidato in ragione di una libera scelta: è ciò che la Sacra Scrittura di solito chiama «durezza di cuore».
Nella nostra epoca a questo atteggiamento di mente e di cuore corrisponde forse la perdita del senso del peccato, alla
quale dedica molte pagine l'Esortazione Apostolica Reconciliatio et paenitentia. Già il Papa Pio XII aveva affermato
che «il peccato del secolo è la perdita del senso del peccato», e tale perdita va di pari passo con la «perdita del senso di
Dio». Nell'Esortazione citata leggiamo: «In realtà, Dio è la radice e il fine supremo dell'uomo, e questi porta in sé un
germe divino. Perciò, è la realtà di Dio che svela e illumina il mistero dell'uomo. È vano, quindi, sperare che prenda
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consistenza un senso del peccato nei confronti dell'uomo e dei valori umani, se manca il senso dell'offesa commessa
contro Dio, cioè il senso vero del peccato». La Chiesa, perciò, non cessa di implorare da Dio la grazia che non venga
meno la rettitudine nelle coscienze umane, che non si attenui la loro sana sensibilità dinanzi al bene e al male. Questa
rettitudine e sensibilità sono profondamente legate all'intima azione dello Spirito di verità. In questa luce acquistano
particolare eloquenza le esortazioni dell'Apostolo: «Non spegnete lo Spirito». «Non vogliate rattristare lo Spirito
Santo». Soprattutto, però, la Chiesa non cessa di implorare con sommo fervore che non aumenti nel mondo quel peccato
chiamato dal Vangelo «bestemmia contro lo Spirito Santo»; che esso, anzi, retroceda nelle anime degli uomini - e per
riflesso negli stessi ambienti e nelle varie forme della società -, cedendo il posto all'apertura delle coscienze, necessaria
per l'azione salvifica dello Spirito Santo. La Chiesa implora che il pericoloso peccato contro lo Spirito lasci il posto ad
una santa disponibilità ad accettare la sua missione di consolatore, quando egli viene per «convincere il mondo quanto
al peccato, alla giustizia e al giudizio».
48. Nel suo discorso di addio Gesù ha unito questi tre àmbiti del «convincere» come componenti della missione del
Paraclito: il peccato, la giustizia e il giudizio. Essi segnano lo spazio di quel mistero della pietà, che nella storia
dell'uomo si oppone al peccato, al mistero dell'iniquità. Da un lato, come si esprime sant'Agostino, c'è l'«amore di sé
fino al disprezzo di Dio»; dall'altro, c'è l'«amore di Dio fino al disprezzo di sé». La Chiesa di continuo innalza la sua
preghiera e presta il suo servizio, perché la storia delle coscienze e la storia delle società nella grande famiglia umana
non si abbassino verso il polo del peccato col rifiuto dei comandamenti divini «fino al disprezzo di Dio», ma piuttosto si
elevino verso l'amore, in cui si rivela lo Spirito che dà la vita. Coloro che si lasciano «convincere quanto al peccato»
dallo Spirito Santo, si lasciano anche convincere quanto «alla giustizia e al giudizio». Lo Spirito di verità, che aiuta gli
uomini, le coscienze umane, a conoscere la verità del peccato, al tempo stesso fa sì che conoscano la verità di quella
giustizia che entrò nella storia dell'uomo con Gesù Cristo. In questo modo, coloro che «convinti del peccato» si
convertono sotto l'azione del consolatore, vengono, in un certo senso, condotti fuori dall'orbita del «giudizio»: di quel
«giudizio», col quale «il principe di questo mondo è stato giudicato». La conversione, nella profondità del suo mistero
divino-umano, significa la rottura di ogni vincolo col quale il peccato lega l'uomo nell'insieme del mistero dell'iniquità.
Coloro che si convertono, dunque, vengono condotti dallo Spirito Santo fuori dall'orbita del «giudizio», e introdotti in
quella giustizia, che è in Cristo Gesù, e vi è perché la riceve dal Padre, come un riflesso della santità trinitaria. Questa è
la giustizia del Vangelo e della redenzione, la giustizia del Discorso della montagna e della Croce, che opera la
purificazione della coscienza mediante il sangue dell'Agnello. È la giustizia che il Padre rende al Figlio ed a tutti coloro,
che sono uniti a lui nella verità e nell'amore. In questa giustizia lo Spirito Santo, Spirito del Padre e del Figlio, che
«convince il mondo quanto al peccato», si rivela e si rende presente nell'uomo come Spirito di vita eterna.
Penitenza e Unzione degli Infermi 2012-2013 - 42
II. La penitenza nella tradizione
1. La penitenza nella Chiesa antica (introduzione generale)
Si tratta dei sette primi secoli, cioè, dell’epoca dei Padri. Questo periodo è sommamente importante
per la teologia del sacramento della penitenza.
1. Le diverse forme della penitenza:
La Chiesa antica distingue tra penitenza battesimale e penitenza post-battesimale. La penitenza battesimale
fa sì che il catecumeno adulto si corregga dalle sue abitudini pagane, riformi la sua vita, si converta al
Signore e si disponga a ricevere il perdono dei suoi peccati nel Battesimo. La penitenza post-battesimale
(per il cristiano peccatore), ha un doppio versante: per i peccati “leggeri”, “veniali”, “quotidiani”: penitenza
"quotidiana", di tutti giorni, per mezzo della preghiera e delle buone opere; per i “peccati gravi” (che, a
rigore, non dovrebbero avere posto nella vita cristiana): penitenza "ardua" che si realizza sotto il controllo
della Chiesa e richiede il suo intervento speciale
│ BATTESIMALE
PENITENZA ┤ (aphesis) │QUOTIDIANA
│POST-BATTESIMALE ┤
(metanoia) │ARDUA
Tertulliano parla delle due classi di penitenza: la prima, preparatoria per il Battesimo. La seconda,
per i peccati gravi commessi dopo il Battesimo28.
Sant’Agostino parla di una triplice penitenza: la battesimale, la quotidiana per i peccati lievi, e la
maior o insignis, quella concernente i peccati gravi. Quest'ultima è la penitenza propriamente detta.
2. Come conosciamo questa penitenza?
Fino alla seconda metà del secolo II troviamo solo semplici allusioni (Clemente Romano, Ignazio di
Antiochia, Policarpio di Smirne, 2° lettera di Clemente...), tuttavia, questi indicano già i dati caratteristici
della dottrina e delle pratiche antiche della penitenza: preoccupazione per la salvezza del prossimo,
correzione fraterna, intercessione davanti a Dio per i peccatori, confessione dei peccati, pentimento-
conversione, opere di santificazione, esclusione dalla comunità. S. Ignazio di Antiochia, nella Lettera ai Filadelfi (96 d.C., circa) dice: “Dio perdona tutti i penitenti
se si convertono all’unione con Lui e alla comunione con il vescovo”.
S. Policarpo, nella Lettera ai Filippesi: chiede la grazia della penitenza per il presbitero Valente e
sua moglie, a causa della loro avarizia.
28 Gli scrittori di lingua greca chiamavano la penitenza battesimale “aphésis” (perdono, remissione), e quella posbattesimale
“metánoia” (conversione). In tutte e due c’erano conversione e perdono. Il nome gli veniva dato a causa dell’elemento che si
considerava predominante. Infatti, nel Battesimo, il perdono richiede la conversione del cuore e il cambiamento di vita, ma non atti
speciali di penitenza. La Penitenza ecclsiastica richiedeva questi atti.
Penitenza e Unzione degli Infermi 2012-2013 - 43
Ne Il Pastore di Erma (150 d.C.) si parla probabilmente della penitenza ecclesiastica per il perdono
dei peccati gravi, come un ritorno alla torre (la Chiesa) delle pietre che da essa sono cadute.
Sant’Ireneo (180 d.C.) parla, mediante allusioni, di "realizzare la exhomologesis", che significa
confessare e riconoscere le mancanze; tuttavia qui ha un senso più ampio, e include le opere di santificazione
necessarie, mediante le quali il peccatore fa penitenza pubblica.
Clemente di Alessandria (stessa epoca) parla di una “seconda penitenza” per il perdono dei peccati
commessi dopo il battesimo. Essa esige una purificazione dolorosa e una lenta cura attraverso la preghiera, il
digiuno e le opere di carità. Dovrebbe avvenire in un contesto ecclesiale.
Tertulliano (195 d.C.) è colui che ci offre una descrizione dettagliata e precisa nella sua opera De
Penitentia29 (cp 9). Il peccatore deve realizzare l'exhomologesis (confessione del peccato), per ricevere la
penitenza (la soddisfazione). È quindi un dono della Chiesa, da chiedere e ricevere. Tutto è indirizzato a
provocare o perfezionare il pentimento del peccatore e quindi la compassione divina: "meno tu avrai
risparmiato te stesso, più ti risparmierà Dio".
San Cipriano (metà del secolo III) nei suoi scritti ci dà un’ampia informazione riguardo alla
penitenza, quando tratta il problema dei lapsi (caduti nell’apostasia), come vedremo.
Origene, anche lui nel secolo III, ci offre una profonda dottrina teologica sulla penitenza nei suoi
Commentari Scritturistici. Distingue tra peccati mortali - che lasciano senza la vita di Gesù, senza lo Spirito
Santo, fuori dal Regno - e non mortali.
Incontriamo anche notizie di usi penitenziali in Siria nell’opera anonima Didascalia degli Apostoli.
Solo dopo la pace costantiniana (sec. IV e V), si sviluppò e perfezionò questa dottrina e pratica della
penitenza. Essa si rende più necessaria a causa della rapida crescita della Chiesa e il conseguente
abbassamento del livello di moralità. La penitenza, nel suo esercizio e nelle sue esigenze, è regolata con i
canoni disciplinari dei numerosi concili, decreti papali e istruzioni dei diversi vescovi.
Sant’Agostino, Sant’Ambrogio e San Paciano di Barcellona sottolineano fortemente la necessità e il
valore della penitenza con l'intervento della Chiesa, per perdonare i peccati gravi. Ciò va contro i novaziani,
che si opponevano alla riconciliazione degli apostati pentiti con la Chiesa. Nel secolo VI troviamo i sermoni
di S. Cesareo di Arles, che ci presentano la penitenza antica in un momento avanzato della sua storia.
A partire dal secolo VII la penitenza pubblica comincia scomparire per lasciare il posto all’altro tipo
di penitenza che sarebbe all'origine della nostra pratica attuale.
3. Il catalogo dei peccati gravi
La penitenza ecclesiastica è costituita per il perdono dei peccati gravi. Ma il problema sta nello
stabilire una lista di tali peccati gravi. L’elenco dei peccati gravi varia secondo gli autori, ma è costante la
triade: 1) idolatria-apostasia; 2) adulterio-fornicazione; 3) omicidio.
San Cipriano considera peccato grave non soltanto l’idolatria, la fornicazione e l'omicidio, ma anche
la rapina, la frode, l’odio accompagnato dall'ira e dalla maledizione, il giuramento falso, ecc...
Origene considera peccati gravi quelli che San Paolo enumera in 1Cor 5,11 (cfr. 6,9-10).
29 Ma posteriormente entra nella setta rigorosa del montanismo, e nel De Pudicitia (ormai eretico) afferma che ci sono peccati che
non si possono perdonare neanche facendo penitenza per tutta la vita.
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Sant’Agostino nel suo commento al salmo 56 ci dà un ampio elenco: idolatria, astrologia, magia,
eresia, scisma, ubriachezza...
San Cesareo di Arles parla di “peccati capitali” e ne offre un ampio elenco30.
Ciò che i Padri intendono per “peccati gravi” non coincide esattamente con i nostri “peccati mortali”
giacché è logico che la coscienza morale si sia affinata a poco a poco nella Chiesa (alcuni “peccati lievi” per
i Padri, sono mortali per noi).
30 Si riferisce ai peccati gravi. Non sono i nostri “peccati capitali” attuali nel senso di disposizioni dell'anima. Il primo a parlare dei
peccati capitali nel senso attuale fu Evagrio Pontico († 400), con la sua dottrina sugli “otto spiriti malvagi” che poi diventarono sette,
per l’inclusione della vanagloria nella superbia.
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2. Il perdono dei peccati gravi durante i primi tre secoli
1. Si perdonavano tutti i peccati gravi durante i primi tre secoli?
a. Il problema: una teoria artificiosa
Secondo una teoria del secolo XIX e inizio del XX, la pratica della Chiesa antica sarebbe stata
regolata dall'idea secondo cui la Chiesa è una società di santi, composta da membri senza peccato, perfetti. Il
Battesimo sarebbe stato considerato come l’unico rito della remissione dei peccati, l’unica penitenza
mediante la quale si entra in questa comunità di santi. Non esisterebbe penitenza posbattesimale, almeno non
per i peccati gravi. Questo atteggiamento della prima Chiesa si sarebbe dimostrato in poco tempo
impraticabile, a causa dell'aumento numerico dei cristiani.
Così, verso la metà del secolo II, soprattutto per influenza del "Pastore" di Erma, si sarebbe istituita
una penitenza ecclesiale temporale, per i peccati gravi. Quando la compiva, il penitente riceveva il perdono
della Chiesa. Tuttavia, se avesse commesso uno dei tre peccati più gravi (adulterio, apostasia, omicidio), non
avrebbe potuto ricevere il perdono della Chiesa; sarebbe stato sottomesso alla “penitenza perpetua” e
raccomandato alla misericordia divina. Nel secolo III si sarebbe cominciato a perdonare i peccati di adulterio
e apostasia e nel secolo IV il peccato di omicidio. La storia penitenziale dei primi secoli non sarebbe altro
che la storia di un rilassamento progressivo e a tappe del rigorismo antico.
Ma questa teoria è artificiosa e tendenziosa ed è stata rifiutata da autori più recenti. Conviene
tuttavia studiarla, per conoscere meglio i dati della Tradizione.
b. La risposta: Sin dall’inizio esisteva la penitenza ecclesiale e si applicava a tutti i peccati
Esamineremo le difficoltà poste dai difensori della teoria e dimostreremo che la penitenza ecclesiale
esisteva sin dall’inizio, procedente dall’insegnamento di Cristo e dalla pratica degli apostoli. I testi in cui
certi autori antichi sembrano opporsi al perdono di alcuni peccati, vedremo che, secondo i casi:
o si tratta di una opposizione a un perdono troppo facile, ma non al perdono come tale,
o sono scritti di autori che avevano abbracciato l’eresia, e pertanto non rappresentavano la tradizione della
Chiesa.
2. Erma e suo preteso "giubileo"
Il Pastore di Erma è un’opera di genere apocalittico scritta verso il 140 d.C. Godeva di grande
autorità nella Chiesa durante i secoli II e III. Il suo oggetto è la riforma morale della Chiesa. La sua finalità è
quella di dare la speranza del perdono ai cristiani in peccato grave. E’ necessario, se si è peccato, reintegrarsi
nella Chiesa per mezzo di una penitenza soggettiva e personale. Non si allude alla forma rituale, esterna, di
questa penitenza, tuttavia si presenta con un chiaro carattere ecclesiale: rientrare in una torre che simboleggia
la Chiesa. Come potrebbe farsi questo senza esprimere la reintegrazione in modo visibile? Ciò implicherebbe
l'intervento dei capi della comunità, benché nel testo non sia detto. Questa penitenza è un sigillo nuovo che
l’angelo della penitenza (il "Pastore") imprime sul penitente. Ma questo insegnamento sulla penitenza è
espressione dell’usanza tradizionale della Chiesa o si presenta come una novità assoluta?31
Alcuni storici, secondo la teoria esposta all’inizio, danno questa interpretazione: fino allora non
esisteva l’abitudine nella Chiesa di Roma di concedere la penitenza e il perdono dei peccati gravi commessi
dopo il battesimo. Erma, per bocca del "Pastore", è il primo che promette la remissione di questi peccati, ma
lo fa in forma timida e mitigata. Promette una penitenza solo per quel momento, ma non per il futuro; in altre
parole, propone una sorta di “giubileo” che dura un certo tempo e non viene rinnovato.
31 La parte del testo di Erma che è stata oggetto di diverse interpretazioni è il Mandatum IV, 3, 1-7.
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Questa tesi è molto lontana dall'essere convincente. La penitenza annunciata non è “a data fissa”, ma
il tempo del suo conferimento giunge al termine proprio a causa dell'arrivo della Parusia (si parla di un
ritardo nella costruzione della torre, che è la Chiesa) e quindi, dura quanto durerà la Chiesa. D’altra parte,
non possiamo affermare che prima la Chiesa non avesse l'abitudine di concedere il perdono a chi peccava
gravemente dopo il battesimo, se teniamo presenti tre cose:
- Gli elementi di dottrina che si comunicavano ai catecumeni e ai neofiti erano indirizzati a inculcare
in loro il carattere sacro dell'impegno battesimale. Non si parlava di altro tipo di perdono per far loro
valutare il battesimo e la necessità di non tornare a peccare mai più. Il “Pastore” invece, insegna ciò
che deve sapere un cristiano più progredito.
- La opposizione, classica nei Padri, tra "metanoia" e "aphesis"32. La prima designa la penitenza post-
battesimale, riparatrice e onerosa (con sforzo da parte del peccatore). La seconda, al contrario, indica
il condono "gratuito" dei peccati che si ha nel battesimo. Dopo il battesimo non sarebbe possibile
altra "aphesis", ma sarebbe possibile una "metanoia", ed è questo che il "Pastore" vuole far
intendere.
- La legge in vigore nella Chiesa antica di non reiterare la penitenza ecclesiastica. Questo si faceva
non perché la Chiesa non pensasse di avere il potere di offrire più penitenze, ma perché si pensava
che questo cadere continuo mostrasse che il peccatore non aveva le disposizioni richieste per essere
un uomo veramente penitente. Per questo il "Pastore" afferma che il peccatore dispone di una sola
opportunità di fare penitenza.
Alcuni autori pensano che “Il Pastore” fosse uno scritto persino rigorista, perché forse prima si
concedeva la penitenza più di una volta, e a causa della diffusione di quest’opera, cominciò l’usanza
di darla soltanto una volta.
3. Il perdono del peccato di adulterio e fornicazione
Non è provato che la Chiesa durante i primi due secoli negasse normalmente il perdono per i peccati
gravi, ma che dire del caso dei tre più gravi (adulterio/fornicazione, apostasia, omicidio)?
Quelli che affermano che prima del secolo III la Chiesa non perdonasse il peccato di adulterio, si
fondano su due autori ecclesiastici, le cui testimonianze passiamo a esaminare:
- Tertulliano: giurista cattolico, imprime un cambiamento forte nella sua dottrina. Nel De Penitentia
(200-206 d.C.) la sua dottrina è cattolica. Nel De Pudicitia (220 d.C.) risente già dell'influsso dell'eresia
montanista (setta apparsa alla fine del secolo II), e cade in un rigorismo esagerato. Distingue due grandi
categorie di peccati: quelli remissibili, che possono essere perdonati dal vescovo dopo che si è fatta la
penitenza (p. es. l'assistenza a spettacoli indecenti o crudeli), e quelli irremissibili, che non possono essere
perdonati neppure dalla Chiesa gerarchica dei vescovi, ma soltanto, e senza totale certezza, dalla
misericordia di Dio (p. es. idolatria, frode, omicidio, apostasia, bestemmia e ogni peccato carnale).
Rimprovera a un vescovo, che non nomina, di perdonare i peccati di adulterio e fornicazione. Ma egli stesso
riconosce di essersi separato dalla dottrina cattolica, che considera poco spirituale.
- S. Ippolito Romano, martire verso il 235, fu un accanito avversario del Papa S. Callisto (217-22).
Nella sua opera Confutazione di tutte le eresie, accusa Callisto di eresia e di rilassamento disciplinare, per
avere accettato come diaconi, sacerdoti e vescovi persone sposate in seconde nozze dopo la vedovanza, avere
tollerato il matrimonio dei membri del clero, e avere permesso alle donne dell’aristocrazia di sposarsi, in
segreto, con uomini di condizione servile o inferiore, il che, secondo lui, le porterebbe ad abortire. (È da
notare che in quel tempo non c'era ancora la legge del celibato per il clero, e i matrimoni tra gente di diversa
condizione, sebbene proibiti dalla legge civili, non lo erano da quella ecclesiastica). Ma l'accusa più grave
che gli fa è di “essere il primo che immaginò di permettere agli uomini i loro piaceri, dicendo che egli
32 Si noti che questa opposizione non si deduce direttamente dall'uso di questi termini nel N.T.
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perdonava tutti i loro peccati”. Ma andiamo a vedere in che cosa consiste questo perdono che offre Callisto,
secondo la testimonianza dello stesso Ippolito:
- Il perdono del quale parla Ippolito si riferisce ai cristiani che tornavano alla Chiesa dopo essere
appartenuti alle sette. Callisto li riceveva con benevolenza, senza chiedere loro conto della loro condotta
precedente. Così incoraggiava gli altri a tornare alla Chiesa.
- Non prendeva in considerazione le sanzioni di cui potevano essere stati oggetto nelle sette da cui
provenivano, e pertanto non prendeva in considerazione le mancanze che avevano provocato le sanzioni in
questione. La riammissione alla comunione con la vera Chiesa era per lui il segno della remissione dei
peccati anteriormente commessi da quelli che tornavano con buone disposizioni.
(S. Cipriano di Cartagine, nella sua lotta contro lo scisma, procederà, trenta anni più tardi, in modo
analogo.)
Per quanto riguarda lo stesso Ippolito, possiamo dire che non risulta molto chiaro il suo rigorismo,
poiché in un'opera a lui attribuita, la Tradizione apostolica, troviamo la seguente preghiera per consacrare un
vescovo: "Concedigli, Padre, tu che conosci i cuori... il potere di perdonare i peccati secondo il tuo incarico...
e di sciogliere ogni laccio in virtù del potere che tu hai dato ai tuoi apostoli". È la prima volta che
incontriamo in un testo della Chiesa antica, uniti e messi in parallelo, in un modo così chiaro, il potere di
perdonare i peccati (Gv 20,23) e quello di sciogliere (Mt 18,18).
4. Il perdono del peccato di apostasia
Il problema del perdono del peccato di apostasia non si propose nella Chiesa in una maniera
particolare fino al tempo della persecuzione di Decio (250), il quale imponeva ai cristiani di rinnegare la loro
fede offrendo un sacrificio agli dei. Molti furono i martiri e i confessori della fede, ma molti altri
effettivamente apostatarono33. Venivano chiamati “lapsi” (caduti). Finita la persecuzione, la maggior parte di
loro chiesero di essere riammessi nella Chiesa.
a. San Cipriano e i “lapsi”
Fu soprattutto in Africa che infuriò la persecuzione. San Cipriano, vescovo di Cartagine, riprende
alcuni sacerdoti che riammettono i “lapsi” nella comunione, “senza penitenza previa, confessione e
imposizione delle mani da parte del vescovo e del clero”. Nega anche il potere di riconciliare i “lapsi” a
quelli che avendo sofferto il martirio, sono sopravvissuti (i "confessores"34). Ma i “lapsi” premevano per
essere reintegrati. Sarà il concilio di Cartagine (251) a dichiarare il comportamento da seguire: i “lapsi”
chiamati "libellatici" - che non avevano offerto sacrifici agli dei, perché si erano procurati un documento
("libellus") di sacrificio - sarebbero stati riconciliati immediatamente; i lapsi chiamati “sacrificati” - perché
avevano offerto sacrifici - erano riconciliati solo al momento della morte. Ma nei due casi era necessaria la
penitenza per ottenere il perdono. All'annunzio di una nuova persecuzione, si riunì di nuovo il concilio e
decise di dare la pace ai "lapsi" che non erano ancora riconciliati e non avevano smesso di fare penitenza. Lo
stesso Cipriano morì come martire nell’anno 258 sotto l’imperatore Valerio.
b. Lo scisma di Novaziano
Anche i sacerdoti e diaconi del clero romano, privati del loro Vescovo (il papa Fabiano era stato
martirizzato nel 250 d. C.), regolano la questione dei “lapsi” nello stesso modo di San Cipriano: non molto
duri, ma nemmeno troppo facili a riammetterli. Novaziano, uomo ambizioso, che era uno dei sacerdoti più
importanti della Chiesa romana, si irritò per l'elezione del Papa Cornelio, e operò uno scisma. Per opporsi al
nuovo papa, che era indulgente con i “lapsi”, cambiò totalmente atteggiamento e si convertì a un rigorismo
33 La persecuzione arrivò dopo un tempo di relativa calma e colse molti non bene preparati. 34 Chiamati così per avere "confessato" la loro fede. Non si tratta dell'uso attuale del termine "confessore".
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intransigente: affermava che non si deve concedere il perdono ai “lapsi” neppure al momento della morte.
Con un inganno si fece consacrare vescovo. Fu condannato in un concilio tenutosi a Roma nel 251. La setta
dei novaziani durò fino al secolo VII. Sostenevano che la Chiesa non potesse perdonare il peccato di
apostasia e subito dopo negarono anche il potere di perdonare tutti i peccati gravi commessi dopo il
battesimo.
Questa convinzione così chiara nella Chiesa di poter perdonare i “lapsi” non poteva sorgere da un
momento all’altro. Né i “lapsi” avrebbero spinto così tanto per ottenere il perdono né i presbiteri e i
“confessori” glielo avrebbero dato con tanta facilità. Questo si spiega solo se già prima la Chiesa avesse
offerto questo perdono. I vescovi cattolici si distinguevano proprio perché affermavano ciò che era
patrimonio della Tradizione, di fronte a tutte l'eresie.
5. Il perdono del peccato di omicidio
Durante i tre primi secoli non sappiamo niente della sorte dei peccatori colpevoli di omicidio.
All'inizio del secolo IV, il concilio di Ancira (314) prescrive penitenze di diversa durata per gli omicidi di
diversa gravità, ma questo non vuole dire che precedentemente la Chiesa non concedesse questo perdono. Ci
è attestato da alcuni scritti che ad Alessandria, al tempo di Clemente (fine del secolo II) il peccato di
omicidio non era escluso dalla penitenza e dalla riconciliazione. E che questa pratica fosse già considerata
molto antica e persino d'origine apostolica, ce lo prova una leggenda narrata dallo stesso san Clemente, di un
capitano assassino pentito, che venne perdonato e “reintegrato nella Chiesa” dall’apostolo San Giovanni
(Quis dives salvetur, 42).
6. Conclusione
Esistono dati sufficienti per affermare che la penitenza post-battesimale con mediazione
ecclesiale, che culminava nel perdono concesso dai successori degli apostoli per il potere ricevuto
da Cristo, esisteva sin dall'inizio della Chiesa e proviene dalla tradizione apostolica e, in ultima
analisi, da Cristo. Non è d'istituzione ecclesiale. E sin dall'inizio era aperta a tutti i peccati.
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3. La penitenza canonica dal secolo IV al secolo VI
La penitenza ecclesiastica nella Chiesa antica è una istituzione allo stesso tempo liturgica,
pastorale e giuridica. Liturgica perché implica un certo numero di riti celebrati dal vescovo
all'interno della comunità. Pastorale perché impone esercizi realizzati sotto la guida del vescovo.
Giuridica perché assegna al penitente uno stato particolare nella Chiesa. Questa penitenza si
chiamava pubblica, perché si sviluppava alla presenza di tutto il popolo cristiano riunito. Gli
antichi la chiamavano canonica perché era regolata da leggi conciliari e da consuetudini con valore
di legge. La analizziamo nella sua forma più sviluppata a partire dal secolo IV.
1. Descrizione della penitenza canonica
La disciplina penitenziale presenta diverse sfumature a seconda del luogo dove viene celebrata.
Tuttavia, tanto in Oriente che in Occidente ha note comuni. Si possono analizzare in tre momenti diversi:
a. L’ammissione del peccatore alla penitenza
Normalmente si chiede la penitenza al vescovo, dopo avergli aperto la coscienza, e si riceve da lui,
perché a lui spetta darla. Può anche accadere il contrario: il vescovo, conoscendo il peccato di un cristiano,
gli impone lui stesso la penitenza. Questo designano le locuzioni latine: “paenitentiam petere, accipere,
dare...”.
Il peccatore fa al vescovo una confessione spontanea, in segreto, quando i peccati non sono
conosciuti in pubblico. Non c’è da confondere penitenza pubblica e confessione pubblica: quest'ultima era
molto rara, e il papa san Leone Magno condanna come “iniqua e contraria alla regola apostolica” la pratica,
esistente in alcuni posti, di leggere in pubblico l’elenco dei peccati di ogni penitente (DS 323). I peccati
oggetto della penitenza pubblica sono quelli gravi, siano pubblici o segreti35.
Una volta ricevuta la penitenza, il peccatore sulla via della riconciliazione si chiama “penitente” e
appartiene all’ordine dei penitenti (“ordo paenitentium”). Così, nella Chiesa antica abbiamo tre tipi di
cristiani: i catecumeni, i penitenti e i fedeli in pieno esercizio.
I penitenti occupavano un posto speciale nell’assemblea e non godevano di tutti i diritti dei
battezzati: non potevano partecipare all’oblazione né comunicarsi (è in un certo senso una scomunica, da non
confondersi però con l'attuale pena canonica di "scomunica", che è meramente legale).
La penitenza si concede al peccatore che ha dato prova di conversione e vuole riconciliarsi con Dio
per mezzo della Chiesa. Il peccatore veniva incorporato al gruppo dei penitenti per mezzo di un rito liturgico:
l'imposizione delle mani. Tuttavia, nei casi particolari, il vescovo poteva dare la penitenza in segreto e
bastava al penitente astenersi dal fare la comunione, senza rendere pubblico il suo stato, per ottenere i
medesimi effetti.
b. Il compimento della penitenza
Si dice “agere paenitentiam”. Il peccatore, ormai nell’ordine dei penitenti e per il tempo in cui vi
rimane, deve dedicarsi alle diverse opere espiatorie come preghiere in ginocchio, digiuni frequenti e
prolungati, elemosine, uso del cilicio, taglio dei capelli... I penitenti si dovevano ritirare dalla vita pubblica,
non potevano sposarsi né cercare cariche o dignità secolari. Se già erano sposati non potevano avere relazioni
matrimoniali. Dovevano occupare un posto a parte nel luogo di culto.
35 Nel Medioevo, come vedremo, c'era pure una penitenza pubblica, ma riservata ai peccati pubblici.
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In oriente troviamo diverse classi di penitenti:
- “flentes” (quelli che piangono): non entrano nella chiesa, si fermano nell'atrio.
- “audientes” (ascoltatori): si fermano nel "narthex" (l’ingresso) e solo durante la lettura e l'omelia.
- “substrati”: possono entrare nella chiesa, nel luogo dove si celebra l’Eucaristia, ma in ginocchio o prostrati.
- “stantes”: rimangono in piedi durante la celebrazione e non possono accostarsi alla comunione.
Sembra che all'inizio fosse obbligatorio percorrere tutte queste stazioni penitenziali, sebbene il
penitente poteva essere esentato da alcune. Questa pratica, del resto, sembra che fosse propria ed esclusiva
dell'Asia Minore.
c. La riconciliazione dei penitenti
Finito il tempo della penitenza, si concede al penitente il “sacramentum reconciliationis”36, altrimenti
detto “dare la pace” (“dare pacem”), “restituire la comunione” (“reddere comunionem”), “ricevere di nuovo
nella Chiesa” ("recipere in Ecclesiam"). Era una cerimonia pubblica davanti all'altare.
A Roma un arcidiacono fa la “postulazione” davanti al Papa, nella quale gli esprime il pentimento
dei penitenti e gli chiede di concedere loro la riconciliazione. Un sacerdote o il postulatore stesso esorta i
penitenti a mantenersi liberi dal peccato. In seguito, si faceva la riconciliazione. Il rito consisteva
nell'imposizione delle mani, accompagnata da una preghiera del vescovo in cui s'implorava il perdono.
Di solito in occidente si faceva una volta all’anno nelle vicinanze della Pasqua. A Roma pare che
fosse fissato al Giovedì Santo. Altrove, il Venerdì Santo (in Spagna all’ora nona). In caso di pericolo di
morte, si poteva fare in qualsiasi momento.
Per mezzo della riconciliazione si reintegrava il penitente nella comunità, col diritto a partecipare
all’Eucaristia. Cioè, veniva tolta la scomunica.
2. Caratteristiche della penitenza canonica
a. Durata
Il vescovo decide la durata e la modalità della penitenza (ha il “judicium culpae”, secondo un decreto
del Papa Gelasio). È giudice e medico spirituale. C’è proporzione tra la gravità e la penitenza, ma non
importa tanto la durata temporale quanto l'intensità del pentimento (così pensano Sant’Agostino, san Leone
Magno...). La durata non si fissa in modo immutabile. Il vescovo controlla la durata, ordina l’interruzione
della penitenza se lo considera necessario, ecc...
Nonostante questo, ci sono norme canoniche e abitudini diverse in ogni Chiesa. La durata si conta in
anni. La Lettera Canonica III di san Basilio prevede 1 o 2 anni per la rapina, 7 per la fornicazione, 10 per
l’assassinio non premeditato e per lo spergiuro, 15 per adulterio, 20 per assassinio premeditato. Così varia a
seconda dei concili e delle epoche. Non si esclude la penitenza perpetua, che dura tutta la vita (così decreta il
Concilio di Ancira [a. 314] per l’omicidio volontario e premeditato). In questo caso, il penitente può soltanto
essere riconciliato in punto di morte.
La durata della penitenza tende progressivamente ad accorciarsi. A Roma, dal secolo VI, si limita
alla quaresima. Il sacramentario Gelasiano (s. VII), parla di ammissione alla penitenza la mattina del
mercoledì delle ceneri. La penitenza canonica, come il catecumenato, è una istituzione più antica della
quaresima, e a questa venne associata fin dall’inizio.
b. Carattere ecclesiale
36 Secondo il Sacramentario Gelasiano, che raccoglie consuetudini liturgiche romane dei secoli VI-VII.
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Tutta la comunità prega per il penitente e lo sostiene. È un aspetto molto sottolineato dai Padri.
Tertulliano dice: “La Chiesa è Cristo... quando i tuoi fratelli versano lacrime per te, è Cristo che soffre, è
Cristo che supplica il Padre, e ciò che un Figlio chiede, è prontamente concesso” (De paenitentia, X, 5-7). Se
la penitenza era pubblica, non era per umiliare il peccatore, ma per assicurargli l’aiuto della comunità, che
intercedeva per lui davanti a Dio. Per questo è detta penitenza ecclesiale, comunitaria. I fedeli esortano i
peccatori, li correggono e informano il vescovo.
c. Conseguenze (o sequele)
In Occidente il riconciliato e perdonato non recupera mai la sua integrità e i suoi diritti di battezzato
in modo completo. Lo stato penitenziale lascia traccia in lui. Per questo non può essere ammesso agli ordini
sacri. Non può contrarre matrimonio né usarne se già è sposato. Non può immischiarsi in faccende secolari,
esercitare commercio, cariche pubbliche, professione militare... È obbligato a condurre una vita quasi
monastica nel mondo. Alcuni danno molta importanza a queste disposizioni, come papa Siricio, che arriva a
imporre l’esclusione dalla comunità per quelli che non le osservano fino al momento della morte. Altri,
invece, le mitigano; così papa san Leone Magno dispensa i penitenti giovani dalla proibizione di usare il
matrimonio.
In Oriente non esistono testimoni di disciplina post-penitenziale.
d. Unicità
La stessa persona non può essere ammessa a fare penitenza pubblica ed essere riconciliata più di una
volta nella vita. I Padri si fondavano sulla testimonianza del Pastore di Erma, benché in questa opera
l’irripetibilità della penitenza pare essere una disposizione più di tipo psicologico-morale. In ogni caso, si
prende come principio intangibile; così in Clemente di Alessandria, Tertulliano, Origene. Sant’Ambrogio
dice che come c’è un solo battesimo, c’è una sola penitenza. Sant’Agostino giustifica questa pratica dicendo
che è conveniente affinché il rimedio al male non perda forza a causa della troppa frequenza. Ma lascia la
porta aperta alla penitenza privata con intenso pentimento, mortificazione, buone opere. Non si sa se la
Chiesa portava il viatico ai peccatori che cadevano di nuovo.
3. Fatti paralleli alla penitenza canonica
a. Moribondi
Nel secolo III si nega la riconciliazione e la comunione a quelli che aspettano fino alla fine per
confessarsi; così san Cipriano. Ma il concilio di Nicea proibisce questa maniera di procedere: d’ora in poi si
concede sempre la riconciliazione al moribondo, ma se poi guarisce dovrà fare la penitenza. E’ il primo
indizio che la riconciliazione si può ricevere prima di compiere la penitenza.
b. Chierici
Nel secolo III erano degradati allo stato laicale e in seguito ammessi alla penitenza canonica. Nel
secolo IV vengono esclusi della penitenza canonica, degradati e affidati alla misericordia di Dio, dovendo
fare penitenza privata. La comunione è loro concessa soltanto alla fine della vita: dopo una lunga penitenza
privata è loro permesso di fare la comunione con i laici. È da notare il fatto che non si parla di riconciliazione
liturgica con preghiere o imposizione delle mani. Sembra che la comunione offerta al peccatore che ha fatto
penitenza sotto il controllo della Chiesa equivalesse a una forma di assoluzione. In ogni caso, è palese che
occorreva sempre la volontà espressa della Chiesa.
c. Monaci e “conversi”:
Certi peccatori sceglievano una vita simile ai monaci: vestivano l'abito come quello dei monaci,
preso dalle mani del vescovo, e pur rimanendo con la famiglia per compiere i propri doveri, facevano una
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vita di mortificazione e di penitenza; erano chiamati “conversi”. Dal momento in cui entravano in questo
stile di vita potevano accedere alla comunione.
Anche l’entrata in un monastero sostituiva la penitenza canonica e serviva da riconciliazione. Per gli
antichi, la professione religiosa era come un secondo battesimo, che cancellava tutti i peccati. Si deve
sottolineare in tutti questi casi l’intervento della Chiesa per mezzo del vescovo.
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4. La sacramentalità dell’antica penitenza della Chiesa
Introduzione
Ci domandiamo se la penitenza antica analizzata fino adesso fosse veramente un sacramento.
Alcuni hanno affermato che non lo era (p.es. autori del protestantesimo liberale della fine del secolo
XIX e inizio del XX). Dicevano che la Chiesa si limitava a riconciliare i peccatori con se stessa, a livello di
foro esterno, cioè, in quanto alla disciplina ecclesiastica. Secondo questa interpretazione la Chiesa
sosterrebbe che il peccatore può essere perdonato solo direttamente da Dio. L’idea che la Chiesa possegga il
potere di perdonare il peccato stesso, sarebbe risultato di una lunga evoluzione dottrinale motivata dalla
diffusione della confessione privata nel tardo Medio Evo (sec. XIII). Tuttavia un attento esame delle
testimonianze ci porta ad affermare il contrario:
La penitenza canonica era considerata un vero sacramento, cioè segno e strumento della
riconciliazione con Dio, e non soltanto un mero riconoscimento pubblico di essa.
1. Affermazioni dei Padri
Non possedevano una teoria teologica sistematica sul sacramento. Questa sarà prodotta dalla
scolastica. La penitenza è chiamata sacramento in senso ampio: segno sacro, come manifestazione di un
mistero. Tuttavia la natura sacra della penitenza è esposta in due affermazioni dei Padri:
a. Paragonano la penitenza ecclesiale col battesimo.
L’effetto è lo stesso: perdono dei peccati e salvezza dell’uomo. Tertulliano (De Paenitentia)
distingueva una penitenza che precede il battesimo (prima) e un'altra che si fa dopo il battesimo (secunda).
Questa è paragonata al battesimo quanto a finalità ed effetti. Usa questa immagine: sono i due legni
galleggianti per la salvezza dell’uomo dal naufragio che è il peccato: la penitenza sarebbe la seconda tavola
di salvezza. Sant’Ambrogio ai novaziani dice che così come il sacerdote amministra il perdono per mezzo
del battesimo così lo stesso ministro può perdonare attraverso la penitenza. Troviamo questo anche in San
Girolamo, Sant’Agostino...
b.Dicono che lo Spirito Santo ricevuto nel battesimo e perso per il peccato si ricupera per mezzo della
penitenza.
San Cipriano lo afferma riguardo ai lapsi, concedendo loro la riconciliazione quando avvenne una
nuova persecuzione, perché non vede “come potrebbe trovarsi (il “lapsus”) disposto e adatto per la
confessione della sua fede se anticipatamente, dopo aver ricevuto la pace della Chiesa, non ha ricuperato lo
Spirito del Padre” (Epist. 57, 4, 2). La Didascalia dei dodici apostoli (una sorta di “manuale” per i vescovi,
sec. III) dice che chi pecca dopo il battesimo, deve essere ricevuto alla preghiera una volta riconciliato per
mezzo dell'imposizione delle mani — anziché battezzato di nuovo — affinché riceva lo Spirito Santo. San
Girolamo descrive come il vescovo, nella riconciliazione, nell'atto d'imporre le mani, invoca sul peccatore il
ritorno dello Spirito Santo. La presenza dello Spirito Santo nell’anima è quello che oggi chiamiamo grazia
santificante; per questo possiamo concludere che, nella mente dei Padri, la penitenza era considerata un vero
sacramento.
E’ certo che alcuni Padri insistono molto sulla penitenza soggettiva (dolore per i peccati, pentimento,
proposito di non peccare più) come elemento essenziale per il perdono. Ma si specifica chiaramente che lo
Spirito Santo si riceve soltanto per mezzo della Chiesa e con l'intervento esclusivo di essa.
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c. Alcune difficoltà
Nella dottrina di alcuni Padri della Chiesa possiamo avvertire l’affermazione di una dicotomia tra la
remissione del peccato e la infusione della grazia (quando in realtà, il perdono viene prodotto dalla stessa
infusione della grazia). Attribuirono il perdono del peccato alla penitenza soggettiva, e l’infusione dello
Spirito alla riconciliazione con la Chiesa, mediante la preghiera del vescovo (così san Cipriano e Origene nel
secolo III).
Innanzitutto, si deve considerare che si tratta di una teologia ancora in evoluzione. Comunque sia,
ciò non ha rilevanza per la nostra affermazione, cioè, che consideravano la riconciliazione con la Chiesa
come sacramento, poiché affermano che dà lo Spirito Santo.
Inoltre, la penitenza soggettiva non si realizzava su un piano soggettivamente privato, veniva chiesta
alla Chiesa, e data, seguita e aiutata da essa. Pur avendo un componente interno indispensabile, si realizzava
sempre in ambito ecclesiale.
2. L’oggetto primo e immediato della riconciliazione del penitente
Gli autori cattolici riconoscono all’antica penitenza canonica, con il suo rito d’imposizione delle
mani ed invocazione dello Spirito Santo, un vero valore sacramentale. Ma sono discordi su un punto.
a. Riconciliazione, prima con Dio o con la Chiesa?
La riconciliazione che dava il vescovo pare che avesse un doppio obiettivo: riconciliare il peccatore
con la Chiesa e restituirgli lo Spirito Santo. Pertanto, avviene una doppia riconciliazione, con Dio e con la
Chiesa. Ma quale era il nesso tra queste due riconciliazioni?
- Alcuni teologi pensano che la Chiesa antica credesse che la riconciliazione prodotta dall’imposizione
delle mani fosse prima di tutto con Dio e una volta riconciliato con Dio il penitente era ammesso alla
comunione. Per così dire, la riconciliazione con la Chiesa era una conseguenza della riconciliazione con Dio.
- Altri, invece, pensano che si credesse che l’uomo fosse riconciliato con Dio perché prima si era
riconciliato con la Chiesa. Ma si era convinti che la riconciliazione con Dio non era semplicemente
consecutiva alla riconciliazione con la Chiesa, ma anche un effetto infallibile, atteso e richiesto dalla stessa
riconciliazione. La riconciliazione con la Chiesa, attira, esige e porta con sé la riconciliazione con Dio.
Non risulta facile, dal punto di vista storico, risolvere la questione, perché il pensiero dei Padri è
lontano dal raggiungere la precisione tecnica che desidereremmo. Comunque, secondo Adnès la seconda
spiegazione risponde meglio all’idea che essi si facevano del ruolo della Chiesa nella salvezza.
Sant’Agostino chiarisce nella sua dottrina della giustificazione che il perdono dei peccati è prodotto
dall’infusione dello Spirito Santo, il quale ci purifica e stabilisce in noi la sua dimora. Negli eretici non c’è lo
Spirito Santo. Per questo il perdono si concede soltanto nella Chiesa una, la quale possiede lo Spirito Santo.
La carità, che per lo Spirito Santo è infusa nei nostri cuori (cfr. Rom 5,5), perdona i peccati di coloro che
appartengono alla comunità ecclesiale (cfr. Sermo 71; PL 38,436ss).
Il Catechismo della Chiesa Cattolica, tuttavia, presenta la reintegrazione nella Chiesa come effetto
del perdono dei peccati, come si vede nei nn. 1443 e 1469, in questo ultimo, inoltre, cita Giovanni Paolo II,
che nell'esortazione apostolica Reconciliatio et paenitentia, al n. 31, considera la riconciliazione con la
Chiesa come conseguenza della riconciliazione con Dio.
Penitenza e Unzione degli Infermi 2012-2013 - 56
b. Il ruolo della penitenza soggettiva
Un problema legato a questo è la relazione tra gli atti di penitenza soggettiva del penitente (la
contrizione) e la riconciliazione con la Chiesa. Alcuni pensano che, secondo i Padri, la riconciliazione con la
Chiesa esiga immediatamente la riconciliazione con Dio, e la penitenza soggettiva sia una condizione “sine
qua non” perché questo avvenga (così Xiberta). Altri, invece, pensano che, sempre secondo i Padri, la
contrizione esiga il perdono dei peccati, essendo la riconciliazione con la Chiesa condizione “sine qua non”
per questo perdono (così Poschmann). La questione sull’interpretazione dei Padri è ancora aperta.
Per quanto riguarda il ruolo della penitenza soggettiva, è dottrina comune che si tratta di qualcosa di
più da una condizione: è una componente del sacramento. La problematica intorno a questa sorge nella
scolastica, come vedremo nel capitolo corrispondente. La Scolastica risolverà il rapporto tra penitenza
soggettiva e assoluzione in termini mutuati dall’aristotelismo: gli atti del penitente sono la materia, e
l’assoluzione, la forma del sacramento.
3. C’era nell’antichità cristiana una penitenza privata ecclesiale?
a. Penitenza privata in senso lato
Alcuni autori credono che ci fosse questa penitenza sacramentale privata. Non come la penitenza
privata attuale, ma privata in senso ampio, cioè ogni genere di penitenza, in qualsiasi sua forma, che non
implichi l’inclusione nell’ordine dei penitenti. In questo modo è facile dimostrare che la penitenza privata è
stata usata nella Chiesa da sempre.
A favore di questa tesi si citano diversi autori che dimostrano che si poteva acquistare il perdono
senza passare nell’ordine dei penitenti.
- Origene diceva che i peccati gravi si possono perdonare soltanto una volta e che gli altri peccati
possono essere espiati continuamente, e uno dei mezzi di questo perdono era la confessione privata al
vescovo e la preghiera che lui faceva per il penitente. Ma rimprovera i vescovi che applicano questo metodo
ai peccati gravi.
- Si ricordi, inoltre, che San Cipriano distingueva tra “lapsi” “sacrificati”, che dovevano fare la
“penitenza piena” e “libellatici”, che erano riconciliati immediatamente, previo esame in particolare di ogni
singolo caso. Proponeva anche la riconciliazione immediata delle vergini che avevano mancato alla loro
consacrazione ma senza perdere la verginità fisica.
- Sant’Agostino frappone tra la penitenza pubblica canonica e la penitenza quotidiana, rimedi speciali
che chiama “correzioni”. Questi li stabilisce in modo segreto il vescovo con il peccatore e costituiscono
un'assoluzione di fatto.
- I moribondi che ritardano fino al momento finale la richiesta della penitenza della Chiesa sono
riconciliati in modo immediato.
- I chierici maggiori non sono sottomessi alla penitenza canonica pubblica. Neanche i conversi.
b. Penitenza privata in senso stretto
Altri autori sostengono che la penitenza privata in senso proprio e stretto, cioè, tale come la
conosciamo oggi, non esisteva come mezzo sacramentale. Si usava soltanto la penitenza quotidiana, che non
era sacramento, per i peccati lievi e la penitenza pubblica e canonica per i peccati gravi.
Così rispondono ai testi citati:
- Origene stima molto l’influsso della preghiera della Chiesa, ma non possiamo dire che sia
sacramentale. Non si può provare che gli atti fuori dalla penitenza canonica (come le preghiere dei vescovi o
le correzioni) fossero sacramenti in senso stretto (quelli che agiscono ex opere operato, con effetto di grazia
Penitenza e Unzione degli Infermi 2012-2013 - 57
santificante). Solo la penitenza pubblica per scomunica e riconciliazione ecclesiale è considerata
sacramentale dagli antichi.
Origene, parlando della confessione e penitenza privata col vescovo, probabilmente si riferisce alla confessione
“terapeutica”, equivalente a quella che oggi chiamiamo “direzione spirituale”. Questa poteva realizzarsi con un ministro
ordinato o con una persona spirituale, ma il suo effetto non era sacramentale: la “guarigione” avveniva attraverso gli atti
di virtù consigliati, e per questo non si poteva applicare ai casi gravi. Questa pratica era comune tra monaci e
anacoreti. Come vedremo, in Irlanda verso i secoli VI-VII questa pratica cominciò a includere l’assoluzione
sacramentale data dal direttore spirituale se era sacerdote.
- La riconciliazione delle vergini e quella dei “libellatici”, menzionati da san Cipriano sono forme
abbreviate di penitenza canonica. E la prova è che non sembrano ripetibili.
- Le “correzioni” di Sant’Agostino non si possono chiamare penitenza privata. Si considerano
esortazioni a fare penitenza. Sono aiuti per muovere alla penitenza, la quale sarebbe o per scomunica o per
soddisfazione con opere di penitenza ordinarie.
- Nemmeno il caso dei moribondi è da prendersi in considerazione, perché in caso di guarigione
dovevano fare la penitenza pubblica.
- Alla penitenza dei “conversi” e dei chierici manca il segno esterno richiesto per costituire un
sacramento determinato, il che ci porta a domandarci se gli antichi avevano le idee chiare su quali fossero gli
elementi necessari per produrre una remissione sacramentale dei peccati.
Tutti questi esempi ci fanno vedere che era poco probabile l’esistenza di una penitenza privata
sacramentale tale come si pratica oggi. La penitenza canonica poteva avere diversi gradi di pubblicità
secondo le circostanze.
Si può affermare che le diverse possibilità di abbreviazione (per ragioni di discrezione) o
d'inversione (come per i moribondi) dei riti della penitenza, e l’esistenza di forme singolari di
penitenza (come quella dei chierici e dei conversi), prepararono il terreno ad un altro modo di
pratica penitenziale.
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5. Transizione dalla penitenza pubblica a quella privata
Il termine "penitenza privata" s'intende per il suo aspetto fenomenologico, cioè, in quanto
si fa segretamente tra penitente e confessore senza manifestazione pubblica esteriore. Ma dal punto
di vista teologico è una penitenza pubblica perché chi la amministra è la Chiesa.
1. Cause del cambiamento
a. Inadeguatezza della penitenza canonica
- A causa della durezza della penitenza canonica, molti cristiani, poco ferventi, ritardavano la
confessione fino a poco prima della morte, riducendo così la penitenza a sacramento dei moribondi.
- Inoltre, per timore di ricadere nel peccato, molti catecumeni ritardavano il più possibile il battesimo,
per evitare così di diventare penitenti appena divenuti cristiani.
- A causa delle difficoltà che implicava il sacramento della penitenza, la comunione era rara.
- Persino molti vescovi ritardavano l’imposizione della penitenza, temendo che il penitente ricadesse
nel peccato; a maggior ragione se si tiene conto che certe penitenze dovevano imporsi con il consenso del
coniuge, perché consistevano nella rinuncia all’uso del matrimonio.
b. La confessione monastica
Fin dall’inizio dell’istituzione monastica (il primo riferimento documentato corrisponde alla metà del
secolo IV) esisteva una specie di confessione, che era la direzione spirituale. Certamente non era considerata
un sacramento, ma mezzo di ascesi. San Basilio in Oriente e San Benedetto in Occidente raccomandano
accoratamente questo metodo ai monaci.
2. La penitenza celtica
La Chiesa d’Irlanda era organizzata secondo un regime monacale. Già nel secolo VI si hanno dati
che attestano come la pratica monastica della direzione spirituale, quando il direttore era un sacerdote, fosse
usata come mezzo di remissione dei peccati, non soltanto per i monaci, ma anche per i fedeli. Vediamo le sue
differenze rispetto alla penitenza pubblica:
- Il penitente confessava segretamente i suoi peccati. Il confessore — che poteva essere un sacerdote,
e non soltanto il vescovo — imponeva la penitenza. Una volta compiuta, si tornava dal confessore, il quale
dava l’assoluzione. L’assoluzione si poteva dare prima di compiere la penitenza in caso di pericolo di morte
o se il penitente viveva lontano dal confessore.
- Si usa il termine «assoluzione» invece di «riconciliazione».
- C’erano delle tasse fisse raccolte nei libri chiamati “penitenziali”. Le penitenze consistevano nella
preghiera, elemosina e soprattutto nel digiuno.
- La penitenza è aperta non soltanto ai peccati gravi ma anche ai veniali.
- Questa confessione era reiterabile.
- Sono ammessi ad essa sia i chierici che i laici.
Alla fine del secolo VI, i monaci missionari irlandesi portarono nel continente questo tipo di
confessione, che si diffuse rapidamente.
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3. Diffusione della penitenza segreta e reiterabile
- Il III Concilio di Toledo (589) condannò questo nuovo modo di penitenza.
- Il concilio di Chalons-sur-Marne (650) lo approvò.
- Nei secoli VII e VIII era il modo normale di fare la penitenza.
- Nel secolo IX, durante l'impero di Carlo Magno, si cerca di riportare la penitenza pubblica o
canonica. Alla fine, la penitenza pubblica resta per i peccati gravi e pubblici (si ricordi che prima era per tutti
i peccati gravi, sia pubblici che privati), e la penitenza privata, per il resto dei peccati37.
A poco a poco si introducono modificazioni fino ad arrivare alla forma attuale:
- l’assoluzione si comincia a dare prima del compimento della penitenza;
- spariscono le tasse penitenziali e si attenua la soddisfazione;
- le persone pie prendono l’abitudine di confessarsi spesso;
- ma la maggioranza rimane lontana, e per questo si prescrive la confessione due o tre volte all’anno, e
nonostante questo non tutti la compiono;
- il IV Concilio Lateranense fissa l’obbligo in una volta all’anno; Trento lo conferma.
37 Una forma mitigata di penitenza pubblica nel Medio Evo furono i pellegrinaggi penitenziali: il vescovo o il parroco congedavano
pubblicamente i pellegrini, i quali potevano considerarsi assolti quando arrivavano al santuario che avevano come destinazione. Col
passar del tempo, il pellegrinaggio perse il valore di sacramento, ma rimase come pratica devozionale.
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6. La riflessione scolastica
A metà del secolo XI le opere teologiche includono la penitenza tra i sette sacramenti. Ancora nel
sec. XII alcuni teologi considerano soltanto la penitenza pubblica sacramento e non la penitenza privata. La
scolastica invece non fa differenza tra i due tipi di penitenza e si dedica ad approfondire l’essenza del
sacramento e i suoi contenuti. Il sacramento si chiama di solito «confessione».
L’interesse della riflessione teologica si concentra nel tentativo di armonizzare i diversi elementi
della prassi penitenziale in una sintesi che tiene conto dei recenti sviluppi nella definizione di sacramento.
Interessa soprattutto armonizzare gli elementi di tipo individuale, dei quali il più importante è la contrizione,
con gli elementi di tipo ecclesiale, dei quali il più importante è l’assoluzione.
1. La contrizione: natura ed effetti
Il termine «contrizione» probabilmente fu introdotto nella scolastica da Sant’Anselmo (sec. XI), che
lo poneva in relazione alla frase del salmo 51: “cor contritum” (cuore affranto)38. Ance de il termine si trova
già nella patristica39
Per contrizione, in senso generale, intendiamo dolore o ripulsa dei peccati commessi che
nasce quando, alla luce della fede, il peccatore riconosce la propria malvagità, con la quale ha
offeso Dio; implica:
- l’avversione al peccato e la conversione a Dio;
- il saldo proposito di non peccare più in avvenire.
Nel secolo XIII si cominciò a parlare di “attrizione” o contrizione imperfetta.
Fino al Concilio di Trento la distinzione tra contrizione ed attrizione rimane un po' imprecisa.
Attualmente, il principio di distinzione si trova nelle diverse motivazioni dell'una e dell'altra:
- contrizione (perfetta): un dispiacere per il peccato a motivo dell'amore di carità verso Dio;
- attrizione (contrizione imperfetta): un dispiacere per il peccato causato dalla vergogna o
dalla paura del castigo.
Tuttavia, nella prima scolastica, la distinzione si centrava nell’intensità del dolore: l’attrizione
sarebbe un dolore insufficiente per ottenere il perdono dei peccati. La grande scolastica affermò invece che la
differenza risedeva nel motivo formale della decisione che il soggetto prendeva contro il peccato: la
contrizione è informata dalla virtù infusa della carità, e per questo basta per perdonare il peccato, l’attrizione
è informata soltanto da una grazia preveniente che prepara alla contrizione.
2. Relazione tra contrizione e assoluzione
La riflessione scolastica cercava la conoscenza delle cose per le loro cause, secondo il concetto
aristotelico di scienza. Inevitabilmente ci si poneva la domanda sulla causa del perdono dei peccati nel
sacramento della penitenza. Gli scolastici ammettono che la contrizione perfetta per se stessa ottiene il
perdono di Dio e la riconciliazione con Lui. Cosa fa dunque l’assoluzione data da un confessore?
38 La contrizione fa anche riferimento all’” afflizione secondo Dio” di 2 Cor 7,2-16. Non è la semplice “compunzione”, il dolore
frutto della presa di coscienza del peccato commesso, ma va accompagnata dal rigetto e dalla decisione di non peccare più in
avvenire. 39 Nella Patristica preferivano il termine “compunzione” per designare la penitenza interiore, che faceva riferimento al sentimento di
dolore (cfr. Att 2, 37: “si sentirono trafiggere il cuore”). Ma S. Agostino e S. Gregorio Magno a volte parlano di “contritio”. S.
Isidoro di Siviglia pone la contrizione in rapporto con la compunzione: “Contritio est compunctio et unilitas mentis” (Sent.II, 12).
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a. I primi scolastici
I primi scolastici (sec. XII) insegnano che il penitente non deve accostarsi alla confessione se non è
perfettamente contrito. L’assoluzione non ha che un valore dichiarativo. La contrizione opera
necessariamente la remissione dei peccati. Ma questi avevano in mente la dottrina del Padri della Chiesa, i
quali riflettevano sulla penitenza pubblica, la cui lunga durata aveva come fine il perfezionamento del
pentimento.
L’assoluzione concede un riconoscimento della conversione del penitente e una riammissione
ufficiale nella Chiesa e alla comunione eucaristica. Il sacerdote collaborerebbe inoltre alla remissione della
pena temporale con l’imposizione della soddisfazione. Ma con questa impostazione non è chiaro in che cosa
consista l’efficacia del sacramento. Inoltre, come abbiamo visto, non è chiaro che queste fossero le posizioni
dei Santi Padri.
b. San Tommaso d’Aquino
All’inizio del sec. XIII si pone il problema teorico di colui che si accosta alla confessione credendosi
in buona fede contrito, quando in realtà è solo attrito. La soluzione è che per la forza del sacramento, l’uomo
attrito passa a essere contrito; da qui l’espressione ex attrito fit contritus40. È San Tommaso a spiegare il
ruolo dell’efficacia del sacramento tanto nel caso del penitente che si accosta a riceverlo perfettamente
contrito come di quello che si accosta soltanto attrito41. Consideriamo due casi:
1) Il penitente si reca con un atto di contrizione (perfetta)
Questa contrizione è già effetto del sacramento. Questo agisce, in certo modo, anticipatamente, per
mezzo del desiderio di riceverlo (sacramento “in voto”). In questo desiderio e per esso, il sacramento opera
già il suo effetto, infondendo nell’anima la grazia abituale, che muove il penitente a fare un atto di
contrizione perfetta per mezzo del quale si ottiene la remissione del peccato. Questa contrizione per San
Tommaso è un atto della virtù della penitenza imperata dalla virtù della carità.
2) Il penitente si reca soltanto con un atto di attrizione
In questo caso riceverà la remissione del peccato nello stesso sacramento, (non già “in voto”, ma “in
actu”) che induce nella sua anima il passo, per un nuovo atto della volontà, dall'attrizione alla contrizione.
Cristo, per mezzo della causalità strumentale dell'assoluzione infonde la sua grazia abituale nell’anima del
penitente e lo muove a contrizione42. Nel caso in cui il penitente presenti qualche ostacolo alla grazia, sarà
necessario rimuovere detto ostacolo perché il suo atteggiamento d’attrizione diventi di contrizione e possa
così ricevere la remissione dei peccati; per questo non sempre coincidono cronologicamente assoluzione e
perdono dei peccati. Infatti, è impossibile determinare esattamente il momento del passo dall'attrizione alla
contrizione perfetta43.
c. Scoto e i nominalisti
Il Beato Duns Scoto (inizio del sec. XIV) distingue due vie per la giustificazione del peccatore:
40 Si noti che non è l’attrizione a passare automaticamente a essere contrizione (ex attritio fit contritio) ma è il soggetto, che nel fare
un atto d’amore a Dio mosso dalla grazia, passa d’attrito a contrito (ex attrito fit contritus). 41 Cfr. Summa Theol. III, qq 84ss. 42 San Tommaso definisce la contrizione come "res et sacramentum" del sacramento della penitenza, vale a dire, come una realtà
soprannaturale (si tratta di un atto della virtù della carità), prodotto dal segno sacramentale e che a sua volta, produce la grazia
sacramentale (cfr. Summa Theol. III, q84, a1, ad3). Altri autori, soprattutto nel sec. XX, attribuiranno questo ruolo di "res et
sacramentum" alla riconciliazione con la Chiesa. Torneremo sull'argomento più avanti. Uno studio della questione, con soluzione
favorevole alla posizione tomista si trova in LÓPEZ-GONZÁLEZ, P., Penitencia y reconciliación. Estudio histórico-teológico de la
"res et sacramentum", EUNSA, Pamplona 1990. Si ricordi che il Catechismo della Chiesa Cattolica considera la riconciliazione con
la Chiesa come effetto del perdono dei peccati (nn. 1443 e 1469, quest'ultimo cita la es. ap. Reconciliatio et paenitentia, n. 31). 43 Sebbene il soggetto prima o poi finirà per rendersi conto del suo cambiamento di motivazioni.
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- Extra-sacramentale: più difficile e incerta. Ci vuole la contrizione perfetta, che ottiene da sola la
remissione dei peccati.
- Sacramentale: è più facile e sicura. Non ci vuole altro che l'attrizione. Dalla forza stessa
dell’assoluzione si riceve la remissione dei peccati. Non c’è bisogno del passaggio dall’attrizione alla
contrizione. L’attrizione basta, secondo Scoto, non soltanto per accostarsi al sacramento, come affermava san
Tommaso, ma per essere giustificato nel sacramento, cosa che san Tommaso non ammette.
Ma la teoria di Scoto rischia di far perdere di vista la composizione tra atto del ministro (innecessario
nel primo caso) e atto del soggetto (innecessario nel secondo).
Più tardi alcuni teologi, (Ockam per esempio) portarono all’estremo la teoria di Scoto, arrivando ad
affermare che neppure l’attrizione era necessaria; basta che il penitente abbia la volontà di ricevere
l’assoluzione e che non mantenga alcun attaccamento attuale al peccato. Altri, invece, ritornano al
contrizionismo dei primi scolastici, esigendo che il penitente si accosti alla confessione già perfettamente
contrito e per tanto perdonato.
In queste posizioni manca una conoscenza chiara dell’equilibrio tra i diversi elementi del
sacramento.
3. Costituzione interna del sacramento (materia e forma)
E’ difficile applicare alla confessione la composizione di materia e forma, se consideriamo la
“materia” come qualcosa di fisico-materiale. Risulta più possibile se la intendiamo in senso ilemorfico: la
“materia” è l’elemento determinabile, la “forma” è l’elemento determinante che dà configurazione e senso
alla materia. Nella scolastica c’erano due opinioni:
a. San Tommaso
Applica la composizione materia e forma in modo analogico44. Considera come materia o quasi
materia gli atti del penitente (contrizione, confessione e soddisfazione)45. La contrizione e l’accettazione
della soddisfazione si esprimono per mezzo della confessione. L’assoluzione data dal sacerdote è la forma
che perfeziona la materia. Anche la materia è somministrata da Dio, che agisce interiormente ispirando il
soggetto 46.
b. Beato Scoto
Pensa che l’essenza della penitenza si riduca all’assoluzione che è la forma del sacramento. Non ha
materia propriamente detta. Gli atti del penitente, sono estrinseci al sacramento, sono niente più che la
condizione senza la quale (conditio sine qua non) il sacerdote non può giudicare e per tanto non può
amministrare l’assoluzione.
c. Conclusione
Nella Chiesa ha finito per imporsi l’opinione che valorizza gli atti del penitente; questo
partecipa attivamente all’attuazione del sacramento; i suoi atti sono parte essenziale — sebbene
44 Cfr. Summa Theol. III q 84, a 1. 45 Gli atti del penitente sono comunque considerati partecipazione alla passione di Cristo, quindi, frutto della grazia proveniente dalla
stessa passione (Cfr. Summa Theol. III q 86, a 4 ad 3um). Questo concetto di partecipazione sarà mancante nei nominalisti e in
Lutero produrrà gli errori susseguenti. 46 Cfr. Summa Theol. III q 84, a 1 ad 2um .
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secondaria e subordinata — del sacramento e pertanto per la remissione dei peccati.
Questo non significa che il penitente sia ministro della penitenza: è ministro unicamente chi pone la
forma. Tuttavia si deve notare che nella penitenza si mostra in maniera particolare il contributo del soggetto
alla costituzione del sacramento47, e pertanto, l’esercizio del suo sacerdozio comune48. Si ha un concorso tra
soggetto e Dio, che attua attraverso il ministro, e il loro incontro, come nella parabola del figliol prodigo,
produce la remissione dei peccati, sebbene la grazia, è chiaro, provenga sempre da Dio.
4. La formula dell’assoluzione
- Fino al secolo XIII la formula della assoluzione era deprecativa, cioè, si chiedeva a Dio perdono per
il penitente.
- San Tommaso combatte questa visione nell'opuscolo De forma absolutionis sacramentalis, dove
propone una formula indicativa (o imperativa): “Io ti assolvo...” giacché il ministro non si limita a chiedere
il perdono da Dio, ma veramente perdona, come causa strumentale mossa dall'azione di Dio, che è la causa
efficiente principale del perdono.
La Chiesa Occidentale adottò la formula indicativa. Gli Orientali greci continuarono con quella
deprecativa, gli slavi adottarono l’indicativa. Il rituale di Paolo VI mantiene la formula indicativa, sebbene la
faccia precedere da una preghiera deprecativa nella quale si esprime la dimensione trinitaria del perdono:
introduce il penitente nel rapporto di amore tra il Padre e il Figlio nell’unità dello Spirito.
Si è mantenuto il gesto della benedizione o dell’imposizione delle mani, ma il gesto esterno non è
necessario per la validità del sacramento. Ignoriamo, inoltre, fino a che punto esso fosse un elemento
indispensabile nell’antica riconciliazione dei penitenti.
47 Superata soltanto nel caso del matrimonio, in cui ogni soggetto inoltre è ministro riguardo all’altro. 48 Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Udienza del 15 apr. 92.
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7. Il ministro della penitenza
La Tradizione costante della Chiesa dice che soltanto il vescovo e il sacerdote sono i
ministri della Penitenza, tuttavia conviene risolvere alcune incognite che emergono dallo studio
della storia.
1. Il vescovo e il sacerdote
Nell’antichità il ministro ordinario della penitenza era il vescovo, giacché la riconciliazione si
considerava dal punto di vista della comunione ecclesiale, e questa dipendeva esclusivamente dal vescovo.
Lo stesso accadeva con il battesimo.
In Oriente alla fine del secolo III e nel secolo IV troviamo i sacerdoti chiamati “penitenziari”, che
erano incaricati di sorvegliare i penitenti. Questa consuetudine non si ha in Occidente. Ma al sacerdote è
proibito riconciliare il penitente senza il mandato del vescovo, che era concesso in caso di pericolo di morte.
Alla fine dell’epoca patristica aumenta la funzione del sacerdote, giacché i cristiani differivano il
sacramento fino al punto di morte e le comunità crescevano. L’introduzione della confessione privata e
reiterabile provocò che a partire dai secoli VII e VIII il ministro ordinario fosse già il sacerdote, ma non
indipendentemente dal vescovo, poiché per dare validamente l’assoluzione si richiedeva (come adesso) la
giurisdizione conferita dal vescovo.
2. I diaconi
San Cipriano (sec. III) e il Concilio di Elvira (sec. IV) sembra che autorizzino i diaconi a confessare
e a dare l’assoluzione. Questo ha creato alcune difficoltà teologiche. Ci sono state diverse opinioni:
- Queste confessioni non erano valide in quanto sacramenti. La riconciliazione veniva dal desiderio
del penitente di ricevere l’assoluzione. Sarebbe paragonabile con il battesimo di desiderio.
- Il diacono trasmetteva soltanto al penitente la riconciliazione emessa dal vescovo. Sarebbe
un’assoluzione per mezzo di un intermediario, che ai nostri giorni non è valida. Questa èl’opinione più
probabile.
- Le assoluzioni dei diaconi erano valide. Ma oggi questa opinione non si ammette.
Nel Medio Evo, in caso di pericolo di morte e non potendo trovare il sacerdote, il diacono poteva
ascoltare la confessione e dare la comunione al penitente, ma non dare l’assoluzione. Il penitente si
considerava perdonato dal desiderio dell’assoluzione manifestato nella confessione al diacono.
3. La partecipazione dei fedeli
Nei primi secoli, tutta la comunità partecipava alla penitenza di uno dei suoi membri. Questo si
faceva in diverse forme:
- Poteva essere consultata dal vescovo sulla convenienza di ammettere alla penitenza e riconciliazione
i determinati peccatori.
- Pregava e faceva penitenza per il peccatore.
- Partecipava attivamente alla cerimonia di riconciliazione del penitente, associandosi alle sue
preghiere di perdono.
4. L’intervento dei martiri
Nei primi secoli si diede importanza alla intercessione dei martiri che sopravvivevano ai castighi
(chiamati anche “confessores”, perché avevano confessato la loro fede), in considerazione del valore che
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avevano davanti a Dio le loro sofferenze. Intercedevano soprattutto per gli apostati (“lapsi”),
raccomandandoli alla misericordia della Chiesa. Spettava però soltanto al vescovo accettarli alla
riconciliazione, sebbene si tenesse conto di questa raccomandazione. San Cipriano si oppone ai
“confessores” che presentavano questa raccomandazione come un’esigenza, come abbiamo già visto.
5. I monaci confessori in Oriente
Tra i monaci era consueta la confessione delle piccole mancanze quotidiane all'interno della
direzione spirituale. A poco a poco questa abitudine si introdusse anche tra i fedeli. I direttori spirituali erano
monaci circondati da fama di santità, ma non tutti erano sacerdoti, ed erroneamente in alcuni casi, si
attribuiva loro il potere di assolvere, anche dai peccati gravi. Simeone il Nuovo Teologo (sec. XI), tenta di
giustificare questa pratica dicendo che il potere di perdonare i peccati dipende soprattutto dalla santità
morale, che ormai non si trovava più in vescovi e sacerdoti, ma nei monaci. Sembra che l’introduzione della
forma privata di amministrare la penitenza lo portò ad attribuire il potere sacramentale all’antica pratica della
direzione spirituale. Nella Chiesa, però, come già testimonia Origene, si distinse sempre tra:
- La confessione terapeutica, che si fa con un uomo santo al fine di ricevere luce e orientamento e di
confidarsi al potere di intercessione delle sue preghiere.
- La confessione sacramentale, che si fa con il sacerdote per ricevere il perdono dei peccati; la
riconciliazione dei peccatori non dipende dalla santità del sacerdote, ma dal potere ricevuto per l'ordinazione.
Ed infine, si deve tenere conto che l’autorità ecclesiastica non riconobbe mai l’assoluzione data dai
monaci non sacerdoti.
6. La confessione ai laici in Occidente
In Occidente apparve così benefica la confessione privata e reiterabile che si cominciò a
raccomandare la confessione dei peccati veniali e quotidiani ai laici, lasciando per il sacerdote i peccati
gravi. Si vedeva in questo un esercizio d’umiltà e compunzione. A poco a poco si estese la materia di questa
confessione anche ai peccati gravi. Ma non si riconobbe mai l’assoluzione data da un laico.
Sant’Alberto Magno e San Tommaso consideravano obbligatorio questo tipo di confessione in caso
di pericolo di morte e in mancanza di un sacerdote. Il perdono dei peccati si otteneva “ex desiderio
sacerdotis”. Naturalmente, se si scampava al pericolo, si era tenuti a confessarsi con un sacerdote.
Alessandro di Hales e San Bonaventura consideravano lodevole e utile questa pratica, ma non obbligatoria.
Duns Scoto la sconsigliava totalmente. Nel secolo XV ed anche nel XVI era solita questa confessione tra i
marinai in caso di naufragio o tra i soldati quando cadevano feriti in battaglia. Dopo Trento venne
sconsigliata, per evitare confusioni con la dottrina protestante.
7. Le ragioni in chiave teologica
Nel Supplementum alla Summa Theologiae, (q 8, a 19) troviamo riassunto il ragionamento di S.
Tommaso (anche se questo scritto non è originale suo): chi ha potestà sul Vero Corpo di Cristo (vescovo e
presbitero), ha potestà sul suo Corpo Mistico. In altre parole, chi celebra l’Eucaristia ha potestà per decidere
chi è in condizioni di accostarsi a essa.
Possiamo spiegarlo così: Cristo-Capo, fonte di vita divina per il Corpo (la Chiesa) associa il vescovo
a sé nell’Eucaristia, che forma il Corpo Mistico. L’Eucaristia realizza la pienezza dell’unità della Chiesa. A
chi agisce “in persona Christi Capitis” tocca giudicare chi è in condizioni di accedere a questa pienezza, e di
ridare la riconciliazione con Dio a questo scopo.
Il presbitero condivide con il vescovo questo potere sull’Eucaristia, e quindi, in dipendenza di lui,
quello sull’ammissione ad (o separazione da) essa. Non così il diacono, per cui non è ministro di questo
sacramento.
Penitenza e Unzione degli Infermi 2012-2013 - 66
III. Dottrina del Magistero e problemi teologici più recenti
Introduzione per capire la problematica protestante e la risposta di Trento sulla
Penitenza.
La riforma luterana ripropone in modo nuovo la vecchia controversia sul rapporto tra la grazia divina
e libertà umana in ordine alla salvezza. La questione, molto discussa in epoca patristica a causa della
controversia anti-pelagiana, percorre il medioevo e si esaspera con Lutero. Trova un chiarimento dottrinale
in Trento.
Parallela a questa questione è quella sul rapporto tra azione divina e azione umana nel sacramento,
necessario per il conferimento della grazia. Spiegato nella Scolastica in termini di materia e forma, di
ministro e soggetto (il ministro pone la forma, il soggetto, la materia), e oggi anche attraverso i concetti di
sacerdozio comune e ministeriale.
Lutero:
Secondo Lutero, la giustificazione sarebbe la non imputazione dei peccati, con la semplice
attribuzione al peccatore della giustizia di Cristo.
Parte da uno sfondo nominalistico: non esiste partecipazione tra gli esseri, e nel caso dell’uomo e
Dio, si tratta soltanto di considerazione reciproca.
Trento:
Sess. VI cp. 7 : Cos’e la giustificazione del peccatore e quali le sue cause.
DS 1528
«La giustificazione non è la semplice remissione dei peccati, ma anche la santificazione e rinnovamento
dell’uomo interiore, mediante la libera accettazione della grazia e dei doni che l’accompagnano…».
DS 1529
La causa formale (= l’essenza della giustificazione) è la partecipazione alla giustizia di Dio.
«… L’unica causa formale è la giustizia di Dio, non certo quella per cui egli stesso è giusto, ma quella per
cui ci rende giusti (S. Agostino, De Trinitate, XVI 12, n. 15, PL 42, 1084)… e non solo veniamo considerati
giusti, ma siamo chiamati tali e lo siamo realmente (Cfr. 1Gv 3,1 = figli di Dio)».
«… La giustificazione si produce, quando, per merito della stessa santissima passione, l’amore di Dio viene
diffuso mediante lo Spirito Santo nei cuori ( Cfr. Rm 5,5) di coloro che sono giustificati e inerisce in loro
(inhaeret). Ne consegue che, nella stessa giustificazione, l’uomo, riceve, per mezzo di Gesù Cristo, nel quale
è innestato (inseritur) tutti questi doni infusi: fede, speranza e carità».
Si da una mutua innessione: l’amore di Cristo in noi, e noi in Cristo (espressioni tipicamente
paoline). L’amore di Cristo inerisce in noi perché siamo stati innestati in Cristo.
Sess. VI cp. 16: Del frutto della giustificazione, ossia del merito delle buone opere.
DS 1546
Dopo un a serie di citazioni del NT sulla necessità delle buone opere per ottenere la vita eterna, conclude
che questa viene concessa:
Penitenza e Unzione degli Infermi 2012-2013 - 67
«… sia come grazia promessa misericordiosamente ai figli di Dio per i meriti di Cristo Gesù (S. Agostino, de
Gratia et libero arbitrio, 8, n. 20, PL 44, 893), sia come ricompensa che, secondo la promessa di Dio stesso,
deve essere fedelmente accordata alle loro opere buone e ai loro meriti».
«Lo stesso Gesù Cristo, come il capo nelle membra, (cfr. Ef 4,15) e la vite nei tralci ( cfr. Gv 5,15) trasfonde
continuamente la sua virtù (virtus = forza), virtù che sempre precede, accompagna e segue le loro opere
buone, e senza la quale non potrebbero per nessuna ragione piacere a Dio ed essere meritorie».
DS 1547
«In tal modo, né si esalta la nostra giustizia come se provenisse proprio da noi, né si ignora o si rifiuta la
giustizia di Dio. Infatti, quella giustizia che se dice nostra, perché inerendo a noi, ci giustifica, è quella
stessa di Dio, perché ci viene infusa da Dio per i meriti di Cristo»
Si osservino i termini ontologici, quasi “fisici”, non di mera “considerazione” nominalistica.
Si ricordi quanto abbiamo visto nella Scolastica sulla falsa opposizione tra opere penitenziali e misericordia
divina. Secondo S. Tommaso, nel processo penitenziale, Dio agisce anche attraverso l’opera umana, che
dipende dalla misericordia divina (cfr. Summa Theol, III, q86, a2).
E conclude:
DS 1548
«Dio è talmente buono che vuole che diventino i nostri meriti quelli che sono i suoi doni (S. Agostino, Ep.
194, ad Sixtum, c. 5, n. 19, PL 33, 880)». (Citazioni riportata anche nello scritto antipelagiano Capitoli
pseudo-celestini o Indiculus, cfr. DS 248).
Possiamo concludere:
Il Dio trinitario, per l’Incarnazione del Figlio, introduce nella natura umana la capacità di fare
penitenza gradita al Padre.
Cristo la realizza in noi e noi dobbiamo realizzarla in Lui. Allo stesso tempo, Cristo dà a alcuni
uomini, (ministri) la capacità di concedere nel suo nome e in quello del Padre, il perdono corrispondente,
giacché Lui è anche la rivelazione della misericordia del Padre “sulla terra”.
La grazia della giustificazione è la partecipazione alla giustizia (santità) di Dio. È la grazia
santificante, e perciò giustificante.
Il senso di partecipazione per grazia all’opera “penitenziale” pro nobis di Cristo e quindi, e alla
giustizia e alla santità di Cristo, ci libera dalla paura di non riuscirci se guardiamo soltanto alle nostre proprie
forze, ma nello stesso tempo, ci fa capire che la grazia, pur essendo un dono, non è di nostra proprietà in tal
modo che non la possiamo perdere, ma è un rapporto intimo con Gesù Cristo, da coltivare continuamente
nella preghiera e nelle opere di carità verso il prossimo.
Possiamo domandarci adesso se Trento considerava il sacramento della Penitenza, una
partecipazione all’azione di Cristo. Possiamo rispondere affermativamente, e questo si vede con chiarezza
quando tratta sulla soddisfazione sacramentale (Sess. XIV, cp. 8.) Lo vedremo più in profondità nel capitolo
corrispondente.
Penitenza e Unzione degli Infermi 2012-2013 - 68
1. Il protestantesimo e il sacramento della penitenza
Introduzione: precedenti
La Chiesa rigetta gli attacchi al sacramento della penitenza, che vengono dai pre- riformatori, i quali portano
agli ultimi estremi la dottrina della scuola nominalista di Ockam.
- Il Concilio di Costanza (1415) condanna l'opinione di Wiclif, secondo la quale sarebbe “superflua e
inutile ogni confessione esteriore, se l’uomo è veramente contrito” (DS 1157).
- Martino V (1418) impone ai seguaci di Wiclif e Hus di credere che un cristiano peccatore, oltre alla
contrizione del cuore, ha l’obbligo di confessarsi a un sacerdote, quando lo trova, e non con un laico (DS
1260).
- Il Concilio di Firenze (Decreto Pro Armeniis) (1439) seguendo S. Tommaso considera la
confessione quasi-materia del sacramento. Il peccatore deve confessare tutti peccati gravi di cui si ricorda
previo diligente esame (DS 1323).
1. Dottrina di Lutero
L’uomo, dopo la caduta di Adamo, ha pervertito così tanto la sua natura da tendere irremissibilmente
a peccare, e non può liberamente lamentare il peccato in quanto tale, cioè, in quanto offesa a Dio ma soltanto
a causa delle conseguenze (egoisticamente)
a. Il terrore e la fede sono le due sole parti soggettive della penitenza
- Il terrore sorge nella coscienza dell’uomo quando si rende conto, alla luce della Parola di Dio, dello
stato di condanna in cui si trova. In questo stato passivo, l’uomo scopre che non può sradicare il peccato dal
suo cuore. Lutero chiama questo terrore “contrizione”, il quale, invece di provocare la remissione, rende
l’uomo ipocrita e più peccatore, perché è uno stato di tormento interiore che non allontana l’uomo dal suo
peccato, sebbene possa dissuaderlo dal commetterlo esternamente. Non c’è contrizione nel senso di
decisione. C’è riprovazione, ma la volontà non può superare la tendenza a peccare. Manca la distinzione tra
desiderio spontaneo e desiderio volontario49.
Infatti, a Lutero sembra sfuggire che pur essendo molto forte la tendenza sensibile, tuttavia la volontà può
decidere contro di essa; l’atto di volontà può essere molto meno percettibile psicologicamente che la tendenza sensibile
e nonostante tutto esserci.
- La fede giustificante è l’unico atto che dispone a ricevere la grazia divina e la remissione (nel senso
luterano di non-imputazione) del peccato. E’ un movimento di fede-fiducia (fides fiducialis) per il quale
l’uomo si abbandona nelle mani di Dio che lo perdona in virtù del prezzo che Cristo ha pagato, ed è così
giustificato. Tutto quello che c’è di attivo e libero nella penitenza risiede in questo movimento di fede-
fiducia, che è dispositivo, mai causale, della remissione.
La sua dottrina è frutto di un’angosciosa esperienza religiosa della sua giovinezza monastica, quando
si credeva predestinato alla dannazione eterna. Il mezzo per sentirsi liberato da tale situazione era
l’abbandono totale a Dio nella fede-fiducia. È un’esperienza vitale possibile, in persone di psicologia
scrupolosa, o in certe circostanze di prova, o persino in certe fasi dell'esperienza mistica, ma l'errore consiste
nel proporre questa soluzione come modello di ogni conversione e penitenza cristiana. Lutero non
abbandonò mai la confessione, ma la considerava un conforto spirituale e psicologico per le persone inquiete,
senza che fosse necessaria per la remissione del peccato. Inoltre credeva, a torto, che la Chiesa chiedesse al
49 S. Tommaso nella Summa Theol. III, q 85, a 5, espone il processo che va dal timore servile al timore filiale. Il timore servile è
quindi un passo nel processo di penitenza infuso dalla grazia di Dio e assecondato dagli atti dell’uomo.
Penitenza e Unzione degli Infermi 2012-2013 - 69
penitente di confessare materialmente tutti i peccati mortali, e non soltanto quelli che potesse ricordare, il che
sarebbe un tormento.
Nella visione cattolica, per l’Incarnazione, Dio assume in Cristo per noi un cammino simile al processo di
conversione50, e il cristiano unito a Cristo nel sacramento, vi partecipa. Dio quindi ispira, accoglie e assume in Cristo il
processo di conversione del cristiano. A causa del nominalismo ereditato da Ockam, questo scappa a Lutero. Non c’è
possibilità di vera comunione di vita, ma soltanto di accordo tra le volontà.
b. Necessità soggettiva della confessione:
Oggettivamente nega la necessità della confessione per il perdono dei peccati. Opina che da sé, la
confessione è opzionale quanto al farsi o no, e anche riguardo alla scelta dei peccati di cui ci si accusa; non è
obbligatorio confessare tutti i peccati mortali.
Soggettivamente può essere necessaria per le persone inquiete spiritualmente perché dà loro pace e
consolazione, nel rassicurarli del perdono di Dio.
c. Natura non sacramentale della penitenza
Sebbene all’inizio della sua opera “De captivitate babylonica” ammette ancora la penitenza come
sacramento, alla fine nega che lo sia, perché - afferma - il rito non è stato istituito da Cristo, ma dalla Chiesa.
Considera le parole di Gv 20, 23 come riferite soltanto alla predicazione della Parola di Dio (si ricordi quello
già visto nella parte biblica) , che muove l’uomo alla fede giustificante e alla ricezione del battesimo, che si
conferisce per la remissione dei peccati. Il vero ed unico sacramento della penitenza sarebbe il battesimo.
d. Soddisfazione “offensiva”
Respinge e condanna l’idea della soddisfazione da parte del penitente. La Chiesa non la può imporre,
poiché il peccato è ormai perdonato in forza dei meriti di Cristo. Dio perdona gratuitamente e può esigere da
noi solo di credere e confidare nella sua misericordia. Esigere qualcosa di più come soddisfazione per espiare
davanti a Dio un peccato, sarebbe offendere la redenzione di Cristo, il quale ha soddisfatto per tutti. La
Chiesa può soltanto imporre pene legali, per mantenere la disciplina esterna. La soddisfazione in ogni caso
consisterebbe nel proposito di non peccare più esternamente.
A Lutero sfugge che questo proposito trova la sua realizzazione nel compimento della penitenza, la quale
previene le tendenze cattive al peccato, e ripara, entro il possibile, gli effetti temporali del peccato; la tendenza al male
secondo lui è inevitabile. E nemmeno prende in considerazione questi atti in quanto partecipazione sacramentale alla
penitenza fatta da Cristo.
e. Assoluzione da chiunque
Ogni cristiano può dare l’assoluzione a un altro fratello nella fede. Questa assoluzione consiste
nell’annunciare o ricordare il vangelo della misericordia, ricordare il Battesimo, e assicurargli che i suoi
peccati sono stati già perdonati a causa della sua fede.
2. Dottrina di Calvino
Mentre Melantone (Melanchton) ammette la sacramentalità della penitenza, Calvino la nega,
sebbene ne riconosca l'utilità, e come Lutero, chiede la stessa libertà di praticarla o no e circa i peccati che si
devono confessare. Secondo lui, si tratta di un’istituzione del Concilio Laterano IV (1215)51 L’unico
sacramento della penitenza sarebbe il battesimo.
50 Non che Gesù avesse bisogno di conversione, ma assume la nostra colpa per offrire al Padre il più grande atto di amore e di
obbedienza che la ripara totalmente. 51 Il Laterano IV, invece, si limitò a stabilire l’obbligo della confessione al meno una volta l’anno, intendendo per confessione
l’insieme del sacramento.
Penitenza e Unzione degli Infermi 2012-2013 - 70
I luterani continuarono a praticare la confessione privata — con assoluzione dichiarativa — per
molto tempo; poi si limitarono alla confessione generale; oggi sembra che stiano tornando a quella privata. I
calvinisti di solito fanno una confessione generica con assoluzione generale.
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2. Il Concilio di Trento e il suo decreto dottrinale sulla Penitenza.
A. Sessione VI (a. 1547), Decreto sulla giustificazione
Trento tocca il tema della Penitenza per la prima volta nel Decreto sulla giustificazione52.
Concretamente nel capitolo 14 (DS 1542-1543) 53, intitolato “Quelli che sono caduti e la loro restaurazione”
(reparatione). Ne analizziamo lo schema dottrinale:
- La finalità della penitenza è ricuperare la grazia perduta dai battezzati a causa del peccato.
- È d’istituzione divina. Questo si vede in Gv. 20, 22-23. Nel decreto sulla penitenza dirà:
“principalmente” ("praecipue").
- I suoi componenti sono: La contrizione, che comprende l'abbandono del peccato e la sua
detestazione, la confessione sacramentale, l'assoluzione da parte di un sacerdote e la soddisfazione.
- È necessaria la confessione, ma se non è possibile confessarsi, il peccato è perdonato per il desiderio
del sacramento.
- Differenza fra battesimo e penitenza: la pena temporale per il peccato non si perdona sempre per
intero nella penitenza, come accade nel battesimo, da qui la convenienza della soddisfazione.
B. Sessione XIV (a. 1551), Decreto sulla penitenza ed estrema unzione:
Queste affermazioni, un po' schematiche, saranno riprese e sviluppate nella sessione XIV che ha per
oggetto la penitenza e l’estrema unzione, giacché la teologia scolastica considerava l’estrema unzione come
un complemento della penitenza. Il decreto frutto di questa sessione fu promulgato nel 1551. Consta di 9
capitoli (DS 1667-1693) e 15 canoni (DS 1701-1715). I canoni sono la parte più importante, giacché
intendono condannare gli errori del tempo in materia di fede o di dottrina comune della Chiesa, benché la
loro dottrina va intesa alla luce del contenuto dei capitoli.
1. Istituzione del sacramento della penitenza
Mettiamo la dottrina dei canoni in positivo.
Canone 1: La penitenza è nella chiesa cattolica veramente e propriamente un sacramento istituito da
Cristo per riconciliare i fedeli con Dio ogniqualvolta pecchino dopo il battesimo. (Si noti che si parla di
riconciliazione).
Canone 3: Gv, 20, 23 va considerato come fondamento scritturistico. Non è lecito svuotare queste
parole del loro contenuto, per negare il sacramento. Il capitolo 1 (DS 1670) dice che questo testo prova
52 Si tenga presente che la dottrina luterana sulla giustificazione oggi viene interpretata diversamente a seconda delle correnti interne
al pensiero protestante, e ci sono tentativi di avvicinamento alla dottrina cattolica. Cfr. a questo riguardo:
- Dichiarazione congiunta sulla Dottrina della Giustificazione fra la Chiesa cattolica e la Federazione Luterana Mondiale [31
ottobre 1999]
- "Risposta" ufficiale della Chiesa cattolica alla Dichiarazione congiunta sulla Dottrina della Giustificazione fra la Chiesa
cattolica e la Federazione Luterana Mondiale [1998]
- Allegato alla Dichiarazione ufficiale comune della Federazione Luterana Mondiale e della Chiesa Cattolica [31 ottobre
1999]
- Dichiarazione ufficiale comune della Federazione Luterana Mondiale e della Chiesa cattolica (circa la Dichiarazione
congiunta) [31 ottobre 1999]
Reperibili in:
http://www.vatican.va/roman_curia/pontifical_councils/chrstuni/sub-index/index_lutheran-fed_it.htm
53 Si raccomanda di leggere i capitoli e i canoni nel Denzinger - Schönmetzer (DS). La versione aggiornata a cura di P.
HÜNERMANN (EDB, Bologna 1995) presenta la versione italiana - benché non sempre totalmente affidabile - a fronte del testo
latino.
Penitenza e Unzione degli Infermi 2012-2013 - 73
“principalmente” l’istituzione divina della penitenza in quanto sacramento. Non dice che questo sia il senso
esclusivo delle parole di Giovanni, e neanche che non sia possibile ricorrere ad altri testi.
2. Necessità del sacramento della penitenza. È diverso dal battesimo.
Capitolo 1: La penitenza (conversione) è di necessità assoluta in quanto disposizione spirituale
dell’uomo che ha peccato gravemente.
Capitolo 2: Precisa che questo sacramento è necessario per la salvezza di coloro che sono caduti
quanto il battesimo per coloro che non sono stati ancora rigenerati.
Essendo la necessità del battesimo una necessità di mezzo relativa in quanto sacramento, giacché il
desiderio di riceverlo può supplire la sua ricezione effettiva, si deduce che la necessità della penitenza è dello
stesso tipo. Più avanti, il capitolo 4 dirà che per riconciliare l’uomo con Dio prima della ricezione del
sacramento, basta la contrizione perfetta con il desiderio, in essa incluso, di riceverlo.
Canone 2: La penitenza non può confondersi con il sacramento del battessimo.
Capitolo 2: la distinzione viene data:
- Per la differenza di rito.
- Per il carattere giudiziale della penitenza
- Per la funzione di giudice che esercita il ministro.
Per la reiterabilità della penitenza.
- Per la diversità di effetti: il battesimo conferisce gratuitamente il perdono pieno e totale di tutti i
peccati, mentre nella penitenza il perdono diventa possibile con la collaborazione dell’uomo (sforzo e
lacrime come dicevano i Santi Padri).
3. Parti ed effetti della penitenza-sacramento
a. Parti
Canone 4: La penitenza soggettiva (ciò che deve fare il soggetto) non si riduce al terrore e alla fede,
ma richiede tre atti per la totale e perfetta remissione del peccato: contrizione, confessione e soddisfazione,
che sono chiamati "quasi materia" del sacramento. Questa espressione, che viene da S. Tommaso, si trovava
già nel Decreto per gli Armeni del Concilio di Firenze (DS 1323).
L’interpretazione del termine "quasi materia" rimase una questione disputata:
Per i tomisti significa una vera materia nel senso ilemorfico e metafisico, non in senso fisico come in
altri sacramenti: i tre atti del penitente sono materia prossima del sacramento, invece, i peccati sono materia
remota (Summa Theologiae III q.84, a.2).
Attualmente non si utilizza questo modo di esprimersi. (I peccati non possono fare parte di un sacramento, che
è sempre segno delle azioni di Cristo). Si distingue tra la materia ex qua, con la quale si fa il sacramento, o che concorre
intrinsecamente a costituirne l'essenza (sono gli atti del penitente), e la materia circa quam, che è l’oggetto sul quale
attua il sacramento, ma che non ne fa parte (sono i peccati commessi, dei quali ci pentiamo, ci confessiamo e dei quali si
è assolti).
Gli atti del penitente sono richiesti “per l’integrità del sacramento e per la piena e perfetta remissione dei
peccati”, per cui sono parti della Penitenza.
Per gli scotisti, la denominazione "quasi materia" ha un significato metaforico: i tre atti sono
disposizioni come condizione sine qua non per l’efficacia del sacramento, che consiste per intero
nell’assoluzione.
Penitenza e Unzione degli Infermi 2012-2013 - 74
b. La forma del sacramento
Capitolo 3: La forma è costituita dalle parole del sacerdote: “ego te absolvo”, si tratta di una forma
“indicativa”. La virtù del sacramento risiede principalmente nella forma (secondo S. Tommaso e ammesso
senz'altro dagli scotisti) (DS 1673).
Dunque, il Concilio s’inclina per la teoria dell’assoluzione in modo indicativo, non deprecativo e
tanto meno dichiarativo.
c. L’effetto specifico del sacramento (res et effectum) (DS 1647)
È la riconciliazione con Dio.
Alla quale si aggiunge la serenità e la consolazione nelle anime pie (concessione a Lutero)
Il teologo Hans Gropper, parlò a Trento di una doppia riconciliazione: con Cristo e con tutti i
membri di Cristo. Ma questa dimensione ecclesiologica non rimase esplicitamente espressa nei documenti
finali. Verrà ripresa dal Concilio Vaticano II.
4. La contrizione
Trento dedica alla contrizione il canone 5 e il capitolo 4; nel capitolo si sviluppa la dottrina su questo
punto.
a. La nozione generica di contrizione
Si afferma:
- che è il primo e più importante degli atti del penitente;
- che consiste nel dolore e detestazione (volontaria) del peccato commesso, e include il proposito di
non ricadere più.
Questo lo dice in contraddizione con i protestanti, che riducevano la contrizione al terrore e alla fede,
con il proposito di ricominciare una vita esternamente buona, ma senza un vero ravvedimento doloroso della
vita passata e un distacco interno volontario dal peccato.
- che la sua necessità è assoluta e universale per il perdono dei peccati.
b. La contrizione perfetta e la sua efficacia
Contrizione perfetta è quella il cui movente è la carità verso Dio, la virtù più perfetta. Per amore a
Dio si lamenta il peccato commesso. La sua efficacia consiste nel fatto che prima di ricevere effettivamente
il sacramento, l’uomo è riconciliato con Dio e giustificato dalla carità.
La contrizione non agisce senza il desiderio del sacramento, “che è incluso in essa”. Il testo non dice
se il voto del sacramento deve formularsi esplicitamente.
c. L’attrizione e la sua relazione con il sacramento
L’attrizione o contrizione imperfetta:
Il Concilio non usa il termine “attrizione”, ma la descrive al Canone 5 (leggere) e condanna chi
neghi che sia un dolore vero e utile, che disponga alla grazia e chi affermi che renda l’uomo più ipocrita e
peccatore, e che sia un dolore imposto e non libero e volontario.
Penitenza e Unzione degli Infermi 2012-2013 - 75
- È ogni contrizione che procede da un motivo inferiore all’amore di carità verso Dio. Proprio per
questo è imperfetta.
- Generalmente è ispirata dal timore dell’inferno e dalla bruttezza del peccato.
- È un atto buono, un dono di Dio e un impulso dello Spirito Santo (una grazia attuale) se esclude la
volontà di peccare ed è accompagnato dalla speranza del perdono.
- È insufficiente per ottenere il perdono senza il sacramento, ma dispone il peccatore ad ottenere la
grazia giustificante e santificante.
Le condizioni perché ci sia attrizione sono:
- l’esclusione di qualsiasi attaccamento volontario al peccato
- la speranza del perdono.
Altrimenti, non realizza le condizioni della contrizione in genere.
Il Concilio suppone, seguendo la tradizione, che esiste una certa forma di timore capace di eliminare
la volontà di peccare, mentre per Lutero ogni timore sarebbe uno stato d'ipocrisia del peccatore, o tutt’al più
lo tratterrebbe dal peccare esternamente, senza nessun distacco interno volontario del peccato.
Esistono diversi tipi di timore:
- il timore filiale, totalmente pervaso di amore, che è il timore del figlio che teme di perdere, per sua
colpa, l’amicizia del Padre;
- esiste un timore servile cattivo (serviliter servilis) quando persiste l'attaccamento al peccato ma si ha
paura delle sue conseguenze;
- ma c'è un altro timore servile moralmente buono e conforme alla natura razionale dell’uomo
(simpliciter servilis), quando distacca dal peccato e lo presenta come il male supremo e causa della perdita
della beatitudine eterna. Già nella sessione VI si era definita la bontà del timore in quanto fonte di
contrizione (cfr. cp. 5, DS 1525; cn. 8, DS 1558)54.
Il Concilio ammette che l’attrizione può avere altri motivi oltre a quello del timore. D’altra parte
però, nella sessione VI, capitolo 6, (DS 1526) parlando sulla penitenza pre-battesimale ammette che
l’attrizione include un inizio di amore.
Per quanto riguarda la relazione dell’attrizione con il sacramento e la giustificazione, il Concilio non
volle risolvere la questione. Esistono le seguenti posizioni:
Gli scotisti affermano che l’attrizione è sufficiente non solo per ricevere il sacramento, ma anche per
essere giustificato in esso per virtù dell'assoluzione, senza l'interposizione di alcuna disposizione psicologica
ulteriore e superiore.
I tomisti, invece, sostengono che l’attrizione basta per ricevere il sacramento, ma non la
giustificazione stessa, la quale è ottenuta dal penitente quando questi - mosso dall'efficacia propria del
sacramento - riesce a fare un atto di contrizione perfetta.
La discussione postridentina si svilupperà sulla base scotista, e riguarderà la natura di quell’inizio
d’amore incluso nell’attrizione: se puro di benevolenza o interessato. Questa sarà chiamata la “controversia
attrizionista”.
La mente del Concilio di Trento sostiene che l’attrizione basta per ricevere il sacramento, ma non è
capace di produrre la giustificazione per se stessa, senza di esso, sebbene ci pone in disposizione di riceverlo
con frutto e di raggiungere così la grazia del perdono dei peccati, in qualsiasi modo si supponga che abbia
luogo questo perdono all’interno del sacramento.
54 Si ricordi che queste distinzioni si trovavano già in S. Tommaso: cfr. Summa Theol. III, q 85, a 5.
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5. La confessione
a. Istituzione, necessità e modalità della confessione
La prima parte del canone 6 afferma che l’istituzione e la necessità della confessione sacramentale
sono di "diritto divino". S'intende "diritto divino" in senso rigoroso e proprio, in altre parole, come
prescrizione che emana da Dio stesso o da Cristo, senza la mediazione di un’autorità umana, e che possiamo
conoscere attraverso la Scrittura.
La seconda parte del canone parla della modalità della confessione: da farsi in segreto con il
confessore. Il Concilio non afferma che la confessione segreta sia stata istituita da Cristo, né che sia
necessaria di diritto divino, benché sia manifestamente considerata più naturale che la confessione pubblica.
La qualifica di “non aliena al mandato di Cristo”. Ciò che è necessario di diritto divino è la confessione in
quanto tale; la modalità è d'istituzione ecclesiastica.
b. L'integrità della confessione
Il canone 7 dichiara la necessità di confessare i peccati mortali, tutti e ciascuno in particolare, inclusi
quelli segreti, e le circostanze che cambiano la specie del peccato. Questa necessità è chiamata nuovamente
“di diritto divino”. Senz’altro, si tratta di quelli di cui si abbia memoria dopo un diligente esame e non di tutti
in senso assoluto, come pensava Lutero.
c. Ragione della necessità della confessione integra
Il capitolo 5 sviluppa i canoni 6, 7 e 8 e spiega perché la confessione è necessaria per diritto divino.
Quando si dice che la confessione è necessaria per diritto divino, s’intende la necessità di una accusa
dei peccati mortali fatta dal penitente al ministro affinché il sacramento possa essere amministrato.
Questa necessità si deduce dalla natura stessa del potere sacramentale di perdonare e ritenere i
peccati, affidato da Cristo alla Chiesa. Si dice di diritto divino perché Cristo nell’istituire il sacramento della
penitenza, pretendeva di istituire tutto ciò che condiziona intrinsecamente l’amministrazione del sacramento,
e quindi l’accusa da parte del penitente.
Dal carattere giudiziale:
L’esercizio di questo potere implica un giudizio, e il giudice non può pronunciarsi senza cognizione
di causa. Ma è il penitente l’unico che può dargli una corretta informazione, giacché solo lui conosce tutti i
suoi peccati e la loro malizia, e solo lui può dare prove di pentimento. Questa confessione si richiede anche
affinché il confessore possa imporre una soddisfazione giusta, vale a dire, proporzionata ai peccati. Perciò,
l'istituzione divina della confessione si trova contenuta virtualmente nell'istituzione di un sacramento per il
perdono dei peccati, del quale è la condizione naturale.
Dal carattere medicinale:
La necessità dell’integrità della confessione si deduce anche dal carattere medicinale del sacramento:
se il medico ignora la malattia, non la può curare, e l’unico capace di informarlo è il malato.
Non entra il Concilio in altre considerazioni complementari, seppur valide, per esempio, che la
confessione aumenta il pentimento, lo rende più oggettivo, e è anche un modo di fare penitenza, a causa della
difficoltà che può comportare.
6. L’assoluzione e il suo carattere giudiziale
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Nel canone 9 e nella seconda parte del capitolo sesto, di fronte alla posizione protestante secondo cui
l’assoluzione ha solo il carattere d’annuncio del Vangelo, il Concilio afferma l’efficacia dell’assoluzione,
vale a dire, che produce un effetto reale in relazione con il perdono dei peccati.
Trento afferma il carattere giudiziale dell’atto che costituisce l'assoluzione sacramentale: in esso, "la
sentenza è pronunciata dal sacerdote come da un giudice", una sentenza sempre di assoluzione. Ma questo è
da intendersi in senso analogico: in un giudizio umano quest’assoluzione è semplicemente dichiarativa; nel
sacramento, invece, è efficace: l’assoluzione rende giusto davanti a Dio il colpevole che si autoaccusa.
D’altra parte, a quei tempi, i giudici, oltre ad imporre le pene, giudicavano se un individuo era degno
di ricevere un beneficio. In questo senso, l'assoluzione del sacerdote è “la dispensazione di un beneficio che
non procede da lui”, perché conferisce la grazia che perdona il peccato, e la salvezza di Dio. In questo senso,
il giudice non giudica tanto sui peccati, quanto sulle disposizioni del penitente (contrizione, proposito di
soddisfare). Ambedue i sensi dell'assoluzione - emissione della sentenza e concessione del beneficio – sono
complementari.
7. Il ministro del sacramento
Il Concilio definisce nel canone 10 e insegna nella prima parte del capitolo 6º che i ministri
dell’assoluzione sono unicamente i vescovi e i sacerdoti. Le parole di Mt. 18,18 e Gv 20,23, non sono
indirizzate a tutti i fedeli. Un sacerdote in stato di peccato grave conserva il potere di assolvere e lo esercita
validamente.
8. Giurisdizione e riserva di casi
Il canone 11 e il capitolo 6º affermano la necessità della giurisdizione per la validità
dell’assoluzione, il che si deduce dallo stesso carattere giudiziale del sacramento: la giurisdizione è
l’assegnazione dei fedeli sui quali il confessore ha l'autorità per assolvere.
In virtù dell’autorità che è loro propria, il Papa e i vescovi hanno la facoltà di riservarsi l’assoluzione
di alcuni peccati per ragioni pastorali, questa riserva ha valore presso Dio. Sebbene in caso di pericolo di
morte qualsiasi confessore può perdonare tali peccati.
9. La soddisfazione
I canoni 12-15 e i capitoli 8º e 9º trattano il tema della soddisfazione come terzo atto del penitente.
Esiste una pena temporale dovuta a Dio per il peccato, che non sempre si perdona totalmente nel sacramento,
quando si perdonano il peccato e la pena eterna; per espiarla serve la soddisfazione (cfr. DS 1712). Ciò
conviene tanto a causa della giustizia di Dio come a causa della sua misericordia, perché la riparazione è
benefica per l’uomo. Ha un valore pedagogico, giacché gli impedisce di prendere il peccato alla leggera, e
medicinale, perché cerca di guarire il peccatore delle “reliquie del peccato”, in altre parole, dalle inclinazioni
al male che lascia dietro di sé il peccato anche se perdonato.
D’altronde, la nostra soddisfazione non serve a niente se non è unita alla soddisfazione piena di
Cristo. Non offende pertanto, il potere dell’opera redentrice di Cristo55.
Il Concilio spiega che «mentre facciamo soddisfazione per i nostri peccati, diventiamo conformi a
Gesù Cristo, che ha soddisfatto per i nostri peccati e da cui viene nostra capacità»56 e «partecipando alle sue
55 Cfr. DS / DH 1690-1691. Cfr. anche il Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 1459, 1460, 2011.
Penitenza e Unzione degli Infermi 2012-2013 - 78
sofferenze, parteciperemo alla sua gloria». Si vede come il Concilio introduce il termine “partecipazione”,
che Lutero aveva perso, e che risulta chiave per capire il concetto di sacramentalità. E aggiunge che questa
soddisfazione «non è talmente nostra da non esistere per mezzo di Gesù Cristo (…) in cui viviamo,
meritiamo, offriamo soddisfazione, facendo “opere degne di conversione” (Lc 3,8; Mt 3,8), che da lui
traggono il loro valore, da lui sono offerte al Padre, e grazie a lui sono accettate dal Padre». Si tratta quindi,
di una vera partecipazione sacramentale alle azioni di Cristo e non soltanto ai suoi meriti. Proprio a causa
della partecipazione alle sue azioni, si partecipa ai suoi meriti, e quindi, alla sua gloria. La partecipazione
simbolica-reale realizzata nel sacramento si prolunga nella vita con l’effettivo cambiamento di atteggiamento
e di condotta sorretto dalla grazia ottenuta nel sacramento57.
Possiamo soddisfare non soltanto per mezzo della penitenza imposta dal sacerdote, ma anche con le
nostre penitenze volontarie e con la nostra accettazione, amorevole e paziente, delle prove che Dio ci manda
in questa vita.
Per il potere delle chiavi (il Concilio intende con questo termine il potere di perdonare i peccati nel
sacramento della penitenza), i sacerdoti hanno l’obbligo di imporre soddisfazioni salutari e convenienti.
Trento interpreta il termine "legare" di S. Matteo come il potere dato ai ministri della penitenza per imporre
pene proporzionate ai peccati. Questa interpretazione della parola "legare" non si oppone al senso biblico di
essa, perché l’atto di separazione del peccatore dalla comunità implicava l’imposizione delle condizioni per
il suo ritorno. Qui riprendiamo in considerazione l’aspetto giudiziale dell'assoluzione. La sentenza è il
perdono dell’offesa fatta a Dio (che soltanto Cristo può riparare) ma può anche contenere una pena
indirizzata alle conseguenze terrene del peccato, la quale non è tanto di carattere vendicativo (riparare
l’ordine sociale o ecclesiale perturbato) quanto medicinale (guarire e correggere il peccatore).
10. Conclusione: Valore delle dichiarazioni di Trento
La dottrina promulgata solennemente dal Concilio di Trento ha un valore permanente che trascende
la semplice presa di posizione nei confronti delle deviazioni protestanti. Questi testi non escludono che la
teologia e la liturgia si aprano ad ulteriori sviluppi per rispondere ai nuovi problemi, ma sempre in modo
omogeneo e organico con la dottrina in tali testi contenuta.
56 Il Catechismo, al n. 1460 cita questo brano di Trento e aggiunge un “solo” per attribuire a Cristo con maggiore chiarezza ogni
soddisfazione per i peccati: “che solo ha soddisfatto per i nostri peccati”. 57 Si ricordi che S. Tommaso nella Summa Theol. III, q 86, a 4, ad 3um affermava che il penitente partecipa alla passione di Cristo
“nella misura dei propri atti”.
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3. La controversia post-tridentina sull’attrizione sufficiente
Trento pose le basi per una riflessione sulla partecipazione non soltanto alla santità, ma anche alle
azioni di Cristo. Purtroppo, dopo prevalse il concetto di “applicazione dei meriti”, senza entrare a chiarire il
modo in cui questi meriti vengono applicati.
1. Introduzione: Le affermazioni di Trento
- Il sacramento della penitenza è la causa efficace del perdono dei peccati.
- L’assoluzione non ha un carattere semplicemente dichiarativo.
- L’attrizione di per sè non produce la giustificazione fuori del sacramento.
- L’attrizione è sufficiente per accostarsi al sacramento, riceverlo con frutto e ottenere, per mezzo di
esso, il perdono dei peccati.
Evitò di affermare se l’attrizione dispone nel sacramento alla giustificazione in maniera immediata
(posizione scotista) o in maniera mediata, in quanto il penitente, da attrito diventa contrito sotto l’azione
stessa del sacramento (opinione tomista).
2. Contrizionismo e attrizionismo
Dopo Trento si perde di vista la concezione di S. Tommaso. S'impone piuttosto la dottrina scotista
delle due vie per il perdono dei peccati, quella extra-sacramentale con la contrizione, e quella sacramentale
con l’attrizione. In questo contesto, il problema discusso dai teologi era: basta la semplice attrizione non solo
per ricevere il sacramento ma anche per la giustificazione? L’idea di fondo era: non si è riconciliati e quindi,
giustificati senza l’amore per Dio.
Tutti ammettono che:
- Il timore richiesto perché ci sia attrizione è quello che nasce dal pensiero delle pene dell’inferno ed
esclude anche la volontà di peccare. (In quanto l’inferno si considera come la perdita della propria felicità.
Ma l’inferno, rettamente inteso, è perdere Dio).
- È un timore buono che proviene da un amore legittimo di se stessi che ci fa temere ciò che ci
danneggia, senza preferire noi stessi a Dio.
- L’attrizione dev’essere unita alla fede (altrimenti non sarebbe soprannaturale) e alla speranza del
perdono.
- Nessuno nega che l'attrizione dev’essere accompagnata da un certo amore per Dio. Il Concilio, nel
Decreto sulla giustificazione dice, infatti, che tra le condizioni che dispongono il penitente catecumeno alla
giustificazione battesimale, si trova un inizio d’amore per Dio (Sess. VI Cp. 6; DS 1526: Deum tamquam
omnis iustitiae fontem diligere incipiunt). La stessa considerazione si potrebbe applicare alla penitenza
posbattesimale.
Qui sorge una seconda questione: Di che specie dev’essere questo "certo amore"?
1) I cosiddetti "contrizionisti" esigono un certo amore di benevolenza o amicizia, per essere Dio chi è:
bontà infinita.
Questi “contrizionisti” non vanno confusi con i contrizionisti medievali, che esigevano la contrizione come
condizione per recarsi a ricevere il sacramento. Dopo Trento, tutti i teologi ammettono che l'attrizione è
sufficiente per ricevere il sacramento.
Alcuni dicevano che per la giustificazione con il sacramento è sufficiente una carità debole, mentre
per la giustificazione fuori di esso, ci vorrebbe una carità intensa.
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Altri esigevano un amore di Dio per se stesso ma non sopra tutte le cose, che non può separare da
ogni peccato a meno che gli si aggiunga il timore.
Altri parlavano di un amore per Dio non reciproco, cioè, non corrisposto da parte di Dio (il che è
impossibile perché Dio ci precede sempre nell’amore).
2) Gli "attrizionisti" parlano di un amore per Dio di concupiscenza, cioè, un amore di desiderio, con il
quale il penitente considera Dio non come un bene in se stesso, ma come il bene che colma le proprie
aspirazioni.
Secondo alcuni, questo amore dev'essere esplicito, secondo altri, basta che esista in modo virtuale; in
realtà è sempre implicitamente contenuto in un’attrizione sincera che esclude la volontà di peccare con la
speranza del perdono. Perché questa speranza include un certo amore della giustizia e pertanto di Dio in
quanto è l’autore della giustificazione.
Il Papa Alessandro VII intervenne nel 1667 con un decreto per stabilire la pace fra le diverse scuole
(DS 2070). Proibiva loro di censurarsi reciprocamente, sebbene riconosceva che l’opinione degli attrizionisti
era la più comune.
3. Teoria media (S. Tommaso)
Recentemente, tralasciata la dottrina scotista delle due vie, che aveva preso il sopravvento nella
teologia postridentina, si è ricuperata la dottrina di S. Tommaso già esposta.
Può essere considerata una dottrina media, perché ammette con gli attrizionisti che l’attrizione è
sufficiente per ricevere l’assoluzione senza che si esiga previamente un amore di Dio per se stesso e sopra
tutte le cose.
È contrizionista nel senso che esige per la giustificazione dell’uomo nel sacramento la contrizione
ispirata dalla carità. Il peccatore attrito deve diventare contrito. Questo è l’effetto proprio del sacramento,
non che l’attrizione diventi automaticamente contrizione, si tratta di due atti formalmente diversi benché
intimamente uniti, perché il primo dice di per sé ordinazione e tendenza verso il secondo. Non sono però
automatici, senza che intervenga la decisione volontaria e libera del penitente. Sotto l'azione della grazia
abituale trasmessa dal sacramento, l’atto di contrizione perfetta succede all’atto di attrizione e perfeziona il
pentimento dell’uomo, senza che per questo ci sia una coincidenza cronologica necessaria fra il ricevimento
del sacramento e l’atto giustificante di contrizione.
D’altra parte, non si può dire che l’attrizione sia la via più facile per la giustificazione, giacché la
cosa importante in ogni pentimento è che l’uomo si allontani da ogni affezione volontaria al peccato, e
questo si ottiene più facilmente per amore che per timore. Inoltre, non è troppo difficile amare Dio con
amore di benevolenza, quest’amore non dev’essere necessariamente sensibile, né dotato di un’intensità
speciale (una contrizione perfetta non implica necessariamente una carità perfetta, ma soltanto un qualche
grado di carità). È, anzitutto, un atto della volontà. Esso che può coesistere con altri motivi per respingere il
peccato, i quali, essendo più legati alla sensibilità, sono più percettibili dalla coscienza psicologica. Il passo
dall’attrizione alla contrizione, non si presta a una presa di coscienza assolutamente certa (la certezza di
essere giustificati è una certezza morale), in mancanza di criteri psicologici esatti per farne un discernimento.
Il Catechismo, al n. 1453, parla dell'attrizione come «l’inizio di un’evoluzione interiore che sarà portata a
compimento, sotto l'azione della grazia, dall'assoluzione sacramentale». Non adopera la parola “contrizione”,
ma non si vede quale altro possa essere il "compimento" dell'evoluzione interiore del penitente.
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4. Il Vaticano II e la dimensione ecclesiologica della penitenza
Il concilio Vaticano II non dedica un documento concreto allo studio della penitenza, tuttavia ci sono
molti passi che trattano il tema.
1. La dottrina sacramentale del Vaticano II
Nei testi del Concilio Vaticano II, le dimensioni ecclesiale e cultuale della Penitenza sono messe in
rilievo nel loro rapporto di mutua implicazione. Il Vaticano II tratta in diversi documenti i sacramenti e la
vita sacramentale della Chiesa, specialmente in Sacrosantum Concilium, Presbyterorum Ordinis, Christus
Dominus. Ma nella Lumen Gentium (n. 11) ci offre il passo più denso:
Quelli che si accostano al sacramento della penitenza, ricevono dalla misericordia di Dio il perdono delle
offese fatte a Lui; allo stesso tempo, si riconciliano con la Chiesa, alla quale hanno inflitto una ferita col
peccato e che coopera alla loro conversione con la carità, l'esempio e la preghiera.
Questo brano si capisce meglio se posto nel suo contesto, tenendo in conto ciò che lo stesso
paragrafo della Lumen Gentium dice previamente riguardo alla Chiesa in quanto “comunità sacerdotale” e al
posto in essa dei sacramenti, in special modo dell'Eucaristia:
Il carattere sacro e organico della comunità sacerdotale viene attuato per mezzo dei sacramenti e delle virtù. I
fedeli, incorporati nella Chiesa col battesimo, sono destinati al culto della religione cristiana dal carattere
sacramentale; rigenerati quali figli di Dio, sono tenuti a professare pubblicamente la fede ricevuta da Dio
mediante la Chiesa (...) Partecipando al sacrificio eucaristico, fonte e apice di tutta la vita cristiana, offrono a
Dio la vittima divina e se stessi con essa; così tutti, sia con l'offerta che con la santa comunione, compiono la
propria parte nell'azione liturgica, non però in maniera indifferenziata, bensì ciascuno come gli è proprio.
Cibandosi poi del corpo di Cristo nella santa comunione, mostrano concretamente l’unità del popolo di Dio,
che da questo augustissimo sacramento è adeguatamente espressa e mirabilmente effettuata.
Questo passo applica il principio espresso nel decreto Unitatis Redintegratio 11: "Esiste un ordine, o
gerarchia nelle verità della dottrina cattolica, in ragione del loro differente rapporto col fondamento della
fede cristiana". Viene ricuperata così una visione unitaria e sistematica del sistema sacramentale, ove tutti i
sacramenti formano un’unità organica come preparazione o specificazione della grazia primordiale che
irradia il sacrificio eucaristico, “il sacramento dell'unità” dove “si contiene tutto il bene spirituale della
Chiesa, cioè, Cristo in persona, la nostra Pasqua” (PO 5), e in essa “si realizza l’opera della nostra
redenzione” (SC 2). È l’opera di Cristo sacerdote e del suo Corpo mistico che è la Chiesa (SC 7).
Si capisce dunque che, in questa prospettiva unitaria dei sacramenti, il Concilio veda il sacramento
della penitenza in relazione con l’eucaristia. Così facendo, ne viene sottolineato e ricuperato il versante
ecclesiale, in modo che la penitenza non venga ridotta ad una questione privata fra il penitente e Dio, ma
vada vista in tutta la sua ricchezza come un ministero di riconciliazione che riconcilia con Dio e con la
Chiesa (LG 11 y PO 5), fortificando la vita cristiana e spirituale dei battezzati (CD 30 y PO 18). È
particolarmente importante questa riscoperta dell’aspetto ecclesiale, e conviene soffermarcisi per
approfondirne il senso.
Mediante l’Eucaristia, “sacramento dell’unità”, la Chiesa si realizza pienamente come “sacramento
di salvezza”, giacché, «La Chiesa è in Cristo, in qualche modo il sacramento, ossia il segno e lo strumento
dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (LG 1).
La Penitenza è, quindi, cultuale in rapporto all’Eucaristia, ma ha anche un proprio valore cultuale,
come ogni sacramento. Lo vedremo più avanti.
2. La dimensione ecclesiale della penitenza
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Nei primi secoli, come si vede dai riti corrispondenti, la dimensione ecclesiale era vivamente sentita.
Il peccatore era all’inizio visibilmente separato dalla Chiesa, e alla fine, solennemente riconciliato con essa.
La “pace” data dalla Chiesa appariva come la condizione e il mezzo per il quale si otteneva il perdono dei
peccati davanti a Dio.
Questa coscienza si mantenne anche con riguardo all'assoluzione data dal sacerdote nella penitenza
privata, fino al S. XII-XIII. In quest’epoca, ancora si vedeva chiaramente che l’assoluzione sacerdotale
riconciliava con la Chiesa; così è stato riconosciuto da S. Bonaventura58. S. Tommaso, insiste sul fatto che il
penitente giustificato per la contrizione perfetta non deve accostarsi alla comunione finché non sia
riconciliato con la Chiesa per mezzo dell’assoluzione del sacerdote59.
Col passar del tempo, però, va perdendosi la dimensione ecclesiologica della penitenza e la nozione
stessa di riconciliazione con la Chiesa. La Chiesa non si percepisce visibilmente che nella persona del
sacerdote, la quale alle volte viene interpretata dal penitente più come rappresentante esclusivo e diretto di
Dio nel cui nome assolve, che come rappresentante della Chiesa. Ricordiamo che il concilio di Trento indica
soltanto la riconciliazione con Dio come effetto essenziale del sacramento.
Il Vaticano II, come conseguenza di una teologia più approfondita sulla natura della
Chiesa, sembra aver sancito questa dimensione ecclesiale. Il sacramento della penitenza, dice,
“riconcilia con Dio e con la Chiesa” (PO 5) «... allo stesso tempo (simul), si riconciliano con la
Chiesa, alla quale hanno inflitto una ferita col peccato e che coopera alla loro conversione con la
carità, l'esempio e la preghiera» (LG 11).
In questo modo, il Vaticano II non si limita ad indicare un secondo effetto del sacramento della
penitenza, ma ne dà anche la ragione: Il peccato è una offesa a Dio e una ferita fatta alla Chiesa che è santa,
ma con una santità che si concretizza nei suoi membri. Per il peccato mortale, il battezzato, benché continui
ad appartenere alla Chiesa (“di corpo ma non di cuore”, LG 14), ne diventa un “membro morto”, privandosi
della grazia e dell'inabitazione dello Spirito Santo, il quale è l'anima vivificante della Chiesa. Così la Chiesa,
corpo di Cristo, soffre violenza e si vede scemata. Infatti, è ferita la carità, quindi l’unità, quindi il culto60.
3. Riconciliazione con Dio e con La Chiesa: riflessione teologica.
a. La “res et sacramentum” ecclesiale della penitenza (tesi di P. Adnés)
Qual è e come dobbiamo concepire la relazione esistente fra la riconciliazione con Dio e la
riconciliazione con la Chiesa? Il Concilio non affronta l'argomento, ma possiamo inferire il suo pensiero a
partire dalla sua affermazione della Chiesa come sacramento “cioè, segno e strumento dell’unione intima con
Dio” (LG 1). Da questo possiamo forse inferire che l'immediata riconciliazione con la Chiesa è ciò che
richiama (o esige, produce, causa...) l’effetto del perdono dei peccati e della riconciliazione con Dio.
Infatti, in ogni sacramento c’è un aspetto ecclesiale fondamentale che varia secondo il sacramento. Il
modo d’efficacia di ognuno viene dal vincolo che stabilisce con la Chiesa Corpo di Cristo, (LG 11), e quindi,
con l’Eucaristia.
Per esprimere il processo ecclesiologico e sacramentale della penitenza possiamo servirci di uno
schema preso dalla teologia sacramentaria, che distingue tra sacramentum tantum (segno sensibile), res
tantum (la grazia specifica del sacramento) e res et sacramentum (un effetto intermedio, permanente, che
58 «Confessio ad hoc directe instituta est, ut homo reconcilietur Ecclesiae et ostendatur riconciliatione Deo» In IV Sent, dist. 17, P 3,
a 3, q 2. 59 In IV Sent. d 17, q 3, a 3, qc 5; Suppl. Q8, a2, ad3. 60 S. Agostino fa il collegamento tra questi tre termini in De Civ. Dei X, 6.
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causa l’effetto ultimo della grazia speciale del sacramento). Così, per esempio, nel battesimo la res et
sacramentum sarebbe (oltre all’aspetto ontologico della configurazione con Cristo) l’incorporazione alla
Chiesa, invece, nella penitenza sarebbe la riconciliazione del peccatore con la Chiesa.
b. La “paenitentia interior” e la riconciliazione con la Chiesa
Quanto appena detto sulla res et sacramentum pare che sia contrario alla tesi tomista che vede nella
contrizione interna “penitentia interior” l'effetto immediato e intermedio. La riconciliazione con la Chiesa
appare in S. Tommaso come un effetto posteriore al perdono del peccato. Per risolvere la difficoltà e
armonizzare la dottrina tomista con la prospettiva ecclesiologica si potrebbe concepire una res et
sacramentum che comprenda allo stesso tempo la riconciliazione con la Chiesa e la contrizione interna come
due volti dello stesso processo. La riconciliazione con la Chiesa porterebbe con sé l’infusione dello Spirito
Santo che muove il penitente alla contrizione, disposizione ultima per la riconciliazione con Dio.
Forse si può anche affermare, in parte diversamente da S. Tommaso, che la res et sacramentum della
penitenza è soltanto la riconciliazione con la Chiesa, che produrrebbe una res tantum complessa, cioè con
diversi aspetti, che sarebbero, in ordine di priorità: l’infusione della grazia abituale, l’atto di contrizione, il
perdono dei peccati e la giustificazione. Così, rimane il punto centrale della dottrina tomista che la
contrizione è la disposizione ultima (esigitiva o causativa, secondo le diverse teorie) per il perdono del
peccato.
c. Critica alla tesi della riconciliazione con la Chiesa quale “res et sacramentum” della Penitenza
Queste tesi sono comunque delle opinioni di P. Adnès e altri teologi, che non trovano per il momento
una chiara conferma a livello di dottrina comune della Chiesa, almeno per quanto si possa dedurre
dall’insegnamento del Catechismo della Chiesa Cattolica. Al n. 1443, esso pone la reintegrazione nella
Chiesa come un effetto del perdono dei peccati, e non come la causa o l'esigenza. Ciò nonostante, al n. 1445,
interpretando Mt 16,19, sembra porre la comunione con la Chiesa come previa alla comunione con Dio. Nel
n. 1462 però, pone di nuovo il perdono dei peccati come la causa della riconciliazione con la Chiesa e non
come l'effetto. Finalmente, nel n. 1469, citando Giovanni Paolo II (Reconciliatio et paenitentia, 31), afferma
che la riconciliazione con la Chiesa è conseguenza della riconciliazione con Dio. Il problema di fondo
consiste nel definire teologicamente il ruolo della mediazione della Chiesa nel perdono dei peccati, giacché
l'assoluzione data dal confessore è causale e non solo dichiarativa, del perdono dei peccati. La questione in
concreto si pone riguardo al significato - e por tanto all'effetto - immediato dell'assoluzione.
d. Proposta di soluzione
Come via d'uscita del problema, si potrebbe approfondire il significato dell'espressione "allo stesso
tempo", riferita alla riconciliazione con Dio e con la Chiesa, - contenuta nella LG 11, e ripresa dal
Catechismo ai numeri 1422 e 1440 - alla luce della nozione di «sacramento, ossia il segno e lo strumento
dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» applicata alla Chiesa dalla stessa
costituzione conciliare.
Il sacramento della Penitenza, come ogni altro sacramento, è un atto di mediazione della Chiesa tra
l’uomo e Dio. Ma questa mediazione, nel caso della Penitenza, è una riconciliazione con la Chiesa previa a
quella con Dio? Dobbiamo prendere in considerazione che la Chiesa è in Cristo un sacramento, e pertanto,
agisce sempre come sacramento, vale a dire, come segno e realtà dell’azione di Cristo, di Dio. Per cui, anche
se esternamente il segno della Penitenza (sacramentum tantum) si presenta come una riconciliazione con la
Chiesa, l’oggetto di quest’azione non è la Chiesa, ma Dio, che agisce per mezzo di essa. Ma allo stesso
tempo, proprio nel momento di celebrare il sacramento, la Chiesa compie la sua missione di Segno, diventa
pienamente Chiesa, e pertanto, arriva alla sua perfezione sotto l’aspetto del Mistero di Cristo a cui il
sacramento in questione fa riferimento.
Possiamo affermare che proprio nell’azione in cui la Chiesa riconcilia gli uomini con Dio, e proprio
perché fa questo, la Chiesa riconcilia gli uomini con essa stessa. La riconciliazione per mezzo della Chiesa,
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proprio perché causa la riconciliazione con Dio, diventa riconciliazione con la Chiesa. Detto in un altro
modo: la riconciliazione con la Chiesa, che comincia come semplice segno esterno, raggiunge la sua realtà
interna per mezzo della riconciliazione con Dio.
Così come nell'Eucaristia, il segno dell'assemblea radunata raggiunge su pienezza a livello
soprannaturale soltanto nel momento in cui i suoi membri si uniscono a Cristo nel sacramento dell'Eucaristia,
così il peccatore visibilmente riconciliato con la Chiesa, attraverso la riconciliazione con Dio, passa a essere
soprannaturalmente riconciliato con la Chiesa.
Ciò che non sembra pensabile è una riconciliazione con la Chiesa come momento “a sé”, senza una
priorità logica della riconciliazione con Dio.
Con riguardo alla dottrina tomista sulla contrizione perfetta come “res et sacramentum”, dobbiamo
ricordare che pone ancora un problema, giacché la contrizione è anche un atto del penitente, e quindi
rientrerebbe nel concetto di “materia” del sacramento. La penitenza si presenta come un sacramento che si
auto-perfeziona nel suo realizzarsi: sia sotto l’aspetto della contrizione, sia sotto l’aspetto della
riconciliazione con la Chiesa.
4. Ecclesialità della penitenza e necessità del sacramento
La mediazione ecclesiologica ci aiuta a capire meglio la necessità del sacramento della penitenza. Se
l’intervento della Chiesa è necessario, è perché il peccato di un battezzato ha sempre una dimensione
ecclesiale: pecca non come individuo isolato, bensì come membro della Chiesa, il che esige a sua volta una
forma ecclesiale di perdono.
D’altra parte però, è vero che la contrizione perfetta previa all'effettiva ricezione dell'assoluzione
perdona i peccati, ma anche in questo caso possiamo dire che si tratta di una grazia che arriva all’uomo per
mezzo della Chiesa, perché Dio arriva all’uomo in Cristo, ed è nella Chiesa che Cristo s'incontra attualmente
presente e agisce negli uomini. C’è come un flusso invisibile di grazia che promana dalla Chiesa. La grazia
della contrizione è, come tutte le grazie, mediata dalla Chiesa, e per questo tende di per sé a perfezionarsi ed
esplicitarsi nella riconciliazione sacramentale. Perciò, la contrizione perfetta è ordinata essenzialmente al
sacramento della penitenza e ne contiene il “voto” o desiderio, almeno implicito.
5. Comparazione tra la pratica attuale e quella antica
Sebbene possa sembrare il contrario, un'analisi teologica dei fatti ci rivela che tra la pratica antica e
quella attuale esiste una continuità e non si è verificato un cambio sostanziale né nella prassi né nella dottrina
della Chiesa.
Ancora oggi, stando alla teoria di Adnès, l’assoluzione data dal sacerdote si può considerare un gesto
di riconciliazione con la Chiesa, per il quale si conferisce al penitente l’effusione vivificante dello Spirito
Santo, anima della Chiesa, e per mezzo di Lui, la carità che perdona il peccato e dona la riconciliazione con
Dio. Quando il Vaticano II parla di una doppia riconciliazione presuppone che almeno interiormente il
peccatore è inimicato con la Chiesa.
a. Somiglianze sostanziali
Esiste ancor'oggi una separazione parziale dalla comunità imposta ai peccatori gravi: non possono
ricevere la santa comunione. Certamente è un’esclusione che impressiona oggi meno di prima, ma è così
reale che ricade ipso facto su chi commette peccati gravi in virtù di una legge universale della Chiesa61. La
61 Cfr. Conc. di Trento ses. XIII, c. 7 (DS 1647); CIC cn. 916.
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situazione è simile a quella dei penitenti antichi che per ragioni di discrezione, non erano inclusi nell’ordine
dei penitenti. Inoltre, la Chiesa attualmente, non si limita soltanto a un'esercizio di “legare” in maniera
generale e anonima, perché nella stessa confessione il sacerdote può negare l’assoluzione se non c'è un vero
pentimento, il che è un atto ufficiale di rifiuto da parte della Chiesa, che obbliga il penitente a ritornare una
volta convertito. D’altra parte, se il penitente si rifiutasse di realizzare la soddisfazione imposta dal
sacerdote, questi può negare l’assoluzione. Trento vede in questa imposizione della soddisfazione un
esercizio del potere di “legare”.
b. Differenze accidentali
Attualmente si dà più importanza alla confessione e questo atto sembra rappresentare, nella mente
dei fedeli, tutta la realtà del sacramento. Nell'antichità esisteva pure una confessione davanti al Vescovo,
sebbene è vero che veniva considerata un atto preliminare più che un elemento intrinseco del processo
penitenziale. Ma ancora oggi, dal punto di vista dogmatico, il punto centrale è la contrizione. La confessione
è l’atto che permette di esprimere questa contrizione.
Attualmente la soddisfazione è posteriore alla ricezione dell’assoluzione, mentre nell’antichità
normalmente era anteriore. Questa pratica sparì verso l'anno 1000, per ragioni pastorali e pratiche. La pratica
attuale è dovuta, inoltre, a un maggior approfondimento della realtà complessa del peccato. Nulla impedisce
che una volta tornato a Dio, per la contrizione e l’assoluzione, il peccatore ripari le conseguenze del peccato;
infatti, la soddisfazione imposta ha come oggetto riparare queste conseguenze e partecipare al sacrificio
riparatore di Cristo.
La differenza più appariscente risiede nel fatto che la penitenza antica non era reiterabile, mentre la
nostra può essere ripetuta con frequenza.
In realtà la grande differenza fra l’antichità e l’attualità si trova nel grado di solennità della forma
rituale. Più che di penitenza pubblica o privata dovremmo piuttosto parlare di solenne o non solenne. Così si
eviterebbe di pensare che la penitenza privata non abbia una dimensione pubblica ecclesiale. Questo
linguaggio, del resto, non è nuovo; è stato già utilizzato da S. Tommaso62.
6. La Penitenza, atto di culto
"I sacramenti sono ordinati alla santificazione degli uomini, all'edificazione del corpo di Cristo, e
infine a rendere culto a Dio" (SC 59). La Penitenza come gli altri sacramenti, è atto di culto in se stesso. La
penitenza è, infatti, l’unico atto di culto che il peccatore – in peccato mortale - può offrire a Dio, il “cuore
contrito” che Dio non disprezza63. Questo atto di culto è corrisposto dal perdono di Dio, e perciò santifica e
restituisce all'uomo il dono dello Spirito Santo o gli conferisce una maggiore partecipazione a esso.
Inoltre edifica la Chiesa, Corpo di Cristo che, ferita dal peccato del battezzato, ricupera la sua
integrità. Nella confessione l’uomo non è passivo né inattivo, ma esercita il suo sacerdozio comune. Per
mezzo dei suoi atti, il penitente professa "in facie Ecclesiae" la sua fede nella bontà, nella fedeltà e nella
misericordia di Dio. Partecipa all’atto d’amore con cui Cristo si presenta al Padre portando su di sé i peccati
degli uomini.
7. Atto di culto sacramentale in quanto “mistero-memoriale”: memoria presenza e profezia
I sacramenti sono anche mistero, in quanto identificano con Cristo nel suo mistero pasquale di
salvezza, ognuno sotto un aspetto particolare. La penitenza è allo stesso tempo conversione (espressa negli
62 Summa Theol., p. III, q. 84, a 10, ad 2. 63 Cfr. S 50 [51 ms], 19; S 39 [40 ms],7-9; Dn 3,38-39.41.
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atti del penitente) e riconciliazione (operata per mezzo del ministro); per questo possiamo dire che identifica
il fedele con Cristo che accetta la croce per la salvezza degli uomini in un moto di obbedienza e amore - che
è il contrario del peccato, e lo espia sovrabbondantemente - al quale risponde il Padre riconciliando gli
uomini con se stesso. "È stato Dio, infatti, a riconciliare a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini
le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione" (2Cor 5,19). La conversione, attuata dalla parte
di Cristo, la riconciliazione dalla parte del Padre64.
Se il Battesimo mette in primo piano la nascita a una vita nuova, la penitenza mette in primo piano
l'accettazione della croce che ripara il peccato, e l'amore misericordioso di Dio che perdona. Così la
penitenza è memoria del mistero della Redenzione e presenza di esso nella vita concreta del fedele e della
Chiesa. I sacramenti sono anche profezia per la loro dimensione escatologica. Il sacramento della penitenza è
certamente un’anticipazione dell'ultimo giudizio, essendo giudizio di misericordia che libera dal giudizio di
condanna. Il giudizio di Dio in questa vita è sempre un giudizio che pretende non di condannare, ma di
convertire e salvare. Dio non è soltanto il Giudice ma anche il Salvatore.
«La dimensione divina della Redenzione - dice Giovanni Paolo II - non agisce soltanto facendo
giustizia del peccato, bensì restituendo all'amore la sua forza creatrice nell'intimo dell'uomo, grazie alla quale
egli ritrova l'accesso alla pienezza della vita e della santità, che viene da Dio. In questo modo, la Redenzione
comporta la rivelazione della misericordia nella sua pienezza»65 La misericordia è l'amore che si rivela più
forte del male. Si ricordo che secondo S. Paolo, la riconciliazione sarebbe «ridare la comunione» o «far
prevalere l'amore» ( 2Cor 2,8).
8. Conclusione: Per una catechesi rinnovata
La dimensione ecclesiale del sacramento della Penitenza si deve porre in risalto nella catechesi quale
elemento importante che è. Il Concilio Vaticano II dice: «S’imprima nell’animo dei fedeli, insieme con le
conseguenze sociali del peccato, quel aspetto proprio della Penitenza che detesta il peccato in quanto è offesa
di Dio; né si dimentichi la parte della Chiesa nell'azione penitenziale, e si solleciti la preghiera per i
peccatori» (SC 109).
Tutta la Chiesa coopera alla conversione del peccatore, il quale non si trova abbandonato a se stesso
nel suo difficile itinerario di ritorno a Dio. Per questo il sacerdote quando amministra il sacramento della
Penitenza agisce non soltanto "in persona Christi" ma anche "in persona Ecclesiae". Per mezzo di lui, la
Chiesa intera perdona e riconcilia, come nel Battesimo è la Madre Chiesa che genera alla fede. Allo stesso
tempo, il penitente, identificando nel sacramento la sua penitenza con la penitenza realizzata da Cristo “pro
nobis” sulla croce, realizza un vero atto di culto a Dio e si reintegra nella pienezza del culto ecclesiale.
Sembra che oggi in alcune regioni o ambienti il sacramento della Penitenza stia attraversando un'epoca
di freddezza da parte dei fedeli, ma non dobbiamo dimenticare che è il sacramento del cristiano peccatore, e
non è mai stato facile riceverlo e amministrarlo. La sua celebrazione è una professione di fede nella
misericordia di Dio. La sua grazia ci dà le forze che ci mancano, ma non esclude il nostro sforzo. Non è
diminuendo le sue esigenze che aumenteremo la sua pratica, ma mostrando la sua ricchezza.
64 Cfr. Giovanni Paolo II, Catechesi del 15 aprile 92: La Penitenza nella Chiesa, comunità sacerdotale e sacramentale. 65 Dives in misericordia, n. 7
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5. La confessione dei peccati veniali
I teologi moderni di solito chiamano “confessione di devozione”66 l'abitudine di sottomettere al
sacramento della penitenza i peccati veniali. Con più esattezza, si tratterebbe della confessione di chi non ha
che peccati veniali. Era una pratica sconosciuta nella Chiesa antica, ma che sorge nel Medio Evo con
l'introduzione della penitenza privata. Dopo Trento riceve grande importanza ed è diventata uno dei fattori
fondamentali della vita cristiana e spirituale. Essa ci pone un problema teologico che cercheremo adesso di
approfondire.
1. La nozione di peccato veniale
La distinzione tra peccato mortale e peccato veniale è molto antica e la incontriamo già al tempo di
Tertulliano, Origene, Cipriano ecc., i quali vedevano nel peccato mortale un’azione così tanto contraria alla
santità cristiana da farci perdere lo Spirito Santo infuso nel Battesimo. Recuperarlo allora implicherebbe una
specie di secondo battesimo: lungo, faticoso e oneroso. Il peccato veniale, invece, pur essendo un'azione
moralmente indegna, è meno grave, dato che non ci priva della presenza dello Spirito Santo e per la sua
espiazione basta la penitenza quotidiana.
Questa visione, fondata sugli effetti, è stata posteriormente approfondita da Sant’Agostino. L’uomo è
rivolto a Dio con tutto il dinamismo profondo del suo essere. Il peccato mortale appare come un movimento
disordinato verso la creatura e un rifiuto del Creatore, e in questa inversione di amore consiste la gravità del
peccato mortale. Uccide la carità che è la vita dell’anima. Il peccato veniale invece, sebbene porti un
disordine verso la creatura, non allontana l’uomo da Dio. Questo bene disordinato non è tale da includere
oggettivamente un’opzione tra Dio e la creatura. La sua materia è lieve e in genere si deve alla trascuratezza
o debolezza umana. L’uomo non gira le spalle a Dio, ma non pone tanta carità come dovrebbe.
San Tommaso si inspira ad Agostino e vede la differenza tra peccato mortale e veniale nel rispettivo
rapportarsi alla carità, che indirizza l’uomo al suo ultimo fine. Il peccato mortale attacca direttamente la
carità, sia verso Dio, sia verso il prossimo67. Il peccato veniale invece non distrugge la carità ma ne
impedisce l'attuazione68, da cui deduce che “tutto quanto sia adatto per ravvivare la carità può anche causare
il perdono dei peccati veniali”69, e nella Chiesa ci sono molte cose che possono stimolare il fervore della
carità.
2. Diversi mezzi per il perdono dei peccati veniali
- Tutti i sacramenti producono un aumento ex opere operato della grazia abituale, e pertanto anche
della carità che cancella i peccati veniali. Tra i sacramenti svetta l’Eucaristia, che è, secondo Trento,
“l’antidoto che ci libera dalle nostre mancanze quotidiane e ci preserva dai peccati mortali” (DS 1638).
- Ugualmente i sacramentali, che, ricevuti con fede, possono ottenere grazie attuali di carità o di
contrizione (per es. le ceneri all'inizio della Quaresima, le preghiere del perdono inserite nella liturgia della
Chiesa...).
- Ma possono anche essere perdonati nel sacramento della penitenza.
66 Sebbene non si tratti di un atto meramente devozionale, bensì liturgico e sacramentale. 67 Cfr. S. Tommaso d’A., Summa Theol. I-II q88 a2. 68 Cfr. S. Tommaso d’A., De Malo, q 7 a 11. 69 Cfr. S. Tommaso d’A., De Malo, q 7 a 12; Summa Theol. III, q 87 a3.
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3. Il sacramento della penitenza e il perdono dei peccati veniali
Evidentemente, il sacramento della penitenza non è stato istituito con la finalità precisa di
perdonare i peccati veniali, ma principalmente per i peccati mortali. Tuttavia, i peccati veniali
partecipano, in modo analogo, alla nozione di peccato. Comportano una certa conversione alla
creatura e un rifiuto di Dio: per questa ragione il sacramento della penitenza deve potersi estendere
(sebbene secondariamente) anche ad essi.
Questa dottrina comune è stata riproposta dal Concilio di Trento (DS 1680). È utile, anche
raccomandabile, ma non necessario, dire nella confessione i peccati veniali. Quando si confessano solo
peccati veniali, non è necessario dirli tutti, ma soltanto quelli che si considerano più importanti.
4. Utilità della confessione dei peccati veniali
La Chiesa attualmente attribuisce molta importanza non solo alla confessione dei peccati veniali, ma
anche alla confessione frequente. Già Pio XII nella sua enciclica Mystici Corporis la difende, e ugualmente il
Concilio Vaticano II la raccomanda, rivolgendosi ai sacerdoti: «preparata con l’esame quotidiano di
coscienza, favorisce grandemente la necessaria conversione del cuore al Padre della misericordia» (PO 18).
Quali sono le ragioni di questa utilità? Possiamo menzionarne due fondamentali:
- Il suo valore per la vita spirituale: è un eccellente modo di esaminarsi e conoscersi e un'occasione per
aprire la coscienza a un uomo di Dio, i cui consigli appropriati possiamo ricevere.
- La seconda ragione si basa sugli effetti sacramentali che produce: aumenta la grazia santificante,
fortifica le virtù infuse, ravviva la carità. Risalta soprattutto il suo valore medicinale: per curare i “resti”
(cattive abitudini o inclinazioni) che lascia il peccato veniale.
5. Ragioni ultime di questa utilità
Partendo dalla economia sacramentale in se stessa e dal carattere specifico del sacramento della
penitenza in questa economia, possiamo comprendere meglio l'utilità di questa pratica.
- Visione misterica – economica:
L'uomo, spirito e carne, si sviluppa nel tempo e nello spazio. Ha bisogno di esprimere i suoi
sentimenti e pensieri, che altrimenti rimarrebbero in stato germinale. Dio, per comunicarsi con l’uomo ha
preso la via dell'incarnazione e della storia. In Cristo, questa comunicazione è diventata visibile in un luogo e
tempo determinati. E questa comunicazione si è ulteriormente concentrata nei sacramenti. Il sacramento della
penitenza si colloca in questa economia salvifica, alla quale l’uomo è sottomesso per la sua natura e alla
quale Dio si è adattato per grazia.
- Visione antropologica:
La confessione dà al pentimento interiore, anche dei peccati veniali, una forma concreta visibile e
udibile; aumenta così la coscienza del pentimento e lo porta al suo pieno sviluppo. Ugualmente il perdono di
Dio diventa sensibile nella parola di assoluzione, evitando così ogni illusione circa il potere dei propri
sentimenti, e si prende coscienza che il perdono è sempre un dono divino.
- Visione sacramentale (l’argomento di convenienza):
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Esistono certamente altri mezzi per perdonare il peccato veniale (specialmente l'Eucaristia) ma essi
possiedono un'altra finalità principale, mentre il sacramento della penitenza è ordinato al perdono dei peccati
e a simboleggiare e realizzare l'incontro dell'uomo pentito con Dio che perdona. Questa esperienza, che si
ripete più volte, s'imprime nell'atteggiamento spirituale del soggetto, sviluppando il senso del peccato e della
dipendenza da Dio nell'ordine della santità e della giustizia.
Questo argomento è il più concludente per la difesa della convenienza della penitenza per il perdono
dei peccati veniali. Tutti gli altri mezzi possono aumentare la grazia e la carità, ma soltanto la penitenza è un
mezzo strutturalmente pensato da Dio per combattere il peccato.
- Visone sociale – ecclesiale:
Inoltre, la grazia della penitenza si adatta al carattere socio-ecclesiale dell'uomo e del peccato. Il
peccato veniale possiede un aspetto ecclesiologico. Certamente, il peccatore veniale non si stacca dalla vita
intima della Chiesa, ma forma “macchie e rughe” (Ef 5,27), impedendo che la carità si sviluppi liberamente
in lui, e attraverso di lui, in tutto il corpo ecclesiale. Intiepidisce la santità della Chiesa. Questa riparazione
del danno comunitario acquista la sua forma più espressiva quando il peccato veniale è perdonato da un
ministro che assolve nel nome di Dio e della Chiesa. Così persiste in modo analogo la dimensione
ecclesiologica di riconciliazione con la Chiesa. Non si tratta ancora di acquistare una nuova partecipazione
dello Spirito Santo, ma d'intensificarla e di approfondirla.
6. Frequenza di questa confessione
Non si può teologicamente determinare la frequenza della confessione dei peccati veniali. Il Codice
di Diritto Canonico del 1917 la prescriveva per i religiosi e seminaristi settimanalmente (n. 1367), l'attuale
invece, dice soltanto “con frequenza” (n.246 §4). Per i laici, dipende dalla situazione di ogni fedele, ma non
si deve sottovalutare questa pratica, o sostituirla con mezzi che offrono meno garanzie.
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6. L'amministrazione del sacramento della penitenza nel contesto attuale 1. La confessione generica dei moribondi.
a. Confessione generica
È quella in cui non si confessa nessun peccato in particolare, e il sacerdote sa soltanto che
il penitente ha peccato e che, contrito, sollecita l'assoluzione, ma senza poter esprimere nessun
peccato specifico. Questo caso si dà soprattutto nei moribondi.
b. Problema
Trento dice che il sacerdote non può esercitare la sua azione giudiziale se il penitente gli fa
conoscere i suoi peccati soltanto in genere, senza manifestarli in specie e in concreto (DS 1679). Ma questa
integrità della confessione non è necessariamente materiale (di tutti i peccati mortale che di fatto ha
commesso), ma formale, cioè, dei peccati gravi che ricordi dopo un esame serio, e “gli altri peccati che non
si offrono alla memoria di chi ha fatto un esame serio, si considera che sono compresi, in genere, dentro
questa confessione” (DS 1682). Non contempla il caso in cui tutta la confessione sia generica, ma pone le
basi per accettare questo caso.
c. Opinioni
Dopo Trento, questo caso è stato oggetto di controversia tra i teologi. Cano e Soto negano la validità
dell'assoluzione generica. Suárez e Vázquez l'ammettono trattandosi di una sentenza di grazia e perdono, che
può conferirsi in casi straordinari anche con imperfetta cognizione di causa. Non si tratta, quindi, del caso di
un tribunale civile che deve fare giustizia di fronte a un delitto. Il Rituale Romano di Paolo V (1614)
prescriveva l'assoluzione per la confessione generica del penitente moribondo. Nei nostri giorni, partendo
dalla distinzione tridentina tra confessione materiale e formalmente integra, si ammette universalmente che
la confessione generica è formalmente integra nella misura in cui il penitente faccia tutto quello che è capace
di fare per manifestare che vuole sottomettersi al potere che la Chiesa ha di perdonare i peccati. Se è
formalmente integra, l'assoluzione è valida.
d. L'assoluzione sacramentale non è giuridica in senso moderno
Oggi il giudice è orientato ad assicurare l’ordine pubblico, non dispensa benefici. Il giudice nei
tempi del Concilio di Trento poteva dispensare un beneficio, una grazia, un favore. L’assoluzione dispensa il
beneficio della grazia di Dio, che perdona i peccati. Per questo Trento afferma che è come una azione
giudiziale (DS 1685). Il sacerdote-giudice dispensa il beneficio a quelli che considera compiono le
condizioni richieste. Nel caso del moribondo, non è il momento di formulare esigenze, né di imporre
soddisfazione, né di dare consigli come in una situazione normale; perciò basta trovare in lui un minimo di
volontà e di pentimento, perché il sacerdote possa dare l'assoluzione, dispensando il beneficio della grazia
divina a causa delle circostanze eccezionali ma sufficienti.
L'assoluzione a un infermo incapace di confessarsi non manca di antecedenti patristici. S. Leone
Magno prescrive la riconciliazione e la comunione anche ai malati che, carenti di voce, le richiedono. E
prescrive anche di concederla persino a quelli che non possono chiederla in alcun modo, in base ai testimoni
che ne hanno conosciuto il desiderio di riceverle (DS 310).
2. L’assoluzione generale o collettiva
Bisogna stare attenti a non identificare confessione generica e assoluzione generale.
L’assoluzione generale o collettiva implica la confessione generica dei penitenti, ma come abbiamo
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visto, la confessione generica può essere seguita da assoluzione individuale, nel caso dei
moribondi. Inoltre la confessione generica è anteriore nella storia all'assoluzione collettiva o
generale.
a. Quadro storico
Nell’antichità non troviamo memoria di questa pratica. I dati che sono stati proposti come i suoi
possibili indizi sono molto discutibili, come vedremo:
Nel secolo XI, il vescovo concedeva in casi speciali una assoluzione collettiva dopo una confessione
generica dei peccati; ma è molto difficile determinarne il senso esatto perché in quel tempo si considerava
che il sacerdote non perdonava i peccati, ma dichiarava solo che erano perdonati. Alcuni autori pensano che
queste assoluzioni erano remissioni di pene temporali ecclesiastiche, ma altri le considerano un certo
perdono dei peccati. In ogni modo, queste assoluzioni suscitarono forti reazioni da parte dei teologi. A partire
dal secolo XIII queste «assoluzioni» sono soltanto una benedizione accompagnata da indulgenze (come
oggigiorno la benedizione Urbi et Orbi del Papa). In Oriente, le preghiere penitenziali liturgiche, staccate dal
loro contesto, sono servite a volte per costituire il rito della confessione individuale. È difficile affermare che
nel loro uso liturgico avessero valore sacramentale. Attualmente non gli viene attribuito questo valore.
In realtà, l’assoluzione collettiva sacramentale cominciò a usarsi nelle due guerre mondiali. Nel 1915
e nel 1944 la Sacra Penitenzieria permette di assolvere collettivamente in caso di pericolo di morte quando il
sacerdote non può udire in confessione ognuno dei fedeli (DS 3833). Permette anche di assolvere
collettivamente in caso di affluenza straordinaria di penitenti, se esiste una necessità grave e urgente. Ma i
fedeli che hanno ricevuto l'assoluzione restano obbligati a una confessione individuale posteriore se è
possibile. Dopo la guerra, questa disposizione è stata praticata, con permesso dell'Ordinario del luogo, in
certe regioni dove mancano i sacerdoti.
b. Le “Norme pastorali per l'amministrazione dell’assoluzione sacramentale generale”
È un documento pubblicato dalla Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede il 16 giugno del
197270. Non cambia essenzialmente ciò che affermava la Sacra Penitenzieria nel documento del 1944. Si
ricordano il carattere straordinario dell’assoluzione sacramentale collettiva e la sua liceità soltanto in caso di
grave necessità, cioè, se:
a) c’è penuria di confessori;
b) c’è grande numero di penitenti;
c) i quali possono rimanere, senza colpa da parte loro, lungo tempo senza la grazia del sacramento.
Non si afferma che fuori da queste circostanze sia invalida, ma è un grave abuso. Spetta al giudizio
dell'Ordinario del luogo, dopo averlo discusso con i membri della Conferenza Episcopale, determinare le
circostanze concrete nelle quali si producono queste condizioni nella sua diocesi. Fuori da queste circostanze
concrete, il sacerdote è tenuto a ricorrere previamente all'Ordinario, (e se ciò non è possibile, dopo, al più
presto possibile dopo), per poter dare lecitamente questa assoluzione.
C’è anche una condizione per i penitenti: i fedeli che sarebbero stati assolti collettivamente da
peccati gravi, per la validità di questa assoluzione, devono confessarli auricularmente entro un anno o prima
di ricevere di nuovo questo tipo di assoluzione, salvo il caso d'impossibilità71.
70 Norme pastorali circa l’assoluzione sacramentale generale – Sacramentum paenitentiae. 71 Queste norme sono state riprese dai nn. 961-963 del CDC. Nel n. 961 §1 si mette in rilievo che se la causa della penuria di
confessori è soltanto la grande concorrenza di penitenti, non si può considerare un caso di sufficiente necessità per l'assoluzione
collettiva. Nel 962 §2, si chiede che i fedeli, per quanto è possibile, vengano esortarti a fare il proposito di confessare a tempo debito
i singoli peccati gravi, che al momento non possono confessare, e a porre l'atto di contrizione. Il Motu proprio Misericordia Dei di
Giovanni Paolo II (2 maggio 2002) spiega ancora più in dettaglio le condizioni. Per esempio, il “lungo tempo” che i fedeli
rimarrebbero senza il sacramento dovrebbe essere superiore a un mese.
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c. L’obbligo di una confessione individuale ulteriore
Perché questo obbligo, se il penitente è già veramente assolto dai suoi peccati?
1) Per ragioni pastorali
Per far maturare il movimento di conversione, per indicare la riparazione di eventuali ingiustizie
commesse e per prendere i mezzi efficaci per combattere una cattiva abitudine. Ma l’utilità pastorale della
confessione auricolare dopo un’assoluzione collettiva non ne giustifica totalmente l'obbligo universale e che
sia considerata condizione di validità.
2) Per la natura della confessione
La confessione specifica e integra è di diritto divino perché Cristo ha voluto l’accusa distinta dei
peccati del penitente come condizione essenziale all'amministrazione del sacramento. Un motivo di grave
necessità può sospendere l'obbligo di diritto divino inerente alla ricezione del sacramento; ma non lo
sopprime, e quando cessa l'impossibilità, il penitente è obbligato a completare il sacramento.
D’altra parte, l’abuso dell’assoluzione collettiva può provocare una lenta depersonalizzazione del
sacramento, perché non si dirige più personalmente al penitente.
Nemmeno può affermarsi, come norma generale, che la confessione individuale si può posporre
all’assoluzione, argomentando che nel passato si posponeva la soddisfazione all’assoluzione, e che pertanto è
lecito cambiare l’ordine dei componenti del sacramento. Nel caso della soddisfazione, il suo effetto
particolare (guarire le conseguenze del peccato, che ordinariamente rimangono, anche se la colpa è
perdonata), spiega perché può compiersi dopo l’assoluzione (DS 1679) giacché viene a completarla; al
contrario, la confessione è indirizzata e specificamente ordinata all’assoluzione.
3. Le celebrazioni penitenziali comunitarie
Apparvero in Belgio tra il 1947-1948. Ci fanno pensare alla liturgia penitenziale di Gc 5,16 e forse di
1Gv 1,9. Nell’epoca patristica non c'erano cerimonie analoghe. Nella penitenza canonica pubblica la
comunità prendeva parte all’espiazione dei penitenti mediante la sua preghiera, ma non era la comunità come
tale che si poneva in un stato di penitenza per accusarsi e chiedere perdono per i peccati dei suoi membri.
Queste celebrazioni hanno dato frutti pastorali evidenti. Il documento della Sacra Congregazione per
la Dottrina della Fede di 16 giugno di 1972 ne afferma il valore positivo, ma sottolinea la distinzione tra i riti
comunitari di penitenza e il sacramento della penitenza in senso proprio: questo richiede la confessione e
assoluzione individuali, che, senz'altro, possono essere inserite come parte di una celebrazione penitenziale
comunitaria.
4. Il nuovo “Ordo Paenitentiae”
Il Rituale della Penitenza pubblicato nel 1973 distingue tre tipi di celebrazione della riconciliazione:
1) Individuale: Il rito per la riconciliazione individuale dei penitenti;
2) Comunitaria: Il rito per la riconciliazione di molti penitenti, con la confessione e
l’assoluzione individuali, che si inseriscono all'interno di una celebrazione comunitaria;
3) Generale: Il rito per la riconciliazione di molti penitenti, con l’assoluzione generale, senza
confessione individuale previa, secondo le Norme Pastorali già esposte.
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Tutt'e tre cominciano con l’accoglienza del penitente (o dei penitenti), dopo viene la lettura della
Parola di Dio (che tuttavia può essere abbreviata o omessa, soprattutto nel rito individuale), la riconciliazione
sacramentale, l’atto di ringraziamento e il congedo del/dei penitente/i.
L'assoluzione sacramentale è preceduta da una preghiera deprecativa di carattere trinitario, che
chiede per il penitente la riconciliazione che proviene dal Padre, è opera di Cristo con la sua passione e
risurrezione, ed è comunicata dallo Spirito Santo. La formula di assoluzione necessaria per la validità del
sacramento, che risale al secolo XII, è indicativa, anch'essa è di carattere trinitario, ed è formata da un
intreccio di testi biblici “Io ti assolvo” (Mt 16,19 e 18,18); “Dai tuoi peccati” (Gv 20,23). “Nel nome del
Padre e del Figlio e dello Spirito Santo” (Mt 28,19).
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7. Significato della soddisfazione
Oggigiorno il processo penitenziale termina con la soddisfazione. Cercheremo adesso di chiarire il
suo senso.
La penitenza imposta dal confessore è ordinata a cancellare gli effetti naturali del peccato. Il termine
tecnico soddisfazione è molto antico, si incontra già in Tertulliano e in san Cipriano.
1. Ciò che rimane del peccato perdonato
Il peccato non scompare senza lasciare tracce. Benché perdonato, ne rimangono due classi di effetti:
a. Disposizioni fisico—psicologiche (reliquie del peccato)
L’azione stessa del peccato produce disposizioni fisico—psicologiche che ne costituiscono il segno
ontologico, la impronta nella natura psicosomatica dell'uomo che non ha risposto alle attese di Dio. Si
sperimentano come inclinazioni esagerate alle creature oggetto del peccato, o come l’inizio di cattive
abitudini. Sono la sopravvivenza parziale di un disordine che attualmente non è volontario, ma lo è stato
anteriormente. Produce uno stato di relativa divisione che ostacola l’armonica integrazione delle diverse
potenze dell’uomo e la sua piena maturazione spirituale72. Trento (cfr. DS 1680) le chiama “reliquie del
peccato”.
b. La pena temporale
C’è una pena dovuta al peccato commesso che si può espiare in forma finita, limitata, temporale. Il
Concilio di Trento parla di essa in numerose occasioni. La persistenza di questa pena dopo la morte spiega
l’esistenza del purgatorio (cfr. DS 1580).
2. Natura della pena temporale
Il Magistero non si è pronunciato sulla natura della pena temporale. I teologi ne danno varie
spiegazioni:
a) Nella volontà di Dio
- Scoto: Dio commuta in pena temporale la pena eterna dell'inferno dovuta al peccato mortale
perdonato.
- Suárez: Dio, da tutta l’eternità, ha stabilito d'infliggere una pena eterna nel caso in cui il peccato non
fosse stato perdonato, e una pena temporale in caso contrario.
b) Nella conversione disordinata al bene creato
Posizione tomista73. Le conseguenze del disordine provocato dall'aver aderito eccessivamente a un
bene perituro, persistono dopo il perdono della colpa. Scompare l’elemento formale del peccato (l’avversione
a Dio), ma ne rimane l’elemento materiale (la conversione alla creatura). Potrebbe darsi che il pentimento
fosse tanto forte da realizzare la ritrattazione dell'attaccamento alla creatura, ma non è la cosa più normale.
C’è da dire, tuttavia, che questo attaccamento persistente, si deve intendere come involontario, altrimenti non
72 Cfr. S. Tommaso, Sum. Theol. III q. 86 a. 5. 73 Cfr. Sum. Theol. III, q. 86 a. 4 ad 1um; cfr. anche q. 84 a. 1 ad 1um; I-II, q. 87 a. 4; I-II, q. 76 a. 6; I-II, q. 111 a. 6.
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si capisce come può essere sparita l’avversione a Dio, causata appunto dall'attaccamento eccessivo alla
creatura.
1) Alcuni tomisti interpretano la persistenza dell'attaccamento in senso oggettivista
Affermano che dopo il peccato persiste una perturbazione dell'ordine provvidenziale della
creazione. Cioè, per ristabilire un vincolo intrinseco tra pena e peccato ed evitare di concepire la pena
temporale come una punizione positiva inflitta estrinsecamente da Dio, ci sono dei tomisti che intendono la
pena temporale come effetto di una legge di riequilibro dell’universo: l’ordine voluto da Dio è stato violato
dal peccato e richiede una ripristinazione.
Il peccato (mortale) comporta una doppia pena frutto di una sola colpa, che causa però un doppio
disordine. Pena di danno (infinita): rifiutando Dio l’uomo si priva del suo Bene supremo, l'unico capace di
colmare il suo cuore. Pena di senso (finita): la preferenza per il bene creato viola l’ordine provvidenziale e la
stessa natura sensibile. Questo disordine, che è sul piano temporale, terreno, provoca uno squilibrio
nell'intimo del peccatore, accompagnato da uno stato di disaccordo fondamentale e di antagonismo con
l’universo.
La pena di senso è la sofferenza causata dalla reazione della natura contro il danno che le è stato
inflitto. La morte rende eterna la colpa del peccato mortale non perdonato nella sua doppia pena: di danno e
di senso. Con il perdono, il peccatore si libera dalla pena di danno, ma persiste la pena di senso, non più
infinita, ma nella sua dimensione temporale, giacché, di per sé, l'ordine temporale non viene riparato dal
perdono. Questa pena è riparabile ed espiabile mediante la libera e amorosa compensazione del disordine. Se
rimane dopo la morte, sarebbe oggetto di purificazione passiva nel purgatorio.
2) Altri (per es. K. Rahner), propongono una spiegazione in senso personalista.
Considerano la pena temporale come un effetto della legge d'incarnazione propria dell’uomo, spirito
in un corpo con il quale costituisce un tutto indivisibile. Ma nell’uomo concreto, il centro originario della
persona libera non coincide con tutte le sfere psicologiche e somatiche che lo circondano. Le decisioni che
l’uomo trae fuori da questo centro non si impongono o si prolungano necessariamente a tutti i livelli del suo
essere.
Per questo la conversione a Dio non implica necessariamente l'immediata armonizzazione di tutte le
dimensioni psicologiche e anche fisiche verso Dio. Persino quando l’adesione a Dio è così tanto piena da
riuscire a integrarne la maggior parte, resta ancora un lungo cammino per superare le resistenze opposte dalla
natura, fino a penetrare tutte le dimensioni dell'esistenza. Queste resistenze possono provenire da
disposizioni innate o acquisite senza colpa, ma provengono anche dal peccato commesso. In questo ultimo
senso, lo sforzo per liberarci da questo passato è la conseguenza e il castigo del nostro peccato.
C’è nella conversione una opzione fondamentale, radicale, a favore di Dio nell’amore che crede e
spera. Questo amore per Dio sopra tutte le cose, giustifica l’uomo immediatamente, ma da qui ad amare Dio
“con tutto il cuore e con tutte le forze” media un arduo processo di maturazione nella quale si vanno
integrando lentamente e dolorosamente tutte le dimensioni della persona nella sua decisione fondamentale.
3. Relazione tra reliquie del peccato e pena temporale
Sulla base delle nostre riflessioni, possiamo affermare che i resti del peccato e la pena
temporale hanno una connessione intima. Le reliquie del peccato (la debolezza morale, la
propensione involontaria al bene temporale, ecc.), colpiscono tanto dolorosamente la persona
sinceramente convertita, che hanno valore di pena. Questa sarebbe l’essenza e la realtà della
pena temporale del peccato: la sofferenza per superare i resti del peccato. La sua espiazione
suppone la perfetta riconciliazione dell’uomo con se stesso, con gli altri e con la creazione.
Penitenza e Unzione degli Infermi 2012-2013 - 98
Una contrizione molto intensa può cancellare allo stesso tempo la colpa, la pena temporale e i resti
del peccato. Ma normalmente i resti del peccato si curano lentamente, con sforzo e sofferenza, sviluppando
le virtù per mezzo di opere buone, che vanno ricostruendo l’uomo, moralmente e psicologicamente, in tutti i
suoi livelli.
La misericordia di Dio, però, può perdonare la pena temporale pur rimanendo le reliquie del peccato.
Nei casi del battesimo e dell’indulgenza plenaria, può essere cancellata la pena temporale, rimanendo però le
reliquie del peccato (fomes peccati), anche se indebolite.
Il Purgatorio sarebbe lo stato delle anime che soffrono, passivamente ma amorosamente, la
purificazione dei resti del peccato. Tendenti ormai alla visione beatifica di Dio, ne sperimentano il ritardo,
causato da questi resti, come un immenso dolore giustamente meritato. Qui è tutto opera della grazia di Dio,
per cui Dio può abbreviare o eliminare questo stato con la sua grazia; così accade per mezzo delle indulgenze
o altri suffragi applicati ai defunti74.
Il Concilio di Trento afferma che la soddisfazione sacramentale serve allo stesso tempo per
l’espiazione della pena temporale e come medicina per le conseguenze del peccato (cfr. DS 1689-1692).
Giacché queste azione virtuose – in quanto costose per la natura umana peccatrice, perché la costringono ad
alzarsi – costituiscono un giusto castigo per il peccato. Fa quindi il collegamento tra la guarigione della
natura umana e la giustizia vendicativa: l’unica “vendetta” verso il peccatore è la promozione della sua
santità.
Il Catechismo della Chiesa Cattolica, al n. 1459, nel riprendere le affermazioni di Trento ( DS
1690.4) pone l’accento sulla dimensione sacramentale della soddisfazione: “Tali soddisfazioni ci aiutano a
configurarci con Cristo, che, solo, ha espiato per i nostri peccati di una volta per tutte. Esse ci permettono di
diventare i coeredi di Cristo risorto, dal momento che partecipiamo alle sue sofferenze” (cfr. Rm 8,17)75.
La convinzione degli antichi che la conversione perfetta era un processo lento spiega la durata tanto
lunga della penitenza antica. Questa visione tiene conto della dimensione incarnata e storica dell’uomo.
Oggigiorno dovrebbe valorizzarsi di più la soddisfazione, imponendo atti concreti di virtù contrari ai peccati
confessati. Comunque l'efficacia della soddisfazione sacramentale si misura principalmente dalle
disposizioni interiori con le quali si realizza. La fede e l’amore di Dio è ciò che soprattutto conta. Inoltre non
è unicamente la soddisfazione sacramentale a cancellare le conseguenze del peccato. Le opere di penitenza
che il cristiano s'impone da solo, così come le sofferenze e le prove offerte in stato di grazia con l’intenzione
di riparare i peccati, producono un risultato analogo (cfr. DS 1693). La pratica della penitenza,
mortificazione e opere buone deve prolungarsi per tutta la vita76.
74 Benedetto XVI nell’enciclica Spe Salvi, al n. 47, accenna a un’interessante interpretazione cristologica del Purgatorio. 75 Cfr. anche nn. 1472-1473. 76 Cfr. anche Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 1434-1438.
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8. Le indulgenze
Le indulgenze costituiscono un aiuto per completare la soddisfazione dei peccati già
perdonati.
Oggi si costata una certa disaffezione riguardo a questa pratica, forse perché non è ben compresa.
1. Panorama storico
Le indulgenze sorsero organicamente dall’evoluzione della disciplina ecclesiale sulla penitenza.
a. Preparazione
1) Penitenza pubblica: sec. VI e VII
La riconciliazione del penitente avviene dopo aver compiuto una penitenza lunga e faticosa. La
penitenza ha per finalità l'espiazione piena del peccato in se stesso e nelle sue conseguenze, per purificare
totalmente l'anima. Non si distingue ancora bene fra la colpa del peccato e la pena dovuta per il peccato, di
fronte a Dio. Il penitente si trova sostenuto dalle preghiere di tutta la Chiesa. I sacerdoti fanno preghiere
liturgiche (“supplicazioni”) su di lui. Le intercessioni dei sopravvissuti al martirio possono provocare il
perdono d’una parte della penitenza.
2) Penitenza privata: dal sec. VII al XI
La riconciliazione si sposta dopo la confessione e prima del compimento della penitenza. Questo
cambiamento aiuta a distinguere fra la colpa, che si perdona nella riconciliazione, e la pena. Essendo già
perdonata la colpa del peccato, la penitenza ha soltanto il compito di cancellare la pena temporale dovuta per
il peccato e soddisfarla davanti a Dio. Le penitenze corporali (p.e. digiuno), la cui durata è stabilita nella
tariffa, possono essere redente o commutate per buone opere (“redenzioni”) adatte al penitente e considerate
equivalenti alle anteriori. Inoltre, la Chiesa assiste il penitente con delle “assoluzioni” o responsori. Il nome
non ci deve indurre a errore: si tratta di preghiere d'intercessione della Chiesa per chiedere a Dio la
remissione totale dei peccati del penitente, e quindi della pena corrispondente. Queste “assoluzioni” sono
evoluzione delle antiche “supplicazioni”, ma non sono più direttamente incluse nel processo penitenziale
sacramentale. Papi e vescovi ne inviano anche da lontano per iscritto.
b. Le prime indulgenze
Nei secolo XI e XII, i vescovi e posteriormente i papi, concedendo queste assoluzioni-intercessioni
extra-sacramentali, cominciano a perdonare tutta o parte della penitenza imposta ai fedeli dai confessori.
Questo perdono si giustifica a motivo dell'efficienza oggettiva della intercessione qualificata della Chiesa, ed
è concesso sotto forma di commutazione della penitenza con una più facile. Si differenziano delle antiche
“redenzioni” per l’abbandono del principio di equivalenza che le reggeva e per non essere più imposte dal
confessore in maniera individuale; adesso sono valide per tutti i fedeli.
c. Indulgenze vere e proprie
Nel sec. XIII i teologi ammettono la legittimità delle indulgenze. Ma la sola efficacia
dell’intercessione della Chiesa non sembra loro una fondamentazione teologica sufficiente. Infatti, agli occhi
della giustizia divina ogni pena sembra esigere una soddisfazione proporzionata ed effettiva, altrimenti
l’indulgenza sarebbe un rilassamento della penitenza. Ugo di san Caro trova la soluzione nell'idea del tesoro
della Chiesa, sviluppata posteriormente da San Tommaso. La solidarietà che unisce i membri del corpo
mistico tra di loro, permette la compensazione tra i meriti sovrabbondanti dei santi e le penitenze perdonate
Penitenza e Unzione degli Infermi 2012-2013 - 101
dei peccatori. La gerarchia della Chiesa ha il potere di distribuire questo tesoro come il superiore di una
comunità distribuisce i beni fra i sudditi. Papa Clemente VI esprime questa idea del tesoro nella bolla
Unigenitus Dei Filius, dell'anno 1343 (cfr. DS 1025-1027).
d. Sviluppi posteriori
La nozione d’indulgenza si allontana da quella della penitenza imposta nella confessione, giacché
questa viene a poco a poco alleggerita, in modo da non lasciare più posto per il rilassamento. Alla fine,
l'indulgenza viene considerata esclusivamente come una remissione gratuita della pena temporale dovuta
presso Dio, una pena di cui tutti in maggior o minor misura siamo caricati, se non altro che a causa delle
nostre mancanze per fragilità. Sono concesse generosamente e guadagnate da tutti, abbiano o meno un
penitenza sacramentale ancora da soddisfare. Si continua ancora a contare in giorni o anni, come
reminiscenza delle antiche tariffe. L'opera pia, che prima era una commutazione della tariffa penitenziaria, si
conserva come condizione per guadagnare la indulgenza. Le indulgenze guadagnate dai vivi possono essere
applicate ai defunti perché sono membra del corpo mistico di Cristo (cfr. DS 1148). Sciaguratamente, nei
secoli XV e XVI si produssero abusi nella pratica popolare delle indulgenze; questo fatto scandalizzò Lutero
e fu la fiamma che accese la sua riforma.
e. Il Concilio di Trento
Considera salutare per il popolo cristiano l’uso delle indulgenze, rimprovera esplicitamente quelli
che le considerano inutili o negano alla Chiesa il potere di conferirle (cfr. DS 1835). L’esistenza del tesoro
della Chiesa si considera una verità teologicamente certa.
2. Fondamenti dogmatici
L’esistenza delle indulgenze poggia su due verità dogmatiche:
- La pena temporale dovuta al peccato molto spesso persiste dopo che la colpa è stata perdonata.
- Il mistero della comunione dei santi. I cristiani, per il battesimo, sono uniti a Cristo capo e diventano
membri del suo Corpo Mistico, la Chiesa. In questo corpo, i membri si trovano vincolati anche fra loro
mediante una stretta solidarietà che abbraccia la Chiesa militante, purgante e trionfante. I peccati e le opere
buone di ognuno si ripercuotono in tutto il corpo (cfr 1Cor 12,26).
Il tesoro della Chiesa è, fondamentalmente, il valore infinito della redenzione di Cristo, che sparge i
suoi frutti di santità sui membri della Chiesa, agli uni attraverso gli altri, in virtù dell’unione fra loro e con
Lui. Il termine tesoro deve intendersi in senso metaforico, senza "cosificarlo", esso, in fondo indica la realtà
viva del Corpo Mistico di Cristo, Capo e membra, in comunione organica e mutua di grazia, carità e scambi
spirituali. Questi scambi dipendono, in definitiva, dalla libera volontà di Dio; ma si può pensare che siano
anche orientati dall'intenzione di coloro che sono uniti a Cristo nella carità.
3. Spiegazione teologica
I teologi cattolici ammettono queste tre verità:
- il potere della Chiesa per concedere le indulgenze,
- l'esistenza d’un tesoro di meriti della Chiesa, fondato sulla comunione dei santi,
- l’utilità delle indulgenze.
Differiscono fra loro nello spiegare che cosa siano le indulgenze in realtà. Questa divergenza versa
sulle indulgenze concesse dalla Chiesa ai fedeli vivi.
a. Natura della indulgenza a favore dei vivi
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A) Assoluzione
Per alcuni, la indulgenza sarebbe una vera assoluzione giuridica tramite la quale la Chiesa perdona in
forma diretta la pena temporale, nella misura dell'estensione della indulgenza, dando anche la compensazione
equivalente (che si prende dal tesoro delle soddisfazioni di Cristo e dei santi). Cioè, perdona e paga la pena
nello stesso tempo. La assoluzione è concessa quando viene accompagnata da un pagamento o “soluzione”
(per modum absolutionis et solutionis). Questa è stata la teoria classica affermata fino a tempi recenti, ma
attualmente molto criticata.
b) Soluzione
Per altri, dal momento che la pratica dell'indulgenza è separata dalla penitenza sacramentale da
compiere, non si può affermare che la indulgenza sia concessa per modo di assoluzione giuridica. Ciò che si
affermava sul perdono della penitenza imposta nella confessione, oggetto dell'assoluzione giuridica, si era
spostato in maniera erronea al perdono della pena temporale dovuta davanti a Dio; ma questa, per gli
scolastici e san Tommaso, non era altro che l’oggetto di una pura “solutio” o di un pagamento effettuato
dalla Chiesa. Nell'attualità l'indulgenza non è altro che la semplice elargizione di soddisfazioni contenute nel
tesoro della Chiesa. Ciò che resta da fare dopo l'assoluzione sacramentale è unicamente la “soluzione” della
pena temporale dovuta davanti a Dio. La pena temporale è perdonata da Dio stesso nella misura in cui la
Chiesa concede al fedele quello che manca per estinguere il debito.
c) Intercessione
Infine, secondo una terza opinione, l’indulgenza sarebbe fondamentalmente una preghiera
d’intercessione o una supplica da parte della Chiesa, che si fonda sul suo tesoro di meriti. Da questo punto di
vista l’indulgenza agisce, anche per i vivi, a modo di suffragio. Essa, però, non è una preghiera qualsiasi,
bensì una preghiera autorizzata, alla quale conferisce garanzia di successo la ministerialità di chi prega.
b. In che modo agiscono le indulgenze a favore dei vivi
Ciò è inteso in modo diverso secondo la maniera in cui si spiega la natura intima dell'indulgenza
1) Secondo la teoria dell'assoluzione
L'effetto delle indulgenze non è soltanto certo e infallibile, ma anche indipendente dalle disposizioni
soggettive di chi le riceve e proporzionato unicamente a chi le concede. Le indulgenze producono il perdono
della pena temporale secondo la misura fissata dal dispensatore. Questa assoluzione giuridica dà la grazia ex
opere operato e non proviene semplicemente dal fervore del soggetto e neppure dal valore dell’opera
realizzata.
2) Secondo la teoria della intercessione
L'indulgenza otterrà sempre il suo effetto, perché la supplica della Chiesa è sempre ascoltata da Dio.
Ma l'ampiezza di questo effetto dipende in ultima istanza dal beneplacito e dalla volontà divina. Come viene
concesso? Non lo possiamo dire esattamente. Forse secondo quanto piaccia a Dio accettare le preghiere e i
suffragi fatti dalla Chiesa a favore di coloro cui essa concede le indulgenze. Pertanto le indulgenze non
attuano ex opere operato ma ex opere operantis Ecclesiae orantis (in virtù della preghiera fatta dalla Chiesa).
3) Secondo la teoria della soluzione
- o pensano che l'effetto dell'indulgenza è infallibile, e cioè che esso viene direttamente dal foro divino
e non dal potere giurisdizionale della Chiesa, e in tale caso la Chiesa dà un'assoluzione indiretta della pena
temporale;
Penitenza e Unzione degli Infermi 2012-2013 - 103
- o credono che non è infallibile, e quindi si avvicinano in maniera singolare a coloro che sostengono
la teoria dell'intercessione.
c. Le indulgenze a favore dei defunti
Qui siamo in un campo nel quale non ci sono tante divergenze fra i teologi. Come sappiamo la
Chiesa non ha giurisdizione sulle anime dei defunti. Non le può assolvere, né direttamente né indirettamente;
le può tuttavia aiutare almeno con le sue preghiere. Le indulgenze a favore dei defunti agiscono come
suffragi, vale a dire, come supplica e intercessione. Questa è la dottrina della Chiesa e tutti i teologi su questo
punto sono d’accordo.
Secondo l’opinione più comune, tuttavia, non si tratterrebbe di un suffragio come gli altri. Le
indulgenze a favore dei defunti portano con sé una vera concessione del tesoro delle soddisfazioni di Cristo e
dei santi, che la Chiesa offre a Dio, chiedendogli di accettarle a favore delle anime che stanno espiando
ancora la pena temporale. Quindi, c'è anche soluzione, pagamento spirituale fatto dalla Chiesa secondo il
prezzo della pena. Le indulgenze si concedono dunque ai defunti allo stesso tempo per modum suffragi e per
modum solutionis, la preghiera di suffragio della Chiesa consiste precisamente nell'offrire a Dio questa
soluzione. La Chiesa però, non la offre direttamente a Dio, ma per mezzo di un fedele vivo che, avendo
realizzato le opere prescritte per l'indulgenza, ha l'autorizzazione della Chiesa per riversare sui defunti la
parte del tesoro che la Chiesa è disposta a concedergli.
Dette indulgenze beneficiano i defunti non soltanto in comune ma anche in particolare, quando sono
offerte per questo o quel defunto. In quale misura? Impossibile dirlo, perché tutto dipende dalla bontà e
misericordia di Dio, che sempre ascolta la sua Chiesa, sebbene non possiamo determinare fino a che punto
l’ascolti.
Quelli che accettano che le indulgenze agiscano come suffragio anche per i vivi, attribuiscono a tutti
i tipi d'indulgenze la stessa maniera di agire, e per questo la loro teoria è più soddisfacente.
4. La costituzione “Indulgentiarum doctrina”
La costituzione Indulgentiarum doctrina del 1º gennaio 1967, si prefiggeva lo scopo di spiegare
ampiamente la dottrina delle indulgenze, il loro significato e lo spirito con cui i fedeli dovevano guadagnarle.
Questa costituzione fu preparata prima e durante il Concilio, ma non entrò nei dibattiti conciliari
propriamente detti.
a. La nozione d'indulgenza
Definizione d'indulgenza secondo la costituzione:
L'indulgenza è la remissione dinanzi a Dio della pena temporale per i peccati, già rimessi
quanto alla colpa, che il fedele, debitamente disposto e a determinate condizioni, acquista per
intervento della Chiesa, la quale, come ministra della redenzione, autoritativamente dispensa ed
applica il tesoro delle soddisfazioni di Cristo e dei santi (Norma 1).
Per produrre l’effetto della remissione della pena temporale, l’indulgenza esige nel fedele
determinate disposizioni interiori, un atteggiamento spirituale e il compimento di determinati atti prescritti
dalla Chiesa. Tuttavia, l’indulgenza non produce il suo effetto per la sola forza di queste disposizioni
soggettive o del fedele compimento degli atti, ma per la grazia dell'intervento oggettivo della Chiesa (ope
Ecclesiae). La Chiesa realizza questa dispensazione “in quanto ministro della redenzione”. Ma questa
autorità della Chiesa non è puramente ministeriale, come quella che esercita nei sacramenti; è una autorità
propria, ma derivata, che la Chiesa ha ricevuto da Cristo suo Sposo. In virtù di tale autorità la Chiesa ha
istituito le indulgenze e ne ha fissato le condizioni.
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La costituzione evita l’espressione per modum absolutionis, che si trovava in documenti anteriori.
Considera piuttosto la “concessione” del tesoro, il che si avvicina più alla teoria della “soluzione”. D'altra
parte, non nega che l'indulgenza sia a sua volta una preghiera della Chiesa in favore del fedele. Secondo la
costituzione, non è la Chiesa a perdonare direttamente la pena, ma è il fedele ad ottenerla (consequitur) da
Dio, grazie al tesoro dei meriti che la Chiesa applica in modo extra-sacramentale. Quindi, il termine
“applicazione” qui suggerisce l’idea di una intercessione almeno implicita e virtuale: “applicare” significa
qui chiedere a Dio che si degni di accettare questa designazione di un beneficio e di renderla efficace.
Sarebbe simile all'applicazione dell'intenzione di una Messa: il sacerdote nell'applicare una Messa per una
intenzione determinata, designa a Dio la persona per cui si celebra la Messa, e per il resto tutto dipende da
Dio e dalla sua infinita bontà. Le indulgenze, secondo la costituzione, non agiscono ex opere operato.
Certamente non possiamo ridurre l'indulgenza a una semplice preghiera di intercessione della
Chiesa, ma questo aspetto non deve passare inosservato. La Chiesa supplica il suo Sposo che si mostri
propizio verso uno dei suoi figli che si presenta davanti a Lui provvisto, per le premure della stessa Chiesa,
di un tesoro capace di soddisfare sovrabbondantemente la pena temporale per i suoi peccati.
b. Le nuove norme
La costituzione ha anche introdotto innovazioni importanti nella disciplina canonica delle indulgenze
in vigore fino ad oggi.
Mantiene la distinzione tra indulgenza parziale e indulgenza plenaria (Norma 2), sebbene quella
parziale si sopprime il computo dei giorni. L'indulgenza parziale non è più, come nel passato, una
sopravvivenza simbolica della disciplina penitenziale, ma un'azione caritatevole del fedele in stato di grazia,
vincolata all'indulgenza, per la quale si acquista il perdono della pena temporale attraverso l'intervento della
Chiesa nella misura della carità e bontà dell'opera compiuta. L’efficacia di una buona opera dotata di
indulgenza parziale verrebbe raddoppiata per l'intercessione della Chiesa.
Diminuisce il numero delle indulgenze plenarie, per rivalutarle davanti ai fedeli, e si fissano come
condizioni per guadagnarle, oltre all'esecuzione dell'opera prescritta, la confessione sacramentale, la
comunione eucaristica e la preghiera per le intenzioni del Romano Pontefice. È necessario, inoltre, escludere
ogni attaccamento volontario al peccato veniale, il che è logico, perché questo attaccamento si oppone al
perdono del peccato veniale, e quindi, al perdono della pena temporale ad esso dovuta.
Decreta che le indulgenze “reali” e “locali” siano ridotte nel numero e cambiate di nome, affinché si
veda che le indulgenze sono vincolate alle azioni dei fedeli e non a cose, luoghi, che sono solo occasioni per
guadagnarle.
Infine si stabilisce che le indulgenze, sia parziali che plenarie, possano essere sempre applicate ai
defunti a modo di suffragio (Norma 3).
5. Utilità delle indulgenze
Non essendo necessarie per la salvezza, né come mezzo né come precetto, tocca ad ognuno ricorrere
ad esse in modo conveniente. La Chiesa non ne ha imposto mai la pratica a nessuno, e si accontenta di
“concederle”, ma il rifiutarle dottrinalmente sarebbe un grave errore, e il disprezzarle sarebbe segno di
presunzione spirituale. Un'astensione dalla loro pratica che non implichi una critica teorica del suo uso, non
merita riprovazione, ma si correrebbe il pericolo di privarsi non soltanto del loro beneficio diretto (maggiore
remissione della pena) ma anche di altri benefici che ci procurano; per esempio:
- Favoriscono la vita spirituale e ricordano al fedele che non deve sentirsi tropo libero dalle
conseguenze dei suoi peccati.
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- Insegnano al cristiano che non può riparare ed espiare con le proprie forze il male commesso, e così
lo educano ad una sana umiltà.
- Fortificano la fede cristiana nel mistero della Chiesa e aiutano il fedele a sentirsi più unito ad essa.
- Soprattutto promuovono la pratica delle buone opere, che rendono più fervente la comunità cristiana,
la rendono più caritatevole e sana, e ne rinnovano l'unione con la comunità dei santi nella patria eterna.
Le indulgenze non tolgono valore alla penitenza sacramentale, perché originariamente sgorgano da
essa e hanno come fine il completarne gli effetti. Sono un'istituzione ecclesiastica basata su verità
dogmatiche e tradizionali della Chiesa e non sono dunque una via per evitare l’esigenza della penitenza, ma
un aiuto per riconoscere la nostra debolezza e lavorare ancora di più per la nostra conversione.
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9. La penitenza e gli altri sacramenti
Esiste un'unità organica della Penitenza con gli altri sacramenti, ma con due in particolare: il Battesimo e l'Eucaristia. Vedendo la relazione con essi, possiamo comprendere meglio il posto e il senso del sacramento della Penitenza nel sistema sacramentale.
1. Penitenza e Battesimo Alla fine del Simbolo apostolico diciamo: “Crediamo nel perdono dei peccati”. Si tratta qui del Battesimo, come chiarisce il Credo Niceno-costantinopolitano. Fin dai primi tempi il Battesimo è presentato come istituito per il perdono dei peccati, ma non soltanto: è anche il sacramento della conversione o metanoia. Giacché libera dai peccati, lo si può considerare anche il sacramento della riconciliazione con Dio. a. Breve storia della questione L’antica Chiesa conosce, oltre alla penitenza battesimale, la penitenza posbattesimale, la cui forma ecclesiale e sacramentale è la penitenza canonica pubblica. Secondo Tertulliano è la “seconda penitenza” per riferimento alla prima, che è il Battesimo. È un secondo Battesimo, oneroso e laborioso, secondo san Gregorio Nazianzeno e san Giovanni Damasceno. E sant'Ambrogio pone in parallelo “l’acqua del Battesimo e le lacrime della penitenza”. Per Lutero e i protestanti l’unico sacramento del perdono è il Battesimo perché in esso Dio promette il perdono dei peccati all’uomo che crede in questo perdono, e tale promessa perdura tutta la vita. La Penitenza è solo una istituzione ecclesiastica per rafforzare e rinnovare la fede nella misericordia di Dio, rinnovando e ricordando il sacramento del Battesimo. L'unica efficacia della Penitenza è la sua dipendenza dal Battesimo. Nel Concilio di Trento la preoccupazione dei padri era combattere l'assorbimento del sacramento della Penitenza nel Battesimo. Così insistettero nelle differenze tra i due sacramenti senza negare i loro vincoli e parentela, come vengono affermati nel NT e nella dottrina patristica. Accolsero l’espressione classica di Tertulliano per la penitenza: “seconda tavola di salvezza dopo il naufragio”, e “Battesimo laborioso”. b. Conversione battesimale e penitenziale Nel Battesimo si dà una conversione prima, che è un cambiamento radicale di vita, ma fondamentalmente, un passo dall'incredulità alla fede. È essenzialmente il sacramento della fede. Esige una professione di fede da parte del neofita e la sigilla. Il sacramento della Penitenza, in cambio, suppone il Battesimo e la persistenza della fede, dalla quale germoglia l’impulso al pentimento. Il Battesimo è il sacramento della conversione, ma in un modo alquanto improprio, perché gli atti stessi del battezzato non rientrano nella costituzione intrinseca del sacramento. Sono disposizioni necessarie per la sua fruttuosità, ma non sono parte essenziale del rito. Secondo san Tommaso, nella penitenza, gli atti di pentimento e di conversione del penitente sono, in quanto materia, parte essenziale del sacramento, che concorrono alla sua stessa efficacia. L'assoluzione, forma sacramentale, sigilla e dà efficacia ultima agli atti del penitente. c. Riconciliazione battesimale e penitenziale Il Battesimo è il sacramento della riconciliazione con Dio, ma non con la Chiesa, perché è destinato a “chi è fuori”, a chi non fa parte della Chiesa, e dunque, non ha potuto offendere la sua santità. La Penitenza è il sacramento della riconciliazione con Dio e con la Chiesa perché si dirige a
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“quelli che sono dentro” e che con i loro peccati hanno ferito nella sua essenza intima la Chiesa della quale sono già membri, e che con la sua carità, il suo esempio e la sua preghiera opera per la loro conversione (cfr. LG 11). L’effetto ecclesiale del Battesimo è l’incorporazione alla Chiesa, ed è per questo che l’uomo riceve il perdono dei peccati e la sua riconciliazione con Dio. L’incorporazione alla Chiesa, propria del Battesimo, corrisponde nella Penitenza alla riconciliazione con la Chiesa. d. Carattere battesimale indelebile e reiterabilità della Penitenza Come abbiamo detto, il Battesimo è il sacramento di incorporazione e segna il battezzato con un carattere indelebile che è res et sacramentum: uno stato di appartenenza perpetua alla Chiesa in virtù del quale partecipa al sacerdozio unico di Cristo. La Penitenza non è un recupero della appartenenza alla Chiesa, che non può perdersi, ma ne è un rinnovamento, che, essendo sacramentale, è fonte di grazia. Il carattere battesimale ha dunque un ruolo fondamentale nel sacramento della Penitenza, senza che per questo venga confusa con il Battesimo. Il fedele esercita il suo sacerdozio comune negli atti stessi della Penitenza, che sono la materia del sacramento, il quale è un atto di culto. Ma il fedele non è il ministro del sacramento, perché ministro è soltanto chi pone la forma, e questo viene fatto dal sacerdote nel dare l’assoluzione. e. Grazia del Battesimo e grazia della Penitenza In ambedue i casi, la grazia conferita è la grazia santificante, ma con una modalità intrinseca distinta, corrispondente alla diversità degli effetti e dei fini ai quali ogni sacramento è ordinato. Nel Battesimo si tratta di una grazia di rigenerazione che ci fa figli di Dio, ci rende possibile una vita conforme a questo stato, e ci permette di prendere parte al culto pubblico della Chiesa e di professare pubblicamente la fede ricevuta da Dio per mezzo della Chiesa. La Grazia abituale comunicata dalla penitenza è una grazia recuperata e restituita, una grazia di guarigione che, oltre a sanare ed elevare l’anima, ci dona il vigore necessario per sradicare le cattive inclinazioni lasciate dai peccati commessi e ci dona la disposizione per ricevere gli aiuti dall’alto necessari per combattere le difficoltà future. Inoltre, dobbiamo ritenere che il Battesimo perdona il peccato in una maniera più totale, perfetta, assoluta, rispetto alla penitenza, perché è l’ingresso nella sfera della salvezza, il passo radicale a un'esistenza in Cristo. La Penitenza perdona il peccato ma non necessariamente tutte le conseguenze connaturali del peccato, cioè i peccati gravi posbattesimali esigono uno sforzo di conversione e di penitenza che deve durare dopo il perdono. Per questo gli antichi distinguevano la aphesis del Battesimo (come un perdono gratuito e totale) dalla metanoia della Penitenza (come espiazione lenta e laboriosa del peccato). È vero che c'è un solo perdono perché c’è un solo Spirito in una sola Chiesa, ma questo perdono si realizza in diverse maniere. Il sacramento della Penitenza presuppone quello del Battesimo che gli è superiore, e non s'intende bene se non in funzione di esso: quando il cristiano pecca, non perde il suo stato di appartenenza alla Chiesa, ma non gode più della grazia dello Spirito Santo che fa di lui un membro vivo della Chiesa. Il peccato gli impedisce di ricevere la grazia che il suo carattere battesimale esige. Il sacramento della Penitenza, nel togliere il peccato, toglie l'ostacolo, sopprime la contraddizione interna del cristiano, e restituisce al carattere battesimale il potere di esercitare effettivamente la sua esigenza interna di grazia, sebbene questa sia la grazia seconda, come abbiamo segnalato prima.
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2. Penitenza ed Eucaristia
In un capitolo precedente abbiamo visto che l’Eucaristia ha efficacia per il perdono dei peccati veniali, perché aumentando la carità, risveglia il fervore, che è capace di annullare i peccati veniali in chi si trova in stato di grazia. Cura anche le conseguenze dei peccati, non soltanto veniali ma anche mortali, e fa sì che la grazia penetri continuamente tutte le pieghe del nostro essere. Nel rito romano l’Eucaristia è presentata al popolo prima della comunione come “l'Agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo”. Il problema che si presenta oggi giorno è sapere se l’Eucaristia perdona anche il peccato mortale e se è lecito prendere la comunione dopo aver peccato mortalmente. a. Valore propiziatorio del sacrifico eucaristico Nella XXII sessione del Concilio di Trento (1562) si trattò del Santo Sacrificio della Messa e si afferma nel capitolo 1º che fu istituito da Cristo come un sacrificio visibile, nel quale si rappresenta l’unico sacrificio cruento della croce, il cui ricordo si perpetua in questa maniera fino alla fine dei secoli, “e la cui virtù salutare si applica alla redenzione dei peccati che commettiamo quotidianamente” (DS 1740). Questo sembra includere anche i peccati mortali, e in effetti, il capitolo 2º afferma che “placato da questa oblazione, il Signore, concedendo la grazia e il dono della penitenza, perdona i crimini e i peccati, per grandi che siano” (crimina et peccata etiam ingentia dimmitit) (DS 1743). Qui il Concilio parla dell'Eucaristia considerata come sacrificio, come rinnovamento del sacrificio della croce, unico veramente redentivo. Questo perdono si avvera per mediazione del dono della penitenza, che Dio, commosso da questo sacrificio, concede al peccatore. Si richiedono, tuttavia, delle disposizioni per ricevere il dono: un cuore sincero, una fede retta, un sano timore, un sommo rispetto, e inizialmente una certa contrizione e penitenza interiore, sebbene sia imperfetta, ma che la grazia verrà a portare ad un livello di perfezione in cui possa ottenere il perdono dei peccati commessi. Il Concilio si riferisce al peccatore che assiste alla Messa con i sentimenti descritti, ma non esclude l’idea che la Messa abbia un potere d'irradiazione che si estenda al di là del cerchio dei presenti, a causa della commemorazione espressa che in essa fa la Chiesa di tutti i suoi figli. b. Necessità del sacramento della Penitenza per comunicarsi quando si è in peccato mortale Nella sessione XIII del concilio di Trento (a. 1551) si tratta dell'Eucaristia come sacramento; è una sessione anteriore di molti anni a quella che abbiamo appena esaminato. Il capitolo 7º ha come oggetto la preparazione degna per ricevere la Sacra Eucaristia. Il primo paragrafo ricorda le parole di san Paolo (1Cor 11,28-29) quando dice che l’uomo deve esaminare se stesso prima di accostarsi alla mensa del Signore, perché se lo fa indegnamente, mangia e beve la propria condanna. In seguito, il Concilio ricorda l’obbligo di confessarsi in caso di peccato mortale, pur in caso di contrizione, obbligo che si estende persino ai sacerdoti che fossero obbligati a celebrare, sempre che possano trovare un confessore. Nel caso di una necessità urgente che obblighi il chierico a celebrare senza previa confessione, è tenuto a confessarsi dopo, il più presto possibile (cfr. DS 1647). Il Concilio non fa che riaffermare in maniera solenne la consuetudine universale e immemorabile (ecclesiastica consuetudo), che ha di per sé forza di legge, indipendentemente dalla promulgazione del presente decreto. Ma possiamo domandarci: si tratta di una semplice legge ecclesiastica, o è piuttosto una obbligazione divina, che la legge ecclesiastica non fa che testimoniare o imporre?
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Dopo il Concilio, i teologi sostenevano generalmente che si tratta di un obbligo di diritto divino. Attualmente ci sono alcuni che non sono di questa opinione e lo ritengono un obbligo di diritto ecclesiastico. Qui dobbiamo considerare due cose: da una parte, i limiti in cui il Concilio ha considerato che doveva mantenere la sua affermazione, poiché non ha voluto parlare direttamente di diritto divino (cfr. DS 1706; 1707; 1679); e dall'altra, le conclusioni teologiche che vanno più in là e ci fanno vedere che la prescrizione di non comunicarsi senza previa confessione è conforme all'economia incarnata ed ecclesiale della salvezza, alla quale appartiene il sacramento della Penitenza. Il peccato ha un doppia dimensione che richiede una doppia riconciliazione allo stesso tempo. Al fedele che fa un atto di contrizione sufficiente resta ancora l'obbligo di chiedere il perdono della Chiesa, e finché non abbia chiesto questa riconciliazione amministrata da un ministro qualificato, non può accostarsi al sacramento più sacro, che è segno e causa dell'unità della Chiesa. C'è quindi, in questa consuetudine qualcosa che si rifa' al diritto divino. Naturalmente può darsi il caso di un fedele (non solo di un chierico), che, per causa grave, comunica soltanto con contrizione perfetta ma con il desiderio di confessarsi appena possibile. La Chiesa lo considera legittimo (cfr. CDC n. 916), perché il voto o desiderio del sacramento della Penitenza è dinamicamente contenuto nella contrizione perfetta e per il suo mezzo il soggetto ottiene il perdono della Chiesa77.
La Eucaristia non è propriamente il sacramento della conversione cristiana, questo è la Penitenza; ma il sacrificio eucaristico può ottenere per il fedele il dono della contrizione perfetta, che si esprime e realizza nel sacramento della Penitenza.
77 Un documento della Commissione Teologica Internazionale (La riconciliazione e la penitenza, 1982) riconosce che il Concilio di
Trento non parlava di una obbligazione di diritto divino. Ciò che sembra essere di diritto divino è il desiderio del sacramento incluso
nella vera contrizione.
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L’Unzione degli infermi
L'Unzione degli infermi è un sacramento per coloro che sono in uno stato di grave malattia, e
pertanto possono unirsi specialmente al mistero pasquale di Cristo nel suo aspetto doloroso di e
godere del conforto spirituale che deriva dalla sua vittoria sul male e sulla morte. Nell’antichità
cristiana sembra che se ne aspettasse soprattutto un sollievo corporale. Nel Medioevo era piuttosto
vista come il sacramento dei morenti, come una preparazione alla morte. In realtà, l'Unzione degli
infermi è destinata principalmente a dare la grazia che porti conforto e sollievo spirituale ai cristiani
in situazione fisicamente patologica. In funzione di questo effetto fondamentale si capiscono gli
altri effetti possibili (il sollievo o addirittura la guarigione fisica, il perdono dei peccati), e l'aiuto
che proporziona ai morenti (anche se il sacramento è non solo per loro). 78
Introduzione: Il cristiano davanti alla malattia e alla morte
Cfr. Nicolau, p. 222;
1. Il cristiano davanti alla malattia
Cfr. Catechismo, nn. 1500-1502. Cfr. GIOVANNI PAOLO II, lett. ap. Salvifici doloris (1984)
a. La malattia è un fatto
È un fatto che l'organismo umano, come tutti gli organismi viventi, ha il suo ciclo di nascita, di
sviluppo e di maturità; anche di disintegrazione e decrepitudine. Questa disintegrazione è, nel meglio dei
casi, graduale. Si andrà prolungando man mano che aumentino il livello di vita e le attenzioni; ma la
“catastrofe” arriverà.
Davanti a questa realtà di ogni vita organica, ci si può domandare se necessariamente deve essere
così; se, in un'altra ipotesi, non avrebbe potuto essere altrimenti. E i cristiani sappiamo che la passibilità e la
morte sono, nell'ordine storico, una conseguenza del peccato originale (Gn 3,17 19). La morte è vista da San
Paolo come una conseguenza storica del peccato (Rom 5,12 17); il premio o il salario del peccato è la morte
(Rom 6,23).
b. Valori umani e cristiani della malattia
La situazione storica attuale dell'uomo, col suo organismo tarato e condannato alla morte, entra nel
piano provvidenziale di Dio, che governa tutte le cose create e di esse si serve, nonostante i peccati che ha
permesso per il bene maggiore, soprattutto spirituale, degli uomini (cfr. Rom 8,28). Secondo questo, potremo
domandarci quali siano i fini pretesi da Dio con la malattia e con la morte in prospettiva.
- Autocoscienza della propria debolezza, che è strada per la sincera umiltà e per il radicato sentimento
dell'essenziale dipendenza nei confronti dell'Essere supremo. L'esperienza della malattia mette l'uomo al suo
posto.
78 Per un’introduzione generale al tema, vedere il Catechismo, nn. 1499-1532.
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- Distacco dalle cose di questo mondo e dall'eccessivo desiderio della vita temporale. I beni
temporanei, legati al dolore e la scadenza, non possono entusiasmare eccessivamente chi è fatto per
l’immortalità e a essa aspira.
- Esigenza di sforzo e di lotta, e anche formazione per lo sforzo. Il malato acquisisce tempera di
fortezza che l'aiuterà in tutte le tappe e circostanze della vita, se sopravvive.
- Compassione verso il prossimo e generosità di spirito, se si accetta con rassegnazione.
- Maturazione dello spirito: sincerità e elevazione di spirito propria di quelli che sono stati visitati dal
dolore.
In sintesi, la malattia può essere vista come una punizione amorosa del Padre che c'educa e ci
richiama a Lui (cfr. Eb 12,5 11).
c. L'esempio di Gesù Cristo e l'associazione ai suoi dolori.
Essendo il piano provvidenziale di Dio educarci all’amore e salvarci per il dolore, conveniva che il
Redentore e Salvatore Gesù Cristo fosse provato nel dolore, e in Lui avessimo tanto l'esempio quanto la
fonte dell'efficacia del dolore.
Isaia lo presenta come «Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il
patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia, era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima» (cfr.
Is 53,3). E continua, alludendo al carattere vicario della soddisfazione che Dio aveva chiesto da Lui: «Eppure
egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori, e noi lo giudicavamo castigato,
percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo
che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti» (Is 53,4s; cfr. Mt 8,17;
1Pe 2,24). Essendo questa la missione di Cristo, non sorprende la parola del Maestro ai suoi discepoli: «Se
qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mc 8,34).
Per il cristiano esiste la possibilità di comunicare alla passione del Salvatore, contribuendo così ai
suoi effetti salutiferi. La passione e la morte di Cristo furono sufficienti per espiare i peccati di tutta l'umanità
e per meritarci il perdono. Ma ciò che obiettivamente era sufficiente per la redenzione, non escludeva una
comunicazione successiva e graduale di essa a ogni individuo e la collaborazione di ognuno (con la grazia di
Dio certamente), per appropriarsi dei suoi effetti. Né si escludeva la collaborazione di ognuno per l'aumento
o crescita della redenzione soggettiva in tutto l'organismo ecclesiale (cfr. Col 1,24). Cristo porta ancora la
sua croce nel suo Corpo mistico79.
d. Esercizio del sacerdozio comune
Ogni cristiano malato o acciaccato dagli anni trova nella sua infermità e debolezza una maniera di
offrire se stesso come ostia viva, santa e gradita a Dio, secondo il consiglio di San Paolo (Rom 12,1). E lo
può fare anche se non riceve l'unzione dei malati, sia perché non gli è possibile, sia perché il suo stato non è
così tanto grave per riceverla, sebbene l'unzione conferisca una consacrazione speciale per questa missione.
Di ogni malato si può dire, al suo proprio livello, quello che il Vaticano II, esponendo l'esercizio del
sacerdozio comune per mezzo dei sacramenti, diceva di quelli che ricevevano l'unzione dei malati, che «tutta
la Chiesa raccomanda gli ammalati al Signore sofferente e glorificato, perché alleggerisca le loro pene e li
salvi» e «li esorta a unirsi spontaneamente alla passione e morte di Cristo, per contribuire così al bene del
popolo di Dio» (Lumen gentium, 11).
e. La Chiesa e gli infermi
La Chiesa ha ereditato da Gesù Cristo il carisma delle guarigioni e la premura per i malati. Quelli
che crederanno in Cristo imporranno le mani sui malati, e questi si troveranno bene (Mc 16,17). Il carisma
79 Cfr. Giovanni Paolo II, lett ap. Salvifici Doloris, nn. 19, 23, 24.
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delle guarigioni si enumera tra le grazie gratis datae che si concedono per il bene della comunità dei fedeli
(cfr. 1Cor 12,30).
La misericordia verso i sofferenti, il far loro visita, è una delle manifestazioni della religione senza
macchia e dell'autentico cristianesimo (cfr. Gc 1,27). La Chiesa sa che, servendo i malati, serve lo stesso
Cristo nei membri dolenti del suo Corpo mistico (cfr. Mt 25,36). L'agiografia ecclesiale sa di innumerabili
santi che dedicarono le loro energie e le primizie della loro conversione e apostolato al servizio degli infermi.
Attraverso la storia, la Chiesa ha badato con sollecitudine ai malati della società con delle chiamate “opere di
carità” in ospedali, sanatori, orfanotrofi... E sono innumerevoli gli istituti religiosi che si sono dedicati e si
dedicano, con manifesta testimonianza cristiana, alla cura dei malati e moribondi.
Come si soul dire di quelli che visitano i poveri e malati, che essi sono i visitati, per la crescita che
esperimentano nelle virtù; quelli che si sono dedicati all'apostolato coi malati hanno conosciuto e vissuto
esperienzialmente l'occasione magnifica di praticare la compassione e la misericordia, che si sono
trasformate facilmente in carità soprannaturale accompagnata dalle virtù di abnegazione e di umiltà. Il
visitatore è stato visitato.
E sebbene non poche opere assistenziali passino oggigiorno a essere incombenza della società civile
nella prosecuzione del bene comune, ancora seguiranno la Chiesa e i suoi membri applicandosi a esse e
procurando che la beneficenza sia praticata per carità cristiana e non per mera filantropia umana. I fedeli che
lavorano nelle istituzioni organizzate dalla società civile sono chiamati a comunicare linfa cristiana e
motivazione di carità ai loro mestieri in favore dei malati, anziani e bisognosi.
Per tutto questo si può dire che la Chiesa non cessa di infondere un ottimismo sano e ben motivato a
tutti quelli che soffrono, facendoli comprendere che possono essere e sono davvero utili al Popolo di Dio,
cooperatori efficaci di Gesù Cristo nella sua opera di redenzione e salvezza.
In questo contesto si pone, come la sua propria espressione liturgica e sacramentale - riservata, nella
Chiesa cattolica, ai malati gravi - il sacramento dell'unzione degli infermi, che, come ogni sacramento e
come tutta la vita della Chiesa, raggiunge a sua volta il suo culmine nell'Eucaristia.
2. Il cristiano di fronte alla morte
Cfr. Catechismo, nn. 1005-1014
a. Il fatto
È facile riconoscere che tutti siamo minacciati di morte, sia per cause interne all'organismo, sia per
cause esterne. Le cause interne possono essere la malattia, oppure la consunzione, che finiscono per
disintegrare l'armonia e la coesione dell'essere vivente, e nel caso dell'essere umano, della persona in quanto
“compositum”. Le cause esterne della morte possono essere le lesioni, ferite, intossicazioni, ecc.
A questa realtà esistenziale con cui bisogna fare i conti, molte volte si uniscono i dolori fisici della
malattia o i dolori psichici e morali della stessa dolenza o del suo intorno. A ragione si può dire che la morte
è, per se, amara (cfr. 1Re 15,32). E frequentemente si aggiunge la sua venuta inaspettata ( cfr. 1Sam 20,3).
b. Causa storico - teologica
Ma, soprattutto, interessa alla teologia constatare, come causa storica della morte, l'introduzione del
peccato nel mondo. San Paolo l'afferma parlando di Adamo: «Quindi, come a causa di un solo uomo il
peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini,
perché tutti hanno peccato» (Rom 5,12).
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E il peccato di Adamo viene attribuito, in definitiva, alla seduzione del diavolo. Il libro della
Sapienza dice che per l'invidia del diavolo la morte entrò nel mondo (cfr. Sap 2,24).
Lo stipendio, il salario del peccato, è la morte (cfr. Rom 5,23). E il pungiglione della morte è il
peccato (cfr. 1Cor 15,56).
Ma, se la ragione storica della morte degli uomini è il peccato, che è contro l'intenzione di Dio, a
ragione si può dire che «Dio non fece la morte, né si rallegra nella perdizione dei viventi» (Sap 1,13).
c. I Santi Padri sulla morte
Sono d'accordo in affermare che l'uomo era destinato all'immortalità. Non per condizione naturale,
ma per grazia del Creatore.
- San Cipriano (a.256), attribuisce il peccato di Adamo alla sua impazienza e all'invidia del demonio
per causa dell'immortalità che Dio gli aveva concesso.
- Sant’Atanasio (a.318), attribuisce il peccato alla disattenzione e rifiuto della contemplazione di Dio,
poiché l'uomo era corruttibile di natura, e solo la grazia del Verbo Divino lo manteneva nell'immortalità.
- Sant’Agostino (a.401-15) afferma che l'uomo non è che non potesse morire, ma non poteva morire a
causa dell’albero della vita.
L'immortalità è un dono preternaturale: non è dovuto alla natura umana. Il desiderio di felicità
perfetta e permanente mediante l'unione perpetua dell'anima col corpo è un appetito naturale che fa sì che odi
la morte soprattutto l'appetito sensitivo; ma l'appetito razionale sembra che possa vincere e superare il
desiderio di vita80.
c. Il Magistero della Chiesa
Il Magistero della Chiesa ha ricordato la condizione preternaturale dell'immoralità nell'uomo. Così si
vede nella condanna della seguente proposta di Michele Baio (a. 1567): “L'immortalità del primo uomo non
era beneficio della grazia, bensì condizione della natura” (DS 1978).
Cosò fece anche Pio VI, nel riprovare questa proposta dello pseudosinodo di Pistoia (a. 1794):
“Istruiti dall’Apostolo, aspettiamo la morte, non già quale condizione naturale dell'uomo, bensì, in realtà,
quale giusta pena della colpa originale” (DS 2617). Che la morte sia giusta pena del peccato originale non
implica che non fosse condizione naturale dell'uomo.
Il carattere preternaturale dell'immortalità nell'uomo è dottrina comune tra i teologi e insegnamento
certo della Chiesa.
Precisamente per la morte, Cristo ci riscattò, perché lui venne a dare la sua vita in riscatto per la
moltitudine (cfr. Mt 20, 28). E per la morte distrusse colui che aveva l'impero della morte, vale a dire, il
diavolo (Eb 2,14). Gesù Cristo è il Primo e l'Ultimo, il Vivente, colui che era morto, ma ora vive per sempre
e ha potere sopra la morte e sopra gli inferi (cfr. Ap 1,18). È colui che è morto, anzi, che è risuscitato, e sta
alla destra di Dio e intercede per noi (cfr. Rom 8,34). Colui che ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita
e l'immortalità per mezzo del vangelo (cfr. 2Tim 1,10).
Questa vittoria di Cristo sulla morte si trasmette a quelli che credono in Lui «Io sono la risurrezione
e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno» (Gv
11,25s).
80 Il che non sempre è ragionevole né positivo dal punto di vista morale; dipende dalle motivazioni. Non è lo stesso il desiderio di
suicidio che il desiderio di martirio.
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Nella vittoria e per la vittoria di Cristo sulla morte, il cristiano vince e supera la sua propria
mortalità: «E' necessario infatti che questo corpo corruttibile si vesta di incorruttibilità e questo corpo
mortale si vesta di immortalità. Quando poi questo corpo corruttibile si sarà vestito d'incorruttibilità e questo
corpo mortale d'immortalità, si compirà la parola della Scrittura: “La morte è stata ingoiata per la vittoria.
Dov'è, o morte, la tua vittoria? Dov'è, o morte, il tuo pungiglione?” Il pungiglione della morte è il peccato e
la forza del peccato è la legge. Siano rese grazie a Dio che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro
Gesù Cristo» (1Cor 15,53-57; cfr. Os 13,14).
d. L'enigma della morte nel Concilio Vaticano II
L'enigma della condizione umana, secondo il Concilio (cfr. Gaudium et spes, n. 18), diventa
massimo davanti alla morte. Il Concilio attribuisce il senso di rifiuto della morte a uno “istinto del cuore”
dell'uomo, non puramente biologico, inteso come un orrore alla totale rovina e definitiva fine della sua
persona. E questo si deve al “seme di eternità” che porta in sé, irriducibile alla sola materia:
Il germe dell'eternità che porta in sé, irriducibile com'è alla sola materia, insorge contro la morte. Tutti i
tentativi della tecnica, per quanto utilissimi, non riescono a calmare le ansietà dell'uomo: il prolungamento di
vita che procura la biologia non può soddisfare quel desiderio di vita ulteriore, invincibilmente ancorato nel
suo cuore. Se qualsiasi immaginazione vien meno di fronte alla morte, la Chiesa invece, istruita dalla
Rivelazione divina, afferma che l'uomo è stato creato da Dio per un fine di felicità oltre i confini delle miserie
terrene. Inoltre la fede cristiana insegna che la morte corporale, dalla quale l'uomo sarebbe stato esentato se
non avesse peccato (cfr. Sap 1,13; 2,23-24; Rm 5,21; 6,23; Gc 1,15.), sarà vinta un giorno, quando
l'onnipotenza e la misericordia del Salvatore restituiranno all'uomo la salvezza perduta per sua colpa. Dio
infatti ha chiamato e chiama l'uomo ad aderire a lui con tutto il suo essere, in una comunione perpetua con la
incorruttibile vita divina. Questa vittoria l'ha conquistata il Cristo risorgendo alla vita, liberando l'uomo dalla
morte mediante la sua morte (cfr. 1 Cor 15,56-57).
Come si vede, il Concilio non attribuisce l'immortalità alla “natura” bensì alla “vocazione”
dell'uomo, una vocazione, che per libera disposizione divina, è inseparabile dalla sua creazione.
Cristo raggiunse la vittoria sulla morte, liberando l'uomo della morte con la sua propria morte e
resuscitando per la vita. Così, dunque, a qualunque uomo che pensi rettamente, la fede offre una risposta,
unita a solidi argomenti, alle sue attese sulla sorte della vita futura; e contemporaneamente, gli dà la
possibilità di comunicare già, in Cristo, coi fratelli cari strappatigli dalla morte, dandogli la speranza che
avranno raggiunta la vera vita in Dio.
f. La vigilante attesa del cristiano
1) La morte del giusto
La morte dei peccatori è pessima (cfr. S 34,22). Invece, è preziosa, al cospetto di Dio, la morte dei
santi (S 116, 15). Il giusto è certo che né la morte né la vita lo potranno separare dalla carità di Gesù Cristo
(cfr. Rom 8,38). Per il giusto, tutte le cose, e tra esse la morte, sono per il servizio di Cristo (cfr. 1Cor 3,22s).
«Perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo,
sia che moriamo, siamo dunque del Signore» (Rom 14,8). E sono felici i morti che muoiono nel Signore (cfr.
Ap 14,13).
2) Fiducia nella morte81
La speranza di chi non ha la fede è vana. La sua appetenza è soltanto per le cose di questo mondo. In
esse vuole esaurire un sorso di felicità che fugge e termina (cfr. Sap 2,1-9).
81 Si veda, sulla speranza del cristiano: BENEDETTO XVI: Spe salvi (30 novembre 2007) In speciale: nn. 24-31 e 41-48.
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Molto distinta è la speranza del giusto: la sua forza e la sua allegria sono nel Signore (cfr. Sap 3,1 6;
S 23,4). L'appetenza del giusto si dirige, soprattutto, ai beni di lassù (cfr. Rom 7,24s). E nella morte
contempla l'inizio di una vita più felice (cf Flp 4,20). Perché per lui, il vivere è Cristo, e il morire, guadagno
(cfr. Flp 4,21).
3) Fedeltà e fecondità fino alla morte
Il cristiano sa che la fecondità della sua vita coincide con la sua fedeltà fino alla morte, seguendo
l'esempio del Signore: «Dobbiamo compiere le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene
la notte, quando nessuno può più operare» (Gv 9,4).
E la maniera di dare fecondità all'ultimo istante, come a tutti i momenti della vita, è l'imitazione della
passione e della morte di Cristo e l'unione con Lui. Se per il battesimo è stato il cristiano consepolto con
Cristo in rappresentazione della sua morte e sepoltura (cfr. Rom 6,4), ora, per la morte reale, il cristiano trova
la maniera di morire con Lui e seppellirsi con Lui, non più in sacramento, bensì nella realtà della vita... per
resuscitare con Lui. Potrà dire, con San Paolo: «veniamo esposti alla morte a causa di Gesù, perché anche la
vita di Gesù sia manifesta nella nostra carne mortale» (2 Cor 4,11).
4) Sacrificio con Cristo nella croce
L'ascetica cristiana ha visto nel letto di morte un altare. Su questo altare c'è un'ostia. Questa ostia
limpida e questa vittima è il moribondo che, in unione con Gesù, offre la sua vita al Padre in offertorio
sublime.
- Con la volontaria accettazione della morte, p. es. recitando questa preghiera o un’altra simile:
«Signore, mio Dio, già sin d'ora accetto dalla tua mano con animo tranquillo e lieto qualunque genere di
morte, con tutte le sue angosce, pene e dolori che volessi inviarmi».
- Coi sentimenti del cuore di Gesù Cristo nella croce, espressi nelle “sette parole”: sentimenti di
perdono, gratitudine, amore filiale a Maria, conformità nella desolazione, sete per il bene delle anime,
desiderio di fedeltà finale, abbandono nelle mani del Padre.
Penitenza e Unzione degli Infermi 2012-2013 - 116
I. Le fonti bibliche dell’Unzione degli infermi
1. L'unzione con l'olio nell’Antico Testamento82
1. L'unzione con l'olio nei popoli dell'Antico Oriente
L'olio e l'unzione con l'olio nell'Antico Oriente, oltre agli usi profani (alimentare, igienico, curativo o
cosmetico), ha avuto vari usi sacri:
a. Offerta
L'olio viene menzionato tra le offerte che erano fatte agli dèi in Mesopotamia. Si offriva uno dei prodotti
domestici più comuni, espressione di vita e di forza.
b. Penitenza e protezione divina
In un rituale di penitenza, il re assiro, che ha chiesto il dio di ascoltare la sua supplica, si prostra e il
sacerdote, dopo avere unti con olio gli occhi del penitente regio e di mettergli tamerici lungo i fianchi e nelle
orecchie, grida: «Guarda, o Samas! questo peccato (con misericordia»). L'idea di protezione attraverso
l'unzione con l'olio si trova in diversi riti di unzione, anche per gli animali uccisi in sostituzione vicaria del
re.
c. Consacrazione
Venivano unti i re in Mesopotamia per stabilirli nella loro carica. Era utilizzata anche l'unzione come rito di
nozze. In Egitto fu utilizzato per la consacrazione delle statue degli dei, per quelle dei faraoni e i loro
ministri. Gli Ittiti lo adoperavano per vari atti di culto e per la consacrazione del re. In Siria e Palestina, per il
culto e l'unzione del re. A questo va aggiunto il fatto che in ambiente ellenistico l’unzione con l'olio era usata
per preparare gli atleti al combattimento o alla competizione.
2. Differenti usi dell'olio nell'Antico Testamento
a. Uso profano
L'olio d'oliva, un prodotto della flora palestinese è, con il frumento e il vino83, uno degli elementi
caratteristici del clima e terreno mediterranei (cfr Dt 32,13; Os 2,7.10). In Israele si usava anche come
elemento di base della nutrizione (Sir 39,26), come condimento o per dare consistenza alla farina (cfr 1 Re
82 Cfr. Nicolau, M., La unción de los enfermos. Estudio histórico dogmático, BAC, Madrid 1973, p. 5. In avanti ne faremo
riferimento come Nicolau.
83 La triade "grano vino e olio" si trova in diversi passi della Sacra Scrittura quale simbolo della benedizione divina nella terra
promessa, o simbolo della restaurazione universale messianica (cfr. Dt 7,13; 2 Re 18,32), ed è per questo che si dovevano pagare le
decime di questi elementi al Tempio (cfr. Dt 12,17; Es 6,9); un altro simbolo di benedizione divina è l’acqua, che alle volte troviamo
insieme a questi (cfr. Dt 11,14; Sal 104,13-15; Gr 31,12; Os 2,23-24). Si noti che sono proprio questi elementi materiali quelli son
passati nel sistema sacramentale cristiano.
Penitenza e Unzione degli Infermi 2012-2013 - 117
17,12); serviva anche come cosmetico per l'ornamento e la cura del corpo (cf. Sir 9,8; Ruth 3.3; Est 2,12).
Nel uso domestico, l'olio serviva anche per illuminare, come combustibile per le lampade. I salmi
menzionano la gioia che proviene dell’unzione: Dio unge il re con olio di letizia (Sal 44,8). La testa degli
ospiti è unta con abbondante olio e si prepara loro la tavola con bevande inebrianti (Sal 22,5). Il volto si
rallegra con l'olio, mentre il vino allieta il cuore, e il pane fortifica il corpo (Sal 103,15). L'unzione degli
ospiti all'arrivo alla casa era un gesto di cortesia tra gli ebrei, in segno di rispetto e di amore.
b. Uso medicinale
L'olio è stato anche utilizzato come medicina. Con questa applicazione l'olio aggiunge il significato di salute
a quelli di forza, bellezza, gioia, già visti. Era un uso in parte sacro e in parte profano perché la malattia era
considerata un fenomeno legato al peccato, e spesso causava impurità legale.L'immagine del popolo punito
dal Signore si presenta come piena di ferite che non sono state guarite o curate con olio (Is 1,6).
C’era anche una "unzione per piacere" di stare bene. Pertanto, l’ungersi non era proprio dei giorni di lutto, di
tristezza, o di digiuno. Era permesso, tuttavia, di Sabato.
Si conoscono diverse ricette o modi abituali in Israele per applicare l'olio per curare malattie (della pelle,
testa, ferite, ecc.) Era utilizzato anche per gli esorcismi. Inoltre, l'unzione era in grado di comunicare forza ed
energia soprannaturali al paziente. Per questo l’unzione aveva anche un significato curativo in senso morale
e penitenziale: non ungersi con l'olio era un segno di tristezza e di dolore per il peccato (cfr 2 Sam 14,2) e
l’ungersi segnalava la fine della penitenza (cf. 2 Sam 12,20).
c. Uso sacro
Nell'uso rituale sacro, l'olio veniva usato per consacrare altari (cfr Gn 28,18 ...) e, insieme a profumi, anche
le persone e gli oggetti utilizzati nel culto (Es 30,23-33). Anche per preparare i doni della farina e del pane
(Es 29,2.23.), per illuminare il candelabro a sette braccia (Es 27,20; Lev 24,2) e per l'uso da parte dei
sacerdoti (Num 18,12). Veniva dalle decime, o contributi del popolo (Num 7,13.19.25.31.37.43 ...).
È noto che l'unzione con l'olio è stata uno dei rituali più importanti dell’Antico Testamento. I re erano unti (1
Sam 9,16; 10, 1). Il re era “l’unto del Signore” (2 Sam 1,14.21). E i profeti. Così, Elia consacrato come
profeta Eliseo (3 Re 19,16). I sacerdoti erano anch’essi unti. Mosè versò l'unzione sulla testa di Aronne, che
rimase consacrato con questo rito (cfr Es 29,7). In tutti questi casi, il rito significava un’investitura per la
partecipazione nello Spirito di Dio che scende su di loro e gli pervade, come fa con il corpo un’unzione84. Il
termine "Messia" (Mashiáh), che significa "unto" è stato applicato a colui che doveva radunare in se la
triplice unzione come re, profeta e sacerdote, e divenne il nome dell’Unto per eccellenza, il futuro Salvatore
d’Israele (cfr 1 Sam 2,10, Sal 2,2; Dan 9,25), che in sé concentrerebbe la dignità di re, profeta e sacerdote.
3. La malattia nell'Antico Testamento
Secondo l'Antico Testamento, la malattia non corrispondeva all’intenzione originaria di Dio, ma è
conseguenza del peccato. Questo potrebbe essere inteso in senso generico: con il primo peccato entra nel
mondo la sofferenza e la morte che riguardano ognuno di noi (cf. Gen 3,16-19). Anche in senso collettivo: la
malattia potrebbe essere una punizione per il popolo per la loro infedeltà all'alleanza (Dt 28,58-61). Infine,
s’intendeva anche in senso individuale: le sofferenze di una persona sono il risultato dei suoi peccati propri o
di quelli dei suoi antenati (Dt 4,24; Es 20,5), quindi le richieste di guarigione sono accompagnate da
84 L’unzione con significato di consacrazione si trova nei rituali del Battesimo, della Cresima e dell’Ordine, inoltre, nella Cresima,
come nell’Unzione dei malati, è materia del sacramento. Nei nostri giorni si è messo in risalto questo significato de consacrazione
anche nell’Unzione dei malati.
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suppliche di perdono (cfr Sal 6; 38,2-6; 39,9-12, 107,17, 2 Re 20,2-3). Tuttavia, le malattie del giusto
(Giobbe, Tobia ...) non sono conseguenze dei loro peccati, bensì prove di Dio per saggiare la sua fedeltà. In
ogni caso, nella malattia si consiglia di far ricorso alla preghiera (2Cro 6,28-31; Sir 38,9).
In questa visione - in parte naturale e in parte soprannaturale - della malattia, si considerano i gesti che
accompagnano la preghiera di guarigione per i malati. In aggiunta all'unzione, un altro gesto di guarigione,
questa volta puramente soprannaturale, era toccare con mano la parte interessata. E 'stato un gesto tipico del
profeta o taumaturgo. Così si aspettava Naaman il Siro che facesse Eliseo per curarli della lebbra (2 Re 5,11).
Non era sconosciuta, tuttavia, la professione medica. Gli ebrei erano inizialmente sospettosi dei medici,
perché la loro arte era legata alla magia. In ogni caso, non è considerato lecito il solo ricorso ai medici senza
anche rivolgersi a Dio (2Cro 16:12). Man mano che la medicina viene considerata un'arte come le altre,
praticata con la sapienza che Dio dona, si raccomanda, oltre a pregare, di andare ai medici (cfr. Sir 38). Ma
anche i medici devono pregare Dio perché dia loro il potere di guarire i malati (cfr Sir 38,14)85.
La visita ai malati, come opera pia è raccomandata nell’Antico Testamento, per esempio nei Salmi (Sal
40,4). I tre amici di Giobbe si recano da lui per fargli visita e confortarlo nella sua sventura (cf. Gb 2.11). In
esilio a Ninive, Tobia si mostra esemplare, nel visitare, consolare e soccorrere quelli del suo popolo (cf. Tb
1,19 s). L'ecclesiastico raccomanda di non mancare a coloro che piangono e di essere con coloro che gemono
(cfr. Sir 7,34-35). Il Talmud descrive come si deve visitare i malati: chiedergli sulla sua salute, pregare per
lui ...
85 Alcuni hanno visto in questo versetto un antecedente o una fonte d’ispirazione per il passo di Gc 5,14s, che dopo vedremo. La
portata qui è molto diversa, però: nell’intero capitolo, nonostante la maledizione finale, si cerca d’infondere nel malato la fiducia
nella capacità di guarigione della scienza medica, considerata come arte profana. La preghiera dei medici ha come scopo ottenere da
Dio una saggezza naturale; non intendono esercitare un potere sacro.
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2. L'unzione nel Nuovo Testamento
1. L'unzione nei Vangeli
a. Gesù Cristo e il contesto culturale dell’unzione
Nella sua predicazione, Gesù fa riferimento all'uso dell’olio nel suo tempo e al simbolismo che esso
contiene. Lo vediamo nella parabola delle vergini sagge e stolte (Matteo 25,3-9), come simbolo di luce e di
alimentazione per la luce, che è aperto a diverse interpretazioni spirituali. Il Buon Samaritano versò olio e
vino sulle ferite dell'uomo assalito dai briganti (Lc 10,34), come un pietoso gesto di guarigione, che i Santi
Padri interpretato anche in senso spirituale.
Gesù accetta l'uso sociale dell’unzione come un mezzo di accoglienza cortese degli ospiti: rimprovera
Simone il fariseo per il mancato utilizzo di questa cortesia con Lui (Lc 7,46) ed elogia il gesto della
peccatrice pentita (Lc 7,38). Maria, la sorella di Lazzaro, versa dell'olio profumato sul capo di Gesù prima
della sua passione (Mt 26,7 ss, Gv 11,2), un gesto che egli loda e interpretata in senso profetico.
Tuttavia, contrariamente alla consuetudine ebraica, si oppone ai segni di lutto che possono essere occasione
d’insincerità, e quindi raccomanda di ungersi i giorni di penitenza (cf. Mt 6,17).
Infine, Gesù Cristo è riconosciuto come il Messia, il Cristo, l'Unto per eccellenza86, che ha la pienezza dello
Spirito Santo. È lo Spirito Santo87 quella realtà a cui fa riferimento il simbolismo sacro dell’olio e l'unzione
nell'intera gamma dei loro significati: consacrazione, potere, forza, salute, gioia, bellezza, luce, amore ...88
b. Gesù Cristo e la malattia
Gesù cancella il pregiudizio che portava a vedere in ogni malattia una punizione per i peccati personali o
familiari. Egli vede nella malattia l’occasione perché si manifesti la gloria di Dio, al recuperare la salute il
malato per il suo intervento (cfr Gv 9,2-3, 11.4). Anche se sembra non escludere che alcune malattie siano il
risultato di una cattiva condotta (cf. Gv 5,14)89.
Gesù sviluppa una notevole attività taumaturgica di guarigione. Nei Vangeli gli vediamo spesso chiamato al
capezzale dei malati, oppure gli vengono portati. Le sue guarigioni miracolose non sono solo un segno della
misericordia di Dio a una persona specifica, ma sono anche segni della venuta del Regno dei Cieli: l'età
messianica della salvezza iniziata da Lui, che comincia già con la riconciliazione degli uomini con Dio e la
restaurazione in essi della vita divina, e che riceverà il suo compimento alla fine dei tempi quando non ci
sarà più malattia né morte. Di conseguenza, la guarigione fisica è segno della guarigione spirituale della
persona: il perdono dei peccati (cfr Mt 9,1-8) e il dono della fede (cf. Gv 9,36). Questa capacità di guarire
che Gesù ha, è in funzione della sua missione di Messia, di Unto (cfr Lc 7,22): dopo aver ricevuto la
pienezza dello Spirito, «da Lui veniva fuori una forza che sanava tutti» (Lc 6,19).
86 Cf. tra altri: Mt 16,16; 22,42; 26,63; Mc 12,35; 14,16; Lc 22,67; 24,46; Gv 4,25; 10,24. 87 Cf. Gv 3,34. 88 Per il simbolismo dell’unzione in rapporto allo Spirito Santo, vedere il Catechismo n. 695. Cfr. anche P. Miquel, Breve trattato di teologia simbolica, Queriniana, Brescia 1989, pp. 79-84; M. Lurker, Dizionario delle immagini e simboli biblici, Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1990, pp. 141-142. 89 Sebbene questo passo sia di significato incerto per ciò che riguarda questo “qualcosa di peggiore” che possa accadere al guarito se torna a peccare: può riferirsi anche alla dannazione.
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Molte volte realizza la guarigione con una semplice parola o una frase (cf. Mt 9,6). Altre volte si serve di un
gesto, come l'imposizione delle mani (cf. Mt 8,3, con il lebbroso), o unisce parola e gesto. A volte il gesto
poteva essere alquanto complicato, come mettere le dita negli orecchi del sordomuto e toccargli la lingua con
la saliva, insieme con l'esclamazione «Apriti! » (cfr Mc 7,33-34) o come fare fango e metterlo negli occhi
dell'uomo (cfr Gv 9,6), o toccare gli occhi con le dita inumidite di saliva (Mc 8,23-25).
Inoltre, dà agli apostoli il potere di guarire i malati nel suo nome (cfr Lc 9,1-6 e il passo parallelo di Matteo
10,1). Secondo Marco, quando appare agli undici, annuncia che l'imposizione delle mani con effetto di
guarigione sarà uno dei segni che accompagneranno quelli che credono in Gesù (cfr Mc 16,17-18). Gli Atti
degli Apostoli mostrano come questi compiono questa missione che Cristo ha affidato a loro prima di
ascendere al cielo (cfr At 3,16, 8,7, 9,32, 14,8, 28,8). Atti 28,8 mostra come Paolo cura il padre di Publio,
che era a letto malato (probabilmente con la febbre Malta): gli impose le mani dopo aver pregato. S. Paolo
nella 1ª ai Corinzi ricorda tre volte il carisma di guarigione di cui godono i cristiani (1 Cor 12,9.28.30).
Infine, Gesù non solo consiglia la visita ai malati: la pone come uno dei motivi per la salvezza (e la sua
omissione, per la dannazione) nel giorno del giudizio, per considerarla come fatta a Lui (cfr Mt 25,35.39 s).
c. L'unzione in Marco 6,1390
Non vi è testimonianza diretta sul fatto che Gesù usasse l'unzione con l'olio per la guarigione dei malati, ma
c’è un passo del Vangelo in cui vediamo gli apostoli usare questo mezzo per guarire miracolosamente, un
mezzo, per il resto, comune all’epoca tra gli esorcisti e taumaturghi Ebrei. Questo si vede in Mc 6,13:
[7]Allora chiamò i Dodici, ed incominciò a mandarli a due a due e diede loro potere sugli spiriti
immondi (…) [12]E partiti, predicavano che la gente si convertisse, [13]scacciavano molti demoni,
ungevano di olio molti infermi e li guarivano.
Il passo riporta la prima missione degli apostoli durante la vita pubblica di Gesù, ed è un passo parallelo a
quelli di Matteo 10,1-15 e Luca 9,1-6. Matteo è più esplicito sui poteri conferiti agli apostoli: «Guarite gli
infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni» (v8). In Luca, la missione viene estesa a
settantadue discepoli. L'unzione praticata dagli apostoli è collocata in un contesto di predicazione del Regno
di Dio, in cui è sottolineata la penitenza e la conversione ("metanoia"), si vuole distruggere il potere dei
demoni, e annunciare la salvezza totale dell'uomo, corpo e anima. Non è quindi una mera prassi medicinale o
curativa, gli apostoli agivano non tanto da medici, ma piuttosto da taumaturghi.
I Vangeli non dicono che Cristo avesse loro indicato il gesto dell'unzione, ma non è irragionevole supporre
che qualche istruzione al riguardo gli abbia dato. Per questo il Magistero ha visto in questa pratica
un’insinuazione del rito, che posteriormente, S. Giacomo raccomanderà e promulgherà. Così ha dichiarato il
Concilio di Trento:
Questa sacra unzione degli infermi è stata istituita da Gesù Cristo nostro Signore come un vero e
proprio sacramento del Nuovo Testamento, certamente accennato in Marco (6,13), e da Giacomo,
apostolo e fratello del Signore, raccomandato ai fedeli e promulgato91.
Si potrebbe discutere se in Mc 6,13 il sacramento sia presentato soltanto in figura o tipo92 oppure vengono
già descritti gli inizi dell’istituzione del sacramento93. La cosa certa è che c'è un accenno o insinuazione.
90 Cfr. Nicolau, p. 9.
91 Sess. 14 (25 de noviembre de 1551), Doctrina de sacramento Extremae Unctionis (DS 1695 [Dz 908]).
92 Così Belarmino, Estius, Cornelio a Lapide, Giansenio, Calmet, Knabenbauer.
93 Così Beda, Maldonado, Lagrange.
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2. Nella lettera di Giacomo 5,14-15
È il documento-chiave biblico per quanto riguarda il sacramento dell'Unzione:
(14) Chi tra voi è malato, chiami presso di se i presbiteri della Chiesa, ed essi preghino su di lui
ungendolo con olio, nel nome del Signore. (15) E la preghiera della fede salverà il malato e il
Signore lo rialzerà e se ha commesso peccati, gli saranno perdonati94.
a. Contesto remoto
L’identità dell'autore della lettera è incerta. Si presenta come “Giacomo, servo di Dio e del Signore Cristo
Gesù” (1,1). Il Nuovo Testamento nomina tre Giacomi: Giacomo figlio di Zebedeo, Giacomo di Alfeo,
entrambi inclusi nella lista dei dodici apostoli, e Giacomo "fratello del Signore", personaggio principale nella
Chiesa primitiva di Gerusalemme. Il Concilio di Trento identifica Giacomo di Alfeo con “il fratello del
Signore”. Oggi si tende a pensare che fossero personaggi diversi. Giacomo “fratello del Signore” sarebbe il
personaggio più rappresentativo del gruppo giudeo-cristiano della chiesa primitiva, dopo la partenza di Pietro
da Gerusalemme. Si tende ad attribuirgli questa lettera, ma senza certezza.
I destinatari sono “le dodici tribù della dispersione” (“diaspora”). La “diaspora” erano gli ebrei residenti
fuori della Palestina. Può fare riferimento agli ebrei convertiti al cristianesimo nelle città pagane. La lettera
riflette la mentalità religiosa dei circoli ebraici del tempo.
Per quanto riguarda la data di composizione può essere posizionata prima dell'anno 62, quando si stima che
fu martirizzato Giacomo "fratello del Signore"95 e non prima del 59, quando si stima che S. Paolo scrive la
Lettera ai Romani, giacché Giacomo fa alcune precisazioni alla dottrina della giustificazione per fede di S.
Paolo (cfr Gc 2,14-26; Rm 3,21-4,25).
Per quanto riguarda la canonicità, la Chiesa l’ammette, ma ci sono state difficoltà in passato. Si deve tenere
presente che la lettera si diffuse lentamente tra le chiese, e in alcune parti di Occidente è rimasta sconosciuta
fino alla metà del sec. IV. Lutero non l’ammise nel canone, perché metteva in dubbio l'attribuzione della
lettera di San Giacomo e perché sembrava contraddire la dottrina paolina della giustificazione per fede,
almeno nel modo in cui Lutero l’aveva capito. Successivamente, i protestanti col tempo l’hanno ammessa
come canonica96.
La forma letteraria fa pensare ai sermoni nelle sinagoghe, pieni di precetti morali o esortazioni e
reminiscenze dei libri sapienziali. Alcuni pensano che la lettera sia in realtà un’omelia giudeo-cristiana molto
antica, che sarebbe stata distribuita con l’aggiunta di un indirizzo molto generale e un saluto.
94 Questa versione segue, con alcune modifiche, quella della Bibbia CEI (ed. 2008).
95 Secondo Giuseppe Flavio, Antiq. iud. 20,9,1.
96 In favore della canonicità si può trarre il fatto che citano parle della lettera di Giacomo autori così tanto antichi come San Clemente
Romano, San Policarpo, Erma, San Giustino, Sant’Ireneo, Sant’Ippolito e Clemente di Alessandria. È vero che non se ne fa menzione
insieme agli altri libri sacri nel frammento muratoriano (a.180) né nel canone mommseniano o "canone africano", (a.359). Ne
riconoscono invece la canonicità, il canone chiaramontano (di Alessandria, metà del secolo IV), Sant’Atanasio, San Cirillo di
Gerusalemme, Sant’Agostino e diversi concili africani degli anni 393, 397, 419, Inoltre, dai tempi antichi è stata inclusa nei canoni
ufficiali, cominciando con quello di Papa Damaso (a.382), nella lettera di’Innocenzo I a Eusperio, vescovo di Tolosa (a.405), nel
decreto di Papa Gelasio (a.495). Infine, in tempi più recenti, è stata inclusa nel decreto per i Giacobiti (a.1441) del Concilio de
Firenze, e nelle definizioni del Concilio Tridentino e del Vaticano I. È quindi indubitabile la sua canonicità.
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b. Contesto prossimo
Il contesto immediato in cui si trova il passaggio che ci interessa è quello di consolazione spirituale (v. 13)
«Chi tra voi è nel dolore, preghi; chi è nella gioia salmeggi». L'autore, che procede piuttosto per associazione
di idee, passa a trattare un caso specifico di dolore o di sofferenza, la malattia, nel qual caso prescrive anche
la preghiera, ma con caratteristiche particolari: è la preghiera dei “presbiteri”, accompagnata dell'unzione con
l'olio.
c. Analisi degli elementi componenti del testo
1) v.14, descrizione del rito: i partecipanti, i gesti, le parole
“Chi tra voi” si riferisce a qualcuno della comunità cristiana, a cui è indirizzata la lettera.
Questo “si ammala” o "è malato" ("astheneî"). Certamente, dal contesto si deve escludere un senso
puramente morale o spirituale della parola. Se questa voce viene interpretata alla luce della parola
"kámnonta" del versetto 15, è un paziente che soffre non soltanto una semplice debolezza o stanchezza, come
potrebbe far sembrare questa parola greca. La parola "astheneî" può anche significare una malattia
importante, come si vede in altri passi del Nuovo Testamento: Gv 4,46 s (il figlio del funzionario del re),
11,1 (Lazzaro), Atti 9,37 (Tabita); Fil 2,26 s (Epafrodito)97.
Si consiglia al malato che egli stesso "faccia chiamare" ("proskalesástho") i presbiteri. Si richiede, pertanto,
una qualche volontà di sottoporsi a questo rito. L’indicazione che faccia venire i presbiteri invece di andare
lui da loro, conferma che si tratta di una malattia importante che lo tiene fermo a casa, ma non che stia
necessariamente per morire. Anche se l’espressione grammaticale può sembrare di comando ("faccia
chiamare "), può essere considerata dello stesso tenore delle anteriori ("preghi", "salmeggi") con cui dà solo
dei consigli.
"I presbiteri della Chiesa" non sono semplicemente gli "anziani" (traduzione letterale) in quanto questa
parola, nel Nuovo Testamento, indica sia i giudici del popolo ebraico, sia i pastori delle Chiese cristiane98. È
quindi un grado gerarchico proprio dei collaboratori degli Apostoli. Questi non sono i "carismatici" con il
dono della guarigione (1 Cor 12,9.28 s). La menzione di "presbiteri", al plurale, avrà il suo impatto sulla
Chiesa greca, in cui è amministrata l'unzione da diversi sacerdoti. Ma in rigore potrebbe essere inteso di uno
solo, alla stregua di espressioni simili come chiamare le autorità, i medici, ecc, anche se in realtà uno solo è
chiamato.
«Ed essi preghino ("proseuxásthosan") su di lui ungendolo con olio ("aleípsantes") con olio.” Si tratta di
un’unzione (azione di ungere in aoristo passato) collegata simultaneamente con l'azione della preghiera
(anch’essa in aoristo). La parola "proseuche" (preghiera) nel N. T. frequentemente fa riferimento alla
preghiera liturgica, ufficiale. Giacomo non ne determina il contenuto, sembra riferirsi ad un noto rito, che è
di nuovo raccomandato come di passaggio. Anziché indicare che è "per" i malati o in favore del malato
(ovviamente lo è), si vuole indicare che questa preghiera è "sopra" ("epi") il malato. La preghiera degli uni
"per" gli altri sarà di seguito indicata con "hyper" (v. 16). Pregare “su” di lui trova chiaro compimento se
viene unto allo stesso tempo che si prega.
Non può trattarsi di un effetto naturale di guarigione, per mezzo dell’olio, visto che s’indica
indiscriminatamente che tutti vengano unti con olio, il che ovviamente non può essere adatto a tutti gli
97 Sui diversi sensi della parola “’asthenés”: físico o corporale, morale o spirituale, cf. Nicolau, p. 13.
98 Cf. Att 8,1; 11,29s; 14,23; 15,2. 4.6.22s; 16,5; 21,18; Tit 1,5; 1Tim 5,17-19; 1Pt 5,1s; 2Gv 1,1; 3Gv 1.
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organismi, né servire per tutte le malattie. Si tratta di ottenere un effetto soprannaturale, ma non
necessariamente miracoloso, come vedremo.
"Nel nome del Signore" ("en tô onómati ton kyríon") può significare "con la forza e la potenza del Signore" o
"per ordine o comando del Signore". Il Signore è Gesù Cristo, come viene chiamato nel NT dopo la
risurrezione (At 1,21, 2.36, 4,10, 1 Cor 5,4s) e nella stessa Lettera di Giacomo (1,1; 2.1; 5,7 s). Attribuire
l'espressione "nel nome del Signore" alla sola preghiera che viene fatta sul paziente, sembra un po' lontano
da quello che richiama la grammatica. Se si fa riferimento alla preghiera, dà l'idea della forza e la potenza di
Gesù Cristo, il quale viene invocato nella preghiera. Se si riferisce all’unzione, può significare piuttosto che è
da farsi per il comando di Gesù Cristo.
2) v. 15, gli effetti del rito
"La preghiera della fede" è la preghiera di cui si è appena parlato, la preghiera dei presbiteri, che devono
pregare con fede. Non si esclude che questa frase possa anche designare la fede della Chiesa, come in altri
passi del NT (Cf. Rm 10,8; 1 Tim 3,9), nel qual caso, rafforzerebbe il senso di preghiera liturgica e
sacramentale. Non è, quindi, almeno non direttamente, la preghiera o la fede del malato (come i protestanti
volevano), anche se questa fede viene presupposta dal fatto che faccia chiamare i presbiteri. Cosa accadrebbe
inoltre, se il malato non potesse più pregare per essere caduto in uno svenimento o nella la perdita dei sensi?
"Salverà" ("Sosei") è la stessa parola usata in precedenza (Gc 1,21): "accogliete con docilità la parola che è
stata seminata in voi e che può salvare le vostre anime" o più avanti (5,20): "chi riconduce un peccatore dalla
sua via di errore, salverà la sua anima dalla morte". Pertanto, il significato di questa parola, che qui in 5,15
sembra riferirsi in primo luogo alla guarigione fisica99, può anche raggiungere un senso di guarigione o di
salvezza in generale. Tanto più che nella mente ebraica, la salute e la salvezza sono considerate in relazione
alla persona nel suo insieme. Quindi possiamo dire che l'autore si riferisce alla salvezza in generale100. In
ogni caso, c'è un effetto spirituale, che può essere la causa dell'effetto fisico.
Il malato viene designato con la parola "kámnonta", un verbo che significa " lavorare duramente, con fatica,"
e quindi "essere stanchi, soffrire, essere senza forze ..." Si vede dunque che il senso è quello di una malattia
non lieve.
"Lo rialzerà " o "lo farà alzare" ("egereî") ha anche due sensi: fisico e spirituale. Ha il senso di "svegliare da
un sonno" (Mt 8,25; Lc 8,24), di "risuscitare i morti" (Mt 10,8, Gv 5.21, 12.1, Rm 4,24; 8, 11), di "rialzare
qualcuno dopo averlo guarito” (At 3,7)101 ... e non manca il senso spirituale: "E 'ora vi svegliate dal sonno"
(Rm 13,11); «Alzati, tu che dormi» (Ef 5,14). In ogni caso il soggetto dell'azione è "il Signore". Alcuni
hanno attribuito l'effetto di salute o conforto fisico all’espressione "la preghiera lo salverà" e il conforto
spirituale a "il Signore lo rialzerà", ma è semplicemente un parallelismo semitico. Nel primo caso si tratta
della la causa strumentale dell’azione e nel secondo, della la causa principale.
"E se avesse commesso dei peccati" ("hamartías"), in quanto si tratta di un condizionale, si riferisce ai casi
fuori della norma comune. Per Giacomo (3,2), in molte cose (lievi) cadiamo "tutti", ma riserva la parola
"hamartia" per "il peccato che produce la morte" (1,15), e quindi, sembra qui che il peccato non sia veniale,
ma si vuole accennare a dei peccati che non sono di "tutti". A fortiori s’intende che vengono perdonati anche
i peccati minori. Non si può certo dire che l'autore considera questo rituale come mezzo normale per il
perdono dei peccati, né che consideri questo l'effetto proprio e principale del rito.
99 In Mt 9,21-22 o in Mc 6,56, si usa lo stesso verbo (sodsein) in senso di salvezza fisica.
100 Nel versetto seguente, (v.16) si usa una parola simile, iathête ("siate sanati") nel senso spirituale, di perdono.
101 E in questo senso, i Vangeli mostrano che i guariti o risuscitati da Cristo “si alzano” dai loro letti: Mt 9,6; 9,25; Mc 1,3; 9,27; Lc
7,14; Gv 12,9. Il verbo è lo stesso (egeirein), ed è chiaro che è Gesù ad alzarli, sia per il potere della sua parola, sia persino
prendendoli per mano.
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Si riferisce ai peccati che hanno causato la malattia? Il tenore delle parole è del tutto generale: possono
essere i peccati che hanno causato la malattia e possono essere dei peccati che non l’hanno causata. Alcuni
hanno visto nelle parole di Giacomo un riflesso dell’opinione popolare che la malattia è il risultato dei propri
peccati. Tuttavia, il tono condizionale implica che l'autore ritiene che possa essere malato senza aver
commesso peccati gravi. Naturalmente si può dire che riflette la fede ebraica e cristiana che considera, in
senso generale, il peccato come la radice di ogni male. Quindi il peccato è visto come un ostacolo radicale ad
ogni grazia di sollievo e conforto, ostacolo che va rimosso per primo.
"Gli saranno perdonati": "aphethêsetai" è una "passiva divina", come in Gv 20,23, in cui il soggetto
dell’azione è Dio. C’e chi vuole vedere qui insinuata una confessione dei peccati fatta ai sacerdoti, per cui il
perdono non sarebbe una conseguenza diretta del rito di unzione, o forse il rito di unzione stesso sarebbe una
forma del sacramento della Penitenza. In tal caso, il seguente versetto: «confessate perciò i vostri peccati gli
uni agli altri e pregate gli uni per gli altri per essere guariti» sarebbe una mera ripetizione dell'idea dei
versetti 14 e 15. Tuttavia, la confessione reciproca e la preghiera del v. 16 hanno per oggetto proprio e non
condizionale la remissione dei peccati. La pratica accennata al versetto 16 sembra essere una pratica di
accusa pubblica personale più o meno generica, come segno di umiltà tra i fratelli e per scopi di
riconciliazione prima di cominciare un’assemblea liturgica, simile al nostro uso della recita del "Confiteor"
all'inizio della messa. La guarigione di cui si parla al v. 16 quale effetto della preghiera reciproca, può essere
intesa in senso fisico o spirituale, ma qui appare più chiaro quello spirituale.
d. Indole sacramentale dell'unzione di Giacomo.
In campo protestante c'è chi dice che tutta l'efficacia del rito è dovuta alla preghiera, e l'unzione sarebbe
accessoria. Tuttavia è chiaro che non solo la preghiera, ma anche l'unzione deve essere fatta "nel nome del
Signore" vale a dire, con il suo potere o per il suo mandato. Altri dicono che l'efficacia sia dovuta solo alla
fede e non alla preghiera, ma si dice essere "la preghiera della fede" (e non solo "la fede della preghiera") che
salverà il malato.
È certamente dalla "forma" del sacramento, cioè dalle parole, che procede l'efficacia ultimamente, e devono
essere dette nella fede della Chiesa, ma questo non elimina nessun elemento dall’insieme.
Secondo Lutero e Calvino, il rito enunciato da Giacomo sarebbe un modo di praticare il carisma di
guarigione, frequente nella Chiesa apostolica, e al quale si riferisce S. Paolo nelle sue lettere. Oggi, diceva
Lutero, sia perché non è utile, sia perché l'intensità della fede è diminuita, il carisma e non si dà più, e quindi
ripetere questo gesto non ha senso. Ma, come abbiamo visto, se così fosse, non si spiega il consiglio di
chiamare proprio i presbiteri, giacché il carisma di guarigione lo Spirito Santo, lo dava a chi voleva, fosse un
membro della gerarchia o un semplice fedele. Inoltre, nulla indica che la guarigione di cui qui si tratta sia
miracolosa, come nei casi in cui entrava in gioco il carisma della guarigione. Non c'è ragione, se questa
unzione si considera un rito destinato a portare conforto cristiano ai malati, per limitarla a un’epoca della
Chiesa.
Altri dicono che la salvezza, cui Giacomo fa riferimento con il verbo in futuro, sarebbe la salvezza
escatologica, che arriverà con la seconda venuta di Cristo. Ma nulla fa pensare a ciò nel contesto. Il rito si
presenta come un rimedio attuale per una situazione attuale.
Il rito esposto da Giacomo presenta i caratteri di un vero e proprio sacramento: segno sensibile che dà la
grazia, istituito da Cristo.
Si tratta di un rito sensibile e simbolico, nel quale un gesto di guarigione o rinvigorimento corporale significa
conforto e guarigione spirituali.
Il conforto spirituale viene determinato nel suo senso dalla preghiera deprecativa. C'è una somiglianza o
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proporzione tra il rito esterno e l'effetto interno (olio / conforto-guarigione corporale // Spirito Santo /
conforto-guarigione spirituale [senza escludere quella corporale]).
La santificazione interiore viene indicata dalle parole "la preghiera della fede salverà" e "il Signore lo
rialzerà". Questa santificazione è di effetti integrali, in corpo e spirito, ma l'aspetto spirituale è sottolineato
dalla condizione: "Se ha commesso peccati saranno perdonati", il che suppone la concessione di grazia,
soprattutto se include il perdono dei peccati gravi.
Infine, l'espressione "nel nome del Signore" è un indizio dell’istituzione da parte di Cristo. Più chiaramente,
se viene interpretato come "per il comando del Signore", ma pure se interpretata come "con la sua potenza",
perché Cristo difficilmente agirebbe tramite un gesto non corrispondente alla sua volontà.
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II. Interpretazione patristica e scolastica delle fonti bibliche
Occorre adesso considerare, almeno brevemente, l'evoluzione della prassi e della dottrina nel corso
della Tradizione. La storia dell'unzione presenta dei lati oscuri, per non dire assai strani102.
1. Nel periodo patristico
1. Fino al secolo IV
Durante i primi quattro secoli non si può veramente trovare una testimonianza chiara e certa
dell'unzione degli infermi come l'intende e la propone la lettera di San Giacomo.
Esisteva però, sia in Oriente, sia in Occidente, come appare da diversi documenti, il pio costume per
i fedeli di servirsi di olio benedetto nel caso di malattie. Quest'olio era benedetto sia dal vescovo, come è
detto di San Martino da Tours103, sia da un uomo di nota santità, anche laico, come si legge nella vita di
Sant'Ilarione, scritta da San Girolamo104. Oppure ancora i fedeli prendevano dell'olio da una lampada del
santuario della chiesa, come risulta da San Giovanni Crisostomo105. L'efficacia dell'olio per la guarigione
delle malattie era attribuita alla benedizione data all'olio o all'origine sacra dell'olio, molto più che
all'intervento di quello che l'applicava. A volte, tuttavia, la santità della persona che interveniva
nell'applicazione dell'olio era considerata molto potente per aumentare gli effetti benefici dell'olio. Si dice,
per esempio, che santa Genoveffa di Parigi (422-502) aveva l'abitudine di visitare i malati e di ungerli con
olio benedetto dal vescovo, e ne guariva molti.
Ma l'olio non si applicava soltanto sul corpo dei malati; spesso i malati ne bevevano. La prima
benedizione liturgica dell'olio, la cui formula sia pervenuta fino a noi, è quella della Traditio Apostolica di
Sant'Ippolito di Roma (circa l'anno 218). Ora, questa benedizione accenna visibilmente all'uso di bere l'olio.
Dopo l'anafora eucaristica, il vescovo benedice l'olio, dicendo: "Allo stesso modo che, dopo averlo
santificato, fai dono, o Dio, a quelli che se ne servono e lo ricevono, di quest'olio, col quale hai unto re,
sacerdoti, profeti; così esso porti sollievo (confortationem) a coloro che ne gustano (gustantibus, cioè ne
bevono) e accordi la sanità (sanitatem) a coloro che ne usano (utentibus, per farsi probabilmente delle
applicazioni esterne)" (cap 5). È raccontato nella vita di san Martino che faceva guarigioni dando a bere agli
ammalati dell'olio che aveva benedetto106.
Questi fatti, e altri dello stesso genere, sono talvolta citati come delle attestazioni dell'unzione degli
infermi durante i primi quattro secoli. Ma tali attestazioni sono piuttosto ambigue. Si tratta qui certamente di
un certo uso religioso dell'olio, ma questo uso ha manifestamente poca somiglianza con l'unzione di cui parla
la lettera di san Giacomo. Non c'è bisogno di sottolinearlo. L'uso in questione viene, a quanto pare, dagli
ambienti pagani in cui vivevano questi cristiani, o più probabilmente, i cristiani l'avevano preso dai giudei
stessi, i quali si servivano molto dell'olio come rimedio nelle malattie o come mezzo di guarigione
taumaturgica.
Abbiamo anche un'altra preghiera per la benedizione dell'olio dei malati nell'Eucologio di Serapione
di Thmuis in Egitto, redatto circa l'anno 350. Dice: "Invochiamo te, che hai ogni potere e sei salvatore di tutti
102 En esta sección seguimos unas notas inéditas de P. Pierre Adnès (P.U. Gregoriana, 1972) que transcribimos en italiano directamente. El P. Nicolau trata los mismos argumentos en su libro, pero se muestra demasiado maximalista al evaluar ciertos documentos como si fueran indicios claros de la práctica del sacramento de la Unción de los enfermos. 103 Cfr. SULPICIO SEVERO, Dialogus, III, 2, PL 20, 213. 104 Cfr. Vita S. Hilarionis, nn. 30. 32. 44; PL 22, 43_44. 46. 55. 105 In Matthaeum, Hom. 32, n. 6, PG 57, 584. 106 SULPICIO SEVERO, De vita Beati Martini cap. 16, PL 20, 169.
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gli uomini... perché tu dal cielo emetta su quest'olio la forza di sanare, e in quanti lo useranno sia a
liberazione di ogni languore e infermità, in rimedio contro ogni spirito immondo, in grazia e remissione dei
peccati, in rimedio di vita e di salute dell'anima e del corpo, e in perfetta energia"107. Questa benedizione
sembra implicare che l'unzione o l'uso dell'olio viene fatto dai fedeli stessi come rimedio contro la malattia.
Ma inoltre implora effetti spirituali: espulsione dei demoni, grazia, perdono dei peccati.
Il primo autore che cita il passo di san Giacomo sull'unzione è Origene108. Usa una variante testuale
che fa menzione di un'imposizione delle mani in più dell'unzione: "Si quis autem infirmatur, vocet
presbyteros Ecclesiae, et imponant ei manus, ungentes eum oleo in nomine Domini...". Ma Origene intende
l'infermità in questione in senso morale, cioè del peccato, e non fisicamente della malattia corporale. Applica
il testo alla penitenza pubblica, canonica e alla riconciliazione dei penitenti. Quest'uso allegorico del testo di
Giacomo si capisce meglio quando si sa che ad Alessandria, ai tempi di Origene, l'imposizione della mano
nella riconciliazione dei penitenti era spesso accompagnata da un'unzione di olio, che simboleggiava la
grazia dello Spirito Santo ridata al penitente riconciliato. Il testo di san Giacomo è citato una seconda volta
da San Giovanni Crisostomo109. Ma come Origene, egli allegorizza, sostituendo l'infermo del testo di
Giacomo con il peccatore, e la malattia fisica con quella spirituale dell'anima .
Nel 1963 fu scoperta in Palestina una lamella d'argento che portava un'iscrizione in cui alcuni hanno creduto di
leggere un'attestazione dell'uso dell'unzione degli infermi in certi ambienti giudeo-cristiani anteriori all'anno 130. Il
testo avrebbe detto, in termini molto simili a quelli di San Giacomo, che, mediante "l'Olio della Fede", Dio non soltanto
"alleggerisce la prova" di colui che ne è unto, ma "gli rimette il suo debito", cioè i suoi peccati110. Purtroppo, sembra
che l'iscrizione sia stata letta male e interpretata in modo sbagliato. Non avrebbe niente a che fare con l'unzione degli
infermi111.
2. Nei secoli V al VIII
La prima chiara testimonianza che abbiamo sull'unzione degli infermi ci è offerta da una lettera del
papa Innocenzo I al vescovo Decenzio di Gubbio. Questa lettera risale all'anno 416. La lettera di Giacomo
comincia ad essere conosciuta in Occidente. Il vescovo Decenzio di Gubbio l'ha letta, ma non l'ha capita
troppo bene. In particolare, il passo sull'unzione gli appare molto oscuro. Domanda al papa di che cosa si
tratta esattamente. Questa è una prova che l'unzione non doveva essere molto praticata finora in Occidente.
Il papa cita il testo di Giacomo in una traduzione latina anteriore alla nostra Volgata, e poi lo
commenta come segue: "Ciò deve essere inteso indubbiamente dei fedeli ammalati, che possono essere unti
col santo olio del crisma che il vescovo ha consacrato, e che non soltanto i sacerdoti, ma anche tutti i cristiani
possono usare per l'unzione nelle proprie necessità ed in quelle dei loro" (DS 216; Dz 99).
Innocenzo afferma dunque che tocca al vescovo di consacrare l'olio, che chiama: "sanctum oleum
chrismatis". Ma dichiara che non soltanto i sacerdoti possono usare l'olio consacrato dal vescovo, per fare
l'unzione, ma anche tutti i cristiani. Possono usarlo sia per fare l'unzione a se stessi, sia per farla ai loro
parenti, congiunti. Ciò che è evidentemente assai sorprendente.
Il vescovo Decenzio domanda d'altra parte al papa se anche il vescovo può fare l'unzione, visto che
si parla non di vescovi ma di presbiteri nel testo di Giacomo. Il papa Innocenzo risponde che questa è una
domanda superflua: quello che possono fare i sacerdoti, il vescovo può indubbiamente farlo "Infatti ciò è
stato detto ai sacerdoti perché i vescovi, che sono impediti dalle altre loro funzioni, non possono andare da
tutti gli ammalati. Ma se un vescovo è in grado e ritiene conveniente visitare egli stesso qualcuno, lo può
107 Cfr. FUNK, Didasc. et Const. Apost., II, 191. 108 Cfr. In Leviticum, Hom. 2, 4, PG 12, 419A. 109 Cfr. De sacerdotio, III, 6, PG 48, 644. 110 Cfr. E. TESTA, L'Huile de la Foi. L'Onction des malades sur une lamelle du 1 siècle, Jérusalem, 1967. 111 Cfr. J. T. MILIK, Une amulette judéo_araméenne, in Biblica, 48 (1967) pp.450_451.
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senza scrupolo benedire ed ungere con il santo crisma, poiché a lui compete anche la consacrazione del
crisma".
Infine è degna di nota l'osservazione con cui Innocenzo termina la sua lettera. «Quest'olio non può
essere infuso ai penitenti, cioè a coloro che sono sottoposti alla penitenza pubblica e non sono ancora
riconciliati, perché quest'olio è un genere di sacramento (quia genus est sacramenti). Come potrebbe, infatti,
essere concesso un sacramento a coloro ai quali sono negati gli altri sacramenti?». La parola "sacramentum"
non è presa qui nel senso strettamente tecnico che ha oggi per noi. Innocenzo vuol dire semplicemente che
l'unzione deve essere considerata come un rito sacro della Chiesa. Ad ogni modo, l'esclusione dei penitenti
dall'unzione è una chiara prova che non si trattava di un qualsiasi uso pio.
Occorre però rilevare alcune particolarità di questa lettera, che passerà in seguito in tutte le
collezioni canoniche del medio evo. Quando questa lettera viene esaminata da vicino, si vede che in essa
sono mischiate in realtà due unzioni dei malati: l'unzione apostolica descritta da Giacomo e fatta dai
sacerdoti - che comincia ad essere nota o meglio conosciuta in Occidente mediante la diffusione dell'epistola
di Giacomo, che entra allora nel canone dei libri ispirati - e l'uso popolare dell'olio benedetto con cui i fedeli
laici ungono se stessi o ungono gli altri. La lettera di Innocenzo non sembra fare una differenza sostanziale
tra questi due usi.
Inoltre, la lettera di Innocenzo attesta già la pratica romana ed occidentale di riservare la benedizione
dell'olio al vescovo solo. Questa pratica si collega storicamente, non all'unzione apostolica di Giacomo, ma
all'uso popolare dell'olio. L'olio è presunto che tragga la sua efficacia dalla benedizione o dalla consacrazione
fatta dal vescovo. L'atto dell'amministrazione e il ministro dell'unzione hanno finalmente meno importanza
nei confronti della consacrazione dell'olio.
Il fatto che le domande assai ingenue del vescovo di Gubbio sembrano indicare che l'unzione
apostolica di Giacomo non era ancora ben conosciuta in Occidente, non deve turbarci. L'unzione dei malati
non è un mezzo di salvezza indispensabile, come il battesimo. Larghi settori della Chiesa hanno potuto
ignorarla per alcuni secoli. Non tutti i sacramenti sono necessariamente da ricevere.
Nei due secoli seguenti persistono i due usi dell'olio, più o meno mischiati, o ad ogni modo non
ancora ben distinti.
Nel corso del VI secolo, il testimone più noto è san Cesario, vescovo di Arles, nella Gallia
meridionale. Ma egli è un testimone assai curioso. I suoi sermoni, che nel passato erano attribuiti per errore a
sant'Agostino, sono molto interessanti per la conoscenza della dottrina comune e delle usanze cristiane alla
fine dell'epoca patristica in Occidente. Questi sermoni sono indirizzati ad un popolo assai incolto ed ancora
mezzo pagano. Cesario parla parecchie volte dell'unzione dei malati. Lotta contro l'abitudine che vige ancora
tra i cristiani di ricorrere ai rimedi magici degli stregoni e delle streghe in caso di malattia.
I fedeli, dice Cesario, devono piuttosto chiedere ai sacerdoti l'olio santo e benedetto per farsi
l'unzione, dopo avere ricevuto la santa comunione. Ecco un passo del Sermone 13, 3, di Cesario: "Quotiens
aliqua infirmitas, supervenerit, corpus et sanguinem Christi ille qui aegrotat accipiat; oleum benedictum a
presbyteris humiliter ac fideliter petat, et inde corpus suum ungueat". Cesario riporta allora il testo di
Giacomo sull'unzione, e prosegue: "Videte, fratres, qui in infirmitate ad ecclesiam currit, et corporis
sanitatem recipere et peccatorum indulgentiam merebitur obtinere". L'olio è benedetto dai presbiteri; Cesario
sembra ignorare l'uso romano che riserva la benedizione al vescovo - e poi l'unzione è fatta dai fedeli stessi.
Mai Cesario dice che l'unzione sia fatta dai presbiteri. Invece, dice sempre il contrario: "Oleo benedicto et se
et suos fideliter perungere debent Christiani" (Sermo 184, 5). "Oleo benedicto vos perungite" (Sermo 50, 1).
Le madri stesse devono fare l'unzione ai loro bambini ammalati con l'olio benedetto dai presbiteri (Sermo 52,
5).
Al VII secolo risale la prima spiegazione letterale di tutta l'epistola di Giacomo che sia pervenuta
fino a noi: è quella del Venerabile Beda. Commentando il passo del capitolo V sull'unzione, Beda lo
confronta con il passo del Vangelo di Marco sulla prima missione degli Apostoli, in cui ungevano i malati, e
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dice: "Hoc et apostolos fecisse, in Evangelio legimus, et nunc Ecclesiae consuetudo tenet, ut infirmi oleo
consecrato ungantur a presbyteris, et oratione comitante sanentur". Ma aggiunge immediatamente: "Nec
solum presbyteris, sed, ut Innocentius papa scribit, etiam omnibus Christianis uti licet eodem oleo in sua aut
suorum necessitate ungendo, quod tamen oleum, non nisi ab episcopis licet confici" (PL 93, 39).
A partire però dal secolo VIII, l'amministrazione dell'unzione degli infermi viene a poco a poco
riservata soltanto ai sacerdoti e proibita ai laici. L'uso popolare dell'olio benedetto è progressivamente
eliminato. Inoltre, l'atto dell'amministrazione acquista sempre più importanza nei confronti della
consacrazione dell'olio da parte del vescovo. Questa consacrazione rimarrà tuttavia, ed è rimasta infatti fino
ad oggi. Ma essa acquista anche un nuovo significato. La consacrazione dell'olio degli infermi, che in
Occidente si fa il giovedì santo, assicura al vescovo che la compie la partecipazione all'amministrazione del
sacramento in tutta la diocesi. Nello stesso, tempo vi si esprime il carattere pubblico ed ecclesiale del
sacramento.
3. Nei secoli IX a XII
Sin dal secolo nono, le testimonianze sull'unzione dei malati, così rare o almeno ambigue nei secoli
precedenti, cominciano ad abbondare. Diversi concili particolari nell'impero di Carlo Magno esortano i
sacerdoti a fare conoscere ai fedeli nelle loro prediche l'esistenza di questo sacramento, e fanno ai sacerdoti
l'obbligo di amministrarlo agli ammalati. Vedete, ad esempio, in Denz-Schönm. n. 620 (Dz 315), il concilio
di Pavia (o Ticinense), tenuto nell'anno 850, che dice dell'unzione: "magnum sane ac valde appetendum
mysterium, per quod, si fideliter poscitur, et peccata remittuntur, et consequenter corporalis salus restituitur".
I capitolari e gli statuti diocesani che si elaborano in questo periodo carolingio, in cui la Chiesa
tende, in Occidente, a prendere la fisionomia che conserverà fino ad oggi, prescrivono ai sacerdoti l'ordine da
seguire nella visita degli ammalati e nell'amministrazione dell'unzione. Quest'amministrazione è un rito
lungo e complicato. Normalmente sono richiesti tre sacerdoti - alcuni rituali dicono sette - i quali ripetono il
rito sette giorni di seguito.
Ma poiché i malati poveri non potevano sopportare le spese di una cerimonia che radunava tanti
sacerdoti, che si facevano pagare molto, il numero dei sacerdoti sarà ridotto man mano ad uno solo, di
autorità della Chiesa, uso che è rimasto finora in Occidente, mentre in Oriente il rito dell'unzione è spesso
concelebrato ancora oggi da parecchi sacerdoti .
Il fatto, però, più notevole del periodo carolingio è l'introduzione progressiva dell'uso di non più dare
l'unzione che ai malati che sono in punto di morte, in fin di vita, mentre prima l'unzione si amministrava per
qualsiasi malattia. Ogni male corporale, grave o leggero, ammetteva l'unzione, anche se aveva carattere
permanente (si ungevano a volte i muti, i sordi, i ciechi, i paralitici). Da nessuno dei testi precarolingi si può
con sicurezza dedurre che l'unzione fosse conferita "in extremis", allo scopo espresso di preparare il malato a
ben morire .
Non è facile spiegare il cambiamento introdotto dalla prassi carolingia. Gli storici dei dogmi
propongono diverse ragioni. In primo luogo, c'è la rapacità, la simonia dei sacerdoti, il gran male della
Chiesa dell'alto medio evo; questi domandano molto danaro per amministrare l'unzione, che passa per un
rimedio più o meno magico agli occhi di un popolo incolto; la gente chiama i preti solo quando non può più
farne a meno. Poi, una confessione dei peccati deve ormai, secondo i rituali, precedere l'amministrazione
dell'unzione. Ma la confessione è spesso rimandata al più tardi possibile, fino all'avvicinarsi della morte, per
evitare la prestazione di una soddisfazione che rimane ancora molto onerosa, benché la penitenza pubblica
non sia più generalmente in uso. Anche nei primi tempi della penitenza privata, come abbiamo visto, la
soddisfazione da fare dopo la confessione era lunga e dura. Sembra anche che alcune sequele dell'antica
penitenza pubblica siano state riversate sull'unzione dei malati in certe regioni: chi ha ricevuto l'unzione non
può più sposarsi, non può più usare del matrimonio già contratto...; di modo che la gente esitava a ricevere
l'unzione quando questa non era assolutamente necessaria. Infine, nei rituali ad uso dei sacerdoti, il rito
dell'unzione si trovava inserito tra la confessione e i riti del viatico, della "commendatio animae" e
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dell'officio delle esequie. Da questa funebre prossimità e vicinanza, prendeva un'aria di preparazione alla
morte.
Anzi, a poco a poco si introduce l'usanza di spostare l'unzione dopo il viatico e prima della
"commendatio animae". Allora l'unzione è diventata l'ultimo sacramento, il sacramento di coloro che stanno
per morire, il cui scopo è di preparare il cristiano all'ingresso nella vita dell'al di là.
Perciò, sin dal XII secolo almeno, l'unzione comincia ad essere chiamata l'"estrema unzione", cioè
l'unzione che si riceve non soltanto dopo tutte le altre, quelle del battesimo e della cresima, per non parlare
dell'ordine, ma all'estremità della vita, "in extremis". La chiamano anche "sacramentum exeuntium", il
sacramento di coloro che escono dalla vita. Queste denominazioni erano sconosciute nei tempi precedenti.
D'ora in poi, nella mente del popolo cristiano, l'unzione ha una connessione essenziale con la morte; non è
più il sacramento degli ammalati, ma proprio dei moribondi. Ricevere l'estrema unzione significa lo stesso
che essere in articolo di morte.
In Oriente, però, questa pratica e questa concezione dell'unzione non prevalsero mai. Nella Chiesa
Greca l'unzione si chiama "hagion elaion", l'olio santo. o "euchelaion", l'olio della preghiera, l'olio che
accompagna la preghiera liturgica della Chiesa. Non è riservata soltanto ai malati in pericolo, Anzi, si
amministra a volte ai malati leggeri, e anche, si dice, a persone in buona salute; questo si fa, in diversi luoghi,
dopo la confessione e l'assoluzione, in modo di preparazione alla comunione. Si tratta qui di un uso
diametralmente opposto alla pratica latina ed occidentale. Ma, a parere di P. Adnès, l'unzione data dopo
l'assoluzione è piuttosto un ricordo dell'antica consuetudine, di cui abbiamo già parlato, di ungere con olio i
penitenti dopo l'imposizione della mano nel rito della riconciliazione, unzione penitenziale che è stata
confusa, in modo più o meno allegorico, con l'unzione dei malati di san Giacomo, perché i penitenti sono
anche dei malati - spirituali - da guarire.
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2. Nel Magistero medievale e nella scolastica
1. Documenti del Magistero medievale
P. Adnès non riporta i principali documenti del Magistero in epoca medievale; li ho brevemente aggiunti
(cfr. Nicolau, p. 93).
Innocenzo III (1208), propone una formula o professione di fede per reintegrare i valdesi nella
Chiesa, che elenca i sacramenti della Chiesa (il settenario). Dopo aver menzionato il sacramento della
Confessione, e prima del Matrimonio, propone "l'Unzione degli infermi con olio consacrato" (DS 794; Dz
424).
Il Concilio II di Lione (1274), nella professione di fede per l'imperatore bizantino Michele
Paleologo, mentre espone la dottrina della Chiesa dei Sette Sacramenti, dichiara: "Uno è l'Estrema Unzione,
che secondo la dottrina del beato Giacomo, va applicata ai malati" (DS 860; Dz 465).
Martino V (1418), tra le domande da porre ai seguaci di Wyclif e Hus, include una sul fatto se
credono che pecchi mortalmente il cristiano che disprezza il sacramento dell'Estrema Unzione, tra gli altri
(DS 1259; Dz 669).
Il Concilio di Firenze, nel suo Decreto per gli Armeni (1439), insegna come "dottrina comunemente
accettata" il settenario sacramentale, che include l’Estrema Unzione come il quinto sacramento, e una sintesi
della teologia medievale su di esso, principalmente secondo S. Tommaso D’Aquino. Sull’Unzione degli
infermi, dice:
Si tratta di uno dei sette sacramenti della Nuova Legge, che contengono la grazia e la conferiscono a chi li
riceve degnamente: «Se per il peccato siamo incorsi nelle malattie dell'anima, per la Penitenza veniamo
guariti spiritualmente; e anche spiritualmente e corporalmente, se ciò conviene all’anima, dall'Estrema
Unzione. Questo sacramento, che non imprime carattere, ammette ripetizione».
Spiega in dettaglio la natura e gli effetti dell’Unzione degli infermi: « Il quinto sacramento è l'Estrema
Unzione, la cui materia è l'olio d'oliva benedetto dal vescovo. Questo sacramento non deve essere
amministrato se non al malato per la cui vita si teme, il quale deve essere unto su queste parti: sugli occhi,
per la vista; sulle orecchie, per l’udito; sul naso, per l'odorato; sulla bocca, per il gusto e le parole; sulle mani,
per il tatto; sui piedi, per il camminare; sulle reni, per il piacere che ivi si trova112 ».
«La forma di questo sacramento è: “Per questa santa Unzione e la sua piissima misericordia, ti perdoni il
Signore tutto ciò che hai mancato per la vista…” e analogamente per gli altri membri. Il ministro di questo
sacramento è il sacerdote. L’effetto è la salute dell'anima e, se giova all'anima, la salute del corpo».
Rapporta anche il fondamento biblico di questo insegnamento: «Di questo sacramento benedetto
dice San Giacomo: “Qualcuno tra di voi è malato?...” ecc». (DS 1310-1313; Dz 695).
2. La scolastica
Quando i teologi scolastici parleranno dell'unzione degli infermi, o piuttosto dell'"estrema unzione",
come si dice ormai, sarà in funzione della prassi della loro epoca.
a. Istituzione
112 Dopo Trento l’unzione sulle reni fu sostituita da quella sulla fronte.
Penitenza e Unzione degli Infermi 2012-2013 - 135
Collocano l'estrema unzione tra i sacramenti della Chiesa. Ma non sono d'accordo sul modo
dell'istituzione di questo sacramento.
Alcuni (Ugo di San Vittore, Pietro Lombardo) pensano che il sacramento dell'unzione è stato istituito
direttamente dagli apostoli, o almeno da San Giacomo stesso dopo la Pentecoste. Tuttavia, l'avrebbero fatto
per mandato di Cristo, il quale, ancora vivente, avrebbe ordinato loro di istituire più tardi un sacramento per
gli ammalati, e di determinarne il rito. Il passo della lettera di Giacomo, cap. 5, ci offrirebbe la testimonianza
di questa istituzione fatta dagli Apostoli per ordine di Cristo, che sarebbe così l'autore mediato del
sacramento.
Altri (per esempio san Bonaventura) stimano che l'istituzione del sacramento deve essere attribuita
allo Spirito Santo, che dopo la Pentecoste, per mezzo di una illuminazione soprannaturale, avrebbe mosso gli
Apostoli a servirsi, per aiutare gli ammalati, di questa unzione, che Cristo avrebbe soltanto annunciata
quando mandò gli Apostoli a predicare e ad ungere gli infermi (Mc 6,12-13).
San Tommaso, invece, e più fortemente ancora Giovanni Duns Scoto, rigettano queste varie
spiegazioni. Tutti i sacramenti, dicono, sono stati istituiti da Cristo immediatamente, compreso quello
dell'estrema unzione. Il testo di Marco 6,12-13, è l'annuncio, l'"insinuazione" del sacramento che sarà poi
istituito da Cristo stesso, mentre il testo di Giacomo 5,14-15, ne è la "promulgazione"; ciò significa che
Giacomo, in questo testo, ci fa conoscere ufficialmente, di autorità, l'esistenza del sacramento già istituito da
Cristo, anche se non ci dice quando e dove è stata fatta questa istituzione. La spiegazione di san Tommaso e
di Scoto diventerà classica e sarà adottata dal concilio di Trento (DS 1695; Dz 908).
b. Ministro
Quanto al ministro, gli scolastici insegnano unanimemente che questo è solo il sacerdote. Non
ignorano pertanto che nel passato anche i fedeli laici erano abilitati a fare l'unzione con olio. Ma dicono:
l'unzione fatta dai fedeli non aveva valore di vero sacramento. San Bonaventura pensa che la cosa è
probabile. San Tommaso è più affermativo. Comincia col riportare la seguente obiezione: "De quibusdam
Patribus in Aegypto legitur, quod oleum ad infirmos transmittebant, et sanabantur: et similiter dicitur de
beata Genovefa, quod oleo infirmos ungetbat...". Ma poi risponde: "Illae unctiones non erant sacramentales;
sed ex quadam devotione recipientium talem unctionem, et ex meritis ungentium, vel oleum mittentium,
consequebatur effectus sanitatis corporalis per gratiam sanitatum, non autem per gratiam sacramentalem"
(Summa Theol., Suppl. q.31, a.1, ad2).
Questa è la soluzione che ha finalmente prevalso nella teologia classica: vigeva nei primi secoli un
duplice uso dell'olio santo, uno che era veramente il sacramento stesso, riservato al ministero del vescovo e
dei sacerdoti, l'altro privato, per cui i fedeli laici potevano servirsi dell'olio a scopo religioso; questo uso
privato può essere considerato, non come un sacramento, ma come un sacramentale, cioè un rito che ha certi
effetti benefici in virtù della benedizione della Chiesa e della fede di chi lo usa.
c. Scopo ed effetti
1) Idea comune
Ragionando d'altra parte sull'unzione secondo la pratica del loro tempo, gli scolastici sono d'accordo
nell'assegnare lo scopo, il fine a cui questo sacramento è stato istituito: è di preparare l'anima ad entrare
nella gloria celeste immediatamente dopo la morte, senza dilazione, senza ritardo, o almeno al più presto,
non essendo il purgatorio completamente evitabile a tutti. San Bonaventura scrive: "Unctio extrema est
sacramentum exeuntium ex hac vita...; illud sacramentum disponit ad melius agonizandum, hoc est ad
celerius evolandum in coelum" (Breviloquium, VI, 11). San Tommaso non parla in modo diverso: "Hoc
sacramentum immediate hominem ad gloriam disponit, cum exeuntibus a corpore detur... " (S.Th., Suppl. q.
29, a. 1, ad 1). Per mezzo di questo sacramento "homo quasi ad participandam gloriam praeparatur, unde et
extrema unctio nuncupatur" (Contra Gentiles, IV, 3).
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Ma da dove viene che l'estrema unzione possa così preparare l'anima ad entrare nel cielo e nella
gloria celeste al più presto? La ragione è da cercare nel fatto che l'estrema unzione è una specie di rimedio
spirituale. Questo rimedio opera la perfetta guarigione spirituale dell'anima, togliendo da essa tutto ciò che
può impedirla di ottenere immediatamente la beatitudine eterna. L'estrema unzione e un sacramento che mira
a procurare la piena sanità spirituale dell'anima. L'idea e assai interessante, ma gli scolastici non sono più
d'accordo quando si tratta di spiegare come questo sacramento procura la sanità in questione.
2) Scuola tomista
Secondo san Tommaso e la scuola tomista, l'estrema unzione procura la piena sanità spirituale
dell'anima cancellando i residui del peccato, le "reliquiae peccati", cioè, come spiega san Tommaso, "una
certa debolezza e incapacità (per la virtù ) lasciate in noi dal peccato attuale e originale: contro tale debolezza
l'uomo viene irrobustito dall'estrema unzione" (S.Th., Suppl. q.30, a.1).
La morte avvicinandosi e le forze fisiche diminuendo, questa debolezza si fa ancora più pesante. A
questa debolezza viene in aiuto la grazia sacramentale dell'unzione. L'ammalato, riconfortato, sollevato dal
suo dolore, è dotato di un vigore nuovo, capace di affrontare lo sforzo necessario per restare fino alla fine
nella via della virtù, nonostante la permanenza delle inclinazioni cattive e nonostante le tentazioni proprie
dello stato di malattia. Nello stesso tempo la grazia sacramentale dell'unzione lo inclina a sopportare con
pazienza e rassegnazione la malattia, ad aspettare con tranquillità la morte, ad elevare gli occhi verso la
misericordia di Dio con fede, speranza e abbandono totale. L'ammalato è così preparato all'immediato
conseguimento della vita eterna.
Poiché l'estrema unzione cancella i residui, le "reliquiae" del peccato, cioè questa debolezza
spirituale nata dal peccato e radicata nell'anima, San Tommaso presenta questo sacramento come un
complemento della penitenza, nello stesso modo che la cresima è un complemento del battesimo.
Eventualmente, tuttavia, l'estrema unzione può anche cancellare il peccato stesso, veniale e mortale, che
rimarrebbe nell'anima, ma lo fa secondariamente, "per accidens", allo scopo di assicurare l'effetto principale,
cioè la cancellazione dei residui del peccato, la debolezza spirituale. Questo si capisce facilmente: è
impossibile cancellare i residui del peccato se il peccato stesso non è tolto prima. Bisogna togliere la causa,
prima di togliere l'effetto.
Ma l'estrema unzione può ancora produrre la sanità del corpo. Questa sanità non è esclusa; tuttavia
non succede sempre, ma soltanto "quando expedit ad spiritualem sanationem". San Tommaso non è molto
loquace su questo punto. Vuole dire, forse, che l'estrema unzione produce la sanità del corpo quando è
meglio per l'ammalato di non morire adesso, perché egli non è sufficientemente pronto, ben disposto, cioè
quando difatti è più utile per la sua salvezza eterna che si ristabilisca. Ad ogni modo, quest'effetto di
guarigione corporale, benché veramente proprio dell'unzione, è anche secondario, anzi condizionale.
La dottrina di San Tommaso sull'estrema unzione è certamente assai profonda e contiene diversi
elementi validi da ritenere se si fa astrazione da quest'insistenza eccessiva sull'idea di preparazione
immediata alla morte.
3) Scuola francescana
Secondo San Bonaventura, invece, l'estrema unzione procura la piena sanità spirituale dell'anima
cancellando il peccato veniale stesso. Il peccato veniale, in cui ricadiamo sempre di nuovo, è difatti l'ostacolo
principale che ci impedisce di entrare subito dopo la morte nella gloria eterna e di godere della visione
beatifica. Conviene dunque che ci sia un sacramento per la cancellazione di questa specie di peccato
all'ultimo momento della nostra vita. Questo sacramento e l'estrema unzione. Il suo effetto principale è di
cancellare tutti i peccati veniali che rimangono ancora nell'anima all'istante della morte, così che ci sono tre
sacramenti contro il peccato: il Battesimo contro il peccato originale, la Penitenza contro il peccato mortale e
l'Estrema Unzione contro il peccato veniale (IV Sent., dist. 23 a. 1, q. 1).
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Il Beato Giovanni Duns Scoto, francescano anche lui, segue san Bonaventura: l'unzione prepara
l'uomo alla visione di Dio, cancellando tutti i peccati veniali che ancora rimangono. Ma Scoto trae la
conseguenza logica della teoria: l'estrema unzione deve essere amministrata non solo in pericolo immediato
di morte, ma il più tardi possibile, meglio se così tardi da non poter più peccare venialmente, cioè quando
l'ammalato è praticamente privo di sensi. E mentre San Bonaventura parlava ancora di una certa possibilità di
superamento fisico della malattia, Scoto non ne parla più.
Questa vista esclusivamente spiritualistica e disincarnata dell'estrema unzione è quella che regna
comunemente in Occidente alla fine del medio evo. L'estrema unzione è amministrata e ricevuta come
l'ultima purificazione dell'anima prima della morte, cioè come puro sacramento dei moribondi.
L'antico rituale dell'unzione, (prima della riforma fatta nel 1972) portava l'impronta di questa
concezione. A ogni unzione, il ministro ripeteva: "Per questa santa unzione e per la sua piissima
misericordia, il Signore ti perdoni tutte le colpe che hai commesso con la vista, con l'udito, con l'odorato, con
il gusto e la parola, con il tatto..." Tale formula, che risaliva al medio evo, dava curiosamente all'unzione
l'aspetto penitenziale di un’ultima purificazione dei peccati commessi dal malato per mezzo dei suoi diversi
organi.
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III. Documenti del Magistero e riflessione teologica
1. La Riforma protestante e il Concilio di Trento
1. La Riforma protestante
Lutero non crede che l'unzione sia sacramento. Nel suo libro De captivitate babilonica ne sottopone
a dura critica sia la natura che la prassi. Seguendo il concetto legalistico di istituzione e aggiungendo il
principio di "sola Scrittura", dice che non si vede nel Vangelo un passo in cui Cristo abbia istituito questo
sacramento. Ritiene che il rito raccomandato da Giacomo fosse una forma antichissima del carisma di
guarigione, che oggi non esisterebbe più (sarebbe la stessa unzione di cui parla Marco 6,13). In ogni caso,
l'efficacia della guarigione non dipenderebbe dall'unzione, ma dalla “preghiera della fede”. I "presbiteri" di
cui parla Giacomo sarebbero le persone più anziane e degne della comunità, dotate di questo carisma, e non
dei ministri ordinati.
Inoltre, sempre secondo Lutero, anche supponendo che il rito della Lettera di Giacomo fosse un vero
e proprio sacramento, l'Estrema Unzione, come è praticata nella Chiesa cattolica, ha poco in comune con
esso. La lettera raccomanda il rito per i malati in generale, la Chiesa lo riserva ai morenti. I ministri, secondo
la lettera, sono le persone più anziane e degne della comunità, la Chiesa invia un semplice sacerdote. Gli
effetti attesi sono diversi: il testo di Giacomo parla di guarigione fisica, e l'Estrema Unzione intende produrre
la purificazione finale dell’anima del moribondo, e se per caso uno su mille guarisse dopo, nessuno lo
attribuirebbe all’Unzione, ma alla natura o all'arte del medico. Come si vede, si fronteggiarono
un’insufficiente esegesi di Lutero e un’incompleta teoria e pratica da parte della Chiesa medievale.
Lutero non respinse del tutto l'Unzione, ma l’ammette come un rito di istituzione soltanto
ecclesiastica. Dice che questo rito può fare del bene ai malati, perché tutto ciò che serve per eccitare la fede,
la fiducia in Dio è buono e utile, e per di più, la Chiesa ha il dovere di assistere i malati con le sue cure e
preghiere, anche se per fare ciò non dovrebbe aspettare fino all'ultimo momento.
Calvino riprende approssimativamente l’argomentazione di Lutero. È disposto ad ammettere che
l'unzione al tempo degli apostoli fosse un sacramento, giacché, secondo lui, provocava un effetto
soprannaturale di guarigione, ma poiché questo effetto non si dà più oggi, il segno rimane vuoto.
Tra i protestanti l’Unzione rimase come un sacramentale in più, come una pia consuetudine della
Chiesa, e a poco a poco cadde in disuso. Nel secolo XX c'è stata una ripresa dell’Unzione in alcuni settori
della Comunione anglicana.
2. Il Concilio di Trento
Il Concilio di Trento tratta su l'Unzione degli infermi nella stessa sessione della Penitenza (Sess.
XIV, a. 1551) e a continuazione di questa.
I Padri conciliari accettarono senza troppi problemi il testo preparato dai teologi, che riflette le idee
della teologia occidentale scolastica, in particolare il "Proemio", in cui viene presentata l’Estrema Unzione
come la "consumazione" della Penitenza, e come un aiuto contro gli attacchi del nemico al momento della
morte.
In sintesi, afferma:
- L'Unzione degli infermi è uno dei sette sacramenti della Chiesa.
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- È stato istituito da Cristo (non dice come e quando).
- È stato insinuato nel Vangelo di S. Marco (6.13) e promulgato da Giacomo (5,14-15).
- L'effetto è la grazia dello Spirito Santo, che:
- Toglie i peccati e le loro reliquie, se ce ne fossero (effetto condizionato).
- Solleva e conforta (alleviat et confirmat) il malato, infondendo in lui una grande fiducia nella misericordia
divina, che lo conforta in modo che più facilmente sostenga il peso e il dolore della malattia e più facilmente
resista alle tentazioni di Satana (effetto normale, abituale e principale).
- E, se richiesto dalla salute dell'anima, ottiene anche la salute fisica (effetto condizionale) (cfr. DS 1696, Dz
909).
- Dovrebbe essere amministrata principalmente a coloro che si prevede in punto di morte (ma non solo a
questi).
- Il Concilio usa in modo indistinto "Estrema Unzione" o "Unzione degli Infermi".
Il canone 1 dichiara anatema coloro che dicono che l'estrema unzione non è veramente e
propriamente un sacramento istituito da Cristo e promulgato dall’apostolo Giacomo.
Non dice dove, come o quando l'istituzione da Cristo abbia avuto luogo. Non si dice che si tratti di
un'istituzione in senso giuridico, benché molti Padri forse avessero in mente questo concetto. Naturalmente è
un'istituzione in senso teologico, vale a dire, che l'esistenza del sacramento e il potere del segno per dare la
grazia, sono da riferirsi alla volontà di Cristo, perché Egli solo ha il potere di unire una grazia a un segno, ma
non significa necessariamente che Cristo abbia espresso questo desiderio con parole esplicite e specifiche,
come nel caso dell’istituzione giuridica.
Allo stesso modo, la promulgazione da parte di Giacomo, non è da prendere in senso giuridico, ma
nel senso di "rendere noto", con autorità e insistenza, un rito ormai en uso. Grazie alla Lettera di Giacomo,
tutta la Chiesa ha imparato a conoscere questo rito. Questo non significa che i cristiani a cui rivolge
specificamente la sua lettera già lo conoscessero.
Trento prende le distanze dalle posizioni medievali col porre gli effetti della remissione dei peccati
(quello principale secondo San Bonaventura e Scoto), e l'eliminazione dei resti del peccato (S. Tommaso) tra
gli effetti condizionati. Mentre l'effetto proprio e principale lo fa consistere nel rinforzamento e sollievo e
spirituale del malato, attraverso la fiducia nella misericordia divina, che lo "rialza" in modo che possa
sopportare il dolore più facilmente e resistere alle tentazioni. Per quanto riguarda l'effetto della guarigione
corporale, lo condiziona alla convenienza spirituale del malato.
Trento si separa dalla visione medievale anche nel respingere una proposta secondo cui il
sacramento sarebbe amministrato soltanto a coloro che sono malati in modo così grave che si ritengano sul
punto di lasciare questa vita. Dichiara che a questi principalmente (ma non solo) deve essere amministrato il
sacramento (DS 1698; Dz 910). Inoltre, quando si aggiunge "… per ciò si chiama Estrema Unzione", è stato
cancellato l’avverbio “merito” (= a ragione, in modo appropriato…), proposto nello schema iniziale, per non
mostrare preferenza per questa terminologia, e utilizza anche il nome "Unzione degli infermi "(DS 1695,
1717, Dz 908, 927).
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2. Il Concilio Vaticano II e i documenti recenti
a. Riforma disciplinare
La Costituzione Sacrosanctum Concilium (n. 73), afferma che «L'Estrema Unzione, che può essere
chiamata anche, e meglio, “Unzione degli infermi”, non è il sacramento di coloro soltanto che sono in fin di
vita. Perciò il tempo opportuno per riceverlo ha certamente già inizio quando il fedele, per indebolimento
fisico o per vecchiaia, incomincia ad essere in pericolo di morte». Questa norma del “pericolo di morte”
sembra piuttosto un fatto disciplinare della Chiesa latina. Gli Orientali l’amministrano per qualsiasi malattia.
L'attuale Codice di Diritto Canonico (can. 1005) aggiunge che in caso di dubbio circa il pericolo di morte, è
preferibile amministrarla.
Nel n. 74, si comanda di creare un nuovo rituale, in cui si indichi che l'Unzione degli infermi sia
amministrata dopo la confessione e prima del viatico. Inoltre, nel n. 75, si chiede di adattare il numero delle
unzioni alle circostanze attuali e che siano elaborate preghiere per le diverse situazioni in cui il malato si
possa trovare.
È da notare che il Concilio sottolinea che l'ultimo sacramento non è che l'Eucaristia stessa,
amministrata come viatico. L'Eucaristia è il pegno della vita eterna, come viene presentata nel Vangelo di S.
Giovanni (cfr cap. 6, in particolare vv. 48-51 e 54-58). L'Eucaristia è, come dicevano i Santi Padri, “farmaco
d'immortalità”, e identifica pienamente il cristiano con il mistero pasquale di Cristo, il mistero della morte da
cui sorge la vita. Perciò la Chiesa decreta l’obbligo per i malati in pericolo di morte di ricevere il viatico, ciò
che non fa nella stessa misura con l'Unzione degli infermi113.
b. Approfondimento teologico
La Lumen Gentium al n. 11, approfondisce teologicamente nella natura sacramentale dell'Unzione
degli infermi, come partecipazione al mistero pasquale di Cristo: «Con la sacra unzione degli infermi e la
preghiera dei sacerdoti, tutta la Chiesa raccomanda gli ammalati al Signore sofferente e glorificato, perché
alleggerisca le loro pene e li salvi (cfr. Gc 5,14-16), anzi li esorta a unirsi spontaneamente alla passione e
morte di Cristo (cfr. Rm 8,17; Col 1,24), per contribuire così al bene del popolo di Dio». In questo contributo
al bene spirituale del popolo di Dio, gli infermi esercitano, in unione con Cristo, il loro sacerdozio universale
o comune.
Seguendo questa linea di pensiero, in una sua catechesi (29 aprile 1992), Giovanni Paolo II ricordava
che l'unzione degli infermi “è una forma suprema della partecipazione al sacrificio sacerdotale di Cristo”.
Quindi, come in ogni sacramento, “lo scopo non è solo il bene individuale del malato, ma anche la crescita
spirituale di tutta la Chiesa”, e così, «tutti vedano in loro [gli infermi] l’immagine del Cristo sofferente
(“Christus patiens”), del Cristo che - secondo l’oracolo del libro di Isaia sul Servo (cf. Is 53, 4) - ha preso su
di sé le nostre infermità».
I desideri del Concilio Vaticano II sono stati compiuti con la proclamazione del Rituale (Ordo) per la
benedizione dell'olio dei catecumeni e degli infermi per la confezione del Sacro Crisma, nel 1971, seguito dalla
Costituzione Sacram Unctionem Infirmorum di Paolo VI, nel 1972, e del Rituale per l'Unzione degli infermi dello stesso
anno. Infine, il nuovo Codice di Diritto Canonico (1983), contiene le regole principali sul sacramento nei canoni 998-
1007. Il recente Catechismo della Chiesa Cattolica contiene la dottrina comune sull’Unzione degli infermi nei numeri
1499-1532.
113 Cfr. K. RAHNER, Chiesa e sacramenti, Morcelliana, Brescia 1966, p. 112. Anche il Catechismo nn. 1524-1525.
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3. Istituzione da Cristo e fondazione sul suo mistero salvifico
1. Il fatto dell’istituzione da parte di Cristo
In passato, sia per la prevalenza di una cultura giuridica, sia per l'influenza della polemica anti-
protestante, esisteva la preoccupazione di trovare il momento o i momenti esatti in cui Cristo avrebbe
espresso la volontà circa questo o quel sacramento. E nel caso dell'unzione, tale ricerca sollevava molti
interrogativi.
Così, Trento non disse altro che il sacramento era stato "insinuato" nel passaggio in Marco 6,13, e
"promulgato" (cioè reso pubblico) da Giacomo. Infatti, sebbene il passaggio di Marco abbia delle
somiglianze con quello di Giacomo, non è del tutto chiaro che Cristo comandasse di eseguire l’unzione
stessa o genericamente comandasse di guarire i malati.
Oggi non è difficile ammettere un’istituzione generica da parte di Cristo. Basta che Cristo abbia
manifestato in gesti e parole la sua sollecitudine per i malati e abbia incaricato gli apostoli di continuare
questa sollecitudine (e questo è chiaro nel Vangelo) perché questi, alla luce dello Spirito Santo, abbiano
capito che il gesto abituale tra gli ebrei di cura verso il malato (l'unzione con l'olio) che avevano praticato
durante la vita di Gesù (Mc 6,13), acquistasse, dalla forza del mistero pasquale, la capacità di guarire
spiritualmente. Sebbene in questo stato intermedio fino alla Parusia (il tempo per unirsi anche al Cristo
sofferente), alla guarigione e conforto spirituale, non segua sempre la completa guarigione corporale. Il testo
di Giacomo documenta questa presa di coscienza da parte della Chiesa.
Così facendo, Chiesa non ha operato spinta dalle circostanze, né dalla sua propria autorità, ma
considerando quale fosse la volontà di Cristo, secondo una convergenza di argomenti, guidata dallo Spirito
Santo, che le insegna tutto e le ricorda tutto ciò che Egli ha fatto (cf. Gv 14,26).
2. Fondazione della sacramentalità dell’Unzione degli infermi sulla sacramentalità primordiale di
Cristo e della Chiesa
Insieme con il tema dell'istituzione del sacramento da parte di Cristo, studiamo la questione della
fondazione del sacramento sulla sacramentalità di Cristo. Questo studio rafforza il precedente, dal momento
che uno dei motivi che portano la Chiesa ad ammettere che uno dei suoi riti liturgici costituisce un
sacramento, è il fatto che esso manifesta e realizza un aspetto del mistero della salvezza manifestato e
realizzato in Cristo, che viene reso attuale nella liturgia della Chiesa.
Le parole e le azioni della vita di Cristo, i "misteri" della sua vita, preparavano e annunziavano la
potenza del suo mistero pasquale. Questi misteri della vita di Cristo sono il fondamento di ciò che ora Cristo
dispensa nei sacramenti per mezzo della sua Chiesa, sacramento universale di salvezza114.
Gesù Cristo, che, come dice Isaia "ha preso su di sé le nostre infermità" in modo che "nelle sue
piaghe noi siamo stati guariti" (Is 53,4-5 //1 Pt 2,24), durante la sua vita terrena non tralasciò di occuparsi dei
malati, per i quali mostrava una speciale sollecitudine, e con i quali s’identificava.
Essendo la malattia, considerata in generale, una conseguenza del peccato, considerato in generale,
non è sorprendente che nell'azione di Cristo la guarigione della malattia fosse un segno della guarigione del
peccato.
Allo stesso tempo, la condizione traumatica di Cristo sulla Croce “trafitto per i nostri delitti,
schiacciato per le nostre iniquità” (Is 53,5) fa sì che ogni malattia si possa vivere in unione ai suoi patimenti,
per la potenza dello Spirito Santo, e diventi occasione di salvezza per il malato e per gli altri. Questo fu ben
114 Cfr. Catechismo, n. 1115.
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compreso da S. Paolo quando disse: "Completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a
favore del suo corpo che è la Chiesa" (Col 1,24). Questa identificazione con le sofferenze di Cristo per la
potenza dello Spirito produce la perfetta guarigione dell'anima e come una pregustazione della risurrezione
corporale, che si traduce in fortezza contro i disagi della malattia e nella possibile guarigione.
Questa identificazione tra il Cristo sofferente e il fedele cristiano si realizza nella Chiesa, sacramento
universale di salvezza, la cui missione sacerdotale è quella di rendere presenti e attuali gli atti salvifici di
Cristo, che trovano il loro centro nel mistero pasquale e si diversificano a seconda delle circostanze-chiave
della vita dei fedeli. Proprio come la guarigione di Cristo durante la sua vita terrena erano segno profetico del
suo mistero pasquale, adesso il sacramento dell'Unzione degli infermi è un memoriale di questo mistero nella
vita del malato.
Il fedele malato, accettando il suo ruolo di membro dolente del Corpo mistico di Cristo, è
consapevole, da una parte, del valore che la sua situazione ha per il bene di tutto il corpo e, dall'altra, della
necessità di ricevere la vita soprannaturale che viene da Cristo Capo per mezzo del suo Corpo. Perciò chiama
volontariamente i ministri che rappresentano Cristo Capo del Corpo. Così facendo, realizza il suo sacerdozio
comune. Da parte loro, i ministri si recano dal malato nell'esercizio del suo ministero sacerdotale. Cristo si
rende solidale con il malato attraverso la solidarietà che la Chiesa, depositaria della sua missione salvifica,
mostra verso il malato. Allo stesso tempo, attraverso la sua identificazione con il malato, Cristo effonde in
modo speciale la sua grazia sulla Chiesa.
Accade così sacramentalmente nel Corpo mistico di Cristo il mistero pasquale, nel quale, il Figlio,
portando i nostri peccati e dolori, si offre al Padre nello Spirito Santo e il Padre dona al Figlio la risurrezione
e il potere di riversare lo Spirito Santo su tutti coloro che, malati e peccatori, vogliono assimilarsi a Lui nel
suo sacrificio115.
115 Ricordiamo che Un’esposizione sommaria ma precisa della teologia dell’Unzione degli infermi si trova nella Catechesi di
Giovanni Paolo II del 29 aprile di 1992.
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4. Elementi costitutivi del sacramento
1. Materia
1. Remota: È l’olio, ordinariamente di oliva. Il nuovo Rituale prevede che in mancanza di questo, si usi olio
vegetale.
L'olio deve essere benedetto o consacrato. Di solito, questo lo fa il Vescovo nella Messa crismale del
Giovedì Santo. Può anche benedire l'olio il sacerdote equiparato dal diritto al Vescovo, o se necessario,
qualsiasi sacerdote. Questa benedizione non va confusa con la forma del sacramento. L'efficacia del
sacramento non viene dalla benedizione, ma dalle parole della forma.
2. Prossima: È l'unzione116, che secondo il nuovo Rituale dovrebbe essere fatta sulla fronte e sulle mani117
(prima era sulla fronte, le mani, i piedi e gli organi dei sensi). Se necessario, solo sulla fronte, o se non è
possibile, su un’altra parte conveniente del corpo.
2. Forma
Sono le parole che devono essere pronunciate mentre si fa l'unzione:
"Per questa santa Unzione e per la sua piissima misericordia ti aiuti il Signore con la grazia dello Spirito
Santo (R / Amen) e, liberandoti dai peccati, ti salvi e nella sua bontà ti sollevi (R / Amen)". +
La prima parte della formula accompagna l’unzione sulla fronte, la seconda, l’unzione sulle mani.
Questa formula esprime chiaramente la grazia e lo scopo del sacramento. Nell’antico rituale veniva
sottolineato più il perdono dei peccati: "Il Signore, ti perdoni ciò che hai peccato nel pensiero... ecc". Alla
formula segue una preghiera di intercessione per gli ammalati, adattata alle sue circostanze personali
(anziano, in pericolo grave, agonizzante...).
3. Celebrazione liturgica
Il nuovo Rituale offre vari tipi di celebrazione del sacramento dell'Unzione degli infermi: dentro o
fuori della Messa, con partecipazione di uno o più malati, o di uno o più ministri, che possono essere adattate
ad ogni caso. In ogni caso, l'unzione degli infermi ha sempre la categoria di celebrazione liturgica e
comunitaria, come ogni sacramento.
Un rito normale fuori della Messa comprende: riti introduttivi (saluto, aspersione con l'acqua
benedetta, breve introduzione fatta dal sacerdote...); atto penitenziale (che può essere generale, come nella
Messa, oppure seguito dalla confessione sacramentale, almeno generica, del malato); liturgia della Parola
(con una o più letture, litanie o preci sul malato, con l'imposizione delle mani), liturgia del sacramento
(benedizione dell'olio, se necessario, l'unzione sulla fronte e le mani con la formula del Sacramento,
preghiera per il malato); conclusione (Padre Nostro e una benedizione speciale).
L'ordine normale dei riti ultimi è: confessione, unzione e viatico. In caso di vicinanza imminente di
morte, e dopo aver confessato al malato, anche se solo in generale, deve essere somministrato prima il
viatico che unzione, perché l'Eucaristia è il sacramento che consuma l'unione con Cristo (cf. Rituale, n.30;
Catechismo n.1517).
116 Normalmente si fa l’unzione in forma di croce.
117 Normalmente sul palmo delle mani, ai sacerdoti sul dorso.
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5. Effetti e finalità
1. Effetto e finalità ecclesiale (res et sacramentum)
Poco è stato scritto sulla "res et sacramentum" dell'unzione degli infermi, anche se Giovanni Paolo
II, nella catechesi di cui sopra, ha ricordato che “lo scopo non è solo il bene individuale del malato, ma anche
la crescita spirituale di tutta la Chiesa”. Il Catechismo, da parte sua, insegna che il soggetto dell’Unzione
degli infermi riceve "una grazia ecclesiale" all’unirsi spontaneamente alla passione e morte di Cristo, per il
bene di tutto il corpo (cfr. n. 1522).
Proponiamo pertanto che la "res et sacramentum" dell'Unzione degli infermi è la particolare
configurazione dei malati con il Cristo dolente, quale membro sofferente del Corpo di Cristo118, il che lo
pone in un rapporto speciale con Cristo Capo del Corpo e con gli altri membri del corpo: ha il ministero e la
missione di offrire le proprie sofferenze al Padre, in unione con Cristo, per lo Spirito, per il bene di tutta la
Chiesa e di tutti gli uomini, per i quali la Chiesa continuamente soffre e si offre (Catechismo, n. 1522). Così,
Cristo, per mezzo del malato, si rende specialmente presente alla Chiesa, e per mezzo della Chiesa, al
malato.
Quindi possiamo dire che il malato è in qualche modo consacrato (cfr Catechismo n. 1521) per
questa missione. Questo rimanda a uno dei principali simbolismi biblici dell’olio: oltre alla guarigione,
significa anche l’infusione consacrante dello Spirito Santo. Questa configurazione può essere chiamata
quasi-carattere, poiché “segna” spiritualmente il malato per tutta la durata della sua malattia. Diciamo
"quasi" perché non è per sempre, come il carattere sacramentale del Battesimo, la Cresima o l’Ordine.
2. Effetto e finalità personale: la grazia (res tantum)
Questa configurazione a Cristo rende il malato ricettore di una speciale partecipazione alla grazia
dello Spirito Santo (cfr Catechismo n. 1520). Lo Spirito Santo scende sul malato e rende feconda la sua
malattia in grazie di salute spirituale per lui e per la Chiesa, che hanno un impatto fisico che può portare alla
sua piena salute, se conviene.
Si tratta della grazia santificante, come in tutti i sacramenti, che in questo caso è indirizzata verso la
guarigione integrale del malato. Questa guarigione integrale è la grazia sacramentale propria dell’Unzione
degli infermi.
Questa guarigione integrale include, come è stato definito da Trento:
- La rimozione dei peccati e delle loro reliquie, se ci fossero (effetto condizionato).
- La salute corporale, se richiesta dalla salute dell'anima, (effetto condizionale);
- Il sollievo e conforto del malato, infondendo in lui una grande fiducia nella misericordia divina, che lo
conforta in modo che più facilmente sostenga il peso e il dolore della malattia e più facilmente resista alle
tentazioni di Satana (effetto normale, abituale e principale)119. Con le virtù infuse della speranza e della
fortezza.
118 Il Catechismo parla separatamente di “unione alla Passione di Cristo” e di “consacrazione” (n. 1521) e della "grazia ecclesiale"
(1522); ma questi concetti ben possono essere considerati degli aspetti della stessa "res et sacramentum" dell’Unzione: la
configurazione a Cristo dolente.
119 Questo sacramento conferisce al malato la grazia dello Spirito Santo; tutto l'uomo ne riceve aiuto per la sua salvezza, si sente
rinfrancato dalla fiducia in Dio e ottiene forze nuove contro le tentazioni del maligno e l'ansietà della morte; egli può così non solo
sopportare validamente il male, ma combatterlo, e conseguire anche la salute, qualora ne derivasse un vantaggio per la sua salvezza
Penitenza e Unzione degli Infermi 2012-2013 - 148
Per quanto riguarda l'effetto della salute fisica, che può variare da un passeggero miglioramento fino
alla salute completa, sembra essere prodotto in forza della stretta unione che esiste nell'essere umano tra la
dimensione spirituale e quella corporale. Sarebbe come una ripercussione sul corpo del sollievo dell'anima.
A questa efficacia di natura psicosomatica che agirebbe principalmente sugli individui lucidi, si
aggiungerebbe, a parere di molti, un intervento della divina provvidenza, che utilizza le cause seconde per il
bene o la ripresa del malato. Non si può dire che l'effetto di guarigione sia miracoloso, poiché non supera il
modo naturale di agire delle cause.
Per quanto riguarda la preparazione alla buona morte, piuttosto che un effetto a parte, può essere
considerata l'applicazione degli effetti del sacramento alla situazione del morente, a cui dovrebbe essere dato
"principalmente", come ha detto Trento. In questo senso, l'Unzione degli infermi porta a compimento le
sante unzioni che segnano la vita del cristiano: quella che accompagna il Battesimo, che ci apre alla vita
nuova; la Cresima, che ci rafforza nelle lotte della vita; e infine questa, che è come uno scudo per rafforzarci
nelle ultime battaglie (cfr Catechismo no 1523; Conc. di Trento, DS 1694, Dz 907). La preparazione per
morire bene dipende non solo dall'Unzione; anche, se possibile, dovrebbe essere accompagnata dalla
penitenza (almeno generica o "sub conditione") e dall'Eucaristia a modo di Viatico. Così come i sacramenti
del Battesimo, della Confermazione e dell'Eucaristia sono l'introduzione alla vita cristiana, i sacramenti della
Penitenza, dell'Unzione e dell'Eucaristia sono i sacramenti che preparano per la patria eterna. In entrambi i
casi troviamo il perdono dei peccati, l'unzione con la grazia dello Spirito Santo e la piena unione al mistero
pasquale di Cristo (cf. Catechismo 1521).
spirituale; il sacramento dona inoltre, se necessario, il perdono dei peccati e porta a termine il cammino penitenziale del cristiano
(Introduzione al nuovo Rituale).
La grazia fondamentale di questo sacramento è una grazia di conforto, di pace e di coraggio per superare le difficoltà
proprie dello stato di malattia grave o della fragilità della vecchiaia. Questa grazia è un dono dello Spirito Santo che rinnova la
fiducia e la fede in Dio e fortifica contro le tentazioni del maligno, cioè contro la tentazione di scoraggiamento e di angoscia di fronte
alla morte (Catechismo, n. 1520).
Penitenza e Unzione degli Infermi 2012-2013 - 149
6. Ministro e soggetto
1. Il Ministro
È il sacerdote e ovviamente il vescovo. Le unzioni fatte in passato dai diaconi, dai religiosi o dai
laici sono da considerarsi tra i riti cosiddetti "sacramentali". Ministri ordinari sono i vescovi, i parroci, i
cappellani, i superiori di comunità sui loro sudditi. Straordinario, ogni sacerdote, per delega (o, se necessario,
senza di essa) (cf. CIC cn. 1003, CCOE 738).
Non è necessario che siano diversi, giacché l'espressione di Giacomo “chiami presso di se i
presbiteri” può intendersi in riferimento a quelli che possano venire, anche se uno solo. Il nuovo Rituale
prevede che l'unzione possa essere concelebrata. In questo caso, tutti i concelebranti possono imporre le
mani, ma uno solo deve fare le unzioni e dire la formula.
La comunità dei fedeli, da parte sua, come in ogni celebrazione liturgica, è chiamata a partecipare
alla celebrazione per quanto le circostanze lo permettano, e in particolare a circondare il malato con le loro
cure e il sostegno delle loro preghiere (Catechismo n.1516).
2. Il soggetto
«L'unzione degli infermi può essere amministrata al fedele che, raggiunto l'uso di ragione, per
malattia o vecchiaia comincia a trovarsi in pericolo» (CIC, can. 1004).
S’intende qualsiasi condizione grave dell’organismo (malattia, vecchiaia, traumatismo,
intossicazione, ecc.); non malattie puramente psichiche120. Basta con l'inizio del pericolo di morte, non è
necessario che sia imminente. In caso di dubbio se il soggetto soddisfa le condizioni, si deve dare il
sacramento comunque. La condizione grave dell’organismo deve essere presente al momento di
amministrare il sacramento; non può essere dato a un sano o leggermente malato solo perché si trova a
rischio di malattia o d’incidente.
«Se un malato che ha ricevuto l'Unzione riacquista la salute, può, in caso di un'altra grave malattia,
ricevere nuovamente questo sacramento. Nel corso della stessa malattia il sacramento può essere ripetuto se
si verifica un peggioramento. È opportuno ricevere l'Unzione degli infermi prima di un intervento chirurgico
rischioso. Lo stesso vale per le persone anziane la cui debolezza si accentua» (Catechismo n. 1515).
Come gli altri sacramenti, non può essere amministrata ai morti. In caso di dubbio, se non c’è una
chiara evidenza di morte, se dovrebbe dare "sub conditione".
Il malato deve mostrare la sua intenzione di ricevere l'Unzione, sia che ne faccia richiesta o che dia il
suo consenso se gli viene offerta. Se è ormai impossibilitato a dare il consenso, il ministro dovrebbe
verificare se lo avesse dato in precedenza (per esempio, chiedendo alla famiglia, ecc), in caso di dubbio
dovrebbe essere data comunque.
Essendo l’Unzione, in principio, un sacramento “di vivi”, l’infermo deve essere in grazia, per il
Battesimo, per previa confessione, o per un atto di contrizione perfetta. Solo se il malato non è in grado di
confessare o di fare un atto di contrizione perfetta, l'unzione potrebbe perdonare i peccati mortali, se ci fosse
120 Una malattia mentale può essere causa di gravi danni all'organismo, per esempio, l’anoressia di origine psichica, nel qual caso si
dà l'Unzione, non per il danno psichico, ma per i conseguenti danni fisici. In ogni caso, non mancano studi e proposte nella direzione
di amministrare l’Unzione agli infermi psichici la cui malattia mentale provoca loro una grave sofferenza spirituale, ma la prassi della
Chiesa è al momento quella suddetta.
Penitenza e Unzione degli Infermi 2012-2013 - 150
stata attrizione previa. Questo il ministro lo può presumere in caso di dubbio. La Chiesa vieta soltanto
l'Unzione a coloro che ostinatamente perseverano in un peccato grave manifesto (CIC can. 1007).
3. Considerazioni ascetiche e pastorali
L'amministrazione del sacramento dell'Unzione degli infermi si pone nell’insieme di tutta la
pastorale della Chiesa verso ai malati, che così tante e così benefiche opere di carità ha sviluppato nel corso
della storia, individualmente e collettivamente. Il sacramento dell'unzione è il momento privilegiato di grazia
di questa cura del malato.
Inoltre, questo sacramento si pone nell’insieme della vita ascetica del malato, in un momento in cui
si rende specialmente tangibile la sua partecipazione nel sacrificio di Cristo, quando diventa realtà nella sua
vita e nella sua carne, quel completare ciò che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la
Chiesa (cfr. Col 1,24). In questo momento Cristo si avvicina a lui attraverso la Chiesa per confortarlo con la
caparra dello Spirito e con un'anticipazione della risurrezione, rendendo fecondo il loro dolore.
Ricordiamo, infine, le parole conclusive della catechesi di Giovanni Paolo II sull'Unzione degli
infermi:
Noi sappiamo, per fede e per esperienza, che l’offerta fatta dai malati è molto feconda per la Chiesa.
Le membra sofferenti del Corpo Mistico sono quelle che più giovano all’intima unione di tutta la
comunità col Cristo Salvatore. La comunità deve aiutare gli infermi in tutti i modi segnalati dal
Concilio, anche per gratitudine verso i benefici che da essi riceve121.
121 Catechesi di Giovanni Paolo II del 29 aprile di 1992.
Penitenza e Unzione degli Infermi 2012-2013 - 151
7. Dimensione ecumenica dell'unzione degli infermi122
1. Dottrina degli orientali separati sull’Unzione123
a. Punti di convergenza
Cattolici e ortodossi:
- Credono che è un sacramento e non un semplice rito apostolico o ecclesiastico, come molti protestanti
hanno pensato.
- Considerano che il fondamento principale biblico per dimostrare questa sacramentalità è la lettera di
Giacomo.
- Credono che questo sacramento è stato istituito da Cristo in modo immediato.
- E che non deve essere trascurato o ignorato, ma dovrebbe essere apprezzato.
- Ritengono che l'olio d'oliva sia la materia remota necessaria, e l'unzione con l'olio, la materia prossima.
- Essi convengono inoltre sul fatto che basta un’unzione, in caso di necessità.
- Per quanto riguarda la forma del sacramento, anche se ha trovato espressioni differenti a seconda dei tempi
e delle Chiese, è stata ammessa la validità di queste formulazioni diverse.
- Il ministro proprio è il sacerdote e anche se può essere amministrato da sacerdoti diversi, basta uno in caso
di necessità.
- Il semplice sacerdote può benedire l'olio degli Infermi (i cattolici aggiungono delle condizioni).
- Questo sacramento non è solo per i moribondi, è per i malati e anche gli anziani lo possono ricevere. È per i
fedeli cristiani che sono vivi. Escludono altresì dal sacramento i condannati a morte, o quelli che sono sul
punto di entrare in battaglia, o in procinto di morire se non sono malati. Anche gli scomunicati, i penitenti
pubblici e gli impenitenti manifesti. C'è anche accordo sul fatto di non amministrarla a coloro che non hanno
raggiunto l'età della ragione.
- Può essere somministrato più volte nella vita e anche nel trascorso della stessa malattia, se il pericolo
diventa più critico.
- Ammettono, anche se con diverse sfumature, che questo sacramento perdona i peccati e che
occasionalmente ridona la salute.
- Se c’è possibilità di confessione sacramentale, questa deve precedere l'unzione.
b. Differenze
Ciò che pensano gli ortodossi:
122 Cfr. Nicolau, p. 202.
123 Per quanto riguarda l’Unzione degli orientali uniti a Roma, non ci sono grandi differenze con quella dei cattolici latini. Cfr.
CCOE, nn. 737-742.
Penitenza e Unzione degli Infermi 2012-2013 - 152
1) Finalità o effetto primario.
I teologi orientali comunemente considerano che lo scopo e l'effetto dell'unzione sia la grazia
spirituale e la guarigione corporale. Senza l'effetto della grazia spirituale, non sarebbe un sacramento, ma la
guarigione del corpo sarebbe, secondo la maggior parte di loro, l’effetto più caratteristico e principale. Ma
questa guarigione del corpo, che si ammette di essere condizionata, è spesso limitata alle malattie che
derivano dai peccati.
In ogni caso, ci sarebbe, secondo alcuni teologi orientali, un conforto delle forze psicofisiche, con
cui sembrano suggerire l'idea di un conforto spirituale, come dicono i cattolici, anche se molti dei teologi
orientali la rigettano. Ammettono, tuttavia, un conforto contro le insidie del diavolo, e alcuni accettano,
esplicitamente o implicitamente, l'idea generale di conforto.
Per quanto riguarda la remissione dei peccati, l’intendono in promo luogo dei peccati mortali
commessi per ignoranza o di quelli che il malato non può confessare, ed è limitata a quei peccati che hanno
causato la malattia. Si tace sull’astersione delle reliquie del peccato e sulla remissione della pena temporale.
2) Soggetto
Secondo gli orientali, non è richiesta una grave malattia per ricevere il sacramento, basta qualsiasi
malattia, anche se leggera, e persino si può dare ai sani in prevenzione delle malattie. Invece, non viene
amministrata ai malati che sono inconsci.
3) Quante volte può essere ricevuto
È esplicita dottrina dei teologi ortodossi che l'unzione può essere ripetuta durante una stessa malattia
e che conviene farlo a seconda della devozione e del desiderio del malato. La disciplina attuale della Chiesa
romana si è avvicinata agli orientali, ammettendo che l'unzione possa essere ripetuta, perdurando la stessa
malattia, quando il pericolo diventa più critico.
4) Il numero dei ministri
Non mancano teologi orientali che affermano che sia necessaria la presenza di diversi sacerdoti per
amministrare l'unzione. Ma la legge che prevede che l'unzione sia necessariamente amministrata da sette
sacerdoti, sembra provenire da Arsenio, patriarca di Costantinopoli (1260). Le ragioni addotte per il numero
settenario dei ministri sono più di natura simbolica. Recenti teologi orientali davano come ragione del
settenario la sua qualità di numero mistico e santo. Ma in caso di necessità, ammettono un solo ministro.
5) Differenze disciplinari
Questi sono: che gli orientali mescolano spesso vino o farina di grano con l’olio; che è variabile e
spesso indeterminata la pratica dell'unzione di queste o quelle membra del corpo, a seconda delle diverse
chiese; che il sacerdote è colui che è solito benedire l'olio santo, prima dell'amministrazione; che il rito è
spesso più lungo e prolisso che tra i cattolici; che da essere possibile, lo fanno di preferenza nel tempio...
c. Disposizioni dopo il Concilio Vaticano II
La Chiesa cattolica ha ritenuto valida l’amministrazione dell’Unzione praticata da orientali. Ma
ricevere l'Unzione e il viatico dalle mani di un ministro orientale non era permesso o consigliato ai cattolici.
Né, al contrario, l’amministrare il viatico o l’unzione dei cattolici agli ortodossi.
È noto che prima del Vaticano II, neanche i scismatici "materiali" che fossero in articulo mortis e in
buona fede e chiedessero l'assoluzione o l'estrema unzione, potevano essergli amministrati questi sacramenti
Penitenza e Unzione degli Infermi 2012-2013 - 153
senza previa abiura dagli errori e senza professione di fede, come meglio potevano fare secondo le
circostanze delle persone e cose, o almeno implicitamente.
Si poteva dare l'assoluzione e amministrare l'Estrema Unzione ai scismatici in procinto di morte
quando avevano perso l'uso dei sensi, ma solo sotto condizione, soprattutto se, dalle circostanze, si potrebbe
supporre che, almeno implicitamente, avevano respinto i loro errori. Ma doveva essere efficacemente
rimosso lo scandalo o il sospetto di un interconfessionalismo, ad esempio, manifestando ai presenti che la
Chiesa supponeva che all'ultimo momento avevano fatto ritorno all'unità.
Il Vaticano ha stabilito una disciplina nuova. Sono ammesse e persino raccomandate dal Concilio le
preghiere in comune, soprattutto per chiedere l'unità. Ma il Decreto sull'ecumenismo (Unitatis redintegratio,
8b) si è espresso come segue:
Tuttavia, non è permesso considerare la «communicatio in sacris» come un mezzo da usarsi
indiscriminatamente per il ristabilimento dell'unità dei cristiani. Questa «communicatio» è regolata
soprattutto da due principi: esprimere l'unità della Chiesa; far partecipare ai mezzi della grazia. Essa
è, per lo più, impedita dal punto di vista dell'espressione dell'unità; la necessità di partecipare la
grazia talvolta la raccomanda. Circa il modo concreto di agire, avuto riguardo a tutte le circostanze
di tempo, di luogo, di persone, decida prudentemente l'autorità episcopale del luogo, a meno che non
sia altrimenti stabilito dalla conferenza episcopale a norma dei propri statuti, o dalla Santa Sede.
Si deve evitare, quindi, utilizzare un segno di unità e di comunione, qual è un sacramento, quando in
realtà non esiste tale unità e comunione. Ma il bisogno di grazia può consentire o consigliare in alcuni casi
ricevere il sacramento da un'altra tradizione.
Così dichiarò il decreto sulle Chiese orientali (nn. 27-29):
Posti i principi sopra ricordati, agli orientali che in buona fede si trovano separati dalla Chiesa
cattolica, si possono conferire, se spontaneamente li chiedano e siano ben disposti, i sacramenti della
penitenza, dell'eucaristia e dell'unzione degli infermi anzi, anche ai cattolici è lecito chiedere questi
sacramenti ai ministri acattolici nella cui Chiesa si hanno validi sacramenti, ogniqualvolta la
necessità o una vera spirituale utilità lo domandino e l'accesso a un sacerdote cattolico riesca
fisicamente o moralmente impossibile.
Parimenti, posti gli stessi principi, per una giusta ragione è permessa la «communicatio in sacris» in
celebrazioni, cose e luoghi sacri tra cattolici e fratelli orientali separati .
Questa maniera più mite di «communicatio in sacris » con i fratelli delle Chiese orientali separate è
affidata alla vigilanza e al discernimento dei pastori locali, affinché, consigliatisi tra di loro e, se occorra,
uditi anche i pastori delle Chiese separate, abbiano a regolare con efficaci e opportune prescrizioni e norme i
rapporti dei cristiani tra di loro.
Il Codice di Diritto Canonico n. 844, § § 2-5 contiene il regolamento in vigore.
In sintesi, l'Unzione può essere somministrata ai separati orientali che la chiedono spontaneamente e
siano ben disposti.
2. L'unzione nella Chiesa anglicana
a. In tempi anteriori
La Chiesa anglicana dei tempi antichi non ha considerato l'unzione degli infermi un sacramento vero
e proprio, cioè un "sacramento del Vangelo".
Penitenza e Unzione degli Infermi 2012-2013 - 154
Queste sono le parole del numero 25 degli articoli di religione:
Ci sono due sacramenti ordinati da Nostro Signore Gesù Cristo nel Vangelo, vale a dire, il Battesimo
e la Cena del Signore. Gli altri cinque comunemente chiamati sacramenti, la Cresima, la Penitenza, Ordini,
Matrimonio e Unzione non devono essere considerati sacramenti del Vangelo, essendo stati emanati, in
parte, da una corrotta imitazione degli Apostoli, e in parte, sono stati di vita permessi nelle Scritture, ma non
hanno l'essenza dei sacramenti come il battesimo e la Cena del Signore, perché non hanno alcun segno
visibile o cerimonia ordinati da Dio.
Nel Libro della preghiera comune (Common Prayer Book) della Chiesa d'Inghilterra, troviamo un
"Rito per la visita ai malati" e un altro per la comunione dei malati, ma non troviamo alcuna allusione
all’unzione né all'imposizione delle mani.
b. In tempi recenti
Nel Libro della preghiera comune secondo l'uso della Chiesa episcopale nelle Americhe, troviamo
l'unzione nel rituale della "Visitazione ai malati". Ammette, in alternativa, il rito dell’unzione o quello
dell’imposizione delle mani, ed è esplicitamente destinato alla guarigione corporale. Anche si trova in quello
della Chiesa episcopale di Scozia e nel libro alternativo di uffici occasionali in uso nella Provincia del Sud
Africa.
Esiste un ampio e relativamente recente commento al Libro della preghiera comune124, che esamina i
valori dell’unzione. Dice tra l'altro che i riti di unzione e l'imposizione delle mani godono dell'autorità della
Scrittura e sono sacramentali, nel senso che si cerca e si riceve una benedizione per mezzo di azioni esterne e
visibili. Ci si aspetta sempre una benedizione spirituale in tutte le occasioni in cui questi riti vengono
amministrati (se ricevuti con le dovute disposizioni) e in molti casi, il ripristino o il miglioramento della
salute. Quando, tuttavia, non sia concesso un miglioramento di salute, si presume che in compenso sarà
concesso qualche vantaggio spirituale, ad esempio, la grazia di sopportare con pazienza la malattia.
Come si è visto, vi è un approccio alla pratica cattolica, ma considerando l'unzione alla stregua di
quelli che noi chiamiamo i "sacramentali", come le benedizioni, gli esorcismi, ecc.
124 W. E. LOWTHER CLARKE - CH. HARRIS, Liturgy and Worship, a Companion to the Prayer Books of the Anglican Communion,
SPCK, London 1964.
Penitenza e Unzione degli Infermi 2012-2013 - 155
Penitenza e Unzione degli Infermi 2012-2013 - 156
Penitenza e Unzione degli Infermi
Presentazione
Bibliografia
Il sacramento della Penitenza
Come viene chiamato questo sacramento?
I. La penitenza nella Sacra Scrittura.
1. Antico Testamento.
2. I Vangeli.
3. Gli scritti apostolici.
4. Il problema del "peccato irremissibile".
II. La penitenza nella Tradizione.
1. Nella Chiesa antica.
2. Nei primi tre secoli.
3. La penitenza canonica dal secolo IV al secolo VI.
4. La sacramentalità dell'antica penitenza della Chiesa.
5. Transizione dalla penitenza pubblica alla privata.
6. La riflessione scolastica.
7. Il ministro della penitenza.
III. Dottrina del Magistero e problemi teologici più recenti.
1. Il protestantesimo e il sacramento della penitenza.
2. Il Concilio di Trento.
3. La controversia sull'attrizione sufficiente.
4. Il Vaticano II e la dimensione ecclesiologica della penitenza.
5. La confessione dei peccati veniali.
6. L'amministrazione del sacramento della penitenza nel contesto attuale.
7. Significato della soddisfazione.
8. Le indulgenze.
9. La penitenza e gli altri sacramenti.
Penitenza e Unzione degli Infermi 2012-2013 - 157
Unzione degli infermi
Introduzione: il cristiano davanti alla malattia e alla morte
I. Fonti bibliche della Unzione degli infermi.
1. L'unzione d'olio nell'Antico Testamento.
2. L'unzione nel Nuovo Testamento.
a. Nei Vangeli.
b. Nella lettera di Giacomo.
II. Interpretazione patristica e scolastica delle fonti bibliche.
1. Nel periodo patristico
1.fino al secolo IV.
2. Nei secoli V - VIII.
3. Nei secoli IX - XII.
2. Nel Magistero medievale e nella scolastica.
III. Documenti del Magistero e riflessione teologica.
1. La riforma protestante e il Concilio di Trento.
2. Il Concilio Vaticano II e i documenti recenti.
3. Istituzione da parte di Cristo.
4. Costitutivi del sacramento.
5. Effetti e finalità.
6. Ministro e soggetto.
7. Dimensione ecumenica.
Penitenza e Unzione degli Infermi 2012-2013 - 158
Penitenza e Unzione degli Infermi
Presentazione
Bibliografia
Il sacramento della Penitenza
Come viene chiamato questo sacramento?
I. La Penitenza nella Sacra Scrittura
1. Antico Testamento
Introduzione
La penitenza come fenomeno naturale
Concetto pagano di peccato e penitenza
Concetto biblico di peccato e di penitenza
1. Dottrina penitenziale
a. Idea biblica di peccato
b. Impurità e peccato
c. Idea biblica della penitenza
d. Simbolica della penitenza
e. Idea biblica di perdono
f. La predicazione dei profeti. I salmi
g. L’Esilio, fatto penitenziale del popolo d’Israele.
2. Le pratiche penitenziali
a. Le liturgie collettive di penitenza
Penitenza e Unzione degli Infermi 2012-2013 - 159
b. Il grande giorno dell’Espiazione
c. I sacrifici per il peccato
d. Le abluzioni
e. La scomunica penitenziale
f. In Qumram
g. In S. Giovanni Battista
2. La Penitenza nei Vangeli
A. Visione storico-salvifica del fatto della penitenza
B. Cristo realizza la penitenza nella sua umanità
1. Gesù realizza “pro nobis” il fatto penitenziale sulla terra
a. La sua incarnazione lo inizia
b. La sua Pasqua lo culmina
2. Gesù realizza i gesti e le parole che annunziano la sua Pasqua
a. Gesù Cristo introduce sulla terra la conversione
1. Gesù chiama alla conversione
2. Natura della conversione evangelica
3. Esigenze del processo di conversione
b. Gesù introduce sulla terra il perdono
1. Gesù perdona i peccati
2. Il cristiano che ha peccato può ottenere il perdono
3. Gesù trasmette il potere di perdonare
a. Il potere di "legare" e "sciogliere" in S. Matteo
1. Il potere dato a Pietro: Mt 16,17-19
Penitenza e Unzione degli Infermi 2012-2013 - 160
2. L'estensione del potere agli apostoli: Mt 18, 18
3. Altre ipotesi sull'espressione "legare" e "sciogliere"
4. Sulla terra e in cielo
b. Il potere di "perdonare" e "ritenere" i peccati in S. Giovanni
1. La lavanda dei piedi e il suo senso penitenziale (13,7)
2. Conferisce agli apostoli il potere sul peccato (20,19-23)
3. "Perdonare” e "ritenere"
4. Comparazione con Matteo
5. Predicazione, Battesimo, Penitenza
4. Gesù da reale efficacia a le pratiche rituali penitenziali dell’AT
5. Conclusione
3. La testimonianza degli scritti apostolici
1. Gli Atti degli Apostoli e il cristiano peccatore
a. La conversione per i giudei e per i pagani
b. La conversione per i cristiani
2. La scomunica penitenziale in san Paolo
a. Esortazione alla penitenza e ammonizione
b. L'esclusione del peccatore
c. Riammissione del peccatore
d. Si tratta de un ministero degli Apostoli e i loro successori
3. Confessione e preghiera d’intercessione in S. Giacomo
a. Ammonimento alla penitenza
b. Confessione mutua e preghiera come rimedio per i peccati meno gravi.
Penitenza e Unzione degli Infermi 2012-2013 - 161
c. Un rito penitenziale pubblico non sacramentale?
4. Il cristiano impeccabile e peccatore nella prima lettera di San Giovanni
5. L’esortazione al pentimento nell’Apocalisse
6. Riassunto sulla penitenza nell’epoca apostolica.
7. Riflessione teologica sulla penitenza nel NT
a. Soltanto Cristo ha percorso fino in fondo il cammino di conversione, nel nostro
nome, realizzando una penitenza di valore infinito.
b. Il cristiano percorre, in Cristo, questo cammino nel sacramento della penitenza.
4. Il problema del “peccato irremissibile”
1. La «bestemmia contro lo Spirito Santo» nei Sinottici
a. Marco e Matteo
b. La versione lucana
c. Interpretazione dell'enciclica Dominum et vivificantem
2. L'«impossibile rinnovamento» nella lettera agli Ebrei
3. Il «peccato che conduce alla morte» nella prima lettera di S. Giovanni
4. Conclusione
Appendice: Il peccato contro lo Spirito Santo nella Dominum et vivificantem
II. La penitenza nella Tradizione
1. La penitenza nella Chiesa antica
1. Le diverse forme della penitenza
2. Come conosciamo questa penitenza?
3. Il catalogo dei peccati gravi
Penitenza e Unzione degli Infermi 2012-2013 - 162
2. Il perdono dei peccati gravi durante i tre primi secoli
1. Si perdonavano tutti i peccati nei tre primi secoli?
a. Il problema: una teoria artificiosa
b. La risposta: Sin dall’inizio esisteva la penitenza ecclesiale e si applicava a tutti i peccati
2. Erma e il suo preteso "giubileo"
3. Il perdono dei peccati di adulterio e fornicazione
4. Il perdono del peccato di apostasia
a. S. Cipriano e i "lapsi"
b. Lo scisma di Novaziano
5. Il perdono del peccato di omicidio
6. Conclusione
3. La penitenza canonica del secolo IV al VI
1. Descrizione della penitenza canonica
a. L'ammissione del peccatore alla penitenza
b. Il compimento della penitenza
c. La riconciliazione dei penitenti
2. Caratteristiche della penitenza canonica
a. Durata
b. Carattere ecclesiale
c. Conseguenze (o sequele)
d. Unicità
3. Fatti paralleli alla penitenza canonica
a. Moribondi
b. Chierici
c. Monaci e "conversi"
4. La sacramentalità dell'antica penitenza nella Chiesa
Introduzione
Penitenza e Unzione degli Infermi 2012-2013 - 163
1. Affermazioni dei Padri
a. Paragonano la penitenza ecclesiale col battesimo
b. Dicono che lo Spirito Santo ricevuto nel battesimo e perso per il peccato si ricupera per la
penitenza
c. Alcune difficoltà
2. L'oggetto primario e immediato della riconciliazione del penitente
a. Riconciliazione: prima con Dio o con la Chiesa?
b. Il ruolo della penitenza soggettiva
3. C’era nell’antichità cristiana una penitenza privata ecclesiale?
a. Penitenza privata in senso largo
b. Penitenza privata in senso stretto
5. Transizione dalla penitenza pubblica alla penitenza privata
1. Cause del cambiamento
a. Inadeguatezza della penitenza canonica
b. La confessione monastica
2. La penitenza celtica
3. Diffusione della penitenza segreta e reiterabile
6. La riflessione scolastica
1. La contrizione: natura ed effetti
2. Relazione tra contrizione e assoluzione
a. I primi scolastici
b. San Tommaso D'Aquino
1) Il penitente si reca con un atto di contrizione (perfetta)
2) Il penitente si reca soltanto con un atto di attrizione
c. Scoto e i nominalisti
3. Costituzione interna del sacramento (materia e forma)
Penitenza e Unzione degli Infermi 2012-2013 - 164
a. San Tommaso
b. Beato Scoto
c. Conclusione
4. La formula di assoluzione
7. Il ministro della penitenza
1. Il vescovo e il sacerdote
2. I diaconi
3. La partecipazione dei fedeli
4. L'intervento dei martiri
5. I monaci confessori in Oriente
6. La confessione ai laici in Occidente
III. Dottrina del Magistero e problemi teologici recenti Introduzione per capire la problematica protestante e la risposta di Trento sulla Penitenza.
1. Il protestantesimo e il sacramento della penitenza
Introduzione: precedenti
1. Dottrina di Lutero
a. Il terrore e la fede sono le due sole parti soggettive della penitenza
b. Necessità soggettiva della confessione
c. Natura non sacramentale della penitenza
d. Soddisfazione “offensiva”
e. Assoluzione da chiunque
2. Dottrina de Calvino
2. Il Concilio di Trento e il suo decreto dottrinale sulla penitenza
A. Sessione VI (a. 1547), Decreto sulla giustificazione
B. Sessione XIV (a. 1551), Decreto sulla penitenza e l'estremaunzione
1. Istituzione del sacramento della penitenza
2. Necessità del sacramento della penitenza. È diverso dal battesimo
Penitenza e Unzione degli Infermi 2012-2013 - 165
3. Parti ed effetti della penitenza-sacramento
a. Parti
b. La forma del sacramento)
c. L’effetto specifico del sacramento (res et effectum)
4. La contrizione
a. La nozione generica di contrizione
b. La contrizione perfetta e la sua efficacia
c. L'attrizione e la sua relazione con il sacramento
5. La confessione
a. Istituzione, necessità e modalità della confessione
b. Integrità della confessione
c. Ragione della necessità della confessione integra
6. L'assoluzione e il suo carattere giudiziale
7. Il ministro del sacramento
8. Giurisdizione e riserva di casi
9. La soddisfazione
10. Conclusione: Valore delle dichiarazioni di Trento
3. La controversia postridentina sull'attrizione sufficiente
1. Introduzione: Le affermazioni di Trento
2. Contrizionismo e attrizionismo
3. Teoria media (S. Tommaso)
4. Il Vaticano II e la dimensione ecclesiale della penitenza
1. La dottrina sacramentale del Vaticano II
2. La dimensione ecclesiale della penitenza
3. Riconciliazione con Dio e con La Chiesa: riflessione teologica.
a. La “res et sacramentum” ecclesiale della penitenza (tesi di P. Adnés)
Penitenza e Unzione degli Infermi 2012-2013 - 166
b. La “paenitentia interior” e la riconciliazione con la Chiesa
c. Critica alla tesi della riconciliazione con la Chiesa quale “res et sacramentum” della
Penitenza
d. Proposta di soluzione
4. Ecclesialità della penitenza e necessità del sacramento
5. Comparazione tra la pratica attuale e quella antica
a. Somiglianze essenziali
b. Differenze accidentali
6. La Penitenza, atto di culto
7. Atto di culto sacramentale in quanto “mistero-memoriale”: memoria presenza e profezia
8. Conclusione: Per una catechesi rinnovata
5. La confessione dei peccati veniali
1. La nozione di peccato veniale
2. Diversi mezzi per il perdono dei peccati veniali
3. Il sacramento della penitenza e il perdono dei peccati veniali
4. Utilità della confessione dei peccati veniali
5. Ragioni ultime di questa utilità
6. Frequenza di questa confessione
6. L'amministrazione del sacramento della penitenza nel contesto
attuale: problemi peculiari e nuovo rituale
1. La confessione generica dei moribondi.
a. Confessione generica
b. Problema
c. Opinioni
d. L'assoluzione sacramentale non è giuridica nel senso moderno
2. L'assoluzione generale o collettiva
a. Quadro storico
b. Le "Norme pastorali per l'amministrazione dell'assoluzione sacramentale generale"
Penitenza e Unzione degli Infermi 2012-2013 - 167
c. L'obbligo di una confessione individuale posteriore
1) Per ragioni pastorali
2) Per la natura della confessione
3. Le celebrazioni penitenziali comunitarie
4. Il nuovo "Ordo Paenitentiae"
7. Significato della soddisfazione
1. Ciò che rimane del peccato perdonato
a. Disposizioni fisico—psicologiche (reliquie del peccato)
b. La pena temporale
2. Natura della pena temporale
a. Nella volontà di Dio
b) Nella conversione disordinata al bene creato
1) Interpretazione oggettivista
2) Interpretazione personalista
3. Relazione tra reliquie del peccato e pena temporale
8. Le indulgenze
1. Panorama storico
a. Preparazione
1) penitenza pubblica: sec. VI e VII
2) Nella penitenza privata (ss. VII a XI)
b. Le prime indulgenze
c. Indulgenze vere e proprie
d. Sviluppi ulteriori
e. Il Concilio di Trento
2. Fondamenti dogmatici
3. Spiegazione teologica
a. Natura delle indulgenze a favore dei vivi
Penitenza e Unzione degli Infermi 2012-2013 - 168
1) Assoluzione
2) Soluzione
3) Intercessione
b. In che modo agiscono le indulgenze a favore dei vivi
1) Secondo la teoria dell'assoluzione
2) Secondo la teoria della intercessione
3) Secondo la teoria della soluzione
c. Le indulgenze a favore dei defunti
4. La costituzione Indulgentiarum doctrina
a. La nozione d'indulgenza
b. Le nuove norme
5. Utilità delle indulgenze
9. La penitenza e gli altri sacramenti
1. Penitenza e battesimo
a. Breve storia della questione
b. Conversione battesimale e penitenziale
c. Riconciliazione battesimale e penitenziale
d. Carattere battesimale indelebile e reiterabilità della penitenza
e. Grazia del battesimo e grazia della penitenza
2. Penitenza ed eucaristia
a. Valore propiziatorio del sacrificio eucaristico
b. Necessità del sacramento della penitenza per comunicarsi quando si è in peccato mortale
L’Unzione degli infermi
Introduzione: Il cristiano di fronte alla malattia e alla morte
1. Il cristiano e la malattia
Penitenza e Unzione degli Infermi 2012-2013 - 169
a. La malattia è un fatto
b. Valori umani e cristiani della malattia
c. L'esempio di Gesù Cristo e l'associazione ai suoi dolori
d. L'esercizio del sacerdozio comune
e. La Chiesa e gli infermi
2. Il cristiano di fronte alla morte
a. Il fatto
b. Causa storico-teologica
c. I Santi Padri sulla morte
d. Il Magistero della Chiesa
e. L'enigma della morte nel Concilio Vaticano II
f. La vigilante attesa del cristiano
1) La morte del giusto
2) Fiducia nella morte
3) Fedeltà e fecondità fino alla morte
4) Sacrificio con Cristo nella Croce
I. Fonti bibliche della Unzione degli infermi
1. L'unzione di olio nell'Antico Testamento
1. L'unzione di olio nei popoli dell'Antico Oriente
a. Offerta
b. Penitenza e protezione divina
c. Consacrazione
2. Vari usi dell'olio nell'Antico Testamento
a. Uso profano
b. Uso medicinale
c. Uso sacro
3. La malattia nell'Antico Testamento
Penitenza e Unzione degli Infermi 2012-2013 - 170
2. L'unzione nel Nuovo Testamento
1. L'unzione nei Vangeli
a. Gesù Cristo e il contesto culturale sull'unzione
b. Gesù Cristo e la malattia
c. L'unzione in Mc 6,13
2. Nella Lettera di Giacomo (5,14-15)
a. Contesto remoto
b. Contesto prossimo
c. Analisi degli elementi componenti del testo
1) v. 14: descrizione del rito: partecipanti, gesti, parole
2) v. 15: effetti del rito
d. Indole sacramentale dell'unzione di Giacomo
II. Interpretazione patristica e scolastica delle fonti bibliche
1. Nel periodo patristico
1. Fino al secolo IV
2. Nei secoli V a VIII
3. Nei secoli IX a XII
2. Nel Magistero medievale e nella scolastica
1. I documenti del Magistero medievale
2. La scolastica
a. Istituzione
b. Ministro
c. Scopo ed effetti
1) Idea comune
2) Scuola tomista
Penitenza e Unzione degli Infermi 2012-2013 - 171
3) Scuola francescana
III. Documenti del Magistero e riflessione teologica
1. La riforma protestante e il Concilio di Trento
1. La riforma protestante
2. Il Concilio de Trento
2. Il Concilio Vaticano II e i documenti recenti
a. Riforma disciplinare
b. Approfondimento teologico
3. Istituzione da parte di Cristo e fondamento nel suo mistero salvifico
1. Il fatto dell'istituzione da parte di Cristo
2. Fondamentazione sulla sacramentalità primordiale di Cristo e della Chiesa
4. Costitutivi del sacramento
1. Materia
2. Forma
3. Celebrazione liturgica
5. Effetti e finalità
1. Effetti e finalità ecclesiale
2. Effetto e finalità personale: la grazia
6. Ministro e soggetto
1. Il ministro
2. Il soggetto
3. Considerazioni ascetiche e pastorali
Penitenza e Unzione degli Infermi 2012-2013 - 172
7. Dimensione ecumenica dell'unzione degli infermi
1. Dottrina degli orientali separati sull'unzione
a. Punti di convergenza
b. Differenze
1) Finalità o effetto principale
2) Soggetto
3) Quante volte si può ricevere
4) Il numero dei ministri
5) Differenze disciplinari
c. Disposizioni dopo il Vaticano II
2. L'unzione nella Chiesa anglicana
a. Nei tempi antichi
b. Nei tempi recenti
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