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Università Telematica Pegaso Alcuni riferimenti alla storia dello
sperimentalismo in Italia
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
(L. 22.04.1941/n. 633)
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Indice
1
1 LA PEDAGOGIA SPERIMENTALE IN ITALIA NEL SECONDO DOPOGUERRA -------------------------- 3
1.1. VERSO UNA DEFINIZIONE PIÙ ARTICOLATA DEL TERMINE SPERIMENTALE ------------------------------------------- 4
2 SPERIMENTALISMO E INNOVAZIONE ------------------------------------------------------------------------------- 6
2.1. LA PEDAGOGIA SPERIMENTALE: ESPERIENZA, INNOVAZIONE, RICERCA ED IMPEGNO ------------------------------- 7
3 LA PEDAGOGIA SPERIMENTALE E LA PEDAGOGIA GENERALE ------------------------------------------ 9
4 LETTURA DI APPROFONDIMENTO ---------------------------------------------------------------------------------- 12
Università Telematica Pegaso Alcuni riferimenti alla storia dello
sperimentalismo in Italia
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1 La pedagogia sperimentale in Italia nel secondo dopoguerra
Dopo la seconda guerra mondiale, terminata la stagione idealistica che orientò la pedagogia
decisamente verso l'opzione filosofica, riprese un'aspirazione che era stata della pedagogia dei primi
anni del secolo, cioè l'esplorazione delle ragioni epistemologiche capaci di giustificare il bisogno
della pedagogia a darsi uno statuto scientifico alla stregua di altre discipline, come ad esempio la
psicologia o la biologia o la fisica. Per differenziare anche terminologicamente la pedagogia come
filosofia dell'educazione dalla pedagogia come scienza, si coniò la definizione di "scienze
dell'educazione". Il plurale non è da considerarsi casuale, visto che si ritenne di dover ascrivere alla
dimensione del pedagogico una serie di discipline utili a fondare un'azione nel campo
dell'educativo. Antropologia, sociologia, psicologia, ma anche (perché no?) biologia, medicina,
architettura, tutte possono essere alla bisogna avocate a offrire la giustificazione teorica della
decisione e dell'azione in campo educativo e didattico.
La pedagogia sperimentale del secondo dopoguerra ha poco interesse a ritrovare un nesso di
continuità con i ragionamenti che prima della stagione idealistica pure si erano fatti in Italia sul
versante della fondazione scientifica della pedagogia.
Lo sperimentalismo trae una vigorosa spinta da due eventi in qualche modo epocali per la
scuola italiana: il 1955, anno in cui furono introdotti i nuovi programmi della scuola elementare, il
1962, quando si pervenne alla scuola media unificata. Come riconoscono Egle Becchi e Benedetto
Vertecchi, nel loro Manuale della sperimentazione e della ricerca educativa (Franco Angeli, Milano,
1988), in quella stagione, si parlò "non solo di sperimentazione educativa in generale, ma anche di
sperimentazione nella scuola e relativamente della scuola stessa".
In autori più radicali si pone alla ricerca educativa l'urgenza di far riferimento a protocolli di
indagine alla stessa stregua delle scienze fisico-naturali. Anche nei contesti educativi si deve fare -
si diceva - osservazione, sperimentazione e verifica. Al ricercatore si chiede di assumere una
postura distaccata, senza implicazioni con l'oggetto osservato, manifestando in tal modo unicamente
interesse a rilevare i meccanismi fondamentali di funzionamento della realtà.
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I risultati ottenuti assumendo un'attitudine oggettivante e analitica non furono di grande
rilievo, e ben presto ci si rese conto di dover approfondire le condizioni che possono qualificare la
scienza pedagogica come scienza.
Pertanto queste ricerche più hard trovarono il modo di temperarsi grazie a sollecitazioni
filosofiche di tipo pragmatista o fenomenologico, le quali spingevano a evitare una
contrapposizione insanabile tra assunzioni filosofiche e pratiche scientifiche, a favore di una
concezione della scienza come pratica sociale aperta, antidogmatica, tollerante.
1.1. Verso una definizione più articolata del termine sperimentale
Come fa osservare Aldo Visalberghi, quando si fa scienza, sopratutto in campo educativo,
non bisogna mai perdere di vista che il fenomeno indagato viene ritagliato da un contesto più ampio
e che chi conduce l'indagine è sempre una persona che è parte del contesto, non ne è avulso, non
guarda alla realtà totalmente dall'esterno. Lo sguardo oggettivo è tutto sommato una "finzione", che
vale come sforzo che il ricercatore fa per non inquinare il setting.
L'istanza prima che muove un ricercatore è il dubbio, cioè la capacità di intravvedere in una
situazione gli aspetti problematici, che ove opportunamente indagati offrono la prossibilità di
restituire una lettura più chiara della situazione e di orientarla, ove se ne scorga l'opportunità, al
cambiamento.
Becchi e Metelli di Lallo, tuttavia, non considerano Dewey un vero modello a cui ispirarsi
per fare pedagogia sperimentale. Rifacendosi al neopositivismo logico, le due studiose sono
propense a credere che gli assunti pragmatici di Dewey si sottraggono alla puntuale verifica del
riscontro sperimentale.
La didattica deve fondarsi su una puntuale conoscenza del bambino, attuata su rigorose basi
osservative e sperimentali
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La Metelli di Lallo, in particolar modo, fa una decisa distinzione tra empiria e
sperimentazione, sostenendo che l'osservazione in classe, per quanto attenta essa sia, non potrà mai
pervenire ad una qualche forma di certezza, poiché il peso del contesto è troppo alto e incontrollato,
per potersi fissare un qualche nesso credibile tra variabili, che renda adeguata contezza del
cambiamento e delle sue ragioni.
Le cosiddette sperimentazioni condotte nella scuola tali non sono in quanto prive, a suo dire,
di sufficienti garanzie di attendibilità.
La Becchi muove un'ulteriore critica al pragmatismo alla Dewey, il non avere un disegno
sperimentale a monte, rispetto al quale interrogare la realtà, ma indagare la realtà, raccogliere
informazioni ed osservazioni, per farsi suggerire un'ipotesi esplicativa dai fatti dei fatti.
Se Dewey appare schiacciato su una sorta di empirismo senza prospettive, si guarda invece
all'opera di Claparède, che è strutturata sull'esperimento. Tutti i costrutti di cui egli fa uso sono
supportati da indagini sistematiche, validate sperimentalmente. I risultati ottenuti in ambito
scolastico sono soggetti ad esami complementari in laboratorio. I concetti di cui la pedagogia deve
far uso dovrebbero essere corroborati dai fatti; la pedagogia quale scienza normativa è
semplicemente un'ideologia. Per rompere con la tendenziale deriva metafisica della pedagogia
bisognerebbe tentare di porre i costrutti teorici fondanti della pedagogia a vaglio sperimentale.
attraverso un articolato e complesso programma di ricerca, che dovrebbe coinvolgere tutta la
comunità scientifica dei pedagogisti.
La Metelli di Lallo ritiene che lo sperimentalismo sia compatibile con la proiezione utopica,
nella misura in cui lo sperimentalista, che ha verificato il funzionamento dei fatti educativi, si
spinge a valutare, mediante un esperimento mentale, cosa succederebbe se… La congettura
utopistica equivale ad una provocazione euristica, per la quale si prospettano le conseguenze di
determinate ipotesi. Talvolta queste congetture aprono spazi per la sperimentazione educativa
stricto sensu, in cui si prova a vedere in linea di fatto cosa succede a provare di mettere in atto
talune ipotesi derivate dagli esperimenti mentali.
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2 Sperimentalismo e innovazione
Francesco De Bartolomeis intende lo sperimentalismo come moto verso riforme di politica
scolastica e verso forme di sperimentazione didattica. La pedagogia - sostiene De Bartolomeis - può
costituirsi come scienza, anzi ha l'obbligo di farlo; è indispensabile che la pedagogia sperimentale si
distingua nell'impianto epistemologico e metodologico dalla pedagogia generale, la quale si occupa
di questioni assiologiche, che sono fuori dal campo d'interesse della pedagogia sperimentale. Gli
insegnanti devono essere chiamati ad assumersi la responsabilità della ricerca. Le aule didattiche
devono essere lo spazio in cui si sviluppa la ricerca educativa. Se gli insegnanti assumeranno la
responsabilità della ricerca, il potere dell'accademia che ha immaginato la scuola a misura delle sue
elucubrazioni verrà ridimensionato.
La questione del funzionamento del potere nei contesti educativi è una questione importante,
perciò è indispensabile capire come si distribuisce ed è gestito il potere nella classe, e immaginare
che possa essere spostato verso le figure tradizionalmente più deboli, che debbono essere chiamate
a poter orientare le azioni che le riguardano.
La ricerca, specie in campo educativo, è sempre fortemente politicizzata: una pedagogia che
voglia battersi per l'emancipazione dei soggetti, deve mettere in discussione gli artefatti teorici,
grazie ad una critica insieme teorica e pratica, che egli definisce come "antipedagogia". (Cfr. F. De
Bartolomeis, La ricerca come antipedagogia, Feltrinelli, Milano, 1969).
Un passaggio storico che viene ritenuto importante per lo sviluppo della riflessione sullo
sperimentalismo pedagogico è costituito dal terzo convegno nazionale di Scholé, che non a caso
aveva per titolo "La sperimentazione in pedagogia". Gli studiosi lì raccolti pervennero alla
conclusione che la sperimentazione pedagogica non può essere una sperimentazione del tipo di
quella delle scienze fisiche, tuttavia l'applicazione di metodi ricavati dalle scienze sperimentali può
essere utile soprattutto per accertare l'efficacia dell'insegnamento e la validità delle metodologie
didattiche. Sulla base di quest'idea, la ricerca sperimentale induttivamente ricava delle indicazioni
(dei criteri) in merito alla più o meno capacità in date circostanze di un metodo di far ottenere gli
effetti di apprendimento sperati, da far valere in analoghe situazioni, sì da dare degli orientamenti
alla pratica educativa e produrre cambiamento.
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In tal modo si riesce a tenere assieme sperimentazione scientifica e sperimentazione
didattica.
Secondo tale prospettiva, le indagini sperimentali trovano nella prassi un terreno ulteriore di
prova e verifica, che consente di modificare e sviluppare i concetti. Nella pedagogia le
contrapposizioni tra conoscenza empirica e conoscenza razionale, conoscenza e azione non hanno
senso di esistere. L'educazione ha natura pratica e la teoria è sempre un'astrazione che dalla prassi
parte e alla prassi ritorna, altrimenti la prassi sarebbe la mera applicazione di concetti elaborati al di
fuori del piano della concreta azione educativa.
2.1. La pedagogia sperimentale: esperienza, innovazione, ricerca ed
impegno
Aldo Visalberghi ha saputo, come pochi altri, tenere assieme la dimensione empirica e la
propensione sperimentale. Egli ha svolto nel nostro paese un ruolo primario nel perorare la causa
dell'introduzione delle nuove tecnologie educative, di metodologie didattiche innovative, quali al
esempio il Mastery Learning, non trascurando mai di porre l'attenzione sulla formazione dei
docenti, sulla necessità del controllo continuo dell'apprendimento (da qui il suo interesse per la
docimologia) come condizione per migliorare l'efficacia del processo di insegnamento-
apprendimento, sull'opportunità di studiare i diversi fattori in grado di condizionare gli esiti di
apprendimento. Il pedagogista sperimentalista ragiona di come poter rinnovare la scuola, stimola la
politica ad investire in sperimentazione, per comprendere se le innovazioni introdotte sono in grado
di produrre gli effetti desiderati.
L'idea che Visalberghi ha del metodo scientifico è piuttosto elastica e trova giustificazione
nell'enfasi che egli pone sulla "scelta". La scelta - egli dice - è fattore costitutivo della esperienza,
anche di quella scientifica, ovviamente, poiché nell'impostare una ricerca si sceglie cosa e come
ricercare, quale porzione del reale ritagliare, quali dettagli considerare marginali rispetto alla ricerca
e quali invece considerare funzionali all'ottenimento di risultati. Ogni indagine scientifica perciò ha
carattere non esaustivo e non definitivo, nel senso che ciò che è risultato di scelta può essere
rimesso in moto da una scelta diversa.
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La scelta avviene evidentemente in funzione di un fine, il quale però, laicamente, non si dà
come un dato ontologico a cui tendere, ma come organizzatore dell'attività presente in funzione di
un quid futuro reputato auspicabile. La "apertura verso il futuro" è ciò che "conferisce valore
motivante al presente, e ci rende capaci di viverlo pienamente, pur sapendo che ogni scelta è una
scommessa incerta, ma mai arbitraria, se vogliamo avere 'la coscienza a posto'" (A. Visalberghi, Un
itinerario filosofico e pedagogico, "L'Albatros", febbraio 2007). Quest'apertura verso il futuro non
mette in gioco semplicemente il rapporto del soggetto con l'oggetto, ma il sistema delle relazioni in
cui soggetto e oggetto sono iscritti, che determinano uno spazio di complessità, che evidentemente è
spazio di incertezza degli esiti di qualsivoglia azione si intraprenda.
La pedagogia sperimentale, quindi, per Visalberghi ha a cuore il senso del metodo
sperimentale, ma non ha alcuna postura scientista, non crede cioè che tutto si risolva con un
esperimento o con una misurazione. Senso che deve essere insegnato ad educatori e pedagogisti,
affinché si facciano promotori di innovazioni e di sperimentazioni. Abbracciata un'innovazione è
indispensabile avere la preoccupazione di controllare scientificamente ciò che si è fatto.
Innovazione e sperimentazione sono tensione essenziale al futuro, quindi navigazione nell'incerto,
che acquista qualche punto di orientamento proprio grazie alla verifica scientifica degli esiti di
questa navigazione. L'obiettivo principale dello sperimentalismo in pedagogia è quello di "sostituire
agli apriorismi e ai pregiudizi un atteggiamento sperimentale che sia insieme critico e costruttivo"
(A. Visalberghi, Problemi della ricerca pedagogica, La Nuova Italia, Firenze, 1965, p. VIII).
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3 La pedagogia sperimentale e la pedagogia generale
Lo sperimentalismo in pedagogia essendo un atteggiamento cozza contro l'idea che la
pedagogia sperimentale sia un settore della pedagogia; sperimentale deve poter essere tutta la
pedagogia. Esso esprime il desiderio di affrontare criticamente e costruttivamente la formazione
dell'uomo ovunque e comunque avvenga, per capirne i meccanismi di funzionamento, segnalandone
le possibilità di sviluppo, aspirando a verificarle una volta che qualcuno si decida a metterle in atto.
La ricerca pedagogica non può limitarsi al solo terreno della prassi didattica.
La relazione educativa vive sempre in un regime di complessità, poiché è relazione che si dà
in un sistema molto elevato di relazioni, perciò essa è soggetta ad un numero molto ampio di
variabili che è difficilissimo tenere sotto controllo. Ciò implica che fare della ricerca sperimentale
nei contesti educativi è piuttosto complesso. I rischi di produrre delle improduttive semplificazioni è
molto alto, perciò occorre vigilanza metodologica e visione. La ricerca aspira ad essere "varia e
creativa, nemica dei luoghi comuni e delle tradizioni pigre".
Visalberghi abilita ad una interpretazione lata della locuzione "pedagogia sperimentale",
svincolandola dal nesso stringente con il quantitativo, interessandogli piuttosto la attitudine
scientifica dell'approccio in campo educativo. Con Visalberghi la ricerca qualitativa è pienamente
recuperata alla pedagogia sperimentale. La portata della pedagogia sperimentale non sta
semplicemente nella verifica sperimentale dei metodi didattici, ma nella definizione di strumenti di
indagine che siano in grado di valutare la portata educativa, sociale e culturale di determinate
innovazioni organizzative e didattiche. Alla pedagogia sperimentale compete lo sguardo ampio.
La pedagogia sperimentale è scienza che affonda le proprie radici in una consapevolezza
storica dei problemi educativi ed è impegnata nel processo di costruzione permanente della storia.
La pedagogia sperimentale sa bene che la partita odierna dei sistemi educativi è quella della
formazione del cittadino, del produttore e del consumatore. È una partita che si gioca con il
concorso degli operatori, che sono i veri protagonisti delle innovazioni educative. La loro
esperienza professionale deve potersi concepire come protesa ad una comprensione più profonda ed
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attiva della realtà. Va modificato l'immaginario degli operatori, affinché essi interpretino la loro
professione come apertura, come ricerca, come non rassegnazione all'esistente e ai suoi limiti. La
ricerca educativa in essenza è impegno di trasformazione storica, quindi si misura sul piano delle
conseguenze sociali che è in grado di generare. Essa è strumento di emancipazione.
Sul piano della didattica, quindi, l'impegno pedagogico si esprime in un'opzione a favore di
quei metodi che problematizzano il dato, favoriscono le attitudini scientifiche e creative dei
soggetti, considerate quali presupposti di una socialità preferibile.
Detto ciò, si può comprendere quanto sia poco produttiva in campo educativo l'opposizione
quantitativo vs qualitativo. Ciò che importa è lo sforzo complessivo dei ricercatori in questo campo
a favorire la nascita di una solida disciplina scientifica, caratterizzata da un approccio di natura
empirico-sperimentale e da una coerenza logico-strutturale dei propri principi. Non può esistere in
pedagogia un'opposizione tra teoria e prassi, poiché laddove accettassimo questa dicotomia - ci dice
Visalberghi - staremmo accettando l'idea che esiste una cultura egemone che si arroga il diritto di
decidere gli scopi e i valori da perseguire, destinando quelli che dalla cultura egemone sono eslcusi
a meri compiti tecnico-esecutivi. Pedagogia sperimentale quindi è ricerca educativa intenzionale,
nel perseguimento di risultati in grado di modificare il senso comune e il comune modo di fare le
cose in campo educativo.
Su una linea di pensiero analoga a quella di Visalberghi è la riflessione di Raffaele Laporta,
il quale attraverso l'idea della cosiddetta Paidetica, intende offrire alla pedagogia sperimentale un
orizzonte ampio, chiamandola al compito di predisporre dispositivi di verifica di impegnativi
assunti teorici, congetture, ipotesi di funzionamento dei processi educativi, in qualsivoglia sede
formulati, ivi compresa quella filosofica. Teoria ed esperienza non sono separabili, sono in un
rapporto di circolarità. Qualsiasi ipotesi teorica necessita di una messa alla prova attraverso la
verifica empirica, che è sprone a correggere l'ipotesi iniziale, in modo da salvare i fatti.
Su questa linea, la sperimentazione pedagogica è attività concreta di mediazione tra
un'astrazione teorica (che senza il confronto con l'esperienza rimarrebbe) inane e una pratica
educativa (che permanendo nell'inerzia del fare sarebbe) cieca. La pedagogia sperimentale è
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manipolazione, misurazione, controllo di elementi del contesto formativo per trarre informazioni
utili in merito alle idee implicite o esplicite che lo hanno strutturato per comprenderne il senso ed
eventualmente suggerirne la modifica (da sottoporre a verifica) connettendola ad un assunto teorico
capace di giustificarla.
Si potrebbe dire, cogliendo ancora una volta uno spunto di Visalberghi, che sperimentale è
tutta la buona pedagogia, ossia quella pedagogia che è pronta a modificare le sue convinzioni
teoriche sulla base dell'esperienza.
Da tale prospettiva la locuzione "pedagogia sperimentale" vale quella, suggerita da De
Landsheere di "ricerca empirica e sperimentale in educazione" (G. De Landesheere, Storia della
pedagogia sperimentale: cento anni di ricerca educativa nel mondo, Armando, Roma, 1988).
Lo slittamento di significato è chiaro: lo sperimentalismo pedagogico non pertiene tanto ai
metodi adottati per indagare i processi e i fatti educativi, quanto piuttosto alla disponibilità a
reclinarsi sull'oggetto ed interrogarlo con atteggiamento di rigore e scientificità.
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4 Lettura di approfondimento
1. Proponiamo la lettura di un'intervista al pedagogista Nicola Paparella, uno
sperimentalista, che viene invitato a riflettere sul senso della sua ricerca.
Intervista realizzata il giorno 02.12.2009 da Salvatore Colazzo a Nicola Paparella per il libro
S. Colazzo (a cura di), Sapere pedagogico, Armando, Roma, 2010.
D - Quali sono stati i tuoi studi?
R - Se debbo indicare dei punti di partenza non posso non ricordare i maestri. Il punto di
partenza è lì. Intanto Gino Corallo, da cui ho preso subito le distanze dal punto di vista degli schemi
filosofici adottati, anche se rimane comunque per me un maestro. […] Parallelamente Gaetano
Santomauro, al quale mi sento molto legato. Gaetano Santomauro è stato per me davvero un
maestro. […]
Ambedue avevano partecipato al terzo Convegno di Scholé, dove si era discusso di
sperimentazione (1). A quel Congresso parteciparono pure personaggi come Buyse, Plancke ed altri
di prima grandezza per la storia della pedagogia sperimentale. Scholé era agli inizi, non raccoglieva
grandi numeri. Ma tra quelle poche persone che parteciparono vi furono tanto Gino Corallo quanto
Gaetano Santomauro. Mi resi conto dalle loro parole che la mia strada poteva essere uno sviluppo
del discorso di Santomauro piuttosto che di Corallo. […] D'altro canto avevo fatto delle letture, che
mi spingevano a superare le prospettive indicate da Corallo. Mi ero imbattuto nella scienza
contemporanea, avevo conosciuto il principio di indeterminazione di Heisenberg, avevo letto libri
sugli sviluppi più recenti della fisica, quindi avevo ansia di novità.[…]
Essendo indotto a ripensare rispetto alla genesi dei miei interessi, forse è interessante dirti la
mia vicenda legata al servizio militare. […] Per una serie di vicende […] mi capitò di fare l'ufficiale
di complemento in artiglieria contraerea pesante, in un contesto in cui i miei colleghi erano
prevalentemente ingegneri, fisici, matematici o anche periti elettronici o industriali. […] Mi ritrovai
a studiare balistica; nacque lì l'interesse per la cibernetica […].
La cibernetica è il prodotto spurio, scientifico, di una ricerca militare, che vedeva come
principale interprete Norbert Wiener. Wiener aveva sviluppato la nozione di feedback, che è
centrale nella cibernetica, mentre lavorava a un progetto bellico per il tiro automatico. Il suo sistema
era basato su un radar che forniva informazioni a un calcolatore sull'errore commesso dal sistema di
puntamento, nel tentativo di abbattere, coi suoi tiri, l'aereo nemico. Il fatto che dopo ogni colpo, il
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radar poteva correggersi grazie alle informazione in merito all'entità dell'errore, costituisce
propriamente il meccanismo di feedback. Questa idea di recuperare alcune informazioni derivanti
dall'azione, per migliorare l'efficacia dell'azione stessa, era un'idea del tutto nuova.
Io - dicevo - ero un ufficiale di complemento applicato alla contraerea, ho dovuto studiare il
problema del tiro, acquisire nozioni di balistica, acquisire dimestichezza con i calcolatori elettronici,
che allora erano macchina complicate, di grandi dimensioni, avevano le valvole termoioniche al
posto dei chip, era complicato raffreddarli. Le questioni teoriche relative al problema del tiro
contraereo e della sua progressiva correzione, da cui nasce la cibernetica, diventarono, per questa
circostanza dell'esistenza elemento della mia formazione.
[…]
D - Nella tua bibliografia c'è un testo che congiunge le parole epistemologia e cibernetica (4)
R - E' la traduzione di un volume del Centro di Epistemologia Genetica di Ginevra, fondato
e diretto da Piaget, e poi successivamente presieduto da Cellerier. Anche lì il discorso metodologico
ed epistemologico è fondamentale. Lì si affronta la questione formale del rapporto fra soggetto ed
ambiente, che poi torna frequentemente nel mio discorso.
D - Mi interessa approfondire il tuo impegno da educatore, che ha, sin dall'inizio della tua
cinquantennale carriera nelle istituzioni scolastiche, la tua attività. Da studioso sei interessato a
confrontarti con la concretezza dei fatti, ma i fatti per un pedagogista sono la relazione educativa, la
didattica, l'apprendimento quale derivato dell'azione d'insegnamento, gli ambienti
d'apprendimento…
R - Come educatore scolastico, all'inizio della mia carriera, ho trasferito le mie attenzioni
teoriche e metodologiche in un contesto - si direbbe oggi - di didattica speciale, allora si preferiva la
parola ortopedagogia. In particolar modo mi interessavano problemi come l'educazione linguistica
in soggetti balbuzienti. Mi riferisco a soggetti concreti, a persone che per me hanno un nome e un
cognome, un volto, che mi evocano storie di vita, ben precise. Mi interessava capire la correlazione
tra disturbo del linguaggio e disturbo motorio, e la possibilità di intervenire sull'uno lavorando
sull'altro; così pure mi interessava approfondire il tema del corretto insegnamento della lettura e
della scrittura, che è qualcosa che bisognerebbe tornare a considerare perché dopo anni in cui
sembrava che questo fosse il problema principale della scuola elementare (oggi non diciamo più
scuola elementare), oggi il tema della lettura e della scrittura sembra essere passato piuttosto in
secondo piano. Ricordo del fascino esercitato su di me dalla lettura di Lambruschini, che sotto
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questo aspetto segnala una novità importante, quella di un metodo globale ante-litteram, rivisitato e
corretto. Mi interessavano pure altre questioni collegate alla motricità fine, all'uso intelligente della
motricità rispetto alla capacità di elaborare un linguaggio ben articolato e strutturato, sia dal punto
di vista del linguaggio verbale che dal punto di vista espressivo-grafico.[…]
D - L'atteggiamento sperimentale, in questo, come è recuperato?
R - La sperimentazione in questo caso diventava soprattutto esperienza. Esperienza, però,
monitorata, quindi con degli indicatori che venivano poi seguiti passo dopo passo, lungo il tempo e
che permettevano di stimare i successi o gli insuccessi. Osservando comunque una cautela tratta da
Buyse, che usava dire: attenzione poiché i bambini degli altri non sono porcellini d'India. Quindi
non c'era da fare una sperimentazione in corpore vivi, se non partendo da premesse teoricamente
credibili e sostenibili. Non era quella di quel periodo una sperimentazione a maglie larghe. Una
sperimentazione a maglie larghe mi vedrà successivamente impegnato. Dobbiamo spostarci di
qualche anno perché venga fuori dal punto di vista istituzionale la mia proposta di un
prolungamento della scuola magistrale. La scuola magistrale in Italia aveva durata triennale e fra
una montagna di difficoltà riuscii a far varare una sperimentazione nel senso tecnico della parola:
sperimentazione che portava da tre a cinque anni questo percorso. Perché sperimentazione?
Qualcuno potrebbe dire: se aggiungiamo un biennio è chiaro che cinque anni producono migliori
risultati che tre. In realtà noi (dico noi perché imbarcai in quest'avventura anche mia moglie e poi
alcuni altri amici) individuammo alcuni indicatori che servivano a stimare quelli che allora
definimmo "tratti di personalità magistrale", tant'è che tirammo fuori persino una sorta di reattivo
che chiamammo TPM. Si trattava di porre questa ipotesi: la personalità magistrale ha bisogno di
essere curata con dei messaggi specifici in un arco di età che va dai sedici ai diciott'anni, quell'età
che in psicologia dell'età evolutiva viene a caratterizzarsi soprattutto per compiti di sivluppo di tipo
relazionale. Dopo si possono ottenere gli stessi risultati, ma con un dispendio di energie maggiore.
Volevamo segnalare, con la nostra sperimentazione, al legislatore: attenzione, queste attitudini,
queste disponibilità vanno curate in termini di proposta didattica specifica a una determinata età.
Questo giustificava allora, e giustifica oggi, un indirizzo pedagogico negli studi della secondaria.
Diversi anni più tardi altri autori hanno sostenuto la stessa tesi. Voglio ricordare, fra tutti, uno: Elio
Damiano. Nel momento in cui il giovane realizza questo compito di sviluppo, ribadisco: quello
della relazionalità, fornirgli degli stimoli culturali specifici, significa rispondere nel modo più
efficace poste dal suo compito di sviluppo. Non è detto che gli stessi risultati non si possano
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Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
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ottenere se una persona comincia gli studi pedagogici a quarant'anni, certo questo non è il momento
ideale, quindi lo sforzo sarà sicuramente maggiore. Questa fu la sperimentazione di tipo
istituzionale che andò avanti per diversi anni, con risultati eccellenti. All'inizio furono soltanto
quattro scuole, una a Brescia, l'altra a Benevento, l'altra ancora ad Ancona e infine l'ultima a
Solarino, un piccolo centro in provincia di Siracusa. Successivamente, questa sperimentazione vide
l'adesione di un numero più ampio e dopo i primi cinque anni noi finimmo di monitorarla. Il
ministero, raccogliendo in qualche modo il risultato della sperimentazione, autonomamente decise
di estendere il percorso delle scuole magistrali da tre a cinque anni. Invece per sperimentazioni di
più contenuta rilevanza temporale, l'occasione mi fu offerta dalla collaborazione con la Federazione
delle scuole materne di Trento, il cui direttore era allora un giovane dinamico, dottore di pedagogia,
oggi mio collega, Gino Dalle Fratte. La FISM godeva di una particolare condizione di autonomia e
di favore istituzionale nel rapporto con la Provincia Autonoma di Trento, e, da qui, anche di una
particolare condizione economica, senza della quale evidentemente le cose che abbiamo fatto non
sarebbero state pensabili. Aveva pensato quindi di mettere su diversi gruppi di ricerca, alcuni anche
abbastanza vivaci. Io entrai subito in uno di questi gruppi di ricerca, ne ebbi la responsabilità, che
condivisi, all'inizio, con un altro illustrissimo cultore di pedagogia dell'infanzia, che mi piace
ricordare: Mario Cattaneo, allora direttore del CPI, Centro Pedagogia dell'Infanzia presso l'Editrice
La Scuola di Brescia. Successivamente continuai le sperimentazioni a Trento in maniera autonoma.
Lì feci delle sperimentazioni anche piuttosto ardite. Sperimentare nell'ambito pedagogico comporta
delle difficoltà enormi. Molto spesso queste difficoltà vengono evitate, occultate scendendo giù di
registro: dal discorso pedagogico si scende a quello didattico, e quindi gli indicatori vengono presi
non sul versante dei fatti educativi, ma sul versante delle espressioni didattiche, del gesto didattico.
A Trento la prima sperimentazione che tentai fu quella relativa all'efficacia educativa di alcune
procedure per l'educazione religiosa nel bambino. Ora, al di là della questione educazione religiosa
sì o no, se uno si addentra nella tematica dell'educazione religiosa per fare della sperimentazione
pedagogica, non trova gli indicatori didattici poiché il gesto didattico, o la risposta comportamentale
del bambino al gesto didattico, è di scarsa rilevanza. Quello che conta è invece l'orientamento
comportamentale del bambino. Anche lì fu interessante la ricerca poiché fu necessario realizzare un
reattivo per la misura dell'efficacia religiosa: tirai fuori delle favolette da completare, con tutto un
meccanismo di valutazione che è estremamente interessante. Un'ispirazione sottostante a questo
strumento, chi abbia una qualche dimestichezza con certi strumenti può facilmente rinvenirla nelle
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favole della Duss, la quale aveva ideato delle piccole storie in cui un protagonista si trova in una
situazione determinata, al bambino è chiesto di completare quella situazione. Il modo in cui il
bambino fa evolvere la storia, ci dice molte cose di lui e del suo inconscio. Si tratta di ispirazione
poiché il meccanismo del reattivo da me pensato è totalmente diversa, ha altri obiettivi, altre
intenzioni. Poi ho fatto una sperimentazione da brividi presso l'IRRSAE di Puglia, la volle la
carissima Luisa Santelli Beccegato. Adesso forse non è il caso di starla a raccontare, ma comunque
la situazione e il problema erano tali per cui non si poteva che adottare due opzioni: o rinunciare e
non far niente oppure fare quella che si chiama una "sperimentazione storica". Lì per lì tentai di
sottrarmi al compito e poi, dinnanzi alle insistenze di Luisa Santelli, accettai la sfida, perché quando
mai avrei avuto la possibilità di fare una sperimentazione di tipo storico? La sperimentazione di tipo
storico (per chi non è addetto ai lavori) è quella per cui non potendo disporre oggi delle variabili di
contesto della situazione sperimentale le va a recuperare dal passato, per andare a vedere come
quelle variabili abbiano di fatto agito. Questo tipo di ricerca, dal punto di vista metodologico, è
molto complessa e molto difficile: è necessario essere rigorosissimi. Quella da me impostata aveva
a che fare con aspetti docimologici, ma non solo, implicava anche un interesse politico,
testimoniava il mio bisogno di una presa sul campo, propria di una pedagogia impegnata
D - Tu hai seguito le vicende della pedagogia sperimentale in Italia molto da vicino.
Dovendo ricostruirne in qualche modo la storia disegnando l'arco per la quale da una timida istanza
via via si è strutturata in un settore scientifico con una propria specificità, quali nomi consideri
particolarmente significativi, quali episodi ti viene da sottolineare?
R - La ricostruzione storica di una vicenda complessa è sempre un'operazione ad alto
rischio, ma accetto la provocazione e mi assumo il rischio. Debbo dire che noi avevamo in Italia
agli inizi del Novecento un centro di ricerca sperimentale in pedagogia a Napoli, lo aveva promosso
un tale di nome Colozza (5) - bisognerebbe produrre qualche studio su di lui, ma non solo su di lui -
, poi tutte le vicende legate all'idealismo gentiliano, al crocianesimo, al fascismo, ecc. impediscono
a questi vivai di produrre frutti, e in Italia la pedagogia sperimentale viene coltivata fuori dall'Italia,
nel Pontificio Ateneo Salesiano, con dei nomi anche prestigiosissimi, noti a livello mondiale. Mi
riferisco ad esempio a Titone, a Braido, ma anche, in tempi a noi più vicini, a Calonghi. Se noi
guardiamo la vicenda del Pontificio Ateneo Salesiano - per inciso dirò che il mio maestro, del quale
abbiamo parlato inizialmente, Gino Corallo era un salesiano, che quindi aveva respirato questa
cultura, anche su poi lui aveva approfondito i suoi studi negli Stati Uniti - constatiamo come
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vengano fuori fondamentalmente due linee fondamentali: una che punta agli aspetti valoriali - cioè
si mette sotto vetrino il fatto educativo nelle sue coordinate fondamentali che sono quelle valoriali,
con tutte le difficoltà del caso - e l'altra invece che punta al riflesso didattico comportamentalmente
più facilmente osservabile, misurabile. Già Calonghi sente molto il fascino di questa seconda
prospettiva. Dal momento che su questo versante c'era la possibilità di approfondire meglio le
questioni tecniche e di documentare meglio gli aspetti procedurali (e quindi tutti i problemi relativi
alla misura, ad esempio, anche epistemologici, ma soprattutto tecnico-procedurali) viene fuori un
percorso che poi trova una sua linea, che consente ad altri di accostarsi ad esso, pur provenendo da
matrici culturali diverse. Voglio pensare, a questo proposito, alla Lumbelli ovvero a Vertecchi, ma
anche altri nomi si potrebbero citare, tutti attenti all'analisi quantitativa, e cioè alla dimensione della
osservabilità del comportamento, che in un'indagine di tipo sperimentale è fondamentale. Ma l'altra
prospettiva ci aiuta a domandarci dello specifico della sperimentazione pedagogica, ed è quindi
anch'essa utile. Che consiste nella rilevazione dell'incidenza delle dimensioni valoriali. Noi
dobbiamo risolvere questo problema: se noi diciamo incidenza delle dimensioni valoriali non
diciamo di voler rinunciare né all'osservazione rigorosa né alla misura. Si tratta di trovare indicatori
diversi e accettare la sfida della difficoltà. Inutilmente ci si è imbattuti in un dibattito, a volte sterile,
fra metodi quantitativi e metodi qualitativi. Gli uni hanno una loro giustificabilità tanto quanto gli
altri: a seconda dei casi vanno bene gli uni, vanno bene gli altri; dobbiamo semplicemente evitare
ricorrere agli uni quando abbiamo difficoltà con gli altri e viceversa, perché gli strumenti valgono
non per il fatto d'essere quantitativi o qualitativi, ma se adoperati correttamente. Vale sempre il
rigore epistemologico, metodologico, procedurale, tecnico. Penso che se in Italia abbiamo fatto una
serie di indagini pregevoli sotto il punto di vista del rigore procedurale con esiti apprezzabili
rispetto al vantaggio conoscitivo, ciò non ci esime dal tentare di fare un passo ulteriore, che è quello
di chiederci quale possa essere l'apporto della pedagogia sperimentale agli aspetti di rilevanza
qualitativa, etica; se non crediamo che questa sia un'istanza valida allora vuol dire che riteniamo
solo i sociologi abilitati a trattare di valori. In ambito sociologico - va riconosciuto - vengono fuori
delle indagini sui valori dei giovani che sono di grande rilievo sia per i risultati sia per le metodiche.
L'orientamento comportamentale è sempre un orientamento di tipo valoriale, sia che il soggetto sia
in età evolutiva che in età adulta. Il comportamento o è mosso da interesse o è motivato da un
valore. Ora, invece, secondo me è indispensabile che la pedagogia sperimentale continui a lavorare
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sull'incidenza dei valori, anche se va riconosciuto abbisogna di supporti economici, che non sempre
si riesce a trovare.
D - Non trovi che su questo tema dei valori pesino gli esiti del dibattito sviluppatosi negli
anni Ottanta del secolo scorso, che vide un certo ostracismo verso tematiche rivolte ad esplorare
l'incidenza dei valori nei processi di apprendimento?
R - Effettivamente in quegli anni ci fu un dibattito, anche aspro, ma sia in ambito cattolico
che in ambito laico vi fu chi contribuì a sviluppare la problematica. Oggi bisogna riprendere quei
temi e svilupparli alla luce delle nuove sensibilità che i tempi hanno fatto emergere.
D - Ritieni che si sia abdicato all'impegno di riflettere su questi temi?
R - Sì senz'altro. Ogni tanto il richiamo ai valori ritorna, ma sembra la predica del sabato
sera quando si debba mettere qualche toppa a crepe di tipo politico. Quando la politica fallisce,
allora si invocano i valori. ma è un'invocazione che non giova molto: i valori vanno costruiti, e
vanno costruiti con progetti educativi, anche di educazione sociale, intendo dire un'educazione
gestita dalle istituzioni come organizzazione della città - e qui vorrei richiamare una mia vecchia
idea che non ho mai potuto approfondire e che consegno a qualche giovane studioso che volesse
impiantare a partire da essa una qualche ricerca: dovremmo costruire un piano regolatore della
qualità della vita nella città, così come si costruiscono i piani regolatori per disegnare le piazze, le
strade, le scuole, i nuovi insediamenti, dovremmo poter disegnare una mappa della città in cui
vengano fuori i bisogni, le sofferenze, le speranze, la possibilità della condivisione, della
partecipazione, e quindi anche le strutture che tutto questo possono facilitare. La qualità della vita
non può essere un'etichetta che emerga alla fine di un check up ISO, dev'essere un qualcosa che si
costruisce su un progetto sociale (che poi in foro privato è un progetto personale). Noi si fa presto a
gridare "al lupo al lupo" o gridare allo scandalo, oggi ci preoccupiamo di problemi come quello
degli immigrati; mi piacerebbe che ogni tanto qualcuno si domandasse come arrivano in Italia le
ballerine dei locali notturni, se quelle sono clandestine… La qualità della vita non può essere un
fatto episodico, è l'esito di una impostazione sistemica della convivenza civile. Ciò va riscoperto in
diversi contesti, uno dei contesti fondamentali a cui mi sono avvicinato negli ultimi anni, assieme
all'educazione degli adulti, è quello della pedagogia politica, ossia la pedagogia che si interroga sui
problemi della convivenza nella città, si interroga sul destino dell'uomo nella città, si interroga sul
destino dell'uomo nella storia. Sono contesti che richiedono grande determinazione, ma anche
grande disponibilità allo studio, poiché la letteratura straniera su tali argomenti è vasta.
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D - Per questa via ritorna il tema della pedagogia in quanto impegno rispetto ad un tempo
che prospetta una serie di emergenze educative.
R - Siamo in un'emergenza educativa. Lo diciamo oggi con questa espressione, resa famosa
dall'intervento del pontefice, ma anche in precedenza con altre espressione lo si era detto. A me era
scappato di usare un'espressione: "il coraggio educativo". Noi forse ci troviamo in un'emergenza
educativa anche perché ad un certo punto è venuto meno il coraggio di educare. Siamo usciti da una
stagione nella quale l'adulto educatore - fosse egli genitore o insegnante - aveva fatto un grosso
esercizio di inibizione, socialmente indotta: non bisognava dire, non bisognava proporre, non
bisognava interferire nello sviluppo del bambino, bisogna mantenersi dietro le quinte.
Quest'atteggiamento era il risultato di una lezione mal digerita del non-direttivismo. Il non-
direttivismo è una cosa seria, ma se lo si orecchia soltanto diventa deleterio. Bisogna tornare quindi
ad avere il coraggio di educare. L'educazione è sempre un'azione positiva, essa non può sottrarsi al
compito di un intervento positivo: non basta togliere i sassi dalla strada di Emilio, bisogna potergli
indicare una strada, fare una proposta, condurre, prospettare. Certo, senza essere direttivi, ma
essendo propositivi. Non essere direttivi non vuol dire rinunciare all'azione educativa. Bellissima
trovo un episodio raccontato da Margareth Mead, la quale era andata visitare una scuola assieme ad
altri suoi colleghi. Le presentano una bambina che stava disegnando ed era molto compresa nel suo
fare. Le si avvicinano e uno dei visitatori le rivolge la parola, ma la bambina si mette a piangere.
Cercano di capire perché, e la bambina risponde loro: che vale essere considerata la bambina più
brava della scuola, se poi nessuno dei miei docenti mi dice se ho sbagliato dove ho sbagliato.
L'azione educativa deve indicare un modello, il quale non sarà tanto rigido da configurarsi come
una gabbia. Poi in pedagogia c'è il fatto che il modello non può che darsi come incarnato, cioè sotto
forma di esempio proposto dall'educatore all'educando. In quanto tale coinvolge in prima persona: il
pedagogista e l'educatore non vanno mai in ferie, sono sempre in pieno esercizio, in quanto sono per
quello che fanno e per quello che dicono esposti all'altrui osservazione, e quindi nella possibilità
d'essere censurati; ma questo è il mestiere (o se si vuole la missione) di chi si occupa di educazione.
Siamo in un'emergenza educativa poiché a livello individuale, ma anche a livello di istituzioni, si
viene meno al coraggio di educare, cioè non si percepisce l'educare come un fatto sociale.
[…]
D - Passiamo ad un altro argomento: parliamo dello statuto della pedagogia in riferimento ai
rapporti con le altre discipline. In tutto questo nostro discorrere abbiamo intuito il commercio della
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pedagogia con altri domini e altre pratiche scientifiche, con la statistica ad esempio, con la
sociologia, con la psicologia. Qual è il tuo punto di vista a proposito? Lo possiamo intuire, ma ci
piacerebbe che tu lo esplicitassi.
R - La pedagogia è destinata a confrontarsi con le altre scienze. Quando c'è questo confronto
il grosso rischio è che si perdano i confini. E' un rischio permamente. Guai però a rinunciarvi,
temendo questo pericolo di contaminazione.
Ma forse un criterio può essere utile per non perdere la rotta. Il pedagogista è colui il quale
insegna all'educatore a mettere le mani in pasta. Non è sufficiente ragionare, perché il ragionare del
pedagogista è ragionare su un fatto che avviene e che dev'essere gestito, il fatto educativo. In
pedagogia i discorsi meramente descrittivi, classificatori, sono sostanzialmente inutili se non si
configurano come preparatori di una qualche teoria che si prospetti come orientamento nell'azione
dell'educatore. Il pedagogista lavora per fissare criteri, che offre all'educatore. Si tratta quindi non di
criteri di tipo politico, si tratta di criteri che invocano la persona. Anche lo psicologo interviene e ha
che fare con la persona, ma è diversa l'intenzione. Lo psicologo mira a ri-costruire l'identità, il
pedagogista, con l'educatore, a edificarla. Meglio: il pedagogista aiuta la persona a edificare la
propria identità. Se c'è questo stiamo nell'educazione, diversamente stiamo facendo qualcos'altro:
stiamo svolgendo un'indagine sociologica o una rilevazione etnografica o una inchiesta
giornalistica, certo non stiamo facendo pedagogia.[…] Talvolta la linea di confine finisce per
logorarsi a furia d'essere stressata, ma nonostante ciò vale la pena, anche perché da quella tensione
talvolta deriva l'allargamento del compito del pedagogista e dell'educatore, che ingloba nel compito
educativo questioni che precedentemente ne erano escluse. C'è pure il rischio che altre discipline
provino a risucchiare le conquiste della pedagogia, ma così vanno le cose. Proprio erodendo il
confine, la pedagogia ha scoperto temi come quello dell'educazione degli adulti e della valutazione,
ovvero ha imparato a dare un'importanza nuova alla valutazione, pervenendo a concepirla come
strettamente connessa ai processi formativi. Oggi è ormai assodato che la valutazione, in quanto
espressione della stima dell'operare umano in forza del quale il soggetto realizza migliori condizioni
di costruzione di sé, è tema educativo e quindi questione pedagogica. Il confronto porta quindi al
rischio del depauperamento, ma talvolta può produrre un vero arricchimento. Per questa ragione
dobbiamo insegnare ai nostri giovani ricercatori il dialogo con le altre discipline, affinché per un
verso non si sentano crociati in missione di espugnazione e per altro verso non assumano un
atteggiamento tanto timoroso dell'altrui attacco da farli ritrarre nelle catacombe.
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[…]
2. La seconda lettura è estratta da un articolo apparso sull’inserto “La Lettura” de “Il
Corriere della Sera”, pubblicato anche on-line
No illusioni, l'universo non è matematico, di Sandro Modeo
sul sito del Corriere della Sera, all'indirizzo internet: http://lettura.corriere.it/debates/no-a-
illusioni-l%E2%80%99universo-non-e-matematico/
Narrazione saggistica serrata e avvolgente, il recente libro del fisico del Mit Max Tegmark
(Our Mathematical Universe) [… esalta] la rete immutabile di relazioni numeriche entro cui si
organizzano stati e dinamiche della materia, dalle galassie più remote agli alberi di una foresta, dai
moti dei pianeti al traffico urbano.
Nella sua versione hard — come quella di certi matematici «formalisti» — questa visione si
spinge a rendere la trama matematica (aritmetica, geometria, algebra e topologia) totalmente
autonoma non solo rispetto al Soggetto (al cervello), ma anche alla materia stessa. Questo senso di
onnipotenza — come mostra il matematico Steven Strogatz nel suo La gioia dei numeri — è dovuto
sia alle proprietà della disciplina (la sua coerenza, che si traduce spesso in concisione e bellezza),
sia soprattutto alla sua efficacia descrittivo-esplicativa, tutt’altro che «irragionevole», come
vorrebbe l’adagio di Eugene Wigner: vedi i nessi tra le equazioni differenziali e le leggi del moto,
tra il calcolo infinitesimale e i cambiamenti di stato (dalle epidemie all’«effetto» di una palla), tra la
logica binaria (0 e 1) e la codifica di suoni e immagini su un tablet. Vertice di questa efficacia sono
forse le onde sinusoidali, che troviamo nelle dune desertiche, nelle vibrazioni della voce umana e
nelle «increspature» della materia da cui si è originato il cosmo che abitiamo.
Eppure, ricorrendo a uno scienziato cognitivo come Stanislas Dehaene o alle riflessioni di
un neurobiologo come Jean- Pierre Changeux (in un dialogo memorabile con il matematico Alain
Connes), possiamo ribaltare la prospettiva, e vedere gli oggetti matematici (teoremi, proposizioni,
assiomi) come «oggetti mentali stabili» prodotti dall’evoluzione, selezionati e aggregati via via
proprio per la loro adeguatezza nell’aderire alle regolarità del mondo esterno, di cui il nostro
cervello è incessantemente vorace per meglio adattarsi all’ambiente. Questa continuità tra biologia e
cultura è ben riassunta dalla simmetria, proiettata in tempi preistorici dalla nostra morfologia
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vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
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bilaterale in schemi di orientamento e giudizio estetico (la scelta del partner) e poi eletta a pattern
artistico (come in un quadro di Piero della Francesca o in una fuga di Bach) e a principio di teorie
matematiche come quella dei «gruppi», oggi decisiva nel tentativo di armonizzare la dimensione
«macro» della gravitazione con quella «micro» dei quanti.
[…]
Potente in quanto linguaggio universale e privo di ambiguità, la matematica non può però
trascendere limiti e vincoli; quelli intrinseci al suo stesso linguaggio (ben descritti da Gödel) e
quelli dei matematici che lo producono, così come la fisica, nelle misurazioni subatomiche, ha
dovuto affrontare l’interferenza dell’osservatore. Non può cioè descrivere il mondo «dal punto di
vista di Dio»: le sue complesse elaborazioni si adattano ma non coincidono con gli oggetti fisici: le
traiettorie dei pianeti — ricorda Dehaene — non sono ellittiche, e la Terra non è perfettamente
sferica. La realtà della materia conserva sempre un margine irriducibile di irregolarità, verso cui
l’astrazione matematica è insieme approssimata e idealizzante, come un guanto elegante, ma —
anche di poco — troppo stretto o troppo largo.
In quanto attività umana, la matematica può solo mediare tra le estensioni di materia «là
fuori» (entità, proprietà e relazioni di un mondo senza etichette) e le elaborazioni che avvengono «là
dentro», nella coscienza e soprattutto nell’inconscio della nostra materia cerebrale. In questo senso,
e solo in questo senso, è lo strumento privilegiato che ci permette di essere «la misura di tutte le
cose».
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