M’inginocchiai per raccogliere quel che era rimasto dell’elefante, ma fui talmente
imprudente nel farlo da pentirmene immediatamente. L’orecchio destro iniziò a
ronzare, le punte dei piedi persero la presa sul pavimento.
Avevo l’impressione di slittare, e tossii per tenere a bada un conato di vomito.
Cercai di recuperare l’equilibrio con il braccio destro, con la mano che tentava di
afferrare il pavimento.
L’elefante era completamente esploso. Non aveva più gambe, non erano rimasti
che moncherini scheggiati. Il paio superiore, quello rampante, per anni sospeso a
grattare aria, sembrava non avere lasciato alcuna traccia. E le orecchie, così sottili,
una carta da zucchero, si erano trasformate in lame ancora più sottili, trasparenti,
attraversate da venature che non avevo mai immaginato possibili in una materia
solida, liquida, come il vetro. Anche la proboscide non c’era più. Si era scomposta
in tanti piccoli granelli opachi.
Nel rialzarmi - con prudenza, appoggiando la mano destra sul marmo freddo del
comodino - provai a ricordarmi la ragione per cui, prima della partenza, avevo
deciso di portare con me anche l’elefantino, ma non ci riuscii.
In piedi mi accorsi che solo le zanne, le due uniche macchie bianche nella goccia
di vetro verde dell’elefantino, incredibilmente si erano salvate. Misi in tasca i suoi
resti, presi la borsa, la valigia, e attraversai il corridoio. Aprii la porta e la richiusi
alle mie spalle scalciandola con il piede destro.
Il pianerottolo era ancora più buio dell’appartamento. Rimasi fermo, in ascolto.
Non dovevo essermi ripreso ancora del tutto, perché l’orecchio destro accennava
una vibrazione e per qualche secondo ebbi paura - no, non paura, terrore - che le
vertigini riprendessero il loro giro. Passò qualche minuto prima che mi decidessi a
scendere lungo la tromba delle scale, appoggiando di tanto in tanto un fianco sul
corrimano.
Con un po’ di fortuna scesi i quattro piani senza incontrare nessuno dei condomini.
Arrivato all’androne guardai l’orologio sopra la teca degli annunci. L’una era
passata da qualche minuto.
Posai la valigia e con la mano libera presi la busta, con su scritto per le bollette,
che avevo infilato in una tasca della giacca. L’assicurai sotto la porta dell’ufficio
della portinaia. Spalancai il portone, ripresi la valigia e uscii.
Solo quando il portone si fu chiuso mi ricordai di non avere firmato la busta, di
non avere chiuso a chiave l’appartamento.
«Le posso rimborsare i primi due biglietti se vuole. Le rimborso i primi due
biglietti, sì? Gli altri due, questi qui, hanno un valore troppo basso. Li ha pagati…
costavano poco, e non è possibile usarli per la destinazione che mi ha detto. Ma li
può conservare. Li può conservare, sì, certo. Valgono altri due mesi e li può usare
per una tratta regionale. Non li ha persi i soldi, capisce? Le basta darmi qualche…
Lo so e mi dispiace, ma questa cosa non è dipesa da me. Queste cose non dipendono
da me, io posso solo cercare di aggiustare quello che si può aggiustare. Però se ora
mi lascia sostituire i biglietti posso servire anche le persone che stanno aspettando
dietro di lei. Magari devono partire anche loro. Avranno un posto dove andare, degli
orari da rispettare. Capisce, sì?»
Il vecchietto rimaneva fermo, non si spostava dal pannello di vetro che lo separava
dal cubicolo della biglietteria. Rimaneva fermo di fronte a me, dandomi le spalle,
con il suo respiro rantoloso, pesante.
Con entrambe le mani teneva stretto sul petto il suo borsalino, come se da un
momento all’altro gli dovesse essere rubato. Appena sopra l’aureola dei pochi
capelli rimasti c’era una seconda aureola, un filo di pelle arrossato, che conservava
la traccia della pressione del borsalino. Il vecchietto era piccolino. Lo potevo
osservare dall’alto in basso senza difficoltà.
Pensai di avere ancora del tempo prima che il mio treno partisse. Mi incamminai
verso il bar.
Al barista che mi chiese, anche lui piccolino, tutt’ossa, sovrastato dalla scatola
verdastra della cassa, risposi due tramezzini. Stavo per chiedergli anche una birra,
poi mi ricordai del divieto del medico di bere alcolici. Indicai una bottiglia d’acqua
nel banco frigo.
Mi sedetti a uno dei tavoli vuoti. Ce n’erano molti. Tutta la saletta era deserta ad
eccezione di un tavolo attorno al quale si era seduta una famiglia. Erano eleganti,
puliti. Ognuno di loro mangiava il proprio spicchio di pizza in silenzio, con le labbra
serrate, usando le posate diligentemente. Bevevano da bicchieri di plastica. Mi
riusciva appena di sentirli deglutire.
Tolsi l’involucro da uno dei tramezzini e iniziai a mordere e masticare anche io,
lentamente, senza bere.
In sala d’attesa, dopo avere preso il biglietto dal cassettone di metallo della
biglietteria automatica, ritrovai il vecchio. Aveva ancora il suo borsalino afferrato
per le tese. Il suo viso era arrossato, la punta del naso, enorme, sfrangiata, era
attraversata da un intrico di vene. Mi sedetti di fronte a lui. Mancava ormai poco
prima che il mio treno partisse e non sapevo cosa fare, non sapevo come occupare il
mio tempo.
Passai qualche minuto roteando la testa attorno alle pareti della sala, fino a quando
non intercettai di nuovo la famiglia.
Il ragazzino, che per quanto gli vedevo mangiare mi appariva troppo magro, aveva
in bocca una merendina. Lo vidi borbottare qualcosa al padre. Poi vidi il padre
passargli una bottiglia di acqua e vidi il ragazzino buttare nello stomaco la metà
della merendina, che gli era rimasta in bocca, svuotando la bottiglia.
Chiusi gli occhi poggiando la nuca sulla parete.
La voce polverosa del megafono, un giglio di plastica grigia incastrato in un
angolo della sala d’attesa, mi costrinse a riaprire gli occhi. Ripresi le mie cose e
m’incamminai verso il sottopassaggio. Il soffitto vibrava. Uno dei vagoni del mio
treno doveva essersi fermato sopra la mia testa. Accelerai il passo.
Sbucato in superficie, vidi la banchina invasa da molte persone. Nessuno di loro
aveva con sé bagagli. Forse erano pendolari ed erano apparsi improvvisamente da
chissà quale luogo, seguendo chissà quali abitudini.
Ero sul punto di salire su un vagone ma due controllori, scendendo, quasi mi
urtarono.
«Hai visto che schifo?»
«Ma scusa, sei sicuro?»
«Certo che sono sicuro, ho anche chiamato.»
«E ti hanno detto cosa? Che dopo una settimana…»
«Niente!»
«Mi sembra strano. Secondo me si sono sbagliati… Che so, sarà stato uno scherzo,
così.»
Uno dei due controllori scrollava la testa. Non si trattava di uno scherzo. Cercai di
continuare ad ascoltarli senza capire di cosa stessero parlando, poi mi voltai. Alle
mie spalle si era creata una fila silenziosa di altri passeggeri. Non mi ero accorto di
loro. Li passai in rassegna uno per uno, ma non vedevo nessuno sguardo contrariato.
Anche loro erano interessati alle parole dei due controllori.
Quando finirono di parlare, i due liberarono finalmente la scaletta del vagone. Salii
e scelsi una carrozza vuota. Poggiai le mie cose sul posto davanti al mio.
D’un tratto vidi il vecchietto della stazione entrare. Indossava il cappello. Era
comunque basso, rotondo, ma il cappotto grigio, ora che lo potevo osservare meglio,
gli restituiva un profilo più composto, quasi severo. Si sedette affianco alla mia
valigia, alla borsa, e iniziò a fissare qualcosa oltre la cornice del finestrino. Poi sfilò
un giornale che teneva piegato in una tasca del cappotto, lo aprì e iniziò a sfogliarlo.
Qualcosa iniziò a picchiettare sopra il tetto del vagone. Alzai la testa.
Improvvisamente sembrava che stessero cadendo monete, a secchiate. Scoppiò un
lampo lontano, aldilà della linea dei pini rinchiusa nel finestrino. Mi coprii l’occhio
sinistro con una mano. Grandinava. Pensai che questa grandinata inaspettata
avrebbe accelerato i preparativi dell’avvio.
Mi alzai, camminai per qualche passo lungo il corridoio. Alcune persone erano
ancora sulla banchina. Fumavano, si guardavano, cercavano chissà quali conferme
negli occhi. Qualche chicco di grandine raggiunse i piedi di una donna anziana. La
donna s’incamminò verso il sottopassaggio. Tornai a sedermi.
Passarono ancora altri minuti.
Sperai che almeno la direzione del treno mi avrebbe permesso di lasciarmi alle
spalle le nuvole scure, orlate di viola, che minacciavano oltre la cortina dei pini.
La motrice iniziò a trascinare con sé i vagoni, compreso quello dentro cui ero
seduto insieme al vecchio. Ma mi ero sbagliato, andavamo incontro alla grandinata.
In lontananza, il rombo di mille carri armati.
«Il mio collega, qui, è sicuro di questa cosa. A me sembra incredibile che dopo una
settimana… Capisco le difficoltà, qui ha ripreso a grandinare… Dovevano pure
darsi da fare per tempo a rimuovere non dico tutta la terra, ma almeno quel poco,
giusto per ripristinare…»
Il controllore più piccino, con la faccia lunga e gli zigomi tondi, allungò la mano
verso il vecchio, che gli rispose dandogli il biglietto. Fece poi lo stesso con me.
Riuscii appena a riprendere il biglietto con l’angolo forato che subito caddi nel
dormiveglia. La temperatura del vagone era alta. Avevo bevuto tutta la bottiglia
d’acqua in poche riprese, trasognato, senza accorgermene. Passai dalla veglia al
sonno molte volte prima di cedere, pensando che mi sarei svegliato comunque prima
dell’arrivo, per andare in bagno. Negli ultimi suoni raccolti dalle orecchie non
riuscivo più a distinguere tra gli schiocchi dei tuoni e i passi cupi della motrice.
Una fitta al piede sinistro mi svegliò. La borsa era caduta proprio sopra il collo del
piede. La raccolsi e me la strinsi al petto. Ricordai appena di averla sistemata in un
secondo momento, insieme alla valigia, sulla rastrelliera che spioveva sopra la mia
testa.
Le palpebre erano ancora pesanti, ma l’alternarsi tra il buio e la poca luce grigia mi
permetteva di intuire che il treno aveva imboccato la galleria che avevo adocchiato
in lontananza. Una galleria che mi pareva attraversasse una collinetta. Eravamo
quasi arrivati alla prima stazione. Con gli occhi ora meno serrati vidi che anche il
vecchietto aveva ceduto al sonno. Aveva le palpebre chiuse. L’intero viso era più
disteso eppure il corpo si era come irrigidito, come se le sue spalle non avessero lo
schienale a sorreggerle.
La motrice decelerò fino a frenare. Mi alzai e raggiunsi il corridoio. Fuori dal
finestrino vidi il controllore bassino che parlava ancora al telefono, la testa incassata
tra le spalle. Volevo chiedergli se dall’altro capo del telefono c’era la stessa persona
con cui aveva parlato prima dell’arrivo di questa tappa intermedia, o se stesse
parlando con un altro collega, con un capostazione.
Qualche persona in piedi, a fumare, intorno a un posacenere a stelo di fronte
all’ingresso del bar, ma per il resto la banchina era deserta, lucidata dalla pioggia
che si alternava alla grandine. Una donna, dopo avere spento la sigaretta per terra,
vicino alla base del posacenere, cercava di frantumare con il tacco della scarpa un
chicco di grandine. Il controllore fischiò, non vidi nessun nuovo passeggero, il treno
ripartì.
Rimasi in piedi non so quanto tempo davanti alla porta del bagno, la luce sopra lo
stipite era rossa.
Uno scarto tra i binari scosse i vagoni e la porta del bagnò si aprì da sé,
meravigliata. Allungai il busto per vedere se dentro ci fosse qualcuno. Il bagno era
vuoto. Entrai chiudendomi alle spalle la porta. Fissai la sicura.
Mi riordinai la cinta attorno alla vita guardandomi allo specchio. Avevo gli occhi
arrossati, la pelle bianca, diafana, vista come attraverso una lastra d’acqua. Pensai
che la notte avrei scontato tutto il dormiveglia cui avevo ceduto durante il viaggio.
Recuperai il cellulare dalla tasca, provai ad accenderlo. Il display si illuminò per
pochi secondi prima di spegnersi. La batteria doveva essere completamente scarica.
Ritornato nella cabina mi accorsi che il vecchietto non c’era, al suo posto c’era un
giornale. Lo presi e iniziai a sfogliarlo. Lessi alcuni titoli, qualche pezzo di cronaca
locale. Poi lo chiusi e iniziai a sventolarlo lentamente sulla fronte, sotto il mento, e
mi decisi ad aprire il finestrino. Entrava aria salmastra, umida. Aveva smesso di
grandinare, e di piovere.
Stavo per sedermi quando vidi il vecchietto rientrare. Non feci in tempo a scusarmi
che il treno frenò bruscamente. Il vecchio finì con una spalla sulla porta, io rimasi
aggrappato al finestrino con le mani.
«Mi devo scusare, non sono riuscito a passare in tempo anche da voi. Mi scuso,
ma la corsa sta finendo. In pratica finisce ora.»
Il vecchietto lo guardava senza parlare. Il controllore non riusciva a ricambiare lo
sguardo, era imbarazzato. Aprì le braccia.
«Non ci volevo credere nemmeno io, ma il fatto è che… Insomma, dopo lo
smottamento non hanno sgomberato i binari. Lo chiedevo al mio collega, prima, e
non mi sembrava possibile. Dopo una settimana, mi dicevo, si saranno dati da fare.
E invece pare che le operazioni saranno più complicate del previsto. Dipende dagli
alberi. Li hanno tolti lungo tutto il tratto intermedio tra queste ultime due stazioni…
Pare che il terreno avesse bisogno delle radici di quegli alberi per stare…»
Il controllore rispose a una chiamata.
«Sì… Sì. Guarda, ho appena avvisato gli ultimi due passeggeri. Se… Se vuoi
prova, fai un tentativo. Io aspetterei, ma se proprio ti sembra il caso, prova. Ma per
due, tre chilometri, altrimenti ci allontaniamo troppo dalla stazione. E cerca di non
superare i quaranta, nel caso. Ah, quindi hai avvisato! E cosa ti hanno detto… Ho
capito, allora ripartiamo. No, l’intercity non… sì, è già andato.»
Il vecchietto aveva capito la situazione e si era piazzato di fronte alla porta del
vagone, dando le spalle al corridoio. Il ritardo doveva averlo contrariato. Lo vedevo
stringersi il borsalino sullo stomaco.
Il controllore gli diede una rapida occhiata prima di rivolgersi a me.
«Ci chiamiamo per cellulare, noi e la motrice. Abbiamo un contratto aziendale, un
tot di minuti al mese, a bimestre. Ma ci siamo impigriti, ci chiamiamo per qualsiasi
cosa come i ragazzini.»
Poi si sedette sul posto del vecchietto.
«Non le dispiace se fumo mezza sigaretta? Non dovrei, lo so, ma tutta la carrozza
è vuota. Siamo io, lei, e quel signore arrabbiato… Sembra che non veda l’ora di
scendere. Se intanto lei mi fa la cortesia di aprire tutto il finestrino, il fumo dovrebbe
uscire per conto suo. Sì, così, grazie… E non si preoccupi, rimango davvero un
minuto, devo riprendere servizio.»
Dopo aver tirato la prima boccata ebbi l’impressione che il controllore avesse
iniziato a comportarsi come se io non fossi vicino a lui. Guardava il sedile davanti a
sé, passava in rassegna i posti vuoti, puntava gli occhi sulle gocce d’acqua che
scendevano lungo il finestrino. Le volute del fumo si srotolavano lente, prima di
essere rapite via dalla bocca del finestrino.
Distesi la schiena, massaggiai le tempie con le punte delle dita.
«Mi dispiace ancora per l’inconveniente. Se crede può chiedere il rimborso. Non
sono molti soldi, me ne rendo conto, ma è anche una questione di rispetto nei
confronti dei passeggeri, di voi clienti. Non so, magari aveva un appuntamento
importante.»
Il controllore parlava senza guardarmi.
«C’era una signora, giovane… No, non proprio una signora. Era una ragazza…
Qualche vagone più su, che viaggiava con il suo bambino. Piccolo, non più di
qualche mese. E non so quante volte mi ha fermato per chiedermi a che ora
esattamente saremmo arrivati, dopo questo disastro. Diceva che il bambino aveva
bisogno di essere cambiato, che lei non aveva con sé le cose necessarie perché
pensava che sarebbe arrivata a casa in tempo.»
Il treno intanto, con un piccolo sussulto, aveva ripreso la corsa. Il controllore
lasciò cadere la sigaretta dalle dita. La raccolse, mi chiese di spostarmi, e la buttò
dal finestrino.
«Ecco, siamo ripartiti. Vedrà che arriviamo, tempo dieci minuti e arriviamo.»
Mi salutò. Lo ricambiai con un sorriso.
Il testo è un estratto dell’ebook Il prigione, pubblicazione digitale di Errant
Editions. Il suo fine è promozionale, non è pertanto consentita alcuna duplicazione,
totale o parziale, previa autorizzazione dell’Editore.
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