Con gli occhi a tre metri da terra **************
I due procedevano lentamente, lasciando alle
cavalcature il compito di seguire il sentiero.
Viaggiavano da quasi due settimane,
spostandosi da un lago all' altro, da una
boscaglia all' altra, lungo un percorso che li
avrebbe condotti entro una decina di giorni a
Thunder Bay.
Avevano lasciato alla loro sinistra le
cittadine gemelle di Sault St.Mary che si
guardano dalle due sponde del Lake Superior,
una canadese, l'altra americana. Un mare di
tronchi, enormi isole galleggianti, li
accompagnava.
Tronchi che come un tappeto rotolante e ruvido
nascondevano molti acri della superficie del
lago. In quel modo, semplice ed economico, il
lavoro di lontani tagliaboschi era lentamente
avviato alle segherie, tenuto insieme lungo il
perimetro da grossi ferri a U conficcati nella
corteccia, guidati da piccole barche a motore.
Fu grazie alle "code" cioè ai tronchi che si
perdevano per strada, che alcuni anni fa un
gruppo di amici poté costruirsi sulla riva di
un lago una grande log cabin, un bungalow cioè
interamente in legno.
Fitte macchie di pini si alternavano a radi
gruppi di betulle. Sulla corteccia, rosse
ferite sanguinanti linfa rivelavano il recente
passaggio di qualche orso. Il terreno,
cedevole e spugnoso per lo strato di detriti
vegetali che il tempo aveva accumulato, era
disseminato di bassi cespugli che ospitavano
ogni genere di animali, dai conigli alle
grouses, dai fagiani agli scoiattoli.
I cavalli, evitando spontaneamente i folti
dove sempre nella stagione calda si annidano
nugoli di voracissime zanzare, preferivano
muoversi ai margini delle radure.
Il cavaliere che apriva la strada osservava
con attenzione il terreno circostante. Da
qualche minuto il suo cavallo, un quarter
horse di quasi un metro e settanta al garrese,
dava segni di nervosismo, scuotendo il collo e
agitando le orecchie e la criniera.
Frequenti orme sul terreno umido e i segni
sugli alberi gli facevano temere un incontro
ravvicinato con un grizzley. Pur conoscendo la
scarsa aggressività di quei mastodonti,
specialmente nel corso dell' estate, sfiorava
di continuo il calcio del Winchester bolt
action cal. 338 Winch. Magnum che riposava
nella fonda. Ottima carabina, pensava tra sé.
Compatta, affidabile e capace di spingere una
palla da 250 grani a oltre 2600 piedi al
secondo.
Non provava alcun desiderio di far strage di
plantigradi e la caccia come sport non lo
aveva mai interessato. Lo stesso valeva per il
suo compagno che procedeva venti metri dietro
di lui, ma entrambi preferivano evitare certi
incontri.
Ai lati del sentiero il terreno si era fatto
sgombro, coperto solo di sterpaglie e radi
cespugli. Procedettero ancora, superando
morbide morene simili a onde di terra
congelate dal tempo, ricordo di passate ere
glaciali.
Non avevano incontrato altro che cervi e un
solitario alce che al loro sopraggiungere non
si era neppure mosso dall' acquitrino nel
quale pascolava.
Non un uomo o tracce di uomini. Niente
tralicci dell' alta tensione o altri segni
della civiltà.
Dolcemente cullati dal lento passo del cavallo,
erano liberi di osservare il paesaggio che
sfilava sotto i loro occhi. Liberi di pensare.
I raggi del sole piovevano dall' alto e
giocavano tra i rami, sciabolando e dando all'
ambiente colorazioni di volta in volta
differenti, quasi da acquario; effetti
speciali di una discoteca dove suoni e luci
erano opera di un invisibile regista.
In altri momenti parevano sontuosi addobbi
d'oro o tendoni paludati tra un tronco e l'
altro.
Com'era bello vivere così, a contatto con l'
ambiente! Sentire il respiro della natura
invadere l'anima. Entrare davvero in sintonia
con gli alberi, gli animali, l' acqua.
Spostarsi sulla terra, a tre metri da terra
anzi, sentendosi parte integrante di ciò che
li circondava e che si spostava con loro,
felici e consapevoli di essere accettati,
forse addirittura benvoluti.
Da cosa o da chi, non sapevano esattamente.
Certo da ciò che regnava su quei luoghi senza
tempo. Di sicuro qualcosa c'era. Era lì, li
guardava e li vedeva passare.
Vivevano di ciò che ricevevano; erba per i
cavalli e pesce e bacche e funghi per loro.
Ricambiavano con il rispetto e cedevano al
terreno i loro escrementi, in un mutuo,
reciproco scambio.
Non inquinavano, non facevano danni, né
lasciavano traccia del loro passaggio.
Per questo evitavano i centri abitati. Gli
giravano attorno, timorosi di compromettere
quel meraviglioso equilibrio di energie
pacifiche.
Era tale il rispetto che provavano per quei
luoghi e la sensazione di essere ospiti,
graditi magari ma sempre ospiti, che ogni
volta che smontavano il campo per spostarsi
altrove, controllavano minuziosamente di aver
eliminato ogni pur minima traccia del loro
passaggio.
Come a dire: - Vedete... chiediamo ospitalità
ma passiamo in punta di piedi, consapevoli di
non essere a casa nostra ...-
Superato l' ennesimo rilievo, si trovarono
davanti il tronco morto di un enorme pich pine.
Forse venti metri di altezza e circa uno di
diametro. La caduta era stata frenata dalle
piante circostanti che, quasi a volerne
onorare la venerabile età, lo avevano sorretto
nell' agonia coi propri rami e ne avvolgevano
protettivi il grande corpo che ora riposava
inclinato .
Chissà da quanto si era arreso ai rampicanti e
all' incessante lavoro dei parassiti! Eppure
aveva ancora un' imponenza che incuteva
rispetto.
- Potremmo fare il campo qui - propose il
secondo - indicando con la mano guantata un
tratto sabbioso della riva, sgombro da detriti
e tronchi.
- Mmmm... il posto sembra buono, e non sento
zanzare, eppoi sono già le 4. -
Sostando ora avrebbero avuto tutto il tempo
per organizzare il pernottamento e rimediare
anche qualcosa con la lenza prima del calar
del sole.
In questi quindici giorni siamo diventati
proprio dei pescatori provetti - pensava - L'
inverno passato aveva pescato più volte
attraverso un buco nel ghiaccio e sapeva che
Gigi si era impratichito nei fiumi delle
Filippine, quando viveva laggiù. Tuttavia la
facilità con cui trote e salmerini si facevano
illamare ancora lo sconcertava. Dal momento
che l'esca toccava la superficie di solito non
passavano dieci minuti che questa si agitava
furiosamente mentre il galleggiante spariva
sott' acqua.
Nelle bisacce posteriori, le più ampie,
avevano equipaggiamento e cambusa.
Fagioli secchi, riso e latte in polvere,
farina e bacon oltre a zucchero e the e una
specie di pemmican indiano. In quelle
anteriori, invece, trovava posto l' avena per
Tom e Stancil, i loro cavalli, oltre
all'attrezzatura per la quotidiana pulizia del
mantello e degli zoccoli. Lì stava anche il
pronto soccorso e un sacchetto stagno con il
necessario per accendere il fuoco.
Dietro a ogni sella era legato il sacco a pelo
e la giacca a vento.
Gigi, oltre ad una carabina cal. 22,
trasportava anche la tendina a due posti.
In cintura portavano un solido coltello. Il
suo era un Cattaraugus, vecchio di oltre 50
anni ma ancora affidabile e tagliente come un
rasoio. Il suo compagno invece aveva ceduto
alle lusinghe di Randall e orgoglioso ne
esibiva ora uno splendido esemplare di quasi
venti centimetri.
Una massiccia ascia a manico lungo completava
la loro attrezzatura da taglio.
Facevano tappe brevi senza forzare l' andatura.
Viaggiavano per circa sei-sette ore al giorno,
con una breve sosta a metà. In questo modo le
bestie non si stancavano troppo e loro neppure.
Il posto che avevano scelto, una stretta
insenatura del lago, era molto gradevole. Al
centro vi sfociava un torrente costellato di
grandi massi bianchi. Poco più in là un grosso
viluppo di rami e tronchi, vestigia di una
passata piena primaverile, avrebbe fornito
legname in abbondanza.
La superficie verde-bottiglia pareva denso
sciroppo di menta e solo i cerchi dei pesci
che salivano a galla ne rompevano di tanto in
tanto la setosa continuità.
- Fermo, non muovere un pelo! - bisbigliai a
Gigi - guarda là in fondo, vicino al tronco
marcio, ma muovi solo gli occhi. -
Al limitar di un gruppo di striminzite betulle,
chissà perché, avevano sempre un' aria così
sparuta e triste, era comparso un cervo, e che
cervo! Alto e imponente, forse tre quintali di
peso, sfoggiava orgoglioso una folta
gualdrappa quasi nera e un fantastico palco di
corna. Le narici, lucide di muco, palpitavano
rapide per usmare ogni più lieve sentore. Il
bellissimo animale mosse qualche passo e si
avvicinò alla riva, gli occhi calmi e dolci
rivolti al terreno ma le orecchie ben tese in
avanti. In quattro passi avremmo potuto
toccarlo: evidentemente ci trovavamo
sopravvento rispetto a lui e non aveva
avvertito la nostra presenza. I cavalli
stavano qualche metro più indietro e
pascolavano tranquilli, nascosti da una fila
di piante. Non dovevano essersi accorti di
nulla.
- CHAC... e il cervo con un unico lunghissimo
balzo, quasi un volo, scomparve leggero nel
folto da cui era comparso. Gigi, alzati gli
occhi al cielo, stava già dandosi mentalmente
del coglione per aver dimenticato il pentolino
che dalla mano sgocciolava sulle foglie secche.
In pochi minuti aveva trovato un buon posto
per insidiare la sua preda. Un grosso sasso si
protendeva sull' acqua creando un' ampia zona
d' ombra. Forme scure guizzavano agili tra le
erbe del fondo, scomparendo a tratti fra sassi
muschiati.
Lasciò cadere lentamente l' esca, controllando
col polso il movimento del sottile filo di
nylon. I pesci parevano disdegnare ma non
ignorare il chicco di mais. Ci giravano
attorno, lo puntavano ma all' ultimo istante
sterzavano bruschi con nervosi colpi di coda e
si allontanavano in un ampio cerchio che li
avrebbe riportati al punto di partenza.
Cominciò a pensare che sarebbero dovuti
ricorrere alle riserve alimentari, quando dal
fondo comparve silenziosa una lunga ombra.
Molto più lunga delle altre. E più grossa.
Venne verso la superficie, deciso, senza
tentennamenti, sicuro come un re. Fu questione
di un attimo, poi uno strappo gli disse che
aveva abboccato.
- Gigi, Gigi, corri! Ho preso un mostro, una
cosa enorme! Non ce la faccio da solo!! -
Con la coda dell' occhio lo vide mollare ciò
che aveva in mano e correre agile verso di lui,
sbracciandosi e borbottando qualcosa che egli
non intese, impegnato ad assorbire i colpi di
frusta che l'enorme trota trasmetteva alle
spalle con violenza terribile. Ne vedeva gli
occhi impazziti e la bocca spalancata in un
muto grido di ira e dolore. Chissà quanto
pesava! Forse dieci chili, forse di più. La
scura groppa schiariva verso il ventre e
balenava di tutti i colori dell' iride.
Balzava dall' acqua la meravigliosa creatura,
sconvolgendola in milioni di lucide perle
liquide, crepitante spuma di selz naturale.
Piroettava e saltava con potenti colpi che le
facevano toccare la testa con la coda.
Gigi era al suo fianco, nell' acqua fino ai
polpacci. Neppure lui sapeva che fare.
Convinto che da un momento all' altro l'
avrebbero persa, tentò allora il tutto per
tutto. Con cautela ma con tutta la forza che
aveva alzò verso l' alto la canna già piegata
ad un angolo assurdo. Pareva impossibile che
il filo non si spezzasse sotto le tremende
sferzate. Non seppero mai come, ma un momento
dopo la trota schizzava frenetiche frustate di
sabbia e sassi dalla riva scoscesa.
- Uao! Con questa ci mangiamo anche stasera e
domani - esclamò felice Gigi, le mani sui
fianchi e un sorriso che gli andava da un
orecchio all' altro e gli illuminava gli occhi
di gioia infantile.
- Chissà quanto ha impiegato a diventare così
enorme! -
Già - pensavo tra me e me - chissà quanti anni
ci sono voluti per raggiungere simili
dimensioni; quanti pericoli avrà dovuto
evitare, gli orsi, le linci, i rapaci ... per
finire nella padella di due brocchi come noi!
Pensieroso si guardava attorno: l' acqua, le
grandi rocce e la sabbia e la selva
circostante. Era una sua impressione o gli
alberi più vicini parevano rivolti verso di
lui. Quell' abete laggiù, per esempio, aveva
due grossi rami che sembravano braccia piegate
sui fianchi in un muto atteggiamento di
dissenso.
Senza pensarci, forse nel timore di pentirmene,
velocemente sfilò l' amo dal labbro di quel
lucido corpo vibrante di vita e con le mani a
mò di badile lo gettò in aria e verso l' acqua.
Meglio così - mi dissi e ripetei ad alta voce
- sì, meglio così. Non sarebbe stato giusto.
Gigi era impietrito. Fissava il punto sulla
riva dove un momento prima il pesce saltava,
quasi a volerlo rimaterializzare lì. Guardò me
poi di nuovo la riva.
- Ma chi sei tu, D' Artagnan, Don Chisciotte,
Robin Hood o cosa !!!! - Rabbioso prese a dar
calci ai sassi e ad ogni cosa gli si parasse
davanti.
- Era così... così... così grossa e così forte
e... e così enorme e bella! Già.. così bella!
- Alzò lo sguardo. La rabbia se n'era andata e
un sorriso fanciullesco gli illuminava il
volto.
Fece una buffa smorfia, poi mi fisso ' in
silenzio, le labbra mosse da un mezzo sorriso.
-Ma sì... in fondo hai fatto bene. Non sarebbe
stato giusto... una creatura così
meravigliosa... Eppoi 'stasera ho una gran
voglia di riso!- Lasciando sui ciotoli una
doppia traccia umida si incamminò rapido verso
il campo e ancora scuoteva il capo.
Si girò indietro guardandomi fisso .
- Che figlio di buona donna! - lo sentì
borbottare - e sempre scuotendo il capo sparì
oltre le piante, verso i cavalli.
Il sole si era appena tuffato dietro l'
immensa distesa di piante, veloce come è
solito fare a quelle latitudini. Unica traccia
un alone bordeaux che sfumava nel giallo
contro i denti di sega delle cime frondute.
Ora solo il baluginare sempre mutevole delle
fiamme del bivacco illuminava il campo,
ricacciando il buio fino al limitare del bosco.
Il riso era pronto e avrebbe accompagnato il
tonno che Gigi aveva appena tolto dalla
scatoletta.
Intanto sul focolare si scaldava l' acqua per
una tisana - ... 'soir m'sieurs! -.
Silenziosa, inavvertita persino dai cavalli,
una figura coperta di daino si era
materializzata nel campo.
I due uomini rimasero di sasso. Sapevano che
nel raggio di trenta miglia non vi era traccia
di villaggi o paesi, così a quell' ora della
sera non si aspettavano certo delle visite.
Pareva piccolo e magro, ma il volto rimaneva
avvolto nell' ombra.
Il primo a scuotersi fu Alberto, una mano
appoggiata all' impugnatura del coltello. Gigi
giocherellava senza parere con un grosso
bastone.
- Benvenuto! Stavamo per cenare. Ti andrebbe
di sederti con noi? - replicai nella stessa
lingua.
- Grazie, posso offrire del tè in cambio - Si
esprimeva in un buon francese leggermente
sibilante, quello strano individuo comparso
dal nulla.
Niente bagaglio eccezion fatta per un
faggottello grande come un pallone da basket.
Il viso, profondamente segnato da un' intera
vita all' aria aperta, pareva un misto di
caratteri indiani ed europei. Su tutto
spiccavano gli occhi, azzurri come lucidi
frammenti di turchese. Impossibile dargli un'
età, tanto pareva parte integrante del bosco
circostante.
Masticava il cibo con molta cura, lentamente;
ogni tanto lo accompagnava con un sorso d'
acqua. Gli occhi fissi sul fuoco, pareva
assorto in pensieri lontani. I due uomini si
lanciavano occhiate senza saper che dire.
- Ah , la grande truite! - sbottò all'
improvviso - Buona cosa lasciarla libera,
buona cosa. Ca c'etait l' esprit du lac. ...
Anche buon segno che si è fatto catturare, ah
oui - aggiunse, con uno strano, mezzo sorriso
che durò un solo istante.
- Ma allora eri qui già da un pezzo! -
- Mmm no, non pezzo, no, non da molto ... ma
abbastanza - L' uomo senza tempo li fissava
con sguardo imperscrutabile - Meglio conoscere
uomini prima di entrare nel campo. Ah oui,
meglio conoscere. Bene, sì ora io faccio tea
poi dormo. Sì, dormo. -
Poi, rivolto a Gigi che lo stava fissando -
non serve preoccuparsi - quasi bisbigliò- tout
ça va bien, Pierre, lui sta bene ora, sta bene.
Lo sguardo era tornato sul mucchietto di brace.
Vidi Gigi sbiancare e far la mossa di parlare,
poi cambiò idea, ma mentre s' infilava nel
sacco a pelo era ancora colore di un lenzuolo.
A due passi dal fuoco, la testa appoggiata al
fagotto, il misterioso compagno di una sera
già ronfava sommesso, coperto solo della
giacchetta.
La mattina dopo dell'uomo non c' era piu
traccia. Sparito lui, sparito il fagotto,
spariti i mocassini che aveva lasciato accanto
al focolare.
No, non proprio tutto.
Ben in vista, su una pietra piatta un
bellissimo dente di puma appeso a un laccio di
cuoio.
Per l'ospitalità o per la grande trota?
Gigi fissava muto il punto in cui l' erba
schiacciata recava ancora le tracce di un
corpo. Forse per convincersi che non era stato
tutto un sogno.
- Perché poi ti ha chiamato Pierre? Che fosse
un po' suonato, il nostro uomo? E che
significava quel discorso che non ti devi
preoccupare perché *lui* sta bene, Lui chi poi?
-
Alzò gli occhi, Gigi, e ci vidi qualcosa che
di solito non c'era.
- Mi chiamava Pierre, cioè Pietro soltanto lui.
Mio padre, intendo. È il mio secondo nome,
quello di mio nonno. Quando sono partito da La
Spezia, non stava bene. Volevo aspettare
qualche giorno, ma lui insistette. Aveva una
cera che mi preoccupava. Eppoi, sai, dopo il
tumore di tanti anni fa...
Oramai nessuno, a parte lui, conosce questo
nome... –
Vittoria e il ragioniere **************
Come tutte le mattine l'uomo uscì dall'anonimo
palazzo IACP alle sette e trenta in punto. Il
bus sarebbe passato di lì a un quarto d'ora.
Giusto il tempo per un cappuccio, un cornetto
ed una scorsa al Carlino.
Il rito si svolgeva sempre allo stesso bar da
anni, fin da prima che il vecchio gestore
morisse di un colpo apoplettico dietro la
macchina del caffè.
Gli era subentrata una donna, un tipo
indipendente che faceva tutto da sola, senza
mai abbandonare il sorriso, dalle sei del
mattino alle nove di sera. Prima la chiusura
era a mezzanotte, ma Vittoria aveva una figlia
da accudire, così...
Il marito? Vittima del fumo!
No, niente carcinoma del polmone. Solamente un
grosso stronzo, nel senso che era uscito per
comperare le sigarette... e non era più
rientrato. Così aveva cambiato orario,
gettando nella più nera disperazione i
vecchietti che soggiornavano in permanenza ai
tavolini in formica verdina.
Equiseto Bianchi (ma dava ad intendere di
chiamarsi Sandro, come il Grande Mazzola)
ragioniere del Pier Crescenzi, era uomo
abitudinario e non molto ciarliero; tuttavia
aveva gradito parecchio il cambiamento, anche
perché (ma non solo!) con i vecchietti se
n'era andato un persistente afrore di sigaro
toscano presente nell'angusto locale fin dalle
origini. Sparita la nuvola azzurrina appena
sotto il soffitto, sparite cicche e scaracci
agli angoli della stanza, ora i vecchi arredi,
a cominciare dal grande specchio molato del
Caffè Sandrolini, brillavano di una dignità
nuova e l'ambiente odorava di pulito e di
bomboloni freschi.
Quella mattina il bar era deserto e Bianchi in
cuor suo se ne compiacque: per un po' si
sarebbe gustato in esclusiva lo spettacolo
preferito e cioè le più belle mammelle della
Bolognina, alte e di attaccatura larga, cosa
rarissima a trovarsi: quelle della
proprietaria del bar. Per guardarsele in santa
pace sfruttava lo specchio, fingendo di
meditare sulle boiate della cronaca locale.
Questo, più della colazione, restituiva al
magro ragioniere la serenità d'animo
necessaria per affrontare un altro giorno di
lavoro, dietro alla vecchia scrivania di
un'impresa di pompe funebri. Oltre il vetro
divisorio, un continuo viavai di facce lunghe
e vedove in gramaglie che per fortuna non era
compito suo accogliere. Serio e composto,
pilastro dell'Ufficio Contabilità, indossava
solo completi grigi. Ne aveva tre, di
differente pesantezza, ma tutti rigorosamente
grigi.
Fin dal giorno dell'assunzione, venticinque
anni prima, aveva ritenuto giusto conformarsi
all'atmosfera austera e non proprio esilarante
dell'ambiente con un colore che non stridesse
con lo stato d'animo dei visitatori.
Ma se l'aspetto esteriore appariva così opaco
e conformista , dentro Bianchi era ben altra
cosa.
Capacità d'osservazione, senso dell'umorismo e
una discreta cultura costruita con anni di
buone letture avevano scavato profondamente
nel suo animo ma non erano riuscite a
scalfirne l'innata riservatezza. Del resto non
glielo diceva sempre anche suo padre? :"Guarda,
osserva tutto ma parla poco: la persona
silenziosa sembra sempre più intelligente di
quanto non sia in realtà.
Ricordatelo!"
Così, anche se non si considerava un cretino,
aveva preso l'abitudine di parlare poco e di
guardare molto ma senza parere, ...
specialmente l'ondeggiare indolente di un seno
pieno o la gonna tesa dal rapido un-due, un-
due della commessa del primo piano.
Eeeh sì, perché ad Equiseto, che doveva quel
bizzarro nome al padre botanico dilettante,
gli ormoni non difettavano davvero. La curva
di un fianco, la lenta sfilata di glutei e
cosce sotto al Pavaglione all'ora
dell'aperitivo, avevano il potere di scatenare
in lui tempeste di libidine, furori erotici
cui non sapeva né voleva sottrarsi. C'erano
giorni in cui perfino i tratti morbidi di
certe automobili, la pienezza di un parafango
retrò, gli richiamavano alla mente immagini
muliebri: all'istante un ben noto calore si
diffondeva all'inguine riattivando il turbine.
Il problema più grosso era stato dissimulare
certi improvvisi fenomeni diciamo cosi
"meccanici" che sarebbero risultati,
specialmente sul posto di lavoro, alquanto
imbarazzanti.
Madre Natura lo ha dotato di un gran naso, di
dita lunghissime e di piedini numero 48.
Indizi questi, e chi se ne intende lo sa bene,
che presumibilmente anche qualcos'altro è di
dimensioni altrettanto imponenti. E difatti
così era: una quantità di centimetri e una
borsa che sarebbe bastata anche per la spesa
settimanale all'Euromercato. Roba da far
vergognare perfino Rocco Siffredi, re dei
porno-attori!
Giorni e giorni di training estenuante, simile
a quello che consente a sacerdoti tibetani
seminudi di ignorare il freddo, fecero il
miracolo.
Ciò che neppure uno slip rinforzato avrebbe
mai potuto frenare, poté la forza della mente!
Finalmente era riuscito a relegare in ambito
esclusivamente cerebrale il suo arrapamento,
fosse anche il più furioso e coinvolgente.
Ora poteva lasciare correre la fantasia a
briglia sciolta, libero di soffermarsi su
culetti a mandolino, libero di osservare
impassibile una studentessa sedicenne
abbigliata come una battona dei viali. Si
divertiva anzi ad assumere una espressione
serafica e distante mentre dentro un vulcano
segreto eruttava fuoco e lapilli.
Un paio d'anni prima aveva avuto una storia
con una bibliotecaria impiegata presso un
Centro Civico.
Era durata poco, anzi pochissimo.
Lei non riusciva a soddisfare le voglie di lui,
che anzi giudicava un po' animalesche. In
compenso portava a casa ogni nuova edizione e
pretendeva di passare le serate a dissertare
di questo o quell'autore, del Premio Strega e
di cose così.
Da allora non ha più voluto stringere nuove
impegnative amicizie femminili. Si è chiuso
ancor di più in se stesso e l'unico a salire
in casa sua sono io.
Per quelle cose lì, si arrangia.
Quando non ne può più di guardare culi e tette,
il sabato pomeriggio salta sul treno (non ha
mai preso la patente) e va a Modena a trovare
una Signora che ha molte nipotine... se capite
cosa intendo. Scusate la verbosità ma, quale
vecchio amico del Ragioniere, ritengo sia mio
compito spiegarvi la natura del personaggio.
Come dicevo, il locale era deserto, cosa
strana data l'ora.
- Il solito, Ragionier Bianchi? Sii? Glielo
faccio subito, altrimenti stamattina rischia
proprio di perdere il bus!
Ha visto che meraviglia di bomboloni che mi
hanno portato? Una blazza! -
- Sè... propri una blazza, una vera bellezza,
mo megga i crafen alla crema...
guerda lè, guerda quanta salute! - Mi pare di
sentirli i suoi pensieri, mentre cerca di
concentrarsi sul cappuccino, e gli occhi vanno
allo splendore del décolleté. Non c'è malizia
in quell'esibizione di benessere che la
Vittoria ci sta offrendo, ci tengo a dirlo:
non vorrei che pensaste chissà che cosa di una
donna seria che sgobba tutto il giorno.
Semplicemente non ci fa caso, meglio ancora
non se ne cura. Solare e spontanea come una
bimba dell'asilo, regala agli avventori lo
sguardo allegro di una donna in pace col mondo,
ma senza concedere confidenza a nessuno, forse
in attesa di quello giusto. Tuttavia con certe
caratteristiche fisiche e il suo stato di
"vedova" era inevitabile che qualche
"galletto" si sentisse autorizzato a prendersi
delle libertà.
Beh, vi assicuro che è stato messo subito al
suo posto. Un tale, certo Richetto, di sicuro
ancora ricorda il peso del bricco inox che
ricevette sul naso, quando pensò bene di
allungare ripetutamente le mani verso il
grembiale! Solitamente però bastava che
l'allegro tono di voce della Vittoria si
facesse pacato per far rientrare nei ranghi
anche i più determinati.
Era tardi e noi stavamo ancora lì a sorbire
l'ultima schiuma del cappuccino.
Cominciavo a pensare che quella mattina ce la
saremmo fatta tutta a piedi.
D'altra parte lì dentro si stava bene.
Odor di pulito e di brioches, e la ventola che
girava lenta a soffitto. Questo e il tendone
verde dell'ingresso bastavano a rendere
l'ambiente fresco ed invitante, in quel
mattino di giugno che il sole iniziava ad
arrostire.
L'autobus era passato da un pezzo ma l'odore
di pneumatici roventi ancora ristagnava,
quando avvertii la porta aprirsi e mi girai.
Più che altro fu il cambiamento di luminosità
e uno sbuffo di gas a farmene accorgere, dato
che voltavo le spalle all'ingresso e di rumore
quasi non ve ne fu.
In controluce sembrava un ragazzino, forse un
operaio in ritardo o uno studente in vena di
fughino.
"Tttira su lllle mani, ccccogglione, fffammele
vedere bbbene e pppure tu - sibila balbettando,
rivolto a Bianchi e al sottoscritto - ... e
tttu pppochi scherzi, ssstrrronza, edd-ammi la
cassa, o ti bbbuco! DAI!" e alzò un lungo
coltello da cucina che chissà dove lo aveva
tenuto infilato fino a quel momento.
Non era un operaio, non uno studente, non più
per lo meno. Solo uno sfigato.
Venti, forse venticinque anni, smunto e grigio
in faccia, di un pallore che era denutrizione
e alcool ma anche disperazione e paura. un
grappoletto di orecchini e un largo tatuaggio
che pareva un tappeto persiano sullo
striminzito bicipite.
Gli occhi, in parte nascosti da un
cappelluccio a cencio che gli scendeva sulla
fronte, erano profondamente infossati nelle
occhiaie, rossi spiritati e stanchi.
La mano che tendeva il coltello aveva un
tremito continuo e usciva magra da un polsino
sporco, più simile ad un ramo secco, tanto la
pelle era tesa sull'osso.
Sotto, Jeans sbiancati e rotti e
l'incongruenza di due piccoli piedi infilati
in mocassini di ottima fattura che non avevano
nemmeno avuto il tempo di impolverarsi.
Tutto questo notai, in quei pochi attimi e
pensai che noi tre dovevamo sembrare statue di
cera del Museo di Madame Tussaud.
Farfugliò qualcosa ansimando.
"DDAI, CHE ASPETTI, VVVVUOI PPPROOOPRIO CHE TI
BBBBUCO!!??" e continuava ad agitare il
coltellone davanti alla faccia, anzi alle
tette della Vittoria, mentre lanciava continue
occhiate inquiete verso l'ingresso del bar.
Non sapevo che pesci pigliare.
Pensavo... ma porca puttana, ma è mai
possibile che qua fuori nessuno si accorga di
niente! Guardali lì, passano e non vedono un...
Neanche l'acqua nel Reno troverebbero quelli
lì... c'è anche un carabiniere... se venisse a
prendere il caffè... mocchè, ggninta... e noi
qui con 'sto malnatt!
Continuavo a stare lì a prendere sempre gli
stessi pesci, quando sentii la voce della
Vittoria, chiara e tranquilla come al solito
anzi più del solito: "Dai cinno, sta' mo'
calmo e metti giù quel coso... che cassa vuoi
che ti dia... non lo vedi che non son neanche
le otto? Avrò fatto sì e no una trentina fra
caffè e cappuccini, più qualche bombolone...
ci saranno appena cinquanta mila lire nel
cassetto, guarda, se non ci credi!" e fece per
aprirlo.
Sarà stata la mossa improvvisa o un tremito
più forte degli altri, fatto sta che sul bel
davanzale della Vittoria sprizzò
all'improvviso il sangue che arrivò a
macchiare il secchiaio e le tazzine bianche
ancora da sciacquare.
Poi un gemito, quasi un gorgoglio che mi fece
sussultare. "Dio Santo, le ha tagliato la gola!
L'ha sgozzata!" pensai, ma quei suoni non li
aveva prodotti la Vittoria.
Provenivano dal tavolino dietro di me, dove
fino ad un attimo prima stava seduto Equiseto.
Piano piano si era alzato e ora impugnava
stretto qualcosa... forse il massiccio vaso in
ottone che stava sulla mensola lì dietro... sì,
proprio quello.
Avrei voluto dirgli di non fare cavolate, che
quello lì era fatto come un copertone e
avrebbe tagliato la gola anche a noi, ma non
feci in tempo.
Senza neppure guardarmi, gli occhi fissi sul
sangue mi strattonò da una parte superando in
un lampo la distanza che lo separava dal
bancone. Il pesante vaso sbattè violentemente
sotto il mento del cinno con il rumore di un
melone maturo che si frantuma a terra. Non
riuscì però ad evitare la lama che gli penetrò
nel braccio, mentre il balordo gli finiva
addosso. Rovinarono assieme sul pavimento.
Insomma, un vero casino, uno scannatoio che la
Beca di Castenaso è roba da ridere! Sangue
dappertutto, vetri rotti... mentre sentivo una
voce concitata che si avvicinava dalla strada.
"Ecco, agente, è entrato lì il ladro ... in
quel bar... è in trappola!! " La porta si
spalancò e comparve un tipo in doppio petto
blu... e senza scarpe! Lo seguiva un agente di
polizia in divisa con la pistola in una mano e
un walkie-talkie spernacchiante nell'altra,
grassoccio e anche lui trafelato.
Vedendo la scena si bloccarono sull'uscio.
"Minchia, morti sonoo, Madonna mia quanto
sangue! - ebbe il tempo appena di sussurrare
il poliziotto prima di rovesciare gli occhi e
scivolare con gli altri sulle marmette già
piuttosto affollate. Il gagà in calzini indicò
il tossico svenuto.
"Ecco le mie scarpe! Vede? Lo sapevo che era
qui! ... e dovrebbe esserci anche il mio
Vacheron Constantin... sa, è di platino!" Fu
allora che cominciai a ridere. Una ridarola
che ancora continuava all'arrivo degli
infermieri chiamati da non so chi. Per un
attimo credetti che mi avrebbero trascinato
via in camicia di forza. No, niente gole
tagliate, anche se il taglio al petto della
Vittoria era abbastanza profondo.
Pure il braccio di Equiseto sembrava peggio di
quanto non fosse, ma come lei aveva perduto
molto sangue.
Il bernoccolo sul cranio invece dovreste
vederlo, uno splendore ... appena più grande
di quello che esibiva il poliziotto.
Al "cinno", un sieropositivo con fedina come
la barba di Noè, riscontrarono una frattura
scomposta della mandibola e dell'osso maston...
mastal... non ricordo più come si dice,
insomma quello sopra la mandibola, poi quattro
denti davanti sbriciolati, un labbro spaccato
e per buona misura anche la punta della lingua,
tranciata dai denti all'arrivo del vaso.
La Vittoria si riprese in fretta dalla paura e
dai quindici punti di sutura.
Prima ancora che la dimettessero già pensava
alla pulizia che avrebbe dovuto fare nel
bar ... dopo aver accudito al SUO eroe! Sì,
perché il mio amico Equiseto se le sta
prendendo tutte le coccole della Vittoria, e
anche quelle della figlia della Vittoria (che
non pare affatto gelosa, anzi) dopo aver fatto
la ruota con i giornalisti che a cucci e
spintoni cercavano di intervistare lui e
fotografare lei dalla vita in su. Poi quando
le è sembrato sufficiente, con cortese
fermezza li ha scaraventati fuori dalla porta.
Mentre butto giù questi appunti che mi ha
chiesto un giornalista della Repubblica ( non
ho mica nessuno, io, che mi coccoli ... ) loro
due, gli inseparabili, sono sul divano del
salotto e li vedo riflessi nello specchio.
Lei sta dicendo che il viaggio di nozze lo
faranno alle Maldive, lui obbietta che sarebbe
meglio usare il denaro per sistemare la casa
ma intanto il suo sguardo non abbandona
Vittoria e il suo décolleté Le mormora
qualcosa sotto voce. Lei arrossisce e gli dà
uno schiaffetto, ma leggero... poi spariscono
di là perché, mi dicono, c'è della contabilità
del bar da controllare.
Beh, ora vi saluto.
Ah, dimenticavo, Vittoria dice che mi deve
presentare un'amica...
Virginia Jo Mary *******************
Camminavo di buon passo per via Indipendenza.
Ci sarebbe un "dell' " prima, ma nessun
bolognese che si rispetti lo adopera. Si
cominciò chissà quando per brevità; ora lo si
fa per abitudine. Negozi e banche, banche e
negozi, quasi tutti d'abbigliamento. Tanta
gente attorno a me. Frotte chiassose di
ragazzini coll'Invicta sulle spalle e grappoli
di cerchietti all'orecchio, funzionari
frettolosi in giacca e cravatta, massaie dai
piedi stanchi e dalle borse piene di spesa.
Contro una colonna un marocch... scusate un
extra-comunitario espone su di un cartone la
sua bottega e un altro, nerissimo, offre
accendini multicolori e un sorriso a cento
watt.
A me piace camminare svelto. Fast walking lo
chiamano gli americani.
Sentire i muscoli lavorare sotto la pelle, e
caldi gonfiarsi e tendersi e rilasciarsi.
Per la verità preferisco farlo per sentieri di
montagna, nel silenzio di un bosco, dove
l'aria non sia pregna di gas e dell'acre odore
di pneumatici tostati, ma quel giorno ero lì.
Sotto il portico le vetrine illuminate dei
negozi scorrevano al mio fianco. Vivide luci
passavano in rapida sequenza come un treno
nella notte ma io non ci badavo, perso com'ero
sull'onda di pensieri lontani.
Stava ferma davanti ad una elegante vetrina.
Alta, forse un metro e settantacinque, i
lunghi capelli, fitti e pesanti, le
disegnavano una nera criniera sul tailleur più
chiaro. Osservava gli abiti e mi mostrava il
profilo.
Naso dritto dalla linea decisa, lunghe ciglia
stranamente immobili, ricche labbra
leggermente socchiuse.
Al mio sopraggiungere si girò in qua e riprese
il passo. A pochi metri alzò lo sguardo e i
nostri occhi s'incrociarono.
Fu questione di un attimo, pochi secondi, ma
in quell'istante milioni, miliardi di neutroni
accelerarono o cambiarono percorso o...
qualcosa del genere.
Tu dirai beh che c'è di strano, gli uomini
sono cacciatori; quella era una bella ragazza
e quindi... NO! Nulla del genere o meglio io
sentii e anche lei sentì che il nostro
incontro casuale era in realtà un
reincontro ..Non è facile spiegare emozioni
così sottili e profonde e fuggevoli
e ...strane.
Ci fermammo ambedue, imbarazzati, muti perché
nessuno dei due sapeva cosa dire. Nessuno dei
due capiva il significato delle proprie
reazioni.
Fu lei a parlare per prima, dicendo che le
pareva che ci fossimo già conosciuti. Era
indecisa, sconcertata anche e un tenue sorriso
esitava a formarsi sul rosso naturale delle
labbra. Bella voce. Ben modulata e ricca di
vibrazioni. Un po' roca, perciò ancor più
suggestiva. Sensuale, quasi. Non bolognese,
pensai. Neppure italiana, anzi.
Mai sentito un accento così. Probabilmente una
straniera che vive in Italia.
Elementare, Uotson, elementare! - mi urlavo,
imbestialito - Ma quanto sei perspicace, caro
il mio Uotson! Tacevo, continuavo a tacere,
immerso in uno stato d'animo strano che si era
impadronito di me all'improvviso.
Cavolo, eppure qualcosa dovevo pur dire, no?
Risponderle, almeno.
"Ma... non so ...forse... effettivamente anche
a me pare di conoscerla. Ha un'idea dove
potremmo esserci visti? Mi scusi, ma proprio
non ricordo" Mentre pronunciavo quella frase,
dentro di me continuavo a maltrattarmi ad alta
voce per le abissali banalità che esprimevo.
Non sapevo (o non volevo) scuotermi da quel
torpore.
Invece come Dio volle in qualche modo ci
riuscii, riprendendo contatto con la realtà.
Solo allora m'accorsi che le stavo ancora
stringendo la mano e la mollai come fosse
rovente.
La mia espressione dovette essere a dir poco
buffa.
"Beh, che ne direbbe se provassimo a fare
entrambi uno sforzo di memoria mentre beviamo
qualcosa di caldo? Qua fa un freddo!"
Già, perché se dipendeva da me, potevamo
restare lì a congelarci per l'eternità!
Si chiamava Virginia Jo Mary, di madre
italiana e padre americano. Virginia perché
era stata concepita in quello Stato durante un
viaggio. Jo Mary, non so.
Lei abitava a Roma da due anni e veniva spesso
nel nord per motivi legati al suo lavoro di
funzionario in carriera dell'American Express.
Mai stata a Bologna.
Io anni che non andavo a Roma.
La cosa si faceva sempre più strana.
Intanto a forza di indovinelli tipo lei ha mai
frequentato quel club? ..è mai stata in
quell'albergo? ...ha fatto vela? ...gioca a
tennis? ...e cose simili, tra noi si era
creata una confidenza incredibile per due
sconosciuti.
I nostri occhi non si lasciavano e lo strepito
di voci che ci aveva accolto nel bar, era
ridotto ad un indistinto brusio sullo sfondo.
Vedevo e sentivo solo lei e il suo volto
riempiva i miei orizzonti. Nei grandi occhi
bruni galleggiavano pagliuzze d'oro che
avevano su di me un effetto ipnotico. Parlava
e raccontava cose che a me pareva di conoscere
già da prima che le dicesse.
Occhi negli occhi.
Poi la domanda. Quella che mi ronzava in testa
fin dal primo istante.
Venne improvvisa, quasi brutale, e le troncò
la voce in bocca.
"Posso toccarti i capelli?"
Ma era la mia voce, quella?
Non rispose. Annuì, lentamente. Due volte.
Guardavo la mia mano muoversi al rallenty. Ore
per arrivare al suo viso. Giorni per toccare
quella massa scura, densa come una cosa sola.
Anni per affondarvi al polso. Attimi per
assorbir la scarica che attraverso il braccio
salì alla testa, sprofondò al ventre e mi
avvampò dentro.
Qualcosa di simile ad un orgasmo ma più
violento, molto violento. Totale.
Virginia inclinò la testa verso la mia mano,
come un gattino che cerca la carezza. Alzò una
mano ad incontrar la mia in quel mare nero di
seta.
Restammo insieme quella sera, in quale tempo e
in quale luogo non so. Telefonò a qualcuno per
avvisare che si tratteneva a Bologna per un
giorno.
Il tono era dolce e rassicurante. Intuii
preoccupazione, dall' altra parte.
Non furono fatte domande, così non servirono
bugie.
La notte fu un momento e il giorno dopo anche.
Partì con l'aereo della sera dopo avermi detto
tutto. Del marito e della figlia. Una bella
famiglia piena d'amore e di fiducia reciproca.
Aveva gli occhi pieni di lacrime, come un
bambi ferito. Lacrime che non scendevano a
rigar le guance ma restavano incollate lassù e
come lenti ottiche ingrandivano l'oro che mi
aveva stregato.
Per tante altre notti la sognai e giorni e
ancora notti eppoi giorni e giorni e notti e
giorni.
Non conoscevo il cognome e neppure l'
indirizzo, ma avrei potuto facilmente chiedere
alla sua Compagnia, a Roma.
Quante Virgina Jo Mary potevano mai esserci
all' American Express?
Avrei potuto sapere tutto.
Non l'ho mai fatto.
Spesso mi sono odiato per non averlo mai fatto.
Forse mi sarei odiato di più se lo avessi
fatto.
Forse.
Viaggio in Istria *****************
E anche questa vacanza è finita! Metto il naso
fuori dalla finestra e mi accorgo che siamo
rientrati proprio un attimo prima che l'estate
ci sbatta l' uscio in faccia. Vento freddo,
l'ora legale che ritorna e porta con sé il
buio dell' inverno, e un' insistente pioggia
che fa riscoprire a malincuore l' utilità di
ombrelli e impermeabili...
Però è stato piacevole, questo tour
dell'Istria.
Trieste, un misto di mediterraneo e mittel-
europeo, vedi piazza dell'Unità, che sembra
rubata a Vienna. I caffè, grandi e sontuosi,
dove la buona borghesia amava e ama indugiare
il pomeriggio per il tè coi pasticcini, decine
di differenti idiomi che s'intrecciano sui
marciapiedi e sulle interminabili banchine del
porto, facce d'ogni tipo e colore e così pure
le facciate delle case, un variopinto
poutpourri di stili, dalle leziose bifore
veneziane alla rigorosa geometria austro-
ungarica al verticalismo semplice ed
aggraziato del colorito stile mediterraneo.
Porec, vero gioiellino, melange suggestivo di
vecchie case sbilenche che si sostengono a
vicenda e nobili palazzine dai frontali
orgogliosi di storia e stemmi patrizi e chiese
bizantine e, ovunque, il fiero cipiglio del
leone di San Marco.
Rovigno, un po' ligure, un po' veneziana a
seconda di come si cambia prospettiva.
Fortificato e alto da una parte, dolce ed
accogliente dall'altra.
Scendendo verso sud sulla statale che rasenta
il mare, vorremmo visitare anche l'isola
Brioni ma quando a Fazana, un modesto paese di
fronte all'isola, ci rivolgiamo all'agenzia
dell'azienda di soggiorno, ci dicono che
alberghi aperti non ce ne sono. Soltanto case
private e non sa se ci accetterebbero(?) Sola
alternativa, alloggiare nell'unico hotel
aperto di Brioni. Chiama, l'impiegata, e
sussurra nel telefono che si tratta di 3
italiani... Dopo un attimo ci dice che
purtroppo non c'è posto.
"Sa com'è, i Gruppi... le Conventions".
Ma quali gruppi e quali conventions se tutto
appare deserto peggio di Torre Pedrera a
febbraio!
Però possiamo fare comunque una visita
all'isola, aggiunge la cordiale impiegata
(pare aver ingoiato un manico di scopa).
"Ora?", domando io.
"NO! - replica lei col tono amabile della
maestra che riprende l'alunno - L'unica visita
guidata di oggi è appena partita, ma potete
tornare domani e per l'equivalente di 140.000
lire in tre potrete godere del privilegio di
visitare l'isola dove il Presidente Tito
trascorse per molti anni le vacanze estive!"
Considerata l'affettuosa e calda accoglienza e,
sentendoci tanto amati, decidiamo che Brioni
potrà fare a meno di noi e proseguiamo. Un
paio d'ore di viaggio senza storia. La statale
sempre dritta, poco trafficata (siamo in
settembre) e interrotta solo da incroci spesso
privi di qualunque indicazione.
All'ennesimo incrocio, un'unica freccia,
piccolina: Rovigno.
Poche case e un grande piazzale prospicente il
golfo. A ridosso della banchina un traghetto
con l'indicazione Venezia. È il battello che
viene dall'Italia. Ci dicono che in estate fa
due corse al giorno.
E non è l'unico. Andiamo avanti, verso il
centro storico. Man mano che le strade si
fanno più strette, le case appaiono più
vecchie.
Superiamo i pioppi di un piccolo giardino
pubblico popolato da frotte di grossi gabbiani
e da una coppia di anziani. Stranamente
tengono tutti, volatili e vecchietti il
medesimo passo, la stessa andatura piatta.
Ci troviamo di fronte un'altra baia. Scopriamo
così che Rovigno è costruita su una punta, a
cavallo di due insenature, una ampia e aperta,
l'altra raccolta e protetta. Appena fuori,
tutta una cintura di isole, più o meno grandi,
danno all'acqua una immobilità quasi lacustre.
Giriamo un angolo e sbuchiamo sulla via
principale della parte vecchia, lastricata in
pietra grigia.
Su entrambi i lati, numerosi vicoli solcano la
schiera di casette vecchie di cinque secoli;
pare quasi che si reggano l'un l'altra per
meglio sopportare l'aggressione del tempo.
Poi la strada si allarga gradualmente in una
grande V fino a formare una spianata che
domina la baia minore. Sulla sinistra una fila
ininterrotta di caffè e ristoranti, tutti con
tavolini all'esterno, incornicia la banchina.
Alla nostra destra la gradevole facciata
dell'hotel Adriatico.
Dopo un breve conciliabolo, decidiamo di
entrare e in pochi minuti prendiamo possesso
di due ampie camere arredate con mobili
ottocento. C'è tanta luce e le porte-finestra
danno sulla baia, gremita di un naviglio
coloratissimo. Proprio, come avevo chiesto.
Lance a remi e a motore, gommoni e motoscafi,
piccoli pescherecci e agili sloops,
catamatrani più larghi che lunghi e qualche
grosso cruisers. Più l'incongruenza di un
*coso* che sembra un galeone dei pirati in
miniatura autocostruito nel garage di casa. A
quanto ci sembra è di una buffa coppia di
tedeschi che ci vive tutto l'anno. Sapremo poi
da qualcuno che sbarcano il lunario portando a
spasso gruppetti di turisti da un isolotto
all'altro. Appena oltre si distinguono le
strutture di alcuni piccoli cantieri di
rimessaggio e assistenza. Proprio di fronte a
me, quello che potrebbe essere l'antico
municipio: un contegnoso palazzetto con tanto
di torretta, orologio e meridiana.
Alle nostre spalle sta per tramontare il sole.
Si accendono le luci e il borgo prende vita.
Ora c'è più gente nelle strade. Si formano
animati crocchi di persone che chiacchierano
mentre i bambini guardano felici le barche o
corrono dietro ai gabbiani che zampettano
tranquilli come piccioni, obbligandoli a
improvvisi decolli. Una ragazzina con la
frangia e la minigonna rossa fissa sgomenta la
macchia giallo-marrone del proprio cono -
gelato scivolato sul selciato.
Contro lo sfondo più scuro di un lungo
isolotto, saetta veloce una diecina di vele
impegnate in regata, impertinenti virgole
bianche di un quadro in movimento. Ceniamo,
maluccio e a caro prezzo, davanti al mare. Mi
irrita la malagrazia dei camerieri, il sapido
gusto di piatti banali, il sorriso che compare
solo all'apparire della mia Visa Card.
Mi scuoto e decido di godermi il panorama
impagabile e dolce che ho di fronte, simile a
un quadro di Cascella che ho in studio e che
raffigura Portofino.
La mattina successiva apriamo gli scuri ad un
gagliardo sole settembrino e poco dopo
superiamo indenni un break-fast a base di
caffelatte modello colonia, pane insipido e
brioche sotto celofan servite da due cameriere
appena scappate dal set della famiglia Addams.
Montiamo sul fuoristrada, decisi a conformarci
all'imperativo categorico trasmesso dalla
nostra signora e padrona.
"Basta scogli ruvidi e bitorzoluti: uffa...
trovatemi della sabbia comoda!"
Cerchiamo, ma ogni promettente stradina
termina contro deliziose insenature...
irte di scure rocce basaltiche! Memori delle
direttive ricevute e consapevoli delle
rappresaglie che seguirebbero, cerchiamo e
cerchiamo, finché sul fondo di una striminzita
baietta scorgiamo del chiaro. Ci avviciniamo e,
gloria!, facciamo nostro l'unico scampolo di
spiaggia sabbiosa di tutta la zona: forse tre
chili di arenile grigiastro. Ma la signora è
soddisfatta. Un sorrisino, un sospiro e
riesce a sdraiarcisi al centro, mentre a noi
due resta un'ampia scelta di punte e gobbe di
roccia nera. :-( Beh, non si sta poi male. Il
silenzio è turbato solo dal fiacco
sciacquettare della risacca. Ogni tanto un
borbottio monocorde annuncia il passaggio di
una barchetta. Sono sempre due uomini (che sia
obbigatorio?), maglioni e stivali e un
mucchietto di reti all'estrema prua. Seri ed
impassibili, non rivolgono neppure lo sguardo
verso di noi e la cosa ci va benissimo. :-)
Spuntino con le cosette buone comperate al
mercatino della frutta e verdura e il pane
sgranfignato al break-fast e la giornata
scorre fluida in pochi istanti. Ad avvertirci
che il tempo passa è il freddo che arriva
all'improvviso e ci fa scappare. In camera per
lo stretto indispensabile, una doccia e via in
giro per i vicoli di Rovigno. Su nella parte
più alta fino alla settecentesca cattedrale,
malconcia ma suggestiva, dove è in corso la
santa messa. Piccoli negozi, piccoli usci,
piccolo tutto. La gente ha comportamenti molto
diversi nei nostri confronti: dipende
dall'etnia. Si va dall'indifferenza alla
villania alla cordialità accompagnata da un
sorriso. In questi angoli bui, nell'odore
stantio di cavoli e fogne malmesse si respira
una povertà non antica ma consolidata da anni
di regime. Questo nonostante ci troviamo in
zone che il turismo non ha mai abbandonato.
Non voglio pensare come dev'essere l'interno
del Montenegro.
"Circolo Culturale d'Italia" dice la targa su
un vecchio muro sbrecciato.
Incuriositi buttiamo un occhio. C'è un uomo
sui sessant'anni che legge il giornale. È il
Corriere della Sera. Perplesso mi guarda. Sono
dentro solo a metà. Il resto è ancora fuori,
assieme ad Anna e Lorenzo. Poi sorride e fa
segno con una mano, un mezzo cerchio nell'aria
che sa un po' di toscano.
Sorride d'un sorriso bambinesco e tutto il
viso avvampa e si spiana e dieci anni se ne
vanno assieme alle rughe.
"Avanti, accomodatevi pure. Entrate tutti,
prego!"
L'ambiente è piccolo e poco luminoso, ma oltre
una porta s'intravvedono altri locali più
spaziosi. Ci giungono alcune voci smorzate
dagli spessi muri. Alle pareti vecchi editti
del regno d'Italia e una foto di piazza San
Marco e quella di Pertini.
L'uomo con piccoli gesti impacciati riassetta
il piano della scrivania.
Giornali, fatture, un pesante portaceneri di
cristallo, penne e un pacchetto di mezzi
toscani. Imbarazzato getta occhiate ad Anna.
"Sa... raramente da noi capitano delle
signore".
Sorride ancora e un dente d'oro fa capolino
all'angolo della bocca e si unisce al sorriso.
Al bavero della giacca la spilla di cavaliere
del lavoro. Vede il mio sguardo. Capisco che
ne è compiaciuto.
"Che posso fare per voi?"
Spiego che stavamo girando per i vicoli quando
abbiamo notato l'insegna del loro circolo e,
incuriositi, abbiamo voluto vedere di che si
trattasse. Allarga le braccia in un gesto di
sconforto e ci spiega che sono rimasti in
pochi.
Aggiunge che la vita, lì, per gli Italiani, è
sempre più grama, più difficile e così quel
circolo è diventato l'unico punto di
riferimento per la loro piccola comunità.
"Riceviamo alcuni quotidiani, ma impiegano tre
giorni, sapete, mentre in Australia ce li
hanno entro due! Fino allo scorso anno ci
arrivava anche Epoca ma cosa vuole, i soldi in
cassa non bastano mai, così..." e si lancia in
un accorato sfogo che tocca come in un turbine
la politica, il calcio, il governo locale che
se ne frega della comunità italiana, il
problema del turismo che con la guerra era
sparito, mettendo in enormi difficoltà anche i
suoi nipoti che hanno un alberghetto un po'
più in giù sulla costa e via di questo passo.
"...eppoi - conclude, rosso in volto - nel
nostro Paese, in Italia, nessuno più si
ricorda di noi!". Parliamo di altre cose.
Lorenzo chiede spiegazioni sulle vecchie carte
che vede alle pareti e Anna raccoglie
informazioni su quel che c'è da vedere in
paese e lì attorno. Prima che ci accomiatiamo,
insiste per offrirci una bibita e brindare
alla nostra visita. All'improvviso scappa
nella camera accanto e ritorna stringendo un
librone monumentale.
"È il libro degli ospiti! - e ci batte sopra
con la mano - Dovete assolutamente mettere i
vostri nomi. Tutti... e se volete, potete
anche aggiungere un commento. Sapete - dice,
tutto orgoglioso - c'è anche quello di Craxi e
la sua firma! Era in vacanza su una barca di
amici, qui vicino e venne a trovarci".
A fatica riusciamo a guadagnare l'uscita,
assieme al nostro gentilissimo ospite che
continua a trattenere la mia mano nella sua e
a fare mezzi inchini ad Anna.
Continuiamo il giro ma nessuno di noi ha più
voglia di chiacchierare e per un pezzo
camminiamo in silenzio, ognuno perso nei
propri pensieri. Perfino Lorenzo, sempre così
ciarliero, tace.
La sera, forti del consiglio del portiere
dell'hotel, italiano di Mestre, ci risaliamo
una ripida stradina alla ricerca della tanto
decantata trattoria.
"Il miglior pesce di Rovigno e dintorni!... e
vi sembrerà di essere a Venezia!".
Ricavato nelle cantine di una vecchia casa
nella zona più antica del paese, l'Osteria di
Giannino è proprio un posticino caldo e
accogliente. Si scendono tre gradini ed ecco
una prima saletta con un paio di tavolini.
Ancora qualche gradino e un'altra spruzzatina
di micro-tavoli e via così, sempre scendendo
più in basso. Sopra, invece, altri posti sono
ricavati in un precario soppalco,
raggiungibile mediante una scaletta per polli.
A lato, un piccolo spazio semi- aperto è
riservato alla cucina (il minimo
indispensabile alla sopravvivenza dei cuochi,
per non sottrarne ai coperti) dove 4 persone
lavorano gomito a gomito come fossero nella
cucina di un caravan. È simpatico assistere al
balletto della preparazione dei piatti, stando
comodamente seduti in attesa delle pietanze.
Braccia e gambe dei cuochi si muovono
all'unisono per sfruttare al massimo l'esiguo
spazio.
Odorosi sbuffi salgono da pentole e padelle e
ogni tanto il cuoco occhieggia, le mani
intente in qualche misteriosa operazione
gastronomica che da qui non vediamo, e chiede
notizie di ciò che ci hanno appena servito.
"Mmm, ottime queste cozze alla marinara -
commento io, impegnato fino ai gomiti in
un'enorme fiamminga - ma ci sarebbe stato bene
del peperoncino: i mitili per loro natura sono
un po' dolci e così...".
"Ecco - sbotta il cuoco col vice (il cognato).
- ti g'ha visto, bestia che ti s'è ti! Te
g'avevo deto che queo s'è uno che l'ghe piase
magnar ben, un intenditor, ostrega!"
Pochi istanti e un'altra fiamminga, *corretta*,
compare magicamente dal loculo-cucina, con
tante scuse.
Che profumi, che meraviglia!
Mi spiegano che il mollusco di quelle cozze è
così grosso e saporito perché non sono
d'allevamento ma naturali. Selvatiche, insomma.
Seguono dei tagliolini all'uovo tirati in
padella con vongole e datteri di mare. Bianche,
senza pomodoro. Una delicatezza, con tutti i
profumi del mare! Poi un assaggio di fritto di
calamari piccolissimi, trigliette e soglioline
tenere e croccanti.
Per finire una grigliata mista che aveva un
solo torto: quello di arrivare per ultima!
Il veneziano stretto dei proprietari ci
stupisce e chiedo da quant'è che si sono
trasferiti qui dall'Italia.
"Poco, pochissimo....solo una ventina di
generazioni almeno! Cossa vuol... la
lontanansa, la nostalgia forse ...e noaltri
gavemo conservà el dialeto dei veci ...xe
l'unica cossa armasta..."
Assolutamente da provare se andate da quelle
parti. Osteria Giannino di Pellizer Nereo &
Giovanni, via Ferri 38 - Rovigno tel. 052-
813402 - chiuso il lunedì.
:)
Usciti a malincuore da quell'oasi di intensi
profumi e di semplice cordialità, ci sentiamo
in pace col mondo, sereni. Siamo insieme,
penso, a parte Alessandro.
Stiamo bene, dunque ringraziamo chi ci
consente tutto questo ... È buio fitto nella
stretta viuzza e l'acciottolato è viscido per
l'umidità e consunto dal passaggio di chissà
quante generazioni. Non c'è illuminazione e
solo il bagliore tenue di qualche finestra
ancora illuminata ci permette di vedere dove
mettiamo i piedi. Vorrei che la serata non
finisse mai, con quell'ottimo pesce e
l'atmosfera che nulla aveva da spartire con la
gentilezza formale di tanti locali.
La mattina scendiamo un po' tardi. Un occhiata
al buffet e già l'osteria di Giannino ci pare
un sogno. Sul lungo tavolo, nell'ordine:
vassoio di latta modello-mensa-aziendale-anni-
cinquanta, numero due fettine due di pane.
Accanto caraffa semi-vuota di un liquido
dall'improbabile color rosso cardinale.
Marmellata zero.
Su gli unici due blocchetti di burro tedesco
mettiamo le mani contemporaneamente, io e una
corpulenta signora austriaca dai capelli
gialli.
La mano grassoccia, fitta di anelli, si chiude
avida sulla stagnola e batte la mia d'un
soffio.
"Danke!", sbraita stentorea.
Melliflua sorride e se ne va in una nuvola di
denso profumo al mughetto.
Col mio burro.
Un'ora dopo siamo in strada. Prima però ho
sbrigato due cose cui tenevo.
Mancia al portiere che ci ha indicato Giannino
e busta chiusa con tutta la valuta locale che
avevo, circa centomila lire, al circolo
d'Italia. A quell'ora non c'è nessuno e metto
la busta in buchetta. Meglio, così evito scene
imbarazzanti.
Un centinaio di chilometri e siamo a Pola,
dove ammiriamo l'imponente anfiteatro dalle
arcate alte più di trenta metri. Peccato che
sia così stretto fra le costruzioni del centro
e soffocato dal traffico. Lorenzo commenta: "e
checcifà il Colosseo a Pola?"
Ed io: "Sverna sempre qua, al riparo dai
turisti!" Fa un freddo boia ed è nuvolo, così,
dopo un breve giro a piedi della città,
proseguiamo seguendo la costa. Troviamo da
dormire a Medulin, appena oltre la punta, dove
la strada comincia a girare verso nord. Lì
trascorriamo la notte in una pensione i cui
proprietari, che ci vivono, aprono apposta per
noi. Si vede che a loro le nostre lirette
tanto schifo non fanno! Colazione abbondante e
la sensazione di essere a casa di amici. La
sera prima ci avevano chiesto che cosa
volevamo che comperassero. Caffelatte, succo
d'arancia e iogurt, pane, brioches, burro e
marmellata, tutto abbondante, tutto
freschissimo. Alle nove ci rimettiamo in
strada verso Abbazia.
Abbiamo scelto intenzionalmente, per quella
tappa, un percorso che ci avrebbe portati
verso l'interno, dove le strade sono ancora
sterrate ma ben tenute. La Guendalina, il
nostro fuoristrada Mercedes si sente nel suo
elemento e ronfa allegramente. Poche macchine
ma molti carretti tirati da asini e molta
povertà. Sembra l'Italia degli anni cinquanta.
Quella di Coppi e della settimana Incom. Nelle
borgate il vento ci porta voci dalla cadenza
veneziana e, in quei casi, al nostro passaggio
sono sempre espressioni di simpatia e sorrisi.
Anche oggi il tempo non è dei più favorevoli.
La foschia limita la vista del mare e della
grande isola di Krk (ma perché non usare anche
le vocali... visto che ci sono! Benedetta
gente!) che si trova poco distante dalla costa.
Decidiamo di tenere un'andatura meno
croceristica e di andare avanti.
Un'unica sosta, in un grazioso borgo di mare
simile a Positano, pochi chilometri a sud di
Abbazia. Giusto il tempo per un caffè e per
assistere ad una scenetta ai margini del
porticciolo stretto tra alte rocce a picco sul
mare. Poche barche, alcune già in secca per il
ricovero invernale, altre semi demolite. Un
paio di pescatori all'opera su reti malridotte.
Viene verso di noi un cagnone bianchiccio, un
po' bastardo e un po' no (ma soprattutto sì).
L'aria dimessa ma buona, stringe gioiosamente
tra i denti una scarpa da ginnastica che ha
visto tempi migliori. Scodinzola e mi guarda.
Si ferma.
Allora io gli vado incontro e gli parlo,
dicendo che è proprio bella, quella scarpa. Un
battito muto di ciglia, un'occhiata placida ma
un po' incredula.
Sembra dire ma l'hai guardata bene? Ma ce li
hai gli occhi? Poi però, forse convinto dal
mio complimento o pensando che potesse davvero
interessarmi, me la molla lì e lemme lemme
scompare tra due barchette sfasciate. Il tempo
di considerare che fare di quell'inatteso
omaggio e arriva dal molo un tale, che
trotterella su una sola scarpa, compagna di
quella che ho in mano io, omaggio del cagnone.
Mi guarda e sorride bonario. Lo guardo e
sorrido anch'io e indico con la mano fra i due
relitti, dove fanno capolino un'orecchia
floscia e un occhio placido. Non ci parliamo,
non ce n'è bisogno.
Sorride ancora, scrolla le spalle, poi prende
la scarpa e va in là. Da lontano sento poche
frasi di una bonaria ramanzina mutilate a
tratti dalla risacca. Rimango fermo lì, contro
un mare che sta gonfiando. Raffiche di vento
intrise di sali mi schiacciano sul viso
l'odore muschiato e dolce di alghe fradice, di
sabbia bagnata di spuma, un lontano gracidio
di gabbiani che si chiamano, bilanciandosi
come aquiloni senza fili sui groppi del vento.
È grigio piombo, il cielo, colmo di neri
ammassi di nuvole che s'inseguono basse e
screziato dell'azzurro pervinca di un sereno
sempre più assente.
Resto lì nel vento che sembra fumo tanto è
denso e crudo e... vorrei non aver più gambe
per non poter fuggire via e restare in quel
turbinio, non aver più braccia per guidare...
non aver più testa per pensare...
" Rappelle-toi Barbara. Il pleuvait sans cesse
sur Brest ce jour-là et tu marchais souriante
sous la pluie..."
"Ricordati Barbara. Pioveva senza sosta su
Brest quel giorno e tu camminavi sorridente
sotto la pioggia ..."
Chissà perché Prevert e chissà perché ora, mi
chiedo. E Brest, poi? L'immagine assurda di
una donna, la veste scolpita nel vento.
Ignota.
Mi avvicino, la guardo e lei pure mi guarda.
Occhi intensi, capelli nel fumo.
Barbara?
Le prendo la mano e lei stringe la mia e lì,
al solo contatto di una mano e uniti
nell'abbraccio di uno sguardo, ci amiamo...
Guardo il mare e il cielo, senza vedere né il
mare né il cielo. Sento sulla nuca gli sguardi
di Anna e di Lorenzo, cento metri più indietro,
al riparo del costone di roccia. Indovino i
loro perché.
Perché sta lì? Perché non torna?
Così quell'attimo se ne va ed io rimango solo
e allora è davvero meglio che ritorni dai miei.
Nel naso e nella mente aromi eterni, odori
primordiali, sensazioni struggenti, selvaggi
moti di libertà che, chissà perché, chissà da
dove, sorgono e in un istante eruttando
esplodono e mi lasciano vuoto e stordito come
dopo un amplesso mai stato.
E non capiscono, Anna e Lorenzo.
Non comprendono, loro.
E hanno ragione a non capire.
Neppure io capisco.
Neppure io.
Pini, puffi e vecchie foto ***************
Solo toni di grigio, questa mattina, dalla
finestra dello studio. Ma anche una giovane
coppia di lepri al limitare dell'albana. Esse
cercano qualcosa di commestibile tra i ciuffi
gelati che crescono ai piedi delle viti. Si
muovono caute: due saltelli di qua, due di là
e ogni volta che il musetto si abbassa verso
terra, compare un piumino bianco all'altra
estremità. L'alto pennacchio di un pioppo si
agita leggero sotto le zampette di un gruppo
di tortore col collare che ne dividono i rami
spogli con uno stormo di passeri che
svolazzano istancabili. Sembrano bambini
birichini che giochino festosi mentre le mamme,
nelle loro eleganti vesti rosate li guardano
benevoli e garbate.
Montefreddi. Il nome in sé evocherebbe
immagini di gelo e vento. Per me invece
significa benessere e pace, natura intatta e
armonia ambientale e interiore.
All'epoca dell'università, messo in crisi da
un esame o da vicende di cuore, sinceramente
non ricordo, trascorsi in quei boschi alcuni
giorni di ritiro.
Era l'inizio di giugno e se in pianura il
calore del sole aveva già intriso l'aria
d'umidità, a mille metri l'atmosfera era
limpida, il sole brillava e la sera serviva un
golf.
Lasciata l'auto nei pressi di un casale, in
prossimità del confine tra Emila e Toscana,
avevo scelto un sentiero a caso, la mente
persa sull'onda di pensieri densi come
nuvoloni estivi.
Zaino in spalla, attrezzatura ridotta al
minimo, il che voleva dire almeno 14 chili,
dopo un paio d'ore avevo trovato il posto che
faceva per me ai bordi di un antico pascolo
sul crinale a sole. Un fazzoletto di prato tra
alti pini e cespugli di noccioli dove mi
sarebbe stato facile nascondere la tendina
canadese agli sguardi della forestale che non
consente il campeggio su quei pendii.
Mi sentivo come il fuggiasco di un romanzo
d'avventure.
Accendevo piccoli fuochi di legna molto secca
per evitare che un fumo bianco potesse
rivelare la presenza d'un bivacco e lo facevo
sempre sotto alla chioma di un grande pino i
cui rami avrebbero trattenuto e disperso il
poco fumo che facevo.
Mi cucinavo il riso che m'ero portato, solo
quello, oltre a erbe che raccoglievo in giro e
a qualche fungo, se ne trovavo. Niente piatti
né posate. Solo il Cattaraugus. Venti
centimetri di robusto acciaio che non mostra i
quasi sessant'anni di onorato servizio, prima
nell'U.S. Army poi con me.
Borraccia, gavettino inox per farsi la barba e
preparare il tè, una specie di pentola bassa
che usavo anche come padella e l'inseparabile
multilame svizzero.
La mattina, una strofinata ai denti con foglie
di salvia selvatica e un sorso dal sottile
rivo che scorreva nel folto.
Trascorrevo le giornate a pensare e a leggere.
La notte restavo a lungo nel sacco a pelo ad
ascoltare i suoni della natura. Il cauto
raspare di un animaletto, lo stormire leggero
dei rami più alti, il frullare improvviso di
un gufo che abitava nel cavo di un vecchio
castagno malandato.
La sottile tela della tenda mi portava il
profumo dolce dell'erba umida, quello
aromatico della resina dei pini e l'afrore
forte dell'humus marcescente.
Mi sentivo il re di quel mondo: unico,
privilegiato spettatore di una prima teatrale
senza poltrone né velluti, riflettori o regie.
Montefreddi. Il posto è estremamente
suggestivo e si ha la sensazione di essere in
una vallata alpina. Prati in dolce declivio
attorno ai quali si stendono fitti boschi dove
nereggiano le scure striature delle conifere,
uniche presenze vive durante l'inverno tra
macchie di faggi, noccioli e castagni a
perdita d'occhio.
Montefreddi, solitario, basso e massiccio,
pare sorto dalla terra come un enorme porcino.
Il profondo sporto del cornicione ombreggia le
vetrate che permettono la visione di tutta la
vallata. Un gioco prospettico di alberi e
pieghe del terreno impedisce, come quinte
teatrali, la vista dei rari gruppetti di case.
Sembra l'unica costruzione rimasta al mondo.
Tutta la montagna è di proprietà di un nobile
fiorentino che non ha mai voluto costruire per
non danneggiare la suggestione di una natura
così integra.
C'è una pace magica e se ci si va in un giorno
feriale i soli rumori sono quelli sordi degli
zoccoli dei cavalli al pascolo e il sibilante
volo delle api sui pascoli.
I primi fiocchi li troviamo poco oltre
Rastignano, dove inizia la statale della Futa.
La fida Guendalina, il nostro fuoristrada
mercedes non fa una piega e sale sicura.
Quando arriviamo al passo della Raticosa,
circa 900 metri di altezza, il turbinio della
neve ci obbliga ad avanzare con cautela perché
la visibilità è scarsa davvero. Appena
imbocchiamo la deviazione lo sterrato è
coperto da una trentina di centimetri
destinati ad aumentare rapidamente.
Come superiamo la prima curva che ci nasconde
all'asfalto della statale, ci rendiamo presto
conto che una vettura normale potrebbe avere
seri problemi ma la Guendy sembra ignorare il
peso degli anni e sale sicura per gli stretti
tornanti che ci portano in un altra dimensione.
Tutto è bianco e ogni cosa è nascosta da un
morbido materasso splendente.
Spesse cortine di abeti si sono trasformate in
scarmigliate legioni di puffi dalle cime che
pencolano di lato per il peso dei bianchi
cappucci.
Al centro della grande sala l'enorme camino
aperto sui due lati e circondato da comode
panche scolpite in tronchi d'abete. Sul
braciere in ferro battuto rosseggiano in
continuazione giganteschi ceppi e pigne
raccolte nel bosco.
Alle pareti, in pietra o rivestite di pino,
oggetti e immagini della cultura della
montagna. Foto ingiallite dal tempo di uomini
baffuti con cappello a cencio e capparella che
guidano carretti carichi di tronchi e fascine.
Immagini di un epoca in cui la vita in
montagna era sopravvivenza e dura lotta
quotidiana con una natura difficile.
Immagini di famiglie sterminate perché le
braccia eran ricchezza e la morte una presenza
accettata. Aie gremite per una ricorrenza
festosa.
Goffi, gli uomini, al cospetto della macchina
fotografica e impacciati nell'abito della
festa. Grandi mani e polsi nodosi sfuggono da
maniche troppo corte e strette. Più sicure le
donne nei costumi tradizionali, i capelli
stretti a chignon. Ampi sottanoni nascondono
ciò che invece gli stretti corpetti rivelano,
tra ingenui ricami casalinghi.
Fissano l'obiettivo con bruni sguardi di
pacata diffidenza; volti induriti dalle
fatiche quotidiane e a loro timorosi si
stringono i bambini, scalzi e scarmigliati.
Sui carri e ai finestroni del fienile fanno
capolino i volti birichini e sfrontati dei più
grandicelli.
Perso nell'isolamento di quei luoghi
d'immutato splendore, ti senti parte di esso e
sorge in te un senso di calma che di quei
silenzi si nutre e rinvigorisce in lente,
sincopate chiacchiere ai bordi del camino.
Lo sgocciolare di una gronda, il crepitare di
ceppi che offrono il calore di un'agonia
annunciata. Fruscianti turbinî di fumo che
nella cappa neri rotolano e s'aggroppano, in
lotta frenetica con quel calore che è vita ma
che per loro è morte e che li condurrà al gelo
di un mondo che ignorano.
Tazze di caldo tè alla menta, scroccar di
cantucci e mandorle, sorrisi rossi di guizzi
sempre nuovi, mani che si cercano, mentre lo
spirito s'appaga in quella pace e si rigenera
e rifiuta note immagini di strepiti d'auto
incolonnate ai semafori. Anarchia di motorini
che in quel metallico pantano si riversano e
come insetti fuggono ed imperversano, ebbri di
una mobilità che è gioia e privilegio.
Orari... scadenze... nervosi sguardi
all'orologio... lavoro: tutte cose che
sembrano spazzate via da una benevola Macchina
del Tempo.
Sole, aragoste e tappi da bottiglia (ovvero il Paradiso: Cancun 1975)
******************
Piccoli, tozzi e senza collo. Sembrano
caricature di se stessi o tappi della Val
Gardena, scolpiti nel legno in forma umana.
Maya... un nome associato a reminescenze di
storia. Civiltà scomparse...
sacrifici umani... pugnali d'ossidiana...
oro... sacerdoti in abiti multicolori e
piramidi a gradini strette nell'abbraccio di
jungle impenetrabili. Mai invece a gente vera,
magari in jeans e magliette Adidas.
Fine febbraio 1975
Sono al Club Med di Cancun-Messico, post-
palafitticolo agglomerato di cubetti su
trampoli appena inaugurato tra il mare e la
laguna interna. Quindici giorni di G.O.
(Gentil Organizateur). Ginnastica ai bordi
della piscina con G.O.
sprizzanti attivismo e simpatia da ogni poro,
animazione coi G.O., pallavolo in spiaggia con
i G.O., picnic in laguna coi G.O.
All'arrivo ci infilano al collo una collana di
fiori di plastica alla maniera auaiana e ci
consegnano una collana di palline di plastica.
La prima è come benvenuto, l'altra per
consentirci di pagare gli extra. Un modo per
evitare che nel villaggio circoli denaro.
Quello vero lo si deposita in cassaforte. Un
caffè = una pallina, due palline = un orange
juice e via così. Pratico e razionale.
- Così non correte il rischio di perdere i
soldi e quando fate il bagno la collanina ve
la mettete al collo! - strombazzano i G.O.
Così si riduce la percezione di spendere,
penso io. E funziona, specialmente con gli
americani e la loro fissa dei gin-martini
prima di cena. Eccome se funziona: pare di
essere in un negozio di bigiotteria per
signore, tante sono le collanine sul bancone
del bar!
Così stridente il contrasto tra il dentro e il
fuori: un'isola di opulenza in un mare di
povertà atavica. La cameriera che rifà le
camere prende trentamila lire al mese mentre
ognuno di noi ne paga cento al giorno.
La sera tardi guardo i camerieri che se ne
vanno col fagotto sotto il braccio: i resti di
ciò che noi *ricchi* abbiamo lasciato sui
tavoli del buffet...
Comincio ad andare in giro, a parlare con la
gente. Giri sempre più larghi, come gatti che
prendono confidenza con un posto nuovo. Faccio
conoscenza con una famiglia di simpatiche e
brave persone. Un po' pescatori e un po'
ortolani.
Una vera moltitudine, tra genitori, zii, figli,
nonni e nipoti. Ricordo Diego e Maria Consuelo
che in famiglia vuol essere chiamata col nome
Maja: Oxunet o qualcosa di simile. Oggi
sembrerebbe un provider di Internet.
Una sera mi invitano a cena. Tortillas in
quantità, verdure del loro orto, un grande
tegame di coccio con mais piccante e
cipollotti selvatichi e poi pesce appena
pescato e frutta squisita. Alla fine uno
straordinario distillato di mais e banane.
- Rimaniamo in contatto - non faccio che
ripetere, il giorno della partenza - perché
l'anno prossimo ci ritorno, qui a Cancun. -
Ma basta Club Mediterranée, basta G.O.
Diego ha una casetta sul mare, un po' discosta
dalle altre, fatta per un figlio ora sposato
altrove.
Per non dimenticarla, a quella casetta scatto
le ultime foto del rollino.
Un cubetto bianco, due camere e una grande
veranda di stuoie vegetali sul davanti. Sul
retro un'altra per quando tira vento dal mare.
Oltre la casa dieci metri di sabbia poi una
striscia in movimento che va dall'azzurro fino
al blu più intenso. L'oceano.
Niente serrature alla porta. Niente scuri alle
finestre. La tonda faccia color rame di Diego
si apre in un sorriso largo così; spalanca le
braccia e alza un po' le spalle come dire è
tutto qui, non c'è altro. Poi sparisce.
Rimango lì a guardarmi intorno. Tutto è
ordinato e sa di pulito. L'essenziale c'è.
Incredibile, invece, la quantità di cose
inutili che mancano. Un tavolino, tre sedie
tutte differenti, il secchiaio e un piano con
fornello a tre fuochi. Tre finestre alle
pareti. Sotto il piano un armadietto. Dentro,
manco a dirlo, due tegami e una padella:
sempre tre!
Sistemo la sacca nella camera accanto. Il
letto è ampio e lo provo. Mi piace subito.
Hic manebimus optime, penso fischiettando.
Nell'armadio, cuscini e coperte. I due ricambi
di lenzuola li ho portati io, come d'accordo.
Mi muovo nella penombra di quegli spazi ancora
estranei ma lo sguardo va come una calamita al
blu di quel mare, vivido e vero come gli
squarci del sorriso del mio padrone di casa.
Stordisco tra profumi d'intensità ignota. È
come se in quel momento i miei sensi abbiano
escluso ogni collegamento intermedio e siano
in linea diretta col cervello.
Dio, com'è bello essere lì e pensare che non
esiste prenotazione per il ritorno!
Neppure se mi concentro riesco a visualizzare
la neve e il ghiaccio, il dover stare
rattrappiti nei giacconi per attraversare il
parcheggio battuto da un vento polare, gli
spilli di ghiaccio sulle guance, la testa
affondata tra le spalle.
Il giorno dopo sono al mercato con la lista
della spesa. Tre amache. Poi piatti, posate,
bicchieri. Tutto in numero di tre.
La chiamerò la casa del tre! Rientro carico
come un mulo ma felice.
Cucino seminudo nell'ombrosa veranda e
seminudo mangio in amaca o al tavolino che ho
sistemato fuori.
Qualche bambino comincia ad occhieggiare e mi
guarda curioso. Occhi grandi ed espressivi.
Capelli nerissimi con riflessi bluastri.
- Da bambini questi Maja - penso- sono proprio
belli: si guastano col crescere .
Poi mi vergogno del mio pensiero.
Un paio di giorni dopo, al tramonto, arriva
Diego, delegato dalla famiglia per vedere come
mi sono sistemato. Si guarda intorno. Osserva
i cambiamenti. Sul tavolo, un cartoccio col
pesce comperato per la sera. Con un dito ne
solleva la carta. Scuote il capo e spara una
lunga frase di cui afferro un dieci per cento.
Allora ripete più piano.
- Domani mattina alle sei, ti vengo a
prendere; non hai impegni, vero?- Sorride.
Alle sei?
Usciamo in mare che il cielo sta appena
schiarendo dal nero della notte in tenui
sfumature di azzurro. A est è tutto rosso e
pare che l'oceano fiammeggi.
Sette metri di robusto fiberglass, la barca
del mio amico tiene bene il mare.
Pur vecchia di una diecina d'anni, risale con
facilità l'onda lunga che ci attende appena
fuori della laguna.
Un cenno per indicarmi sulla bussola la rotta,
un'occhiata per assicurarsi che io abbia
capito, poi Diego si disinteressa di me e,
lasciatomi alla barra del timone, sparisce
nella microscopica cabina tra mucchi di reti e
vecchie attrezzature.
Peschiamo un paio d'ore. Di più non serve,
perché sembra che i pesci spasimino al solo
pensiero di finire nella nostra rete.
Al rientro, nei pressi di una piccola
insenatura, il mio comandante ha un attimo
d'esitazione e con un colpo di barra vi
s'infila deciso. Gettiamo l'ancorotto.
L'acqua è straordinariamente limpida e posso
distinguere ogni particolare del fondo marino,
forse otto metri sotto di noi. La riva, poco
distante, appare deserta e mossa da basse dune
e radi cespugli secchi. Non si scorge anima
viva. Lo scafo si orienta alla leggera brezza
che spira dal mare. Sotto di noi una lunga
formazione rocciosa paludata da sinuosi
filamenti verdi che danzano al tempo della
marea.
Ci tuffiamo nell'acqua tiepida. Io con le
pinne e la maschera trovate sulla barca, Diego
senza nulla, a parte un sacchetto di rete
assicurato al polso.
Va giù sicuro ed io dietro, curioso di capire
dove mi stia portando.
Branchi di pesci di tutte le fogge e colore
scivolano attorno a noi, per nulla intimoriti
dalla nostra presenza. Al limitare del campo
visivo, dove il fondale sprofonda nel blu,
sfreccia una formazione di snelli barracuda.
Dovunque siano diretti devono essere in
ritardo perché neppure ci guardano.
Un'immersione dopo l'altra, ci stiamo
gradualmente spostando verso terra. Ora ci
sono meno di cinque metri d'acqua.
Una macchia nera, che a distanza m'era parsa
uno scoglio, si rivela un branco di grossi
pesci color ardesia. Lunghi come un braccio,
stanno parcheggiati l'uno accanto all'altro,
così vicini e stretti da sembrare incollati.
Diego dirige verso di loro e io lo seguo.
Pochi istanti prima che lo urtiamo, nel branco
si apre un varco appena sufficiente per il
nostro passaggio e subito si richiude alle
nostre spalle.
Capisco lo scopo di quel bagno quando vedo la
prima aragosta. Forse trenta centimentri,
antenne a parte. Non grande, ma alla terza
immersione la rete di Diego ne contiene già
sei, e due le ho prese io!
- Vengono qui perché c'è una corrente più
fredda che a loro piace. La senti?
L'ho scoperta per caso e ora lo sai anche tu.
Ma non lo dire in giro o le langostas se ne
andranno! -
Quando tiriamo in secca la barca sono appena
le nove ma mi sembra di esser rimasto in mare
tutto il giorno.
-Prendile pure tu, queste, per l'aiuto -
mormora mentre riordina le reti. E mi allunga
la cassetta in cui si agitano le nostre prede.
- Tanto a noi non servono . E poi di pesce ne
abbiamo preso parecchio - .
Ha un'altra barca - dice - più piccola di
questa, che nessuno di loro adopera.
Se la voglio, posso averla per un paio di
dollari al giorno. Poi allunga il ditozzo
corto e scuro, puntando in direzione del posto
dove poco prima ci eravamo immersi.
-Meglio del mercato, no? - Sorride scanzonato.
Poche, essenziali parole ma a me, così
ciarliero, serve ancora tempo per abituarmi.
Gente semplice e gentile, incapace forse di
esprimere a parole i propri sentimenti, ma che
sa farlo con gli occhi, un sorriso e pochi
gesti.
Giorno dopo giorno sto entrando in sintonia
con quei ritmi. Mi sveglio presto la mattina e
faccio un gioco: rimango immobile nel letto,
mi concentro sui suoni che filtrano dalle
sottili pareti e cerco di indovinare che tempo
faccia.
Sciabordio leggero significa fuori in barca.
Significa pesce e sale sulla pelle.
Significa gridare a squarciagola nel vento la
gioia di esser lì finché la bocca e il cuore
ne son pieni e vedere un gabbiano solitario in
equilibrio sulle termiche che china il capo e
mi guarda stupito.
Significa seguire la corrente e d'un tratto
trovarsi parte di un branco di delfini che ti
pigolano attorno.
Se invece è sbattacchiar di canne sulla
veranda e fuori dalla porta rugge l'Atlantico
e si affanna coi liquidi artigli sulla
spiaggia, allora saranno lunghe camminate sul
bagnasciuga per vedere che cosa regala la
burrasca.
Sarà lasciare che la sabbia più fine mi
disegni addosso, come talco la pelle di un
bimbo.
Sarà aspettare di esser bianco e tuffarsi nudo
tra i ruggiti bianchi come birra appena
spillata.
Sarà sdraiarsi fradicio tra ciuffi secchi e
d'improvviso scoprirsi accanto un immobile
camaleonte color del nulla.
Vado molto in giro, quando non sono fuori con
la barca o sulle spiagge. Cammino lento per
vedere di più e perché lì è così che si fa.
Niente telecamera appesa al collo, nessuna
cartina tra le mani. Voglio confondermi tra
loro, sparire nello sfondo. A chi mi sorride
sorrido e ignoro chi mi ignora. Entro nei
negozi e mi guardo intorno. Quando incrocio
gruppi di turisti stretti alle loro guide li
evito. Un giorno una svedese m'interpella in
spagnolo: cerca il museo. Glielo indico col
braccio ed un sorriso. Senza parlare. Mi fissa,
osserva la mia pelle scurita dal sole, il
biondo quasi bianco dei capelli, guarda il mio
semplice abbigliamento e i sandali poi si
allontana con un perplesso muchas gracias. Ho
passato l'esame? Posso sembrare uno di qui?
Ma le piccole attenzioni non cessano.
Una sera è un mazzolino di fiori selvatici sul
tavolo, un'altra volta son cespi d'insalata o
un po' di frutta. Cose di poco valore,
nonnulla che mi danno la costante percezione
della loro amorevole assenza.
Come ricambiare tanta finezza?
Dalla posada di un amico ottengo un festone di
lampadine fatto per la festa del paese ed
anche il pentolone indispensabile per ciò che
ho in mente. Riesco a farmi dare anche piatti
e bicchieri: la mia è la casa del tre,
ricordate?
Brodetto alla marchigiana.
Dalla pescheria arriva un coso brutto come lo
scorfano, ma di un altro colore.
Debbo accettare altri compromessi ittici ma
non tanti. Alla fine mi conforta il profumo
che scaturisce di sotto il coperchio ampio
come un sombrero.
Cattivo non pare; ho lavorato come un
certosino per far sparire ogni lisca e,
comunque, non potranno fare confronti con la
cucina dell'ottimo Mattia di San Benedetto del
Tronto!
Il resto me lo dà il mare: involtini di cernia,
con pancetta e funghi e medaglioni di aragosta
all'aceto balsamico e un niente di peperoncino.
Con una stretta al cuore ma orgoglioso del mio
generoso impulso, sacrifico sull'altare
dell'amicizia l'omaggio di un amico modenese.
Trovo del bianco californiano potabile pur se
fa a pugni con la cerveza arrivata assieme a
Diego & Co.
Mai la veranda mi è parsa tanto piccola, ma
credo ci sia più sana allegria in quei pochi
metri che in tutto il Club Med un chilometro
più in là.
Facce curiose sbirciano tra le stuoie e
vengono subito trascinate davanti ad una birra.
Scoppiano *OLA' HOMBRE!* a tutt'andare. È
naturale: qui tutti si conoscono!
La moglie di Diego vuole la ricetta del
brodetto e se ne va contenta col foglio
stretto in mano. È in italiano ma dice che si
arrangerà.
-Italiano, mucho gusto! - e scappa via.
Sono tornato spesso nella baia delle aragoste
e molte altre volte alla tavola di quella
brava gente.
Sono rimasto cinquanta giorni nella casa del
tre. Cento dollari per restarci e un groppo
alla gola per lasciarla.
Quando ho fatto per pagare il conto della
barca (e della rete e della lenza e di tante
altre cose) si sono schermiti.
- Certe cose si rovinano di più a star ferme
che ad essere usate. - spiegano.
Gli ho lasciato tutto ciò che avevo comperato
per la casa. Le amache e il resto: cercano
anche di pagarmele.
Due anni dopo la posta mi portò due paginette
in simil-italiano da Cancun.
Stavano tutti bene. Altri quattro nipotini si
erano aggiunti al branco. La casetta era
disponibile in qualunque momento, le amache
pure e... il "Brodetto all' Alberto" era
diventato un piatto di casa.
-o0o-
Me lo hanno detto che Cancun ora è un
groviglio di palazzoni assiepati l'uno contro
l'altro.
Ma per me rimarrà sempre così: casette e
baracche, un cubetto bianco con due camere e
tanta pace.
Mare, sole, aragoste e care persone che, non
mi so neppure oggi spiegare il perché, vollero
adottarmi, per cinquanta indimenticabili
giorni.
Giovanna, aragosta da corsa ****************
Correva l'anno (hee sì, ogni anno che si
rispetti lo fa. Il perché non lo so e pure mi
scoccia. Il fatto che corra, intendo). Insomma
dicevo che correva l'anno
millenovecentosettantacinque. Lo so perché
l'anno successivo sarei partito per il Canadà.
Correva, appunto ed era la metà di un luglio
secco e splendente a San Teodoro, qualche km a
sud di Olbia in quella terra baciata dalla dea
della bellezza che è la Sardegna. Forse dire
baciata è un tantino riduttivo. Ci si sta
proprio bene, a San Teodoro.
Avevamo preso in affitto una villetta con
veranda a poche decine di metri dal mare e
poiché tal Gabetti ancora non ha fatto la mala
pensata di costruirvi innumerevoli cubicoli
per migliaia di persone, c'è calma e spazio
per tutti.
Anche la poca acqua in qualche modo ce la
facciamo bastare. Eppoi c'è sempre il
vermentino...
Mi trovo con un paio di amici nel ristorante
di Salvatore. Dovete sapere che Salvatore è
una simpatica persona che tra i tanti suoi
pregi ha pure quello di un fratello con
peschereccio. Immaginate perciò che cosa è
possibile trovare in abbondanza nel suo
piccolo locale? Pesce dite? Esatto, proprio
pesce! Ma mica pesce qualunque. Orate, spigole,
cernie, saraghi, calamari, polpi, triglioni di
trenta centimetri, gamberoni, cicale, scampi,
aragoste. E tutto FRESCHISSIMO!
E proprio un'aragosta è la protagonista di
questa storia vera a lieto fine ...per l'
animale.
Si dà il caso che i miei amici abbiano tramato
col Salvatore per organizzare alle mie spalle
una cena particolare per il mio compleanno che
sarà il prossimo mese. L' importante è avere
una scusa plausibile per festeggiare!
Allora figuratevi la scena...
Ristorante, interno sera. Piccola sala, muri a
calce, vecchie reti a festone alle pareti,
sugheri, antichi strumenti da pesca, lampade
che sono luci di via e lumi per lampare. Le
solite cose, insomma. Pochi tavoli vestiti di
tanti colori, pavimento di mattoni tirati a
cera. Vari gruppetti di persone,
prevalentemente stranieri. Al tavolo migliore,
ca va sans dire, noi tre, belli abbronzati e
freschi di doccia. Alla nostra sinistra la
porta della cucina ci trasmette messaggi di
incomparabile libidine gastrica.
Di fronte, l' ingresso al locale. OK?
Sorvolo sulle cose fantastiche con le quali il
padrone di casa cerca di stupirci. Vi dico
solo che i poveri di spirito dei tavoli vicini
mangiano spaghetti al pomodoro e mediocri
bistecche. I meschini ammutoliscono ogni volta
che passa una fiamminga destinata a noi. Il
movimento di teste pare quello degli
spettatori ad una partita di tennis. Solo che
in questo caso la pallina sta sempre dalla
parte nostra, mi spiego?
Ricordo uno spettacoloso guazzetto di
polipetti teneri come il burro, triglioni al
forno al profumo di alloro e vin bianco, cozze
alla marinara con sughetto aglio olio e
peperoncino che sono mondiali e tantissime.
Poi una pausa.
Finito? dicono gli sguardi vagamente schifati
dei nostri vicini.
Ma quando già pensano che avremmo ricevuto il
caffè come loro, compare Salvatore.
Fra le mani una *cosa* inverosimile:
un'aragosta.
Perchè inverosimile, direte voi?
Non inverosimile l'aragosta in sè:
inverosimili le dimensioni.
Sembra venuta fuori da Jurassic park. Dagli
effetti speciali di Spielberg.
Lunga quasi un metro, è la più enorme che io
abbia mai visto. Anzi, neppure credevo che ne
potessero esistere di così grosse. Verde scuro
color del muschio vecchio, agita le ampie
chele che qualcuno ha già provveduto a legare
con spago robusto. La coda spazza l'aria in su
e in giù mentre le lunghissime antenne (non ne
conosco il nome corretto) non si fermano un
istante.
A quella vista una spilungona foruncolosa dai
lunghi capelli biondi si rifugia tra le
braccia del suo ragazzo, le unghie a uncinare
il maschio petto.
- Ora la preparo, ma è tutta di Alberto, il
festeggiato! Proclama, e spariscono in cucina.
Dalla mia posizione scorcio dei fornelli e di
un gigantesco pentolone colmo d' acqua
bollente.
Povera bestia..., ho appena il tempo di
pensare, poi un urlo e un bestemmione in pura
lingua sarda. Schizzi d'acqua e un rivolo
fumante scivola dai gradini della cucina,
seguito da una creatura preistorica che agita
le chele ora libere da pastoie. Compare
Salvatore scarmigliato che continua a tirar
moccoli incomprensibili ma chiaramente truci.
L' animale infila come un razzo la sala
puntando ai tavoli dei tedeschi.
Zigzaga stridendo sul cotto del pavimento e
dietro arranca Salvatore, che cerca invano di
acciuffarla. Quando lui è a zig la bestia è a
zag: così non riesce mai ad agguantarla. Non
avrei mai pensato che un'aragosta potesse
correre così.
Certo che la prospettiva di finire nell'acqua
bollente...
Non corre soltanto, orrendamente agitando
chele ed antenne. Fischia pure o sibila.
Insomma, qualcosa del genere.
Scene di panico. Un ragazzino salta in piedi
sulla sedia e rovescia bicchieri e bottiglie.
Due donne urlano e un'altra si tira i capelli.
Chissà perché. Aiuta? Faccio appena in tempo a
tuonare: "SE RIESCE AD INFILAR LA PORTA LE
FACCIO GRAZIA DELLA VITA!" che la bestiola la
supera d'un balzo, mandando gambe all'aria due
anziani coniugi che entravano e che per la
sorpresa non trovano di meglio che rovinare
sul carrello dei dolci.
Ve la immaginate la scena? Pareva fosse
passato un tornado e la sala era un disastro.
Nel frattempo all'esterno Salvatore è riuscito
a recuperare l'oggetto di tanto scompiglio: si
era intrappolata da sola nella cabina
telefonica, lì di fronte! L'indomani mattina,
con solenne cerimonia la nostra amica aragosta,
opportunamente battezzata Giovanna d'Arco,
veniva liberata nelle acque sicure e profonde
di una baia poco distante.
Doverosamente, all'atto della liberazione un
breve discorso di commiato che suscita nei
presenti la giusta commozione e un solo atto
d'ottusa incomprensione in fondo al gruppo:
"Sono matti quelli lì- borbotta un tale mai
visto - che spaghetti che sarebbero venuti
fuori!"
PS
Lo so che avendo le chele è un astice o astaco,
ma mi piaceva di più pensarla al femminile
come aragosta. Licenza crostacea!
Giuseppe Rimondi esce dal coma *************
Con andatura meccanica e sempre uguale l'uomo
attraversa diagonalmente Piazza Maggiore in
direzione del lungo porticato che ne
costituisce un lato. Le mani affondate nelle
tasche del vecchio monclair, lo sguardo fisso
a terra a tagliar fuori il mondo che lo
circonda, non bada troppo ai passanti che
incrocia. La visuale circoscritta allo sfondo
grigio del selciato è ritmicamente deformata
dall'ipnotico dentro e fuori delle sue scarpe
da ginnastica. Sinistro... destro...
sinistro... destro. Altri piedi entrano di
continuo nel suo campo visivo ma lui non ci
bada. Prima una coppia di belle scarpine dal
tacco altissimo, poi una frotta di scarpe "da
palombaro", come le chiama lui. Informi
blocchi di gomma dalle zeppe spropositate.
Ragazzini - pensa - chiassosi e un po' volgari.
Nell'aria rimane una scia che gli ricorda la
manifattura tabacchi.
Un'intera città gli scorre accanto ma lui ne
avverte la presenza appena quel tanto da non
urtare i passanti o gli spigoli dei palazzi.
Sono tante ore che cammina così, come un
sonnambulo. Da quando è stato dimesso e il bus
del Bellaria l'ha scaricato in pieno centro,
affollato da un'umanità cui non è più avvezzo
e che lo mette a disagio. Sono passati sette
mesi. Molti di coma ed altri per riprendersi
dopo che un'intera parete del vecchio
magazzino dove lavorava gli era rovinata
addosso per un cedimento strutturale.
Commozione cerebrale, trauma cranico, sei
costole rotte e una vertebra incrinata.
Così gli hanno spiegato in reparto. Hee sì,
perché lui non si ricorda mica tanto di quel
po' po' di casino! Quando ci pensa ha un senso
di vertigine che gli prende allo stomaco.
Si sente confuso, scrolla il capo ma il
torpore che ha dentro gli avvolge il cervello
come l'appiccicosa nebbia che spesso
accompagnava lui e suo padre nelle tranquille
giornate di pesca sul Po.
Stava sistemando degli scatoloni quando aveva
avvertito uno scricchiolio, il bruciare ruvido
della polvere negli occhi. Poi un rumore più
forte come di mille grattugie all'opera,
l'impressione di movimento dov'era sempre
stata immobilità. Un peso sul petto e la
sensazione che il mondo si stesse ribaltando.
Infine il buio. Un buio strano, diverso da
quello della sua stanza quando si sveglia in
piena notte al ritmico russare del vecchio
Lorenzi, di là dal pietrinfoglio. Un buio...
in movimento, ecco, come se... come se stesse
scivolando veloce attraverso tunnel lunghi e
stretti! Non ha il tempo di pensare, perché
all'improvviso è luce. Luce dorata e limpida
come un tramonto di montagna. Luce che non è
davanti o dietro ma ovunque. Che sente
filtrare nella carne come acqua in una spugna
secca. L'impressione di figure indistinte,
luci nella luce. D'un colpo il bagliore si
restringe davanti ai suoi occhi per divenire
un globo lattiginoso: quello di una camera
d'ospedale.
Vede un paio d'occhi su di lui, poi molti
altri, sempre di più. Attenti, scrutatori. È
sorpresa quella che vi legge, sconcerto?
Avverte sul polso il tocco lieve di una mano
fresca, negli occhi il rapido fiammeggiare di
una lampadina. Bocche che si aprono, lingue in
primo piano. Il bagliore caldo di un dente
d'oro gli appare assurdo e fuori luogo. Le
teste che lo sovrastano sembrano deformi
caricature del grandangolo di un fotografo in
vena di scherzi.
Piccole e strette in alto, larghe e massicce
verso la mandibola. Si rende conto che tutto è
silenzio. Vorrebbe parlare ma dov'è finita la
gola? Al suo posto un duro rotolo di carta
vetrata. Poi un orribile gracchiare. Si guarda
intorno intimorito. È la sua voce. Da quel
momento è tutto un crescendo. Un mare di flebo,
pappine per neonati, il contatto freddo del
cucchiaio. Mani calde e vigorose in ogni piega
del suo corpo nudo, là dove nessuno mai, dopo
sua madre, era arrivato.
Intenso odore di alcol.
Benessere.
L'emozione di un ritorno a quotidianità
smarrite. Scoprirsi capace di cose fino a ieri
impossibili, irraggiungibili. Piccole gioie
fatte di impercettibili miglioramenti.
Una mattina la visita annunciata di un tale
del Carlino, il frusciare del registratore,
tante domande, tanta insistenza. Odore aspro
di sigaro toscano spento. Occhi disincantati,
sguardo di routine. "Ma lo sa che ha avuto una
fortuna sfacciata?!"
Fortuna... LUI?
L'espressione del mio datore di lavoro. Ci
leggo dentro il disagio. Disagio e imbarazzo.
Parole di circostanza, quelle che si dicono
sempre ad un malato ma anche il timore di una
richiesta di danni. Così imparo che non è
assicurato.
Le sue mani grassocce non stanno mai ferme e
in grembo s'intrecciano e si torcono come
polipi sul marmo di una pescheria. È povera
gente, lo so, e lo rassicuro in proposito. Il
sollievo è evidente sul suo viso e ne
approfitta per dirmi che l'uomo assunto al mio
posto è bravo e ha una famiglia numerosa. Mi
fissa ansioso con occhi di pecora. Vorrei
sbottare e far valere le mie ragioni. In fin
dei conti ho rischiato di morirci in quel
fetido deposito! Lascio perdere, pronto anzi
ad accettare la somma che mi offre a titolo di
buonuscita - indennizzo.
Tutto, pur di tagliare con quella vita. Ho
ancora nel naso la muffa del seminterrato,
l'umidità, l'odore rancido dell'olio idraulico
che filtrava dal muletto, guasto un giorno sì
e uno no. Tutto vecchio, tutto moribondo e
avrebbe potuto diventare la mia tomba.
L'opportunità di cambiare.
Un segno?
Uno strillo di bambino lo fa sobbalzare e per
la prima volta alza gli occhi.
Si scuote.
È vivo e cammina. Deve ripeterselo e lo fa a
voce alta. Un signore in grigio dall'aria
seria e grigia lo guarda, nasconde il viso
dietro al Carlino e fila via che sembra unto.
Poverino, forse ha pensato che gli avrebbe
chiesto soldi!
Come una liberazione respira a pieni polmoni
l'aria puzzolente del centro, il naso ancora
colmo del tanfo penetrante del lisoformio.
Impiegati, studenti e sfaccendati, distinti
professionisti e casalinghe con le sporte
della spesa.
Ora li guarda e li vede: non sono più soltanto
piedi su un selciato grigio.
La camminata gli è servita ma ha come
l'impressione che il suo corpo ancora sia
riluttante ad obbedirgli, come un cavallo
dimenticato ad impigrire in stalla.
La bruma dolorosa che gli affollava il cranio
lentamente si dissolve al pallido sole
primaverile.
Già, è primavera - realizza - e alla fin fine
con 'sto coma lui si è sciroppato un inverno
di meno. Come i signori che vanno a svernare
in Riviera o alle Maldive, lui i mesi peggiori
se li è fatti sulle colline di Bologna,
servito e coccolato come un principino! Strane
riflessioni, se ne meraviglia lui per primo,
ma che lo aiutano a ragionare in positivo.
Sente nella tasca il misero rotolo di
banconote e quelli che riceverà dall'ex-datore
se li prenderà quasi tutti il padrone di casa,
ma in qualche modo farà.
Gli tornano alla mente i corridoi del Bellaria.
Povere creature stese nei letti, pallide come
lenzuola, gli occhi persi nel vuoto o fissi
sui visitatori con sguardi che danno disagio,
anche, e vergogna. Solo ora realizza di esser
stato privilegiato dalla sorte e di non aver
alcun diritto di lamentarsi.
Luccicano le vetrine di mille invitanti
proposte. Distratto, fissa un negozio di
abbigliamento e vede giacche e pullover
sovrapporsi a piatti di tortellini e zamponi,
patate arrosto e galantina. Si rende conto che
da molte ore non mette nulla nello stomaco:
possibile che la fame dia simili visioni? Poi
accanto ai piatti intravvede i cartellini.
Capisce, si gira ed è tutto reale: i sogni non
arrivano col prezzo attaccato. È l'esposizione
di un negozio di gastronomia. Chiuso fino alle
16, avverte una targhetta.
È deserto anche il portico, stranamente.
Più giù, verso piazza Galvani, un tipo curioso
canta con bella voce tenorile un'aria dal
sapore zigano. Usa uno sgabello e si
accompagna con l'antiquata fisarmonica.
Con ritmica ripetitività d'automa si sporge in
avanti spalancando le braccia per dare aria
allo strumento.
Ogni volta sembra spiccare il volo sulle sue
note.
Non c'è un'anima ma lui non se ne cura e il
canto fluisce potente. Rotola e rimbalza tra
archi e pilastri e l'eco conferisce ai versi
sonorità profonde e inconsuete, da canto
gregoriano. Marca col piede la melodia
struggente e vi si abbandona, il largo viso
slavo nascosto da assurde lenti viola.
Accanto a lui un bastardino veglia su poche
monete ed un bastone bianco.
Dentro di lui si agita uno scomodo senso di
vergogna per chi non è lì ad affollare quella
platea oscenamente vuota.
Piccole ombre ondeggianti segnano la lucida
palladiana: due colombi di piazza che alla
comodità del volo privilegiano la tranquillità
lenta del passeggio.
Simili a stanchi camerieri dai piedi piatti,
mi fissano con occhi tondi e stupidi poi
proseguono appaiati a becchettare
microscopiche briciole di pane.
Nella surreale poesia di quegli istanti strani,
nell'esibizione del cieco e dei piccioni,
sento aleggiare lo spirito birbante e
fanciullesco di Fellini.
Si scuote. Davanti agli occhi ancora immagini
succulente. Due grandi filoni di roast-beef
l'attirano particolarmente. Carne rosata e
succosa dall'aria invitante.
Sente la saliva aumentare di livello e lo
stomaco reclamare qualcosa di più che belle
immagini a colori.
Ecco, se non ci fosse il vetro gli basterebbe
allungare un dito per toccare tutta quella
mercanzia di lusso.
Fantasticherie dettate dalla fame, lo sa bene,
ma non riesce ad impedirsi di allungare
davvero una mano fino a sfiorare lo spesso
cristallo e... proprio nel momento del
contatto, l'inverosimile! Un leggero bruciore
gli invade il braccio. È un pizzicore diffuso,
una tensione mai provata.
Incredulo guarda le sue dita, sì, proprio le
sue dita, passare attraverso il vetro
antisfondamento come fosse aria e proseguire
senza che questo offra la minima resistenza!
Spaventato ritira il braccio. Si guarda la
mano. Trema, coperta da una pelle d'oca con
cui ci si potrebbe grattugiare il parmigiano.
Osserva il vetro:
intatto. Non una macchiolina, non una
screpolatura.
Ha le vertigini e freddo dentro, nonostante la
temperatura mite. Nel dubbio di essere defunto
senza accorgersene, si morde un dito. Vede il
segno dei denti.
Il portico è ancora deserto. Solamente verso
via Rizzoli il passeggio si sta facendo più
animato.
Riprovare? Sì, sì ora ri... ecco di nuovo il
pizzicore e una debole luce, come la madonnina
fosforescente che in ospedale gli aveva
regalato il cappellano.
È dentro con tutta la mano ...il braccio ora!
Sente contro i polpastrelli il morbido umidore
del roast-beef!
Tutto succede in un attimo. Ritira il braccio
e con esso l'intero filone di carne. Senza
pensarci lo infila sotto il giaccone e ripete
l'operazione con l'altro pezzo.
Guarda a sinistra, guarda a destra. Niente.
Nessuno sembra essersi accorto di nulla. Un
ultimo sguardo al piatto ora vuoto, poi via,
al passo più rapido che le ginocchia malferme
gli consentono. Ha un ripensamento. Torna sui
suoi passi, allunga ancora il braccio e... un
largo riquadro di crescente va a raggiungere
la carne.
I piccioni se ne sono andati ma il cieco è
sempre lì.
Ondeggiando sul busto, distende senza sosta il
soffietto e lo comprime. Per un momento rimane
davanti a lui, le mani a trattenere i lembi
che nascondono il bottino.
Poco oltre ci sono le panchine di piazza
Minghetti: là potrà calmare il tremore che lo
pervade.
Un'elegante signora lo incrocia, guarda con
diffidenza le mani strette al petto, quella
protuberanza e cambia braccio alla borsa di
coccodrillo. Ogni pochi passi scosta un lembo
e annusa il profumo che ne emana. Ancora non
ci crede ma i sogni non hanno odori - si va
ripetendo - quindi è tutto vero...
TUTTO VERO!
La testa come un vulcano, vorrebbe urlare.
Urlare la paura che lo soffoca e gli ingolfa
la gola. Si guarda intorno. Sfaccendati,
commessi che si affrettano per non tardare
alla riapertura, gruppetti di bancari che fan
ritorno al grigiore asettico dei loro picì.
Apparentemente è tutto come sempre e la vita
scorre nei soliti argini. Invece nulla è come
prima, non dopo quel bruciore al braccio.
Sente il suo corpo dilatarsi e fremere e si
scopre, secondo se stesso, a scrutarsi
dall'esterno con gli occhi di un passante e
scoprirsi incredibilmente anonimo e normale.
Un qualunque sfaccendato seduto sul ferro
rugginoso di una panchina.
Steso sul letto, nella penombra della stanza
rigata dalle stecche delle persiane, ripensa
immobile a ciò che ha fatto. Gli pare un sogno,
onirica follia generata da un cervello troppo
provato. Però la carne sta là, in mezzo al
tavolo. Gli basta alzare la testa per vederla.
Un'idea lo scuote come una scarica elettrica.
Con un balzo è in piedi, il naso alla parete
che lo divide dall'appartamento accanto. Si
rivede in Pavaglione, risente il bruciore alla
mano... Perché solo la mano? Perché non tutto?
Se può passare un braccio, cosa impedisce che
passi tutto il corpo dall'altra parte? Qui
però non è vetro e come allunga il braccio lo
vede sparire, come amputato. Dentro la parete.
Rimane così, guardando la sua spalla tutt'uno
con il bianco sporco del muro. Avverte lo
stesso bruciore. S'immagina il resto, che ora
sta penzolando sull'altro lato del muro, come
una scultura surreale, un trofeo per cannibali.
E SE CI FOSSE QUALCUNO!?! Rapido lo ritrae e
sente uno strappo ma il braccio è integro,
intatto come se nulla fosse accaduto.
Adesso passo di là - si dice - ma non sa
risolversi ad infilare la testa, così prova
con una gamba. Poi l'altra
e ....ssssssvvvamm... anche il resto è
dall'altra parte e si trova in una stanza che
non ha mai visto. Deserta, provvidenzialmente
deserta. Doveva esserlo per forza, altrimenti
sai gli urli! È una camera da letto. Canterano,
due comodini, armadio con specchio nel quale
vede una faccia da matto: la sua. Sedie
cariche di libri, vestiti buttati alla rinfusa
sulla vecchia poltrona tipo frau. Che Guevara
lo fissa da un famoso poster anni settanta.
Sembra perplesso o è la sua immaginazione?
Si sente come un guardone.
In quel mentre s'accende la luce nella stanza
accanto. Rumore di passi, qualcuno che
fischietta, un peto. Preso dal panico si
slancia verso la parete e ...opp, è di nuovo
in camera sua! Non ha avuto neppure il tempo
di sentire il bruciore e quel senso di
stiramento della pelle sul viso che aveva
provato all'andata.
Vuol capire. Capire che cos'è che gli sta
capitando. Ma non può andare semplicemente dal
medico e domandare:
Senta, scusi, come si spiega che posso passare
attraverso i muri? Già, la prima ambulanza per
villa Baruzziana sarebbe la sua! Del resto
neppure lui riesce a crederci. È pazzesco,
inaudito. Certo che se invece di un rotolo di
carne di là dal vetro ci fossero stati dei
gioielli....
Libri! Ecco la soluzione. Bisogna che si
documenti, che capisca.
Mica facile, però, trovare qualcosa su un
argomento così particolare. Infatti è un
fiasco totale sia alla Bibblioteca
dell'Archiginnasio che a quella universitaria.
Solo qualche accenno a forti cambiamenti nel
comportamento di chi esce dal coma e i
particolari del tunnel e della luce che molti
altri riferiscono. Ha provato a chiedere ma
l'espressione del commesso quando espone la
richiesta gli è bastata per fare marcia
indietro.
È stufo di girare come una trottola, perdendo
solo del tempo. Tanto vale accettare il fatto
e smetterla con le domande.
Resta però il problema che non esistono
applicazioni oneste e legali per quella sua
nuova incredibile qualità che d'altronde non
può rivelare a nessuno. Se si venisse a sapere
finirebbe in gabbia come una cavia. Del resto
non ha neppure intenzione di mettersi a fare
il ladro di professione, anche se ora nessuna
serratura lo potrebbe fermare. Però un idea...
sì, un idea gli sta frullando in testa e più
ci pensa e più gli sembra interessante, il
giusto compromesso.
Via Zamboni... Piazza Verdi... ecco, via
Belmeloro è quella lì a destra. Zona
universitaria. Più che di studenti pare
popolata di sbandati, etilici, tossici,
balordi e sfaccendati. A gruppetti stazionano
negli angoli e sotto i portici del Teatro
Comunale, dove alcuni di loro hanno
organizzato veri e propri accampamenti, con
sacchi a pelo e fornelletti. Curioso: loro
bivaccano lì da anni indisturbati mentre sento
tanta gente lamentarsi per la precisione con
cui arrivano le multe pochi minuti dopo che
nelle zone blu è scaduto il tempo.
Nell'aria un odore dolciastro. Com'è che si
dice in latino cannabis? Se gliel'hanno
raccontata giusta, il suo uomo dovrebbe
abitare lì. È una vecchia conoscenza, uno che
un tempo stava dalle sue parti. Adesso sono
quasi le undici e la gente normale è già al
lavoro da un pezzo ma quello tra osterie e
discoteche difficilmente rientra prima delle 4
del mattino. Se non ha cambiato mestiere,
starà mettendosi in movimento ora e visto che
il fine settimana è appena terminato avrà
bisogno di rifornirsi di merce.
Odore di umidità e di ascelle sudate. Di
profumo da poche lire, anche. Alcuni
giovinastri scarmigliati scappano fuori dal
nulla assieme ad un'orrenda cacofonia
metallara. Non mostrano di accorgersi di me e
per poco non mi travolgono.
- Scusi tanto - ridacchia una ragazzetta coi
capelli a cespuglio, un grappolo di anelli ad
un lobo e una sacca militare a tracolla - ma
siamo in ritardo! - Terzo piano e difatti
sulla porta una targa di ottone luccicante
dice "Boemini Nestore". Tutto un programma.
Certo però che i genitori, con un cognome così
potevano scegliere un nome normale! Al centro,
la toppa cromata di una serratura di gran
costo.
Avvicino l'orecchio al battente che appare
verniciato di fresco.
Nessun rumore, salvo quello di un frigo che
ricarica. Il pianerottolo è deserto.
Preferisco che nessuno mi veda davanti a
questa porta, così è questione di un attimo.
Mi appoggio e... sono dentro.
Servita a poco la Mottura, ragazzo mio...
Puzza di piedi. Nella penombra verdastra delle
veneziane rimango immobile per abituare la
vista. Mi guardo intorno. Arredamenti e
accessori costosi, risultato di una scelta non
di gusto ma di portafoglio. Alla mia destra un
acquario gorgoglia sommesso mentre una coppia
di pesci piroetta attorno a un vasetto pseudo-
etrusco posato sul fondo. Inciampo in un paio
di stivaletti di lucertola abbandonati sulla
moquette color lattuga. Per fortuna
l'abbondante peluria attutisce ogni rumore.
Pareti rivestite di stoffa a colori vivaci.
Qualche quadro. Le porte davanti a me son
tutte spalancate. Una sembra lo studio,
l'altra è la cucina. Aitec, mi pare che si
dica. Tutto inox e led colorati: pare di
essere in un sottomarino. Mensole e armadietti
modello ambulatorio rivestono le pareti.
Accanto ai fornelli vari apparecchi le cui
funzioni mi sfuggono. Riconosco solo il
tostapane.
Sembra che all'amico gli vada bene, a soldini.
Peccato che la confusione regni sovrana.
Bicchieri e piatti sporchi dappertutto,
perfino nel bagno lastronato in virile marmo
nero screziato di grigio. Biancheria sparsa
sulle poltrone; un paio di boxer dolce e
gabbana, visibilmente usati spenzolano
gagliardi dal bel TV Bang & Olufsen.
Bel cialtrone, il signorino, ma in grana.
Dorme, arrotolato al copriletto di raso
azzurro. Borbotta nel sonno e si agita.
Nel pigiama a righe anni sessanta sembra una
vecchia pubblicità del Permaflex.
Mi sa che dovrò armarmi di pazienza ed
attendere sulle scale.
Due ore mi fa aspettare ma io ho con me la
settimana enigmistica e sono paziente.
Indossa pantaloni marroni quando esce e giacca
di pelle nera e appoggiato su una spalla uno
zainetto dello stesso materiale e colore. È
spettinato e visibilmente rintronato dai vizi
della notte appena trascorsa. Imbocca le scale
e scende senza neppure guardarsi intorno così
non nota il sottoscritto che si è nascosto una
rampa più su. Lo seguo. Non devo perderlo. Per
sicurezza, visto che mi conosce, ho messo gli
occhiali scuri e una coppola sformata. Cammina
deciso, imboccando via Zamboni poi a destra
via Castagnoli. Gli sto sempre dietro, ma
sull'altro marciapiedi. La strada è piena di
giovani che a quell'ora affollano bar e
trattorie; così posso facilmente seguirlo
senza che lui se ne accorga. All'inizio di via
Mascarella entra in una vecchia casa e il
portone si chiude con uno scatto alle sue
spalle.
Mi fermo sotto al portico, così da farmi
superare dai due che mi camminano alle spalle.
Non badano a me, persi in un parlottio
continuo. Si tengono stretti stretti, entrambi
inguainati in jeans che potrebbero esser fatti
con la vernice. Quando mi passano davanti
m'accorgo che sono due donne. La più giovane
lampeggia un'occhiata dura, branca con gesto
di possesso una natica della compagna e se la
porta via (la compagna, non la natica).
Mentre mi appoggio alla porta arriva un
cagnetto sbiadito. Sembra un volpino e infatti
di quella razza ha gli occhi espressivi e la
coda a ricciolo. Mi ignora ma sottopone ad
accurato esame olfattivo le colonne. Non pare
soddisfatto e per precauzione scarica goccetti
di pipì ad ogni spigolo.
Devo sbigarmi o non lo troverò più.
Un'occhiata: nessuno. Passo. Solito senso di
bruciore. Gradini stretti e lisi di un grigio
indefinibile che le poche tartarughe stentano
ad illuminare. La ringhiera ondeggia al mio
tocco e vibra.
Le scale sono deserte e silenziose. Posso solo
origliare alle porte sperando di sentire la
voce del mio uomo. Se già si trova in una
stanza interna, mi toccherà visitare tutti gli
appartamenti. Al terzo tentativo lo trovo.
Attraverso il sottile strato di compensato, la
sua voce mi arriva distintamente.
Sta discutendo animatamente con qualcuno, ma
da dove mi trovo riesco a sentire solo lui.
Azzardo un piccolo controllo e cautamente
infilo la testa nella porta, rimanendo
abbagliato dal lampadario che illumina a
giorno l'interno.
Non c'è nessuno, così m'insinuo. Voglio dare
un'occhiata in giro. Un semplice sopralluogo,
perché se il posto è quello che penso io mi
serve solo di vedere la faccia di chi ci abita.
Sono seduti ad un tavolino di legno scuro, una
specie di scrivania. Da una parte sta il mio
uomo, che da questo momento può andare a farsi
benedire, e dall'altra uno spilungone secco
secco. Naso enorme, pochi capelli in testa e
un vistoso gozzo che gli sporge dal collo
ossuto.
Sembra l'avvoltoio di Walt Disney ma gli occhi
sono piccoli e freddi come pezzetti di carbone.
Bene, non avrò difficoltà a seguire uno così.
Sul piano, davanti a loro un bel mucchietto di
soldi, un sacchettino trasparente pieno di
polvere bianca nel quale il Nestore sta
frugando e una bilancina da orefice. Non mi
serve altro e in punta di piedi me la svigno
col solito sistema.
Ho fretta di uscire dall'appartamento, così mi
dimentico di controllare se il pianerottolo è
libero. Per un pelo non finisco sulla schiena
di un vecchio che ciabatta verso il basso
senza neppure accorgersi di me. Un secondo
prima mi avrebbe visto uscire attraverso il
legno.
Il mio uomo di via Belmeloro è il primo
gradino di un grosso giro di roba.
Eroina, coca, hascish, marijuana, ectasis e
crack e ogni altra schifezza che sul mercato
si riesca a piazzare. L'idea sarebbe di
risalire la catena per arrivare dove c'è il
denaro vero, quello a mucchi, a montagne.
Finora è stato facile.
Si è trattato di pesci piccoli, che lavorano
da soli. D'ora in avanti invece troverò
sentinelle e guardie e io mica sono gems bond.
È un lavoro di attese, quello in cui mi sono
messo, ma non ho alternative e se perdo un
passaggio son fregato. Non mi ci trovo in
questo ruolo da telefilm americano, mezzo
delinquente e mezzo poliziotto.
È sera e piove. Un'acqueruggiola lemme lemme
che entra nelle ossa e ti fa venire voglia di
un camino acceso e di una comoda poltrona.
L'asfalto di via Galliera è lucido e riflette
i globi luminosi dei lampioni e i fari delle
poche auto di passaggio. Nonostante la
protezione del parka sono bagnato come un
ninein, come un maialino. La macchina non ce
l'ho e il motorino era l'unico modo per
seguire la golf dell'Avvoltoio, come ho deciso
di chiamare lo spilungone. Sono tre giorni che
gli sto dietro e questo qui è uno che non sta
mai fermo.
Shopping, barbiere, l'aperitivo da Zanarini,
uffici, banche, anche un paio di cinema,
insomma mai un attimo di sosta. Per evitare
che s'accorga di me, ogni tanto cambio un poco
aspetto: tolgo o metto il cappello (ora ne ho
tre diversi modelli), gli occhiali (anche di
questi ne ho tre paia) e un vecchio
impermeabile comperato in Piazzola. L'ho
scelto perché da un lato è grigio e dall'altro
nero.
Ecco, questa è una parte della preparazione
che mi ha divertito. Sono sempre stato
affascinato dalla capacità degli attori di
cambiare fisionomia, di variare il loro
aspetto semplicemente modificando la postura o
il passo. I sistemi per alterare i tratti del
viso: cuscinetti per le guance, baffi e barbe.
e tanti strani ammenicoli. Suppongo che
c'entri il desiderio che è in ognuno di noi di
volare via da una realtà troppe volte
masticata.
Mi sento come l'ispettor Cluseau di Piter
Seller ma per fortuna non ho il patema del
cameriere giapponese con i suoi attacchi a
sorpresa di giudo'. L'Avvoltoio sta
parcheggiando di fronte a palazzo Montanari.
Lo conosco bene, perché mia mamma ci veniva
tanti anni fa a comperare le fodere in un
magazzino a piano terra e spesso mi portava
con sé. Ci serviva sempre un commesso piccolo
e azzimato dal nome imponente: Dino Sauro!
Chissà mai perché quando si presentava, lui
metteva sempre prima il cognome. Tutte queste
attese mi han fatto venire il male di schiena
e la voglia di fumare. Proprio a me, che non
ho mai toccato una sigaretta! L'androne è
signorile. Una serie di targhe indica la
presenza nel palazzo di studi professionali.
Secondo piano. Una grande loggia con un
finestrone che dà sul cortile interno.
Sulla parete una lapide dall'aspetto vetusto:
che Garibaldi sia passato anche di qui?
Leziosi riccioli di ferro battuto non riescono
a mascherare il robusto telaio di acciaio di
un cancelletto in stile, così come i pannelli
di mogano che rivestono il portoncino blindato.
Ecco, le luci delle scale si sono spente. Ho
pensato piu' sicuro entrare dal muro, per
evitare eventuali guardie. Mi fa una strana
impressione attraversare spessori così grossi;
il senso di stiramento è piu' marcato e non
vedo nulla, anzi tengo gli occhi chiusi. Però
devo fare attenzione. La stanza in cui mi
trovo sembra quella di un bambino. Devo andare
oltre. Sbircio. È un largo corridoio, con le
pareti fittamente tappezzate di quadri: una
specie di galleria d'arte. Le luci sono tutte
accese e sento delle voci provenire, presumo,
dalla grande porta chiusa, in fondo al
corridoio. Da quella di fronte a me giungono
invece suoni da un televisore: l'ennesima
partita di calcio.
Azzardo un'occhiata veloce. Un divano, due
poltrone, alcuni tavolini antichi.
Sono in due e seguono attenti l'azione che si
svolge sullo schermo. Non battono nemmeno le
palpebre. Davanti a loro lattine di coca,
bicchieri, una confezione di popcorn e un
grosso revolver. In perfetto silenzio, grazie
alle suole di feltro, percorro il corridoio e
le voci si fanno piu' distinte. Rumorosissimo
invece il cuore che mi tuona in petto.
- ...ente di roba ne ho finché ne vuoi. Roba
di qualità assoluta, ma per chi vuol spendere
poco c'è anche la schifezza, ahahahah.
L'importante è che abbiano la grana! - È la
voce di una persona istruita, colta.
- Sì, sì, il mercato tira e i miei ragazzi
stanno lavorando proprio bene.
Mmm... fantastico questo cognac! - Questo
invece è l'Avvoltoio.
- Ma quale cognac! Barbancour di Haiti! Rum, e
del migliore, altro che cognac! Va be', ora
parliamo di affari. La pross... - Il rumore di
una sedia smossa, un'imprecazione a mezza
bocca mi fan battere in ritirata verso il
bagno, ma è un falso allarme.
- ...perciò bisogna spingere. Che facciano
nuovi clienti. Le discoteche, dì che insistano
nelle discoteche. Lì di coglioni se ne trovano
sempre! Quanti sono questi, trecento? OK,
aspetta che li metto via. - Sentendo quelle
parole infilo dentro la testa. Il minimo
indispensabile per poter vedere. È uno studio.
Molto lussuoso e quasi interamente rivestito
di libri antichi.
Accanto al monumentale camino un divano. Sopra,
una figura sdraiata e immobile. La luce
verdastra della lampada conferisce ai lunghi
capelli biondo cenere un riflesso ultraterreno.
Sta leggendo, la donna, e non pare curarsi
della vestaglia blu che sul davanti è
generosamente aperta sui seni alti e sulle
cosce abbronzate. Sull'altro lato una grande
scrivania carica di fronzoli dorati e varie
poltroncine in pelle bordeaux. Un bellissimo
soriano grigio dorme in un angolo, arrotolato
come un tortellino. Mentre lo osservo alza di
scatto il muso e mi fissa con liquidi occhi
color del moscato.
Intanto che il padrone di casa traffica
nell'enorme cassaforte, l'Avvoltoio ne
approfitta per dar giu' alla bottiglia di...
accidenti, come l'ha chiamato? Ho la visione
fugace di due ripiani carichi di mazzette
prima che il pesante sportello si richiuda, la
tenda copra il tutto e io ritiri la testa dal
muro.
- Ma ti fidi a tenere quella massa di soldi in
casa? - borbotta con falsa noncuranza lo
spilungone.
- No, tanto è vero che domani mattina porto
via quasi tutto. Aspettavo i tuoi.
Visto così non sembra, ma ci sono quasi otto
cucconi, sai, lì dentro! Piu' del solito, è
vero, ma in quest'ultimo mese non ho avuto
tempo e così.... - OTTO MILIARDI?! ma sì, ha
detto otto cucconi e i cucconi non possono
essere che miliardi. Per la miseria ...otto
miliardi! Pronuncia la cifra a bassa voce
mentre scende le scale. Otto miliardi... come
si scriva una cifra così manco lo sa. Ma tu
pensa quanta gente lavora una vita e non vede
neppure la decima parte di 'sti soldi, e
questo qui li mette insieme in un mese. Un
mese!! Se ne va scuotendo la testa, si sente
polemico ed esce dal portone come un
forsennato.
- MADONNA, MADONNA SANTISSIMA, BEDDA MADRE!!!
LO GIURO, NEMMENO UN GOCCIO BERRÒ
PIU',LO GIURÒ!!! Pure i fantasmi che escono
dal muro, ora. No, no, la devo smettere con
'sta robaccia...- Il mezzo barbone che stava
accucciato di fianco al portoncino se ne va
veloce senza neppure girarsi indietro. Lo
guardo sparire per via Volturno, mentre il suo
borbottare si fa sempre piu' indistinto.
Chissà, magari la mia disattenzione lo farà
davvero smettere con la bottiglia.
Però devo stare attento. Già, me lo dico
sempre.
Sono talmente sottosopra per ciò che è appena
successo che non riesco a riordinare le idee.
- Otto miliardi ha detto, mmmm, e ha anche
aggiunto che domani li porta al sicuro. - La
decisione arriva da sola, si può dire. Finita
la corsa, finiti gli appostamenti, i
sotterfugi e i travestimenti, che si sentiva
anche ridicolo.
Non pensava...credeva che avrebbe dovuto
risalire altri passaggi, scoprire altri anelli
della catena della droga. Invece è capitato
nel posto giusto al momento giusto. Quindi è
per questa notte. Non può essere diversamente.
O la va o la spacca, ma lui a lavorare in una
cantina non ci torna piu'. E poi gli hanno
detto che ora grossi sforzi non li può piu'
fare. Sì, ha già deciso.
Sono quasi le nove e d'impulso decide di
offrirsi una lussuosa cena. Ora che la
decisione è presa si è scoperto una fame da
lupo e la voglia di festeggiare.
Tornerà lì alle 4, perciò di tempo ne ha da
vendere.
Antipasto di salumi misti, tortellini in brodo,
tagliatelle al ragu' e bollito misto con la
salsina verde che gli piace tanto. Per finire
un bel cremcaramel.
Un meraviglioso sangiovese come lubrificante.
Una cena che gli è costata ciò che aveva in
tasca e che ora lo fa sentire come se avesse
un camion nello stomaco. Forse ha un tantino
esagerato, ma ne valeva la pena.
Mai avrebbe pensato che un giorno si sarebbe
trovato a domandarsi che valigie servono per
portare otto miliardi.
Dovendo decidere su due piedi ha preso ciò che
era disponibile in casa e cioè un'enorme
valigia di finta pelle gialla e una sacca in
tela con la scritta LINES - LE ALI DELLA
LIBERTÀ. Un po' ridicolo ma pensando a ciò che
tra poco conterrà, anche ironico, no? Capisce
che non è il caso, ma non riesce ad
impedirselo. Si sorprende a sorridere a due
ragazze orrende che ha appena incrociato
davanti al Metropolitan. Quelle lo squadrano,
vedono la sacca lines e accelerano alzando il
mento, le principesse! Non importa: nulla, ma
proprio nulla può metterlo di cattivo umore,
questa notte.
Tutto come previsto. Via Galliera è deserta.
Unica presenza ostile, un gruppo di cassonetti
stracolmi che mandano un puzzo bestiale. È
buio pesto nel palazzo ma lui si è munito di
una mini-torcia che tiene avvolta nel
fazzoletto. La debole luce che ne scaturisce è
sufficiente a vedere dove mette i piedi. Passa
attraverso i muri ma non ha mica i superpoteri
di Nembo Kid.
Nell'appartamento tutto tace. Non si sente
neppure russare. Strano.
Va diritto allo studio. La porta è aperta.
Allunga una mano. Per un attimo lo raggela il
pensiero assurdo che la cassaforte non sia
piu' dietro la tenda di velluto. E invece c'è,
ovviamente. Ma cosa gli prende? Deve stare
calmo.
Cerutti-Torino, dice la targhetta sul frontale.
Ci si appoggia leggermente.
E se non riuscisse a entrare? Oh, basta con le
masturbazioni mentali. Chiude gli occhi e...
il braccio è dentro fino al gomito poi fuori.
Tra le dita un pacco di soldi alto dieci
centimetri. Sono pezzi da centomila.
Rapidamente riempie la sacca poi passa alla
valigia. Mai visti tanti soldi in vita sua.
Avuti in mano poi...
Ci sono anche delle banconote straniere, ma
non le riconosce. Bada ad ammucchiare. Quando
il fondo della valigia è un materasso di carta,
gli pare che non ci sia piu' niente sui
ripiani. Tasta avanti e indietro finchè sente
una specie di cassetta e una cosa morbida. Li
tira fuori in fretta perchè il nervosismo
comincia a farsi sentire. La cassettina sembra
di pelle e la mette in valigia senza guardarci:
lo farà a casa con calma. Il sacchetto invece
merita un po' di attenzione. Lo soppesa tra le
mani. Saranno tre chili.Tre chili di polverina
bianca, non sa se coca o eroina. Comunque un
bel mucchio di bigliettoni anche quella. Ha
un'idea. Va nel bagno e alla luce del
fazzoletto - torcia squarcia il sacchetto
sopra il water, in modo che una parte minima
del contenuto si sparga sull' asse. Vuole che
il suo regalino sia ben visibile. Butta il
sacchetto vuoto a terra, recupera sacca e
valigia e se la svigna.
Le marmette del piccolo alloggio sembrano la
moquette esclusiva del presidente della zecca
o la zona relax di Paperon de' Paperoni! Non
proprio otto miliardi: sette e
novecentotrentaquattromilioni piu'
trecentocinquanta milioni in marchi e franchi
svizzeri. Una parte l'ho destinata a gente che
ne ha un gran bisogno; il resto è al sicuro,
sparso tra banche di vari Paesi, in attesa che
io decida come investirli. Non me ne intendo e
dunque devo imparare.
Rattrappito sullo scomodo sgabello, ricordo di
una visita al magazzino di don Marella, ho
volutamente messo qualche metro tra me e tutti
quei soldi. Nausea? Vertigini? Un po' di
entrambi. Certo è che faccio fatica a mettere
ordine nel gomitolo informe di emozioni,
programmi, scampoli di sogni, dubbi, desideri.
Ora che i giochi sono fatti, ora che ho
portato a compimento il piano che poche
settimane fa ancora non sapevo se prendere sul
serio oppure no, non riesco ad attivare in me
il piacere che dovrebbe darmi tutto quel
denaro e l'indipendenza che da esso deriva.
Non sarà facile portare all'Estero tutta
quella carta, ma di tempo ne ho in abbondanza
e di soldi per viaggiare pure.
Voglio solo riposarmi e dimenticare stanzoni
umidi, ospedali e impermeabili double-face.
Penso a mia madre, che copiava sulla singer i
modelli di Parigi e a mio padre, sempre in
tuta d'la Curtisa poi l'errore di una gru ed
il lucido spettrale della bara di Golfieri.
Penso alla bruna e passionale Lou e alla
ridente solarità di Daniela; a Nadia, rigorosa
e sfuggente ma preziosa e stimolante e a
Fulvia, intrigante dottoressa, evanescente,
tenera ragazza e a un tempo donna concreta e
forte.
Sogno, realtà? Mi penso addosso, ex-
magazziniere, ex-ricoverato, fenomeno da
baraccone multi-miliardario sradicato da un
mondo che avrei creduto inevitabile e
trascinato da un beffardo e ironico puparo in
una dimensione ignota da novella tremila.
Ah, dimenticavo ...vi ricordate la cassettina
di pelle trovata in cassaforte? Beh, non ci
crederete, ma sotto a tanto pelo forse batteva
anche un cuore: era piena di vecchie foto di
famiglia. Quelle le ho qui e ogni tanto me le
guardo.
"Il vero viaggio verso la scoperta non
consiste nell'andare alla ricerca di nuove
terre, ma nel vedere con occhi nuovi"
Marcel Proust
Il bastardo di Yonge Street ****************
L'asfalto luccica come nera ossidiana mentre
l'uomo risale lentamente Yonge Street verso il
piccolo parcheggio dove tre ore prima aveva
lasciato la macchina. A quell'ora della notte
Toronto mostra la sua immagine peggiore.
Le vetrine buie e le insegne spente danno alla
via un'aria trasandata e squallida che ricorda
quella di un night-club la mattina dopo.
Agli incroci grumi di bidoni attendono di
essere svuotati e così pure i cestini appesi
ai pali della luce.
Una pioggerella fredda e sgarbata ha scacciato
anche i più incalliti nottambuli.
Dal fondo della via giunge a tratti il
sibilante rumore dei mezzi di pulizia.
Intermittenti lampeggi frustano di giallo la
pioggia e i muri delle case.
Passano rapide due coppiette, uscite forse
dallo stesso teatro che l'uomo ha appena
lasciato. Ha un brivido e si stringe ancor di
più nell'impermeabile bagnato. È quasi
novembre e l'aria già piuttosto fresca ma il
gelo che avverte si trova dentro di lui.
Proprio il giorno prima ha litigato con Maria,
la sua ragazza, che se n'è andata sbattendo la
porta, urtata dalla sua noiosa pignoleria.
Perciò aveva deciso per il concerto.
Non gli andava di restare in casa da solo e
aveva creduto che la musica di Gershwin e la
folla sarebbero stati la miglior medicina. Si
sbagliava.
Come la grande porta a molla si era chiusa
alle sue spalle, il buio e la puzza
dell'asfalto fradicio avevano ingoiato la
magia delle opulenti note di Porgy and Bess e
di Un Americano a Parigi, lasciandolo più
vuoto che mai.
All'angolo con Commerce Road sta accucciato un
etilico che dalla rientranza di un negozio
allunga una mano sporca. Lui fa finta di
niente e tira dritto, poi ci ripensa e gli
porge un pezzo da dieci dollari. Sgrana gli
occhi e biascica qualcosa, il barbone.
Homeless li chiamano da queste parti ma non è
solo la casa che manca loro. Biascica qualcosa,
il poveraccio. Angelo non capisce ma
intravvede una mostruosa chiostra di denti che
ormai non ci sono più.
- Ho fatto bene - pensa - forse con quel
denaro gli ho reso migliore la notte: di certo
non ho peggiorato la mia - .
Pensa all'Italia, mentre imbocca il vicolo che
finisce contro il parcheggio.
Pensa a Maria, al suo viso di oriunda
Portoghese, al calore dei grandi occhi liquidi
e alla massa di capelli neri in cui è bello
affondare le dita.
Oltrepassato un incrocio, sente un sommesso
guaire, una voce strozzata e il suono
molliccio, osceno, di tonfi che si succedono
rapidi. Suoni strani e inquietanti.
Deve essere poco più avanti, riflette, forse
oltre quell'angolo che intravvede
nell'ingannevole luce dei lampioni. E già,
senza neppure rendersene conto, vecchie
lezioni di tattica e di tecnica di
avvicinamento affiorano nella sua mente,
richiamate da inconsci meccanismi, stimolate
forse dalle ombre che lo circondano.
Pochi passi ancora e scorge un gruppo di
bidoni stracolmi di spazzatura. I rumori
provengono proprio da lì, da dietro il mucchio.
Lo supera con cautela, ginocchia flesse e
braccia in avanti a proteggere il tronco e la
testa, proprio come gli era stato insegnato,
come lui aveva tante volte insegnato alle sue
squadre. I piedi poggiano cauti, toccano
delicati con la punta delle suole di para.
Lentamente saggiano il suolo per avvertire
eventuali ostacoli, oggetti che potrebbero
fare rumore o sbilanciarlo.
Automaticamente le mani sfiorano il corpo
laddove un tempo avrebbero trovato il
cinturone tattico e l' equipaggiamento. Questa
volta però niente pugnale, niente pistola.
C'è un uomo, infagottato in un giaccone a
riquadri rossi e neri, un modello da boscaiolo
molto comune in tutto il Paese.
Impugna un lungo oggetto, forse un manico di
scopa o un tubo di ferro, col quale sta
colpendo selvaggiamente quel che sembra solo
un mucchio di pelliccia scura. Un grosso cane,
pensa, altro non può essere, ma l'ombra dei
bidoni non gli permette di distinguere meglio.
E dire che nel reparto lo chiamavano Occhi,
per la straordinaria capacità di vedere nel
buio quasi totale.
I colpi si susseguono ai colpi, implacabili;
il povero animale reagisce sempre più
debolmente, con lamenti ora quasi
inavvertibili. Un tratto di corda, forse il
guinzaglio?, trattiene l'animale a una grata
di ferro.
Fa un altro passo avanti mosso da un istinto,
da un senso di rivolta per la violenza di
quella scena. Una violenza che prende alla
gola come il tanfo di carne putrescente.
- La smetta! Si fermi! Non vede che lo sta
ammazzando!? -
Gli è uscito così, automaticamente e il tono
non è quello di sempre. È tornato metallico,
un timbro di voce che un tempo provocava
obbedienza, che faceva scattare gli uomini.
Quello si gira e può così vederlo in faccia.
Un viso grossolano, largo, forse slavo. È alto
più di lui di una diecina di centimetri e
grosso, molto grosso.
Urla ancora, e così vicino che scorge lo
scintillio di due molari d' oro.
"Stop you"! -
Ma non pare neanche avvertire l'ordine. Come
in un rallenty una spalla si inarca,
venendogli incontro.
Flash di pochi istanti inondano la mente.
L'odore acre dei corpi sudati, il frusciare
dei piedi sul tatami, le ore di palestra, e i
combattimenti simulati e i katà ripetuti
migliaia di volte, incessantemente. Gli urli
dell'istruttore, secchi come schiocchi di
frusta. Cose mai lasciate, mai veramente
svanite.
La reazione è istantanea, deflagrante, lento
al confronto il movimento del bastone che sale
verso il suo viso, molle come il volo di una
piuma.
L' adrenalina scende nelle vene a torrenti
mentre la mano corre ad incontrare il polso. È
pesante, parecchio più di lui, ma la presa è
perfetta. Una rotazione rapida e bruciante ed
è come se non fosse lui, lì sul marciapiedi
dove gli sembra di essere spettatore e non
protagonista.
Non ha bisogno di pensare. Il corpo, i suoi
muscoli agiscono in un riflesso condizionato,
sanno già cosa fare, ad una velocità sempre
maggiore, nonostante gli indumenti lo
impaccino. Colpisce ripetutamente sia col
pugno che di gomito e il tubo vola tintinnando
sull'asfalto. Perché tanti colpi? Forse
sarebbe bastato il primo... ma aveva appreso
ad una scuola in cui la cavalleria non gode di
troppa considerazione.
Devi badare al sodo - gli avevano insegnato. -
L'avversario va ridotto in condizioni di non
nuocere e non semplicemente messo a terra.
Altri ne potrebbero comparire dal buio e
quello che credevi fuori gioco può riprendersi
e arrivarti alle spalle. In certi frangenti è
un rischio che non puoi correre.
Vede un'espressione di sorpresa sul largo viso.
Sente la gamba che si solleva, mentre tutto il
corpo ruota, accumula energia e la concentra
nel piede. Energia bianca e fredda.
Vorrebbe fermarsi, bloccarsi lì ma ha nella
mente il rigagnolo di sangue e orina che esce
di sotto il ventre del cane. Vede rosso e non
capisce più niente e il piede arriva,
esplosivo all'altezza dello sterno e sente
l'urto rimbalzare indietro, su per la gamba
fino all'addome. Avverte lo schianto delle
ossa, prima che il giaccone rosso e nero venga
scaraventato con tutto ciò che contiene sul
mucchio di bidoni che rotolano ovunque,
vomitando lattine di coca e frutta marcia.
Resta lì ansimante, il cuore che batte e
sembra invadere il petto e il vicolo.
Le mani gli tremano violentemente, le braccia
e il corpo tremano.
Non sa che fare. Si sente stordito e non
s'accorge della pioggia che gli cola sul viso,
giù per il collo, fino alle mutande.
Parrebbe che nessuno si sia accorto di nulla.
La pioggia deve aver smorzato i suoni, eppoi
in quella zona sono tutti magazzini e negozi.
Guarda per terra il cane, non l'uomo di cui
scorge solo le scarpe e le caviglie.
Guarda il cane, solo lui.
In ginocchio cerca di capirne lo stato. Gli
alza una palpebra e assurdamente gli sembra la
scena di un film di John Waine. Gli tocca la
pupilla. Nessuna reazione. Le mandibole sono
socchiuse in un ghigno che scopre denti
frantumati.
Un muso un po' troppo a punta, zampe un po'
troppo corte per essere di razza ma neppure un
bastardo meritava di morire a bastonate su un
marciapiedi di Yonge Street.
Le mani pulsano e sente le nocche cominciare a
dolere e gonfiarsi come ciambelle sotto
l'azione del lievito di birra, tanto che fa
fatica ad aprire lo sportello.
Speriamo non ci sia niente di rotto.
La mattina dopo scappa dall'appartamento più
presto del solito, più in fretta del solito,
in disordine, sorprendendo anche l'ingegnere
pakistano della porta accanto che lo conosce
tranquillo e misurato.
Il Globe and Mail, il più importante
quotidiano dell'Ontario, è lì, al solito posto
nello scatolone di rete metallica, sull'angolo
di Forest Manor Road.
Monetine. Pagine e pagine per trovare quella
della cronaca nera. Magra, perchè non sono
molti gli avvenimenti di quel genere in una
città come Toronto, anzi in un Paese ordinato
e civile come il Canada.
Benessere, un sistema sociale ben congegnato
ed equilibrato, civismo innato? Difficile
dirlo. Comunque lui non ha una risposta, non
quel giorno, ma solo una domanda, altro non
gli importa in quel momento, non potrebbe
fregargli di meno.
"A MAN DEAD BESIDE A DEAD DOG!"
I caratteri in grassetto sembrano uscire dal
foglio e appiccicarsi al suo viso sudato.
Puzzano di inchiostro appena spalmato o è la
sua fantasia? Ha le vertigini, vorrebbe
vomitare, lì sulla strada. Si sente come
drogato, anche se quella robaccia non l'ha mai
provata in vita sua.
Semplicemente, pensa che se lo fosse si
sentirebbe così. Passa una signora elegante
con un barboncino bianco al guinzaglio. Sono
uguali, stesso incedere legnoso e a scatti,
stessa espressione distante e un po' vanesia.
Stesso colore di pelo e capelli. Stessi
riccioli. Lo guardano entrambi.
Chissà perché nota quegli inutili particolari.
Forse perché tutto è meglio di quel titolo, di
quelle poche parole alte così.
Risente lo scricchiolio delle ossa, anche un
sospiro, un rigurgito, ma forse quelli sono i
suoi. Il rivolo liquido sotto quel mucchio di
pelo ancora caldo, il ghigno sui denti. Una
morte disperata e incomprensibile, un dolore
che arriva inspiegabile, dalle mani di chi
magari è vissuto con lui per anni.
Una foto. Sull'uomo un lenzuolo. Nudo e quasi
bianco nel lampo del flash il cane. Lui
nessuno ha pensato a coprirlo. Lui, cane fino
alla fine.
"La Polizia sta indagando sul misterioso fatto
di sangue che ha coinvolto un nostro
concittadino ed un cane, entrambi trovati
morti in un vicolo nei pressi di Yonge Street.
Previsti per domani i risultati dell'esame
autoptico. Le Autorità si chiedono..."
L'edizione del giorno successivo puntualmente
specificherà tra le altre cose: "...frattura
multipla della mandibola e di quattro costole
e il setto nasale deviato. Perforazione di un
polmone e arresto cardiaco."
Nausea e vertigini. Mi sento invaso dal sudore.
Poi una mano sul braccio. Una manica blu e in
cima dei gradi dorati. "Tutto bene? Qualcosa
non va? Si sente male?"
Un bel viso biondo, volenteroso e
interrogativo.
Sono tutti così i policemen canadesi. Biondi e
volenterosi.
"TO SERVE AND PROTECT" recita il motto del
Corpo. Sta inciso sul distintivo che gli
luccica sul petto.
"Beh - gli vien fatto di pensare - chi ha
protetto chi, quella notte in Yonge Street? E
pensa ancora - basterebbe che lo dicessi ora,
a quel viso pieno di lentiggini... sarebbe
sufficiente dire: "Sono stato io, l'ho
massacrato io quello lì... guardi le mani! Con
queste l'ho fatto... con queste..."
Quanti anni sono passati da allora, da quella
notte nel vicolo. Se solo non fosse stato così
pedante, così pignolo, forse Maria non si
sarebbe arrabbiata.
Forse non se ne sarebbe andata sbattendo la
porta e forse lui non sarebbe andato al
concerto e forse... forse... forse...
Quanti forse, quanti se.
Tanti e tutti inutili.
Tutti lì, scolpiti nella mente.
Ivo lo sgombracantine - parte I ******************
Traballante e sbilenco l'ape apparve
scoppiettando da Vicolo Ranocchi e inchiodò
davanti al bar. Ne discese una figuretta male
in arnese e così minuta da far apparire
spaziosa la piccola cabina.
Lo vedevo muoversi a scatti come un criceto
mentre gli occhi non cessavano di lanciare
intorno rapidi sguardi. La barba incolta e
scura e l'eterna camiciola rappezzata gli
conferivano un'aria da barbone ma chi
conosceva Ivo Bini detto Il Furtivo sapeva
bene che barbone non era. Semplicemente non
dava grande importanza alla forma. Quando
molti mesi prima aveva trovato quella camicia
nel corso di uno sgombro, gli era piaciuta
subito. L'aveva provata. Gli stava giusta
giusta. Un caso? Un segno del destino? Mah,
comunque non se l'era più tolta.
Di colpo si bloccò e dai jeans trasse un
rotolino di scotch e un foglietto sgualcito
che appiccicò sul cassonetto della spazzatura.
"BINI IVO SGOMBRACANTINE, DITTA REGOLARMENTE
AUTORIZZATA" e sotto "PORTO VIA TUTTO QUEL CHE
TROVO E NON VI CHIEDO UN SOLDO PERCIÒ NIENTE
SCHERZI SE C'È QUALCOSA CHE VI INTERESSA VE LO
PRENDETE PRIMA CHE ARRIVO IO".
Seguiva un numero telefonico.
Oramai era difficile fare un passo per il
centro storico di Bologna senza imbattersi in
uno dei suoi avvisi, grandi come una mano e
fatti con la fotocopiatrice. All'inizio gli
spazzini li strappavano ma lui pareva avere il
dono dell'ubiquità e le sue locandine pure.
Per uno che toglievano venti ne comparivano,
così avevano lasciato perdere.
- è il posto migliore - diceva sempre - lì
prima o poi ci capitano tutti! - e a forza di
patacchini era diventato un personaggio.
-Vedi, quello lì è Ivo - se lo indicavano per
la strada le signore - se hai bisogno di fare
spazio nella cantina o in solaio, chiama lui.
L'è cinein mo l'è una furia. Va come treno! -
Sì, perché Il Furtivo non stava fermo un
momento e, salvo i pisolini che schiacciava
nell'ape all'ombra di un platano, pareva non
riposare mai. Di giorno e di notte, a piedi o
più facilmente sull'ape stracarico di mobili
in equilibrio precario, lo si poteva
incontrare ovunque.
Io lo avevo conosciuto per caso nel
laboratorio di un amico al Pratello. Da allora
mi era capitato un paio di volte di scambiare
con lui due chiacchiere o di offrirgli il
caffè.
Un giorno mentre passavo dalle parti di via
Pietralata, regno un tempo di vecchie battone
e magnaccia, mi sentii chiamare da un androne.
- Dottore, Dottore! - per lui tutti quelli che
portano la cravatta lo sono - se ha un attimo,
venga su che ci faccio vedere qualcosa di
bello! -
Così scoprii che Ivo abitava lì. Scale strette
e malconce, ringhierina di ferro e, alta sul
muro, una impolverata madonnina di coccio
dall'aria rassegnata.
Primo piano. Dentro, una quantità esagerata di
mobili d'ogni genere, un vero bazar. Qualche
canterano dell'otto, sedie e soprammobili
ammonticchiati ovunque, un paio di vecchie
radio dai pomelli in bachelite rossiccia. In
un angolo un'elegante vetrina liberty e una
grande sagrestia settecentesca in noce, tante
cornici vuote, ombrelli malconci e un'aria di
chiuso come se nessuno aprisse mai le finestre.
Dal lampadario un Cupido grassoccio e dorato
puntava con aria sfiduciata la sua unica
freccia.
- Venga, entri e scusi il disordine... da
quando non c'è più mia mamma... io con le
faccende domestiche non ci so mica molto fare
eppoi sa com'è, con il lavoro...-
Sgusciava tra tutta quella roba come
un'anguilla. Compariva e scompariva di
continuo e gli stretti passaggi parevano fatti
a misura delle sue microscopiche dimensioni.
Lì nel suo mondo sembrava un altro. Aveva
perso i modi circospetti che gli avevano valso
il soprannome e non la smetteva di illustrarmi
questo o quell'oggetto. Di ognuno si ricordava
dove lo aveva trovato e in che circostanza, il
nome della ex-proprietaria, tutto insomma.
Non facevo in tempo a fermare lo sguardo su
una cosa che già lui mi trascinava avanti.
- Guardi, guardi questo qui! Vede? Puro
Liberty! E guardi 'sta cassapanca...vede?
Tutto noce massiccio...senta, senta che peso!
A dir il vero è piena di roba. Tant'è che
quella volta, saran tre mesi, mi dovetti fare
aiutare da Stufilein, quello sfaticato. La
portammo via così piena perché non trovavano
più la chiave. Quaderni... vecchi registri del
nonno che doveva essere un fascistone o roba
del genere. Pensi che non l'ho ancora aperta.
Appena trovo il tempo... -
Stufilein, un ex manovale chiamato così perché
fischiettava di continuo canzoni di San Remo,
completava la forza lavoro della Premiata
Ditta Bini Ivo, che però ricorreva a lui
quando proprio non poteva farne a meno. Di
solito Ivo si arrangiava da solo, con l'unico
aiuto di qualche metro di cinghia da
tapparella.
Su quella schiena di bimbo riusciva a caricare
le cose più incredibili.
- Il segreto sta nel trovare il giusto
equilibrio - tagliava corto, con rapidi gesti
e il busto tutto curvo in avanti.
Lo avevo perso di vista in quella specie di
deposito, tra bei mobili e orrendi zavagli per
i quali pareva avere una strana simpatia.
All'improvviso mi comparve davanti, come un
folletto.
- Cos'è che le volevo mostrare, ch'an m'arcord
piò? Ah, sì, certo, la Silviona! è di là,
venga. Che gliene pare, non è stupenda? L'ho
chiamata così dal nome della proprietaria.
E con gesto solenne, come un ministro
all'inaugurazione di un monumento, strappò il
lurido lenzuolo, scoprendo un lungo e basso
buffet anni sessanta impiallicciato in
ciliegio. Sfavillante di coppale e arricchito
da vetri con scene campestri e leggiadri
piedini d'ottone a punta, mi parve davvero
orripilante specie se confrontato con la madia
che gli stava accanto.
- Questo qua non lo do via - e con gli occhi e
la mano ne sfiorava amorevole la superficie
lucida come una caramella appena leccata - ma
se c'è qualcosa che le interessa lo dica pure.
A lei ce la do e le faccio pure bene, Dottore!
- Quel misto di animalesca furbizia e di
ingenua ignoranza mi aveva preso in simpatia
fin dal primo giorno. Forse perché non avevo
mai cercato di approfittarne o forse perché,
diceva, tanti anni prima aveva sgomberato il
garage di mia nonna.
- Una vera signora, sua nonna e che cuoca! Me
la ricordo, sa? Assieme al caffè mi offrì
della torta squisita.
- Questa è casa mia, sa? - e mi fissava con
piccoli occhi da mustelide - mica un negozio.
Mai portato nessuno qui. Lei è il primo, sa? -
Sì, capivo che lo aveva detto d'impulso ed ero
portato a credergli.
- Guardi qui, ne vuole qualcuna? - era già
sparito, piegato in due dentro a un baule da
viaggio e ricomparendo dopo un attimo con una
scatola da scarpe in mano.
- Questa viene da via Gandino, una zona di
signori, vedesse che case! Chissà perché le
misero in cantina, comunque sono più di
duemila, vede?- Roba da non credere!. Un
mucchio di monete da 500 lire, di quelle
d'argento con le caravelle.
La scatola ne era piena, alcune opache ed
ossidate, altre ancora lucide e brillanti. Gli
occhi gli sfavillavano di piacere nel vedere
la mia sorpresa davanti a quel piccolo tesoro
e intanto ne muoveva la superficie con leggeri
colpetti delle dita. Lentamente, come se
godesse a sentirne il debole tintinnio.
- Uno di questi giorni vado da Gaudenzi a
sentire cosa mi dà.Veramente lo dico da un
pezzo poi vengo qui, le guardo, le rimescolo e
mi pare di essere Paperon dè Paperoni - e giù
una risatina che scoprì piccoli denti come
chicchi di riso.
- Ci guardi, ci guardi pure con comodo, che
intanto vado di là a fare il caffè...perché un
caffè lo prende, vero Dottore?
Lo sentivo trafficare in cucina. Distratto mi
guardai intorno senza quasi vedere ciò che mi
circondava.
Troppo spesso, pensavo, incontriamo persone
che per fretta o superficialità o perché ci
appaiono troppo diverse da noi non degnamo
d'uno sguardo. Le teniamo a distanza, le
ignoriamo, inconsapevoli che dietro a un viso,
a un comportamento impacciato si nascondono a
volte sentimenti feriti o un animo logorato da
anni di fatiche e di frustrazioni.
Sedevo nella grande cucina e guardavo il sole
giocare tra i puntini di polvere sospesi
nell'aria. Mentre la Bialetti sbuffava odorosi
baffi di caffè, Ivo mi raccontò la storia di
un padre mai stato e di una madre sempre a
letto.
- La pensione era sempre più striminzita
Dottore o meglio erano le medicine che
crescevano, di numero e di prezzo - e mentre
ricordava si passava a pettine le mani nei
capelli crespi e grigi. Fuori, sul davanzale
coperto di cacche due piccioni si arruffavano
per un'invisibile briciola.
- Non avevo un mestiere ma l'ape sì, non
questo un altro. Così vent'anni fa cominciai a
dire in giro che facevo sgomberi.
- Riguardati, - mi diceva mamma - attento alla
schiena che sei un scricciolo. Fa puliid -
- Lei il bolognese lo capisce, vero Dottore?
Si raccomandava che facessi attenzione, che
con quelle robe pesanti è facile farsi male.
Ma io ero robusto o forse nostro Signore mi ha
dato una mano perché in tanti anni mai neppure
un graffio. Così con il mio ape ho svuotato le
cantine di mezza Bologna. Me la sono sempre
cavata. Non passò molto che i signori
antiquari, quelli del Centro, cominciarono a
venirmi a cercare, corteggiandomi. - - Ora che
ho di più di quel che mi serve sono rimasto
solo... ancora del caffè? Mamma se n'è andata
tre anni fa , fratelli non ne ho, figli
neppure. Del resto chi se lo sarebbe mai preso
uno sfigato come me? - e sorrideva , ma gli
occhi mica tanto.
Quella sera tornai a casa meditando sui casi
della vita, pensando a quell'ometto e cercando
di ricordare una sua frase, qualcosa che aveva
detto e su cui avevo tentato inutilmente di
ottenere spiegazioni. Ivo invece aveva
tagliato corto.
Avevo avuto l'impressione che fosse
imbarazzato, che si vergognasse. Qualcosa che
riguardava delle suore... ecco, sì, delle
suore! Un convento o un istituto condotto da
religiose, dove lui era stato più volte, il
perché non lo so. Mi pareva che avesse parlato
del Meloncello.Curioso mi ripromisi di fare un
tentativo alla prima occasione.
Lo trovai, infatti, e proprio dove pensavo. Un
piccolo istituto, una casa dove alcune suore
ospitavano delle persone affette da gravi
malformazioni, fisiche o psichiche.
- Certo che conosciamo Ivo - ammise l'anziana
Superiora stringendo forte le mani, con un
sorriso che presto si appannò di
preoccupazione - perché, gli è successo
qualcosa? No, vero? Una persona tanto a modo,
così generosa e disponibile! Lo conobbi in
ospedale, quando ricoverò la madre, tre ,
forse quattro anni fa. Era molto malata e anni
di trascuratezze avevano aggravato il quadro
clinico. Rimase lì circa un mese e in quel
frangente ebbi modo di parlare a lungo sia con
lei che con il figlio. Persone cui la vita
aveva dato poco di cui rallegrarsi e molto di
cui dolersi, ma che tuttavia non serbavano
rancore.
Capisce cosa intendo, vero? -
- In seguito quel buon giovane, così schivo e
ritirato, venne a trovarci portando tante cose
che erano della povera mamma. -
La Superiora mi raccontò così delle molte
gentilezze ricevute, di quanto quel giovanotto
fosse paziente e disponibile anche con le
povere creature ospiti della Casa, come lei la
chiamava.
- E le assicuro che con loro, di pazienza ce
ne vuole tanta!
Quando però mi resi conto che mi credeva un
poliziotto o qualcosa del genere, imbarazzato
bofonchiai un saluto e sgombrai velocemente.
Fuori, per strada, rimuginavo. Mi sentivo
confuso e i pensieri si accavallavano
tumultuosi, così aggrovigliati da non riuscire
a dar loro un ordine, una collocazione.
L'indomani dovetti allontanarmi dalla città
per lavoro e pensai che fosse un bene. Mi
sarei distratto e tutto si sarebbe sistemato.
Al mio ritorno invece bastò la vista del
familiare bigliettino su una colonna della
stazione per risvegliare in me l'immagine di
Ivo, solo in quella grande casa piena di
mobili e cianfrusaglie.
Venti minuti di buon passo ed ero sotto casa
sua. A quell'ora della sera la strada aveva
perso l'aria pittoresca che tanto colpiva i
turisti durante il giorno. Ora, buia e sporca
faceva tristezza e un pò paura. Mi strinsi nel
cappotto mentre allontanavo un cagnetto che
con aria speranzosa aveva preso ad annusarmi
il pantalone.
- Ecco - pensai nervoso - adesso ci vorrebbe
solo che 'sto qua mi pisciasse addosso! -
Non sapevo che pesci pigliare. Era tardi,
quasi le undici, e io non conoscevo abbastanza
le abitudini di quell'uomo. Per esserci in
casa c'era di sicuro, perché l'ape stava lì,
in un cantuccio del cortile e Ivo non andava
mai in giro senza, ma... se fosse stato già a
dormire, che figura ci avrei fatto?
Dopo un attimo di indecisione e anche per
cavarmi di dosso quell'animale appiccicoso
come una cicles, imboccai le scale al buio.
Del resto non sapevo neppure dove fosse
l'interruttore eppoi erano solo tre rampe.
Trovai la porta a tentoni e cercai,
smanazzando sul muro, di ritrovare il vecchio
campanello.
Evidentemente toccai la porta, perché sentii
uno scricchiolio e una lama di luce tagliò il
buio che mi circondava.
- Come in un film di Dario Argento - pensai -
e spinsi il battente, dandomi mentalmente del
coglione.
Meglio così - mi dicevo - se c'è la luce
accesa, significa che Ivo è ancora alzato.
- Hei, di casa, c'è nessuno? Ivo... sono
io...disturbo? - e intanto avanzavo esitante
per il corridoio, certo che da un momento
all'altro mi sarei trovato di fronte il
padrone di casa in mutande o peggio. Del resto
uno in casa propria ha diritto di stare come
gli pare, no? Ecco lì il canterano e gli
ombrelli ...
l'attaccapanni nero coi riccioli di ferro...
- Hei, Bini, posso entrare? ... Guardi che lei
ha lasciato tutto aperto! -
Varcai la porta del soggiorno. Anche lì luci
accese, per quel che potevano fare poche
lampadine da 40 watts coperte di ragnatele.
- Nel cesso, ecco dov'è, è logico, e da lì non
ha potuto sentire i miei richiami. Magari
adesso esce con le brache in mano ed io... -
Ecco lì la madia e la grande sagrestia ...Ehi,
no, un momento, la sagrestia non c'era più!
Avanzai nel camerone per vedere meglio,
incuriosito. No che c'era la sagrestia, solo
che era rovesciata a terra e dal corridoio
rimaneva nascosta da qualcos'altro. C'era e
dal di sotto spuntava un paio di piccoli piedi
scalzi. Un po' più in là una cassettina di
legno con arnesi d'ogni genere. Davanti, una
manciata di viti e chiodi di varie misure
sparpagliati a terra.
Rimasi come congelato, lì nel mezzo del
soggiorno, un braccio alzato in avanti e, di
sicuro, la bocca spalancata.
- Ma no, noo, non è possibile...- Fissavo quei
piedi e quei calzini. Uno era rammendato, il
sinistro.
Assurdamente pensai che era stata una
sciocchezza andare intorno al mobile senza le
scarpe nei piedi, così scalzo, e con tutti
quei chiodi in giro. Poi volsi lo sguardo e
vidi il telefono.
Arrivarono in pochi minuti, anche perché il
Comando della Legione Carabinieri era lì a due
passi. Prima due pattuglie, poi una ambulanza
con le sirene spiegate che svegliarono tutto
il quartiere. Per ultimi, chissà a che
servivano, quattro vigili del fuoco nei loro
giacconi arancione.
Io mi aggiravo per le stanze. Mi pareva di
galleggiare, di non toccar terra coi piedi.
Come Dio volle arrivò anche il magistrato, un
tale in jeans e piumone. Ma non dovrebbe
portare la cravatta, un magistrato? Fu
autorizzata la rimozione del corpo.
La pesante credenza l'avevano già alzata con
l'aiuto dei pompieri( che li avessero chiamati
per quello?), ma io non me l'ero sentita di
guardarci sotto.
Ora facevano foto a tutt'andare e i lampi dei
flash baluginavano tra comodini e canterani.
Pareva ci fosse un temporale. Erano in tanti
ad affacendarsi attorno a quei poveri piedini
rammendati e a me parve così grottesco che
temetti di scoppiare a ridere.
- è stato lei a scoprire il corpo ? -
Mi girai perché quella voce si rivolgeva a me.
Apparteneva - vidi - ad un ossuto spilungone
con i gradi di maresciallo. Le mani,
lunghissime e rosee, spuntavano con tutto il
polso dalla manica della giacca bordata di
rosso che sembrava appartenere a qualcun altro.
Dalla parlata doveva essere veneto. È curioso
come in certi momenti si notino i particolari
più assurdi e inutili.
Con una certa rapidità raccolse la mia
dichiarazione. Come mai mi trovavo lì...
se avevo mosso qualcosa, ecc., ecc.
Era quasi l'una quando potei imboccare il
corridoio per andarmene. Certo che era ben
insensato e paradossale che uno morisse
schiacciato da un armadio dopo aver trascorso
una vita intera a caricarli e scaricarli!
Assurdo e strano, molto strano e
all'improvviso capii cos'era cambiato in fondo
al corridoio. Tornai indietro di corsa,
affannato.
- Maresciallo, Maresciallo! Avete spostato voi
la cassapanca che stava laggiù? - No, non ne
sapevano nulla, loro, di una cassapanca, e,
vagamente infastiditi data l'ora,
riabbassarono la testa sui moduli.
Me ne andai. Ma la cassapanca l'ultima volta
stava là e ora non c'era più.La cassapanca
piena di carte, quella che Ivo non aveva avuto
il tempo di aprire, quella del vecchio che era
stato un fascista importante, sessant'anni
prima. E se anche le carte fossero state
importanti, MOLTO importanti per qualcuno?
Certo, poteva anch'essere che Ivo l'avesse
spostata altrove o che l'avesse venduta... ma
le carte, tutte quelle carte che ci dovevano
essere dentro? Eppoi, mettersi a lavorare
intorno a un mobile senza le scarpe, lui che
di mobili ne sapeva ...
Ne parlai col maresciallo e anche con altri,
finché mi feci la nomea del rompicoglioni.
- E il fatto che fosse scalzo, non è sospetto?
- insistevo io-
- Naturale che è sospetto, infatti sospettiamo
che fosse ubriaco fradicio! Su su, vada a casa,
Dottore! Vada a casa e ci lasci fare il nostro
lavoro - E la cassapanca? Dov'era finita la
cassapanca? - Ma come facciamo a sapere dove
ha messo quella benedetta cassapanca!? Guardi
che abbiamo controllato e non c'è da nessuna
parte, quindi vuol dire che l'ha venduta.
Niente di strano, e quello lì mica si faceva
fare la ricevuta fiscale! Macché sparizioni,
macché misteri, è tutto chiarissimo, invece!
Quel fesso lì se lo è tirato addosso,
l'armadio, altro che mistero! Pure del vino
rosso gli hanno trovato nello stomaco,
quindi... e non ci parli ancora della porta,
che era aperta. La Scientifica ha controllato
e ha stabilito che la serratura non è stata
forzata e che è logora e in pessime condizioni.
Probabilmente il Bini quella sera ha creduto
di chiudere e in realtà lo scrocco non scattò
-
Così liquidarono tutta la faccenda, senza
indagini, senza niente perché Ivo Bini non era
nessuno, solo uno sgombracantine, uno che
probabilmente viveva di espedienti, ebbero il
coraggio di dire. Ma io sapevo che non era
così e quella cosa sugli espedienti fu ciò che
mi ferì di più. Aveva fatto per tutta la vita
lo sgombracantine, vero! Ma in modo pulito e
non vivendo di espedienti. Come una ballerina
dev'essere per forza una poco di buono, così
uno sgombracantine doveva per forza esser
stato un mezzo delinquente, uno sulla cui
morte non valeva la pena di perder tempo.
E questo è tutto.
Per ora.
Ivo lo sgombracantine - parte II **************
Angolo galleria del Toro e via Testoni.
Risalendo via Ugo Bassi mi ero fermato da
Altero per una pizza e una coca.
- Continuando così - mi dicevo - ti farai
venire l'ulcera -. Stavo sull'incrocio da una
decina di minuti. L'acquerugiola mi scendeva
sul collo e raffreddava la pizza appena
sbocconcellata. Distratto coglievo gli sguardi
perplessi dei passanti che mi vedevano lì a
prendere la pioggia al limitar del portico. La
mia attenzione era tutta su un quadratino di
carta poco più grande di una mano.
- BINI IVO SGOMBRACANTINE - si leggeva sulla
prima colonna - e una mano incerta vi aveva
scarabocchiato di traverso un perentorio
"ROBERTO TI AMO DA MORIRE!". E sotto un
anonimo moralista : "TROIONA!". Quelle
locandine mi perseguitavano. Ne trovavo
ovunque, su ogni muro e alle fermate del bus.
Avevo a volte la sensazione che palpitassero
di una sorta di luminescenza, come per
assicurarsi che non li avrei mancati.
Erano trascorsi tre mesi dalla sera del
funerale. Pioveva, allora come ora.
Poche persone strette nei cappotti, nascoste
sotto ombrelli lucidi come catrame.
Facce del Pratello, visi tirati, a disagio o
distratti, sguardi tra il perso e l'etilico,
l'espressione di circostanza di un paio di
donne anziane curiose della sofferenza altrui.
Da ultimo, un vecchio curvo sul suo bastone,
la faccia invasa da una grande voglia, rossa
come lambrusco. Fra tutti un incongruo
impermeabile giallo canarino con su scritto a
caratteri cubitali "LINES... E VOLI LIBERA
COME UNA PIUMA!". Già, libero... libero di far
cosa? Libero di morire sotto una credenza di
noce... e ora? Dove sarà ora? Chissà se
attacca patacchini anche là dove si trova.
Pensieri aggrovigliati come serpentelli,
elucubrazioni che non mi davano pace,
masturbazioni mentali che mi trovavano la
mattina stremato e scontento, ma di che cosa?
Morte per cause accidentali - si erano
affrettati a dichiarare gli inquirenti e a
quanto pareva andava bene a tutti. Magari era
pure vero.
Ma io continuavo a ripensare alle parole di
Ivo e alla cassapanca scomparsa.
Anche a casa cominciavano a guardarmi strano.
Coglievo i loro sguardi ansiosi.
Parevano chiedersi "Ma sta bene? Che gli
succede?". Sentivano la mia inquietudine,
intuivano che mi portavo dietro qualcosa di
greve. Qualcosa che non volevo o non sapevo
condividere e questo li rattristava e li
indispettiva .
Mi dicevo che le mie erano assurde fantasie
alla Steven King, che Ivo era morto da fesso,
magari con un litro di Lambrusco in corpo. Ma
qualcosa in me non si lasciava convincere e
scavava, scavava come il rodi-legno nel tenero
tronco di un pioppo.
Mi conoscevo, sapevo che non sarei mai
riuscito a buttarmi quella faccenda dietro le
spalle se non avessi almeno tentato qualcosa...
ma cosa? Non ero mica l'ispettore Sarti di
Loriano Macchiavelli e neppure Sherlock Holmes.
Da che parte cominciare? - mi chiedevo - e il
gesto di stizza che seguì per un pelo non
scaraventò a terra la vecchietta in nero che
mi stava passando accanto.
Basta! Così non potevo andare avanti!
A casa, quella sera, cercai di apparire a
tutti più calmo, normale insomma.
Appena possibile filai in studio. Avrei
ripreso fuori tutti gli appunti di quei giorni.
Le idee, le impressioni le avevo buttate sulla
carta, fermate su foglietti.
Appunti d'ogni genere, frasi mutile, frammenti
di una tragedia che a me solo dicevano
qualcosa, appigli per la mia memoria,
altrimenti così labile.
Era tutto lì nell'ultimo cassetto della mia
scrivania a serrandina, rollè dicono i colti.
Ecco... allora... vediamo... qua mi ero
scritto qualcosa riguardo gli ambienti che
frequentava. Un paio di bar, le osterie del
Pratello, anche Lamma, ma quella aveva chiuso
anni fa. Poi Stufilein, che dopo quella sera
non riusciva più a fischiettare.
Già, Stufilein... Allora glielo avevo
domandato della cassapanca ma pareva in trance.
Sembrava non rammentare più nulla in proposito.
Ma chissà, magari ora...
Amici veri e propri non ne aveva. Solo il
lavoro e la madre da accudire, poi le suore.
LE SUORE!
Qual è il bus che va al Meloncello?
Il modesto ingresso dell'istituto sapeva di
pulito. Tutto era come l'altra volta. Da
dietro la porta chiusa filtrava il ticchettio
di una macchina da scrivere vecchia maniera.
La battuta era esitante. Spesso si bloccava e
tornava indietro. Al di sopra del semplice
divanetto una vecchia carta geografica, di
quelle che un tempo ornavano le pareti di ogni
aula scolastica. CASSA DI RISPARMIO IN BOLOGNA,
diceva la didascalia. Un millennio prima che
andassero di moda certi imperscrutabili
acronimi. Carisbo, Rolo, Cariplo,
Biessegiessepi...
E un'ipotetica Cassa Udinese Liberi
Imprenditori cosa sarebbe diventata?
Cessò il ticchettio e comparve la Superiora.
Solo un paio di occhiali cerchiati di metallo
si erano aggiunti all'espressione composta e
tranquilla che ricordavo. Rosse e robuste mani
unite in una muta preghiera, il capo un poco
flesso da un lato. Occhi limpidi e buoni, del
tenero azzurro di certi bassorilievi del Della
Robbia.
Un attimo di esitazione quindi un luminoso
sorriso di riconoscimento.
- Buongiorno e perdoni l'attesa ma sa com'è...
neppure qui siamo esenti da burocrazia e io
sono proprio una dattilografa da poco! - D'un
tratto si fece seria. - Lei mi venne a
chiedere di Bini, vero? La prego,
accomodiamoci di là - Il piccolo refettorio
pareva l'anticamera asettica di una sala
operatoria.
Tutto luccicava e i lunghi tavoli di formica
verdina parevano nuovi di fabbrica.
In un angolo una madonna di gesso ci osservava
muta.
Accanto alla mano che si levava dal mantello
azzurro cielo un distratto aveva dimenticato
una scopa, così ora sembrava la Ma...donna
delle pulizie! - Che le posso dire di Ivo che
non le abbia già detto l'altra volta? - le
mani ora giocherellavano con la croce di legno
appesa al collo - ci aiutava e contribuiva con
tanta generosità al nostro povero bilancio.
Non passava giorno che non sentissimo il
rumore di quel vecchio triciclo a motore ...
ape lo chiamano, vero? Beh, insomma, ci
portava tante cose che pensava potessero
esserci utili. Ma non mi fraintenda. Utili lo
erano sempre!
- Se non vi servono - ripeteva spesso - potete
sempre venderle al Mercatino e farci qualche
soldo - Il Mercatino, sa, quello che
organizziamo per arrotondare i nostri magri
bilanci. Due volte all'anno mettiamo in
vendita ciò che non riusciamo a utilizzare.
Così ci portava di tutto ... povero figliolo.
Ci man...-
- Anche una cassapanca ? - la interruppi
d'impulso.
Suor Casimira si scosse dai ricordi,
guardandomi sconcertata.
- Cassapanca ... quale cassapanca? -
- Voglio dire ... per caso vi portò anche una
cassapanca di noce scuro? Intendo negli ultimi
giorni prima dell'incidente. -
- Nn..no, no! Nessuna cassapanca, no. Anzi,
quando venimmo a sapere della disgrazia era
già un po' che non lo vedevamo. Tanto che Suor
Cristina manifestò il desiderio di informarsi
se non fosse indisposto. Lei capisce, una
persona così sola ... Ma perché mi chiedeva di
una cassapanca? -
- No, niente di importante è solo che... la
prego, mi scusi se le faccio perdere tanto
tempo. Un'ultima domanda. Come avete saputo
ciò che era capitato? -
- Ma da Manaresi, naturalmente! E da chi
sennò?! Venne lui, apposta, il giorno
successivo. -
- Manaresi? -
- Ma sì, quello che tutti chiamano con un
buffo soprannome! La persona che a volte lo
aiutava nel suo lavoro. - Mi guardava incerta.
- Stufilein, per caso? -
- Ecco sì, proprio lui! È che io ancora col
bolognese non ho molta confidenza, anche se ho
lasciato la mia Bolzano trentacinque anni fa.
Certo, fu lui che ci informò. Avesse visto che
faccia aveva! Terreo come uno strofinaccio e
tremava tutto, così che lo facemmo sedere e io
stessa gli portai un bicchierino di cordiale.
Tutto d'un fiato lo mandò giù. Me lo ricordo
bene -.
Mi toccò di fare tutto il Pratello prima di
riuscire a rintracciarlo. Era appena
mezzogiorno e nelle poche osterie aperte di
lui non c'era traccia. Poi qualcuno mi disse
che Manaresi abitava accanto alla chiesa della
Grada, lì vicino.
Trovai la casa in fondo a un angusto cortile
ingombro di casse da imballaggio.
Nell'androne, stretto e buio, un fortissimo
odore di cavolo bollito mi aggredì alla gola e
al naso come qualcosa di solido. È strano,
pensai, che solo le povere case puzzino sempre
di cavolo. I casi sono due: o i ricchi non
mangiano mai certe verdure oppure i loro
cavoli puzzano di meno. Comunque, cavoli loro.
Appunto. Scale scomode e ripide fatte in
economia forse cinque secoli fa.
Appena l'indispensabile per salire e scendere.
Macchie di umidità sull'intonaco e scritte
oscene sovrapposte in strati successivi. Dal
tappetino di una soglia un gattino nero mi
fissava silenzioso e composto come una
chioccia in cova. In alto, forse tre piani più
su, sentii sbattere una porta. Passi
strascicati che scendevano cauti, i passi di
un vecchio. Il rumore secco di qualcosa che
aveva urtato il ferro della ringhiera. Salendo
alzai lo sguardo e appena sopra di me
intravidi i lembi di un cappotto scuro tra i
ritti neri del corrimano. Un bastone, anche,
col puntale di gomma.
Pochi gradini ancora e mi strinsi al muro per
farlo passare. Era abbastanza corpulento e si
girò di taglio anche lui ma dall'altra parte.
Per un attimo scorsi un viso largo, il rosso -
violaceo di un'ampia voglia e subito dopo una
chierica bianca. Il portone cigolò e fui solo.
Che strano, dov'è che avevo visto una voglia
uguale a quella?
Stufilein stava all'ultimo piano, mi avevano
detto. "Manaresi Luigi", diceva il semplice
cartoncino tenuto su con due puntine da
disegno.
Il rauco gemito del campanello echeggiò per
tutto l'androne, sgradevole. Niente.
Ritentai e questa volta si aprì una fessura
nel battente. Comparve una massa di ispidi
capelli bianchi. Un occhio mi guardava
interrogativo, un po' acquoso e madreperlaceo
per una evidente cataratta.
- Sììì? -
- Stufilein, vero? Mi perdoni Manaresi se la
disturbo qui a casa sua... Si ricorda? Ci
siamo conosciuti una volta che lei era con Ivo,
sotto un portico di Strada Maggiore. Passavo
di lì e voi stavate caricando sull'ape un
enorme armadio. Si rammenta, ora? -
- Ohh, certo, certo, come va dottore? -
- Permette che entri un attimo ... posso? -
- Ohh, certo, entri, si accomodi, venga ben di
là che c'è la stufa -.
Mi precedette, dandomi modo di osservarlo con
più comodo. I movimenti lenti ma ancora sicuri
e il viso cotto dal sole e coperto da una
fitta ragnatela di rughe ne dichiaravano
l'origine contadina o forse montanara e davano
al personaggio un'aria senza tempo. Un totem
indiano in abiti civili mi pareva e lo avrei
visto meglio paludato di daino e pelliccia
piuttosto che negli sformati pantaloni marroni
dalle cui tasche stava estraendo un mezzo
toscano. Dai vecchi infissi filtravano i
rumori del traffico della circonvallazione. Un
traffico che non dava pausa, neppure la notte
quando, anzi, a quello delle auto se ne
aggiungeva un altro, sui marciapiedi.
- Spero non le dia fastidio il toscano,
dottore. Una vecchia abitudine che mia moglie
sopporta a fatica ma, cosa vuole, di vizi non
m'è rimasto che questo! Ne approfitto perché è
a servizio e non può brontolarmi dietro -.
Parlava, nervosamente mi pareva, e andava
avanti e indietro per la stretta cucina senza
mai fermarsi.
Sembrava che cercasse sempre nuovi pretesti
per non stare fermo, per evitare il mio
sguardo. Una toccatina al fuoco nella stufa,
un'occhiata al traffico, e poi di qua, poi di
là spostando ora un oggetto ora l'altro,
girandomi quasi sempre le spalle. Io lo
guardavo agitarsi così e mi chiedevo quale
potesse essere l'approccio migliore. Lo
conoscevo poco. Poteva anche darsi che quello
fosse il suo abituale modo di essere. Magari
era timido.
- L'ha trovato lei, eh? - borbottò, girandosi
all'improvviso verso di me, il viso avvolto in
un penetrante sbuffo di toscano - e, afferrata
una sedia, mi si sistemò proprio di fronte.
Pareva essersi calmato, come se fosse
finalmente arrivato a una difficile decisione
ma in quegli occhi che fissavano i miei vedevo
dolore e preoccupazione e che altro ancora?
- Me lo hanno detto. Eppoi ricordo di averlo
anche letto sul Carlino che è stato lei a
chiamare la Celere (che per la gente di una
certa età sarebbe come dire la polizia). L'ho
vista anche al funerale...- Ma certo,
sussultai, il funerale! Ecco dove avevo visto
il vecchio con la voglia di vino e il bastone.
Era l'ultimo della fila al funerale di Bini.
Che bestia! Come avevo fatto a dimenticarlo,
che razza di memoria! Stufilein, che non aveva
taciuto un attimo, vedendo la mia espressione
si fermò interdetto.
- Cosa c'è dottore, ho detto qualcosa di male?
-
- No, no, mi è venuta in mente una cosa ... ma
vada, vada avanti, cosa diceva? -
- Oh, certo, certo. Dicevo che mi ero
meravigliato di vederla lì quel giorno.
Lei non era certo suo amico. Scusi sa, non
volevo mica mancarle di rispetto, ci
mancherebbe, ma così, volevo dire ... - E alzò
le spalle ancora forti e muscolose in un gesto
che voleva dir tutto e niente, sconforto e
dubbio, fatalismo e rabbia impotente. Con un
gesto analogo risposi io. Ci guardammo ancora
e ancora e con gli sguardi riuscimmo a dirci
ciò che non sapevamo tradurre in parole.
- Quella sera andai a casa sua perché pensavo
a quanto dovesse sentirsi solo fra tutti quei
mobili, così, per far due chiacchiere. E al
funerale ci andai anche se in effetti lo
conoscevo poco. Continuavo a pensare che non
poteva essere successo. Davvero. Morire a quel
modo... quei piedi che spuntavano da sotto la
credenza, così piccoli e assurdi. Non mi davo
pace e neppure ora me ne do, se è per questo.
Eppoi la scomparsa della cassapanca e
l'accenno di Ivo al contenuto... - In un gesto
di rabbia ghermii il toscano che giaceva sul
bordo di un piatto e umido com'era della sua
saliva, tirai con forza, riempiendomi i
polmoni di fumo denso come panna montata e nel
fumo lo guardai.
Era pallido come un morto.
- Ma allora lei crede... -
- No! Io non credo niente! So solo che fin
dall'inizio mi è parso che ci fossero delle
discrepanze. Bini non si ubriacava mai, me lo
han confermato anche nelle osterie. Sì, è vero
che beveva qualche bicchiere ma non tanto da
andar giù di testa. Poi la cosa di lavorare
scalzo e la porta aperta e la cassapanca
sparita: non esiste! Vede, signor Manaresi, la
polizia, gli Investigatori come pomposamente
si definiscono, hanno fatto tutto in fretta e
furia, accontentandosi di ciò che appariva,
senza approfondire. Non hanno cercato di
ricostruire gli ultimo giorni di Ivo, né di
capire davvero con chi avevano a che fare.
Come un mezzo delinquente lo hanno trattato! -
Nella foga della mia dialettica mi sbracciavo
e percorrevo la cucina a lunghi passi,
costringendo Stufilein a torcere il collo come
a una partita di tennis.
D'un tratto mi bloccai davanti a lui.
- Quel vecchio, quello con la voglia di vino
che ho incrociato per le scale...
chi è? Che ruolo ha in questa faccenda? Sarà
meglio che lei mi dica tutto! Del resto non
può essere una coincidenza che si trovasse al
funerale di Bini e ora qui in casa sua.
A dir il vero avevo bleffato un poco,
mostrandomi così sicuro. Avrebbe potuto
addurre più di un buon motivo per giustificare
la presenza del vecchio in casa sua. Invece si
afflosciò su una sedia e mi raccontò ogni cosa.
L'uomo con la voglia era stato l'attendente
del vecchio gerarca e ancora oggi sbrigava
piccoli lavoretti per la famiglia ricevendone
in cambio un modesto sussidio ed un alloggio.
- Lui sapeva che io lavoravo con Ivo, capisce?
e un paio di settimane dopo lo svuotamento
della loro cantina, nella grande villa sui
colli, mi venne a cercare. - Il fatto è - mi
spiegò - che qualcuno si era reso conto che
nel mucchio era finita anche la cassapanca e
si era ricordato che doveva contenere non so
quante carte e fotografie del loro congiunto.
Roba compromettente, non so. Vede, dottore, il
fatto è che il nipote, un tipo ambiguo e
introverso, ha recentemente intrapreso la
strada della politica, e non certo sul
medesimo versante del nonno! Di sicuro non
avrebbe mica gradito di essere messo in
relazione con fatti e persone di quel lontano
regime, capisce?
A quanto mi disse, avevano tentato di
riprendersi indietro la cassapanca ma Ivo, lei
lo sa come la pensava in proposito, si era
dimostrato irremovibile.
Pare anzi che fosse andato in bestia, dicendo
che i termini dell'accordo stavano ben scritti
sui suoi patacchini e che lui si ripagava con
ciò che trovava sul posto e che bastava che
togliessero prima del suo arrivo ciò che
preferivano tenere! Questo aveva detto e
ripetuto infinite volte a Lucchini (sappiamo
quanto capoccione potesse essere Ivo se gli
prendevano i cinque minuti!) rifiutando
perfino di trattare sul prezzo. Così venne da
me una prima volta perché voleva che
convincessi Bini a cambiare atteggiamento.
Pensi che arrivò a offrire tre milioni senza
cavarne un ragno dal buco. Poi un giorno venne
a cercarmi al Cantinone, l'osteria del
Pratello. Io stavo facendomi il solito mezzo
toscano innaffiato con un bicchiere di
Sangiovese: sa, così ci guadagnano tutt'e
due...
ma questo non c'entra. Si sedette al mio
tavolo e mi offrì dei soldi perché mi
occupassi di quella maledetta cassapanca. Come
- tirò via - per i suoi padroni non aveva
alcuna importanza. Non mi lasciava in pace! Mi
creda, dottore, non sapevo più come cavarmelo
di dosso, azzidant a cla penca e azzidant a
lo', n-noo non a lei... a quello là!! -.
Tirava su col naso intanto, mentre la grande
mano mandava di continuo indietro i capelli
ancora folti. Notai che aveva unghie ben
squadrate e in ordine.
- Lo mandai a quel paese, ma lui tornò il
giorno dopo e così... così dissi c-che che
avrei fatto del mio meglio - allargò le
braccia in un gesto d'impotenza che rivelò i
tre bottoni di un'antiquata maglia di lana.
Sbuffando si rificcò tra i denti il puzzolente
mozzicone e fissò torvo le auto di là dai
vetri appannati.
- E allora lei cosa fece? - lo incoraggiai,
ansioso.
- Io? Io non sapevo che pesci pigliare. Poi mi
venne un idea. Mi ricordai che spesso Ivo
teneva le chiavi di casa sotto al sedile
dell'ape e il giorno successivo approfittai di
una sua lunga sosta al bar per prenderle e
correre in ferramenta a farne una copia. Alla
fine della settimana Ivo - me lo aveva detto
al bar - sarebbe andato a vuotare un solaio in
Saragozza.
- Lavoro lungo e anche scomodo, ma non più di
tanto - aveva aggiunto - potendo adoperare
l'ascensore -.
- Decisi che lo avrei fatto allora. Aiutato
dal Lucchini e con un carretto che mi ero
fatto prestare, ce la cavammo in meno di un
quarto d'ora e senza che ci vedesse nessuno.
Cerchi di capirmi, dottore! Non l'ho fatto per
i soldi! Sono ancora tutti di là, nascosti per
via di mia moglie. Quello non mi lasciava in
pace e pensai che Ivo di mobili ne aveva tanti
e che uno in più o uno in meno avrebbe fatto
poca differenza e così... -.
Mi raccontò tutto, mentre la stufa,
dimenticata, lenta si spegneva e il cielo
sfumava silenziosamente al nero.
Mi raccontò che avevano scaricato il mobile in
un garage della periferia e riportato il
carretto al proprietario e mi disse anche
quanto denaro aveva ricevuto. Particolari che
poco m'importavano, perché erano ben altre le
cose che volevo sapere.
- Bene! Adesso non ci rimane altro che andare
a trovare quel signore, il Lucchini. Lui è
l'unico che può dirci il resto. -
- Ci!?!- chiese sgomento Stufilein.
- Certo, "ci" perché viene anche lei. Non può
tirarsi indietro, oramai!
Un'ultima domanda ... e le chiavi? Che fine
hanno fatto le chiavi di Ivo? -
- PORCA...! Quelle non me le sono più
ritrovate. Le cercai, è vero, quando andammo a
rendere il carretto, ma senza trovarle.
Lucchini disse che probabilmente le avevo
perse lungo la strada. Erano due sole e
piccole, così non ci pensai più -.
- Sa invece cosa penso io? Penso che le chiavi
se le sia messe di nascosto in tasca il suo
amico ... -
- NON È IL MIO AMICO !! -
- ... e penso anche, non m'interrompa, che sia
tornato ancora là, magari quella sera stessa,
poco prima che arrivassi io, per controllare
che non ci fossero in giro altre cose del suo
padrone, da schiavo fedele qual era.
Forse Ivo lo sorprese a frugare per casa e lui,
preso dal panico, ha inscenato l'incidente del
credenzone che crolla sul povero Bini. Sì sì,
più ci penso e più mi convinco che le cose
siano andate proprio così. Allora si spiega
come la serratura non mostrasse segni di
scasso ... VENGA! -.
Meno male che Manaresi conosceva l'indirizzo
dell'uomo con la voglia di vino.
Erano già quasi le otto di sera ed era
probabile che lo avremmo trovato in casa.
- Vive solo - aveva aggiunto il mio compagno
di avventure - vedovo da alcuni anni -.
- Meglio - borbottai cupo tra me e me - così
non ci disturberà nessuno -.
I palazzoni, lunghi e tutti uguali sembravano
immagini in bianco e nero di vecchi
cinegiornali anni '60.
Neppure le piante, cresciute alte rigogliose,
riuscivano a nascondere la stanchezza dei
lastroni di calcestruzzo prefabbricato
costellati di crepe e macchie d'umidità. Il 48
era l'ultimo dell'interminabile edificio. A
quell'ora della sera la strada era deserta,
salvo una coppietta di teen-agers che in
silenzio si sbaciucchiavano su un vespino.
Ambedue paludati di nero come prescrive
l'attuale moda giovane (sponsorizzata da
qualche potente lobby di necrofori?!) ben
s'intonavano con le ombre e i colori
circostanti.
Le asfittiche scale in cemento grezzo e le
ringhiere di tubo metallico parevano la
versione high-tech delle poetiche casette del
centro storico, povere anch'esse, sì, ma
ricche di patina, storia e umanità.
Primo piano ... Voci di bambini, stracci di
discussioni familiari, l'eco di un alterco tra
donne, usci che sbattevano. Un televisore
intonava il motivetto del solito detersivo.
Niente odor di cavoli qui, ma quello nauseante
dell'urina di gatto. Fumo stantio anche.
Meglio il cavolo.
Manaresi mi indicò una porta grigia sul fondo.
Suonai, o meglio schiacciai il pirolo del
campanello perché non si udì alcun suono.
Riprovai. Stesso risultato.
Ci guardammo in faccia. Forse era già uscito o
non era ancor rientrato...
- E se il campanello fosse rotto? - osservò
Stufilein.
Giusto, poi mi venne un'idea e gli feci cenno
di seguirmi. Tornai all'esterno. I due in nero
nel frattempo erano rientrati, forse
richiamati all'ordine dalle rispettive
famiglie o, più semplicemente, da un piatto di
pasta.
Camminai verso il fondo della casa facendo un
rapido calcolo dei passi, fino a trovarmi,
almeno così mi parve, sotto le finestre del
nostro uomo.
Vidi che una era illuminata e schermata da una
tendina a fiori.
Sì, doveva essere per forza la sua.
Due metri, forse qualcosa di più, mi
separavano dal davanzale.
- Aspetti qui! - e andai a recuperare l'auto
che avevamo lasciato in cima alla via. È un
fuoristrada, alto e dotato di portapacchi e
forse forse... - Infatti ci arrivava giusto un
pelo sotto.
Veloce mi arrampicai sul tetto della macchina
e di lì potei comodamente sbirciare da un
angolo della finestra, il naso ficcato tra le
foglie secche di un geranio imbalsamato.
Sperando che non capitasse nessuno a curiosare.
Era la camera da letto. Intravedevo un angolo
del materasso, per il resto nascosto dalla
sporgenza di un grosso armadio. Se mi spostavo
un po'... ecco ora riuscivo a vedere di più...
un paio di gambe nude... ancora un metro.
L'uomo era immobile, gli occhi spalancati
verso il soffitto, la bocca semiaperta che
lasciava intravedere la lingua.
La voglia sul viso pareva ora ancor più scura,
di un color viola melanzana, quasi nera.
Addosso, soltanto mutande vecchio stile,
quelle col tessuto che s'incrocia davanti.
Rimasi lì, gelato da ciò che vedevo, incapace
di muovere anche un solo muscolo.
Impossibile che sia vivo - continuavo a
ripetermi - impossibile che uno dorma a occhi
spalancati e con quell'espressione. Pensai
anche, assurdamente, di battere contro il
vetro.
A scuotermi fu il Manaresi che da sotto badava
a chiamarmi e a tirare il bordo di un
pantalone, ansioso di sapere, di capire anche
lui.
Chiamammo i carabinieri da una cabina che
pareva reduce dal Vietnam e ce la filammo
senza dare le generalità. Il brivido di una
notte tra poliziotti e pompieri mi era bastato
una volta. Il gioco oramai lo conoscevo.
Già me l'immaginavo quello che avrebbero
detto... infarto del miocardio o qualche altro
parolone da addetti ai lavori... la vecchiaia,
magari una mangiata eccessiva... qualche foto
e tanti saluti.
In compenso sarebbe piovuto un sacco di
domande imbarazzanti per noi, soprattutto per
Stufilein, che avrebbe dovuto raccontare del
furto della cassapanca.
Certo, una certa responsabilità pure lui ce
l'aveva ma giunti a questo punto a che sarebbe
servito?
Senza più uno straccio di prova e l'unico che
poteva raccontare come si erano davvero svolti
i fatti morto stecchito, eravamo nella m... e
Ivo con noi.
Certo, caro Ivo, morto sei e morto rimani ma
mi sarebbe piaciuto svergognare quelli che non
si erano neppure presi la briga di indagare
sulla ridicola scena della tua fine
"accidentale". Mi sarebbe piaciuto... oh se mi
sarebbe piaciuto, perché quei piccoli piedi
sotto la credenza e quei patetici calzini non
me li potrò scordare più.
Mi sarebbe piaciuto, perché no? di portare in
tribunale chi ti aveva voluto morto ma questo
è ciò che avviene nei telefilm. La realtà è
tutta un'altra storia.
Unica consolazione per me, la morte del tuo
assassino. Mi piace ancora oggi pensare che
forse senza il mio intervento pure lui, l'uomo
dalla voglia di vino, se la sarebbe cavata.
Magra consolazione, certo, ma, come diciamo
noi a Bologna, piotost che gninta... l'è mej
piotost.
INDICE
Con gli occhi a tre metri da terra
Vittoria e il ragioniere
Virginia Jo Mary
Viaggio in Istria
Pini, puffi e vecchie foto
Sole, aragoste e tappi da bottiglia
Giovanna, aragosta da corsa
Giuseppe Rimondi esce dal coma
Il bastardo di Yonge Street
Ivo lo sgombracantine - parte I
Ivo lo sgombracantine - parte II
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