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Xavier Zubiri Sulla nascita, la morte e l'enigma della vita antologia a cura di Gianni Ferracuti www.ilbolerodiravel.org aprile 1998 (revisione febbraio 2010)

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Xavier Zubiri

Sulla nascita, la morte

e l'enigma della vita

antologia a cura di

Gianni Ferracuti

www.ilbolerodiravel.org

aprile 1998 (revisione febbraio 2010)

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Ortega y Gasset raffigurava la ricerca filosofica con l'immagine biblica dell'assedio di Gerico: guardare l'oggetto di studio da tutti i lati e da tutte le distanze. Si può ag-giungere a questa immagine una complicazione: giunti vicino all'oggetto avremo forse scoperto qualcosa che obbliga a rettificare o reinterpretare le osservazioni fatte da lon-tano.

Il "Bolero" di Ravel è la scoperta continua di sonorità nuove e nuovi strumenti in una frase musicale che, a ogni lettura, fornisce dati diversi, come se fosse inesauribile; perciò il brano non conclude: viene interrotto, sospeso, lasciando l'ascoltatore insoddi-sfatto e ansioso di ascoltarlo di nuovo.

"Il Bolero di Ravel" è la danza sul filo del rasoio, sul bordo estremo della radura il-luminata dai fuochi dell'accampamento, cui i danzatori si avvicinano per rubare qual-che centimetro al bosco e al mistero.

Se tutti gli strumenti, le culture, concordassero una tonalità in cui suonare, il risulta-to sarebbe armonico.

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Indice Introduzione ..................................................................... 3 Genesi della realtà umana .............................................. 33 Il problema teologale ..................................................... 51 Il potere del reale e l'enigma della vita ........................... 58 La morte ......................................................................... 70

Sulla nascita, la morte e l'enigma della vita In memoriam Giovanni Allegra

Nel pensiero di Zubiri il tema dell'uomo ha forse un'importanza senza pari. Non mi riferisco alla profondità con cui viene trattato, né alla quantità degli scritti che se ne oc-cupano - si pensi a quelli raccolti in Sobre el hombre, in Siete ensayos de antropología filosófica e a El hombre y Dios. Alludo piuttosto al ruolo che lo studio della realtà uma-na ha nel sistema filosofico di Zubiri.

Zubiri si è proposto anzitutto di elaborare, con un metodo interamente descrittivo, una «metafisica intramondana», consistente nel prendere il reale così come è presentato nell'apprensione: è il mondo nella sua realtà attuale, e si vuole

«scoprire la struttura e la condizione metafisica della realtà del mondo in quanto tale. È una metafisica della realtà mondana come tale... Solo dopo si potrà accedere alla causa prima del mondo» [SE, 201].

Orbene, in El hombre y Dios troviamo temi che sembrano oltrepassare i limiti indica-ti dall'aggettivo «intramondano»: si parla della realtà divina, dell'uomo come «espe-rienza di Dio», oltre che di Dio come esperienza dell'uomo, e si analizza l'incontro tra Dio e l'uomo dal punto di vista di Dio. Sembrerebbe, dunque, di essere di fronte a uno sbocco nella metafisica senza aggettivi: si può presumere che l'analisi strutturale delle realtà apprese si prolunghi senza soluzione di continuità nell'analisi della realtà fonda-mentale - Dio - di cui è stata svelata la presenza appunto come realtà. È una dimensione ulteriore della metafisica che, a posteriori, risulta eccedere i limiti intramondani.

L'uomo è la realtà che, una volta analizzata, apre l'accesso alla nuova dimensione ul-tra mondana: c'è una gradualità che parte dalla descrizione delle cose reali come si pre-sentano nell'apprensione, passa per l'analisi della realtà mondana in quanto tale, e giun-

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ge alla realtà fondamentale o divina. Non ci sono salti tra un livello e l'altro; ogni cam-biamento di piano è la scoperta di una dimensione ulteriore che si apre dal livello in cui ci si trovava. Orbene, l'accesso al livello fondamentale si ha attraverso l'analisi della persona. Da qui l'ovvia importanza del tema della morte e la sua centralità nella rifles-sione.

Per molti versi Zubiri ha elaborato un pensiero che supera l'impostazione di Heideg-ger, senza fare dell'angoscia di fronte alla morte il tema fondamentale. Allora è di e-stremo interesse vedere come questo pensiero si confronta con la realtà della morte e se è capace di aprire una prospettiva sul suo aldilà. Il problema è complesso. Zubiri ha avuto oscillazioni su questo argomento e l'interpretazione delle sue idee non sembra chiara. Cercherò di affrontarlo dopo una essenziale esposizione della sua filosofia.

* * *

Per Zubiri l'intellezione di una cosa non è in primo luogo un atto di coscienza, un rendersi conto della cosa. Infatti, rendersi conto è possibile perché, a un livello più radi-cale ancora, la cosa è stata presentata alla coscienza: io mi rendo conto che davanti a me c'è un albero perché sono cosciente, certo, ma anche perché previamente i sensi presen-tano alla coscienza l'immagine dell'albero. Se una cosa non mi fosse presentata, non po-trei rendermene conto. Pertanto il fatto radicale nell'intellezione è che in qualche modo la cosa è stata colta, presa e portata alla presenza della persona cosciente: è ciò che Zu-biri chiama apprensione. Ogni intellezione è radicalmente un atto di apprensione. Però non si può dire il contrario, cioè che ogni atto di apprensione sia anche un'intellezione. Limitiamoci a parlare dell'apprensione intellettiva, nella quale qualcosa è presente per impressione o affezione ad opera dei sensi.

La cosa presente nell'apprensione possiede delle caratteristiche sue (ad esempio la durezza della corteccia dell'albero), cioè caratteristiche che vengono apprese come ap-partenenti alla cosa. Questa le possiede «in proprio»: l'intensità di un colore, la tempera-tura di un liquido, si presentano come proprietà della cosa colorata o del liquido e non come caratteristiche che noi attribuiamo alla cosa stessa. Dato che queste caratteristiche ci sono presentate nel momento radicale dell'apprensione, come proprietà dell'appreso, bisogna dire che l'appreso si presenta con l'aspetto di realtà. Zubiri dice: con formalità di realtà.

Il termine realtà, in filosofia, pone immediatamente una serie di questioni colossali, che evocano tutti gli spettri dell'idealismo, del soggettivismo e della peggiore filosofia moderna, tutti in fila per tre a dire che non si può parlare di realtà in sé e per sé, ecc. ecc. Prima di vedercela con le ragioni di quest'oste un po' filosofica e un po' larvale, no-tiamo che non sempre l'apprensione presenta le cose in forma di realtà. L'animale, infat-ti, apprende in forma di stimolo: ciò che sente, non è percepito come una cosa che pos-siede certe proprietà sue, che la rendono indipendente dal percettore, ma gli si presenta come una mera funzione stimolante che attiva una risposta già prefissata nel suo organi-smo.

A noi qui non importa molto accertare se davvero la percezione animale consista nel vedere le cose solo come stimoli. Usiamo strumentalmente questa idea di Zubiri per ca-pire meglio la percezione umana, mettendole a confronto. L'animale ha presente il mon-do intero davanti a sé nella forma, aspetto o formalità di stimolo; si sente stimolato, e in ciò si esaurisce la presenza della cosa per lui: nel farlo sentire stimolato. Invece l'uomo,

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oltre a sentirsi stimolato, si rende conto che lo stimolare è una proprietà della cosa sti-molante: non solo sento che il fuoco, scottandomi, mi stimola a fuggire, ma sento anche che il fuoco brucia per le sue caratteristiche proprie, perché la sua realtà consiste nel bruciare. Ogni cosa stimola, ovvero possiede delle caratteristiche come sua proprietà, di per sé, di suo. Si noti bene un punto essenziale: questa non è una mia interpretazione con la quale ammetto che esista una realtà fuori dall'io che la percepisce, come suppo-neva il realismo classico. Assolutamente no: della realtà indipendente dall'io non ho det-to neppure una parola. Qui si è detto solo che l'immagine mentale di un albero, fosse anche una perfetta allucinazione, è un'immagine nella quale viene presentato un albero con certe caratteristiche che sono sue e non mie: appartengono cioè all'apprensione co-me tale. Prima ancora di sapere e domandare se esiste l'albero in sé e per sé, ciò che ho appreso mi si presenta nell'apprensione con la forma della realtà, cioè con delle caratte-ristiche che esso possiede presentandole come sue.

Sua proprietà, di per sé, di suo, sono espressioni con cui traduco una locuzione che Zubiri prende dalla lingua standard e trasforma in un termine tecnico estremamente im-portante del suo pensiero: de suyo. Che una caratteristica appartenga de suyo alla cosa in quanto appresa, significa anzitutto che non l'abbiamo inventata noi, anzi l'abbiamo re-cepita così come ci si è presentata. Significa inoltre che si tratta solo di un dato della presentazione: non parliamo dell'acqua in sé e per sé, ma diciamo che all'apprensione l'acqua si presenta come liquida di suo. Se lo si preferisce, si può dire che stiamo par-lando dell'apparenza, a patto di specificare che le caratteristiche apparenti stanno lì, nel-la nostra apprensione, non perché noi le abbiamo immaginate o poste, ma perché esse si presentano già come appartenenti in proprio all'oggetto apparso. Ciò che ci appare, ci appare come essente di suo, ex se, di per sé, caldo, duro, rosso... Questo rende del tutto inutilizzabile l'intero armamentario delle argomentazioni di tipo idealista, almeno a que-sto livello.

Quando l'uomo si rende conto che una cosa è di suo, ne ha un'intellezione, un'ap-prensione intellettiva. D'altro canto, l'uomo apprende il reale perché lo sente: non solo concepisce che è caldo, ma sente anche il calore. In tal senso l'apprensione è sensibile. Ma sarebbe errato dire che abbiamo due apprensioni, quella sensibile e quella intelletti-va; ne abbiamo invece una sola, che è una intellezione senziente, ovvero un sentire in-tellettivo (le due formule sono perfettamente equivalenti). Il «di suo» della cosa non è un dato teorico, formulato dal soggetto, ma è un elemento appreso, è contenuto nell'ap-prensione stessa. Perciò non posso semplicemente accontentarmi di dubitare dell'esi-stenza di una realtà indipendente.

Zubiri non lo dice esplicitamente, ma è chiaro che dietro il de suyo si affaccia il dub-bio che la formula idealista del mondo come «mia rappresentazione» si riveli non dico falsa, ma gravemente insufficiente. Supponiamo che io sia vittima di un'allucinazione e che non esiste l'albero di cui ora ho apprensione: si dovrà comunque dire che questo al-bero, irreale, presenta di suo le sue proprietà e io le apprendo come tali. Non potrò dire che questo albero è reale (e infatti parlo solo di formalità di realtà) ma neppure posso dire che si tratta di una posizione dell'io, di una sua interpretazione. Ciò che io interpre-to o mi rappresento è il fatto, da me non causato, che l'immagine mentale si presenta come autonoma dall'io. Si dirà che questa autonomia si rivela illusoria nei casi reali di stati allucinatori. Invece no. L'allucinazione che mi fa vedere un albero (poniamo) mi presenta certo un'immagine che ha caratteristiche proprie, ma non posso dire che a que-sta immagine non corrisponda niente. Certamente, non esiste questo albero in particola-re, ma esiste, realmente, il processo che causa l'allucinazione (ad esempio un'intossica-

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zione da sostanze allucinogene). L'albero visto nell'allucinazione si presenta come indi-pendente, di suo, perché poggia sulla realtà della sostanza chimica che sta agendo nel cervello e vi «proietta» cose che non esistono ora ma sono tratte dalla memoria (cose che dunque esistevano in altre occasioni) o sono ottenute manipolando immagini menta-li. Il de suyo ingannevole, proprio dell'allucinazione, non dimostra che ogni de suyo è un inganno, ma al contrario, che l'inganno può essere svelato e lo si scopre sempre co-me deformazione di una realtà radicale, che non è a sua volta allucinatoria, e resiste a essere ridotta ad allucinazione o a rappresentazione, perché oppone con forza alcune ca-ratteristiche sue, contro le quali il cosiddetto soggetto non può fare nulla.

La realtà (s'intenda sempre: la formalità di realtà) ha dunque queste caratteristiche proprie, che Zubiri chiama note: sono ciò che ci rende noto, ci notifica la cosa stessa. Il caldo appartiene alla cosa e ci rende noto che essa è calda. Le note sono ciò che la cosa ha di suo, di per sé.

Naturalmente le note sono molteplici, ma sono tutte della cosa, cioè compongono un'unità. Quest'unità non è pensabile come una mera addizione di note; la cosa non è verde, inoltre calda, inoltre pesante, ecc., ma è essenzialmente una cosa, un'unità che si manifesta nelle note che le appartengono. Ogni nota è intrinsecamente «nota-della co-sa», e tutte le note compongono un sistema, un'unità sistemica. La nota esiste solo come nota-del sistema, e non ha senso separatamente. Come tali, le note sono di due tipi. Le prime sono dovute all'azione delle cose le une sulle altre, cioè alle interazioni tra i si-stemi di note; per esempio, il colore abbronzato della pelle è una nota dovuta all'esposi-zione ai raggi solari. In questo caso si parla di note avventizie. Vi sono poi altre note che non derivano dalle interazioni tra le cose, ma appartengono al sistema di per se stesso, per esempio il fatto che un animale abbia lo stomaco. In questo caso si tratta di note formali, nelle quali si mostra il modo in cui una cosa è una, cioè si mostra la sua costi-tuzione. Costituzione è un termine da prendere nel senso in cui diciamo che una persona è di costituzione gracile, robusta, ecc. Parliamo allora di note costituzionali.

Di rigore, tutte le note di un sistema sono costituzionali. Sarebbe sbagliato interpreta-re questa classificazione di Zubiri come un modo diverso di esprimere la divisione ari-stotelica tra sostanza e accidente. La nota avventizia appartiene al sistema e lo costitui-sce tanto quanto la nota costituzionale: è facile rendersi conto che l'uomo ha come pro-prietà sia lo stomaco sia la pelle che, di per sé, al contatto del sole si abbronza, e sarebbe assurdo dire che lo stomaco è più essenziale della pelle. Non esiste una differenza di rango tra i due tipi di note, anche perché l'interazione modifica, è vero, certe note di un sistema, ma non le modifica a caso. L'alterazione del colore della pelle ai raggi solari segue uno schema prefissato, per cui l'individuo si abbronza, ma non diventa verde; è il modo stesso in cui è fatta la pelle a prefissare le sue alterazioni. La distinzione serve per definire il motivo per cui troviamo la presenza di una certa nota. La nota avventizia, pur essendo parte integrante del sistema, a pieno titolo, è presente nell'apprensione perché il sistema stesso è inserito in un contesto col quale interagisce e subisce gli effetti di que-sta interazione. In nessun caso si può pensare che il sistema di note possa prescindere dalle note avventizie.

Naturalmente abbiamo la necessità di distinguere un sistema da un altro: per esem-pio, il sistema di note che indichiamo brevemente con il nome «uomo» è distinto dal si-stema di note che indichiamo col nome «sole». L'uomo non è il sole, ovviamente, ma questa banalità non è così semplice. Se deve andare sott'acqua, l'uomo deve portarsi die-tro l'ossigeno: questo mostra che il sistema «uomo» non è indipendente dal sistema «a-ria». Se spingiamo a fondo l'analisi, arriveremo a capire che l'aria è un ingrediente della

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realtà umana, e non solo una sua condizione di esistenza: in effetti, è difficile individua-re il confine tra uomo e aria quando andiamo a vedere il destino dell'ossigeno respirato che entra nei nostri polmoni. Ciò che ne risulta è che nessun sistema di note è autosuffi-ciente in modo assoluto. Tuttavia, se prescindiamo da questo aspetto di totalità del co-smo, possiamo dire che all'interno dell'universo abbiamo sistemi di note che mostrano una loro sufficienza relativa. Ciò che caratterizza il sistema è appunto questa sua (relati-va) sufficienza sul piano costituzionale: con ciò è da intendersi il fatto puro e semplice che il sistema non si sfalda e anzi si tiene unito. Questo è evidente se torniamo ai nostri esempi: è ovvio che c'è un legame tra l'uomo è l'aria che respira, la terra su cui poggia i piedi, il formaggio che mangia, ma lasciando in sospeso la natura di questo legame, è anche ovvio che l'uomo respira, cammina, mangia, restando vivente, restando se stesso: cioè questa entità umana è composta da note che rimangono insieme e sono coese tra loro. Il sistema non è separato ermeticamente dagli altri, però ha un momento di (relati-va) chiusura dato appunto dalla coesione delle sue note. Il momento di coesione, di rela-tiva autonomia, ovvero la capacità di reggersi come sistema, è ciò che Zubiri chiama so-stantività.

* * *

Come si diceva, le note manifestano l'unità della cosa nel senso, ad esempio, che possiamo parlare di un albero reale che si dispiega nelle sue note. In questo senso, e con il limite detto, il sistema costituisce una struttura unitaria. Questa concezione, cioè l'idea di sostantività, è molto diversa da quella aristotelica. Aristotele distingue nella cosa una sostanza e un insieme di attributi, cioè un soggetto e gli attributi che di esso vengono predicati: il soggetto «uomo» ha inoltre la caratteristica di essere «avvocato». Per Zubiri questa concezione del soggetto non ha alcuna base reale. Detto in altri termini, il sog-getto non esiste, esiste solo il sistema per intero. Ciò che esso ha di avventizio non è un elemento formalmente estraneo al sistema, che gli si aggiunge occasionalmente, ma è parte integrante del sistema, è per così dire la parte di sistema in cui si rendono evidenti gli effetti dell'interazione del sistema intero con gli altri. Perciò le note non appartengo-no a un soggetto, ma costituiscono un sistema che poggia su se stesso. Non c'è alcun bi-sogno di un soggetto occulto dietro le note (peraltro tale soggetto non esiste di fatto), ma c'è solo la struttura delle note come tale. Se prendiamo l'atomo d'idrogeno e gli to-gliamo l'elettrone, non c'è più l'idrogeno e non resta alcun soggetto.

Ora, se prendiamo le note della sostantività, le note costituzionali, che non dipendo-no dalle interazioni, vediamo che alcune poggiano su altre note all'interno della sostan-tività stessa. Per esempio, il colore dei capelli di un albino non dipende dall'influenza di un agente esterno alla persona albina, e come tale è costituzionale; però sappiamo che dipende da un fattore genetico interno alla persona. Allora possiamo distinguere tra le note costituzionali e altre note che le determinano all'interno della struttura sostantiva, senza essere a loro volta determinate da uno strato di note più profondo. Per distinguer-le, le chiamiamo note costitutive, nel senso che costituiscono, determinano la costitu-zione.

Questi tre tipi di note, avventizie, costituzionali e costitutive, formano un sistema u-nico; perciò possiamo parlarne non come strati, ma come sottosistemi. Il sottosistema costitutivo, essendo la radice degli altri due, è l'essenza della cosa, della sostantività. Ancora una volta si ha una notevole differenza rispetto alla concezione di Aristotele. È

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chiaro che qui l'essenza non può essere semplicemente il correlato di una definizione, ma è il sottosistema reale su cui poggia l'intera sostantività. Dal punto di vista di Zubiri, l'essenza dell'uomo non può essere la definizione «animale razionale», perché questo non ha nulla a che vedere con il DNA o con eventuali altre note ancor più costitutive e radicali, che sarebbero l'essenza. L'essenza è «il sistema di note necessarie e sufficienti affinché una realtà sostantiva abbia le sue altre note costituzionali e quelle avventizie» [HD, 22].

Il sistema sostantivo è una forma di realtà. Per esempio, può essere una pietra, un ve-getale, un animale... Sono forme di realtà. Inoltre, un sistema è reale a modo suo: per esempio, un vegetale può essere un lichene o un pino, e il pino può essere più o meno alto, ecc. All'interno della rispettiva forma di realtà, abbiamo i modi: «questo» cane di-verso dagli altri, «questo» albero diverso dagli altri, ecc. Non si tratta di una sottigliez-za. Una pietra, ad esempio, ha le sue note di durezza, colore, impermeabilità..., in base alle quali diciamo che è la tale pietra, che c'è il tale cane, la tale cosa, ecc. È la talità del reale. Inoltre, che una cosa sia tale, significa che è reale a modo suo: esser tale è il modo di essere reale, intendendo sempre che «reale» non è una mera astrazione concettuale, ma un momento fisico della cosa. Ogni sostantività appartiene a suo modo alla realtà, è reale a suo modo, è per così dire «piantata» nella realtà.

Ogni cosa è dunque un modo fisico di una forma della realtà. Pertanto, la realtà è fi-sica. Perciò non possiamo dire che il modo di essere reale esaurisca la realtà. Se io sono reale in un certo modo e un altro lo è in altro modo, se esistono altre forme di realtà, è evidente che il concetto di talità non coincide con il concetto di realtà: quest'ultimo è, per così dire, più vasto. Ma la cosa tale è «reale»: pertanto la realtà in quanto tale è più della mera talità. Non si tratta di un semplice sviluppo verbale. Ogni cosa, così come è, è reale; ma esser reale significa qualcosa di più di un modo di realtà: proprio perché la cosa è concreta a modo suo, in questa concretezza c'è più della sua mera talità. Questo più che caratterizza la realtà simpliciter, nella sua fisicità, viene tecnicamente designato come trascendentale.

Ogni cosa è «più» del mero contenuto delle sue note. Se io apprendo tante cose in-sieme, ad esempio nella visione di un paesaggio, le apprendo unitariamente come ap-partenenti alla realtà, cioè come componenti un'unica realtà. Ciò vuol dire che in cia-scuna cosa, che è reale a modo suo, il momento di realtà è aperto: aperto a tutto il resto. Il «più» del sistema sostantivo è l'apertura del reale: la trascendentalità è il momento fi-sico di comunicazione tra le cose.

Questa comunicazione non è una nozione concettuale: non avviene tra una cosa con-creta e un'astratta idea di realtà, bensì tra una cosa reale e altre cose reali. L'albero non comunica con il concetto di realtà, ma con il concreto terreno o con il concreto sole per la funzione clorofilliana. Comunicazione è molto più di un incontro o una giustapposi-zione tra due realtà, una accanto all'altra ma separate: è un vero e proprio sbocco di una cosa nelle altre. Zubiri lo indica con un'espressione quantomai difficile da tradurre e di-ce, ad esempio, che l'albero está vertido al terreno; questo estar vertido da luogo al so-stantivo astratto versión. Verter è un verbo che significa versare, riversare, ma «estar» vertido non è una normale forma passiva, non è un ser vertido, essere versato. Estar in-dica qui, come quasi sempre in Zubiri, il modo in cui una cosa sta nel mondo, cioè indi-ca le caratteristiche fisiche della cosa. Allora, tra le caratteristiche fisiche della cosa al-bero c'è il suo dare verso il terreno. Non è che il terreno sia un prolungamento dell'albe-ro; piuttosto, tra l'albero e il terreno c'è un momento di comunicazione reale, analogo forse alla comunicazione tra un fiume e il mare in cui sbocca. Nessuno confonderebbe

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le nozioni di fiume e di mare, né potrebbe negare la loro legittimità, e tuttavia c'è un punto in cui il fiume reale e il mare reale comunicano. In questo senso dico che l'albero sbocca nel terreno, che vi está vertido e pertanto è influenzato dalla sua composizione chimica, come lo è dal clima, dall'altitudine, ecc. Non si tratta di mera giustapposizione.

È sbagliato anche pensare questa comunicazione o interconnessione tra le cose come se si trattasse di una relazione. Parlando formalmente, questo concetto non è applicabi-le: dire che l'albero è in relazione col terreno significa che prima ci sono l'albero, da una parte, e il terreno dall'altra, e poi albero e terreno entrano in relazione e interagiscono se possono e come possono. Questo è assolutamente insufficiente: albero e terreno posso-no relazionarsi solo perché sono già fatti l'uno per l'altro, cioè perché il modo in cui è fatto l'albero è predisposto a ricevere il nutrimento dal terreno.

Un esempio meccanico proposto dallo stesso Zubiri può aiutare a chiarire. In un oro-logio è ovvio che vi siano degli ingranaggi, ciascuno reale, che entrano in relazione; pe-rò ogni ingranaggio, ogni pezzo, è così come è perché è stato progettato per funzionare con gli altri e costituire insieme ad essi il meccanismo. In altri termini, già in fase di progetto è stato pensato come parte. Essere pensato come parte è diverso dall'essere pensato come una realtà a sé stante, capace di sussistere anche senza un determinato contesto, perché, nel caso della parte, la totalità in cui essa s'inserisce determina la for-ma o le funzioni che si avranno. Ora, dice Zubiri per illustrare la sua idea, se la natura producesse orologi, produrrebbe di colpo tutti i pezzi del loro meccanismo, già intrec-ciati insieme. Questo è molto diverso da una relazione che interviene a posteriori tra so-stantività autonome, che non sono state pensate come parti di un'unica totalità. Zubiri fa riferimento a una interconnessione radicale, al fatto che una sostantività, nella sua inte-rezza, è di per sé parte dell'universo intero. Se le cose entrano in relazione, è perché a priori sono incastrate tra loro. Non accade che prima ci siano le singole cose, e poi l'una sbocchi nelle altre, ma al contrario, ciascuna cosa è di per sé, radicalmente, sboccante nelle altre È fin dall'origine creata con lo sbocco. La comunicazione non è una cosa che si verifica «dopo», ma è una caratteristica fisica essenziale di ogni sostantività. Diciamo allora che ogni sostantività è così come è, rispettivamente a un contesto senza il quale non potrebbe esistere.

Per esempio, se la temperatura della terra fosse più elevata, l'uomo non potrebbe vi-verci. Questo non è da intendersi in senso finalista, come se la temperatura della terra avesse deciso di assestarsi su un certo livello per consentire all'uomo di esistere: questa è una cosa che non sappiamo e forse non potremo mai accertare. Ciò non toglie che la vita umana è possibile solo entro una certa temperatura. Allora non possiamo dire che la distanza della terra dal sole sia un elemento essenziale della realtà umana, però possia-mo dire che l'essenza umana è intrinsecamente rapportata alla temperatura e dunque alla distanza tra il sole e la terra. Nel linguaggio comune diremmo che l'un elemento è rela-tivo all'altro. Zubiri vuole evitare il termine relazione, confuso e pericoloso in filosofia, e dice che un elemento è rispettivo all'altro. Rispettività è il fatto che ogni cosa reale è costitutivamente una parte dell'universo ed è fatta come parte, per essere parte. La ri-spettività di tutte le cose è dunque il mondo, l'unica realtà veramente sostantiva. Le co-se intramondane, sboccando le une nelle altre, non godono, come abbiamo visto, di so-stantività piena e incondizionata.

Qui si può approfittare per rispondere a un'obiezione che forse è stata suggerita dalla mia esposizione. Si diceva: l'apprensione presenta molte note che sono, in un certo sen-so, radunate in una costellazione, in un sistema relativamente autonomo, comunicante con gli altri e dotato di caratteristiche proprie. Orbene, si può obiettare, chi può mai ga-

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rantire che la riunione di certe note in un sistema non sia una mera interpretazione sog-gettiva? Va bene che ogni nota sia «del» sistema, ma di quale sistema? E se esistessero diverse possibilità di radunare le note in cose? Ogni cosa sbocca nella realtà delle altre, ha una continuazione, una specie di prolungamento: come posso esser certo di averle ri-tagliate concettualmente nel modo giusto? E più ancora: che senso ha ritagliare delle co-se dal continuum del reale?

Per chiarire il senso di questa obiezione adatto alla bisogna un esempio dello stesso Zubiri: il granchio, addestrato a vedere la preda in un sasso, interpreta come se fosse un oggetto unico la configurazione preda-sasso, e quando gli si mostra la stessa preda ap-pesa a un filo o a un bastoncino, non la riconosce. Diciamo, parlando in termini antro-pomorfi, che la costellazione di note che lui ha interpretato come preda è rappresentata dal complesso preda-sasso, e non riconosce la preda da sola in quanto le mancano le no-te del sasso. Chi ci garantisce che noi non ci stiamo comportando come il granchio, sia pure a un livello più sofisticato e sottile? D'altro canto, l'interpretazione della costella-zione di note è frutto di addestramento e abitudine: alla fine anche il granchio impara a riconoscere la preda appesa al filo. E chi ci garantisce che la nostra interpretazione delle cose, la nostra concezione delle singole costellazioni, non sia una abitudine, un pregiu-dizio?

L'obiezione non è così pellegrina come potrebbe sembrare, e ci sono intere filosofie, soprattutto fuori dalla cultura occidentale, che ne hanno fatto un'argomentazione molto seria e densa di conseguenze. Qui non abbiamo bisogno di svilupparla, perché possiamo rispondere molto tranquillamente: non ce lo garantisce nessuno! Abbiamo una nostra concezione delle cose e possiamo ammettere tranquillamente che si tratta di un'interpre-tazione e niente più. Il punto vero è che questo non cambia la sostanza del quadro teore-tico delineato da Zubiri. Io ho una certa idea dell'albero come entità relativamente auto-noma, distinta da un'altra costellazione di note che chiamo terreno. Ammettiamo pure che questa idea sia del tutto sbagliata, per esempio che io pensi l'albero come un essere vivente in cui si è reincarnato il mio bisnonno: che cosa cambia? Di suo esso si presen-terà sempre come un sistema rispettivo che sbocca nella realtà altrui, cioè che rinvia dal-la sua talità alla trascendentalità, con una sostantività, una consistenza che in qualche modo si appoggia all'unica realtà pienamente sostantiva, che è il mondo, il Tutto che lo comprende. Questo quadro del Tutto non viene minimamente intaccato dal carattere in-terpretativo che ha l'idea di una singola cosa in esso inserita. Si tratta di riscontrare, al di sotto dell'interpretazione di certe note come una costellazione, il carattere radicale dell'apprensione, intesa come intellezione senziente di note semplicemente presentate come parti di un sistema dotato di sue proprietà. Il de suyo continua ad appartenere alla presentazione stessa: questa, dunque, rimanda a un prius rispetto all'apprensione, al di là del modo in cui noi la interpretiamo. Ma il rinvio al prius è il carattere di realtà che l'apprensione attesta prima di ogni nostra interpretazione. Ben altro discorso è che que-sta realtà attestata ci rimanga misteriosa e richieda teorie interpretative.

Non è nostro compito analizzare qui il prius, la realtà aldilà dell'apprensione: anzi, già parlando in questi termini falsifichiamo il pensiero di Zubiri, la cui indagine mira piuttosto ad approfondimenti ulteriori dell'apprensione stessa. Ma era importante sotto-lineare che la rispettività è un dato metafisico (intramondano) del tutto indifferente ai nostri possibili errori di lettura della realtà.

Tenendo presente questo, possiamo parlare di una rispettività esterna, cioè di ogni sostantività rispetto alle altre, e di una rispettività interna, cioè di ogni nota rispetto alle altre del sistema in cui è inserita (per esempio, l'altezza del collo della giraffa è in ri-

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spettività interna con il sistema circolatorio che deve portare il sangue fino al suo cer-vello). Inoltre io credo che si possa parlare di rispettività in un terzo senso: tutte le note del sistema sostantivo, in quanto conosciute apprensivamente, sono rispettive alla realtà stessa del sistema, indipendentemente dalla mia apprensione, cioè alla cosa stessa quale è in sé. Usando fuori contesto, e come semplice chiarimento, una terminologia kantiana, direi che il fenomeno è comunque rispettivo al noumeno, oltre che al modo in cui i sensi percepiscono la realtà: quando io tocco un liquido e poi un solido, ho sensazioni diverse che certamente sono prodotte dal tatto, e se avessi un tatto diverso le sensazioni cambie-rebbero. Però la differenza che percepisco toccando prima il liquido poi il solido, prima il caldo poi il freddo, traduce nei modi della mia sensibilità una differenza reale delle cose stesse. In termini scientifici, il liquido è diverso dal solido non per un'illusoria dif-ferenziazione posta dalla mia sensibilità, ma per una differente forza di attrazione tra le molecole, cioè per un carattere intrinseco alla realtà liquida o solida come tale e indi-pendentemente dal fatto che io la senta. Un conto è che non posso parlare di ciò che in qualche modo non ho appreso; un altro conto è che tutto quanto apprendo sia prodotto o posto dall'io, come si potrebbe dire in un modo ingenuamente idealista. È la struttura dell'acqua come tale, in sé e per sé, a impedirmi di camminarci sopra, se non sono il Pa-dreterno.

Ad ogni modo, l'elemento decisivo è che le cose stanno tra loro in rispettività, e che questa struttura rispettiva è il mondo, inteso come unità reale delle cose reali.

La cosa sta nel mondo, cioè vi «sta» presente. Questo star presente è l'attualità. La parola ha lo stesso senso di quando diciamo ad esempio che i virus sono oggi di attuali-tà, cosa che non erano nel secolo scorso, nonostante fossero già esistenti come realtà in atto. L'attualità è un mero «stare» nel mondo, presente. La cosa ci è presente, ovvero ci sta davanti, in quanto l'apprensione ci ha attualizzato le sue note, mostrandoci che di per sé esse costituiscono un sistema, una costellazione immersa in un mondo. Le note noti-ficano una realtà unitaria, vale a dire che esiste una realtà unitaria che si manifesta at-traverso molteplici note; noi cogliamo questa molteplicità di note e la interpretiamo co-me sistema unitario, cioè pensiamo di renderci conto dell'unità radicale che le note mol-teplici esprimono. Ciò fatto diciamo che il sistema da noi interpretato, la talità che cre-diamo di aver riconosciuto attraverso le molte note, «è» il ferro, ad esempio, o un'altra cosa qualunque. Non si tratta qui di un «è» copulativo, ma dell'«essere» di cui si occupa la filosofia.

* * *

Come si vede, l'essere presuppone la realtà che si manifesta nelle sue note; pertanto

non è il momento radicale e previo, non è ciò che nel pensiero classico si chiamava esse reale. Il dato primordiale e radicale non è un esse cui si aggiunge come qualificativo l'aggettivo reale, ma è la realtà stessa. La realtà è il fondamento del sistema sostantivo che si manifesta nelle sue note. Vedendo questo sistema diciamo che «è» ferro. Il altri termini, l'essere del ferro si fonda sulla previa realtà ferrea attualizzata o presentata dall'apprensione. Prima c'è la realtà; poi un atto presentativo della realtà; poi la consta-tazione che queste note presentate - a differenza di altre che costituiscono altri sistemi - sono ferro. Perciò l'essere non ha alcuna realtà sostantiva; anzi, potrebbe ridursi a una semplice interpretazione di certe note come sistema unitario, interpretazione magari precaria e destinata a correzioni profonde. Il termine essere sta a indicare primariamente

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il riconoscimento, l'ascrizione di certe note a un modo e una forma di realtà. Siccome la realtà non è in astratto, ma è una concreta talità, l'essere è il riconoscimento di quale ta-lità compongono le note che ho dinanzi: supponendo che non ho commesso macrosco-pici errori, è una dichiarazione del modo e della forma in cui una cosa reale è appunto reale. Abbiamo cioè la realitas in essendo, e non l'esse reale.

Come dicevo, è perfettamente possibile sbagliare, ad esempio attribuendo l'essere ferreo a un oggetto di plastica che ne imita le fattezze. Ma anche in questo caso, l'essere come mia interpretazione del legame tra le note è sempre posteriore alla presenza pura e semplice della realtà attualizzata dalle sensazioni. Che sia o non sia ferro, dipende co-munque dal fatto che c'è qui una cosa con certe note proprie, con modo e forma propria di realtà. Indipendentemente dalla mia interpretazione, questa realtà sta essendo reale nel suo modo e nella sua forma, e questo modo e questa forma sono ciò che concettua-lizziamo come essere.

Nella rispettività le cose non si trovano nel mondo staticamente, bensì attivamente. Il mondo è attivo, la rispettività è attiva, ogni cosa è in funzione di altre cose reali: ad e-sempio la luminosità di una stella è in rapporto con la sua temperatura. È la funzionalità del reale. Funzionalità non è sinonimo di causalità, al contrario, ha molti modi e la cau-salità è solo uno di questi. La funzionalità è un concetto più vasto; ad esempio, saltare è un atto causato dalla volontà di un individuo, ma l'altezza del salto è in funzione delle sue doti atletiche: la volontà causa il salto, ma non ne determina l'altezza; viceversa, le doti atletiche determinano l'altezza, ma non causano il salto; tuttavia il salto è in funzio-ne della volontà e delle doti. La funzionalità del reale si esprime nel carattere attivo del mondo, che è attivo di suo, e di conseguenza nel carattere attivo delle singole cose.

Questo carattere attivo è il divenire; diciamo con una lieve imperfezione che produce il divenire, il cambiamento. Che significa cambiare? Nella concezione aristotelica c'era un soggetto (una sostanza) e una serie di accidenti: cambiare significava un mutamento negli accidenti, lasciando inalterato il soggetto. La sostanza è appunto ciò che permane immutabile al di sotto del mutamento. Nella concezione di Zubiri non c'è il soggetto, ma la struttura essenziale, pertanto non c'è nulla che nel divenire permanga immobile, non c'è un elemento sottostante su cui scorra il cambiamento. Anzi, a cambiare è l'intera struttura, in quanto è attiva di per sé. Nelle condizioni imposte dalla rispettività, una ghianda cambia fino a diventare di per sé una quercia: non è questione di essere attuale ed essere potenziale, nozioni prive di senso senza l'idea del soggetto. La struttura, l'es-senza, è attiva per se stessa, e la ghianda dà di sé una quercia.

«Dare di sé» è la traduzione inevitabile di «dar de sí », espressione spagnola tratta dalla lingua corrente, dove significa produrre, fruttificare; si usa ad esempio per indicare un capitale che produce, da de sí un certo interesse. Zubiri ne fa un termine tecnico, con una scelta molto felice, perché il verbo «dare» conserva il suo valore attivo e richiede un complemento oggetto (come se si dicesse: dare qualcosa di sé); però l'oggetto dato è l'intero soggetto, l'intero sí che, tirandosi fuori dalle sue viscere, si presenta in una for-ma nuova. Inoltre, la preposizione spagnola de è ambigua, corrispondendo tanto all'ita-liano di quanto a da; pertanto include anche la provenienza di ciò che viene dato: viene dato di sé e da sé. In italiano, per indicare un'eccellente performance di una persona, di-ciamo che ha dato il meglio di sé; di un altro, diciamo che ha dato di sé ciò che poteva: si tratta esattamente di questo, ma fuori da un contesto antropologico. La performance della ghianda è la quercia.

Il dare di sé delle sostantività avviene nella rispettività: in ultima analisi, ad essere propriamente attivo è il mondo, il Tutto. È il mondo a trasformarsi attraverso il dare di

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sé di ogni sostantività, attivato proprio perché la sostantività sta nel mondo, fisicamente. La trasformazione dell'intero mondo passa dunque attraverso la trasformazione che ogni cosa dà di sé nella rispettività, traendola da ciò che le appartiene, da ciò che ha in pro-prio, di suo. È un dinamismo cosmico, intrinseco al mondo, attraverso cui si snoda ciò che Zubiri chiama, felicemente, la «creazione evolvente».

Zubiri studia attentamente tutte le trasformazioni della materia che è creata con un suo intrinseco dinamismo, con una potenzialità di trasformazione. Nella rispettività con la realtà intera, ogni realtà dà di sé ciò che possiede di suo, come potenzialità, come ric-chezza. Sono trasformazioni che abitualmente chiamiamo evoluzione; Zubiri accetta il processo evolutivo, ma pone l'accento soprattutto sul dare di sé. Ciò che gli sembra fon-damentale non è tanto la mutazione che produce un cambiamento, una nuova specie, quanto piuttosto la capacità di integrare la mutazione: una sostantività vivente dà di sé l'integrazione di una mutazione sopravvenuta in modo più o meno casuale, e grazie a ciò riesce a sopravvivere come struttura organica e a riprodursi. Zubiri giunge a un nuo-vo modo di concepire la materia, dove primario non è l'atto, ma le potenzialità del «di suo».

Tuttavia mutazione e dare di sé non sono sufficienti a spiegare tutto il dinamismo dell'universo, e in particolare non rendono ragione del passaggio dall'animale all'uomo. La caratteristica essenziale della sostantività umana è la formalità di realtà, e questa non può essere il risultato di una mera complicazione o di una semplice trasformazione della formalità di stimolo, che caratterizza l'animale. Queste due formalità rappresentano un'alterità radicale: non si tratta solo di una differenza di grado, come se l'una rappre-sentasse uno sviluppo dell'altra, ma di una differenza essenziale.

In un'analisi eccellente della genesi umana, Zubiri ricorda che i genitori non trasmet-tono il corpo al figlio, ma trasmettono solo gli elementi germinali, spermatozoo e ovulo, che produrranno poi autonomamente la cellula germinale. Non trasmettono neppure la psiche, la quale non è un organo, ma una psichizzazione del corpo stesso. Zubiri è molto attento a mantenere fermo il valore dell'unità strutturale dell'uomo. L'uomo è una so-stantività, un sistema di note che noi articoliamo in due sottosistemi, corpo e psiche, senza che si possa dimenticare la loro unità: la persona è una psiche corporea ovvero un corpo psichizzato. Perciò dice che personale nell'uomo è l'essenza stessa: la sostantività umana è caratterizzata da una essenziale personeità. Per questo può svolgersi nella sua vita, manifestandosi come personalità.

Per spiegare questa realtà inedita dell'uomo nella scala della vita, senza ricorrere ad astrazioni e ipotesi metafisiche, Zubiri si affida ancora al senso dinamico della natura, al carattere attivo del Tutto, del mondo come tale. Parliamo di natura, recuperando una vecchia terminologia. La natura, il cosmo creato, inteso come realtà che si viene evol-vendo nelle sue note, ha due momenti: anzitutto le sue note stesse, cioè le cose naturali, poi la loro unità operante, da cui le singole cose emergono. È ciò che i medievali chia-mavano natura naturans, e che Zubiri intende come l'unità primaria del cosmo, che de-termina quanto di più intrinseco vi è nelle strutture naturate. Ed è questa operazione na-turante a produrre la psiche nella cellula germinale. Però, precisa Zubiri, non la produce indipendentemente dalle altre cose, cioè non produce la psiche solo nelle strutture cellu-lari, né solo partendo da esse, ma fa sì che siano esse stesse, le strutture cellulari stesse, a produrla. È un'azione della natura naturante, che però scorre intrinsecamente nelle strutture cellulari, facendo sì che esse siano portate a realizzare da sé le note psichiche: la natura naturans fa fare la psiche alle strutture cellulari. Il «far fare» consiste in que-sto: il primo «fare» è l'azione della natura naturante; il secondo, delle strutture cellulari.

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In sostanza le strutture cellulari producono la psiche in quanto sono investite, per co-sì dire, o attraversate da un'azione naturante, insomma per la forza stessa della natura che scorre in esse. Grazie a ciò la sostantività umana si eleva dall'apprensione in forma-lità di stimolo all'apprensione in formalità di realtà. Questo passaggio dall'animale all'uomo è ciò che Zubiri chiama elevazione. L'elevazione non è un normale passaggio evolutivo, ma qualcosa di più, perché porta una struttura materiale alla formalità di real-tà: la sostantività umana non solo è di per sé in possesso di certe proprietà, ma è anche sé, rappresenta un modo superiore del «di suo»; non si tratta solo di avere un patrimonio a cui attingere, ma anche di sapere di averlo. Però questa elevazione è sempre una po-tenzialità della materia. Vale a dire che la psichizzazione del corpo ha sempre origine dalle proprietà che le strutture cellulari hanno «di suo», ma che non possono attivare senza l'intervento della natura naturans. Questo intervento, inteso come «far fare», non vuol dire che la psichizzazione non sia un dare di sé.

Qui sono da sottolineare due elementi molto importanti. Anzitutto non c'è alcuna en-tità metafisica che interviene in questa teoria; poi, che la concezione di Zubiri ora espo-sta ha un rigoroso carattere descrittivo (al di là dell'impressione che il lettore può rice-vere attraverso un'esposizione sintetica). In El origen del hombre, Zubiri scrive:

«La mera sensibilità non può produrre per se stessa un'intelligenza: tra le due esiste una differenza non di grado ma di essenza. Per quanto si possano complicare i miei stimoli e la loro forma di apprensione, questi non arriveranno mai a costituire realtà stimolanti e ap-prensione intellettiva. Al riguardo, la comparsa di una psiche intellettiva non è gradual-mente ma essenzialmente qualcosa di nuovo. In questo senso, ma solo in questo, diciamo che la comparsa di una psiche intellettiva è un'innovazione assoluta. Questo non sta a si-gnificare una discontinuità tra la vita di tipo animale preumano e la vita di tipo umano di un ominide ominizzato. Neppure significa una discontinuità strutturale psichica. La psiche intellettiva conserva come suo momento essenziale la dimensione sensitiva trasformata dell'ominide preumano. Ma la psiche umana include un altro momento intrinsecamente fondato su quello sensitivo, ma che tuttavia ne trascende; è il momento che chiamiamo in-tellettivo. Grazie ad esso non c'è discontinuità ma trascendenza; se si vuole, una continuità nella linea della trascendenza creatrice. E poiché la psiche non è una somma di sensibilità e intelligenza, ma è una psiche intrinsecamente una, risulta che la psiche umana nella sua integrità, la psiche del primo ominide ominizzato, è essenzialmente diversa dalla psiche a-nimale dell'ominide predecessore dell'uomo. Come tale è determinata dalla trasformazione (per i cambiamenti germinali) del mero ominide in uomo, ma non è effettuata da questa trasformazione. Pertanto non può che essere effetto della causa prima, così come lo fu a suo tempo la comparsa della materia: è effetto di una creazione ex nihilo.

»Però è necessario intendere quest'affermazione insieme a ciò che abbiamo detto prima: cioè dev'essere una creazione determinata dalla trasformazione delle strutture germinali. Questo è essenziale tanto quanto il trattarsi di una creazione ex nihilo. Con troppa fre-quenza si è propensi a immaginare questa creazione letteralmente, come un'irruzione e-sterna della causa prima, di Dio, nella serie animale. La psiche intellettiva sarebbe insuf-flata dall'esterno da uno spirito nell'animale, il quale grazie a questa addizione risultereb-be convertito in uomo. Nel nostro caso questo è un antropomorfismo ingenuo. La creazione di una psiche intellettiva ex nihilo non è una mera addizione esterna alle strutture somati-che, perché non è mera addizione e non è esterna. Ed è proprio per questo che, nonostante tale creazione, o meglio a causa di tale creazione, c'è questa fioritura genetica dell'uomo - determinata dalle strutture e in funzione intrinseca della loro trasformazione - che chia-miamo evoluzione. La creazione non è un'interruzione dell'evoluzione, ma l'esatto contra-rio, è un momento, un "meccanismo" causale intrinseco ad essa» [OH, 165-167].

«L'ominizzazione e la tipificazione dell'umanità non sono "evoluzione creatrice", ma "crea-zione evolvente". Dal punto di vista della causa prima, di Dio, la sua volontà creatrice di

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una psiche intellettiva è volontà di evoluzione genetica» [OH, 172-173].

Con questo ci avviamo verso la considerazione del potere del reale: la realtà ha il potere di determinare il mio essere fisico, la mia sostantività. Però la formalità di realtà che caratterizza l'uomo significa anzitutto la sua capacità di porsi dinanzi all'intero rea-le, di esserne in un certo senso staccato, ab-soluto. Ed è la realtà stessa a determinare questo carattere di assolutezza, sia pure relativa. La persona deve fare progressivamente se stessa: in ogni azione configura la sua realtà. Questo configurarsi non è una scelta che potrebbe anche non essere compiuta, ma è la natura stessa dell'uomo; questi, dun-que, è vincolato al potere del reale che lo possiede. Questa relazione col potere del reale è la religazione. L'uomo si realizza grazie alla sua religazione al potere del reale.

Qui emerge in tutta la sua gravità qualcosa che avevamo incontrato parlando della trascendentalità: ogni cosa, proprio perché è reale, è più che la sua talità. Orbene, la tali-tà della sostantività umana è una relativa assolutezza; allora diventa enigmatico dire al tempo stesso che l'uomo è «la tale» realtà, e che, essendo più della talità, è anche la re-altà: si ha una realtà che è assoluta rispetto a la realtà, cioè che è relativamente assoluta. Difatti è assoluta per una determinazione operata dalla natura, dal Tutto a cui è religata. Il potere della realtà determina l'uomo come assoluto. Si noti però che una certa ambi-valenza si ha in qualunque altra cosa. Proprio perché la talità rimanda trascendentalmen-te a un più, a una realtà che è più del mero essere «tale», dobbiamo dire che il potere delle cose appartiene alla realtà in quanto tale e non alle cose prese singolarmente. È un aspetto che ci si presenta come enigma. Questo enigma non toglie però che siamo vin-colati, religati al potere del reale, sia pure vedendolo come un potere enigmatico: la re-altà in quanto tale è per me un enigma perché io sono relativamente assoluto da essa e non di meno sono reale. In quanto assoluto, debbo determinare la mia vita. In questo senso sono costitutivamente proteso verso questo enigma, ne ho consapevolezza, so che sono religato ad esso.

Ora, tutte le cose sono reali, ma nessuna è «la» realtà: la realtà non è una cosa in più, ma è il potere che determina fisicamente ciascuna cosa, è il fondamento di ogni realtà.

Attraverso questa via si giunge a Dio, che è realtà assolutamente assoluta, presente formalmente nelle cose, costituendole come tali. Dio è presente costituendo le cose co-me reali. Dice Zubiri che Dio non è trascendente alle cose, ma trascendente in esse. La presenza operante e costituente di Dio nell'uomo è la dimensione teologale della perso-na. Analogamente, l'esperienza dell'assolutezza e della religazione al potere del reale è esperienza teologale. Il potere del reale manifesta Dio come potere nelle cose. Zubiri sta bene attento a distinguere le cose, il potere del reale e Dio: non sono nozioni equivalen-ti. La presenza costituente di Dio fa sì che le cose siano sede di Dio come potere: è ciò che Zubiri chiama la deità. La deità è il potere del reale nelle cose in quanto fondamento immediato della mia relativa assolutezza: si tratta di una nozione strettamente descritti-va, che non fa appello a nessun argomento di fede. In «Introduzione al problema di Di-o», scrive:

«L'uomo non è una cosa come le altre, ma è una realtà strettamente personale. Come tale è costituito da qualcosa di "suo", pertanto qualcosa che è posto di fronte a tutto il resto del mondo in forma, per così dire, "assoluta". Ne deriva che i suoi atti siano, velis nolis, l'at-tualizzazione di questo carattere assoluto della realtà umana. Non altro è ciò che chia-miamo ultimità. Orbene, questa ultimità non è semplicemente qualcosa in cui l'uomo "sta", ma qualcosa in cui l'uomo deve stare per essere ciò che è in ciascuno dei suoi atti. Ne deri-va che l'ultimità ha un carattere fondante» [NHD, 245].

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L'uomo è esonerato dal comportamento automatico del meccanismo stimolo-risposta. Di fronte allo stimolo, provvede a una valutazione ed elabora una risposta in relazione ai suoi progetti, determinando egli stesso l'uso delle possibilità storiche. Questo è il suo carattere assoluto - ovviamente non in senso pieno - che non può essere inteso come un'ipotesi teorica, ma come una struttura reale della sostantività umana: assoluto non è un singolo atto umano; piuttosto, qualunque atto umano poggia su questa caratteristica, la presuppone e l'attualizza nel comportamento concreto. L'ultimità dell'uomo è, in-somma, un'assolutezza alla quale la persona concreta è religata di fatto e di diritto. Gra-zie a ciò, la persona è libera: «La religazione non è altro che il carattere personale asso-luto della realtà umana, attualizzato negli atti che essa compie» [NHD, 246].

La religazione non è qualcosa cui l'uomo arriva, piuttosto qualcosa che egli è, da cui viene, su cui poggia, come su un carattere attivamente fondante la sua realtà personale. Deità è il nome che diamo al carattere assoluto della persona, in quanto attivo fonda-mento di tutti i suoi atti. Questo non ci dice ancora nulla su ciò che la deità è in quanto carattere ultimo del reale. Questa assolutezza religante, attualizzata nella persona viven-te, è a sua volta fondata su una realtà esistente in modo essenziale e diversa dal mondo: la relativa assolutezza umana rinvia a un'assolutezza come tale (concettuale) e questa a un'assolutezza reale, fondante il mondo:

«La deità ci rimanda così alla "realtà-deità"; se si vuole, alla "realtà-divina". È la deità come carattere di una realtà ultima: la realtà-deità come causa prima. Questa primarietà è ciò che chiamiamo divinità. In quanto tale, questa realtà è causa prima non solo della real-tà materiale, ma anche delle realtà umane in quanto dotate di intelligenza e volontà. È per-tanto una realtà intelligente e volente in senso eminente. La sua primarietà è di ordine in-telligente e volente. E in quanto prima, questa realtà è oltre il mondo, proprio per poterlo fondare come realtà trascendente e assoluta. La deità non è che il riflesso speculare della sua trascendenza divina» [NHD, 246-247].

Naturalmente, il passaggio dalla relativa assolutezza all'assolutezza assoluta non è dimostrato: Zubiri non si propone una dimostrazione di Dio, ma sta indicando i passaggi che dovrebbe compiere una dimostrazione intellettuale. La stessa cosa va detta per un altro saggio di Natura, Storia, Dio, «Intorno al problema di Dio», in cui sono elencate le tappe di un'apprensione razionale di Dio stesso. Il punto importante non è tanto nel va-lore dimostrativo, che non era cercato, quanto nel fatto che «il problema di Dio si sco-prirebbe come un momento strutturale del problema dell'uomo» [NHD, 17]: Zubiri stes-so dice che la sue riflessioni posteriori si sono sviluppate nella direzione della religazio-ne come momento strutturale dell'uomo, come sua «dimensione teologale».

Riassumo brevemente i passi fondamentali: 1) «L'uomo esiste già come persona, nel senso che è un ente la cui entità consiste nel

doversi realizzare, dover elaborare la propria personalità nella vita» [NHD, 255]. 2) La vita è data all'uomo come una missione e un destino, non nel senso che egli ha

una missione, ma nel senso che è missione. L'uomo è legato alla vita, non dalla vita ma dalla realtà, che decide la possibilità o meno dei suoi progetti.

3) L'uomo deve farsi tra le cose e con esse, ma non riceve da loro l'impulso a vivere. 4) Ciò che lo spinge a vivere è anteriore all'attaccamento naturale alla vita: «Non sol-

tanto l'uomo deve fare il suo essere con le cose, ma a tale scopo si trova appoggiato a tergo in qualcosa da cui gli viene la vita stessa» [NHD, 256].

5) Questo appoggio è ciò che ci fa essere, nel senso che ci fa essere vocazione e, per dirla in termini non formali, ci spinge a passare dall'essere=vocazione all'essere=cosa, realtà, personalità storica. Dal punto di vista dell'essere=cosa, bisogna dire che l'uomo

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non è, ma acquista l'essere vivendo. Prima di essere=cosa è essere=vocazione. Ma inte-so come essere=vocazione, bisogna dire che l'uomo ha semplicemente ricevuto un tale essere: egli non è di sua iniziativa, non gli è sufficiente potersi e doversi fare, «ha biso-gno che lo facciano fare a se stesso. La sua nihilità ontologica è radicale; non solo non è niente senza cose e senza far qualcosa con esse, ma per sé solo non possiede la forza di farsi» [NHD, 256].

Quest'ultima affermazione, forse, è un po' discutibile ed è appunto ciò che bisogne-rebbe dimostrare formalmente. Non si può pensare la «forza di farsi» nei termini dell'ontologia tradizionale, dell'essere=cosa: è piuttosto la forza con cui, facendomi, si produce la cosa. Non c'è la cosa che ha una forza, ma la forza che fa la cosa. Nondime-no, questa forza è reale: l'essere=cosa presuppone il «potere che sia», che sia l'essere. Di per sé, questo potere reale non rimanda automaticamente a Dio, ma indubbiamente ogni dimostrazione della sua esistenza deve passare attraverso questo punto: all'interno della realtà umana c'è un momento che non è più umano, che non è - nel senso dell'esse-re=cosa. Orbene, se non mi allontano troppo dal testo, mi pare essenziale questa osser-vazione: l'uomo incontra questo momento anche quando cerca di mostrare l'inesistenza di Dio, nella prospettiva dell'ateismo rigoroso. Questa forza di farsi, come tale, è umana, è personale? Ovvero è ciò su cui poggia la persona? Da qui il punto successivo:

6) Questa forza, pur essendo nostra, dato che ci fa essere, è in un certo senso altra, proprio dal momento che ci fa essere. Dicendo che l'uomo consiste in un farsi, usciamo dalla metafisica consueta, dall'idea dell'essere come esser già ciò che si è (l'esse-re=cosa). L'uomo concreto è di carne, corporeo, materiale, ma questo non significa che è già ciò che è. Allora, la persona, il progetto vitale o vocazione, è un ingrediente della natura o, al contrario, la natura è un ingrediente della persona? Nel primo caso, la voca-zione sarebbe un mero stato psicologico, il che dissolve la stessa nozione di io. Nel se-condo caso, la realtà della persona sfugge all'idea dell'esser-già, dell'essere=cosa.

Non bisogna complicarsi la vita con questioni linguistiche. Ogni discorso usa il ver-bo essere come elemento imprescindibile della morfosintassi di una lingua; ma la sua funzione grammaticale non ha niente a che vedere con la metafisica. Quando dico che la vocazione «è» reale, il verbo ha una mera funzione linguistica: constata che nella realtà c'è l'elemento chiamato vocazione, senza denotare in che modo è fatto. Quando poi mi chiedo cosa è la vocazione, trovo che le sue caratteristiche non hanno niente in comune con il tradizionale concetto di essere in senso filosofico, e non come mero elemento lin-guistico. Cioè, quel concetto filosofico risulta inadeguato, è stato formulato in vista di altri tipi di realtà, in cui non è primario l'elemento del farsi ma quello dell'esser già.

L'uomo, nel suo farsi, poggia su un potere di farsi, un poter-essere che, ragionando con l'idea dell'essere=cosa, è al tempo stesso intrinseco ed estrinseco alla persona: in-trinseco, perché la fa essere; estrinseco perché, senza tale potere, la persona non sareb-be, e quindi non ci sarebbe. Perciò il potere non si origina nella persona. Però, la distin-zione tra l'io agente e la forza di agire, pur essendo concettualmente valida, non implica che ad essa corrispondano due realtà, proprio perché siamo usciti dall'idea dell'esse-re=cosa. Si potrebbe dire che la persona, in quanto realtà, consiste nel potere di agire in vista di una vocazione; ma in tal caso alla vocazione spetterebbe un primato ontologico rispetto al potere stesso.

7) Tuttavia, la forza di farsi obbliga a pensare l'essere in quanto potere, abbandonan-do il modello della cosa. Di contro all'essere=cosa, abbiamo ora un essere=potere, che non può venire semplicemente giustapposto alla concezione precedente. Il livello dell'essere=potere è più radicale e con esso si deve misurare chi voglia fare metafisica,

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sia che Dio esista, sia che non esista. Il problema di Dio va posto nel quadro della nuova concezione dell'essere=potere. Da qui il passo successivo di Zubiri: esistendo, l'uomo trova sia le cose, sia ciò che fa essere le cose, cioè fa in modo che ci siano.

8) Siamo allora religati a ciò che ci fa esistere; la religazione è un vincolo ontologico con ciò che ci fa esistere, siamo «vincolati a qualcosa che non ci è estrinseco, ma che previamente ci fa essere» [NHD, 256].

9) Questo mostra che l'esistenza umana è fondata su ciò che ci consente di star es-sendo.

10) Dato che vivere con le cose fa parte della nostra realtà, e non è un fatto acciden-tale, ciò che fa essere noi, fa essere il mondo:

«L'esistenza umana non è solo gettata tra le cose, ma è religata dalla sua radice. La reli-gazione - religatum esse, religio, religione - è una dimensione formalmente costitutiva dell'esistenza. Pertanto, la religazione o religione non è soltanto qualcosa che semplice-mente si ha o non si ha. L'uomo non ha una religione ma piuttosto, velis nolis, consiste in religazione o religione. Per questo può avere o anche non avere una religione, religioni positive» [NHD, 257]. «La religazione non è qualcosa che appartiene alla natura dell'uo-mo, ma alla persona » [NHD, 257].

11) Chiamiamo deità ciò che ci religa: è il nome di un ambito che la ragione dovrà precisare, perché non sa se ha un'effettiva esistenza come ente. La deità ci si mostra come il semplice correlato della religazione. Ecco il punto in cui si trova posto il pro-blema di Dio: non è altrove che si può affrontarlo.

Non riassumiamo qui l'argomentazione che giustifica il passaggio dalla deità a Dio, non essendo strettamente attinente al nostro tema. Ci interessa però sottolineare che, ne-gli scritti successivi di Zubiri, con un linguaggio molto più preciso di Natura, Storia, Dio, Dio è presente nell'uomo come realitas me reificans, cioè come un operatore che lo fa essere reale così come è, nella sua relativa assolutezza. Questa presenza è dunque co-stitutiva e, a mio modo di vedere, essenziale, se l'essenza è la condizione necessaria e sufficiente perché una sostantività abbia tutte le sue note. Zubiri dice che l'uomo è dei-forme.

* * *

Venendo ora alla questione principale, si diceva che nel corso degli anni, Zubiri

cambia la sua posizione filosofica sulla morte, giungendo alla conclusione che nella so-stantività umana nessuna nota mostra l'uomo come immortale di suo; e nulla indiche-rebbe una sopravvivenza personale di questa sostantività oltre il fatto fisico innegabile della morte. In sostanza, passa dalla posizione che interpreta la tradizionale concezione dell'uomo come un'anima immortale in un corpo mortale, a una posizione unitaria: l'uomo è una struttura, un sistema di note, e la morte è semplicemente la disintegrazione del sistema, non la separazione tra due parti che prima, in vita, erano in qualche modo giustapposte. La materia umana ha una sua specificità, in quanto è in se stessa psichica, ma come tutte le altre materie o sostantività è una struttura che con la morte viene fran-tumata. Poiché non c'è alcun soggetto dietro o al di sotto della costellazione di note, è giocoforza dire che nessuna parte dell'uomo attraversa indenne la morte in virtù di una sua intrinseca immortalità.

Occorre precisare ciò che questa posizione non significa: non significa che Zubiri non creda nell'immortalità e nella vita eterna. La vita eterna è per lui una certezza di fe-

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de: è Dio che salva l'uomo dalla morte cui egli non potrebbe sottrarsi con le sue sole forze. Però questa posizione teologica non è una verità di ragione, cioè non è una tesi che possa essere sostenuta con argomenti razionali o con l'analisi filosofica della realtà. Teologicamente parlando, l'uomo è destinato alla vita eterna in virtù di un dono divino; ma appunto, parlare teologicamente non è parlare filosoficamente.

Tale almeno è l'interpretazione attuale del pensiero di Zubiri, un'interpretazione che solo fino a un certo punto può dirsi chiara. Sul piano teologico, Zubiri nega che l'uomo sia composto di due parti, il corpo mortale e l'anima immortale, che poi sarebbero in qualche modo fuse o intrecciate: la sostantività umana è un sistema unico, una struttura unica e unitaria, non un'entità prigioniera del corpo, secondo l'immagine platonica e prima ancora eleusina, che la morte libererebbe dal suo carcere. Le note del sistema umano possono essere raggruppate in due sottosistemi distinguibili ma non separabili. Il sottosistema che chiamiamo anima o psiche di per sé non ha alcuna sostantività propria e non può sussistere senza il corpo; più ancora, esso è l'aspetto psichico del corpo, se mi si consente questa formula. Così l'immortalità non può riguardare mezza persona, l'ani-ma, e l'uomo o si salva tutto o perisce del tutto. Però, se si salva, non è per virtù propria, bensì per grazia divina. Se prendiamo come quadro teologico di riferimento la patristica greca, la grazia salvifica è un'azione deificante di Dio che coinvolge l'intera persona umana.

Il riferimento alla patristica greca si fonda su una predilezione esplicitamente confes-sata da Zubiri nel suo saggio su Dio e la deificazione nella teologia paolina (NHD) e su dati oggettivi: negare il dualismo anima-corpo non sembra compatibile con prospettive teologiche diverse da quella della theosis. Ma se questo è vero, bisogna osservare che la theosis, l'azione deificante di Dio, ha inizio prima del momento cronologico della morte terrena e non pone nessuna soluzione di continuità tra la vita mondana e il post mortem: la vita reale nel mondo attuale è già coinvolta nella vita di Dio che si comunica all'uomo immortalandolo. Ora, diamo per scontato che di questa comunicazione immortalante e-sistano gli effetti, senza che diano luogo a note apprensibili; una prima domanda è: se questi effetti ci fossero «noti», le note corrispondenti andrebbero incluse nel sottosiste-ma psichico, in quello corporeo, o in entrambi? Se non concepiamo l'immortalità come una fotocopia paradisiaca della persona, ma come un processo dinamico in cui la so-stantività umana è coinvolta adesso, evidentemente questa possiede già un carattere che non può perdere, anche se non ci è notificato e perciò non ci è noto: che non ci sia noto è contingente e non influisce sul fatto. Dentro questa ipotesi, non sarebbe sufficiente di-re che l'uomo muore, però Dio lo salva: siccome Dio lo sta già salvando, potremmo dire che di suo l'uomo consiste nell'essere salvato e risulta azzardato dire che di suo è morta-le. Siamo veramente obbligati a risolvere per un «no» filosofico, appeso a un «sì» teo-logico, forse molto più precario di un ragionamento?

Naturalmente teniamo ferma l'idea del carattere unitario della persona: ogni sua nota è parte integrante di una sola struttura, e non si ha giustapposizione, fusione, intreccio o quel che si vuole tra due entità diverse come corpo e anima. La struttura si conserva o si distrugge per intero. Però teniamo anche presente la concezione zubiriana della materia; la materia non è solo il corpo visibile, ma è la potenzialità di dare di sé; di nessuna real-tà possiamo dire che ha già dato tutto di sé, perciò le due dimensioni (la potenzialità e la visibilità materiale) non coincidono necessariamente. La cellula germinale non è soltan-to la sua materia visibile, ma è anche, e soprattutto, la sua potenzialità di produrre l'in-dividuo adulto, quando vigono certe condizioni prefissate. Anche nel caso del più inerte dei pezzi di ferro, la sua materialità presente è il risultato di ciò che esso, come sostanti-

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vità, sta attualmente dando di sé, col movimento dei suoi atomi, la forza di coesione, le reazioni chimiche, ecc. Il dare di sé produce note, e tra l'altro una nota che mi notifica un fatto singolare: precisamente che il dare di sé non è mai dato tutto, che la materialità non sta tutta nella mera presenza notificata della realtà. Raccogliere le note della sostan-tività umana nei sottosistemi «corpo» e «psiche» non implica che essi possano necessa-riamente accogliere tutto quanto la persona può dare di sé, anche se ancora non lo ha da-to, o così ci sembra. Affermare una tale tesi sarebbe passare dalla mera osservazione all'ipotesi più o meno gratuita. E tra l'osservazione diretta e l'ipotesi c'è sempre una di-stanza grande.

D'altro canto, non è detto che basti l'osservazione per cogliere le note: certe note po-trebbero essere come una sorta di paravento che ne copre altre, le quali divengono visi-bili alla luce di prospettive diverse. La teologia potrebbe, ad esempio, essere una via particolare per ricevere notificazioni dalla realtà. In questo caso, ovviamente, non po-tremmo esser certi che qualcosa ci sia notificato, dato che il grado di certezza dipende-rebbe dai presupposti cui è ancorato il discorso teologico. Si dirà che questo è sufficien-te per non prendere in considerazione filosoficamente le tesi teologiche, il che, prima ancora di poter essere dichiarato vero o falso, ci induce a interrogarci sul rapporto tra filosofia e teologia. Per non allontanarci da Zubiri, potremmo concretamente domanda-re: in Zubiri, la teologia e la filosofia sono separate, o piuttosto si può pensare che un certo modo di intendere la teologia rappresenti la punta avanzata dell'analisi filosofica? Non è una domanda fondata sul vuoto: è Zubiri stesso, nel saggio in cui analizza filoso-ficamente il fatto della religazione, a parlare di questo fatto come del fondamento di una teologia fondamentale. Appunto di questa teologia si può chiedere se abbia o non abbia rapporto con l'analisi filosofica. In Zubiri, la teologia fondamentale parte da un fatto a cui l'analisi filosofica arriva, e dunque, in una sua dimensione, la teologia eredita l'ana-lisi della realtà. È un dato di fatto che nella religazione si trovi un anello di congiunzio-ne tra le due discipline.

Da questo punto di vista, l'osservazione che la teologia è una disciplina diversa dalla filosofia non viene affatto contestata, anzi resta accettata come ovvia; però si può vede-re come la teologia non galleggi sul vuoto, ma su una precisa dimensione fondamentale. Nulla mette in questione la sua autonomia, ma la si può vedere come un livello cui si ar-riva seguendo un cammino graduale, dove ogni tappa sbocca nella successiva: il fatto dell'apprensione, l'analisi dell'apprensione, la metafisica intramondana, la dimensione teologale, la teologia fondamentale, la filosofia della religione, la teologia tout court. Se lasciamo da parte l'ultimo punto della teologia tout court, vediamo che tutti gli altri so-no agganciati ad analisi di realtà che rivelano note che, non essendo superficiali, non e-rano inizialmente evidenti. Sono note ulteriori, ma note a tutti gli effetti. Se ad esempio la metafisica intramondana ci porta a formulare una concettualizzazione chiara dell'es-senza della sostantività umana, questo non vuol dire che il discorso sia concluso: già la dimensione teologale ci fornisce nuovi elementi che vanno integrati con le note prece-dentemente apprese. È perfettamente possibile che la via della religazione, scoprendo la realtà divina, costringa a ripensare l'essenza della realtà umana. In breve, «Dio» può di-ventare un punto di vista da cui riconsiderare tutta la realtà, integrando alle analisi pre-cedenti il versante che dà verso Dio. Ne risulteranno - sia pure scoperte in modo media-to - altre note del reale.

In questo quadro, dire che l'immortalità è un tema teologico significa dire troppo o troppo poco: c'è uno sviluppo articolato, che è riduttivo semplificare in due caselle - ve-rità di fede e verità di ragione - ed è troppo veloce la riduzione dell'immortalità alle ve-

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rità di sola fede. In alternativa, vorrei provare a ragionare sulla presenza deificante di Dio nell'uomo, non come avvenimento casuale e contingente, ma come elemento costi-tutivo ed essenziale.

La dimensione teologale è di certo una nota della sostantività umana. Dunque, se fi-losoficamente si vuole dire che la presenza di Dio nell'uomo non appartiene di suo all'uomo stesso (tesi peraltro ardita), si dovrà aggiungere che, nella riconsiderazione teologica, questa presenza costituisce e fa essere reale l'uomo, che solo grazie a essa esi-ste. Dio costituisce e fa essere reale il «di suo» umano; ovvero, il «di suo» richiede la presenza divina non come una inerte permanenza nel fondo, ma come potere operante e costituente: senza Dio, l'uomo non è né reale, né di suo, né suo.

Ricordiamo che, al momento della genesi umana, perché l'uomo sia reale, di suo e suo, è necessario un intervento della natura naturans: l'elevazione. Bisogna allora chie-dersi in che modo la riconsiderazione teologica modifichi la nostra concezione della na-tura naturans. Bisognerebbe anche chiedersi cosa sia ciò che, sul piano meramente de-scrittivo, chiamiamo natura naturans, per non rischiare di dare semplicemente un nome a un problema. Dio non può essere realitas me reificans, come Zubiri lo definisce, con totale indipendenza dalla natura naturans, dato che l'azione naturante sfocia appunto in me: la persona umana concreta è il termine tanto dell'azione reificante di Dio quanto dell'operazione naturante della natura. Ciò non vuol dire che Dio e la natura debbano essere identificati, ma che la natura naturans (creata) produce quella stessa persona umana che Dio reifica. Se si vuole, Dio reifica attraverso la natura: quel che conta è connettere le due nozioni. La deiformità dell'uomo, interpretando fedelmente Zubiri, non va collocata solo a livello della personalità, ma a livello della personeità, cioè della struttura reale essenzialmente personale dell'essere umano, della sua realtà di fatto. In qualche modo, il potere naturans è legato al potere reificans di Dio. Azione deiforman-te, reificante e naturante sono perfettamente distinguibili sul piano concettuale, ma ciò che conta è che concorrono a produrre materialmente la realtà personale umana. In que-sto contesto, il minimo che si possa dire è che l'affermazione della morte totale umana è una mera ipotesi.

In effetti, a una considerazione «ingenuamente» realista, la morte si presenterebbe come un fatto inconcusso, mentre l'immortalità personale apparirebbe come una vaga aspirazione, non solo da dimostrare, ma addirittura contraddetta dai fatti. Non per niente il sostenitore dell'immortalità fa sempre appello a una «fede» che usa in modo strumen-tale: Dio svolge la funzione di un espediente logico o quasi logico con il quale possiamo prescindere dai fatti. È però ingenuo tanto il realismo di chi ritiene la morte un fatto quanto il fideismo di chi non si preoccupa di confrontarsi coi fatti. In Zubiri sono rifiu-tati entrambi questi atteggiamenti: morte e immortalità sono due ipotesi alternative e con lo stesso grado di probabilità, perlomeno sul punto di partenza. Già dopo un po' l'i-potesi dell'immortalità appare più plausibile, ma per il momento fingiamo di ignorarlo.

Parlando in termini filosofici, in El problema teologal del hombre, Zubiri scrive: «Dio è trascendente "nelle" cose. L'impossessamento della persona umana ad opera del potere del reale è allora impossessamento dell'uomo ad opera di Dio» [HD, 377]. In al-tre parole, Dio si appropria dell'uomo. Scrive ancora:

«Non si tratta del fatto che vi sia la persona umana "e inoltre" Dio. Proprio perché Dio non è trascendente alle cose, ma trascendente in esse, le cose non sono simpliciter un non-Dio, ma in qualche modo sono una configurazione di Dio ad extra. Pertanto, Dio non è la persona umana, ma la persona umana è in qualche modo Dio: è Dio umanamente» [HD, 379].

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Questa posizione, peraltro perfettamente ortodossa dal punto di vista cattolico, è data da Zubiri in termini filosofici, come pura «analisi della realtà umana» [HD, 379]. E po-trei chiedere: l'azione di Dio, oltre che deiformante, reificante e naturante (indirettamen-te), non sarà anche deificante, nel senso della theosis patristica? È la domanda che for-mula un'ipotesi filosofica dell'immortalità.

Zubiri era perfettamente consapevole del fatto che, a livello filosofico, la questione partisse da un conflitto tra ipotesi. In El problema filosófico de la historia de las reli-giones scrive:

«Naturalmente, nessuno ha avuto il vissuto della sopravvivenza. Ma nessuno ha avuto nep-pure il vissuto della non-sopravvivenza. Quanto a fede, tanto è fede l'una quanto l'altra, la positiva come la negativa. Non si può dire che la conditio possidentis sia quella di chi non crede nella sopravvivenza. Non si tratta di una conditio possidentis, ma di un'opzione» [PFHR, 108].

Al riguardo vorrei fare una parentesi che non è strettamente attinente al tema, ma forse può servire a chiarirlo o a denudarlo. Sapere che Dio esiste non comporta imme-diatamente la certezza dell'immortalità umana: Dio potrebbe esistere e l'uomo potrebbe essere mortale, visto che come creatura non aggiunge né toglie nulla all'essere divino. Voglio dire che la cosa è teoricamente pensabile, e quindi dimostrare l'esistenza di Dio non significherebbe aver dimostrato anche l'immortalità umana. D'altro canto è vero an-che il contrario: negare l'esistenza di Dio non comporta automaticamente la negazione dell'immortalità. Voglio dire che si potrebbe ipotizzare che Dio non esiste, e tuttavia l'uomo è immortale. L'idea può lasciare perplessi, ma la classificazione Dio = sopravvi-venza, ateismo = morte, non cessa di essere un nostro pregiudizio. Perché no? Dove sta scritto che l'immortalità personale sia incompatibile con qualunque posizione atea? Molti hanno potuto sostenere che il buddhismo è ateo: è un'interpretazione campata per aria, ma dimostra che si è potuto pensare a una visione in cui Dio non c'è, ma c'è l'af-fermazione potente dell'immortalità umana. Dobbiamo scollegare il binomio morte-immortalità dal binomio Dio-ateismo: Zubiri dice ad esempio che anche gli atei debbo-no confrontarsi col fatto della deità.

Qui riprendiamo il filo del discorso che evidenziava il legame tra natura naturans e potere del reale (deità): «La natura naturante, essendo l'unità primaria, determina ciò che vi è di più intrinseco nelle strutture naturate, e questa determinazione è ciò che chiamiamo produzione» [SH, 466]. Nell'uomo c'è quel modo di produzione particolare che consiste nel «far fare»; ad esempio, far sì che le strutture cellulari facciano la psi-che. Ora, parlando della deità, Zubiri dice che non è un fumoso carattere pseudodivino, ma è «la realtà stessa delle cose in quanto, come potere, manifesta la sua formale costi-tuzione in Dio» [HD, 156]. E aggiunge, sempre parlando della deità:

«I greci dicevano che la Natura, la Physis, è divina, è theion, perché secondo loro era im-mortale e inesauribile, cioè sempre giovane. Oggi questo non è ammissibile da nessun pun-to di vista. Ma tuttavia i greci sfiorarono con questo una cosa essenziale, che non ha avuto alcun ruolo in filosofia: il carattere delle cose che non sono dèi né sono divine, ma che hanno comunque qualcosa di questo carattere: sono formalmente deità» [HD, 156].

Si può non credere in Dio, ma non si può negare che la natura possieda certe caratte-ristiche di creatività e produzione, tradizionalmente considerate divine. È il punto in cui la brillante analisi di Feuerbach dell'Essenza della religione non è riuscita ad arrivare. Si arena qui quella sua «riforma della filosofia», incapace di percorrere fino in fondo la strada che aveva programmato: «Il mondo, scriveva Feuerbach, non ci è dato per mezzo del pensare, almeno non per mezzo del pensare metafisico e iperfisico che astrae dal

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mondo reale e pone la sua vera, suprema essenza in questa astrazione; esso ci è dato per mezzo della vita, dell'intuizione, dei sensi. Per un essere astratto, solo pensante, non esi-ste alcuna luce, perché non ha occhi; non esiste alcun calore, perché non ha sensibilità; non esiste, in genere, alcun mondo, perché non ha occhi adatti a coglierlo; non esiste in senso proprio assolutamente nulla. Il mondo quindi ci è dato solo in quanto non siamo esseri logici o metafisici». Rispettando tutte le esigenze di un'epistemologia materiali-sta, Zubiri mostra che è sbagliato esattamente il punto in cui Feuerbach dice che l'essere divino, che si manifesta nella natura, non è altro che la natura stessa. C'è in Feuerbach, e poi in Engels, un'analisi incompleta della natura stessa, che appunto permetterebbe di chiedere provocatoriamente perché non sia pensabile l'ipotesi di un'immortalità come estrema performance della natura stessa.

Ad ogni modo è difficile sostenere una posizione atea contro l'analisi zubiriana della religazione. Per Zubiri, Dio sta dando realtà alle cose,

«sta nelle cose "facendo sì che siano reali", cioè facendo sì che siano de suyo. È ciò che ho chiamato fontanalità della realtà assolutamente assoluta. Dio è la realitas fontanalis. Nel caso specifico dell'uomo, è quanto costituisce ciò che ho chiamato tensione teologale; la mera fontanalità in tutto il reale è l'omologo della tensione teologale nell'uomo» [HD, 177].

Si può dunque dire che la realtà impone il fatto della religazione, e questo a sua volta impone la scoperta di Dio e l'evoluzione verso un discorso «teologico».

Può essere interessante vedere i termini teologici del problema, ricorrendo a El ser sobrenatural: Dios y la deificación en la teología paolina, scritto negli anni Trenta e in-cluso in Naturaleza, Historia, Dios. Si dirà che è un testo antico per esaminare una que-stione in cui Zubiri rettifica le sue posizioni negli Anni Settanta, il che è senz'altro vero. Però Naturaleza, Historia, Dios è anche un libro che Zubiri ha ripubblicato più volte, aggiornandolo, fino all'edizione inglese del 1980 - posteriore a Inteligencia sentiente - integrata da un'introduzione appositamente scritta per l'occasione. Non è un libro scon-fessato dall'autore, o quantomeno non è a questo saggio che si riferiscono certe precisa-zioni in esso contenute.

Zubiri si colloca nella cornice teologica della tradizione greca, dove il tema dell'im-mortalità coincide con la theosis, l'azione deificante di Dio. Dice San Paolo che Dio dei-fica gli uomini «comunicando loro la sua vita, che deposita in essi un'impronta della na-tura divina: è ciò che la grazia possiede di "essere"» [NHD, 308]. Qui si parla di essere forse per riprendere la terminologia classica, ma è evidente il riferimento alla realtà dell'uomo, piuttosto che alla nozione concettuale, astratta, dell'essere dei filosofi. Dun-que, ciò che chiamiamo grazia è teologicamente parte della concretezza materiale della vita umana e non una nota che si aggiunge alla realtà umana previamente esistente. La grazia è la qualità per cui la realtà umana è gradita a Dio. Naturalmente è un dono gra-tuito: non è che prima abbiamo l'uomo, creato ed esistente, e poi Dio lo osserva e lo gradisce, quasi compiendo un atto dovuto; no, la grazia non è una conseguenza della re-altà umana, ma un dono «non dovuto alla struttura dell'essere creato in quanto tale» [NHD, 309]. Però quello della gratuità è solo un suo aspetto. L'altro è l'inabitazione del-la Trinità nell'uomo, che

«ne fa un essere gradito a Dio. Non solo lo fa sembrare tale, o fa che per un atto di divina benignità Dio sia accondiscendente verso l'uomo, ma ci fa essere realmente graditi. Per-tanto include una trasformazione interiore non solo nel nostro modo di operare, ma anche nel nostro modo di essere » [NHD, 310].

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Non abbiamo ragione di entrare nei dettagli delle questioni teologiche. Ci interessa la grazia, una volta che sia nell'uomo, come elemento che modifica la persona, causando una metamorfosi, una palingenesi, una rigenerazione che ci rende partecipi della natura divina. In un discorso rigoroso di teologia bisogna distinguere tra la presenza di Dio nel-le creature in ragione della creazione e la sua presenza trinitaria nell'uomo in ragione della grazia. Ma fatta questa precisazione, nei padri greci la grazia non è il precedente dell'inabitazione; al contrario, l'inabitazione è il fatto radicale che comporta la grazia; in altri termini, la grazia è il precipitato nell'uomo di una previa presenza divina, presenza con cui Dio comunica all'uomo la sua vita divina:

«Pertanto, parlando rigorosamente, il possesso della grazia è una vita soprannaturale con-seguente alla nostra deificazione» [NHD, 312]. «L'interpretazione dei Padri greci, per va-riegata che sia, afferma unanimemente il carattere ontologico, e a suo modo anche cosmi-co, della deificazione. Perciò per loro, dal punto di vista di Dio, l'ontologia che noi chia-meremmo razionale non è che l'ontologia comune di Dio nelle sue produzioni ad extra. La deificazione è l'ontologia soprannaturale. Ma lo è di fatto, benché senza alcuna esigenza, e solo per pura liberalità» [NHD, 313].

In questo caso, il termine soprannaturale non indica una sorta di stratificazione di entità diverse: «Il prefisso sopra-, hyper, indica soltanto che il suo principio è trascen-dente e gratuito» [NHD, 313]; «la grazia assorbe, per così dire, l'uomo intero in un'unità suprema e trascendente» [NHD, 314].

Nel libro sul problema filosofico della storia delle religioni, molto posteriore, Zubiri si muove manifestamente nello stesso quadro di idee: «In virtù dell'adesione e del per-sonale affidarsi a Cristo, l'uomo acquista la corporeità stessa di Cristo» [PFSR, 252]. Pertanto, la deificazione non è qualcosa che dovrà avvenire dopo la morte, ma un pro-cesso già iniziato, un evento accaduto. Dopo la morte si avrà la pienezza dell'unione con Dio, non l'inizio dell'azione deificante.

La teologia della deificazione analizza, alla luce di Cristo, la realtà attuale dell'uomo nel mondo, non una sua futura condizione post mortem. La morte fisica risulta essere un momento interno a questo processo già operante. Il fatto della deificazione non evita all'uomo di morire, anzi la morte è un'esperienza che bisogna vivere perché la deifica-zione si completi e manifesti compiutamente i suoi effetti. Coniughiamo questa osser-vazione con la concezione unitaria della persona, di cui si è parlato prima. Avremo allo-ra che, nell'ottica della deificazione, l'uomo muore e certamente lascia dietro di sé un cadavere; tuttavia è pur sempre tutto l'uomo a essere deificato e a sopravvivere. In altri termini, da una concezione rigorosamente unitaria dell'uomo non deriva l'obbligo di pensare la morte fisica come disintegrazione della struttura essenziale umana. Se c'è una prospettiva teologica che, partendo dalla deificazione avviata, includa la morte come suo momento, allora si è fuori dall'alternativa tra dualismo corpo-anima (per «salvare» la fede nell'immortalità) e concezione unitaria (con la conseguente interpretazione della morte come dis-integrazione, de-strutturazione della sostantività umana). Dentro la pro-spettiva della theosis, il fatto che l'uomo sopravviva lasciando un cadavere non è un ar-gomento contro la concezione unitaria del sistema strutturale umano.

Allora dobbiamo domandarci, tornando alla prospettiva filosofica: il cadavere... cos'è? Cadavere non è sinonimo di corpo umano, né di corpo morto, perché ha senso parlare di corpo solo per indicare il sottosistema somatico della realtà umana come tale, cioè come vivente. Vuoi o non vuoi, il cadavere non è propriamente la «realtà umana», e le attenzioni che riceve nel culto e nel rispetto della gente non le deve a ciò che è mate-rialmente, ma al ricordo della persona vivente cui rinvia. A tutti gli effetti, non solo non

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è realtà «umana», ma è addirittura una cosa nuova. Si potrebbe dire descrittivamente che nel momento della morte la sostantività umana «dà di sé» un cadavere. La questione è appunto se dà di sé solo questo.

A volte è stata usata la metafora del filo di rame e della corrente elettrica: quando la corrente non c'è più, rimane il filo di rame come tale; analogamente, il cadavere sarebbe il corpo senza più la corrente della vita. Ma è una metafora fuorviante. Anzitutto il ca-davere è pieno di vita biologica, altrimenti non andrebbe in putrefazione. Non è che gli manchi «la vita» simpliciter: gli manca semmai la vita umana. Inoltre, la corrente elet-trica attraversa un filo conduttore che le preesisteva con tutta la sua realtà materiale, mentre la vita umana non è qualcosa che «attraversa» il corpo: piuttosto, lo struttura, lo fa essere. È come se una corrente elettrica producesse il suo filo conduttore: non si tratta solo di scorrere in un mezzo dato, ma di produzione del vivente per strutturazione e or-ganizzazione.

Il cadavere non contiene vita umana, cosa ovvia ai limiti del ridicolo, ma proviene da un evento che capita alla vita umana, al vivente. Nel momento della morte, il corpo vi-vente, che era una struttura unitaria, pur conservando tutti gli elementi materiali che componevano tale struttura, ha cessato di essere una struttura e perciò questi elementi vanno al proprio destino di decomposizione. Allora, quando parliamo di sostantività umana, ci riferiamo a qualcosa che tiene insieme i pezzi e impedisce loro di decomporsi dopo averli prodotti come insieme. Noi diciamo che la morte è la dis-organizzazione o destrutturazione dell'organismo umano, ma questo è inesatto: non è che esistano singo-larmente degli organi che poi una struttura mette insieme, ma esiste un'attività struttu-rante che produce gli organi a partire dalla cellula germinale, con un processo che ha tutti i caratteri di una progressiva specificazione di funzioni interne. Il problema princi-pale, allora, non è che gli organi si dis-integrano rompendo la struttura, ma è che la struttura non li tiene più in vita. E appena smette di tenerli in vita, si produce il cadave-re, come cosa nuova e irriducibile al vivente. È difficile evitare le metafore su questo argomento, ma sembra errato dire che con la morte la persona, il tale che ha un nome e un cognome, cessi di stare in vita; ciò che cessa di stare in vita (vita umana) è il cadave-re: della persona, della vita umana non sappiamo nulla. Può darsi che non ci sia più, che sia scomparsa del tutto; quel che è certo è che non la troviamo nel cadavere, né viva (ovviamente) né morta. Il cadavere non è la persona morta: semplicemente, non è per-sona, è una cosa diversa dalla realtà che chiamiamo persona.

La cosa incredibile è che del cadavere non abbiamo alcuna concettualizzazione de-cente. Non si è indagato a fondo cosa sia de suyo, benché nulla ci obblighi a definirlo come la realtà in cui si trasforma il vivente quando muore. Dove sta scritto che si tratta dell'aspetto morto di una sostantività vivente? Dov'è l'obbligo di interpretare la morte come de-strutturazione? Se il processo strutturante produce l'organismo coi suoi organi, cioè è organizzazione, non c'è affatto obbligo di pensare che la disintegrazione del ca-davere abbia effetti su questo stesso processo strutturante; il cadavere, ovviamente, non è causa della morte bensì effetto, e non sarebbe affatto impossibile pensare che la strut-turazione stessa, prolungandosi su altri livelli, in altre forme, produca la morte. Un'ana-logia è quella del serpente che muta la pelle: non è che la pelle cada per un processo di destrutturazione, né la perdita della pelle stessa ha ripercussioni sul processo biologico che l'aveva prodotta e che continua a operare. Naturalmente quest'analogia va portata a un livello più profondo: non a un processo interno alla sostantività umana già struttura-ta, ma una relazione tra questa stessa sostantività e il potere che la organizza, potere che organizza la stessa cellula germinale. È peraltro singolare che nella lingua comune si sia

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formata l'espressione sorprendente: morte naturale, cioè l'idea di un processo che, non alterato da fattori imprevedibili ed esterni, include la morte come elemento proprio, na-turale, non ostile o distruttivo. Può darsi che la morte segnali il limite del processo strut-turante, ma può anche darsi che questo processo segua altre forme, per le quali non è necessario «tenere in vita» una parte consunta della sostantività umana, e si produce il cadavere. In entrambi i casi il cadavere è ciò che la sostantività vivente dà di sé, vuoi come un rifiuto, vuoi nel suo estremo sparire.

D'altro canto, se la sostantività umana è corpo psichizzato o psiche corporea, che si-gnifica l'assenza di vita psichica nel cadavere (encefalogramma piatto)? Quando parlia-mo in termini di separazione tra corpo e psiche, ci è facile vedere il cadavere come una realtà che proviene direttamente dal corpo vivo; per la psiche, invece, dobbiamo pensare un'interruzione drastica. Nessuna attività psichica, nemmeno disorganizzata o semi-inconscia, sopravvive al momento della morte: siamo talmente abituati a questo fatto da non renderci conto di quanto sia sorprendente, soprattutto da un punto di vista materiali-sta, o da una concezione non dualista del «corpo psichizzato». Il corpo umano, si dice-va, è psichico nel senso che le strutture biologiche dànno di sé una psiche per elevazio-ne. Ora, con la morte cessa di essere «materia psichica», e questo implica che la morte produca un cambiamento di stato o di livello della materia stessa. Alla morte, questa materia elevata (il corpo psichizzato) precipiterebbe in un cadavere a-psichico: di con-seguenza, ciò che prima chiamavamo psiche risulterebbe una mera attività dell'organi-smo, che viene meno quando questo si dis-organizza: una sorta di proprietà sistemica della struttura sostantiva umana. In tal caso il concetto di elevazione diventa totalmente incomprensibile.

Si ricorderà che l'elevazione era indispensabile al passaggio all'uomo inteso quale a-nimale di realtà, indispensabile cioè all'acquisizione di una cognizione senziente in for-malità di realtà: come si può pensare che questo avvenga pro tempore? Se la psiche è solo una proprietà sistemica, basta che si formi la cellula germinale per avere attività psichica e non serve l'elevazione. Ma se serve l'elevazione, come è ovvio, dato che con l'uomo si produce un nuovo tipo di materia (nuovo rispetto alla materia animale, oltre che a quella meramente vivente e a quella non vivente), l'attività psichica è la manife-stazione di questa novità delle strutture materiali, una novità che non è attestata dall'os-servazione del cadavere. Parlando cinicamente, la materia animale morta e la materia umana morta in che si differenziano? E come è possibile che non si differenzino se, quando erano vive, erano diverse e irriducibili a uno stesso tipo di materia? Ripeto: o l'elevazione non esiste, e allora non c'è alcuna differenza tra la materia «cavallo» e la materia «uomo» (né da vivi, né da morti), o l'elevazione è un dato di fatto, e allora la materia di cui sono composti i rispettivi cadaveri dell'uomo e del cavallo è una cosa nuova rispetto all'uomo e al cavallo viventi. In questo caso non ha alcun senso dire che il cadavere di Caio «è Caio»; anzi, non ha neppure senso dire che si tratta del cadavere «di» Caio, se non per indicare una relazione d'origine: è ciò che Caio ha dato di sé al momento della morte. E allora, ciò che chiamiamo «morte» è per noi un'esperienza del tutto sconosciuta.

Si badi bene che la novità della materia umana non sta nel fatto che l'uomo pensa e si rende conto della realtà, mentre l'animale vive dentro la formalità di stimolo: questa dif-ferenza è reale, ma sembra essere piuttosto un effetto della novità umana, vale a dire ciò che la caratterizza dall'esterno. Ma essa deve per forza fondarsi su una differenza inter-na, nella struttura stessa di tale materia umana, la quale pensa perché intrinsecamente è fatta in modo tale da poter pensare, cioè è fatta diversamente dalla materia animale. Ora,

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se noi includiamo la morte nella struttura biologica stessa - come sembra inevitabile - dobbiamo dire che la morte dell'uomo è un elemento biologico intrinsecamente diverso dalla morte dell'animale. Non voglio dire che l'uomo sopravvive e l'animale no: dico che in entrambi i soggetti - l'uomo e l'animale - si può pensare che una delle cose che accadono al momento della morte è dare di sé un cadavere, come una specie di vomito, ma ci risulta difficile e persino contraddittorio dire che non accada altro.

È possibile intendere questo «altro» come una sopravvivenza, senza che questo co-stringa ad abbandonare il principio dell'unità strutturale tra i sottosistemi corporeo e psi-chico? Credo di sì, e la stessa espressione «dare di sé un cadavere» cerca di salvaguar-dare questa unità.

Supposta l'immortalità, deve evidentemente trattarsi di sopravvivere in una forma di-versa da quella mondana, visto che comunque ci si strappa di dosso un cadavere. Que-stionando sulla mera terminologia, potremmo dire che anima è ciò che dà di sé l'intera sostantività umana nel momento in cui dà di sé anche il cadavere: stando al di qua, noi vediamo solo il cadavere, nel quale non c'è niente della persona, nemmeno il suo corpo. Se la persona sopravvive, essa si troverà tutta al di là.

Si ricordi che per Zubiri la materia è anzitutto potenzialità di dare di sé; poi è ciò che concretamente viene dato di sé. Possiamo allora dire che non sappiamo cosa e se la ma-teria umana possa dare di sé oltre al cadavere: in definitiva, la risposta a questa doman-da può dipendere solo dal modo in cui concepiamo l'essenza.

Ora, filosoficamente non c'è alcun obbligo di affermare che nell'essenza dell'uomo non vi siano elementi che impediscano di considerarlo immortale di suo. Anzi, parlando descrittivamente, è essenziale all'uomo (relativamente assoluto) venire costituito e stare attualmente costituito da Dio, assolutamente assoluto. Nell'uomo è essenziale la presen-za di Dio operante e costituente. È vero che l'uomo non risulta essere Dio, cioè immor-tale tout court, ma risulta «parente» di Dio e in intima comunione interpersonale con lui. Perciò dicevamo che, filosoficamente, è almeno sospettabile di immortalità, stante la difficoltà di spiegare la sua morte totale a partire da questa comunione essenziale.

Per illustrare meglio questo punto, benché in modo quasi telegrafico, è forse oppor-tuno precisare un punto che è rimasto un po' ambiguo in Zubiri, e ha portato all'articola-zione - a mio avviso limitata - della sostantività umana in due sottosistemi anziché in tre: corpo, psiche e spirito. Il punto a cui mi riferisco è l'affermazione zubiriana che non esiste la coscienza, ma solo atti coscienti.

Anzitutto in quest'idea c'è il rifiuto giustissimo di pensare la coscienza come una specie di cosa che sta lì nel mondo. Nel pensiero moderno, e poi con Husserl in sommo grado, la coscienza è stata concepita come se avesse una realtà sostantiva, cosa che nel modo più assoluto non ha. È anche impossibile pensare la coscienza come una specie di organo, quasi come se l'uomo avesse lo stomaco, il fegato e la coscienza. Chiarito que-sto, però, cosa impedisce di pensare la coscienza come una proprietà sistemica e parlare dell'uomo cosciente, non solo dell'atto cosciente? Non è detto che «cosciente» indichi solo un carattere dell'atto: potrebbe anzi trattarsi di un carattere della persona, i cui atti sarebbero di conseguenza coscienti, consaputi.

Di certo, nell'apprensione non ci è presente una nota che si possa individuare e ap-prendere come «la» coscienza; è perciò vero che non possiamo parlare dell'atto appren-sivo come di un atto «di coscienza». D'altronde, il mal di denti è una cosa e la coscienza di avere mal di denti è un'altra: sono due atti, di cui uno duole e l'altro no. Tuttavia il mal di denti fa male perché io sono consapevole del dolore che provoca; e questa con-sapevolezza non è un ingrediente presente nell'atto, ma è una proprietà del soggetto che

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compie l'atto. Le cose che mi sono presenti grazie all'apprensione erano già reali di per sé (cfr. il de suyo, o il tema del prius), però se io non fossi cosciente, la loro presenza sarebbe ignorata. Tant'è che posso agire sulla coscienza (non sull'atto apprensivo) con l'anestesia.

Una semplice riprova si ha quando uno si sveglia per un rumore violento: un forte colpo mi desta, e immediatamente percepisco tutti i suoni ambientali, come ad esempio il cinguettio degli uccelli. Questo esempio mostra alcuni fatti significativi. Anzitutto che, mentre dormo, i sensi continuano a presentare la realtà al cervello, benché io ri-manga incosciente, o almeno al di sotto di una certa soglia di coscienza (altrimenti il rumore più forte non mi sveglierebbe). In secondo luogo, tanto il rumore forte quanto il cinguettio mettono in moto il meccanismo dell'udito, solo che il cinguettio non mi sve-glia: mi è offerto, ma non si trova alla mia presenza perché non sono desto. Di conse-guenza, l'atto cosciente dell'ascolto non ha luogo, perché non sono cosciente io. L'ap-prensione del cinguettio è un atto cosciente solo nel presupposto che la persona sia sve-glia; ovvero, l'apprensione presuppone lo stato cosciente dell'apprensore. Non è che ci siano due apprensioni, una che coglie le cose e l'altra che coglie la coscienza. C'è una sola apprensione che è un atto cosciente perché è un atto compiuto da una persona co-sciente: proprio perché il reale viene attualizzato, presentato alla persona cosciente, que-sta ne è consapevole.

La sostantività umana è consapevole, cosciente, e lo è di suo: cioè si tratta di un dato che non stiamo ipotizzando, ma apprendiamo in un'autoapprensione. Non è il momento ora di fermarsi a esaminare le differenze tra apprensione e autoapprensione. Certo però, l'autoapprensione è un'esperienza particolare, con caratteristiche proprie, oltre che con le caratteristiche presenti in ogni atto apprensivo. Nell'autoapprensione ho presente «me stesso», e questo è certamente diverso dall'aver presente un albero, tuttavia tale «me stesso» mi è presente come di suo, come già, e come più. Ovvero, apprendo che sono come sono, con tutte le mie note che mi appartengono in proprio, di mio e di per me; apprendo che sono già tale previamente all'autoapprensione, e che sono più di quanto non apprenda di me stesso. Perciò risulto dotato di una nota che, per comodità di e-spressione, chiamerò coscienza, senza per questo pensarla come un organo o come una realtà sostantiva. Coscienza è solo il nome astratto per indicare il carattere cosciente della realtà umana, cioè della materia cosciente. La persona è materia cosciente.

La coscienza è una nota che non si può considerare avventizia, perché non dipende dall'interazione con le altre sostantività del mondo. Nel sonno, ad esempio, non sono cosciente, ma sono ancora in interazione col mondo, tant'è vero che oltre un certo limite scatta un meccanismo di difesa che produce un brusco risveglio. Dunque la coscienza è una nota costituzionale o costitutiva - il che non contraddice che la si consideri una pro-prietà sistemica. Costituzionale è la nota che dipende da altre, come l'aspetto albino di un individuo è fondato su un carattere genetico, perciò se la coscienza è una nota costi-tuzionale, sarà fondata su un processo più profondo, incosciente, che la produce, cioè su una nota costitutiva che chiameremo radice della coscienza, senza indagini ulteriori. La radice della coscienza sarebbe una nota essenziale, e come tale sarebbe un elemento fi-sico originato dalla cellula germinale. Nella concezione zubiriana della materia come potenzialità di dare di sé, possiamo dire che la cellula germinale dà di sé la coscienza, perché la sua essenza costitutiva ha le potenzialità per farlo ed è appunto materia co-sciente: come non si trasmette la psiche, così non si trasmette neppure la coscienza.

Si può anche ipotizzare che la coscienza sia una nota costitutiva e non costituzionale; in tal caso si tratterebbe di un elemento radicale già presente nella cellula germinale.

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Naturalmente si tratterebbe di una nota del sistema, cioè rispettiva alle altre note del si-stema, e siccome a livello di cellula germinale l'essenza umana è più potenzialità che at-tualità, si può ipotizzare che il feto «sia» cosciente, ma non stia nello stato di coscienza, analogamente a ciò che avviene nel sonno, in quanto non sono ancora costituite altre strutture somatiche di cui la coscienza ha bisogno, come ad esempio la memoria. Quel che ci interessa è che anche in questo caso la coscienza risulterebbe una nota fisica della sostantività umana e, come l'intera sostantività umana, sarebbe coinvolta nell'elevazione che crea la nuova materia personale, la materia cosciente, a partire dall'animale. Così, l'elevazione non avverrebbe solo come un passaggio alla formalità di realtà, ma anche come un'acquisizione di coscienza. S'intenda: di ciò che è la coscienza quando si parla dell'uomo. L'elevazione è un processo di cui ci è noto il punto di partenza (l'animale) ma non il punto di arrivo, nel senso che non sappiamo fino a dove può arrivare l'uomo, non sappiamo se lo abbiamo visto dare di sé tutte le potenzialità della sua essenza.

Comunque sia, la coscienza è coinvolta nei processi biologici della persona, e perciò ne parlo come di una nota della materia elevata. È una realtà di fatto che questa caratte-ristica dell'esser cosciente funzioni come funziona: a intermittenza, con i limiti noti del sonno, e via dicendo. Da un lato questo consente di dire che la nota della coscienza non rompe la strutturale unità del sistema sostantivo umano; dall'altro non implica che questi limiti non possano essere superati: intere civiltà (compresa la nostra) affermano che la cosa si può fare e forniscono i mezzi per tentarla. Peraltro, intere civiltà raccontano det-tagliatamente cosa succede subito dopo la morte o prima del concepimento, in testi che la nostra cultura ha sdegnato per pura alterigia.

Dire che la coscienza è una nota non significa aver capito cosa è: probabilmente non si riuscirà mai a risolvere il problema della mente; però quel poco che si può affermare -perché è notificato - è che la coscienza rientra nel processo di elevazione. Infatti, se prendiamo un organo come l'occhio, possiamo notare che non vi è una grande differen-za tra la vista umana e quella dello scimpanzè: l'immagine si forma sulla retina più o meno allo stesso modo, anche se l'uomo coglie l'immagine nella formalità di realtà e lo scimpanzè nella formalità di stimolo. La differenza non sta tanto nell'organo della vista quanto nell'interpretazione del dato visto. L'animale non avverte il de suyo. Forzando un po' l'espressione, possiamo dire che, cosciente dello stimolo, non è cosciente della real-tà. Perciò parlo della coscienza come proprietà sistemica soprattutto per sottolineare che dall'animale all'uomo cambia il sistema, e perciò si hanno diversi modi di coscienza. L'uomo è elevato alla coscienza capace di interpretare in termini di realtà: questo, prima ancora della raffinatezza dei suoi sensi, lo rende iperformalizzato.

D'altro canto l'elevazione è opera della natura naturans «attraverso» il dare di sé: è una rigorosa evoluzione. È comprensibile quindi che la qualità cosciente dell'uomo sia condizionata dalle forme e dai modi in cui è possibile alla sostantività umana darla di sé dalle sue strutture materiali. Si dà di sé una coscienza umana, diversa da quella animale, angelica o divina. Al modo umano della coscienza è strutturalmente connessa l'intermit-tenza della coscienza. Ora, la materia consegue l'elevazione «da sé», ma non «ad opera sua»: occorre l'opera della natura naturans, intesa come potere riconducibile alla causa prima. Perciò il potere divino, oltre a vivificare l'uomo, lo coscientizza, passando sem-pre attraverso le strutture materiali.

Tradizionalmente la presenza divina nella persona è stata indicata come dimensione spirituale o pneumatica dell'uomo. Da un certo punto di vista, questo è inesatto, perché il pneuma non sarebbe dell'uomo, ma di Dio. Però è solo parzialmente inesatto. Infatti, nell'ottica della religazione Dio non risulta un mero punto di sostegno inerte, una sem-

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plice condizione per l'esistenza dell'uomo; al contrario, è una realtà operante, reificante: oltre a consentire che sia reale l'essenza umana, compie l'azione di costituirla, di farla essere reale. L'essenza umana, ovvero la sostantività umana così come è, può essere rea-le solo grazie all'azione reificante di Dio. Da questo punto di vista si può dire che l'azio-ne divina è più che una mera condizione previa: è un elemento essenziale dell'uomo, appartiene all'essenza dell'uomo. Zubiri è molto deciso al riguardo e si spinge fino a dire che l'uomo include Dio, che è Dio umanamente. L'uomo ha dunque una dimensione pneumatica che da un lato è di Dio, e dall'altro è, per così dire, prestata all'uomo, dato che questi la presenta di suo.

Questa considerazione ci costringe a tornare all'inizio dell'indagine sulla sostantività umana, integrando i vecchi punti di partenza con le nuove acquisizioni. Infatti non basta articolare le note umane nei due sottosistemi somatico e psichico, e ne occorre un terzo, pneumatico, che l'uomo ha essenzialmente in prestito. La coscienza non è una nota che si possa includere nel sottosistema somatico. Certamente non è estranea alle vicende del corpo, ed anzi è intrisa di corporeità: basta una botta in testa e si perde coscienza. Però non è sempre presente ai processi sensibili ed è anzi il presupposto perché i vissuti fisici o psichici siano consapevolmente vissuti. Ripeto che questo non deve condurre a sostan-tivare la coscienza, che è sempre e solo un ingrediente del sistema. Ma neppure bisogna dimenticare che il sistema può trovarsi in stato incosciente. Non implico alcun soggetti-vismo se dico che quando non dormo sono cosciente (entro certi limiti) di processi sen-sibili o psichici. L'amore per i miei figli o il freddo ai piedi sono atti coscienti ma non nascono dalla coscienza. Ora, se dormo che accade? Cessano di essere coscienti, restan-do comunque atti, o cessano di essere atti? Come possono cessare di essere atti se il freddo ai piedi o le preoccupazioni per i figli mi svegliano? E come possono essere atti coscienti mentre dormo? Si può sostenere realmente che nel sonno cessa di essere que-sto elemento così mio e così reale come l'amore per i figli? Non solo sarebbe un'assurdi-tà, ma sarebbe - questo sì - soggettivismo. Nel sonno non cambia affatto la mia persona-lità; al contrario, per motivi che ignoro, la persona reale ha bisogno di dormire per con-tinuare a essere se stessa. Solo che quando dorme «è» incosciente, non consapevole di quel che vive.

La coscienza è dunque una nota della sostantività intera, una proprietà sistemica irri-ducibile ai sottosistemi. Né si può risolvere il problema dicendo che psiche e corpo sono una sola realtà psicosomatica, di cui appunto la coscienza sarebbe proprietà. Anzitutto non sta scritto da nessuna parte che il sistema sia solo psicosomatico: anziché ridurre tutte le note allo psico-soma, potremmo introdurre altri sottosistemi per meglio artico-larne la complessità. In secondo luogo, non è il vissuto psicosomatico a determinare la coscienza, anzi è la coscienza a determinare il vissuto psichico (e di conseguenza l'inte-ro sistema psicosomatico, se si vuole mantenere la concezione unitaria della persona). Infatti coscienza è, inevitabilmente, coscienza della formalità di realtà. A differenza dal-lo stimolo, ciò di cui sono cosciente non determina automaticamente un comportamento di risposta. Il fuoco, ad esempio, mi fa paura e mi spinge a scappare, ma la coscienza di realtà, il cosiddetto sangue freddo, mi consente di sospendere la reazione di fuga istinti-va per guardarmi intorno ed elaborare un progetto di risposta efficace. Durante la so-spensione della reazione istintiva, il vissuto non è: «la paura», ma è la paura frenata e la concentrazione. Questo secondo vissuto è determinato direttamente dalla qualità co-sciente dell'uomo e definisce una sorta di gerarchia tra funzioni del sistema psicosoma-tico. Chi volesse dire che la coscienza è una nota psichica, dovrebbe aggiungere che non

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è una nota come le altre, essendo anzi la premessa per esercitare persino un controllo sulle altre.

La coscienza non è il recinto entro cui tutto avviene, ma la proprietà che ci fa sapere che avviene. L'intero sistema «elevato» dal livello animale, è cosciente proprio perché l'animale è incapace di evolvere in coscienza di formalità di realtà, senza l'elevazione. Pertanto, se la corporeità e lo psichismo hanno continuità evolutiva con il livello anima-le, la coscienza non ce l'ha. Dunque il soma e la psiche sono sottosistemi di una struttura unitaria che inoltre ha un terzo sottosistema, la coscienza o dimensione pneumatica: l'uomo è cosciente perché Dio si è prestato a coscientizzarlo. Bisognerà allora scoprire se questo prestito, che è la presenza divina, dovrà o non dovrà essere restituito.

Il fatto è che quel pezzetto di Dio che mi è stato dato in prestito, mi è essenziale: è di Dio ma è essenziale a me. Come si può togliere «me» da un pezzo di divinità? Questa dimensione pneumatica è strutturalmente presente nell'uomo, è una sua nota strutturale, che non ha senso definire mortale o destinata a dissolversi con la morte umana. Se Dio non si riprende il suo spirito, rimane oltre la morte quell'elemento - insieme umano e di-vino - che è il potere costituente e reificante la persona concreta.

E per una singolare via, senza proponimento previo, questa considerazione richiama le parole del salmista: «Nascondi il tuo volto e il terrore li assale; togli loro il respiro ed essi muoiono, tornano a essere polvere. Mandi il tuo soffio di vita e sono ricreati, così rinnovi la faccia della terra» [104, 29-30].

Gianni Ferracuti 1994 Abbreviazioni e riferimenti HD: Xavier Zubiri, El hombre y Dios, Alianza, Madrid 1988. NHD: Id., Naturaleza, Historia, Dios, Alianza, Madrid 1987 (cito dalla mia traduzione italiana: Natu-

ra, Storia, Dio, Augustinus, Palermo 1990). OH: Id., El origen del hombre, in «Revista de Occidente», 2 epoca, luglio-settembre 1964, 146-173. PFHR: Id., El problema filosófico de la historia de las religiones, Alianza, Madrid 1993. SE: Id., Sobre la esencia, Alianza, Madrid 1962. SH: Id., Sobre el hombre, Alianza, Madrid 1986. Ho cercato di intervenire in una questione estremamente complessa, mantenendo una leggibilità che

non tagliasse fuori il lettore non specialista. L'esposizione iniziale del pensiero di Zubiri tiene conto della sua formulazione matura e, in particolare, si giova del riassunto che Zubiri stesso fa della sua filosofia nei primi capitoli di El hombre y Dios. Il problema del dinamismo e dell'evoluzione tiene conto soprattutto di Estructura dinámica de la realidad (Alianza, Madrid 1968) e di Génesis de la realidad humana (in SH, 445-476), molto più che di El origen del hombre, da cui ho citato un frammento per il suo riferimento specifico alla creazione. La descrizione dell'essenza tiene conto di Sobre la esencia, ma anche della trilo-gia su Inteligencia sentiente (Alianza, Madrid 1980 e segg.). Per la religazione è evidente il ricorso a El hombre y Dios, a Naturaleza, Historia, Dios e a El problema teologal del hombre, (ripubblicato in ap-pendice a HD); però sui concetti di deità, di potere del reale e di enigma ho tenuto presente anche El pro-blema filosófico de la historia de las religiones. Sul tema della morte, Sobre el hombre e i saggi raccolti in Siete ensayos de antropología filosófica, Universidad de Santo Tomás de Santafé, Bogotá 1982.

Per i riferimenti alla teologia greca, oltre al saggio citato di Zubiri, mi baso su Pavel Evdokimov, L'Ortodossia (tr. it. Edizioni Dehoniane, Bologna 1981) e altre opere sotto indicate.

Ho utilizzato moltissimo anche il libro di Diego Gracia, Voluntad de verdad. Para leer a Zubiri (La-bor, Barcelona 1986), che è un eccellente lavoro sull'opera complessiva di Zubiri - molto più che una me-

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ra «introduzione a». Ho anche tenuto conto del dibattito svoltosi nel primo congresso internazionale su Zubiri, Madrid 1993, di cui sono in pubblicazione gli atti.

Un ringraziamento particolare va agli amici della Fundación X. Zubiri, e in primo luogo alla signora Carmen Castro de Zubiri, per l'amabilità e la disponibilità a chiarire i miei problemi interpretativi.

Altri testi: X. Zubiri, Sobre el sentimiento y la volición, Alianza, Madrid 1992. Id., Los problemas fundamentales de la metafísica occidental, Alianza, Madrid 1994. R. Lazcano, Panorama bibliográfico de Xavier Zubiri, Ed. Revista Agustiniana, Madrid 1993. C. Castro de Zubiri, Xavier Zubiri, breve recorrido de una vida, Amigos de la cultura científica, San-

tander 1986. AA. VV., Voluntad de vida (Ensayos filosóficos), Universidad Centroamericana, Managua 1993. O. Clement, L'altro sole, tr. it. Jaca Book, Milano 1975. P. N. Evdokimov, La conoscenza di Dio secondo la tradizione orientale, tr. it. Paoline, Roma 1983. Id., L'amore folle di Dio, tr. it. Paoline, Roma 1983. Id., Le età della vita spirituale, tr. it. Edizioni Dehoniane, Bologna 1980. Id., Lo Spirito Santo nella tradizione ortodossa, tr. it. Paoline, Roma 1983. J. Ferrater Mora, El ser y la muerte, in Obras selectas, Alianza, Madrid 1967, II, 295-484. G. Gómez Cambres, Zubiri o el realismo trascendental, Agora, Málaga 1991. Id., Zubiri y Dios, Edinford, Málaga 1993. A. González, La novedad teológica de la filosofía de Zubiri, Fundación X. Zubiri, Madrid 1993. P. Laín Entralgo, Cuerpo y alma, Espasa-Calpe, Madrid 1991. Id., El cuerpo humano. Teoría actual, Espasa-Calpe, Madrid 1989. V. Lossky, La teologia mistica della Chiesa d'Oriente, tr. it. Edizioni Dehoniane, Bologna 1985. R. Martínez de Pisón Liebana, La religación como fundamento del problema de Dios en Xavier Zubi-

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Genesi della realtà umana* *«Génesis de la realidad humana», in Sobre el hombre, a cura di Ignacio Ellacuría, Alianza, Madrid

1986, 445-476. Per concettualizzare correttamente la genesi umana bisogna anzitutto prestare atten-

zione al particolare carattere materiale di questa genesi: gli elementi germinali sono in-fatti di carattere materiale. Pertanto dobbiamo anzitutto concettualizzare cosa sia l'esser materia e, in secondo luogo, in che consista formalmente la genesi umana.

A. La materia. Aristotele è stato il primo nella storia a dare un concetto rigoroso di materia. Per Aristotele le cose hanno proprietà o note, di cui nessuna, nemmeno il loro com-

plesso o aggregato, ha realtà per se stessa. Si tratta solo di proprietà di un soggetto a cui sono inerenti - inerenti pertanto a qualcosa di soggiacente. Perciò il soggetto soggiacen-te è la sostanza, la sostanza di ogni cosa. Le cose sono soggetti sostanziali.

Quando queste proprietà sono le qualità sensibili, elementari o combinate, diciamo che la sostanza è sostanza materiale. Venne adottato questo nome perché tali sostanze sono i materiali di cui sono fatte altre cose; cioè sono i soggetti di un mutamento. I ma-teriali sono qualcosa di indeterminato rispetto a ciò che si fa con essi. E ciò che vi si fa è una configurazione o conformazione di materiali, cioè una forma. A sua volta la stessa sostanza materiale, il soggetto stesso, ha una struttura precisa, perché anch'essa è mute-vole in sé, è trasformabile. Pertanto ha in sé un momento soggettuale, grazie al quale è soggetto di un mutamento sostanziale, e un momento formale, ovvero ciò che si è muta-to o in cui è stata mutata. Questo secondo momento è fatto o plasmato sul primo, che pertanto è materia della sostanza stessa: è la materia prima (próte hyle), soggetto della forma sostanziale. La sostanza materiale ha dunque un momento di materia prima e un momento di forma sostanziale.

Questa materia prima è l'essenza stessa della materialità. Qual è la sua consistenza metafisica? Considerata radicalmente e di per sé, la materia è priva di qualsivoglia pro-prietà: la materia non è né una cosa né una quantità determinata, non è niente di ciò che si predica di qualunque ente in modo determinato: he hyle méte tí méte posón, méte allo methén légetai hois hóristai tò ón (Met. 1029 a 20). È qualcosa di aóriston, indefinito; qualcosa di indeterminato, ápeiron (1037 a 27; 207 b 35, ecc.). È pura potenza: la mate-ria è in ogni cosa la potenza: he hyle tò dynámei hékaston (1092 a 3). È pura ricettività: tò dektikón, ad esempio (320 a 2). È puramente «suscettibile», come dicevano gli scola-stici. L'essenza della materialità è dunque indeterminazione, potenzialità e ricettività. La

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sostanza in quanto materia già formata sarà materia seconda, cioè la sostanza materiale. Questa è stata la concezione aristotelica, modellata sull'idea dei materiali.

Orbene, è esatto questo? Non lo credo, per varie ragioni. In primo luogo le cose non sono sostanze, soggetti, ma sono sistemi di note o proprietà; cioè non sono sostanze bensì sostantività. Occorre superare l'idea di sostanza nella concettualizzazione della re-altà. In secondo luogo risulta allora chiaro che le cose non richiedono un soggetto al di sotto delle loro proprietà. La sostantività non è un mero aggregato di proprietà, ma qualcosa di diverso: è un sistema, è una cosa intrinsecamente e formalmente sistematiz-zata, un sistema in cui le cosiddette proprietà non sono inerenti a un soggetto, come pensava Aristotele, ma sono momenti del sistema totale. Le proprietà non sono inerenti a un soggetto, ma sono coese tra loro. Per Aristotele, in quanto proprietà la loro unica relazione reciproca deriva dalla loro inerenza a uno stesso soggetto. Invece in una so-stantività le proprietà hanno un intrinseco riferimento le une alle altre nel sistema, han-no cioè in ogni caso una coesione sistemica.

Questi sistemi hanno due classi di proprietà: a) quelle che ciascuna nota o elemento conferisce loro; le chiameremo proprietà elementari; b) quelle che provengono dalla si-stematizzazione degli elementi stessi. Così, ad esempio, l'energia cinetica di un sistema meccanico è distribuita nell'energia cinetica di ogni suo elemento, ma l'energia poten-ziale del sistema è una proprietà diversa: appartiene al sistema in quanto tale e non è di-stribuibile nei suoi elementi. Ugualmente, la vita di una cellula è propria soltanto del «sistema» stesso, cioè della struttura. A queste proprietà riservo, in modo esclusivo e formale, il nome di proprietà sistemiche. Se un elemento potesse esistere soltanto dentro un sistema, non per questo le proprietà di tale elemento sarebbero note sistemiche. È il caso, finora, dei quark. Non esistono separati, ma le loro proprietà sono elementari e non sistemiche. Sarebbero sistemiche solo, ad esempio, alcune proprietà del protone co-stituito dai quark. Il sistema opera in ogni sua azione con tutte le sue proprietà, sia ele-mentari sia sistemiche, anche se il contributo di ogni proprietà all'azione del sistema to-tale può essere, ed effettivamente è, molto diverso, a seconda di come siano le azioni. Questo contributo è ciò che chiamo dominanza di alcune proprietà su altre nelle azioni.

Pertanto l'idea di materia prima è una costruzione concettuale, ma senza base reale. Non esiste altra materia che quella chiamata da Aristotele materia seconda, cioè le cose materiali pure e semplici.

Ciò supposto, cos'è positivamente la sostantività materiale? La sostantività materiale è quella le cui note sono le cosiddette qualità sensibili e le loro molteplici combinazioni. Ci chiediamo allora in che consiste la sua stessa materialità in quanto tale.

Per concettualizzare la materialità della cosa materiale, torniamo all'idea dei materia-li. Certamente i materiali hanno una qualche indeterminazione, ma parziale e molto li-mitata, dal momento che una sostantività materiale qualsiasi non può servire come ma-teriale per qualunque cosa. La sostantività materiale è infatti indeterminata, ma indeter-minata rispetto a che? rispetto a ciò che si fa con essa. E in questa direzione la sostanti-vità materiale ha una capacità limitata.. da cosa? da ciò che chiamerò «dare di sé». La capacità di «dare di sé» è sempre qualificata e determinata in rapporto alla composizio-ne di altre realtà (sostantive o meno). «Dare di sé» è sempre dare di sé proprietà nuove o sostantività nuove. La materialità, dunque, non è formalmente indeterminazione, perché l'indeterminazione è solo l'aspetto negativo di una cosa positivamente qualificata: la ca-pacità di «dare di sé». «Dare di sé» non è lo stesso che «dare di per sé». La sostantività materiale può avere capacità di dare di sé per l'azione di un'altra sostantività: il «dare di sé», pertanto, è dare di sé ad opera propria o altrui. Orbene, queste capacità già qualifi-

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cate di «dare di sé» sono ciò che chiamerò potenzialità. Il termine e il concetto derivano dalla biologia della differenziazione embrionale: le potenzialità di una cellula germinale sono, ad esempio, le sue capacità di differenziarsi in tessuti diversi. Ma credo che il termine e il concetto debbano essere elevati all'ordine metafisico: le potenzialità sono le diverse capacità di «dare di sé» qualcosa di nuovo.

Precisiamo un po' questo concetto. Non si confonda il concetto di potenzialità con quello di «potenza». Potenza è ciò il cui atto è una determinazione che deve essere rice-vuta. Invece la materia non è solo potenza, ma è piuttosto principio di atto, principio di qualcosa che è nuovo in sé. Inoltre le potenzialità non sono mere potenze attive, cioè capaci di operare, ma hanno in sé una struttura molto precisa e per giunta variabile nel loro stesso esercizio. Non sono potenze attive ma capacità «strutturali» di dare di sé. Per evitare questo equivoco, anziché di potenzialità si potrebbe parlare piuttosto - se non si-gnificasse abusare di neologismi - di «potentità», cioè della loro qualità di essere poten-ti. L'essenziale delle potenzialità sta nel fatto che non sono una forza che porta ad agire su un'altra, ma sono capacità che escono dalle strutture stesse. Dunque non sono la stes-sa cosa la potenza attiva e le potenzialità, perché le potenzialità sono un dare di sé, e da-re di sé è far uscire da sé. Inoltre il dare di sé è radicalmente dare di sé verso se stesso: dare è realizzarsi, costituirsi tanto in rapporto alla funzione che si svolgerà, quanto in rapporto alle proprie strutture che, dando di sé, si realizzano più pienamente. Parlando di potenzialità, al plurale, si evita abbastanza l'equivoco del termine «potenza».

Non si confonda neppure il concetto di potenzialità con il concetto di possibilità, proprio dell'attività umana. Le possibilità riguardano sempre l'ordine operativo, mentre le potenzialità riguardano l'ordine costitutivo. Pertanto, ciò che riferendoci all'attività umana chiamiamo «le sue possibilità», non corrisponde alle potenzialità, benché evi-dentemente le presupponga.

In definitiva, la materia è principio di atto. Le sue potenzialità sono i modi in cui è principio: capacità di «far uscire da sé», di «innovazione», di «realizzazione» (costitu-zione strutturale). Sono i tre momenti formali della materia come principio di atto. Le potenzialità appartengono dunque alla sostantività materiale, in primo luogo intrinse-camente, in secondo luogo formalmente, e in terzo luogo strutturalmente. In virtù di ciò sono di carattere rigorosamente dinamico, sono i momenti dinamici della materia come principio di atto. Cioè, le potenzialità appartengono intrinsecamente alla struttura for-male stessa della sostantività materiale e la mostrano come principio dinamico di atto. In esse consiste positivamente la materialità della sostantività materiale.

In definitiva, materia è quella sostantività le cui note sono le cosiddette qualità sen-sibili. La sua materialità è il sistema di potenzialità conforme al quale questa materia ha intrinsecamente, formalmente e strutturalmente la capacità di «dare di sé». Pertanto ma-terialità non equivale a indeterminazione, ma piuttosto a ciò che chiamo polivalenza: è la polivalenza delle potenzialità della sostantività materiale in rapporto al suo dare di sé. E allora le potenzialità costituiscono la materialità della materia non perché sono qual-cosa di indeterminato, ma perché sono potenzialità polivalenti di un sistema di qualità sensibili.

Le potenzialità hanno una struttura molto precisa. Per questo non hanno tutte lo stes-so carattere. Le potenzialità possono essere di carattere attivo o ricettivo, cioè vi sono potenzialità di dare di sé in senso attivo e potenzialità di ricevere. Non si tratta della ri-cezione di un atto, bensì di un atto di ricezione. Atti di ricezione li abbiamo chiaramen-te, ad esempio, nell'attività animale e in quella umana. Così il palpare è un atto ricettivo diverso dal mero toccare. Accade la stessa cosa col guardare anziché vedere, con l'a-

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scoltare anziché udire, l'assaporare anziché gustare, l'annusare invece del mero sentire odori. Sono sempre atti ricettivi, perché il loro momento di ricettività è soltanto un mo-mento dell'atto in quanto atto. Nell'ordine delle strutture sono potenzialità ricettive.

Inoltre il dare di sé può essere immediato o soltanto mediato. Il ferro non ha poten-zialità immediata di vita, né l'ameba ha la potenzialità immediata di vedere. Quando le potenzialità sono mediate, possono cambiare nel corso stesso del dare di sé. La cellula germinale, nel suo momento germinale, è toti-potente in rapporto alla sua differenzia-zione, ma questa capacità viene enormemente limitata nella misura in cui la differenzia-zione progredisce. Forse il caso estremo è il neurone, che una volta costituito è incapace di qualunque divisione o differenziazione.

Il dare di sé proprio di ogni potenzialità, sia attiva sia ricettiva, può essere - ripeto - molto diverso. In primo luogo, una sostantività materiale può dare di sé producendo per trasformazione alcune note o particelle elementari nuove: non si tratta di trasformare le proprietà di un soggetto, ma di produrre interamente e in blocco, per così dire, una nuo-va particella elementare. È quanto accade nella produzione o nell'annientamento di al-cune particelle elementari. Ma generalmente le potenzialità producono qualcosa di nuo-vo per sistematizzazione. Sono ciò che io chiamerei potenzialità di sistematizzazione. Così, la vita è un'innovazione che la sostantività materiale dà di sé per mera sistematiz-zazione. E, una volta dentro la vita, ci sono ancora modi diversi di sistematizzazione vi-tale. Uno, quello che costituisce la struttura di ciò che io chiamo materia vivente. Non si tratta della materia di cui è «fatto» l'essere vivente, ma di una materia che «è» vivente in se stessa. È una pura ipotesi, senz'altra intenzione che di introdurre un concetto aperto, una via aperta, nel cammino che conduce dalla materia non-vivente alla cellula1. La vita è la caratteristica di un sistema in equilibrio dinamico e reversibile, che possiede se stes-so, è una stessità, con una indipendenza dall'ambiente e un controllo specifico su di es-so; un primordiale momento di stessità. È ciò che sono solito chiamare «combinazione funzionale», e non una mera struttura additiva, ancorché sistematica, di funzioni. Questa vita ammette molti gradi. La materia vivente sarebbe un primordio di vita. Se fosse ammissibile quest'ipotesi della materia vivente, bisognerebbe distinguere tra materia vi-vente e organismo, così come la fisica ha dovuto distinguere tra particelle elementari e corpuscoli. Ogni cellula sarebbe fondata sulla materia vivente, che ne sarebbe il princi-pio, mentre non sarebbe certo l'inverso. Trattandosi di forme di transizione, i limiti tra materia vivente e organismo sarebbero difficili da tracciare. Comparata con la cellula, la materia vivente sembrerebbe non-vivente; ma comparata con le grandi molecole organi-che, compresi gli enzimi, sarebbe rigorosamente vivente.

A titolo di esempio forse «possibile» - solo come esempio - si potrebbe pensare ai vi-rus e ai viroidi. Per alcuni i virus sarebbero microrganismi. Per altri sarebbero solo edi-fici macromolecolari, cioè non viventi. Per altri ancora, hanno in forma parassitaria al-cune funzioni vitali determinate dalla cellula diretta dall'unico acido nucleico posseduto da una particella virale. Se così fosse, si potrebbe pensare che i virus sono una forma di materia vivente impoverita, risultato delle strutture cellulari. Ma tutto questo è affare dei biologi.

Un'altra sistematizzazione della vita è l'organismo, il cui grado elementare è la cellu-la. A mio modo di vedere bisogna distinguere tra organo, organico e organismo. Per A-ristotele, organo è, nel corpo vivente, tutto ciò che è costituito in vista di una funzione. Aristotele chiamò organico il corpo di cui alcune parti (non tutte) sono organi (Aristote-

1 NDT: Il tema è affrontato anche nel cap. III di Sobre el hombre, Alianza, Madrid 1986, pp. 51-65.

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le non chiama organi né le arterie, né i nervi, né la pelle, ecc.). E chiama organico anche lo stesso corpo «intero», come se fosse costituito in vista di una sua funzione determina-ta dalla forma sostanziale. Ma salta agli occhi che si tratta di una definizione del corpo vivente alla luce della sua forma sostanziale; non è una definizione della struttura for-male del corpo considerato in se stesso. Ebbene, nella nostra biologia, nel corpo vivente tutte le «parti biologiche» e non solo alcune, hanno carattere di organi. E questo è ciò che si deve chiamare organismo. La totalità stessa del corpo vivente ha in sé, in modo intrinseco e formale, un'unità di struttura funzionale; è un sistema in combinazione fun-zionale. Ma un sistema di «organi» in combinazione funzionale. Non confondiamo l'or-ganismo con la struttura funzionale. È organismo solo quella struttura che è struttura di «organi», una struttura i cui momenti strutturali sono organici e hanno un'unità di com-binazione funzionale. È una struttura o combinazione funzionale di organi. In essa le parti (organi) determinano la funzione del tutto (organismo), e il tutto (organismo) de-termina la funzione delle parti (organi). L'organismo è qualcosa di simile a ciò che i ma-tematici chiamerebbero «funzionale».

A mio modo di vedere, dunque, materia vivente e organismo non sono la stessa cosa. Entrambi, però, sono sistematizzazioni della materia non-vivente, sono due modi in cui la materia non vivente dà di sé la vita nel suo duplice aspetto di materia vivente e orga-nismo. Il passaggio dalla materia vivente all'organismo cellulare sarebbe un processo di potenzialità di sistematizzazione.

A sua volta l'organismo continua a dare di sé. Può dare di sé, ad esempio, il puro tro-fismo e la sensibilità. Per semplificare, lascio da parte il puro trofismo, proprio dei ve-getali. Quando si mettono in gioco le potenzialità della sensibilità, quando cioè emerge la funzione di stimolo, si può dire, a rigor di termini, che la materia sente, che è anima-le. Il puro sentire è certamente una proprietà nuova, è un'innovazione, ma solo nella di-rezione di una nuova sistematizzazione. Materia vivente, organismo e sensibilità anima-le sono tre tipi di sistematizzazione puramente materiale, ciascuno fondato sui prece-denti. Più ancora, la materia senziente, cioè l'animale, ha le potenzialità per replicare le sue strutture ad opera di queste strutture stesse. Tali potenzialità costituiscono la genesi: sono potenzialità genetiche. Queste potenzialità possono essere il principio di linee [e-volutive] relativamente omogenee: possono costituire un phylum. Sono potenzialità file-tiche. Questi phyla possono a loro volta dare di sé e produrre altri phyla diversi. È l'evo-luzione. Sono potenzialità di evoluzione. L'evoluzione è la produzione di un phylum «fatto» a partire da un altro, a causa della modificazione di quest'ultimo, una modifica che può essere di diverso carattere.

Pertanto non possiamo ridurre il concetto di materia alla materia puramente mecca-nica, e neppure alla materia dotata delle qualità fisiche che abitualmente chiamiamo proprietà fisiche, come il peso, il calore, ecc. Anzi, la materia - cioè la cosiddetta mate-ria seconda - è di una ricchezza straordinaria e può, a suo tempo, arrivare persino a vi-vere e sentire, nelle forme fileticamente più diverse. Può: vale a dire che non ogni mate-ria vive (ilozoismo) e sente (panpsichismo). Ma attraverso la mera sistematizzazione può arrivare a vivere e a sentire. Quando questo avviene, la materia vive e sente nello stesso modo in cui pesa o scalda.

Oltre a queste potenzialità c'è ancora un altro modo di dare di sé, un altro tipo di po-tenzialità che vado subito a trattare.

Con questo concetto di materia ci avviciniamo alla realtà umana. L'uomo è una so-stantività che sorge geneticamente. Tratterò questo punto della genesi umana.

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B. La genesi umana. Per concettualizzare la genesi umana dobbiamo affrontare tre questioni essenziali:

qual è il carattere di questa sostantività; che sono le sue cosiddette note psichiche, e in che consiste la genesi stessa.

a) Carattere della sostantività umana. La sostantività umana ha un insieme di note

parzialmente in comune con l'animale superiore, grazie alle quali sorge da un phylum determinato. Sono le note corporee, che costituiscono il cosiddetto corpo umano2. Inol-tre la sostantività umana ha un insieme di note parzialmente diverse da quelle di un a-nimale superiore. Sono le cosiddette note psichiche umane, il cui insieme è ciò che chiamiamo psiche umana. La chiamo così per evitare che si consideri questo insieme di note come una sostanza o almeno come principio sostanziale, vale a dire per evitare ciò che volgarmente chiamiamo «anima». La psiche non è l'anima, cioè una sostanza inter-na al corpo, il quale sarebbe a sua volta ugualmente sostanza. La realtà sostantiva uma-na è un sistema di note, psichiche alcune (psiche), corporee altre (corpo). Psiche e corpo non solo non sono sostanze, ma sono ciascuno solo un sistema parziale di note della so-stantività umana. Perciò li chiamo «sottosistemi» del sistema della sostantività umana. Hanno certamente molte caratteristiche di un sistema, ma sono privi di alcune caratteri-stiche essenziali per esserlo: ad esempio, la chiusura strutturale. È quanto esprime il pre-fisso «sotto-». Solo per astrazione si possono chiamare sistemi. Come sistema in senso stretto c'è solo la sostantività umana.

In virtù di ciò non c'è un'azione dell'«anima» sul «corpo», né viceversa, ma un'azione unica, l'azione intera non della sostanza, bensì della sostantività umana, che è sempre e solo psicosomatica, ma con diverse dominanze: delle note corporee, in alcuni casi; delle note psichiche, in altri. Quanto a influenza, c'è solo l'influenza di uno stato psicosomati-co su un altro stato psicosomatico. Non c'è psiche «separata» dal corpo. Pertanto, psiche e corpo non solo non sono sostanze, ma neppure sono sostantività giustapposte, né so-stantività unite, perché né la psiche né il corpo hanno sostantività. Non c'è unione, ma unità sistemica. Solo da un punto di vista frammentario e astratto questi sottosistemi possono essere considerati come sistemi, nel modo in cui possiamo parlare di un siste-ma nervoso diverso da altri sistemi corporei; nessuno di loro è pienamente sistema, ma si tratta di momenti parziali e astratti dal sistema unico, il sistema dell'organismo viven-te. In virtù di ciò tutto lo psichico è corporeo e il corporeo è psichico. Quest'unità è ap-punto l'unità della realtà umana. Ciò che chiamiamo psiche e corpo, ripeto, sono solo sottosistemi di note di un sistema unico, del sistema della sostantività umana psicocor-porea.

Questo non è materialismo. Anzitutto perché il concetto di materia che espongo qui è diverso dal concetto di materia che ha dato luogo al cosiddetto materialismo. E in se-condo luogo perché il materialismo consiste nel dire che non esiste altra realtà che quel-la materiale. Orbene, dire che ogni realtà mondana sia soltanto materiale, anche se si adotta il concetto di materia che ho esposto qui, è una cosa assolutamente falsa. Perciò, meglio che materialismo, io chiamerei questa concettualizzazione: materismo.

2 Nota di X.Z.: Non entro qui nella questione della concettualizzazione rigorosa di cosa sia il corpo umano. L'ho fatto in un altro lavoro: El hombre y su cuerpo, «Asclepio», XXV, 1973, 3-15.

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b) Le note psichiche. Qual è il carattere formale e costitutivo di ogni nota psichica? Ogni nota psichica include formalmente e costitutivamente il momento di realtà. Cosi, tanto per fare solo un paio di esempi, il sentimento è effetto del reale; è in se stesso un modo affettivo dell'apertura alla realtà. La volizione è formalmente determinazione nel-la realtà della mia realtà umana; pertanto la volizione, come determinabile e da determi-nare, è un altro modo di sbocco nella realtà. E così per tutte le altre note psichiche. Dunque l'intero psichismo include strutturalmente il momento formale della realtà. All'uomo occorre che il reale stia presente alla psiche. E questo stare presente del reale alla psiche, questa apprensione del reale formalmente come reale, è ciò che a mio modo di vedere costituisce l'intellezione3. È la nota radicale dello psichico. Questa non è una forma di intellettualismo, perché l'intellettualismo poggia su un'idea diversa dell'intelle-zione, intesa come concezione e giudizio. Questo però è falso. L'intellezione è appren-sione del reale come reale. Piuttosto che di intellettualismo - cosa falsa - si dovrà parlare di intellezionismo. Per capirlo, occorre spiegare cosa s'intende per realtà.

A tal fine il cammino più diretto sarà l'analisi di un fatto comune a ogni uomo e all'a-nimale: il fatto del sentire, cioè l'apprensione sensibile. Sentire è apprendere qualcosa in impressione. E ogni impressione è un'affezione di colui che apprende; un'apprensione, però, in cui risulta presente qualcosa di «altro» rispetto all'apprensore. Questo «altro» ha due momenti essenziali: il suo contenuto proprio, e il modo in cui questo contenuto è appunto altro, cioè il momento che chiamo di alterità. Ogni senso, oltre ad apprendere qualità diverse, le apprende secondo un modo di alterità peculiare; la differenza più pro-fonda tra i sensi consiste in questa differenza di forme di alterità. Orbene, tutte queste differenti alterità sono modi di un'alterazione radicale, che io chiamo formalità. Qual è l'alterità radicale?

Ci sono due tipi di formalità, due tipi di alterità radicale. Uno è quello in cui tutto ciò che viene sentito è appreso soltanto come stimolo; è un'impressione che ha il carattere formale della «stimolità», è il puro sentire. Il sentito vi è appreso come alter, cioè come distinto dall'apprensore, ma solo come una stimolazione: è formalità di stimolità. Poi c'è un altro modo di alterità, un altro modo di formalità nel sentire: è sentire qualcosa in forma tale che le caratteristiche del contenuto appreso appartengono in proprio a ciò che viene sentito; appartengono al contenuto, tuttavia gli appartengono «di suo», in proprio. È una formalità diversa da quella di stimolità. Il carattere del «di suo», è appunto ciò che chiamo realtà. Realtà è la formalità del «di suo». Così, ad esempio, il calore può es-sere appreso come qualcosa che mi scalda soltanto, oppure come qualcosa che è scal-dante di suo. Ogni altra forma di realtà si fonda su questa realtà primaria e consiste in un «di suo» sempre più ricco e problematico. L'apprensione di qualcosa come reale, cioè come «di suo», è ciò che formalmente costituisce l'intellezione. Nell'uomo il sentire è in gran parte sentire ciò che il sentito è di suo. Pertanto, nella misura in cui il sentire umano ha questa alterità, questa formalità di realtà, non è un sentire puro o animale, ma è un sentire intellettivo. L'intellezione umana, in modo costitutivo e formale, è intelle-zione senziente. Questa intellezione senziente è la caratteristica strutturale di tutto quan-to è psichico.

Ciò supposto, qual è la differenza tra lo psichico e il somatico? Il somatico è qualco-sa che la materia dà di sé in virtù delle sue potenzialità di sistematizzazione. E in questo dare di sé si tratta appunto della sensibilità: la materia sente. Orbene, il puro sentire del-

3 NDT: Zubiri usa il termine inteligencia, specificando: «en el sentido de intelección ». Inteligencia

può significare tanto la facoltà della comprensione quanto l'atto del comprendere. L'ambiguità del termine è in tutta la trilogia su Inteligencia sentiente, che significa appunto intellezione senziente.

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la sensibilità animale è un sentire in forma di stimolo; ma il sentire umano è sentire la realtà. Anche quando l'uomo sente stimoli, sente realtà stimolanti. Pertanto tutta la dif-ferenza tra lo psichico e il somatico si concentra nella differenza tra stimolo e realtà nell'apprensione.

Nel puro sentire, cioè nel sentire di puro stimolo in cui consiste l'animale, il sentito è appreso come «altro», pertanto come qualcosa di indipendente dall'animale stesso: il ca-lore sentito dal cane è per lui diverso dal cane stesso. Questa indipendenza è ciò che va chiamato oggettività: è la pura indipendenza dell'apprensore. Ma quest'indipendenza è l'indipendenza di un «ob»4 rispetto all'apprensione sensibile animale. È pertanto un'og-gettività che fa parte del processo stesso del puro sentire: il puro stimolo si esaurisce nell'essere stimolante, e di conseguenza è costitutivamente parte del processo senziente: se non vi fosse la stimolazione non vi sarebbe alcuna indipendenza oggettiva; lo stimolo si esaurisce nella stimolazione. Apprendere qualcosa come mero stimolo è apprenderlo come il versante oggettivo di un sentire, cioè come qualcosa di indipendente, solo, nel sentire.

Invece nell'apprensione di realtà, sia o non sia stimolante, l'appreso è tale «di suo», e i suoi caratteri gli appartengono in proprio. Appunto per questo l'appreso non è un mo-mento del mio processo senziente. Certamente l'appreso è qualcosa di sentito, ma è sen-tito come essente egli stesso così. È apprensione di qualcosa che è «suo», e non è una mera indipendenza oggettiva, bensì una realtà propria. Dunque, questa realtà non si e-saurisce nell'esser sentita nell'impressione. Potrebbe, pertanto, esistere la realtà anche se non vi fosse alcuna apprensione. L'animale non riesce a esser altro che oggettivo, tanto più oggettivo quanto più è perfetto. Ma non va oltre questo: l'animale più oggettivo non ha e non può avere il benché minimo briciolo di apprensione di realtà in proprio, di una realtà che è tale «di suo». Invece il più povero e rudimentale degli umani ha questa for-malità diversa e immensamente più ricca di quella dell'animale più perfetto.

La differenza tra il puro sentire e il sentire umano, cioè tra note psichiche e materiali-tà animale, non è dunque solo una differenza di grado, come se la realtà fosse un modo più sviluppato dell'oggettività, una cosa solo per grado diversa dall'oggettività dell'ani-male. La differenza tra la psiche e la materia non è graduale bensì essenziale. Qualun-que complicazione dell'indipendenza oggettiva sarà sempre una complicazione di stimo-li, cioè complicazione di qualcosa che formalmente è parte del sentire. Invece nell'intel-lezione senziente sentiamo - in modo rudimentale quanto si vuole, ma sentiamo - sem-pre qualcosa che non è «mio», ma è «di suo». L'oggettività non condurrà mai per se stessa alla realtà. La sensibilità pura non potrà mai diventare intelligenza. La differenza tra lo psichico e il puro sentire è dunque essenziale.

Ma, nella loro differenza essenziale, lo psichico e il somatico sono note di una stessa, unitaria sostantività psicosomatica. Questa sostantività è geneticamente costituita. Cos'è questa genesi?

c) La genesi umana stessa. L'uomo è una sostantività psicosomatica, cioè un sistema

intrinsecamente unitario e strutturale di alcune note materiali, che chiamiamo corpo, e altre note psichiche che chiamiamo psiche: è un sistema psicosomatico. Quest'unità è generata dai genitori. Cos'è questa generazione? A prima vista è quantomeno una tra-smissione di vita; il generato è un vivente prodotto dai suoi genitori, e come tale è un vivente risultante da una trasmissione. Però quest'idea di trasmissione è quantomai ine-

4 NDT: da objectum, part. pass. latino di obicere, da ob e iacere, «gettare avanti, oltre», da cui lo spa-gnolo objeto e l'italiano oggetto.

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satta, non solo in relazione alla psiche, ma soprattutto in relazione al corpo stesso, alla cellula germinale.

Per quanto concerne il corpo, bisogna sottolineare che i progenitori non trasmettono il corpo, cioè non trasmettono la cellula germinale. Generalmente si parla solo della non-trasmissione della psiche, ma il fatto è che bisogna sottolineare precisamente che neppure il corpo è termine di una trasmissione diretta. Si trasmettono gli elementi ger-minali (spermatozoo e ovulo) che produrranno per se stessi la cellula germinale. Ma nessuno dei due elementi germinali, nonostante siano cellule, nessuno di loro, dico, è la cellula germinale, cioè non sono organismi viventi nel senso in cui lo sarà la cellula germinale. Solo per fecondazione, cioè per un'azione non dei genitori ma degli elementi germinali stessi, si costituisce mediante sistematizzazione la cellula germinale, il corpo. I progenitori, dunque, non trasmettono il corpo, ma solo ciò che di per se stesso produr-rà tale corpo.

I progenitori non trasmettono neppure la psiche. Le note di ogni sostantività formano un sistema «uno»; quest'unità si esprime dicendo che ogni sua nota è «nota-delle» altre. Questo «di» appartiene intrinsecamente alla struttura di ogni nota in quanto nota, per-tanto non sta a significare una mera appartenenza, ma una coesione costitutiva: il gluco-sio, ad esempio, senza cambiare le sue proprietà perde la sua sostantività quando è in-corporato in un organismo e si converte in «glucosio-di». Nel caso della sostantività umana, il corpo è «corpo-della» psiche, e la psiche è «psiche-del» corpo. Orbene, nell'a-zione dei progenitori non si trasmette questo corpo, pertanto non può essere trasmessa neppure una psiche, dato che può esservi psiche solo quando c'è un corpo «di» cui è psiche, cioè solo dal momento in cui c'è la cellula germinale. Questo «di» non è un me-ro artificio linguistico, ma ha una struttura costitutiva molto precisa: è l'animazione del corpo. La stessa cosa accade con il corpo. Il corpo è «corpo-di», dove il «di» ha una struttura precisa: è corporizzazione della psiche. Il corpo corporizza la psiche. Ma c'è una differenza profonda tra la psiche e l'esempio del glucosio che ho appena citato. La psiche non è solo «del » corpo, ma è in se stessa «corporea», e il corpo non è solo «del-la» psiche, ma è in se stesso «psichico». L'analisi di qualunque nota della sostantività umana, per esempio il glucosio, ci rende patente quest'idea. D'altro canto, il glucosio del cane è «del» cane, ma non è in se stesso «canino», mentre la psiche è corporea in se stessa. Per questo l'uomo è un'unità. Dire che la psiche è corporea e il corpo è psichico equivale a esporre la struttura formalmente e intrinsecamente unitaria del «di»: l'uomo è un'unità psico-somatica o somatico-psichica. C'è psiche solo dopo l'azione dei progeni-tori, perché solo dopo quest'azione c'è il corpo. La psiche, pertanto, non è termine di tra-smissione, ma risultato della sistematizzazione degli elementi germinali nella cellula germinale.

Accantoniamo per il momento il problema se la cellula germinale è «già» un corpo umano capace di essere «corpo-di». Anche se questo avvenisse solo in fasi ulteriori di differenziazione, non cambierebbe ciò che si è esposto prima. Personalmente ho sempre pensato che la psiche sorge in quanto si produce la cellula germinale. Tutto ciò che l'uomo è si trova già in modo embrionale nel punto di partenza, e pertanto vi si trova già anche la psiche. In tal modo nel punto di partenza embrionale c'è un sistema psicosoma-tico integrato da cellula germinale e psiche. È un sistema che designo a volte con un'e-spressione della vecchia biologia, vale a dire: plasma germinale. Uso il termine elimi-nandone tutto ciò che significava in quella biologia e lo conservo solo per designare il sistema psicosomatico «psiche-cellula germinale».

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Ciò che ora mi interessa è che la psiche non viene trasmessa, ma proviene dalla si-stemazione costitutiva della cellula germinale: in quanto c'è «corpo-di», c'è psiche. Cos'è questo risultato? Ecco la questione radicale.

Anzitutto il risultato non è che la cellula germinale sia una causa dispositiva, una co-sa predisposta a ricevere una psiche. E questo per due ragioni convergenti. Anzitutto perché il risultato non consiste in ricezione. Poi perché questa ricezione darebbe luogo soltanto a una psiche «in» un corpo, e non a una psiche corporea o ad un corpo animato. La psiche non sta «nel» corpo, ma «è-del» corpo.

Né si tratta del fatto che il corpo richieda una psiche. Il corpo non è causa esigitiva della psiche. E questo per una ragione cruciale: perché il corpo non richiede una psiche, né la mera psiche richiede un corpo. L'esigenza si ha sempre e solo come esigenza della sostantività, non del corpo o della psiche in sé e per sé. Solo l'uomo può richiederla, e la richiede per sopravvivere, non certo per costituirsi come vivente umano. È vero che io ho usato molte volte i concetti di causa dispositiva ed esigitiva, ma in contesti in cui non mi proponevo il problema che tratto ora. Disposizione ed esigenza si dànno, come ve-dremo meglio, a livello operativo, a livello dell'attività, non a livello di ciò che costitui-sce la sostantività.

La psiche non sta «nel» corpo, né questo la richiede, e piuttosto la psiche germoglia [brota] dal corpo stesso, cioè dalla stessa cellula germinale. Cos'è questo germogliare?

Germogliare non è un mero sorgere [surgir], come se si trattasse di una mera fioritu-ra (espressione che io stesso ho usato in altri contesti). Fiorire è una vaga metafora. An-cora una volta il sorgere ci porterebbe a una psiche «nel» corpo, ma non a una psiche «di» un corpo, a un «di» intrinsecamente costitutivo. Germogliare, dunque, non è fiori-re, non è sorgere, ma è qualcosa di più radicale: è germogliare-dalle strutture della cel-lula germinale stessa. La psiche germoglia dalla struttura stessa della cellula germinale. Cos'è questo «germogliare-da»?

Diciamo che una cosa germoglia da un'altra quando questa la costituisce. Germoglia-re è anzitutto un «fare» consistente in un costituire. Le strutture della cellula germinale fanno, costituiscono le note psichiche. Si tratta di un rigoroso «fare» costitutivo. Il «da» non è un mero punto di partenza né un semplice alveo, ma un «da» di originazione. La psiche è prodotta «ad opera della» cellula stessa e dalle sue proprie strutture. Pertanto la psiche risulta costituita come psiche ad opera delle strutture cellulari da cui germoglia. Infatti, questo «fare» delle strutture cellulari è tale che le strutture stesse sono momenti intrinseci, e inoltre formali e strutturali, delle note stesse. Il fare della cellula germinale è dunque un fare che costituisce lo psichico. Pertanto, questo fare è un costituire qualco-sa che non solo in sé è un proprio momento, ma è inoltre proprio in forma tale da appar-tenere alla struttura somatica stessa, è un momento unitariamente psicosomatico in ogni nota costitutiva della sostantività. Per esempio, non c'è un cervello e inoltre intellezione, ma c'è, strutturalmente, intellezione senziente o sentire intellettivo. Le note hanno una rigorosa posizione nel sistema, diversa a seconda di com'è la sostantività. Ebbene, nella sostantività umana tutte le note psichiche formano «una» struttura con le note somati-che, e viceversa. Tutto lo psichico «è» somatico e tutto il somatico «è» psichico. Le strutture della cellula germinale «fanno» la psiche a partire da se stesse, e con ciò fanno il sistema psicosomatico, in quanto sistema, in tutte e ciascuna sua nota e nella sua uni-taria e indivisibile attività. La stessa cosa si deve dire del corpo, come dirò.

Tuttavia, non dimentichiamolo, il puro sentire e l'intellezione sono diversi non solo per grado ma per essenza. Perciò, parlando in generale, anche se le strutture della cellula germinale fanno la psiche a partire da se stesse, non la fanno né possono farla in virtù

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di se stesse. Se fanno germogliare la psiche da sé è perché qualcosa le porta intrinseca-mente a farlo, o meglio, perché qualcosa «fa sì che lo facciano». La cellula germinale, per il mero fatto di essere costituita, potrà far sì che la psiche germogli dalle strutture stesse, ma non potrà mai far sì che questo germoglio abbia luogo in esse per loro opera. Ciò non toglie che sia rigorosamente un «fare» ciò che la cellula germinale fa partendo da sé; è però un fare che le viene fatto fare. Alla cellula germinale si può farle fare una psiche.

Cosa la conduce a fare da sé ciò che non potrebbe mai fare ad opera sua? L'uomo, come tutte le realtà intramondane, appartiene al cosmo e come tutte (per il

suo aspetto somatico) è un frammento di questa unità primaria e radicale che chiamiamo Cosmo. Il Cosmo non è un «ordine», una táxis di cose, ma è la loro unità primaria. O-gni cosa è «una» solo per astrazione. In realtà ogni cosa è un semplice frammento del Cosmo, talché nessuna cosa ha piena sostantività. Le cose non sono sostantive in senso stretto; sono solo frammenti quasi-sostantivi, un primordio di sostantività, o meglio un rudimento di sostantività. Solo il Cosmo ha sostantività rigorosa. Questa sostantività è un sistema, un'unità che non è un aggregato, né un ordine di cose sostantive; anzi, le co-se sono le note in cui viene esposta l'unità primigenia e formale del Cosmo. Quest'unità è formalmente dinamica. Il Cosmo non è altro che una specie di melodia dinamica che si viene facendo nelle sue note. Se chiamiamo il Cosmo «Natura», questa natura ha due momenti. Uno è il momento delle sue note: le cose naturali. L'altro il momento della sua unità primaria. Quest'unità non è una grande cosa naturale, ma è ciò che si deve chiama-re, al modo medievale, natura naturans, natura naturante. Le cose in cui si esprime di-namicamente questa natura primaria sono natura naturata. La natura naturante, essendo l'unità primaria, determina quanto di più intrinseco vi è nelle strutture naturate, e questa determinazione è ciò che chiamiamo produzione. È questa azione naturante a produrre la psiche; però non la produce indipendentemente dalle altre cose, cioè non produce la psiche solo nelle strutture cellulari, né solo partendo da esse, ma fa sì che siano esse stesse, le strutture cellulari stesse, a produrre la psiche. È un'azione della natura naturan-te, che però scorre intrinsecamente nelle strutture naturate, nelle strutture cellulari, fa-cendo sì che queste siano strutturalmente portate a realizzare da sé le note psichiche. In questo consiste il «far fare». Il primo «fare» è della natura naturante; il secondo, della natura naturata, cioè delle strutture cellulari. L'unità intrinseca di questi due «fare» è appunto la costituzione del plasma germinale. Cos'è questo «fare»?

Quest'idea del «far fare» potrebbe indurre a pensare che le strutture cellulari siano ciò che la filosofia medievale aveva chiamato causa strumentale. Ma tra causa strumen-tale e «far fare» c'è solo una somiglianza remota e superficiale. La causa strumentale produce il suo effetto come causa usata o applicata da una causa principale. Perciò la causa strumentale ha certamente due effetti diversi. Uno, il suo effetto proprio; ad e-sempio, l'effetto proprio del pennello del pittore sarebbe di colorare la tela. Il pennello però ha un secondo effetto, in base al quale colorando la tela il colore costituisce un pa-esaggio o un ritratto, ecc. Questo secondo effetto lo fa il pennello da se stesso, e pertan-to è fatto dal pennello, ma non per opera sua, bensì ad opera del pittore il quale fa sì che il pennello faccia.

Dunque, ogni causa strumentale è un «far fare». Ma non è detto il contrario: non ogni «far fare» è una causalità strumentale. A mio modo di vedere, il «far fare» non consiste nell'usare o applicare la realtà biologica come strumento, ma nell'«assorbire» (per così dire) naturando le strutture della cellula germinale in un livello superiore, consistente

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appunto nel far sì che le strutture stesse, esse, facciano la psiche. Come «opera» la natu-ra naturante?

Come momento peculiare della natura naturata nella natura naturante la cellula ger-minale può originare la psiche. Ebbene, le strutture cellulari producono la psiche per e-levazione. L'elevazione è l'atto proprio della natura naturante nel nostro problema. L'e-levazione stessa non consiste nel fatto che quanto fa la cellula sia, nelle strutture cellu-lari stesse, superiori alle semplici strutture materiali. L'elevazione consiste in elevazione alla realtà come tale: si fa lavorare la cellula nell'ordine della realtà come tale. La realtà consiste nell'essere «di suo», e in questo senso ogni struttura materiale e rigorosamente reale è una struttura che le compete «di suo». Tutte queste strutture reali costituiscono la cellula e operano in essa in virtù di ciò che sono realmente, ma non costituiscono né o-perano mai cellularmente in virtù e in vista del carattere stesso di realtà. Nelle strutture cellulari non è mai presente formalmente il carattere stesso di realtà. Ebbene, elevare è far sì che ciò che è «di suo» costituisca un «suo» e operi in virtù del suo formale caratte-re di realtà. In ciò consiste il modo superiore di realtà. L'elevazione è un modo superiore del «di suo». In ogni elevazione c'è un momento di omogeneità fisica tra l'elevato e ciò a cui lo si eleva. Ebbene, questo momento è la formalità del «di suo», una formalità in senso stretto e formale fisica di ogni cosa reale. Il momento di elevazione, ripeto, è far sì che ciò che è «di suo» si faccia «suo» in modo più radicale, cioè reale in modo e-spresso e formale. È un modo superiore del «di suo», vale a dire il modo formale ed e-spresso, espressamente costitutivo del reale. Qui sorge appunto lo psichico. Facciamo qualche esempio. L'animale apprende le cose come stimoli. Per elevazione all'ordine del reale come tale, queste stesse apprensioni apprendono lo stimolo come stimolo «di su-o», cioè come stimolo reale: colore reale, suono reale, ecc. Ma ciò che allora abbiamo è appunto l'intelligenza senziente. È stata prodotta dalle strutture animali, elevate però all'ordine del reale come reale. Il tono vitale elevato all'ordine del reale è appunto il sen-timento, e la tendenza elevata all'ordine del reale è la volizione. Dunque, tutte queste note sono «fatte» dalle strutture cellulari, ma elevate; cioè tutta la psiche è fatta, perché una nota è psichica quando include formalmente, come ho detto, il momento dello sboc-co alla realtà. Con ciò non solo non si perde l'animale, ma anzi questo risulta appunto costituito come animale di realtà, cioè come uomo.

Questi tre esempi, però, servono solo a far comprendere attraverso di essi cosa sia l'e-levazione e in che modo le strutture cellulari producano queste note. Ma bisogna fare un passo in più, perché queste tre note costituiscono tutta la psiche. Non si pensi che l'esser psiche consista formalmente nel possedere le note cosiddette «superiori». La cellula germinale è elevata dall'istante stesso della concezione. Ed è allora giocoforza doman-darsi cosa siano le note psichiche della cellula germinale elevata all'ordine della realtà come realtà. Procederò ancora una volta per gradi.

In primo luogo, l'elevazione non è la produzione di una sostanza o una cosa di ordine superiore a quello materiale. L'elevazione è solo una sorta di movimento che dà impulso verso l'ordine di ciò che è formalmente reale. Non è dunque qualcosa di statico ma di costitutivamente dinamico (dirò subito cos'è questo dinamismo). È pertanto un «princi-pio», dato che consiste nello spingere intrinsecamente la cellula, nello spingere l'attività cellulare verso un ordine superiore.

In secondo luogo, questo momento costitutivo dinamico fa sì che ciò che viene fatto dalla cellula sia rigorosamente psiche, perché il principiato - la cellula - si ritrova allora dinamicamente a sboccare nel reale come reale. Non c'è elevazione in seguito alla psi-

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che, ma al contrario, c'è la psiche a seguito dell'elevazione. Lo psichico è il risultato dell'elevazione delle strutture cellulari all'ordine della realtà in quanto tale.

Pertanto l'elevazione è a rigor di termini un secondo atto, numericamente nuovo e specificamente diverso dall'atto che produce le strutture cellulari. La differenza tra sti-molità e realtà è infatti essenziale e non graduale. Ma questi due atti non sono indipen-denti. Il primo, la produzione di ciò che è materiale, determina il secondo per un proces-so evolutivo del primo stesso. Questo processo determina il secondo, ma non lo produce a rigor di termini; lo produce la natura naturante. Ma essendo una determinazione, si deve dire che questa produzione è un'evoluzione delle strutture materiali. Infatti ricor-diamo cos'è l'evoluzione: non è la trasformazione di una cosa in un'altra, ma la produ-zione di un secondo phylum fatto in funzione delle trasformazioni del primo. L'evolu-zione verso lo psichico avviene per trasformazione delle strutture cellulari animali, ma non è portata a termine da queste stesse strutture. Ciò che viene determinato dal primo atto, a mio modo di vedere, è una cosa molto precisa: è l'iperformalizzazione animale. Strutture cellulari iperformalizzate sono quelle che producono eo ipso l'atto di elevazio-ne. Evoluzione ed elevazione sono due potenzialità del cosmo stesso. Il potere di eleva-zione appartiene al cosmo stesso. Di conseguenza, concerne tutto il phylum umano e pertanto essa passa da progenitori a generati. In secondo luogo, la psiche stessa non si trasmette, perché l'elevazione non è la psiche. Ogni psiche germoglia individualmente da ogni cellula germinale. In terzo luogo, questa psiche che potremmo chiamare radica-le e primigenia, ha note strutturali psichiche che non sono ancora intellezione in senso stretto, né sentimento né volizione. Si tratta di note più radicali, generatrici dell'intelle-zione, del sentimento e della volizione. Per esempio, la cellula germinale è costitutiva-mente sessuata, in funzione della parità dei suoi cromosomi, ma per evoluzione questo si trasforma in nota psichica: è la sessualità umana; la sessualità come forma di realtà, a differenza della sessualità animale, è una forma dello sbocco nella realtà. Sono geneti-camente determinate anche certe capacità mentali di ogni ordine, così come il possibile predominio delle une sulle altre o la loro differente intensità. Si tratta di note rigorosa-mente psichiche, dato che sono una forma dello sbocco alla realtà e costituiscono così un abbozzo primigenio e primario di forma mentis. Il controllo genetico può anche de-terminare alcune anomalie che colpiscono in modo radicale la psiche, per esempio alcu-ni tipi di oligofrenia. In questi casi la radice dell'oligofrenia non è la struttura cerebrale; al contrario, il cervello è determinato da una cellula germinale che radicalmente è già oligofrenica, ad esempio per trisomia del cromosoma 21. Si tratta dunque di note psi-chiche, rudimentali quanto si vuole ma rigorosamente psichiche, perché sono una forma radicale e primigenia di sbocco nella realtà; sono anteriori all'intellezione, al sentimento e alla volontà, anteriori però dentro una sfera rigorosamente psichica. Si potrebbe pro-lungare l'elenco, ma evidentemente non è necessario farlo. E tutto questo ha una portata enorme. Non si trasmette lo psichismo, si trasmette soltanto l'elevazione, la quale eleva appunto le strutture cellulari al loro carattere psichico, e pertanto fa che siano queste a determinare le note radicali, costitutive del primo stato psichico. E poiché le strutture cellulari sono determinate dai progenitori, risulta che, anche se la psiche non si trasmet-te, tuttavia il primo stato psichico è rigorosamente determinato e trasmesso dai progeni-tori. Non si trasmette la psiche ma si trasmette il primo stato psichico. E questo ci porta a un'altra caratteristica delle note psichiche. Infatti, in quarto luogo, ci rende manifesto che la psiche e le sue note costitutive sono costitutivamente di carattere genetico. Così la cellula germinale è genetica; come è genetica la materia animale, così lo è anche la psiche. C'è una rigorosa genesi psichica. Le note cosiddette «superiori», l'intelligenza, il

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sentimento, la volizione, ecc., sono risultati della genesi psichica, risultati del carattere costitutivamente genetico delle note «inferiori» di cui parlavo prima. Lo psichico, la psiche, si va formando come psiche. A mio modo di vedere, questo è essenziale.

L'elevazione è un movimento genetico verso «il reale come tale». Essendo un movi-mento genetico, bisogna dire che la materia animale non è solo elevata al reale come ta-le, ma si va elevando geneticamente verso il reale come tale. Con ciò, anche la psiche si va facendo psiche. Dicevo prima che l'elevazione è una specie di forza, una specie di impulso di elevazione, un dinamismo. Ebbene, questa forza ha un carattere preciso: è un dinamismo genetico, è genesi. La genesi non consiste nella modificazione della realtà conformemente alle sue «parti» costitutive, ma è una genesi di ordine puramente «quali-tativo». L'elevazione non è dunque istantanea, ma è di carattere genetico. Il suo risulta-to, la psiche, non è un sistema statico di note, ma è allora un principio genetico delle sue stesse note psichiche ulteriori. L'elevazione non è la psiche, ma la psiche è ciò che si produce dalle strutture cellulari per elevazione.

Chiaramente, questo processo di note produrrà a suo tempo, e secondo il ritmo dei processi cellulari, un'intellezione senziente, un sentimento propendente e una volizione tendente, e altre note ancora, perché non è detto che siano solo queste tre le note supe-riori: intellezione, sentimento e volontà. Ne deriva che, a mio modo di vedere, la vera psicologia del profondo è questa struttura genetica radicale, primaria e costitutiva.

Allora è chiara una cosa: non ci sono due genesi, una materiale e l'altra psichica, ma c'è una sola genesi psicosomatica fin dalla concezione stessa di un vivente già psicoso-matico. A tal punto che questa genesi, che si prolunga anche dopo la nascita, mostra in modo ben chiaro ciò che dico. Perché arriva un momento in cui la psiche, che è stata fatta dalla cellula, fa a sua volta il corpo. Così il neonato non ha già conclusa l'organiz-zazione funzionale del suo cervello; l'acquisisce gradualmente, e in questo processo in-terviene innegabilmente come elemento determinante la psiche stessa.

Solo con l'elevazione della cellula alla realtà come tale, ciò che è prodotto in e dalle strutture cellulari umane può essere superiore in esse all'ordine della loro mera realtà materiale. Si è raggiunto un livello di realtà senza lasciar fuori l'ordine materiale né ag-giungendolo ad esso, ma facendo sì che l'elemento materiale stesso sia più che materia-le. Ed esser più che materiale equivale ad essere «di suo», però essendolo formalmente come realtà. Questo «più che materiale» non è, come potrebbe pensare Hegel, una ri-flessività della materia su se stessa, non è un ingresso della materia in se stessa, perché la riflessività non è il solo modo, né il più radicale, di superamento di sé. Il modo più radicale è l'elevazione. Solo perché c'è elevazione può esserci psiche, e solo grazie a quest'ultima può esserci riflessione.

Non è necessario insistere che grazie a questo la differenza nel phylum animale tra la cellula germinale e la psiche, nonostante sia essenziale, non rompe la continuità del pro-cesso genetico, ma lo prolunga in un livello superiore: il livello della sostantività uma-na.

Infine questo ci riporta alla questione dell'unità di materia e psiche nella sostantività umana. È un'unità fisica, intrinseca e costitutiva. Grazie ad essa, ciò che viene concepito nella concezione è un uomo5.

Il risultato di questa produzione della psiche attraverso la cellula germinale è dunque la costituzione della sostantività umana. Questa sostantività umana non è un aggregato di corpo e psiche, anzi proprio perché la psiche è prodotta a partire dalle strutture cellu-

5 Nota di X.Z.: La cellula germinale è un uomo?

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lari, tutte e ciascuna nota umana sono rigorosamente psico-somatiche, cioè ogni nota è materiale-psichica o psichico-materiale. Pertanto la produzione della psiche attraverso le strutture della cellula germinale non consiste nell'abbandonare la materia, ma è al contrario un «conservare» la materia e le sue strutture, benché come momenti di una struttura superiore: la struttura della sostantività umana. Questa struttura superiore non consiste, dunque, in una specie di sforzo per liberarsi dalla materia, come se la psiche fosse imprigionata nel corpo. Consiste invece in una rigorosa elevazione da se stessa; è far sì che la materia stessa stia facendo il suo stesso superamento. È un'elevazione, non è un evadere dalla materia, né attualmente né intenzionalmente. Essere uomo non consi-ste nel cessare di essere materia, o nel fatto che quest'ultima serva la psiche, bensì con-siste nel «corporizzare» la psiche o «psichizzare» il corpo. Questa elevazione strutturale della materia è ciò che si deve chiamare ominizzazione. Poiché le strutture della cellula germinale sono quelle che per elevazione fanno la psiche, l'ominizzazione è una rigoro-sa potenzialità della materia.

Riassumiamo. Dicevo all'inizio di questo studio che la materia ha intrinsecamente un sistema di capacità di dare di sé. Questo dare di sé è ciò che ho chiamato «le» potenzia-lità. Non c'è dubbio che la materia dà di sé l'uomo. Pertanto l'ominizzazione è una delle potenzialità della materia.

Ma dicevo anche che le potenzialità di dare di sé possono essere di tipo molto diver-so. Ogni dare di sé costituisce un'innovazione. La materia, dando di sé, non costituisce una mera ripetizione o reiterazione delle proprietà che già aveva, ma anzi, dando di sé, grazie alle potenzialità che possiede intrinsecamente e formalmente per il mero fatto di essere ciò che è, viene data di sé una novità, e di conseguenza il dare di sé è un'innova-zione. E a seconda di com'è questa innovazione, sarà anche il tipo di potenzialità che la costituisce. Abbiamo già visto che c'è un dare di sé, una potenzialità di trasformazione di certe proprietà in altre; è il caso di molti processi di produzione e distruzione di parti-celle elementari. C'è un altro dare di sé che è un'innovazione diversa: è dare di sé per si-stematizzazione. Le proprietà nuove sono ora proprietà sistemiche. Tale è il caso della vita. Dando di sé per sistematizzazione, la materia si fa vivente. Questa vita, a sua volta, può essere di tipo diverso: può essere la sistematizzazione in forma di materia vivente, la sistematizzazione costitutiva della cellula, e la sistematizzazione delle strutture cellu-lari (nel duplice aspetto della genesi e dell'evoluzione). In virtù di ciò diciamo che, a tempo debito, la materia vive, che la materia si organizza, che la materia sente. Sono in-novazioni rigorose grazie alle potenzialità della materia.

C'è però anche un terzo tipo di potenzialità: non di trasformazione né di sistemazio-ne, bensì di elevazione. La materia può dare di sé la sua stessa elevazione alle strutture superiori. È un rigoroso dare di sé, non è un'addizione estrinseca. Il fatto è che si tratta di un dare di sé di diversa indole. Nella trasformazione, nella sistemazione, nella genesi e nell'evoluzione animale, la materia dà di sé per opera sua e da sé. Nell'ominizzazione parte da sé, ma non per opera sua, bensì perché le si fa fare. Segnalavo già che non ci sono solo le potenzialità di dare di sé per opera propria, ma possono anche esserci di da-re di sé ad opera altrui. È il caso delle potenzialità di superamento per elevazione. La materia ha potenzialità di dare di sé per elevazione. E come tutte le altre, anche queste potenzialità di elevazione hanno strutture materiali molto precise. La materia sente, ma a seguito di un dispiegamento sistematico e non arbitrario delle sue potenzialità: un pez-zo di ferro non sente; una cellula, sì. Le potenzialità dànno di sé, strutturate però in mo-do sistematico nel loro dare. Ebbene, anche le potenzialità di elevazione hanno una

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struttura molto precisa: un pezzo di ferro non ha una potenzialità immediata di ominiz-zazione; un animale iperformalizzato, si.

Trasformazione, sistematizzazione, genesi, evoluzione animale ed elevazione sono tipi di potenzialità della materia. Ciò non vuol dire che non ve ne siano altre. Le poten-zialità di elevazione sono potenzialità di far fare alla materia da sé ciò che per sua ini-ziatica non potrebbe fare. Nel nostro caso è l'ominizzazione. Ciononostante si tratta sempre di un dare di sé della materia. Prima dicevamo che la materia sente. Ora non possiamo dire la stessa cosa, cioè che la materia intende [intelige], ma che la materia fa intendere materialmente. La materia dà di sé l'intellezione, non per se stessa, bensì per elevazione. Per elevazione, intende. La materia elevata, cioè l'uomo, ha intelligenza.

Tale, a grandi linee, la genesi umana.

* * * Da: El origen del hombre, «Revista de Occidente», 2 época, luglio settembre 1944, 146-173. Animale razionale: «L'uomo non è un animale razionale, ma animale intelligente, cioè animale di realtà.

Sono due cose completamente diverse, perché la ragione è soltanto un tipo speciale e specializzato d'intelligenza; e l'intelligenza non consiste formalmente nella capacità di pensiero astratto e di piena riflessione cosciente, ma semplicemente nella capacità di avere apprensione delle cose come realtà. Animale intelligente e animale razionale so-no, dunque, cose diverse; la seconda è solo una specificazione della prima. Il che è vero tanto se consideriamo l'individuo umano della nostra epoca, quanto se consideriamo la sua evoluzione paleontologica; in entrambi questi aspetti e dimensioni l'animale intelli-gente non è necessariamente un animale razionale. Il bambino, già pochissime settimane dopo la nascita, fa innegabilmente uso della sua intelligenza, ma fino a diversi anni do-po non ha quel particolare uso dell'intelligenza che chiamiamo «uso di ragione». Fin dall'inizio il bambino è animale intelligente, ma non animale razionale». (159-160).

«Pertanto non è necessario pensare, nemmeno lontanamente, che il primo animale razionale sia il primo uomo esistito nella scala evolutiva della terra, né che il primo a-nimale intelligente dovesse essere razionale. Tutti i tipi umano anteriori all'homo sa-piens non sono «pre-uomini», ma veri uomini; però non sono razionali, bensì «pre-razionali». Solo gli ominidi «pre-intelligenti» sarebbero gli autentici pre-uomini. I tipi ominizzati anteriori all'homo sapiens sarebbero come abbozzi progressivi, orientati evo-lutivamente alla costituzione dell'homo sapiens, dell'animale razionale. Non è l'evolu-zione dall'infraumano all'umano, ma l'evoluzione umana dall'intelligenza alla ragione. L'homo sapiens non costituisce un'eccezione nella storia evolutiva dell'umanità, la quale invece è diretta verso di lui» (161).

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Evoluzione: «L'ominizzazione è evoluzione? La risposta a questa domanda dipende dal concetto

di evoluzione. L'evoluzione, infatti, non può essere confusa con i meccanismi causali dell'evoluzione stessa, né nell'ordine somatico, né in quello psichico. Evoluzione e mec-canismo evolutivo sono due cose perfettamente diverse.

L'evoluzione è formalmente un processo genetico nel quale si producono forme spe-cificamente nuove da altre precedenti, in funzione intrinseca e determinante della tra-sformazione di queste ultime. Ma bisogna intendere correttamente queste espressioni. Anzitutto, l'evoluzione è la produzione genetica di forme specificamente nuove; ogni evoluzione è un'innovazione non solo morfologica, ma anche psichica. Ciò non vuol di-re che l'innovazione sia necessariamente progressiva; al contrario. Può essere, e lo è nel-la stragrande maggioranza dei casi, una via morta dalla scarsa potenza evolutiva (vuoi perché si tratta di una specializzazione, vuoi per altre ragioni). Questa nuova forma de-riva da un'altra o da altre (polifiletismo) precedenti, determinate in modo molto preciso; gli uccelli, ad esempio, possono derivare solo dai rettili e non direttamente dagli echi-nodermi. E questo vale sia riguardo alle strutture morfologiche, sia riguardo a quelle psichiche; lo psichismo di ogni specie animale fiorisce dallo psichismo di una specie precedente, determinata in modo preciso, e solo da lei. In questo processo genetico non solo è determinato in modo preciso il predecessore, ma inoltre la nuova forma deriva in modo genetico e determinato dal predecessore stesso, in funzione intrinseca di esso. Se così non fosse, avremmo una serie causale sistematica, ma questa serie, questo sistema non sarebbe evolutivo. La funzione concreta della forma specifica dei predecessori con-siste nel determinare intrinsecamente, per trasformazione di alcuni loro momenti struttu-rali, le strutture della nuova specie, talché questa conserva - benché in modo trasformato - queste stesse strutture basiche. Solo allora abbiamo una rigorosa evoluzione. E questo momento di determinazione mediante trasformazione concerne tanto la morfologia quanto la psiche. Nel seno della nuova struttura morfologica fiorisce uno psichismo che conserva, trasformati, i momenti basilari dello psichismo della specie precedente. La nuova specie, ad esempio, ha molti istinti della precedente; ne ha persi alcuni; ma tanto la perdita quanto la conservazione sono una trasformazione dentro la linea del nuovo psichismo, ecc. Prendendo insieme questi aspetti diversi, diciamo che l'evoluzione è un processo genetico nel quale si producono forme psicosomatiche specificamente nuove da altre precedenti e in funzione intrinseca trasformante e determinante di queste ulti-me» (161-162).

Natura naturans: «La mera sensibilità non può produrre per se stessa un'intelligenza: tra le due esiste

una differenza non di grado ma di essenza. Per quanto si possano complicare i miei sti-moli e la loro forma di apprensione, questi non arriveranno mai a costituire realtà stimo-lanti e apprensione intellettiva. Al riguardo, la comparsa di una psiche intellettiva non è gradualmente ma essenzialmente qualcosa di nuovo. In questo senso, ma solo in questo, diciamo che la comparsa di una psiche intellettiva è un'innovazione assoluta. Questo non sta a significare una discontinuità tra la vita di tipo animale preumano e la vita di tipo umano di un ominide ominizzato. Neppure significa una discontinuità strutturale

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psichica. La psiche intellettiva conserva come suo momento essenziale la dimensione sensitiva trasformata dell'ominide preumano. Ma la psiche umana include un altro mo-mento intrinsecamente fondato su quello sensitivo, ma che tuttavia ne trascende; è il momento che chiamiamo intellettivo. Grazie ad esso non c'è discontinuità ma trascen-denza; se si vuole, una continuità nella linea della trascendenza creatrice. E poiché la psiche non è una somma di sensibilità e intelligenza, ma è una psiche intrinsecamente una, risulta che la psiche umana nella sua integrità, la psiche del primo ominide ominiz-zato, è essenzialmente diversa dalla psiche animale dell'ominide predecessore dell'uo-mo. Come tale è determinata dalla trasformazione (per i cambiamenti germinali) del mero ominide in uomo, ma non è effettuata da questa trasformazione. Pertanto non può che essere effetto della causa prima, così come lo fu a suo tempo la comparsa della ma-teria: è effetto di una creazione ex nihilo.

Però è necessario intendere quest'affermazione insieme a ciò che abbiamo detto pri-ma: cioè dev'essere una creazione determinata dalla trasformazione delle strutture ger-minali. Questo è essenziale tanto quanto il trattarsi di una creazione ex nihilo. Con trop-pa frequenza si è propensi a immaginare questa creazione letteralmente, come un'irru-zione esterna della causa prima, di Dio, nella serie animale. La psiche intellettiva sareb-be insufflata dall'esterno da uno spirito nell'animale, il quale grazie a questa addizione risulterebbe convertito in uomo. Nel nostro caso questo è un antropomorfismo ingenuo. La creazione di una psiche intellettiva ex nihilo non è una mera addizione esterna alle strutture somatiche, perché non è mera addizione e non è esterna. Ed è proprio per que-sto che, nonostante tale creazione, o meglio a causa di tale creazione, c'è questa fioritu-ra genetica dell'uomo - determinata dalle strutture e in funzione intrinseca della loro tra-sformazione - che chiamiamo evoluzione. La creazione non è un'interruzione dell'evo-luzione, ma l'esatto contrario, è un momento, un "meccanismo" causale intrinseco ad es-sa» (165-167).

«L'ominizzazione e la tipificazione dell'umanità non sono "evoluzione creatrice", ma "creazione evolvente". Dal punto di vista della causa prima, di Dio, la sua volontà crea-trice di una psiche intellettiva è volontà di evoluzione genetica» (172-173).

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Il problema teologale dell'uomo* *«El problema teologal del hombre», in El hombre y Dios, Alianza, Madrid 1984,

369-383. Queste pagine costituiscono l'introduzione al corso che ho professato nella Facoltà

di Teologia dell'Università Gregoriana di Roma nel novembre 1973, e che presto appa-rirà come libro nella sua integrità. Ho pensato che, nonostante la loro brevità, non pos-so offrire al gran teologo che è Rahner niente di meglio che queste riflessioni introdut-tive, che iniziarono ad essere rese pubbliche già trentanove anni fa6

Madrid 1974. Il tema di queste lezioni non è un tema in più su Dio, scelto arbitrariamente tra altri

mille ugualmente possibili su di Lui. Perché è un tema che non concerne solo il conte-nuto del sapere su Dio, ma piuttosto «il» problema radicale di Dio per l'uomo d'oggi. In-fatti l'uomo attuale non è caratterizzato solo dal possesso di queste o quelle idee su Dio, né dall'adozione di un atteggiamento vuoi agnostico, vuoi negativo, vuoi credente, di fronte a ciò che designiamo col nome di Dio. L'uomo attuale, sia ateo o credente, è ca-ratterizzato da un atteggiamento più radicale. Per l'ateo non solo non esiste Dio, ma neppure esiste un problema di Dio. Non si tratta dell'inesistenza di Dio, ma dell'inesi-stenza del problema stesso di Dio in quanto problema, ed egli ritiene che la realtà di Dio sia qualcosa la cui giustificazione spetta solo al credente. Ma al teista accade la stessa cosa. Il teista crede in Dio ma non vive Dio come problema. La sua vita, orientata verso Dio con fermezza totale, copre i momenti problematici di questa credenza. Al massimo cercherà di far vedere all'ateo la realtà di questo problema: il problema di Dio in quanto problema sarebbe così un affare dell'ateo. Lui invece, il credente, sente quasi come un contro-essere pensare la sua fede come soluzione di un problema. Dunque l'uomo attua-le, sia esso ateo o teista, pretende di non avere un problema di Dio nella sua realtà vissu-ta. Non pensa che il suo teismo o il suo ateismo siano risposte a una questione previa, appunto a un problema soggiacente alle credenze. Invece, proprio perché è la soluzione a un problema, il teismo deve giustificare la sua credenza, come è costretto a fare l'atei-smo; l'ateismo non è meno credenza del teismo. Né il teismo né l'ateismo sono in condi-zione di non dover fondamentare la loro posizione. Perché un conto è la fermezza di uno stato di credenza, e un altro la sua giustificazione intellettuale. E la radice ultima di questa giustificazione intellettiva di ciò che Dio è o non è, si trova necessariamente nel-la scoperta del problema di Dio nell'uomo. Il fatto di questo problema, e non una teoria, è ciò che deve costituire il nostro punto di partenza.

6 NDT: Allusione a En torno al problema de Dios, redatto tra il 1934 e il 1935 e poi incluso in Natu-

raleza, Historia, Dios, Alianza, Madrid 1987, pp. 417-454 (edizione italiana: Natura, Storia, Dio, a cura di G. Ferracuti, Augustinus, Palermo 1990).

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Ma sarà più di un mero punto di partenza. Perché il problema di Dio e ciò che chia-miamo Dio non sono due termini di cui il primo sarebbe estrinseco al secondo; anzi, a mio modo di vedere, l'elaborazione del problema di Dio in quanto problema è appunto la concettualizzazione stessa, sia agnostica, sia negativa, sia positiva, di ciò che Dio è o non è. La scoperta del problema di Dio, in quanto problema, è «insieme» un incontro più o meno preciso con la realtà o l'irrealtà di Dio. Questa direzione di pensiero è ciò che viene espresso nel titolo: «Il problema teologale dell'uomo».

Che significa questo più concretamente? Il mero enunciato del tema indica già che si tratta di muoverci all'interno di un'analisi

della realtà umana in quanto tale, in vista del problema di Dio. Ma occorre evitare fin dal principio un equivoco che potrebbe essere grave. Infatti non si tratta di rendere la realtà umana oggetto di una considerazione teologica; questo perché, a parte altre ragio-ni più profonde, equivarrebbe a dare già per presupposta la realtà di Dio. Ogni conside-razione teologica è, a questo punto, una pura e semplice teoria, importante e vera quan-to si vuole, ma pura teoria. Invece ciò che cerchiamo qui è un'analisi di fatti, un'analisi della realtà umana in quanto tale, presa in e per se stessa. Se in questa realtà scopriamo una dimensione che di fatto include costitutivamente e formalmente un inesorabile star di fonte all'ultimità del reale, vale a dire a ciò che in modo meramente nominale e prov-visorio possiamo chiamare Dio, questa dimensione sarà ciò che chiamiamo dimensione teologale dell'uomo. Così la dimensione teologale è un momento costitutivo della realtà umana, un suo momento strutturale. Qui dunque, all'inizio di quest'analisi, l'espressione «Dio» non designa alcuna idea concreta di Dio (né quella cristiana né alcun' altra), e non significa neppure «realtà» divina. In ciò che stiamo dicendo, Dio significa soltanto l'ambito dell'ultimità del reale. Il puro ateismo s'inscrive nella dimensione teologale dell'uomo, perché l'ateismo è una posizione inclusa in questo star di fronte all'ultimità, e in virtù di ciò esso è possibile precisamente e formalmente nella dimensione teologale stessa. L'ateismo è un fronteggiare l'ultimità del reale, un fronteggiamento di certo non teologico, e tuttavia teologale. In questo senso, perciò, il teologale è una dimensione ri-gorosamente umana, accessibile a un'analisi immediata. A questa dimensione dobbiamo prestare attenzione. Mettere in chiaro questa dimensione equivale a mostrare in actu e-xercito l'esistenza del problema di Dio in quanto problema. Il problema di Dio in quanto problema non è un problema qualunque, arbitrariamente posto dalla curiosità umana, ma è la realtà umana stessa nella sua costitutiva problematicità. Dobbiamo partire da questa dimensione per qualunque altra considerazione su ciò che Dio può essere. Come mettere a fuoco la questione?

I Come ho appena detto, dobbiamo partire da un'analisi della realtà umana. La por-

tiamo a termine in tre passi. 1) L'uomo è una realtà che non è fatta una volta per tutte, ma deve progressivamente

realizzarsi in un senso molto preciso. Infatti è una realtà costituita non solo dalle sue proprie note (in questo coincide con qualunque altra realtà) ma anche da una caratteri-

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stica peculiare a questa sua stessa realtà. Oltre ad avere realtà, l'uomo è una realtà for-malmente «sua», in quanto realtà. Il suo carattere di realtà è la «suità». È ciò che, a mio modo di vedere, costituisce la ragione formale della persona. L'uomo non solo è reale, ma è la «sua» realtà7. Pertanto è reale «di fronte a» ogni altra realtà che non sia la sua. In tal senso ogni persona è, per così dire, «sciolta» da ogni altra realtà: è «ab-soluta».

Assoluta, però, solo relativamente, perché questo carattere di assoluto è un carattere acquisito. La persona, infatti, deve farsi progressivamente, cioè realizzarsi progressiva-mente in diverse forme o figure di realtà. A ogni azione che l'uomo compie si configura una forma di realtà. Realizzarsi è adottare una figura di realtà. E l'uomo si realizza vi-vendo con le cose, con gli altri uomini e con se stesso. Dunque, in ogni azione l'uomo sta «con» tutto ciò con cui vive. La realtà è ciò in cui e ciò da cui l'uomo si realizza per-sonalmente. L'uomo ha necessità di tutto ciò con cui vive, perché ha necessità della real-tà. Pertanto le cose, oltre alle loro proprietà reali, hanno per l'uomo ciò che sono solito chiamare il potere del reale in quanto tale. Solo in e grazie ad esso l'uomo può realiz-zarsi come persona. La costrizione con cui il potere del reale mi domina e mi muove i-nesorabilmente a realizzarmi come persona, è ciò che chiamo impossessamento. L'uomo può realizzarsi solo posseduto dal potere del reale. E questo impossessamento è ciò che ho chiamato religazione. L'uomo si realizza come persona grazie alla sua religazione al potere del reale. La religazione è una dimensione costitutiva della persona umana. La religazione non è una teoria ma un fatto inconcusso. Come persona, dunque, l'uomo è costitutivamente messo di fronte al potere del reale, cioè all'ultimità del reale8.

Ma come vi sta? Realizzandosi con le cose, con gli altri, con se stesso (chiamiamo tutto ciò: «cose»), l'uomo configura la sua forma di realtà costretto dal potere del reale e appoggiato su di esso. Perché il potere del reale ci si dà solo nelle cose. Tuttavia, esso non s'identifica con le cose: le cose non sono che «vettori intrinseci» de «la» realtà. E lo sono per il mero fatto di essere reali9. Ne risulta che non c'è mai equazione tra ciò che sono le cose con cui l'uomo vive e ciò che l'uomo, da queste stesse cose, si vede costret-to a fare con esse. Ed ecco la questione: l'uomo si realizza in una forma di realtà che le cose non gli impongono, ma non può realizzarsi se non con le cose e attraverso le cose. Ne deriva che le cose non fanno altro che aprire, nel potere della realtà che veicolano, diverse possibilità di adottare una forma di realtà o un'altra. Pertanto l'uomo deve optare tra loro. Optare non è solo «scegliere» ciò che è determinato da un'azione, ma è «adotta-

7 NDT: Cioè l'uomo, oltre a essere reale, sa di esserlo, si comprende come un'entità che sa di essere se

stessa, consapevole della differenza tra sé e il resto dell'universo. Sa anche che può cambiare, può fare una cosa o l'altra, quindi sa che in una certa misura si possiede. Questo sapere, questo possedersi, sono elementi strutturalmente costitutivi della realtà stessa dell'uomo.

8 NDT: Il potere del reale consiste le fatto che la realtà - che nella fattispecie è la mia realtà - può esi-stere e sussistere benché sia attualmente in corso di realizzazione, cioè attualmente non realizzata, non definita, non costituita in modo definitivo. Più ancora: non solo sussiste nella sua incompiutezza, ma è attualmente impegnata nell'operazione di compiersi. Io mi sto realizzando; ma io significa la realtà della persona. La persona è un modo di realtà; dunque, paradossalmente, la realtà si sta real izzando; la realtà realizzantesi è il modo di realtà in cui consisto, la realtà che è mia (suità). Orbene, questo potere non è qualcosa di separato da me, nel senso che non è qualcosa che caratterizza solo altre realtà: l'albero, la pie-tra, ecc. Caratterizza me in quanto reale. Dunque io sono religato ad esso.

9 NDT: Il potere del reale non appare solo nella mia realtà. In effetti appare quando, per la sua assolu-tezza, l'uomo è di fronte alla realtà in quanto tale: ha intellezione della formalità di realtà, del carattere reale del mondo. La realtà umana è realizzantesi; ma percepiamo altri modi della realtà, sempre dinamica e attiva nel suo dar di sé. Ora, una cosa qualunque, ad esempio un albero, dà si sé per il mero fatto di es-sere reale, cioè in forza della sua stessa realtà. Ecco il potere del reale nella realtà come tale.

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re» una forma di realtà nell'azione scelta. Nella religazione, dunque, l'uomo è posto di fronte al potere del reale, ma in modo ottativo, cioè problematico.

Non solo. Perché quelle possibilità, essendo forme di realtà, dipendono in ultima analisi da ciò che nelle cose è questo loro potere di realtà. Ma il fatto che questo potere del reale non si identifichi con le cose stesse, manifesta che tra queste e quel potere c'è una precisa struttura interna. E questa struttura interna è ciò che chiamo «fondamento». Non si tratta di una causa o cose simili, ma di un momento intrinseco, strutturale delle cose reali stesse, qualunque sia questa struttura. Il loro mero poggiare su se stesse sa-rebbe già fondamento: le cose reali stesse, nella loro fattualità, sarebbero «fatti-fondamentali». Quindi, qualunque sia la loro struttura, il potere del reale nelle cose non è altro che l'aver luogo in esse del fondamento. Per questo le possibilità delle forme di realizzazione come persona dipendono dal fondamento. Ne deriva che l'uomo si veda inesorabilmente proiettato sempre nella realtà e dalla realtà stessa «verso» il suo fonda-mento. Il «verso» è infatti un modo di presenza della realtà: è «realtà-in-un-verso» anzi-ché «realtà-davanti» a me. In virtù di ciò questa proiezione è sempre, rigorosamente, un «cammino». Non è un processo meramente intellettivo, ma un «movimento» reale. L'uomo si vede proiettato verso il fondamento del potere del reale, nell'inesorabile co-strizione «fisica» di optare per una forma di realtà. Pertanto il cammino non è tale per-ché è intellettivo, anzi l'intellezione è il momento di chiarimento di un cammino reale e fisico nel quale l'uomo sta camminando per il potere del reale. Dunque è un cammino reale intellettivo. La religazione problematica è così eo ipso un cammino reale intelletti-vo dal potere del reale «verso» il suo fondamento intrinseco: ecco appunto il problema di Dio in quanto problema dell'ultimità del reale come tale. È ciò che cercavamo all'ini-zio.

2) Essendo problematico, il cammino verso il fondamento del potere del reale nelle cose non è univoco, proprio perché il potere del reale è solo veicolato dalle cose reali in quanto reali. Certamente, in questo cammino l'uomo accede sempre a quel fondamento. Perché si tratta di un cammino reale e fisico e non di un mero ragionamento o cose simi-li. Pertanto il termine di questo cammino viene sempre attinto. Però in modo diverso, a seconda delle rotte intraprese: ciò che in un'anticipazione chiamiamo ancora ateismo, teismo o anche agnosticismo, è già un accesso al fondamento, un contatto con esso. Ma trattandosi di una diversità intellettiva, la via scelta deve essere intellettivamente giusti-ficata. E nello stesso tempo questa giustificazione è il fondamento dell'opzione stessa. Ogni opzione è già un cammino quantomeno incipiente. L'impossessamento della per-sona umana ad opera del potere del reale è allora un impossessamento dell'uomo ad o-pera del fondamento di questo potere. E in questo impossessamento ha luogo l'intelle-zione del fondamento. Pertanto ogni realizzazione personale è precisamente e formal-mente la configurazione ottativa della persona umana rispetto al fondamento del potere del reale in essa.

Poiché l'accesso al fondamento è problematico, l'uomo - dicevo - deve giustificare il suo modo di accedere. Per noi, la giustificazione intellettiva del fondamento del potere del reale è quella che ci proietta lungo una rotta che conduce dalla persona umana (cioè da una persona relativamente assoluta) a una realtà assolutamente assoluta: è ciò che in-tendiamo per realtà di Dio. L'uomo trova Dio realizzandosi religatamente come persona. E lo trova in tutto l'ambito del potere del reale; pertanto in tutte le cose reali e nella pro-pria persona (che pure veicola in se stessa il potere del reale). Il potere del reale consiste allora nel fatto che le cose reali, senza essere Dio né un momento di Dio, sono tuttavia reali «in» Dio, cioè la loro realtà è Dio ad extra. Perciò dire che Dio è trascendente non

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significa che Dio sia trascendente «alle» cose, ma che Dio è trascendente «nelle» cose. L'impossessamento della persona umana ad opera del potere del reale è allora un impos-sessamento dell'uomo ad opera di Dio. In questo impossessamento ha luogo l'intellezio-ne di Dio. Ne deriva che ogni realizzazione personale è precisamente e formalmente la configurazione optativa dell'essere umano rispetto a «Dio nella mia persona».

La scoperta di Dio nel cammino intellettivo della religazione: ecco il secondo passo essenziale nella nostra questione.

3) Il cammino «verso» il fondamento del potere del reale è problematico, e il pro-blema stesso ha un carattere molto preciso. Il cammino infatti è reale e fisico. Ne deriva che la problematicità è rigorosamente un «tastare» [tanteo]. Il cammino è a tentoni [en tanteo]. La religazione, pertanto, riveste la forma concreta di un tastare, ma questo si ri-ferisce al potere del reale in quanto tale. In ogni suo passo è un tentativo di «prova»; ebbene, la «prova fisica della realtà» è proprio ciò che, a mio modo di vedere, costitui-sce l'essenza stessa di ciò che chiamiamo esperienza. Pertanto il cammino problematico verso il fondamento del potere del reale nella religazione è esperienza di quel fonda-mento, un'esperienza reale e fisica, e tuttavia intellettiva. L'impossessamento ad opera del potere del reale ha luogo in forma esperienziale. Dunque, la religazione è un cam-mino esperienziale verso il fondamento del potere del reale. È l'esperienza fondamenta-le. E in questa esperienza ha luogo l'intellezione concreta del fondamento. Questo carat-tere è essenziale alla religazione. L'uomo, dicevamo, accede sempre religatamente al fondamento del reale. Pertanto, l'uomo ha sempre nella sua esperienza personale quell'esperienza fondamentale. Ogni suo atto, persino il più volgare e modesto, è in tutte le sue dimensioni, in modo espresso o insensibile, un'esperienza problematica del fon-damento del potere del reale. L'ateismo, il teismo, l'agnosticismo, sono modi dell'espe-rienza del fondamento del reale. Non sono meri atteggiamenti concettuali. Quest'espe-rienza fondamentale è individuale, sociale e storica. In virtù di ciò l'esperienza del fon-damento del potere del reale è un tastare individuale, ma è anche, e al tempo stesso, un tastare sociale e storico. Ne deriva che il fondamento stesso del potere del reale appar-tiene, in un modo o nell'altro, alla persona stessa: essere persona è essere «figura» di questo fondamento, ed esserlo esperienzialmente.

Ebbene, l'esperienza fondamentale, cioè l'esperienza del fondamento del potere del reale lungo la rotta che intellettivamente porta a Dio, è eo ipso Dio esperimentato come fondamento, è esperienza di Dio. E poiché in virtù dell'esperienza fondamentale il fon-damento del potere del reale, come abbiamo appena visto, appartiene alla persona stes-sa, in una forma o nell'altra, risulta che Dio, essendo la realtà-fondamento di questo po-tere, realtà scoperta dalla persona e nella persona al realizzarsi come persona, non è una mera aggiunta alla realtà dell'uomo, una giustapposizione. Non c'è la persona umana «e inoltre» Dio. Proprio perché Dio non è trascendente alle cose, ma trascendente in esse, le cose non sono simpliciter un non-Dio, ma in qualche modo sono una configurazione di Dio ad extra. Pertanto, Dio non è la persona umana, ma la persona umana è in qual-che modo Dio: è Dio umanamente. Perciò la «e» di «l'uomo e Dio» non è una «e» copu-lativa. Dio non include l'uomo, ma l'uomo include Dio. Qual è il modo concreto di que-sta inclusione? È appunto l'«esperienza»: essere persona umana è realizzarsi esperien-zialmente come qualcosa di assoluto. L'uomo è formalmente e costitutivamente espe-rienza di Dio. E questa esperienza di Dio è l'esperienza radicale e formale della stessa realtà umana. Il cammino reale e fisico verso Dio non è solo un'intellezione vera, ma è una realizzazione esperienziale della stessa realtà umana in Dio.

Esperienza di Dio: è il terzo momento essenziale dell'analisi della realtà umana.

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In definitiva, religazione, cammino intellettivo, esperienza: ecco i tre momenti es-senziali della realizzazione personale umana. Non sono tre momenti successivi, ma o-gnuno è fondato sul precedente. Pertanto costituiscono un'unità intrinseca e formale. La struttura ultima della dimensione teologale dell'uomo consiste in quest'unità. La realiz-zazione dell'uomo in essa è ciò che, in modo sintetico, si deve chiamare esperienza teo-logale.

II Questa dimensione, proprio perché è individuale, sociale e storica, adotta necessa-

riamente una forma concreta: è la plasmazione della religazione. Qui plasmazione signi-fica che si tratta della forma concreta in cui individualmente, socialmente e storicamente il potere del reale s'impossessa dell'uomo. Plasmazione è dunque una forma d'imposses-samento. Questa plasmazione è religione nel senso più ampio e rigoroso del termine: la religione è la plasmazione della religazione, una forma concreta dell'impossessamento da parte del potere del reale nella religazione. La religione non è un atteggiamento di-nanzi al «sacro», come oggi si ripete con monotonia. Tutto ciò che è religioso è certa-mente sacro; ma è sacro perché è religioso, non è religioso perché è sacro.

Essendo plasmazione della religazione, la religione ha sempre una visione concreta di Dio, dell'uomo e del mondo. Ed essendo esperienziale, questa visione ha necessaria-mente molteplici forme: è la storia delle religioni. Ma la storia delle religioni non è un catalogo o un museo di forme coesistenti e successive della religione. Perché quell'espe-rienza, a mio modo di vedere, è esperienza a tentoni. Pertanto penso che la storia delle religioni sia l'esperienza teologale dell'umanità, individuale, sociale e storica, circa la verità ultima del potere del reale, di Dio.

III Il cristianesimo s'inscrive in questa esperienza. Il cristianesimo è religione e, pertan-

to, plasmazione della religazione, una delle forme con cui il potere del reale - e pertanto il suo fondamento, Dio - s'impossessa (nell'individuo, nella società e nella storia) espe-rienzialmente dell'uomo. Il potere del reale, dicevo, consiste nel fatto che le cose sono reali «in» Dio. Ebbene, per il cristianesimo questo «essere reali in Dio» consiste nell'es-sere deiformi. Le cose reali, dicevo, sono Dio ad extra; per il cristianesimo, questo ad extra è «essere come Dio». Questa deiformità ammette modi e gradi diversi, ma si tratta sempre di modi e gradi di una rigorosa deiformità. Ne deriva che l'impossessamento in cui consiste la religazione è concretamente deiformità. La forma dell'essere umanamen-te Dio è esserlo deiformemente. L'uomo è una proiezione formale della realtà divina stessa; è un modo finito di essere Dio. Il momento di finitezza di questa deiformità è ciò che, a mio modo di vedere, costituisce la cosiddetta «natura umana». Dio è trascendente «nella» persona umana, essendo questa deiformemente Dio. La deiformità, ripeto, è la trascendenza di Dio nella persona umana. Pertanto realizzarsi come persona è realizzar-si mediante l'impossessamento deiformante del reale. L'impossessamento stesso è l'e-vento della deiformazione.

A mio modo di vedere, questa è l'essenza del cristianesimo. Prima di essere religione di salvezza (come si ripete quasi fosse una cosa evidente) e proprio per poterlo essere, il

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cristianesimo è religione di deiformità. Ne deriva che il carattere esperienziale del cri-stianesimo è la suprema esperienza teologale, perché non è possibile una forma di esser reale in Dio maggiore dell'esserlo deiformemente. In virtù di ciò, il cristianesimo non solo è religione vera in se stessa, ma è anche la verità, formale oltre che «radicale», di tutte le religioni. È, a mio modo di vedere, la trascendenza teologale, oltre che storica, del cristianesimo. L'esperienza teologale dell'umanità è così l'esperienza della deiformi-tà nella sua triplice dimensione individuale, sociale e storica: è cristianesimo a tentoni.

IV In tal modo il problema teologale dell'uomo si dispiega in tre parti: religazione, reli-

gione, deiformazione, che costituiscono tre problemi: Dio, religazione, cristianesimo. A questo punto, per concludere, conviene tornare su ciò che segnalavo all'inizio di

queste pagine: evitare un penoso equivoco che ha finito col diventare una specie di tesi solenne, vale a dire che la teologia sia essenzialmente antropologia, o quantomeno an-tropocentrica. Questo mi pare assolutamente insostenibile. Poiché potrebbe sembrare che la precedente esposizione si inscriva dentro questa tesi, è necessario chiarire un po' le idee.

La teologia è essenzialmente e costitutivamente teocentrica. Ho certamente affermato che la teologia si trova fondata nella dimensione teologale dell'uomo, ma teologale non è teologico, almeno per due ragioni:

a) perché il teologale è solo un fondamento del sapere teologico, ma non è il sapere teologico stesso;

b) perché il teologale è certamente una dimensione umana, ma è appunto quella di-mensione secondo cui l'uomo si trova fondato nel potere del reale. Pertanto, l'uomo è umano appunto essendo formalmente fondato nel potere del reale. Pertanto l'uomo è umano appunto essendo formalmente fondato sulla realtà. Il che è l'esatto contrario dell'antropologia: è un'immersione dell'uomo nella realtà in quanto tale. Solo grazie a questo si è uomini.

Se, come è giusto, riserviamo i termini teologia e teologico per ciò che sono Dio, l'uomo e il mondo nelle religioni tutte, e nel cristianesimo in particolare, allora si dovrà dire che il sapere circa il teologale non è teologia simpliciter. Il sapere sulla realtà teo-logale è, dicevo, un sapere che ha luogo nell'esperienza fondamentale. Ne deriva che ta-le sapere sia teologia fondamentale. La cosiddetta teologia fondamentale acquista così un suo proprio contenuto essenziale. Tra le numerose discussioni sul concetto e sul con-tenuto della teologia fondamentale, personalmente penso che essa non sia uno studio dei preambula fidei, né una sorta di vago studio introduttivo alla teologia propriamente det-ta. A mio modo di vedere, la teologia fondamentale è precisamente e formalmente lo studio del teologale in quanto tale.

Ho sviluppato le tre parti del tema in un corso tenuto a Madrid nella Sociedad de E-

studios y Publicaciones nel 1971. La prima parte ha trattato «L'uomo e Dio»; la secon-da, «L'uomo e Dio nelle religioni»; e la terza, «L'uomo, Dio e la religione cristiana». La prima di queste tre parti, un po' più sviluppata successivamente, è stata il contenuto di un corso nella Facoltà di Teologia dell'Università Gregoriana nel Novembre 1973.

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Il potere del reale e l'enigma della vita* * Da: El hombre y Dios, Alianza, Madrid 1988, pp. 140-164 (numerazione dei para-

grafi e titolo redazionali). I [...] Cos'è questo potere del reale nelle cose? Il potere del reale è un potere che le co-

se possiedono in quanto reali; e in quanto reali costituiscono una parte o un momento (poco importa il termine) di ciò che chiamiamo «la» realtà. Ci domandiamo dunque cos'è nelle cose reali questa realtà che come potere determina fisicamente il nostro Io, e che ci fa acquisire il nostro essere assoluto.

1) Anzitutto, «la» realtà non è un mero concetto generale. Lo abbiamo già detto: è un momento fisico delle cose e ci determina anche fisicamente. Sia quale sia il suo concet-to, ciò che chiamiamo «la» realtà è un certo momento fisico delle cose.

2) Tuttavia non è una sorta di pelago in cui le cose starebbero come a bagno o im-merse. «La» realtà non è un mero concetto, ma neppure è separata dalle cose, quasi fos-se un loro involucro. La realtà è sempre e solo un carattere delle cose, la formalità stessa di ogni cosa in quanto reale. La realtà e il suo potere stanno nelle cose stesse. Certamen-te, ciò che determina la persona è «la» realtà, ma «la» realtà è un momento delle cose stesse. L'uomo sta nella realtà semplicemente stando tra e con le cose reali.

3) Tuttavia, in ogni cosa reale, per il solo fatto di esser tale, il momento di realtà ec-cede, in un certo senso, ciò che essa è concretamente. L'impressione di realtà è fisica-mente trascendentale a ciascuna cosa. Proprio per questo le cose reali hanno il potere di determinare il mio essere relativamente assoluto. Che significa questo?

A) In primo luogo, nelle cose stesse il loro momento di realtà eccede la concrezione

determinata di ogni singola cosa. Essere reale è «più» che essere questo o l'altro. La re-altà non è certamente un maremagnum, ma un carattere delle cose e nelle cose; ma que-sto carattere ha la particolarità di non esaurirsi in ciò che è ciascuna cosa reale. È quanto esprimo dicendo che esser reale è esser «più» di questo bicchiere d'acqua, questo paio d'occhiali, ecc. In un certo senso, ogni cosa reale concreta è più di ciò che concretamen-te è. Cos'è questo «più»?

A prima vista si potrebbe pensare che si tratti di una «composizione» tra ciò che è la cosa reale e il suo carattere di realtà. Ma non è così.

Quest'idea della composizione, nel migliore dei casi, sarebbe una concettualizzazione particolare del «più», ma non potrebbe in alcun modo essere il nudo fatto del «più». Ed è una concettualizzazione così particolare che personalmente sono ben lungi dall'am-metterla.

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Da un altro punto di vista si potrebbe pensare che la realtà sia un mero concetto tra-scendentale e che pertanto il suo contenuto si troverebbe come «contratto» in ogni cosa. In tal caso ciò di cui primo et per se si avrebbe intellezione sarebbe appunto l'essere senza il «più»10; e nell'essere avremmo intellezione di ciascuna cosa come contrazione dell'essere. Voglio dire: non è che in questo caso nella cosa si conosca «di più» di ciò che essa è concretamente; anzi, conoscerla sarebbe conoscere «meno» di ciò che è l'es-sere. Dinanzi a questa concezione lasciamo da parte chi identifica realtà e essere e chi considera la trascendentalità come un mero concetto. Non condivido nessuna di queste due idee: infatti ho insistito sulla differenza tra la realtà e l'essere, inteso come un suo atto ulteriore, e sul carattere fisico del momento di realtà. Ma l'elemento decisivo sta ora in un altro punto: la verità è il contrario di quanto si è appena detto. Perché ciò di cui ho intellezione nella cosa è che il suo essere reale è «più» dell'essere questa cosa determi-nata. Nella cosa stessa, e non in un essere anteriore ad essa, io ho intellezione del «più». Pertanto non c'è una contrazione de «la» realtà a questa cosa reale, ma al contrario c'è una sorta di «espansione» del carattere reale di ogni cosa oltre ciò che essa è concreta-mente. Nell'intellezione di ogni cosa reale conosco, dunque, nella cosa stessa, che essere reale è «più» che essere questo o l'altro.

Composizione e trascendentalità (in senso classico) sono due concettualizzazioni di qualcosa di previo e radicale: del mero «più». Si fondano sul «più», ma non lo costitui-scono primariamente né formalmente, come se il «più» fosse fondato sulla composizio-ne o sulla trascendentalità. La metafisica ci ha abituati a prendere i concetti ricevuti co-me se fossero i caratteri primari delle cose. Non è così. Nel nostro problema è doveroso considerare il «più» nella sua primarietà pre-concettuale. Dire che esser reale è «più» che essere concretamente questo o l'altro, significa anzitutto che il momento di realtà in questo paio di occhiali, ad esempio, non s'identifica «senz'altro» [sin más] col fatto che è questo paio di occhiali; in secondo luogo, che il momento di realtà di questo paio di occhiali è un carattere che, in un certo senso, eccede la stessa realtà di questo paio di occhiali, perché nella loro realtà mi è data in qualche modo anche la realtà simpliciter. Nel paio di occhiali non ho l'apprensione del «paio di occhiali reale» e in più della real-tà; al contrario, nel paio di occhiali reale la realtà non è ridotta ad esso paio di occhiali reale. Il «più» è assai impreciso. Appunto per questo l'intelligenza deve precisarlo. Ma il «più» mi è dato nell'impressione di realtà. E la prova sta nel fatto che il carattere di real-tà simpliciter - e non di realtà degli occhiali - è ciò che negli occhiali stessi determina il mio essere personale assoluto: è come realtà simpliciter che in questo paio di occhiali si trova il potere del reale. «La» realtà simpliciter ha un potere fisico.

B) E questo è il secondo punto. Il carattere di realtà non è solo «più» di ciò che ogni

cosa reale è concretamente, ma è anche in ogni cosa reale ciò che determina il mio esse-re relativamente assoluto in quanto assoluto. Il potere del reale, benché non sia un pote-re che sta fuori o al di sopra delle cose reali concrete, è tuttavia un potere de «la» realtà in quanto realtà; è qualcosa di «più» del potere delle realtà concrete, dato che in ogni cosa concreta, per modesta che sia, io mi sto determinando davanti a «la» realtà come tale: è appunto la radice del mio essere assoluto. «La» realtà ha un potere fisico. Ciò vuol dire che ogni cosa reale veicola un carattere e un potere che non si esaurisce nella realtà delle cose concrete che, in quanto reali, hanno potere su di me. Il «più» è un mo-

10 NDT: l'originale dice: l'essere «sin más », senza más, senza più. Il gioco di parole è di difficile resa.

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mento costitutivo del potere del reale: il potere del reale è il potere del reale in tutto il suo «più».

Come momento delle cose e come determinante dell'Io, il potere del reale è «più» della realtà e del potere di ogni cosa reale concreta. Ogni cosa reale porta fisicamente nella sua realtà il carattere e il potere de «la» realtà simpliciter: ecco il terzo passo della nostra esposizione.

II In che consiste allora questo carattere per cui la realtà ha un potere di determinare il

mio relativo essere assoluto? Domandarci questo è domandarci su che si fonda e in che consiste la strana unità tra ciò che la cosa è realmente nella sua concrezione e il momen-to per cui essere reale è «più» che essere questo o l'altro. Perché, in ultima analisi, è in questa unità che consistono la realtà nella cosa, e della cosa, e il potere di questa realtà.

1) Anzitutto bisogna riconoscere che, preso ogni aspetto per se stesso, ciascuno risul-ta innegabile. La difficoltà comincia quando si pensa a un'altra cosa altrettanto innega-bile, cioè che si tratta di aspetti di una stessa cosa reale, della realtà di ogni cosa. Perché allora salta anzitutto agli occhi che non è affatto chiaro quanto abbiamo detto nel passo precedente. Da dove viene la difficoltà? A prima vista si potrebbe pensare che la diffi-coltà provenga dalla mancanza di precisione e di rigore nelle idee. Ma anche dandola per scontata, la verità è che questa difficoltà ha una radice più profonda. Non risiede formalmente nelle nostre idee, ma nella natura stessa della cosa reale. È lei, la cosa stes-sa, che in un certo senso è ambivalente: da una parte è «immersione» in se stessa, e dall'altra è «espansione» nel più che se stessa; è insieme e formalmente la «sua» irridu-cibile realtà e la presenza de «la» realtà. E quest'ambivalenza è reale; realmente ogni cosa reale, in quanto reale, è così. E la prima cosa da fare è riconoscerlo. Allora la diffi-coltà non sta nella rozzezza delle idee ma nella struttura stessa della cosa. La cosa reale in quanto reale è questo strano, ambivalente imbricarsi dell'essere «questa» realtà e dell'essere presenza de «la» realtà. Questo strutturale imbricarsi è ciò che chiamiamo «enigma» della realtà. Dire che ogni cosa reale è un enigma, consiste formalmente nel dire che la realtà ha tale ambivalenza strutturale. E inversamente, dire che la realtà ha questa struttura ambivalente consiste nell'affermare che la realtà è strutturalmente enig-matica.

2) Il carattere enigmatico della realtà non è qualcosa di estraneo al potere del reale. Al contrario. Proprio perché la realtà è enigmatica, siamo religati al potere del reale in forma problematica. Il potere del reale è un potere enigmatico, e in virtù di ciò la religa-zione mi religa ad esso in forma problematica. Ciò che è problematico nella religazione è il vissuto del carattere enigmatico della realtà. Ecco che significa l'affermazione che abbiamo ripetuto tante volte: siamo religati fisicamente al potere del reale in modo pro-blematico. Ora ne comprendiamo il perché. In primo luogo, perché la realtà è essa stessa enigma, ambivalenza. In secondo luogo, perché, in virtù di ciò, anche la determinazione del mio relativo essere assoluto è eo ipso enigmatica: è ciò che costituisce formalmente l'enigma della vita. La vita è costitutivamente enigmatica perché vivere è fare il mio re-lativo essere assoluto, che è enigmatico proprio perché lo è il potere del reale su cui si fonda. Ne derivano importanti conseguenze.

a) La determinazione del mio relativo essere assoluto è il vissuto fisico dell'enigma della realtà. Questo vissuto è l'inquietudine. Inquietudine, dicevo, non è agitazione nel

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turbine della vita, né è necessariamente una mobilità cambiante. Al contrario, l'inquie-tudine è molto più vicina a un modo di quiescenza, questa strana mistura di riposo e mo-to, una sorta di riposo dinamico. Questa inquietudine è sempre e solo inquietudine per l'assolutezza dell'essere. Non è l'inquietudine che ci porta da una cosa a un'altra, come ad esempio l'inquietudine di cui ci parla Sant'Agostino, ma è formale e intrinseca a ogni atto, perché nel più piccolo dei suoi atti l'uomo, facendo il suo essere assoluto, non può evitare di sentire espressamente o tacitamente questa duplice domanda: che sarà di me, del mio essere assoluto? E che farò di me, dato che quest'essere lo faccio io? L'unità di queste due domande è l'inquietudine radicale: l'inquietudine a seguito dell'essere relati-vamente assoluto.

b) Poiché il potere del reale è enigmatico, l'intelligenza non solo si trova «davanti» alla realtà, che le è data, come davanti a qualcosa che le è presente, ma inoltre è proiet-tata dalla realtà stessa «verso» il suo enigma radicale. L'intelligenza, oltre ad essere in-tenzionalmente «rivolta » verso, è anche fisicamente «proiettata » verso. Il «verso» non è un andare «verso», ma è un momento della stessa realtà appresa: non è un «verso la realtà», ma la «realtà-verso». L'impressione di realtà non è monopolio esclusivo di al-cun sentire - ad esempio quello visivo - ma abbraccia ogni sentire, compresi i sensi dell'orientamento e dell'equilibrio. Per questo la realtà non è solo qualcosa che sta pre-sente (come nel caso della vista), ma ha anche altri modi di star e. Uno di questi è il «verso». E tali modi diversi non sono semplicemente giustapposti, ma sono intrinseca-mente articolati (non posso entrare qui nel problema) in un'unitaria apprensione di real-tà. Tutti i modi, in quanto attraversati dal «verso», ci conducono «verso» qualcosa al di là di ciò che è appreso immediatamente negli altri modi: il suono verso la cosa sonora, ecc. L'essenziale è che non si tratta di nostre riflessioni, ma è la realtà stessa a portarci verso questo al di là. È un venir portati dalla realtà nella realtà. Ebbene, nel nostro caso l'enigma della realtà è l'intellezione della realtà in un «verso» molto preciso, vale a dire verso il fondamento radicale di ogni cosa reale. Il potere del reale ci determina fisica-mente in modo problematico, e questa determinazione è il problema stesso del fonda-mento della struttura della realtà in quanto tale. La religazione è religazione alla realtà nel suo enigma.

3) Lanciati dalla religazione stessa verso il suo enigma, l'intelligenza può scoprire qual è il nodo del problema. Il potere del reale, infatti, come ogni potere si fonda sulle proprietà (per così dire) possedute dalla cosa che ha tale potere. Ed ecco il nodo del problema. Il potere del reale si fonda sulla peculiare consistenza della realtà in quanto realtà. Il potere del reale, come determinante del mio relativo essere assoluto, è un pote-re fondato sulla realtà stessa. Orbene, la realtà non è la realtà di questo paio di occhiali. Né il potere del reale è senz'altro il potere di questa realtà, appunto come realtà del paio di occhiali. Perché con il paio di occhiali, ciò in cui sto è «la» realtà simpliciter; ed è nella realtà simpliciter che mi determino nel mio relativo essere assoluto, come abbiamo già visto. Ne derivano due conseguenza decisive:

a) La realtà su cui si fonda questo potere non sono le cose reali concrete. In altri ter-mini: tutte le cose sono reali, ma nessuna è «la» realtà. Ma «la» realtà è reale perché mi determina fisicamente facendomi essere relativamente assoluto. Dunque esiste un'altra realtà su cui si fonda «la» realtà. Ed essa non è una cosa concreta in più, perché non è «una» realtà, bensì il fondamento de «la» realtà. E come fondamento di un potere che determina il mio essere relativamente assoluto, sarà una realtà assolutamente assoluta. È appunto la realtà di Dio. Solo perché esiste questa realtà, può esserci un potere del reale che mi determina nel mio relativo essere assoluto.

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b) Ma questo potere del reale lo trovo nella realtà concreta di ciascuna cosa. Il che significa che la realtà assolutamente assoluta, cioè Dio, è presente formalmente nelle cose, costituendole come tali. La presenza di Dio nelle cose reali è anzitutto di carattere formale. Prima di tutto, Dio non è presente nelle cose reali al modo in cui la causa lo è nel suo effetto, ma vi è presente formalmente, costituendole come reali. La possibile causazione effettrice di Dio rispetto alle cose è un'interpretazione ulteriore richiesta dal precedente della presenza formale di Dio nelle cose. E tale presenza consiste nel fatto che la realtà di ogni cosa è [está] costituita «in » Dio. Dio non è una realtà che sta lì, ol-tre alle cose reali e occulta dietro di esse, ma sta nelle cose reali stesse in modo formale. Pertanto la realtà assolutamente assoluta è certamente distinta da ogni cosa reale, ma è formalmente presente in esse in modo costituente. Perciò ogni cosa reale è intrinseca-mente ambivalente. Da una parte, ogni cosa è concretamente la sua irriducibile realtà; ma dall'altra è [está] formalmente costituita nella realtà assolutamente assoluta, in Dio. Senza Dio «nella» cosa, questa non sarebbe reale, non sarebbe la sua stessa realtà. E quest'unità è appunto la soluzione dell'enigma della realtà. L'ambivalenza della realtà consiste semplicemente in questo suo duplice momento del non esser Dio e dell'essere tuttavia formalmente costituita in Dio. Per questo la cosa è la «sua» realtà e la presenza de «la» realtà; per questo c'è in essa il potere del reale. Su questo carattere della realtà tornerò tra pochissimo.

Così, dunque, Dio esiste e sta costituendo formalmente e splendidamente la realtà di ogni cosa. Perciò è il fondamento della realtà di ogni cosa e del potere del reale in essa. Ecco in quarto passo della nostra esposizione.

Riprendendo i passi precedenti, diremo allora in forma semplice: la vita personale dell'uomo consiste nel possedersi facendo religatamente il proprio Io, il proprio essere, che è un essere assoluto acquisito, pertanto relativamente assoluto (primo passo). Que-sto essere assoluto è acquisito ad opera della determinazione fisica del potere del reale in quanto ultimo, possibilitante, impellente (secondo passo). Come momento delle cose e determinante dell'Io, il potere del reale è «più» della realtà e, pertanto, del potere di ogni cosa reale concreta (terzo passo). Ma il potere del reale si fonda essenzialmente sulla stessa peculiare consistenza della realtà. Dunque questo potere è fondato su una realtà assolutamente assoluta, distinta dalle cose reali, ma che, proprio per esser tale, sta nelle cose reali stesse, costituendole come reali. Questa realtà è, dunque, Dio (quarto passo).

Grazie a questa presenza costituente di Dio nelle cose e delle cose in Dio, è possibile il potere del reale delle cose, quel potere grazie a cui Io vivo, cioè sto facendo con esse il mio Io assoluto. Io faccio la mia vita con le cose, e senza di esse non mi sarebbe pos-sibile vivere. Ma ciò che io faccio con esse, lo faccio in quanto sono [están] costituite come reali in Dio. Senza Dio, in quanto momento formalmente costitutivo della realtà delle cose, queste sarebbero prive della condizione prima e radicale di essere determi-nanti del mio stesso essere, semplicemente perché non sarebbero «realtà». E inversa-mente, solo essendolo hanno quel potere, e sono reali solo essendolo in Dio. Il mio esse-re, cioè, si fonda su Dio in quanto costitutivamente presente in modo formale in ciò che le cose hanno di reale. Le cose reali, per il loro potere del reale, nel darmi la loro realtà, mi stanno dando Dio in essa. Giustificare l'esistenza di Dio è semplicemente spiegare la verità di questa frase. Tale giustificazione è certamente una fondamentazione, ma non è un ragionamento speculativo; è bensì l'intellezione del cammino effettivo della nostra religazione. Perciò la «prova» non è una dimostrazione matematica. Ha sempre la riso-nanza del cammino della vita personale. E pertanto risulta completa solo nell'intero svi-

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luppo del libro. Il libro intero è ciò che dà a questa prova il carattere probatorio di un'e-sperimentazione fisica.

III Ora non resta che esplicitare questo punto di arrivo per vedere che siamo giunti a Dio

in quanto Dio. Non si tratta di un'inferenza ma di un esame del termine a cui siamo giunti nell'intellezione della via della religazione. Attraverso la via della religazione siamo arrivati alla determinazione del mio essere relativamente assoluto, del mio Io, grazie al potere del reale. Questo potere si fonda sull'indole stessa della realtà. Pertanto questa via non è antropologica né cosmica, ma è insieme e per elevazione la via della realtà. Attraverso questa via scopriamo una realtà assolutamente assoluta che, come ab-biamo appena visto, è il fondamento sia del potere del reale sia della stessa realtà delle cose su cui si fonda quel potere. È questo un fondamento formalmente costituente la re-altà, e pertanto il mio Io. Dunque, trovandosi formalmente presente nelle cose reali, la realtà assolutamente assoluta, cioè Dio, ha due aspetti. Anzitutto quell'aspetto secondo cui, per la sua stessa natura, è fondante il potere del reale; e in secondo luogo l'aspetto per cui il potere del reale è fondato in Dio.

1) La realtà assolutamente assoluta è il fondamento del potere del reale. Orbene, il potere del reale è la realtà dominante, in quanto ultima, possibilitante e impellente. Per-tanto la realtà assolutamente assoluta possiede insieme per elevazione questi tre mo-menti. Cioè, è Dio in quanto Dio. In questo punto di arrivo si percepisce bene la diffe-renza rispetto al punto di partenza delle vie cosmiche e antropologiche. È Dio in quanto Dio solo quella realtà che è assolutamente ultima, fonte di tutte le possibilità che l'uomo possiede per vivere e su cui si appoggia per dover essere. Nessuno di questi momenti, preso separatamente, costituisce ciò che tutti intendiamo per Dio e ciò che questo termi-ne significa nell'intera storia delle religioni. È per questo che il Theós di Aristotele, par-lando propriamente, non è Dio. Si penserà allora alla famosa distinzione di Pascal tra il Dio dei filosofi e il Dio delle religioni. Questa ha alcune ragioni, ma solo alcune. Anzi-tutto perché sarebbe stato necessario dirci in che consiste il Dio delle religioni, e non ce lo dice. In secondo luogo, perché il Dio delle religioni è il Dio a cui filosoficamente si arriva ogni volta che la filosofia non si rinchiude nelle nozioni greche. La via della reli-gazione è arrivata filosoficamente a una realtà assolutamente assoluta, che è realtà ulti-ma, possibilitante, impellente, cioè al Dio delle religioni, in quanto Dio. Ma questo ri-chiede una riflessione più attenta.

Quando si dice che Dio è fondamento del potere del reale, «fondamento» designa certamente una causalità, ma non si tratta di una delle quattro cause a cui fa riferimento solitamente la metafisica classica. A forza di distinguere il carattere specifico delle quat-tro cause, si diviene propensi a pensare che esse esauriscano tutti i possibili tipi di cau-salità. Inoltre, ed è ancor più grave, si finisce col perdere di vista la causalità in quanto tale. Ebbene, a mio modo di vedere, la causalità è la funzionalità del reale in quanto rea-le. Preso in tutta la sua ampiezza, questo concetto di funzionalità viene liberato da ogni idea di «influenza», e soprattutto lascia in sospeso quale sia il tipo di causalità che in-terviene in ciascun caso. «La» realtà del reale, come suo momento fisico, si fonda sulla realtà assolutamente assoluta; pertanto esiste una funzionalità de «la» realtà rispetto a Dio. Ma questo non pregiudica nemmeno lontanamente la specifica natura di questa funzionalità. Vediamolo.

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a) Dire che Dio è il fondamento della realtà delle cose non comporta formalmente che Dio «faccia» le cose, che sia la loro causa efficiente, e men che meno che ne sia il creatore. Non tutti gli dèi delle religioni hanno questo carattere. Ma non per questo ces-sano di essere realtà ultime. Il Dio cristiano sì che è creatore. Ma su questo punto con-divido il pensiero di Duns Scoto, secondo cui la creazione è una verità di fede e non di ragione. L'ultimità fondante di Dio significa semplicemente questo: nelle cose reali «la» realtà è un loro momento fisico, momento che non esisterebbe se non fosse fondato sul-la presenza di Dio in esse come un costituente formale della loro realtà. Senza Dio le cose non sarebbero reali. Dio è così fondamento dell'ultimità del reale e del suo potere. Quale sia l'indole di questa fondamentazione è questione che per ora rimane aperta.

b) Dio è fondamento del fatto che la realtà è possibilitante per l'uomo. Tutte le possi-bilità umane si inscrivono nella realtà. Ebbene, come fondamento del carattere di realtà, Dio non è una possibilità in più, ma è la possibilità delle possibilità. È un altro tipo di fondamentazione. Ne deriva che l'uomo, per il potere del reale, si ritrova a sboccare in Dio come possibilitante assoluto: è Dio come datore delle possibilità. Chiaramente, così come avviene per l'ultimità, questo carattere possibilitante di Dio rimane aperto a ulte-riori determinazioni. Anzitutto e formalmente non significa onnipotenza, né provviden-za, né misericordia. Queste sono verità di fede, non di ragione. Più ancora, sono verità fondate su quanto compete a Dio in modo primario. Circa questo aspetto, l'unica cosa che compete primariamente a Dio in quanto Dio è l'essere possibilità assoluta. Solo per-ché è tale, può essere ciò che la fede predica di Lui: misericordia, ecc. È la possibilità di fare l'Io a partire da Dio, o meglio la possibilità di essere a partire da Dio.

c) Infine, Dio è fondamento della realtà come potere impellente nella costruzione del mio Io: è il fondamento della costrizione a essere il mio Io. L'indole di questa costrizio-ne rimane una questione aperta. Naturalmente non è una mera «forza» fisica: Dio non è il primo motore della mia vita. Non è neppure un obbligo: ogni obbligo presuppone quella costrizione a essere Io. Il carattere della costrizione viene dato dall'indole di ciò a cui siamo costretti: a essere il mio Io. Il mio Io è l'essere relativamente assoluto e Dio è la realtà assolutamente assoluta. Così, come si è detto sovente, l'uomo è un «piccolo Di-o». Ma bisogna dire in che consiste la sua «piccolezza»; e di solito non lo si dice. A mio modo di vedere consiste nel fatto che il suo essere assoluto è acquisito, ed è pertanto re-lativo. «Piccolo» significa dunque «relativo»: l'uomo è un Dio relativo. Pertanto, che la realtà sia un potere impellente significa, da una parte, che l'assoluto è «in realtà» assolu-tamente inesorabile, perché è intrinsecamente basato e fondato sulla realtà assolutamen-te assoluta in cui consiste Dio. In questo senso, Dio è il fermo basamento del mio esse-re, del mio Io. Roccia ferma, chiamavano Dio i semiti. Questa sottile e inesorabile unità che si dà nell'assoluto del mio essere, tra il relativo e l'assoluto, è in un certo senso un'u-nità dinamica, dato che spinge l'uomo a farsi il suo essere assoluto.

Come realtà assolutamente assoluta, Dio è il fondamento della realtà in quanto ulti-mità radicale, possibilità delle possibilità, costrizione alla mia realizzazione come essere assoluto. Sono tre modi diversi di fondamentazione e pertanto di funzionalità del reale rispetto a Dio. Non si possono ridurre a nessuna delle quattro cause classiche, e men che meno giustapporsi tra loro. Al contrario, essendo realtà assolutamente assoluta, Dio è insieme e formalmente realtà ultima, possibilitante e impellente. Proprio per questo è Dio in quanto Dio.

Ecco l'indole fondante della realtà divina. Qual è l'indole del potere del reale in quan-to fondato in Dio?

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2) Come abbiamo visto, il potere del reale è fondato in Dio come presente formal-mente e in modo costituente nelle cose reali. Il che significa che in qualche modo il po-tere del reale include intrinsecamente e formalmente come suo momento il potere della realtà assolutamente assoluta, cioè il potere di Dio, o meglio Dio come potere. In che modo lo include? Di certo il potere del reale non è formalmente il potere di Dio, così come la cosa reale non è formalmente Dio. Ma il potere del reale «veicola» il potere di Dio, veicola Dio come potere: le cose reali sono pertanto «sede» di Dio come potere. In quanto fondato in Dio, il potere del reale è «veicolo» e «sede». In che consiste questo duplice carattere?

Dio (lo ripeto fino alla sazietà), è presente nelle cose costituendole formalmente nella loro realtà, e solo per questo c'è nelle cose un potere del reale come determinante del mio assoluto Io. Pertanto il modo della presenza di Dio nel potere del reale consiste nel fatto che questo potere è «manifestazione» della realtà assolutamente assoluta. Ebbene, essere «veicolo» consiste formalmente nell'essere «manifestazione». Il potere del reale manifesta Dio come potere nelle cose, proprio nel determinare il mio essere assoluto. D'altra parte, poiché il potere del reale si fonda - ripeto - sulla realtà di Dio presente formalmente e in modo costituente nelle cose reali, risulta che tale manifestazione mani-festa appunto questa presenza costituente. E questa presenza costituente, in quanto ma-nifestata nel potere del reale, fa sì che le cose siano «sede» di Dio come potere. In virtù di ciò le cose reali e il potere del reale non sono Dio, ma sono più che meri «effetti» di Dio. Sono formalmente ciò che chiamerò deità. Esser sede consiste nell'essere deità. Dunque, la deità non è un fumoso carattere pseudodivino, ma è la realtà stessa delle co-se in quanto essa, come potere, manifesta la loro formale costituzione in Dio. I greci di-cevano che la Natura, la Physis, è divina, è theion, perché secondo loro era immortale e inesauribile, cioè sempre giovane. Questo oggi non è ammissibile da alcun punto di vi-sta. Tuttavia i greci vi sfiorarono un punto essenziale, che non ha avuto alcun posto nel-la filosofia: il carattere delle cose che non sono dèi né sono divine, e tuttavia hanno qualcosa di questo: sono formalmente deità. Le cose reali in quanto reali sono la deità che manifesta Dio, in quale sta formalmente in esse, costituendole. Ed è per questo ca-rattere di deità che sono manifestazione, veicolo di Dio.

La religazione è la dimensione radicale della mia realtà sostantiva in quanto persona-le, cioè in quanto costruisce il suo Io, il suo essere. Ne deriva che, con l'avere l'esperien-za di questa costruzione, si esperimenta il potere del reale e, pertanto, il potere della dei-tà (qui esperienza è prova fisica di realtà). Di conseguenza è un'esperienza che profila non solo l'idea di Dio, ma la sua stessa realtà assolutamente assoluta in quanto manife-stata in forma di deità. Ed è, questa, l'esperienza radicale della persona umana in quanto costruisce la figura del suo Io.

Come segnalavo in precedenza, quest'esperienza non è solo individuale ma anche storica. Da questo punto di vista, la storia è una grande esperienza storica della deità, cioè delle cose reali come sede e veicolo di Dio come potere. Non è che quest'esperien-za sia la forma radicalmente primaria di esperienza; senza esperienza personale non sa-rebbe possibile l'esperienza storica. Ma è l'esperienza storica a dare all'esperienza della deità il suo ultimo profilo concreto. Naturalmente, quest'esperienza ha adottato forme concrete nel corso della storia delle religioni. È un tema che riservo ad altri studi. Vi ho alluso nell'appendice 1 dedicata al potere del reale11. La storia va così profilando in mo-

11 NDT: cfr. El hombre y Dios, cit. pp. 89-91.

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do lento ma sicuro la figura della deità. E aggiungiamo che questa figura non è comple-tata solo con la vita e la storia trascorse fino a oggi.

In definitiva, Dio in quanto Dio è la realtà assolutamente assoluta come ultimità, possibilitazione e impellenza, formalmente presente nelle cose reali, nelle quali costitui-sce la realtà; questa è eo ipso deità e manifestazione di Dio, non in maniera generale e astratta, ma in tutta la concrezione che ci viene disvelata dalla storia. Tale è la realtà di Dio, giustificata dalla via della religazione.

Come conclusione di questo punto, sottolineiamo ora alcuni aspetti di ciò che po-tremmo chiamare la funzione di Dio nella vita intesa come costruzione del mio Io, del mio essere relativamente assoluto.

IV Intendo per funzione di Dio nella costruzione del mio Io il modo in cui è esercitata

da parte di Dio la fondamentalità di questa costruzione. Di rigore lo si è già detto in quanto precede, ma ancora una volta non sarà del tutto inutile far emergere esplicita-mente questo aspetto della questione.

1) Torniamo alla conclusione a cui siamo giunti. La religazione ci religa al potere del reale, o meglio il potere del reale ci tiene religati. Un potere che, in un suo aspetto, è fondato in Dio, formalmente presente nelle cose reali, le quali sono pertanto deità. Per-ciò, la religazione ci religa a Dio, attraverso la deità del potere del reale. Orbene, tra queste cose reali c'è la mia stessa realtà sostantiva. Anche in essa, pertanto, è presente Dio in modo costituente. Ed è questa presenza a determinare religatamente la costruzio-ne del mio essere relativamente assoluto, del mio io. Di conseguenza, la presenza di Dio nella mia realtà sostantiva non è una presenza meramente reale in se stessa. Se fosse so-lo questo, Dio non sarebbe altro che un mero oggetto tra i tanti, magari il più eccelso di tutti gli oggetti, ma niente di più, e pertanto il massimo che poteri fare è rivolgermi a Lui. Non è questo il caso. Dio non è un oggetto, ma è precisamente e formalmente il termine della religazione. Io non mi trovo rivolto, ma religato a Lui. Pertanto Dio non è oggetto; prima ancora di esserlo, e per poterlo essere, è fondamento. Fonda la mia desti-nazione a essere assoluto. Qui considero la fondamentalità solo rispettivamente alla vita umana; nei prossimi paragrafi farò riferimento anche alla fondamentalità di tutto il reale in quanto reale. Essere fondamento è più che essere oggetto. L'oggetto in quanto ogget-to è mero ob-jectum, una cosa che mi sta «di fronte» così com'è in sé e per sé, e in que-sto esaurisce il suo modo di presenza. Invece un fondamento è una realtà che certamente mi si mostra, ma non «di fronte» a me, bensì «nella» mia intellezione, non in quanto è ciò che è in sé e per sé, bensì in quanto sta fondamentando la mia vita intera. Fisseremo terminologicamente questa differenza con le espressioni realtà-oggetto e realtà-fondamento. L'essere fondamento non è una relazione aggiunta estrinsecamente alla re-altà-oggetto. Cioè non si tratta del fatto che qualcosa stia presente come oggetto in sé e per sé, e «poi» sia anche una cosa con cui io opero nella mia vita. No. Nella realtà-fondamento persino il suo modo di presenza in me è presenza fondamentante; perciò la fondamentalità è un momento intrinseco al modo in cui mi è presente tale realtà. Dun-que, non ci sono due momenti, uno di realtà-oggetto e un altro di fondamentalità, ma un solo modo di presenza: realtà-fondamento. Ciò non toglie che si tratti della presenza di una realtà in sé e per sé: nella realtà-fondamento abbiamo presente «insieme» realtà-fondamento e realtà-fondamento. Ebbene, questo è il caso della realtà di Dio. Dio mi è

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presente come realtà fondamento. Pertanto la mia «relazione» con Lui non è una «con-siderazione» teoretica ma un'«intimità» vitale. Solo il fondamento è termine di religa-zione. La distinzione tra realtà-oggetto e realtà-fondamento è assolutamente essenziale. Dunque Dio è fondamento, e solo perché è tale può, a un certo punto, convertirsi per me in oggetto. Dato che è fondamento, la sua presenza in me è in un certo senso dinamica; è il dinamismo religante. Non è una mera presenza reale, ma un dispiegamento della stessa fondamentalità religante nella costituzione stessa dell'Io, cioè della mia vita. E questo dispiegamento è appunto ciò che intendo per funzione di Dio nella vita.

2) Dio è presente formalmente e in modo costituente nella mia realtà. E poiché è questa realtà a fare il mio essere assoluto, risulta che la presenza di Dio nella vita, nel mio Io, concerne in modo radicale e totale il mio essere intero. In virtù di ciò Dio non è una risorsa di cui l'uomo ha bisogno per compiere la sua vita o per tappare le sue falle. Al contrario, è colui che costituisce il mio essere e pertanto è il fondamento della pie-nezza della vita, in tutto il suo essere. E non sto parlando del Dio del cristianesimo, ma di Dio in quanto Dio. Il Dio del cristianesimo non è altro che la rivelazione definitiva di Dio in quanto Dio. Pertanto il cristianesimo si rivolge alla pienezza della vita anzitutto e formalmente non per il carattere «cristiano» (per così dire) del suo Dio, ma perché in Lui è espressa l'indole di Dio in quanto Dio. E inversamente, quest'idea del Dio cristia-no sarebbe impossibile se Dio in quanto tale non fosse il costituente formale della pie-nezza della vita. Nello stesso modo, Dio non è primariamente ciò a cui l'uomo si rivolge come «altro» mondo e «altra» vita, ma è appunto ciò che costituisce questa vita e questo mondo. L'«altro» mondo è questione di fede e non di pura ragione. Perciò, se si vuol parlare di ritorno a Dio (tratteremo l'ateismo nel prossimo capitolo), non è necessario esser profeta per dire che l'uomo tornerà a Dio non per fuggire da questo mondo e da questa vita, dagli altri e da se stesso, ma al contrario, tornerà a Dio per potersi sostenere nell'essere, per poter procedere ancora in questa vita e in questo mondo, per poter conti-nuare a essere ciò che inesorabilmente non potrà mai cessare di dover essere: un Io rela-tivamente assoluto. La funzione di Dio nella vita è dunque anzitutto una funzione rivol-ta alla pienezza della vita e non alla sua indigenza. Dio non è prima di tutto un «aiuto» per agire, ma un «fondamento» per essere. Così Dio è fondamento della vita in una tri-plice forma: come Autore, Dio fa sì che io faccia me stesso, che sia io stesso; come At-tore, Dio è il tracciato della mia vita e della mia storia; come Agente, Dio fa sì che io operi. Dio è così il fondamento della mia libertà, del tracciato della mia vita e dell'ese-cuzione delle mie azioni.

3) Questa presenza formale costituente di Dio nella vita dell'uomo come pienezza sembra sfumare la distinzione tra Dio e l'uomo, perché da una parte io sono reale essen-dolo in Dio, e dall'altra io non sono Dio, bensì il mio Io. Accade lo stesso a ogni cosa reale, come vedremo nel prossimo paragrafo; qui però mi limito all'uomo. Ebbene, non si tratta di tornare a tracciare frontiere tra Dio e l'uomo, come se qui stesse il mio Io e di fronte, e fuori di me, stesse Dio. «Distinzione» tra l'uomo e Dio non significa tracciare un «contorno» che circoscriva due recinti: la distinzione non è una reclusione in due re-cinti giustapposti, uno di fronte all'altro, come terreno di Dio e terreno dell'uomo; non è una «fronterizzazione». Anzi, proprio perché l'uomo non è Dio, Dio stesso sta facendo sì che l'uomo non sia Dio, e fa che questo «non-essere-Dio» è un modo di essere «in» Dio. E, con ogni rigore metafisico, questa struttura non è una delimitazione, ma al con-trario, è un'implicazione di tipo speciale: una tensione costituente, una tensione che io chiamerei tensione teologale. Ho già detto più volte che nell'uomo si dà sempre la radi-cale inquietudine per il proprio essere relativamente assoluto. Ora ne comprendiamo il

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perché: perché la vita umana è in modo costitutivo e costituente tensione teologale. Che il mio Io sia assoluto non significa che in se stesso non abbia niente a che vedere con il mondo reale e con Dio; significa al contrario vedersela con tutto, incluso Dio stesso, pe-rò in modo assoluto, cioè divinamente. Ho a che vedere divinamente con Dio. Pertanto, la funzione di Dio nella vita non è solo di esserne la pienezza, ma anche di essere la ten-sione dinamica nel cammino verso l'assoluto del mio essere. Perciò, quando si dice che l'uomo ha qualcosa di divino, si enuncia una verità, ma era necessario concettualizzare rigorosamente cos'è questo «qualcosa». Non è una vaga somiglianza di proprietà, ma la tensione costituente il mio essere relativamente assoluto: la tensione costituente il mio Io come qualcosa di assoluto in Dio. È un aspetto della dimensione teologale dell'uomo.

Ne derivano due importanti conseguenze: a) È una tensione teologale costituente il mio Io. Pertanto, come ho già mostrato, non

è Dio a fare il mio Io; il mio Io lo faccio Io. Ma Dio «fa sì che io faccia» il mio Io, il mio essere. Ecco l'aspetto propriamente dinamico di questa tensione. Dio non è mera natura me naturans, ma realitas me reificans. Perché fare il mio Io è costituire la mia realtà nella figura del mio essere, cioè far sì che la mia realtà sia: realitas in essendo. Questo far sì che io sia il mio Io, che io sia il mio essere relativamente assoluto, è es-senziale alla funzione di Dio. Dio è, quoad nos, la realtà assolutamente assoluta che ci «fa essere» relativamente assoluti. Dio fa sì che la mia realtà umana si faccia il suo Io nella vita.

b) Poiché ogni atto, per quanto minuscolo e privo di trascendenza sia per il suo con-tenuto, contribuisce a fare il mio Io, il mio relativo essere assoluto, risulta che ogni atto è formalmente una presa di posizione rispetto a Dio. Perciò, in quanto costruisce il mio Io, nessun atto, per modesto che ne sia il contenuto, è privo di trascendenza: tutto ha la trascendenza inerente al suo starmi costituendo in Dio. L'uomo è piantato nella divinità, metafisicamente immerso in lei, proprio perché qualunque suo atto è la configurazione del suo assoluto essere sostantivo.

Questa è la struttura funzionale di Dio nella vita: è fondamento (e non oggetto), lo è della sua pienezza (e non della sua indigenza), e lo è in forma di tensione dinamica (e non di giustapposizione). Questa struttura funzionale costituisce la vita, e lo fa in un modo non recondito ma palmare. Supposta la realtà di Dio, niente di quanto ho detto va oltre un'analisi e un'interpretazione intellettiva se non proprio immediata, quantomeno palmare. Ciò che accade è che l'uomo può ignorarla e, soprattutto, può dare nomi diver-si a ciò che noi abbiamo chiamato Dio e funzione di Dio. Ma ciò che questi nomi desi-gnano è la stessa realtà che abbiamo cercato di giustificare. Ne deriva che, anche se l'uomo la ignora, non potrà mai volgere le spalle a questa struttura della costruzione del suo Io.

Tuttavia, l'uomo può distanziarsene fino a immergerla nell'oscurità. Perché ciò che l'uomo non sopporta facilmente non è propriamente Dio, ma il carattere assoluto in cui consiste il suo Io. Nella sua tensione verso un essere assoluto si vede pervaso da un'in-terna e radicale distensione, da una specie di fatica dell'assoluto, una sorta di fatica teo-logale. Gli piacerebbe riposare, non curarsi, magari solo episodicamente, della necessità di prender sempre posizione nell'assoluto. È allora facile ridurre Dio alla categoria di un mero oggetto di cui ci si occupa. Eo ipso ha tracciato la via per credere che sta vivendo senza Dio. Ma è un mero allontanamento da Lui. La fatica dell'assoluto, l'oggettivazione di Dio e l'allontanamento vitale da Dio sono tre fenomeni essenzialmente connessi, cia-scuno dei quali è fondato sul precedente. Non è l'unica fonte dell'ateismo, neanche lon-tanamente, ma è un fatto quantomai generale. Solo la reviviscenza della religazione può

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iniettare un nuovo vigore nell'astenia dell'assoluto; solo questo vigore può far vedere la tensione costituente la vita, e solo questa tensione può riscoprire Dio presente nel seno dello spirito umano e in ogni realtà. È il punto culminante della via della religazione.

[...] .

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La morte* * DA: Sobre el hombre, Alianza, Madrid 1986, cap. X: «El decurso vital», pp. 657-

671 (testo del corso su «El problema del Hombre», del 1953-54. Il testo completo occu-pa i capitoli 6, 7, 10, del libro. Il titolo e la numerazione dei paragrafi sono redazionali).

[...] Ho esposto in che consiste la vita e in cosa il suo corso. Questo corso sta tra il

polo della nascita e il polo della morte. La vita ha una nascita, un corso e una morte. La struttura del corso della vita è un'unità di natura, libertà e destino; grazie a ciò l'uomo è insieme agente, autore e attore della sua vita, unità che si dispiega in progettazione, fruizione e realizzazione. Così l'uomo va vivendo fino al momento finale: la morte. Heidegger ha messo a fuoco la morte a partire dalla vita come pura possibilità. Qualun-que cosa l'uomo progetti e decida di realizzare, tutto dipende dall'esistenza della vita, la vita come pura possibilità. Ne deriva che ad ogni momento dell'esistenza umana sia soggiacente l'angoscia; non una minaccia dall'esterno, ma il carattere di mera possibilità annesso alla vita. All'angoscia, tuttavia, accadrà la stessa cosa capitata al malheur dell'epoca romantica: sparirà senza lasciare grandi tracce concettuali nella filosofia. Ma l'idea che la vita sia pura possibilità resterà come concetto rigorosamente filosofico. Dal momento che la vita è pura possibilità, esistere è costitutivamente esistere davanti alla morte.

Quest'interpretazione così seducente della morte come carattere di pura possibilità della vita è tuttavia impossibile, anche nella direzione stessa in cui Heidegger ha messo a fuoco il problema.

In primo luogo è equivoca la stessa idea di possibilità nella vita. Qualunque cosa l'uomo tenti di fare è una possibilità, perché l'uomo non è mai sicuro che si realizzi, non solo perché in se stessa è mera possibilità, ma anche perché in futuro l'uomo può non continuare a volere la stessa cosa - fatto che Heidegger non segnala; non so se realizzerò le possibilità, né so se continuerò a volerle. Fin qui non vi sarebbe conflitto con l'inter-pretazione di Heidegger; la difficoltà viene quando si mostra che ogni possibilità s'in-scrive dentro il presupposto che si viva; allora la parola possibilità acquista un senso di-verso: non è più possibilità di vivere, ma è il vivere come possibilità. Orbene, questo è tutto fuorché un vissuto, perché il problema non è «essere o non essere», ma «dover es-sere». Che la vita intera sia pura possibilità, non si potrà dedurlo dall'analisi interna del-le possibilità della vita, perché è una possibilità che riguarda la totalità della vita e non il suo contenuto concreto. Heidegger pretende che il carattere totale della vita derivi dal suo carattere di possibilità, quando di fatto avviene il contrario. È certo che la vita non sia altro che una possibilità, ma solo nella misura in cui io la prendo come un tutto. Ed ecco la questione: da dove nasce questo carattere totale della vita? Senza petizione di principio e senza circolo vizioso è impossibile definire la vita come pura possibilità, partendo dall'analisi stessa delle possibilità. Previamente all'analisi è necessario affron-tare il problema del carattere totale della vita. La morte non appartiene alla vita perché

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la vita è una pura possibilità, ma al contrario: la vita è una pura possibilità perché le ap-partiene intrinsecamente la morte.

In secondo luogo, anche se la vita fosse una pura possibilità, sarebbe pur sempre vero che il carattere puramente possibile della vita non ha niente a che vedere con la futuri-zione della morte. Heidegger intende con futurizione il carattere precorrente e precurso-re che l'esistenza ha rispetto al suo contenuto stesso; io sono il precursore di me stesso: questa è la futurizione. Questo potrà riferirsi alla futurizione del vissuto della morte, ma il vissuto della morte non è la morte. La morte è una realtà e non semplicemente un vis-suto. Perciò cercare la realtà della morte nel vissuto della morte è una falsità dal punto integrale della morte.

In terzo luogo, è falso che tutti gli uomini abbiano il vissuto previo della loro morte. Heidegger risolve il problema dicendo che chi vive senza questo vissuto ha un'esistenza inautentica e non un'esistenza propria (eigentliches Dasein ). Questo è vero, ma è una verità relativa. Un bambino che già faccia uso dell'intelligenza non ha senz'altro il vissu-to della morte, e non per questo la sua è un'esistenza impropria. E tuttavia, anche nel ca-so che non vi sia un vissuto previo della morte in forma di futurizione, la morte appar-tiene intrinsecamente alla vita. Il problema della morte è il problema dell'appartenenza intrinseca della morte alla vita fisica e reale.

In conclusione, il corso vitale non è solo futurizione, ma ha anche un'altra direzione nella quale si colloca l'appartenenza intrinseca della morte alla vita: è la dilazione12. La vita ha durata, futurizione e dilazione; sono tre dimensioni irriducibili, la cui unità fisica conferisce il profilo esatto alla realtà della vita. Questo non vuol dire che l'uomo non possa avere un previssuto della morte, e che questo pre-vissuto non svolga un ruolo im-portante nella vita. Significa solo che la questione è più vasta. Qui verrà trattata da tre diversi punti di vista: primo, in che consistono le strutture della dilazione, cioè in che consiste il dover morire. Secondo: in che consiste il vissuto della dilazione, cioè come l'uomo in un atto vitale può affrontare la morte a partire dalla vita; terzo: qual è la strut-tura fisica della morte, cioè cos'è il morire.

1. La struttura della dilazione. La vita e l'uomo sono costitutivamente collocati nella dilazione [están emplazados].

Indipendentemente dalla futurizione, la dilazione è una struttura reale e fisica della vita. Questo lo esprime bene il linguaggio popolare quando,alla domanda: «come va?», ri-sponde con l'espressione: «si tira avanti, finché si continua a vivere». Su questo «conti-nuare a vivere» bisogna interrogarsi: cos'è il continuare a vivere? Qual è il carattere di questo «finché»? Che ne consegue per l'unità interna della vita?

1.1. Cos'è il continuare a vivere. Continuare a vivere è, intanto, che la vita non cessa. Il che, essendo vero, limita la questione alla durata: si continua a vivere. Ma questo con-

12 NDT: emplazamiento, termine giuridico nel senso di citazione, chiamata a render conto. Qui però il termine è costruito su plazo, termine, dilazione, proroga. Scrive Zubiri: «La futurizione, il mero tentativo di porre in esecuzione un progetto, rende manifesto all'uomo che monta i suoi progetti su ciò che possia-mo chiamare il plazo. Il tempo come plazo non è il tempo della pura durata, né il tempo della progetta-zione in senso stretto. Queste due dimensioni sono contornate da ciò che potremmo chiamare il futuro in-determinato. La vita è costitutivamente emplazamiento. L'emplazamiento come futuro indeterminato e indeterminabile dell'uomo appartiene radicalmente al tempo della vita» (Sobre el hombre, cit., 613-614). Emplazamiento equivale a dire: essere costitutivamente collocato nella dilazione.

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tinuare a vivere ha un carattere positivo espresso dall' irregolarità [del corso vitale]: l'uomo passa da una situazione all'altra, e ciò che deve continuare a vivere nella vita gli viene da questo carattere irregolare delle situazioni. Orbene, nell'irregolarità c'è un'unità radicale, che non è una mera successione. L'irregolarità porta con sé una ratifica, una ra-tificazione, un'integrazione, un ampliamento, o un abbandono di ciò che si vuole essere. Perché la vita è autodefinizione della figura che si vuole essere.

Questa autodefinizione non è meramente intenzionale. Lo sarebbe se non contenesse altro che l'idea di se stessi in forma di idea di ciò che uno vuole essere. Ma in realtà si tratta di mettere in movimento l'idea di ciò che ho voluto essere. L'autodefinizione è au-torealizzazione, è autopossesso. Vivere come autodefinirsi è autopossedersi, e perciò è vita tutto ciò che c'è nelle cose che l'uomo fa. Quanto c'è di vita nella trama è quanto c'è di autopossesso definitorio. Perciò non vi è mai una scissione tra un aspetto psicofisico, che sarebbe zoe, e un aspetto biografico, che sarebbe bios. L'autodefinizione nell'irrego-larità è autopossesso.

L'autopossesso non è autocoscienza. Questo è un declivio lungo il quale è scivolata la filosofia del XIX secolo e del principio del XX. Nessuna autocoscienza sarebbe capa-ce di dare autopossesso, tra l'altro perché la coscienza per se stessa non ha alcuna realtà psicofisica, ma è solo il carattere di alcuni atti compiuti dall'uomo. La struttura di fon-damentazione è l'opposta: dal momento che l'uomo si autopossiede, il suo autopossesso è autocoscienza, perché è un autopossesso intellettivo. L'uomo è autocosciente perché è autopresente, e non può fare a meno di esserlo, perché l'autopresenza intellettiva è pos-sesso di sé in quanto realtà. L'autocoscienza si fonda sull'autopossesso.

Il continuare a vivere consiste in questa forma di radicale autopossesso lungo il corso vitale. Continuare a viver non vuol dire semplicemente che la vita non abbia cesure, ma che continuare a vivere è continuare a vivere, è vivere in continuità. Quando si dice «lungo il corso della vita» si vuol dire «la vita presa nella sua lunghezza». Ne deriva che il continuare a vivere ha un carattere positivo, che è appunto questo vivere continuativo. Ma questo carattere deve essere precisato meglio.

Se continuare a vivere è vivere in continuità, il tracciato della vita non è una mera traiettoria, come può esserlo per un corpo che si muove nello spazio. Il corpo non ha un cammino, ha solo una traiettoria. La vita invece ha un cammino consistente nel vivere in continuità. La vita è costitutivamente cammino, e perciò vivere in continuità è essere costitutivamente viator. Sumus in vita, ci troviamo costitutivamente con la caratteristica di viatore o di cammino. Orbene, un cammino è tale perché conduce «da» un punto di partenza «verso» qualcosa. Bisogna dunque precisare verso cosa è diretto il cammino, senza di che non vi sarebbe cammino, ma pura traiettoria. Dato che questo cammino è il cammino di una vita, e vivere è autopossedersi e autodefinirsi, l'univo «verso» di questo cammino è se stessi. Il «verso» è sempre e solo l'io stesso come figura di realtà in rea-lizzazione fisica. Perciò tutto quanto soggiace al fenomeno del vivere è continuità, e a conferire alla vita il carattere di via è il fatto che l'uomo, continuando a vivere, fa qual-cosa di più profondo del puro continuare. Ciò che fa è conseguirsi; il conseguimento di se stesso.

Così appare chiaro che l'uomo, come soggetto della sua vita, non è solo ciò che pensa Aristotele, un hypokeimenon sul quale hanno luogo le vicende della vita; piuttosto, es-sendo una realtà intellettiva, l'uomo, nel più minuscolo atto vitale in cui mette in gioco la sua intelligenza, sta costitutivamente al di sopra di sé. Perciò in ogni atto vitale c'è un progetto, e ogni progetto è un ritorno al «se stesso». In definitiva il carattere di futuri-zione della vita consiste nel dover insertare l'irreale, ciò con cui l'uomo sta al di sopra di

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sé, nella realtà di se stesso. Ogni progetto ha un carattere di costitutiva tentazione non per caso, ma perché ha i suoi tentacoli nella realtà. L'uomo è costitutivamente al di so-pra di sé, e nell'accettare un progetto sta fondando la realizzazione di se stesso. Questo carattere di realizzazione incipiente o accettata è essenziale all'autopossesso: l'autopos-sesso è la realizzazione di un progetto di una determinata figura di realtà. Il mero fatto di accettare qualcosa è di più dell'avere una pura intenzione; è una decisione intellettua-le di realizzazione. Una decisione, però, che non riguarda solo l'intelligenza e la volon-tà. L'uomo è radicalmente una realtà animata e, di conseguenza, se è pur vero che, es-sendo intelligenza senziente, di nulla può aver cognizione [inteligir] se non poggia nella sua prima e ultima radice sul punto più vegetativo della pura animazione, è anche vero che di nulla può aver cognizione, per quanto sia astratto e lontano dalla vita, senza che rifluisca sulle dimensioni senzienti della sua realtà. L'uomo ha cognizione solo senzien-temente, e ciò di cui ha cognizione, soprattutto in forma di progetto accettato, modula il senziente. È falso che l'uomo senta solo ciò che gli procura affezione in forma di sensa-zioni; sente anche per elevazione rifluente il suo stesso aver cognizione. L'uomo non sta nella sua vita come un hypokeimenon che fa da supporto, ma come una realtà che sta al di sopra di se stessa e che deve realizzarsi.

Il corso vitale consiste nel realizzarsi in una figura determinata conforme a ciò che ad ogni istante l'uomo vuole effettivamente essere. Vivere in continuità, continuare a vive-re, proprio perché è continuare a vivere verso se stessi, significa che nessuna autodefini-zione cessa di essere provvisoria. Continuare a vivere significa la possibilità di cambiare la mia autodefinizione, indipendentemente dal fatto che questo cambiamento venga im-posto dalle cose o dalla mia propria decisione. Continuare a vivere esprime, in una for-ma elementare di linguaggio, la struttura interna della definizione dell'uomo come auto-possesso, l'apertura della sua autodefinizione verso un'altra autodefinizione. Continuare a vivere non è mera futurizione, né è mera durata incessante, ma è il carattere interno di una definizione sempre aperta e più o meno indeterminata. Indeterminata «finché» si continua a vivere.

1.2. Il carattere del finché. Ciò che il finché esprime positivamente è l'indetermina-

zione. Intanto significa che, finché esistono le cose, l'uomo potrà definirsi di fronte ad esse, e che questa definizione potrà e dovrà cambiare in una certa misura la sua condi-zione precedente. L'uomo si definisce in ogni istante in forma di autopossesso, e ogni atto vitale è definitorio, senza però essere definitivo. Il «finché» significa che nessuna definizione - «finché» si continua a vivere - è definitiva, ma è costitutivamente provvi-soria.

Il «finché» include l'essenza positiva della provvisorietà, il «per ora». La provviso-rietà come carattere positivo del mentre consiste nel fatto che la definizione della vita è definitoria ma mai definitiva. L'unità dell'articolazione tra il carattere definitorio della vita e la sua provvisorietà costituisce la contingenza essenziale della vita e dell'uomo coinvolto in essa. L'uomo è doppiamente contingente, perché non ha in sé la ragione della sua esistenza e perché la sua essenza non prefigura in modo univoco quale sia la sua definizione esaustiva. Finché la vita continua, l'uomo ha nelle sue mani la possibili-tà di cambiare la propria definizione. In definitiva si tratta del carattere che l'uomo ha non come esistenza senza essenza - come pretendono gli esistenzialisti-, ma come es-senza aperta, cosa completamente diversa.

«Finché si continua a vivere» significa che ci conseguiamo provvisoriamente. Vivere in continuità e provvisoriamente sono due momenti che definiscono positivamente la

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dilazione. Tuttavia non esauriscono la struttura della dilazione, perché manca il momen-to della totalità, il carattere totale posseduto dalla vita.

1.3. L'unità interna della vita. La vita è autopossesso e vivere in continuità è vivere

incamminati verso se stessi. Pertanto, la vita ha un'unità dal carattere duplice ed essen-zialmente vincolato. Da una parte l'unità conferita alla vita dal vivente stesso, dato che è lo stesso vivente ad essere coinvolto nella dilazione finché continua a vivere. Dall'altra, l'unità derivante dal fatto che la struttura del corso vitale è una struttura determinata o lo sarà. Solo in questo senso la vita ha un carattere totale. Il fatto che questo debba accade-re inesorabilmente, deriva dalla struttura stessa dell'uomo.

Ho detto che l'uomo è caratterizzato da un fisico stare nella realtà, che è la dimensio-ne radicale di ciò che chiamiamo intellezione. Stare nella realtà non è un'azione, ma una pura attualità: non ha inizio né termine; ciò che inizia e termina sono le cose in cui stare. Per lo stare, il cominciare e il terminare derivano dal carattere senziente dell'intellezio-ne. Nel cominciare e nel terminare, appunto, sono attualizzate le cose nella loro realtà e si riattualizza il mio stesso stare. Questa riattualizzazione su me stesso viene espressa in forma media dal mi, e di conseguenza dal me: mi ritrovo con le cose.

D'altra parte, l'unità scorrente della vita procede dal fatto che l'intelletto umano è co-stitutivamente senziente. Dal momento che è senziente, le situazioni sono fisicamente insostenibili, perché in quanto struttura il senziente è costitutivamente insostenibile. Ne deriva l'esistenza di una sola vita, non solo in ragione del vivente che sta nella realtà, ma per l'unità di una necessità finita e scorrente che circoscrive il carattere durevole e futu-ribile, per il carattere fisico delle strutture senzienti. Poiché vivere in continuità è conse-guirsi provvisoriamente, la finitezza di una vita scorrente significa che arriverà un punto del tempo in questo corso, che sarà l'ultimo nell'ordine senziente, e dunque scorrente. Un momento che sarà l'ultimo e farà sì che la figura conseguita e la definizione ottenuta siano non solo definitorie, ma anche definitive. Questo momento è la morte. Come fatto naturale è una decomposizione e una cessazione. Inoltre è qualcosa che appartiene alla struttura formale del vivente umano: è l'atto che positivamente lancia l'uomo dalla prov-visorietà al definitivo. È la struttura formale e concreta della dilazione.

Vivere in continuità è, in definitiva, andar realizzando ciò che in termini di domanda intenzionale è espresso nel «che sarà di me?». Morire è ciò che è già stato definitiva-mente di me. Ne deriva che la morte non appartiene alla vita solo in modo negativo. La dilazione è dilazione per la definizione definitiva di se stessi. Non è questione di futuri-zione: è una struttura fisica. Nel suo corso durevole e aperto al futuro, la vita ha costitu-tivamente una trama; ma ciò che questa trama ha di vitale è la definizione del vivente, cioè il modo in cui il vivente si realizza in questa trama. Collocata nella dilazione verso il definitivo, la trama cessa e resta solo ciò che lascia vedere. Ne deriva il carattere tre-mendo della morte nella vita umana. Perché?

Sin dal plasma germinale l'uomo è una personeità, perché la sua intelligenza è l'ulti-ma e radicale possibilità entitativa e operativa per poter essere ciò che è. Se non fosse la sua possibilità ultima, non sarebbe una personeità, nonostante l'intelligenza; nel caso dell'uomo l'intelligenza è possibilità ultima perché non appartiene a nessun altro che a lui stesso. Quest'intelligenza, essendo senziente, deve plasmarsi in modo definitorio in definizioni successive, che vanno appunto costituendo la sua personalità. L'unità di que-ste due dimensioni è ciò che esprime l'idea della persona umana.

Ebbene, l'uomo in quanto persona non può essere parte di qualcosa. Tutto può ri-guardare il suo stare nella realtà, ma questo stesso starvi non appartiene come ingredien-

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te a nessuna cosa. L'inizio della Filosofia di Hegel, che parla di das Ganze, del tutto, è falso quando si tratta delle persone in quanto persone. Ciò che costituisce il carattere di persona è il non far parte di qualcosa, il definirsi di fronte al tutto, persino di fronte al divino. Ma d'altra parte, non c'è nessuna realtà finita che non sia rispettiva. Dire allora che la persona umana non è parte di qualcosa, non è negare la sua intrinseca rispettività. Rispettività, anzitutto, con se stessa. Ma per il fatto di essere in costitutiva rispettività a sé, l'uomo non abbandona le altre persone e le cose. L'uomo non fa la sua personalità ignorando tutto il resto, perché la sua rispettività la attualizza nel suo contatto con le co-se che gli creano una situazione, dinanzi alla quale egli si autodefinisce in forma di au-topossesso. Pertanto nella sua stessa realtà si trova il riferimento alle cose e alle persone in quanto implicate nella mia definizione. In ogni situazione della vita, l'uomo si defini-sce a partire dalla situazione che le cose gli creano, ma in rapporto con la realizzazione della sua realtà, della figura che egli stesso ha voluto realizzare. Non vede se stesso dal-le cose, ma le cose da se stesso. Pur essendo vero che in questa rispettività l'uomo sta con le cose e con gli altri uomini - ripeto - non è men vero che vi sta in quanto ha defini-to la sua personalità. Perciò, in ultima analisi, si muore in solitudine assoluta e radicale; è la solitudine dell'uomo con se stesso, che non è isolamento, perché gli altri uomini e le altre cose sono formalmente inclusi nella rispettività con se stessi. Ma in quanto costi-tuisce il suo carattere di personalità definitoria e definitiva, sbocca su se stesso, e in questo consiste la solitudine.

Perciò la dilazione della vita è dilazione o cammino verso la solitudine con sé stessi. Si vive tra le altre persone e le cose, ma si muore soli. L'uomo si vede approssimarsi al-lo sbocco in una personalità definitoria, dilazionata fino al momento in cui sarà definiti-va. Ne deriva che dalla dilazione l'uomo può pre-vivere l'ora e la forma della sua morte.

2. Il vissuto della morte In diverse fasi della sua vita - da bambino, ad esempio - l'uomo non ha il vissuto del-

la morte. È possibile che lo acquisisca perché vede che gli altri uomini muoiono e per-ché gli dicono che morirà. Non tarda molto a capire che questa possibilità svelatagli da-gli altri è inesorabilmente basata sulle sue proprie strutture somatiche. Ma questo non significa senz'altro un pre-vissuto della morte. Ad ogni modo, nella sua vita iniziale sa che morirà, ma non ne tiene conto; non ha il vissuto previo della morte. Nella misura in cui la vita scorre, l'uomo può affrontare positivamente la morte. Può anche dimenticarla. Si attende passivamente l'ora della morte, ma senza preoccuparsene; è un vissuto nega-tivo della morte.

Ma si può anche aspettare la morte positivamente; cioè, tener conto del fatto che la morte sta già venendo. Questo modo di affrontare la morte può avere caratteristiche molto diverse. Può essere la paura di morire; giunto il momento della morte, a meno che non sia improvvisa, non mi azzarderei a dire che vi sia chi non ne abbia avuto paura. Tuttavia l'uomo può mettere in funzione meccanismi di superamento. Quello messo in funzione dal mondo greco fu la tesi di Epicuro: non c'è ragione di aver paura, perché nessuno sente il momento del morire, e dopo la morte non succederà nulla, perché gli dèi non s'interessano affatto di ciò che fanno gli uomini. Si può anche sentire ripugnan-za di fronte ed essa e ribellione; può, al contrario, essere accettata con rassegnazione: fu l'atteggiamento degli stoici: la morte è inesorabile e richiesta dalla struttura della ragio-

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ne universale; pertanto non ha nulla di violento o anormale. Ancora, l'uomo può avere allegria di morire, può persino desiderare di morire; si può persino arrivare a dare la vi-ta, e se nessuno compie l'atto positivo di venire alla vita, alcuni compiono l'atto di darla.

Nessuno di questi vissuti è esclusivo. In maggiore o minor grado, sono tutti inclusi nel pre-vissuto della morte. Per quanto l'uomo pensi alla morte, deve anche dimenticar-la; per quanto l'aspetti, conta anche sul fatto che non venga. Quando la vede venire, l'a-spetta con quella singolare miscela di paura, ripugnanza, accettazione, allegria, deside-rio e, magari, abbandono. Ma nulla di tutto ciò ci chiarisce che cosa sia realmente e fisi-camente morire.

3. La morte reale e fisica La risposta alla domanda su cosa sia la morte può essere data solo a partire dalla ri-

sposta alla domanda su cosa sia la vita. Dicevo nella prima parte di questo studio che l'uomo è un vivente costitutivamente

animato. Non compie alcun atto se non mediante un'interna animazione che emerge dal-la struttura più vegetativa della sua realtà, e si espande in una molteplicità di tendenza e caratteri sensitivi, fino ad arrivare a stare nella realtà. La psiche è pertanto corporea di per se stessa [desde sí misma]. Non sarebbe psiche ma spirito, se non fosse di per se stessa una psiche animata, che può esistere all'inizio della vita solo quando ha un corpo. In questo modo la corporeità ha un senso anzitutto psichico e animico: è la corporeità animica senza la quale non vi sarebbero nel mondo le strutture umane. D'altra parte, l'uomo ha ciò che chiamiamo corpo, costituito da una serie di sostanze strutturate in una certa forma che chiamiamo configurazione, che gli conferisce il carattere di organismo.

Ne deriva che il problema delle strutture radicali dell'uomo non sia il problema spiri-to-materia, ma corpo-psiche, nel senso di organismo. La psiche e l'organismo convergo-no in ciò che, da una parte, è la configurazione organica della sostanza dell'organismo, e dall'altra costituisce il momento «definitivo» che definisce entitativamente il carattere della corporeità animica. Per esprimere unitariamente questa duplice dimensione ho usato l'espressione forma di corporeità, non nel senso di Scoto, ma nel senso di qualco-sa che configura strutturalmente la molecola dell'organismo e costituisce definitivamen-te l'animazione in atto di una psiche che è corporea di per se stessa.

Quest'unità con il corpo fa sì che vi sia animazione nella psiche, ma, senza la psiche, ciò che c'è nel corpo non sarebbe animazione. Tutto quanto c'è nell'uomo, nell'ordine costitutivo, costituisce in forma di corporeità una sola sostantività umana. Nell'unità strutturale in forma di corporeità non c'è che una sola sostantività, pur essendovi molte sostanze, e in questa sostantività una sta l'unità dell'uomo, unità di indole strutturale.

Ciò supposto, si può domandare cos'è morire. Intanto è evidente che la morte com-porta una dimensione fisica: è la distruzione della configurazione fisica delle molecole dell'organismo. Questo può avvenire per un incidente. Può avvenire per malattia, dato che in ragione delle sue strutture l'uomo non può non avere infermità. D'altra parte non abbiamo esperienza di cosa sarebbe la morte di un vertebrato superiore per il puro logo-ramento interno delle sue cellule. Ad ogni modo, la destrutturazione in cui consiste l'a-spetto somatico della morte deve riguardare la configurazione essenziale della corporei-tà, e non il suo mero carattere funzionale. Ci sono morti funzionali da cui si può tornare alla vita; qui si tratta di una morte strutturale, e non meramente funzionale, in cui scom-

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paiono quelle strutture psicofisiche senza le quali l'organismo non può tornare ad avere una funzione di carattere biologico. Se così è, morire è anzitutto un fenomeno psicofisi-co e non metafisico. Morendo, è il corpo che se ne va, la vita organica; morire non con-siste nel fatto che lo psichismo si congeda dal corpo, ma nel fatto che il corpo si conge-da dallo psichismo, che l'uno rimane senza la vita che se ne va da lui. Quando questo accade, la sostantività umana cessa di esistere13.

13 Nota degli editori spagnoli: Nel Corso del 1953-54, da cui è tratto questo testo, Zubiri sosteneva

che nella morte scompare l'organismo e si conserva la psiche. Cercava di sviluppare quest'idea classica in una forma nuova. Tutto questo è stato rigettato come non conforme al suo pensiero definitivo. In «El hombre y su cuerpo», Asclepio, 1973, p. 8, Zubiri scrive: «Penso perciò che non si possa parlare di una psiche senza organismo. Diciamo, di passata, che quando il cristianesimo, ad esempio, parla di sopravvi-venza e d'immortalità, chi sopravvive ed è immortale non è l'anima, ma l'uomo, cioè la sostantività umana intera. Il resto non è di fede» E questo, pensava Zubiri, dovrebbe essere a seguito di un'azione ricreatrice, resurrezionale.

(NDT: cfr. ancora Ellacuria: «Zubiri nel corso degli anni cambiò drasticamente la sua concezione del-la struttura precisa delle note costitutive della realtà umana. Nel famoso corso Cuerpo y alma (1950-51) e soprattutto nel corso El problema del Hombre (1953-54) aveva dato all'anima una sostantività e un'indi-pendenza che più tardi gli sembrarono eccessive. La sua spiegazione dell'unità dell'uomo, benché tentasse di superare i dualismi, continuava a essere ilemorfica e cercava di fondare alcune spiegazioni tradizionali, che attribuivano all'anima un'immortalità per la sua stessa natura. Ancora in El hombre, realidad personal (1963) e in El origen del hombre (1964), nonostante nuovi sforzi concettuali e terminologici, non si libera da ciò che potremmo chiamare pressioni dogmatiche. Solo più tardi, ed espressamente in El hombre y su cuerpo (1973) comincia a portare alle estreme conseguenze la sua idea dell'unità strutturale tra lo psichico e l'organico. Senza mai negare l'irriducibilità dello psichico umano all'organico, sostenne in modo sempre più fermo la loro rigorosa unità e la loro codeterminazione reciproca, dimodoché l'uno non può darsi sen-za l'altro. [...] Zubiri finì col pensare e affermare che la psiche è per natura mortale e non immortale, per cui con la morte finisce tutto nell'uomo o finisce l'uomo del tutto. Ciò che però Zubiri sosteneva, ma già come credente cristiano e come teologo, è che anche tutto l'uomo resuscita, se merita questa grazia o la riceve da Dio per la promessa di Gesù Cristo. Mi sono soffermato più del dovuto su questo punto, anzitut-to per la sua importanza, poi per dovere verso i lettori che da molto tempo conoscono il pensiero di Zubi-ri. Su questo tema nel suo pensiero c'è una forte censura. Ma nella misura in cui esso si consolidava, e nella misura in cui soffiavano nella Chiesa nuovi venti di libertà, Zubiri portò alle sue ultime conseguenze la logica di quella che gli sembrava l'interpretazione oggettiva della realtà strutturale dell'uomo. Cosa di-versa sarebbe togliere ai lettori di Zubiri la libertà di esser d'accordo più con la sua prima posizione che con la posizione ultima» (Sobre el hombre, cit., XVII-XVIII).