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I MONUMENTI E IL CULTO DEI CADUTI La memoria L’impatto emotivo della Grande Guerra fu immenso e capillare: in ogni paese, e anche nella più sperduta località montana, vi furono dei caduti, si vedevano mutilati, malati, vedove e orfani. Naturale quindi fu il desiderio di ricordare quelli che non tornarono, e dovunque sorsero comitati di cittadini per la costruzione di monumenti ricordo. Anche le amministrazioni comunali fecero la loro parte, anche se molte di quelle a guida socialista, cercarono di incanalare il ricordo con monumenti atipici, come asili o reparti d’ospedale intitolati ai Caduti. Ad esempio il sindaco di Angera, il socialista Antonio Greppi, e la sua amministrazione proposero che i gloriosi caduti fossero più degnamente ricordati con l’istituzione di qualche opera benefica per gli orfani o le famiglie più bisognose. La maggioranza della popolazione però voleva un monumento più “visibile”, qualcosa che ricordasse ogni giorno i morti, anche se non so quanta consolazione potesse dare alle vedove e agli orfani. Il senso di vuoto che provoca nelle famiglie un morto in guerra è fortissimo all’inizio, perché la perdita riguarda persone in salute e in età giovane, e il vuoto persiste per anni nelle persone più vicine al caduto, ma le generazioni passano e le angosce e patimenti della generazione precedente diventano, nei migliori dei casi, storia famigliare, o del tutto dimenticate. Come già detto, la Grande Guerra è stata combattuta dai nonni delle persone più anziane ora in vita e per l’ultima giovane generazione si tratta di bisnonni o trisavoli, di cui ormai in moltissime famiglie non c’è più ricordo nemmeno del nome. A queste persone il monumento ai caduti del 1915-1918 non dice nulla dal punto di vista emotivo, è un qualcosa che ricorda un fatto storico, come i monumenti ai caduti delle guerre risorgimentali. E anche il fatto storico è qualcosa di nebuloso, non degno di attenzione per non dire insignificante, viste le scarse conoscenze storiche che la scuola in questo periodo trasmette ai giovani per la maggioranza dei quali le guerre mondiali sono qualcosa che è avvenuto in tempi lontani e indefiniti, come la guerra dei sette anni o quella dei trenta. Le Amministrazioni comunali, alle prese con i mille e grossi problemi della vita attuale, considerano quello dei monumenti del tutto secondario, se non il 4 novembre quando si ripetono stancamente le celebrazioni, e davanti a lapidi sporche e cadenti, a nomi illeggibili, le “autorità” chiudono un occhio o tutti e due. Solo le sezioni e i gruppi alpini dei nostri paesi hanno avuto cura dei monumenti, e continuano ad averne, nonostante l’evidente invecchiamento anche di queste associazioni. La strumentalizzazione della memoria In una prima fase i monumenti ai caduti furono frutto di iniziative locali, Comitati e Amministrazioni comunali, che vollero in ogni paese un ricordo dei loro morti in guerra, e non vi fu paese o città d’Italia senza il suo monumento, dalla lapide al grande gruppo di statue secondo le disponibilità finanziarie e la generosità dei privati, e si calcola vi siano in Italia circa 12.000 monumenti della Grande Guerra (secondo l’Istituto centrale per il Catalogo e la Documentazione), e certamente sono ancora molte di più se si contano tutte le lapidi poste nei più sperduti paesini. Questa miriade di costruzioni è così diventata una caratteristica del paesaggio urbano italiano, anche se già negli anni successivi alla Grande Guerra sorsero voci che chiedevano di porre un argine alla costruzione di tanti monumenti di scarso o nessun valore artistico. Da parte dello stato vi fu solo l’istituzione nel 1919 di una “Commissione per onorare la memoria dei soldati d’Italia e dei paesi alleati morti in guerra” che però non ebbe influenza pratica sulla costruzione dei monumenti, occupandosi soprattutto della sistemazione degli innumerevoli cimiteri di guerra sorti sui luoghi delle battaglie. Contrariamente ai pochi monumenti esistenti sulle guerre del Risorgimento che ricordano eventi e battaglie, quelli della Grande Guerra vogliono essere soprattutto un ricordo dei soldati morti e per questo in tutti vi sono le lapidi con gli elenchi dei caduti, sovente con le loro fotografie, molte delle quali dopo quasi cento anni sono in uno stato pietoso. Gli elenchi dovevano essere un ricordo di uomini tutti uguali di fronte alla morte in guerra, ma inevitabilmente le gerarchie militari e civili ebbero il loro peso, ed ecco in molti monumenti gli elenchi in ordine di grado militare, e in qualche caso con il titolo di

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I MONUMENTI E IL CULTO DEI CADUTI

La memoria L’impatto emotivo della Grande Guerra fu immenso e capillare: in ogni paese, e anche nella più sperduta località montana, vi furono dei caduti, si vedevano mutilati, malati, vedove e orfani. Naturale quindi fu il desiderio di ricordare quelli che non tornarono, e dovunque sorsero comitati di cittadini per la costruzione di monumenti ricordo. Anche le amministrazioni comunali fecero la loro parte, anche se molte di quelle a guida socialista, cercarono di incanalare il ricordo con monumenti atipici, come asili o reparti d’ospedale intitolati ai Caduti. Ad esempio il sindaco di Angera, il socialista Antonio Greppi, e la sua amministrazione proposero che i gloriosi caduti fossero più degnamente ricordati con l’istituzione di qualche opera benefica per gli orfani o le famiglie più bisognose. La maggioranza della popolazione però voleva un monumento più “visibile”, qualcosa che ricordasse ogni giorno i morti, anche se non so quanta consolazione potesse dare alle vedove e agli orfani. Il senso di vuoto che provoca nelle famiglie un morto in guerra è fortissimo all’inizio, perché la perdita riguarda persone in salute e in età giovane, e il vuoto persiste per anni nelle persone più vicine al caduto, ma le generazioni passano e le angosce e patimenti della generazione precedente diventano, nei migliori dei casi, storia famigliare, o del tutto dimenticate. Come già detto, la Grande Guerra è stata combattuta dai nonni delle persone più anziane ora in vita e per l’ultima giovane generazione si tratta di bisnonni o trisavoli, di cui ormai in moltissime famiglie non c’è più ricordo nemmeno del nome. A queste persone il monumento ai caduti del 1915-1918 non dice nulla dal punto di vista emotivo, è un qualcosa che ricorda un fatto storico, come i monumenti ai caduti delle guerre risorgimentali. E anche il fatto storico è qualcosa di nebuloso, non degno di attenzione per non dire insignificante, viste le scarse conoscenze storiche che la scuola in questo periodo trasmette ai giovani per la maggioranza dei quali le guerre mondiali sono qualcosa che è avvenuto in tempi lontani e indefiniti, come la guerra dei sette anni o quella dei trenta.

Le Amministrazioni comunali, alle prese con i mille e grossi problemi della vita attuale, considerano quello dei monumenti del tutto secondario, se non il 4 novembre quando si ripetono stancamente le celebrazioni, e davanti a lapidi sporche e cadenti, a nomi illeggibili, le “autorità” chiudono un occhio o tutti e due. Solo le sezioni e i gruppi alpini dei nostri paesi hanno avuto cura dei monumenti, e continuano ad averne, nonostante l’evidente invecchiamento anche di queste associazioni. La strumentalizzazione della memoria In una prima fase i monumenti ai caduti furono frutto di iniziative locali, Comitati e Amministrazioni comunali, che vollero in ogni paese un ricordo dei loro morti in guerra, e non vi fu paese o città d’Italia senza il suo monumento, dalla lapide al grande gruppo di statue secondo le disponibilità finanziarie e la generosità dei privati, e si calcola vi siano in Italia circa 12.000 monumenti della Grande Guerra (secondo l’Istituto centrale per il Catalogo e la Documentazione), e certamente sono ancora molte di più se si contano tutte le lapidi poste nei più sperduti paesini. Questa miriade di costruzioni è così diventata una caratteristica del paesaggio urbano italiano, anche se già negli anni successivi alla Grande Guerra sorsero voci che chiedevano di porre un argine alla costruzione di tanti monumenti di scarso o nessun valore artistico. Da parte dello stato vi fu solo l’istituzione nel 1919 di una “Commissione per onorare la memoria dei soldati d’Italia e dei paesi alleati morti in guerra” che però non ebbe influenza pratica sulla costruzione dei monumenti, occupandosi soprattutto della sistemazione degli innumerevoli cimiteri di guerra sorti sui luoghi delle battaglie. Contrariamente ai pochi monumenti esistenti sulle guerre del Risorgimento che ricordano eventi e battaglie, quelli della Grande Guerra vogliono essere soprattutto un ricordo dei soldati morti e per questo in tutti vi sono le lapidi con gli elenchi dei caduti, sovente con le loro fotografie, molte delle quali dopo quasi cento anni sono in uno stato pietoso. Gli elenchi dovevano essere un ricordo di uomini tutti uguali di fronte alla morte in guerra, ma inevitabilmente le gerarchie militari e civili ebbero il loro peso, ed ecco in molti monumenti gli elenchi in ordine di grado militare, e in qualche caso con il titolo di

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studio, come se il generale, l’avvocato o il ragioniere fossero stati qualcosa di diverso dal soldato semplice contadino di fronte alla tragica uguaglianza della morte sul campo per una bomba di cannone o per la pallottola di un fucile o per i gas asfissianti. Dal 1922 con l’avvento al potere del fascismo, lo Stato progressivamente si sostituì al privato nel culto della memoria. Molte lapidi con frasi che mettevano in evidenza l’orrore della guerra, dovute alle amministrazioni socialiste, furono cancellate o distrutte. In alcuni paesi vi furono inaugurazioni separate dello stesso monumento e liti furibonde su nomi che dovevano essere aggiunti o tolti dagli elenchi. Nei primi monumenti le dediche sono generalmente “ai figli caduti” per diventare poi “agli eroi caduti”, nel processo di progressiva esaltazione delle virtù guerriere di un popolo che doveva sempre essere pronto per la guerra. Nel dicembre del 1922 il Ministero della Pubblica istruzione invitò i Provveditori agli Studi a farsi promotori di iniziative da parte degli studenti per la creazione in ogni città e paese dei Parchi delle Rimembranze con alberi, ognuno dedicato a un caduto, e lo stesso Ministero emanò anche disposizione sulle norme per la loro costruzione. L’iniziativa ebbe successo e i parchi sorsero ovunque: avrebbero dovuto comprendere al loro interno i monumenti, ma ormai molti erano già stati costruiti. Inizia così l’operazione tendente a coinvolgere i bambini più piccoli nell’onorare i caduti: si intitolano aule ai morti in guerra e si costituisce una Guardia d’Onore per i parchi delle Rimembranze, costituita dagli alunni più meritevoli delle scuole elementari. Per il regime, le nuove generazioni dovranno essere sempre pronte a seguire le orme delle precedenti, e si cercò di rendere strettissimo il binomio scuola e culto degli eroi. Sempre nel 1922 una circolare ministeriale invitava i Comuni di diffondere attraverso la toponomastica la conoscenza dei luoghi dove si è combattuto. La richiesta fu accolta in tutti i paesi e cominciarono a circolare i nomi di Melette, Coni Zugna, Monte Nero, Piave, Monte Grappa, Ortigara, Monte Cristallo e tanti altri, per non parlare di Vittorio Veneto, presente in quasi ogni città e paese. La costruzione di monumenti a livello locale continuò fino alla fine degli anni ’20, come ad esempio a Besozzo, dove il grande monumento

a forma di faro fu terminato nel 1927, o a Cavona dove il monumento con una bella scultura fu terminato nel 1929. I grandi cimiteri

Sacrario del Monte Pasubio

Nelle zone di guerra furono inizialmente i militari a incaricarsi della sistemazione dei piccoli cimiteri provvisori e recuperare i resti di molti caduti insepolti. Il primo grande monumento fu dovuto all’iniziativa del generale Guglielmo Pecori Giraldi, comandante della I Armata e dell’Associazione “3 novembre 1918 pro combattenti della I Armata": nel 1920 iniziò la costruzione del sacrario del Monte Pasubio, sul Colle di Bellavista, a 1265 metri di altezza, a forma di faro. L’ossario, sotto la torre, comprende due gallerie, che raccolgono i resti di 5.146 soldati italiani e di quaranta austriaci, e una cripta con i resti di settanta decorati al valore Militare e la tomba del generale Pecori Giraldi.

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Negli stessi anni il generale Giuseppe Paolini promuove la costruzione di un “Cimitero degli Invitti” nella zona di Fogliano Redipuglia, sul Colle di Sant’Elia, luogo di furiosi combattimenti. Il sacrario fu terminato nel 1923 con l’intento di presentare un intimo legame con il campo di battaglia, ma si rivelò subito fragile, esposto alle intemperie e assunse presto un aspetto caotico. Al centro vi era la cappella del Duca d’Aosta, il comandante della III Armata.

Due cartoline del 1925 che mostrano il caotico accumulo

di tombe e mezzi militari del “Cimitero degli Invitti”.

Negli anni ’30 fu il governo a dare il via alla costruzione dei grandi ossari che dovevano raccogliere i caduti dei vari cimiteri sparsi nelle zone di guerra: in tal modo intendeva mostrare una continuità tra e il fascismo e la Grande Guerra, vista nell’ottica di un sacrificio, grande ma non tragico bensì glorioso. Nel 1932 iniziò la costruzione dell’Ossario di Oslavia, terminato nel 1936, nel quale vi sono le spoglie di 57.741 soldati italiani, di cui circa 36.000 ignoti, caduti nelle battaglie dell’Isonzo, e 540 soldati austriaci.

Oslavia in una cartolina degli anni ‘30

Monte Grappa (da cartolina)

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Nel 1933 fu presentato, dopo lunghe discussioni, il progetto per il sacrario del Monte Grappa, che fu inaugurato nel 1935: è costituito da una serie di gradoni semicircolari su un rilievo. Inizia successivamente la costruzione del Sacrario di Redipuglia, che sostituisce il “Cimitero degli Invitti”, inaugurato con una solenne cerimonia da Mussolini nel 1938: sui cinque gradoni concentrici è ripetuta la parola “PRESENTE” per 8.000 volte, parola mutuata dal rito dell’appello fascista, in cui il capo-squadra gridava il nome del defunto e i presenti rispondevano “presente”.

Redipuglia in due cartoline del 1938

L’ossario è enorme, il più grande d’Italia e d’Europa, e divenne il più importante dei monumenti della Grande Guerra. Nel “Dizionario del Fascismo”, Oliver Janz così scrive del monumento: L'impianto incarnava come nessun altro la concezione fascista della guerra e della nazione: era una gigantesca apoteosi dell'uguaglianza, dell'anonimità e della disciplina militare oltre la morte, un trionfo - scolpito nella pietra - dell'istanza collettiva sull'identità individuale.

I grandi monumenti ai caduti divennero negli anni ’30 meta di un turismo quasi di massa, con viaggi organizzati dalle associazioni combattentistiche e dai vari enti del partito e per tantissimi ex soldati fu quasi un pellegrinaggio per tornare a vedere i luoghi delle loro sofferenze. Il regime organizzò grandi manifestazioni in occasione delle inaugurazioni dei monumenti, con la partecipazione sempre delle massime autorità politiche e militari.

I monumenti dopo la II Guerra Mondiale Dal settembre 1940 i Podestà di paesi e città predisposero l’elenco dei manufatti di bronzo utilizzabili per conferire il metallo alla patria per lo sforzo bellico, e nei mesi successivi molti monumenti furono smantellati e furono perfino raccolti i proiettili inerti che in molti casi li ornavano. Queste disposizioni non furono gradite a gran parte della gente e delle amministrazioni comunali che, in qualche caso riuscirono a salvare i loro monumenti, e l’utilizzo del poco bronzo così ricavato non fu certamente risolutivo allo sforzo bellico del paese. Di sicuro portò alla distruzione di molti monumenti, forse i più belli, e alla fine della seconda guerra Mondiale si iniziò la ricostruzione, accomunando i caduti della prima e della seconda guerra. L’atmosfera non era più quella del 1919, ora si usciva anche da una lunga e dolorosa guerra civile, e le tensioni sociali e politiche erano molto forti, e i caduti in guerra non erano ora tutti uguali. Vi erano i caduti nella “guerra giusta” e quelli della “guerra sbagliata”, che non dovevano essere assolutamente accomunati, dimenticando volutamente che l’Italia, anche quella “giusta”, era stata uno dei paesi aggressori che avevano scatenato la guerra. I monumenti, costruiti negli anni successivi alla fine della Grande Guerra, furono sovente collocati nei punti centrali, più in vista, del paese, dove ora sono un ingombro al traffico. Molti sono stati spostati in aree più isolate, i più fortunati, molti altri sono al centro di parcheggi, soffocati dalle auto in sosta e sovente difficilmente fotografabili nella loro interezza. Molti sono stati portati nei cimiteri o nelle immediate adiacenze, e questa è forse la soluzione migliore, piuttosto che vederli immersi in un mare di auto.

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Tipologia dei monumenti varesini Nel piccolo campionario dei monumenti varesini si vede di tutto, dalle semplici lapidi ai gruppi di elaborate sculture, e non è sempre facile classificare un monumento in base ad una tipologia definita: Inoltra, la classificazione è stata fatta sulla base del monumento appena costruito, almeno di quelli di cui si hanno le immagini originali: non ci si deve quindi stupire di trovare nella classificazione monumenti che ora hanno altre forme. Cumulo di massi Alcuni monumenti vogliono ricordare le montagne su cui tanto si è combattuto, utilizzando magari anche massi portati direttamente dalle “montagne sacre” come si iniziò a chiamarle. Questi accumuli di massi, piccole montagne monumentali, possono essere completate con statue di soldati o cannoni, o altri simboli, o semplicemente con targhe con i nomi dei caduti. In tutti i casi raramente costituiscono dei monumenti di bell’aspetto, o almeno accettabile, e finiscono per sembrare solo un vero cumulo di sassi, con una lapide con il nome dei caduti posta sopra e all’interno dei massi.

Arolo Mercallo

Molti monumenti hanno una base costituita da un cumulo di massi con sopra delle statue, come a Brinzio, Cabiaglio, Ternate, Germignaga e Luino nelle prime versioni. Atipico è il monumento di Campagnano, con un soldato seduto sopra una catasta di legna, come tante se ne vedono in montagna. Obelisco, stele o masso Circa il 21% dei monumenti varesini è costituito da un obelisco dalla classica forma a guglia quadrangolare, o da una stele più o meno elaborata, costituita da blocchi quadrangolari sovrapposti. In alcuni casi si tratta solo di massi, a malapena squadrati (Ballarate, Brissago Valtravaglia, Cuirone, Malgesso) indice anche degli scarsi mezzi a disposizione delle Comunità al momento di erigere il monumento.

Taino Muceno Ballarate

Una variante della stele è la semplice colonna tonda, o gruppi di due o quattro colonne: questa tipologia compare in poco più di una dozzina di monumenti, come ad Armio, Castello Valtravaglia, Laveno, Rancio Valcuvia. Una variante è la colonna o la stele spezzata, simbolo di vita troncata, usata in otto monumenti, come ad esempio a Barzola, Cassano Valcuvia, Cremenaga, Grantola, e Sesona. Asili infantili e scuola

Nel territorio varesino non si vedono edifici scolastici dedicati ai caduti,

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con cioè l’edificio stesso che costituisce il monumento, come in alcuni paesi del Verbano piemontese (Asilo Infantile a Gravellona Toce, la scuola a Gignese) Nei primi anni dell’epoca fascista i monumenti diventarono uno strumento attraverso il quale si volevano esaltare le virtù eroiche dei caduti e delle tante vite donate per il bene comune e per la patria. Dovevano essere un esempio per i giovani e per questo molte lapidi furono poste sui muri delle scuole e degli asili. Tipico è l’esempio di Cavona, in Valcuvia, dove il monumento è posto proprio davanti all’asilo, con un gruppo che rappresenta una donna con in braccio un bambino al quale mostra la lapide con l’elenco dei caduti.

Il monumento è del 1929 e sulla lapide di marmo alla base la scritta è ormai quasi illeggibile:

E QUA MOSTRANDO VERRANNO LE MADRI AI PARGOLI LE BELLE

ORME DEL VOSTRO SANGUE

Tempietti, edicole Alcuni monumenti ebbero forma di piccoli o grandi templi, come quelli di Cuveglio, Ferrera di Varese, Maccagno Inferiore, o edicole più o

meno elaborate, secondo le condizioni finanziarie dei Comuni, come ad Azzio, Cadero, Gemonio, Montegrino.

Maccagno Inferiore Cuveglio

Faro Il monumento di Besozzo eretto nel 1927 è l’esempio più clamoroso, e raro, nei nostri paesi, di un faro, una costruzione di grandi proporzioni che sovrasta l’abitato, alterandone il profilo. Non è molto chiaro il significato di un faro lontano dal lago o dal mare, ma forse la volontà era di fare del monumento ai caduti un faro per tutti i paesi vicini, per illuminare gli animi con il ricordo degli eroi, come sono chiamati i caduti nelle lapidi:

ALLA VETTA D’ITALIA RIEDONO I MORTI EROI COL RAGGIO TRICOLORE

E L’AQUILA DI ROMA

Altro faro è quello di Caldè, posto sulla vetta dello sperone di roccia che sovrasta l’abitato, guarda verso il lago ed è dedicato ai marinai d’Italia. Fontane Nella provincia abbiamo un solo esempio di monumenti a forma e uso di fontana, con ornamenti di bronzo, ad Arcumeggia.

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Gruppi figurativi Le Comunità con popolazione più numerosa e quindi con maggiori disponibilità finanziarie, optarono per monumenti più importanti con gruppi di sculture. Troviamo però monumenti di questo tipo anche in piccole comunità, come ad esempio a Campagnano Veddasca (170 abitanti). In totale, circa il 27% dei monumenti varesini avevano all’origine statue di bronzo Il gruppo figurativo più diffuso riguarda le immagini di soldati, rappresentati feriti o morenti, con bandiere, soccorrenti compagni feriti, raramente in pose guerresche (come a Colmegna, con un soldato in posizione di assalto con un pugnale). Secondo il gusto dell’epoca i soldati sono rappresentati in età giovanile, nudi con l’elmo, qualche volta in modo che rasenta il ridicolo più raramente in divisa con armamento. Un altro gruppo di monumenti, quasi 11%, è costituito da elementi allegorici, come ad Agra (Danti Alighieri che porge un ramo d’alloro a un soldato inginocchiato con la bandiera). Nelle maggiori città e paesi i primi monumenti, quasi tutti fusi all’inizio della Seconda guerra Mondiale, vedevano gruppi di statue di pregevole fattura, come a Busto Arsizio, Sesto Calende, Gavirate. Alcuni sono sopravvissuti alla fusione come quelli di Varese e Gallarate. Grandioso, quasi pretenzioso, il monumento di Corgeno, frazione di Vergiate di circa 800 abitanti, che rappresenta San Giorgio che uccide il drago. Il monumento di Comabbio presenta una composizione simbolica gradevole e precisa, con una base costituita da un elmo e sacco per bombe a mano e munizioni, sulla quale vi è una mitragliatrice Fiat con sopra un’aquila ad ali spiegate. Le figure femminili (6% circa dei monumenti) sono rappresentate come donne in varie pose come a Germignaga (donna inginocchiata che offre una lampada accesa) e Luino (donna con una bandiera che offre una corona d’alloro a un soldato morente).o come Vittorie alate che porgono corone, alcune di pregevole fattura come ad Arsago, Cassano Magnago e Curiglia).

Le lapidi o targhe commemorative, semplici o con fregi di bronzo, costituiscono il 25% dei monumenti e sono tipiche dei piccoli comuni o frazioni, di limitate risorse finanziarie.. Bibliografia Bregantin Lisa, Il cimitero nella Grande Guerra: funzioni, utilità, rappresentazioni; Engramma, Rivista on-line, n. 95, 2011 Ferlenga Alberto, Montagne in città. La migrazione del "massi sacri" nei centri italiani, Engramma, Rivista on-line, n. 113, 2014 Nicoloso Paolo, Architetture per fascistizzare i caduti in guerra: gli ossari di Oslavia e Redipuglia, Engramma, Rivista on-line, n. 113, 2014 Pirazzoli Elena, Il luogo e il volto, Engramma, Rivista on-line, n. 95, 2011 Pisani Daniele, Il primo e il più grande monumento della vittoria. Nota su un caso di iconografia aniconica, Engramma, Rivista on-line, n. 95, 2011 Pisani Daniele, La massa come fondamento. I Sacrari fascisti della Grande Guerra, Engramma, Rivista on-line, n. 95, 2011 Janz Oliver, Memoria della Grande Guerra, in Dizionario del fascismo, a cura di Victoria de Grazia e Sergio Luzzatto, vol. I: A-K, Giulio Einaudi editore, Torino 2002, Tobia Bruno, “Salve o popolo d’eroi..”, la monumentalità fascista nelle fotografie dell’istituto Luce, Editori Riuniti 2002 Winter Jay, Il lutto e la memoria (la Grande Guerra nella storia culturale europea), Mulino 1995

2/2016