XX CONVEGNO DI STUDI ACOLTÀ DI IRITTO … mesi fa, ad un incontro internazionale di teologia: «Non...

23
TESTO PROVVISORIO XX CONVEGNO DI STUDI FACOLTÀ DI DIRITTO CANONICO DIRITTO E NORMA NELLA LITURGIA Roma, 18-19 aprile 2016 Universale e particolare nella normativa liturgica Prof. Antonio S. Sánchez-Gil Sommario: Introduzione.– 1. La liturgia (eucaristica), radice della comunione tra le Chiese particolari nella Chiesa universale.– 2. Universale e particolare nella Costituzione conciliare sulla liturgia.– 3. Universale e particolare nelle disposizioni canonico-liturgiche.– 4. Le edizioni tipiche dei libri liturgici, in latino e in lingua vernacola, tra universale e particolare; il Missale Romanum e la sua Institutio generalis. Introduzione Ringrazio i colleghi e amici del comitato organizzatore di questo convegno per l’invito a intervenire su una tematica così stimolante come il rapporto tra universale e particolare nella normativa liturgica. Cercherò di sviluppare l’argomento evitando di sovrappormi alle altre relazioni, soprattutto quelle del pomeriggio, dedicate a due argomenti – l’inculturazione e la consuetudine in materia liturgica – intimamente legati al nostro. Nel contesto di questa seconda giornata, dedicata a principi, struttura e tecniche normative in re liturgica, non poteva mancare una trattazione specifica della polarità tra l’universale e il particolare, nota caratteristica della cattolicità della Chiesa, che si riflette in tutte le dimensioni della sua vita e, con modalità proprie, anche nel diritto e nella liturgia 1 . Penso che si possa ben applicare tanto al diritto quanto alla liturgia ciò che Papa Francesco diceva, pochi mesi fa, ad un incontro internazionale di teologia: «Non esiste una Chiesa particolare isolata, che possa dirsi sola, come se pretendesse di essere padrona e unica interprete della realtà e dell’azione dello Spirito. Non esiste una comunità che abbia il monopolio dell’interpretazione o dell’inculturazione. Come, all’opposto, non esiste una Chiesa universale che dia le spalle, ignori, si disinteressi della realtà locale. La cattolicità esige, chiede questa polarità tensionale tra il particolare e l’universale, tra l’uno e il multiplo, tra il semplice e il complesso. Annichilire questa tensione va contro la vita dello Spirito. Ogni tentativo, ogni ricerca di ridurre la comunicazione, di rompere il rapporto tra la Tradizione ricevuta e la realtà concreta, mette in pericolo la fede del Popolo di Dio» 2 . 1 Cfr. i vari contributi contenuti in AA.VV., Diritto e Liturgia, a cura del Gruppo Italiano Docenti di Diritto Canonico, Milano 2012; e in AA.VV., Il diritto della Chiesa tra universale e particolare, a cura del Gruppo Italiano Docenti di Diritto Canonico, Milano 2013. 2 Videomessaggio al Congresso internazionale di teologia presso la Pontificia Università Cattolica Argentina, Buenos Aires, 1-3 settembre 2015, in w2.vatican.va/content/francesco/it/messages/pont-messages/2015/documents/papa- francesco_20150903_videomessaggio-teologia-buenos-aires.html. Merita di essere riportata anche la seguente affermazione, particolarmente riferibile alla liturgia, quale elemento costitutivo della Tradizione: «C’è un’immagine proposta da Benedetto XVI che mi piace molto. Riferendosi alla Tradizione della Chiesa afferma che “non è trasmissione di cose o di parole, una collezione di cose morte. La Tradizione è il fiume vivo che ci collega alle origini, il fiume vivo nel quale sempre le origini sono presenti” (Udienza Generale, 26 aprile 2006). Questo fiume irriga diverse terre, alimenta diverse geografie, facendo germogliare il meglio di quella terra, il meglio di quella cultura. In questo modo, il Vangelo continua a incarnarsi in tutti gli angoli del mondo, in maniera sempre nuova (cfr. Evangelii gaudium, n. 115)» (ibidem).

Transcript of XX CONVEGNO DI STUDI ACOLTÀ DI IRITTO … mesi fa, ad un incontro internazionale di teologia: «Non...

Page 1: XX CONVEGNO DI STUDI ACOLTÀ DI IRITTO … mesi fa, ad un incontro internazionale di teologia: «Non esiste una Chiesa particolare isolata, che possa dirsi sola, come se pretendesse

TESTO PROVVISORIO

XX CONVEGNO DI STUDI – FACOLTÀ DI DIRITTO CANONICO

DIRITTO E NORMA NELLA LITURGIA

Roma, 18-19 aprile 2016

Universale e particolare nella normativa liturgica

Prof. Antonio S. Sánchez-Gil

Sommario: Introduzione.– 1. La liturgia (eucaristica), radice della comunione tra le Chiese particolari nella Chiesa

universale.– 2. Universale e particolare nella Costituzione conciliare sulla liturgia.– 3. Universale e particolare nelle disposizioni canonico-liturgiche.– 4. Le edizioni tipiche dei libri liturgici, in latino e in lingua vernacola, tra universale e particolare; il Missale Romanum e la sua Institutio generalis.

Introduzione Ringrazio i colleghi e amici del comitato organizzatore di questo convegno per l’invito a

intervenire su una tematica così stimolante come il rapporto tra universale e particolare nella normativa liturgica. Cercherò di sviluppare l’argomento evitando di sovrappormi alle altre relazioni, soprattutto quelle del pomeriggio, dedicate a due argomenti – l’inculturazione e la consuetudine in materia liturgica – intimamente legati al nostro. Nel contesto di questa seconda giornata, dedicata a principi, struttura e tecniche normative in re liturgica, non poteva mancare una trattazione specifica della polarità tra l’universale e il particolare, nota caratteristica della cattolicità della Chiesa, che si riflette in tutte le dimensioni della sua vita e, con modalità proprie, anche nel diritto e nella liturgia1. Penso che si possa ben applicare tanto al diritto quanto alla liturgia ciò che Papa Francesco diceva, pochi mesi fa, ad un incontro internazionale di teologia:

«Non esiste una Chiesa particolare isolata, che possa dirsi sola, come se pretendesse di essere padrona

e unica interprete della realtà e dell’azione dello Spirito. Non esiste una comunità che abbia il monopolio dell’interpretazione o dell’inculturazione. Come, all’opposto, non esiste una Chiesa universale che dia le spalle, ignori, si disinteressi della realtà locale. La cattolicità esige, chiede questa polarità tensionale tra il particolare e l’universale, tra l’uno e il multiplo, tra il semplice e il complesso. Annichilire questa tensione va contro la vita dello Spirito. Ogni tentativo, ogni ricerca di ridurre la comunicazione, di rompere il rapporto tra la Tradizione ricevuta e la realtà concreta, mette in pericolo la fede del Popolo di Dio»2.

1 Cfr. i vari contributi contenuti in AA.VV., Diritto e Liturgia, a cura del Gruppo Italiano Docenti di Diritto Canonico, Milano 2012; e in AA.VV., Il diritto della Chiesa tra universale e particolare, a cura del Gruppo Italiano Docenti di Diritto Canonico, Milano 2013. 2 Videomessaggio al Congresso internazionale di teologia presso la Pontificia Università Cattolica Argentina, Buenos Aires, 1-3 settembre 2015, in w2.vatican.va/content/francesco/it/messages/pont-messages/2015/documents/papa-francesco_20150903_videomessaggio-teologia-buenos-aires.html. Merita di essere riportata anche la seguente affermazione, particolarmente riferibile alla liturgia, quale elemento costitutivo della Tradizione: «C’è un’immagine proposta da Benedetto XVI che mi piace molto. Riferendosi alla Tradizione della Chiesa afferma che “non è trasmissione di cose o di parole, una collezione di cose morte. La Tradizione è il fiume vivo che ci collega alle origini, il fiume vivo nel quale sempre le origini sono presenti” (Udienza Generale, 26 aprile 2006). Questo fiume irriga diverse terre, alimenta diverse geografie, facendo germogliare il meglio di quella terra, il meglio di quella cultura. In questo modo, il Vangelo continua a incarnarsi in tutti gli angoli del mondo, in maniera sempre nuova (cfr. Evangelii gaudium, n. 115)» (ibidem).

Page 2: XX CONVEGNO DI STUDI ACOLTÀ DI IRITTO … mesi fa, ad un incontro internazionale di teologia: «Non esiste una Chiesa particolare isolata, che possa dirsi sola, come se pretendesse

TESTO PROVVISORIO

2

Parlare di universale e particolare nella normativa liturgica è parlare, quindi, di questa «polarità

tensionale» – come dice Francesco –, ma anche «sinergica», che opera come uno dei suoi criteri ispiratori. In sintonia con i principi di partecipazione e di adattamento, la polarità universale-particolare comporta la promozione dell’opportuno adeguamento liturgico alle esigenze dei popoli e alle varie condizioni dei luoghi, mantenendo comunque l’unità sostanziale, allo scopo di favorire la partecipazione dei fedeli alle azioni liturgiche. In esse non solo è celebrata la fede della Chiesa3, ma la stessa e unica Chiesa di Cristo si rende presente e agisce («vere inest et operatur»4) in ogni Chiesa particolare; in modo speciale nella celebrazione eucaristica, che – secondo una felice espressione dell’Institutio generalis Missalis Romani [= IGMR] – è «raduno locale della santa Chiesa» (n. 27)5.

Scopo principale di questo contributo è, dunque, l’esame della polarità e dell’intreccio tra universale e particolare nella normativa liturgica della Chiesa latina, e più specificamente, di quella romana6. Una qualità che è possibile avvertire non solo nelle sue fonti, ma anche nella sua struttura e nelle tecniche adoperate. Lo si può agevolmente notare, come vedremo, nelle indicazioni conciliari e nelle disposizioni canoniche sulla liturgia ma, forse ancora di più, nella normativa propriamente liturgica, contenuta nei libri liturgici, le cui edizioni tipiche, tanto in latino quanto nelle lingue moderne, esprimono la cattolicità della Chiesa e, quindi, entrambe le dimensioni, universale e particolare, sia nell’origine e nello sviluppo storico del loro contenuto, sia nelle autorità competenti per la loro approvazione, sia, infine, nelle concrete disposizioni in essi inserite sugli adattamenti che possono stabilire le autorità territoriali o che sono lasciati al prudente giudizio di chi presiede la concreta assemblea liturgica locale7.

Con l’intento di dare un taglio, non meramente teorico e astratto, ma anche pratico e concreto a questo studio, mi limiterò a fare alcune considerazioni sulle radici propriamente liturgiche della comunione tra l’universale e il particolare nella Chiesa, per poi concentrare l’attenzione su come

3 Cfr. Catechismus Catholicae Ecclesiae [= CCE], nn. 1124 e 1126, dove si ricorda l’antico adagio «Lex orandi, lex credendi» e si afferma che «la Liturgia è un elemento costitutivo della santa e vivente Tradizione». 4 CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Decreto sulla missione pastorale dei Vescovi nella Chiesa Christus Dominus [= CD], 28 ottobre 1965, n. 11, in AAS 58, 1966, 673-701. 5 In questo contesto, sono ancora attuali le considerazioni del Sinodo dei Vescovi dedicato all’Eucaristia a proposito degli adattamenti che occorrono per favorire la partecipazione dei fedeli alla Santa Messa, e che possono essere applicate ad ogni azione liturgica: «A partire dalle affermazioni fondamentali del Concilio Vaticano II, è stata sottolineata più volte l’importanza della partecipazione attiva dei fedeli al Sacrificio eucaristico. Per favorire questo coinvolgimento si può fare spazio ad alcuni adattamenti appropriati ai diversi contesti e alle differenti culture. Il fatto che vi siano stati alcuni abusi non oscura la chiarezza di questo principio, che deve essere mantenuto secondo le reali necessità della Chiesa, la quale vive e celebra il medesimo mistero di Cristo in situazioni culturali differenti» (BENEDETTO XVI, Esortazione apostolica postsinodale sull’Eucaristia fonte e culmine della vita e missione della Chiesa Sacramentum caritatis [= SaCa], 22 febbraio 2007, n. 54, in AAS 99, 2007, 106-180). 6 Sarebbe stato interessante considerare l’argomento anche in rapporto agli altri riti latini e, ancora di più, ai riti orientali, ma un tale studio esula dalle mie competenze. È comunque utile ricordare l’insegnamento del Concilio Vaticano II al riguardo: «La Chiesa santa e cattolica, che è il Corpo mistico di Cristo, si compone di fedeli che sono organicamente uniti nello Spirito Santo da una stessa fede, dagli stessi sacramenti e da uno stesso governo, e che unendosi in varie comunità stabili, congiunti dalla gerarchia, costituiscono le Chiese particolari o riti. Tra loro vige una mirabile comunione, di modo che la varietà non solo non nuoce alla unità della Chiesa, ma anzi la manifesta. È infatti intenzione della Chiesa cattolica che rimangano salve e integre le tradizioni di ogni Chiesa o rito particolare; parimenti essa vuole adattare il suo tenore di vita alle varie necessità dei tempi e dei luoghi» (Decreto sulle Chiese cattoliche orientali Orientalium Ecclesiarum [= OE], 21 novembre 1964, n. 2, in AAS 57, 1965, 76-89). D’altra parte, non sono mai mancate influenze liturgiche tra i vari riti: «le Chiese d’Oriente hanno fin dall’origine un tesoro dal quale la Chiesa d’Occidente ha attinto molti elementi nel campo della liturgia, della tradizione spirituale e dell’ordine giuridico» (Decreto sull’ecumenismo Unitatis redintegratio [= UR], 21 novembre 1964, n. 14, in AAS 57, 1965, 76-89). 7 Cfr. M. BARBA, Il libro liturgico: struttura e funzione, in Rivista Liturgica 98, 2011, 382-395; C. MAGGIONI, Valore e significato del libro liturgico, in ibidem, 396-414; IDEM, Gli adattamenti previsti nei libri liturgici: significato, valori e problematiche, in ibidem, 855-862; A. MONTAN, La “normatività” del libro liturgico, in ibidem, 451-461.

Page 3: XX CONVEGNO DI STUDI ACOLTÀ DI IRITTO … mesi fa, ad un incontro internazionale di teologia: «Non esiste una Chiesa particolare isolata, che possa dirsi sola, come se pretendesse

TESTO PROVVISORIO

3

queste dimensioni sono state articolate nella Costituzione conciliare sulla liturgia8, nelle successive disposizioni canoniche in materia liturgica e nei libri liturgici attualmente in uso, con un riferimento specifico all’ultima edizione del Missale Romanum, libro princeps della liturgia latina, e alla rinnovata stesura dell’IGMR, che, come è noto, contiene un capitolo, mancante nella versione precedente, specificamente dedicato agli adattamenti che competono ai Vescovi diocesani e alle Conferenze Episcopali9.

1. La liturgia (eucaristica), radice della comunione tra le Chiese particolari nella Chiesa universale Se, come è stato detto, la polarità sinergica tra universale e particolare è un segno caratteristico

della Chiesa – della sua cattolicità – e di tutte le sue manifestazioni, è logico che tale qualità sia connaturale alla sua liturgia, come si può avvertire sin dalle sue origini [ed è stato ben messo in evidenza dalla relazione del professore Manuel Nin]10. La liturgia cristiana è, infatti, come la Chiesa, universale e particolare allo stesso tempo, una ma anche pluriforme; con la stabilità necessaria e indispensabile per rimanere la stessa, ma anche con la flessibilità che occorre per essere adattata alle peculiarità culturali e linguistiche di ogni popolo; ed essere così in grado di veicolare il messaggio evangelico agli uomini e alle donne di ogni luogo e tempo, affinché formino un unico popolo – il popolo di Dio – che è di per sé universale, e, proprio perciò, anche in grado di integrare, senza eliminarle, le particolarità compatibili col Vangelo11.

Nello sviluppo storico della liturgia ci sono, poi, esempi frequenti sia di elementi rituali nati in ambito locale che sono stati assunti a livello universale, sia di indicazioni date per tutta la Chiesa che sono state declinate in modo diverso nei vari ambiti locali. Per quanto riguarda la storia della liturgia romana forse il più noto esempio di questo «doppio movimento di influenza liturgica» è costituito dagli adattamenti franco-germanici introdotti nei secoli VIII-IX nell’Ordo Misae a partire dal Sacramentario Gregoriano, poi riadattati a Roma nei secoli X-XI, e, poi ancora, diffusi in tutto

8 Cfr. CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Costituzione sulla sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium [= SC], 4 dicembre 1963, in AAS 56, 1964, 97-138. 9 Per una panoramica dello sviluppo storico del Missale Romanum, cfr. M. SODI, Storia della messa in Italia, in AA.VV., Cristiani di Italia. Chiese, Società, Stato, 1861-2011, a cura di A. Melloni, Roma 2011, 377-388, e la bibliografia ivi citata. 10 Basterebbe pensare alla manifestazione della Chiesa il giorno di Pentecoste, con la prima amministrazione del battesimo. È infatti pieno di significato che lo Spirito abbia dato quel giorno ai discepoli il potere di esprimersi in altre lingue, e che coloro che erano presenti abbiano udito annunziare le opere di Dio nelle proprie lingue native (cfr. Atti 2,4-12; CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Decreto sull’attività missionaria della Chiesa Ad gentes [= AG], 7 dicembre 1965, n. 4, in AAS 58, 1966, 947-990). In questo senso, non mi sembra azzardato ipotizzare che, per opera dello Spirito, il battesimo sia stato amministrato-celebrato quel giorno – con una forma rituale certamente scarna, ma con gli elementi essenziali del segno battesimale – in tutte le lingue presenti quel giorno a Gerusalemme. 11 Come affermava il beato Paolo VI, la «Chiesa universale si incarna di fatto nelle Chiese particolari. (…) Ma dobbiamo ben guardarci dal concepire la Chiesa universale come la somma o, se così si può dire, la federazione più o meno eteroclita di Chiese particolari essenzialmente diverse. Secondo il pensiero del Signore, è la stessa Chiesa che, essendo universale per vocazione e per missione, quando getta le sue radici nella varietà dei terreni culturali, sociali, umani, assume in ogni parte del mondo fisionomie ed espressioni esteriori diverse» (Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, 8 dicembre 1975, n. 62, in AAS 68,1976, 5-76). La citazione è stata ripresa in CCE, n. 835, che, nello stesso numero, aggiunge: «La ricca varietà di discipline ecclesiastiche, di riti liturgici, di patrimoni teologici e spirituali propri alle “Chiese locali tra loro concordi, dimostra con maggior evidenza la cattolicità della Chiesa indivisa”». Queste ultime parole sono del CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium [= LG], 21 novembre 1964, n. 23, in AAS 57, 1965, 5-71.

Page 4: XX CONVEGNO DI STUDI ACOLTÀ DI IRITTO … mesi fa, ad un incontro internazionale di teologia: «Non esiste una Chiesa particolare isolata, che possa dirsi sola, come se pretendesse

TESTO PROVVISORIO

4

l’Occidente12. Fenomeni simili sono anche avvenuti nell’ultima riforma liturgica e continueranno sicuramente in avvenire13.

Anche nell’esame dell’attuale tipologia dei provvedimenti regolativi del culto, [oggetto della relazione del professore Edoardo Baura,] è possibile constatare l’intreccio tra le dimensioni universale e particolare, trattandosi la liturgia di una materia la cui regolamentazione prevede l’intervento – non poche volte congiunto – della Santa Sede, dei Vescovi diocesani e delle Conferenze Episcopali14, ma è anche opportuno nella fase di applicazione, di promozione e di custodia. È infatti auspicabile che il rapporto tra istanze universali e particolari in ambito liturgico sia considerato sempre di più in termini di sinodalità e di comunione; non come fonte di tensioni negative e dannose – ci sono tensioni positive e salutari –, né tantomeno come terreno di scontro.

In questo senso, si deve evitare – non solo in materia liturgica, ovviamente, ma soprattutto in essa – che le dimensioni universale e particolare siano considerate come semplici ambiti, contrapposti, di competenza o di esercizio di potestà. Occorre, invece, contemplarle come dimensioni complementari dell’unica Chiesa, in una logica di «comunione», che, sulla base degli approfondimenti dell’ultimo Concilio, è concetto chiave non solo della rinnovata ecclesiologia cattolica, ma anche della rinnovata liturgia della Chiesa.

L’ecclesiologia di comunione è, infatti, molto presente nella liturgia rinnovata dopo il Concilio, ad esempio, nel riconoscimento dell’assemblea liturgica come soggetto celebrante, in cui agiscono in modo organico il sacerdozio ministeriale dei Vescovi e dei presbiteri e il sacerdozio comune dei fedeli, tutti partecipi dell’unico sacerdozio di Cristo, che è presente e opera in ogni celebrazione liturgica (cfr. SC, n. 7). L’ecclesiologia di comunione è anche presente nella considerazione di ogni assemblea liturgica, per sua natura sempre locale, come assemblea liturgica della Chiesa universale, la quale – adoperando di nuovo le parole del Concilio prima accennate – vere inest et operatur, non solo in ogni Chiesa particolare, ma anche in ogni assemblea liturgica locale, e in modo speciale nella celebrazione eucaristica15.

A questo proposito, mi sembrano di grande rilievo per il nostro argomento alcune affermazioni di un noto documento della Congregazione per la Dottrina della Fede [= CDF], pubblicato nel 1992, sulla nozione di comunione e sul rapporto tra Chiesa universale e Chiese particolari

12 Per una sintesi di questo fenomeno, cfr. A. MIRALLES, Teologia liturgica dei sacramenti. 3.1. La Messa, edizione digitale, Roma 2014, 72-77 e 82-109, in www.liturgiaetsacramenta.info/texts/tl_messa.pdf, e le fonti e la bibliografia citate. 13 Un esempio recente è l’introduzione, nell’editio typica tertia del Missale Romanum, del Simbolo degli Apostoli, come formula alternativa al Simbolo Niceno-Costantinopolitano per la Professione di fede, specialmente durante la Quaresima e la Pasqua; possibilità che era stata introdotta in alcune edizioni del Messale Romano nelle lingue moderne, come, ad esempio, la seconda edizione tipica in italiano (cfr. F. KHA, Le «Symbolum Apostolorum» dans l’«Ordo Missae» de l’«editio typica tertia» du Missel Romain, in Ephmerides Liturgicae 116, 2002, 298-306). Va anche ricordato che la recita del Credo di Nicea-Costantinopoli è stata introdotta nella Messa romana solo dopo il secolo XI per influsso dei franchi (cfr. A. MIRALLES, Teologia liturgica dei sacramenti. 3.1. La Messa, cit., 93). 14 Si pensi, ad esempio, all’istituto della recognitio, in cui è prevista l’effettiva e necessaria collaborazione sinergica tra la Santa Sede e le Conferenze Episcopali nella pubblicazione dei libri liturgici nelle lingue correnti (cfr. c. 838 § 3 Codex Iuris Canonici [= CIC]). Cfr. J.I. ARRIETA, Valenza dottrinale e qualifica dei documenti introduttivi degli Ordines e valore della recognitio, in Rivista Liturgica 98, 2011, 789-803; M. DEL POZZO, La giustizia nel culto. Profili giuridici della liturgia della Chiesa, Roma 2013, 445. 15 Come affermava Papa Benedetto XVI, «sulla relazione tra Eucaristia e communio aveva già attirato l’attenzione il servo di Dio Giovanni Paolo II nella sua Enciclica Ecclesia de Eucharistia. Egli ha parlato del memoriale di Cristo come della “suprema manifestazione sacramentale della comunione nella Chiesa” (n. 38). L’unità della comunione ecclesiale si rivela concretamente nelle comunità cristiane e si rinnova nell’atto eucaristico che le unisce e le differenzia in Chiese particolari, “in quibus et ex quibus una et unica Ecclesia catholica exsistit” (LG, n. 23)» (SaCa, n. 15). A proposito dell’ecclesiologia di comunione nella liturgia, cfr. l’intervento di P. MARINI, L’Eucaristia, fonte della comunione ecclesiale nel pensiero e nelle celebrazioni del Beato Giovanni Paolo II, nel I° Congresso Eucaristico Nazionale [della Germania], Colonia, 5-9 giugno 2013, in www.congressieucaristici.va/content/dam/congressieucaristici/STUDI/CONFERENZE/COLONIA.13.pdf, e la bibliografia ivi citata.

Page 5: XX CONVEGNO DI STUDI ACOLTÀ DI IRITTO … mesi fa, ad un incontro internazionale di teologia: «Non esiste una Chiesa particolare isolata, che possa dirsi sola, come se pretendesse

TESTO PROVVISORIO

5

nell’ecclesiologia postconciliare16. Un documento di natura ecclesiologica, in cui non mancano però affermazioni di notevole spessore sotto il profilo sacramentale e – direi – specificamente liturgico, ispirate agli elementi di ecclesiologia eucaristica presenti negli insegnamenti conciliari17. Mi riferisco alle affermazioni sulle radici eucaristiche della comunione ecclesiale tra i fedeli e tra le Chiese particolari nella Chiesa universale; che sono espresse – è bene sottolinearlo – in termini propriamente liturgici18. Concretamente, a proposito della comunione tra i fedeli, si afferma:

«La comunione ecclesiale, nella quale ognuno viene inserito dalla fede e dal Battesimo, ha la sua

radice e il suo centro nella Santa Eucaristia. Infatti, il Battesimo è incorporazione in un corpo edificato e vivificato dal Signore risorto mediante l’Eucaristia, in modo tale che questo corpo può essere chiamato veramente Corpo di Cristo. L’Eucaristia è fonte e forza creatrice di comunione tra i membri della Chiesa proprio perché unisce ciascuno di essi con lo stesso Cristo: “nella frazione del pane eucaristico partecipando noi realmente al Corpo del Signore, siamo elevati alla comunione con lui e tra di noi: ‘Perché c’è un solo pane, un solo corpo siamo noi, quantunque molti, noi che partecipiamo tutti a un unico pane’ (1 Cor 10, 17)” (LG, n. 7 § 2).

Perciò l’espressione paolina la Chiesa è il Corpo di Cristo significa che l’Eucaristia, nella quale il Signore ci dona il suo Corpo e ci trasforma in un solo Corpo (cfr. LG, nn. 3 e 11 § 1), è il luogo dove permanentemente la Chiesa si esprime nella sua forma più essenziale: presente in ogni luogo e, tuttavia, soltanto una, così come uno è Cristo» (CN, n. 5)19. Interessa sottolineare che qui si sta parlando dell’Eucaristia, in quanto azione liturgica celebrata.

È la celebrazione eucaristica ad essere «fonte e forza creatrice della comunione» tra i fedeli che vi 16 Cfr. Lettera su alcuni aspetti della Chiesa intesa come comunione Communionis notio [= CN], 28 maggio 1992, in AAS 85, 1993, 838-850. Il documento intendeva rispondere ad alcune visioni ecclesiologiche che, secondo la CDF, «palesano un’insufficiente comprensione della Chiesa in quanto mistero di comunione, specialmente per la mancanza di un’adeguata integrazione del concetto di comunione con quelli di Popolo di Dio e di Corpo di Cristo, e anche per un insufficiente rilievo accordato al rapporto tra la Chiesa come comunione e la Chiesa come sacramento» (n. 1). 17 Per una panoramica dell’ecclesiologia eucaristica nella Sacra Scrittura, nella tradizione liturgica e canonica e nei documenti del Concilio Vaticano II, cfr. H. LEGRAND, L’ecclesiologia eucaristica nel XXI secolo, Città del Vaticano 2011. A proposito dell’ecclesiologia eucaristica di Joseph Ratzinger, Prefetto della CDF al momento della pubblicazione della CN, cfr. P. BLANCO, Mysterium, communio et sacramentum. L’ecclesiologia eucaristica di Joseph Ratzinger, in Annales theologici 25, 2011, 241-272; J.J. SILVESTRE VALOR, Con la mirada puesta en Dios: re-descubriendo la liturgia con Benedicto XVI, Madrid 2014, 149-204. Circa le precisazioni della CN all’ecclesiologia eucaristica ortodossa, e sulle polemiche suscitate da questo documento, cfr. A CATTANEO, Ecclesiologia eucaristica e primato. Un punto cruciale nel dialogo ecumenico, in Annales theologici 14, 2000, 153-196; A. MILTOS, Le Chiese locali e la Chiesa universale. Una rilettura ortodossa del dibattito Ratzinger-Kasper, in Il Regno-Documenti 17, 2013, 568-576; R. REPOLE, Le categorie di universale e particolare nell’ecclesiologia del Vaticano II e nella riflessione successiva, in AA.VV., Il diritto della Chiesa tra universale e particolare, cit., 11-32. 18 Sono affermazioni che sono state poi sostanzialmente accolte dal magistero pontificio. Dopo le parole di SaCa citate prima (vedi supra, nota 15) si afferma: «Proprio la realtà dell’unica Eucaristia che viene celebrata in ogni Diocesi intorno al proprio Vescovo ci fa comprendere come le stesse Chiese particolari sussistano in e ex Ecclesia. Infatti, “l’unicità e indivisibilità del Corpo eucaristico del Signore implica l’unicità del suo Corpo mistico, che è la Chiesa una ed indivisibile. Dal centro eucaristico sorge la necessaria apertura di ogni comunità celebrante, di ogni Chiesa particolare: attratta tra le braccia aperte del Signore, essa viene inserita nel suo Corpo, unico ed indiviso” (CN, n. 11). Per questo motivo nella celebrazione dell’Eucaristia, ogni fedele si trova nella sua Chiesa, cioè nella Chiesa di Cristo. In questa prospettiva eucaristica, adeguatamente compresa, la comunione ecclesiale si rivela realtà per natura sua cattolica (Propositio 5: “Il termine “cattolico” esprime l'universalità proveniente dall'unità che l'Eucaristia, celebrata in ogni Chiesa, favorisce ed edifica. Le Chiese particolari nella Chiesa universale hanno così, nell'Eucaristia, il compito di rendere visibile la loro propria unità e la loro diversità. Questo legame di amore fraterno lascia trasparire la comunione trinitaria. I concili e i sinodi esprimono nella storia quest'aspetto fraterno della Chiesa”). Sottolineare questa radice eucaristica della comunione ecclesiale può contribuire efficacemente anche al dialogo ecumenico con le Chiese e con le Comunità ecclesiali non in piena comunione con la Sede di Pietro. Infatti, l’Eucaristia stabilisce obiettivamente un forte legame di unità tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse, che hanno conservato la genuina e integra natura del mistero dell’Eucaristia. Al tempo stesso, il rilievo dato al carattere ecclesiale dell’Eucaristia può diventare elemento privilegiato nel dialogo anche con le Comunità nate dalla Riforma (cfr. ibidem)» (SaCa, n. 15). I corsivi sono dell’originale. Di speciale interesse per il nostro tema sono le parole citate di CN e della Propositio 5 del Sinodo dei Vescovi. 19 I corsivi di questo testo e di quelli successivi di CN sono dell’originale.

Page 6: XX CONVEGNO DI STUDI ACOLTÀ DI IRITTO … mesi fa, ad un incontro internazionale di teologia: «Non esiste una Chiesa particolare isolata, che possa dirsi sola, come se pretendesse

TESTO PROVVISORIO

6

partecipano nell’unica Chiesa di Cristo. Lo stesso si avverte successivamente, con ancora maggiore chiarezza, quando si dichiara:

«L’unità o comunione tra le Chiese particolari nella Chiesa universale, oltre che nella stessa fede e nel

comune Battesimo, è radicata soprattutto nell’Eucaristia e nell’Episcopato. È radicata nell’Eucaristia perché il Sacrificio eucaristico, pur celebrandosi sempre in una particolare

comunità, non è mai celebrazione di quella sola comunità: essa, infatti, ricevendo la presenza eucaristica del Signore, riceve l’intero dono della salvezza e si manifesta così, pur nella sua perdurante particolarità visibile, come immagine e vera presenza della Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica (cfr. LG, n. 26 § 1)» (CN, n. 11)20. Come si vede, è la celebrazione eucaristica ad essere considerata radice di tale comunione. E lo

stesso si può dire quando l’unità dell’Episcopato è messa in relazione con l’unità dell’Eucaristia, anche qui considerata in quanto azione liturgica celebrata:

«Unità dell’Eucaristia ed unità dell’Episcopato con Pietro e sotto Pietro non sono radici indipendenti

dell’unità della Chiesa, perché Cristo ha istituito l’Eucaristia e l’Episcopato come realtà essenzialmente vincolate (cfr. LG, n. 26). L’Episcopato è uno così come una è l’Eucaristia: l’unico Sacrificio dell’unico Cristo morto e risorto. La liturgia esprime in vari modi questa realtà, manifestando, ad esempio, che ogni celebrazione dell’Eucaristia è fatta in unione non solo con il proprio Vescovo ma anche con il Papa, con l’ordine episcopale, con tutto il clero e con l’intero popolo (cfr. Messale Romano, Preghiera Eucaristica III). Ogni valida celebrazione dell’Eucaristia esprime questa universale comunione con Pietro e con l’intera Chiesa, oppure oggettivamente la richiama, come nel caso delle Chiese cristiane separate da Roma (cfr. LG, n. 8 § 2)» (CN, n. 14)21. Sulla stessa linea, ma in termini ancora più confacenti al nostro argomento, è quanto affermato in

un «corsivo» pubblicato, nel primo anniversario della CN, su L’Osservatore Romano (articolo anonimo, firmato con tre asterischi, come era allora consuetudine, per indicarne il valore dottrinale quasi-ufficiale). Indipendentemente dal suo valore magisteriale, è comunque di grande interesse per il nostro tema la seguente asserzione, riguardante in modo esplicito l’Eucaristia, sempre in quanto azione liturgica:

«Nella celebrazione dell’Eucaristia si realizza ed esprime in massimo grado la mutua interiorità tra la

Chiesa universale e le Chiese particolari, poiché dove si celebra l’Eucaristia, ivi è presente la Chiesa nella sua pienezza, non solo la Chiesa locale, ma la Cattolica di cui parlava Sant’Agostino; da ciò la cattolicità costitutiva di ogni celebrazione eucaristica locale»22. Sulla base di queste considerazioni, penso che si possa ben sostenere che la polarità universale e

particolare non vada considerata, in primis, come una nota della Chiesa che deve poi manifestarsi nella liturgia e nella normativa che la riguarda, come se la comunione tra le Chiese particolari nella Chiesa universale richiedesse o postulasse, come un dovere morale o giuridico, la varietà nell’unità della liturgia, intesa come liturgia regolata, cioè quale normativa liturgica. Al contrario. È la liturgia

20 Poco dopo, nello stesso n. 11, a proposito delle «accentuazioni unilaterali del principio della Chiesa locale», espresse talvolta dall’ecclesiologia eucaristica, si precisa che «è proprio l’Eucaristia a rendere impossibile ogni autosufficienza della Chiesa particolare. Infatti, l’unicità e indivisibilità del Corpo eucaristico del Signore implica l’unicità del suo Corpo mistico, che è la Chiesa una ed indivisibile». 21 Si noti che anche qui si sta parlando della celebrazione eucaristica, cioè, dell’Eucaristia in quanto azione liturgica celebrata. Per quanto riguarda il fedele che vi partecipa, si afferma inoltre: «l’appartenenza ad una Chiesa particolare non è mai in contraddizione con la realtà che nella Chiesa nessuno è straniero: specialmente nella celebrazione dell’Eucaristia, ogni fedele si trova nella sua Chiesa, nella Chiesa di Cristo, a prescindere dalla sua appartenenza o meno, dal punto di vista canonico, alla diocesi, parrocchia o altra comunità particolare dove ha luogo tale celebrazione» (CN, n. 10). 22 La Chiesa come comunione. A un anno della pubblicazione della Lettera Communionis notio, ***, in L’Osservatore Romano, 23 giugno 1993, 1 e 4.

Page 7: XX CONVEGNO DI STUDI ACOLTÀ DI IRITTO … mesi fa, ad un incontro internazionale di teologia: «Non esiste una Chiesa particolare isolata, che possa dirsi sola, come se pretendesse

TESTO PROVVISORIO

7

(eucaristica), intesa come liturgia celebrata, vale a dire in quanto azione liturgica, che, essendo locale e universale a un tempo, esprime e realizza, come sua causa ontologica, la comunione tra le Chiese particolari nella Chiesa universale. In altre parole: non è che la liturgia deve essere particolare e universale, perché le Chiese particolari sono unite nella Chiesa universale, ma è la liturgia eucaristica, celebrata nella stessa fede, a creare la comunione tra tutte le comunità cristiane locali, tra tutte le Chiese particolari, nella Chiesa universale23. Parafrasando le famose parole di Henri de Lubac24, se è vero che la Chiesa (universale e particolare) fa la liturgia, è anche vero che la liturgia – soprattutto la liturgia eucaristica, in quanto azione celebrata nella comune fede in Cristo – fa la Chiesa (universale e particolare). In termini più ampi, è la celebrazione liturgica a rendere presente la stessa e unica Chiesa – la Cattolica – in ogni luogo e a creare, dunque, la comunione tra universale e particolare.

Questa comunione tra universale e particolare, radicata nella liturgia (eucaristica), si manifesta poi in tutti gli ambiti della vita della Chiesa, non esclusa ovviamente la stessa liturgia, considerata non già in quanto azione liturgica, bensì in quanto normativa liturgica, come afferma, tra l’altro, lo stesso documento citato:

«“L’universalità della Chiesa, da una parte, comporta la più solida unità e, dall’altra, una pluralità e

una diversificazione, che non ostacolano l’unità, ma le conferiscono invece il carattere di comunione” (Giovanni Paolo II). Questa pluralità si riferisce sia alla diversità di ministeri, carismi, forme di vita e di apostolato all’interno di ogni Chiesa particolare, sia alla diversità di tradizioni liturgiche e culturali, tra le diverse Chiese particolari (cfr. LG, n. 23 § 4)» (CN, n. 15)25. Sono tutte affermazioni del magistero della Chiesa, conciliare e postconciliare, che, per quanto

conosciute, conviene richiamare all’attenzione a proposito del nostro argomento. Forse è anche utile aggiungere che sulla medesima linea si è espresso recentemente Papa

Francesco, alla fine di gennaio scorso, nel suo incontro annuale con la CDF, dicastero autore del documento a cui ci siamo riferiti, quando ha ricordato l’«ordinata pluriformità che connota ogni tessuto ecclesiale». Parlava in quell’occasione della complementarietà nella vita ecclesiale tra doni gerarchici e carismatici, che è certamente qualcosa di diverso, ma penso che il discorso valga ugualmente, e forse a maggior ragione, tra universale e particolare, tra unità e varietà, in ambito liturgico:

«La logica dell’unità nella legittima differenza caratterizza ogni autentica forma di comunione nel

Popolo di Dio. (…) Unità e pluriformità sono il sigillo di una Chiesa che, mossa dallo Spirito, sa incamminarsi con passo sicuro e fedele verso quelle mete che il Signore Risorto le indica nel corso della storia. Qui si vede bene come la dinamica sinodale, se rettamente intesa, nasca dalla comunione e conduca verso una comunione sempre più attuata, approfondita e dilatata, al servizio della vita e della missione del Popolo di Dio»26.

23 E questo vale anche, in una prospettiva ecumenica, nei confronti delle Chiese orientali ortodosse, come la CDF rileva nel suo documento, seguendo l’ultimo Concilio: «per quanto separate dalla Sede di Pietro, esse restano unite alla Chiesa Cattolica per mezzo di strettissimi vincoli, quali la successione apostolica e l’Eucaristia valida, e meritano perciò il titolo di Chiese particolari (cfr. UR, nn. 14 e 15 § 3). Infatti, “con la celebrazione dell’Eucaristia del Signore in queste singole Chiese, la Chiesa di Dio è edificata e cresce” (UR, n. 15 § 1), poiché in ogni valida celebrazione dell’Eucaristia si fa veramente presente la Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica (cfr. supra, nn. 5 e 14)» (CN, n. 17). Vedi anche supra, nota 18. 24 Cfr. Méditation sur l'Église, Paris 1953, 135-136. L’espressione «l’Eucaristia fa la Chiesa» è stata accolta in CCE, n. 1396. Sull’Eucaristia principio causale della Chiesa, cfr. SaCa, n. 14. 25 Qui non si parla, infatti, della liturgia celebrata, bensì della diversità di tradizioni liturgiche e, dunque, di liturgia regolata o, con altre parole, di normativa liturgica. 26 Discorso ai partecipanti alla Plenaria della Congregazione per la Dottrina della Fede, 29 gennaio 2016, in w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2016/january/documents/papa-francesco_20160129_plenaria-dottrina-fede.html.

Page 8: XX CONVEGNO DI STUDI ACOLTÀ DI IRITTO … mesi fa, ad un incontro internazionale di teologia: «Non esiste una Chiesa particolare isolata, che possa dirsi sola, come se pretendesse

TESTO PROVVISORIO

8

Passiamo dunque all’esame della polarità universale-particolare nelle indicazioni conciliari sulla liturgia.

2. Universale e particolare nella Costituzione conciliare sulla liturgia Probabilmente non c’è bisogno, a questo punto, di dire che «la logica dell’unità nella legittima

differenza», richiamata da Francesco, è la stessa che è stata proclamata a più riprese dal Concilio Vaticano II in diversi documenti27. Per quanto riguarda la liturgia, questa logica è stata confermata con particolare chiarezza dalla SC, quando ha indicato la fede e il bene comune generale come unici limiti che possono giustificare l’uniformità liturgica:

«La Chiesa, quando non è in questione la fede o il bene comune generale, non intende imporre,

neppure nella liturgia, una rigida uniformità; rispetta anzi e favorisce le qualità e le doti di animo delle varie razze e dei vari popoli. Tutto ciò poi che nel costume dei popoli non è indissolubilmente legato a superstizioni o ad errori, essa lo considera con benevolenza e, se possibile, lo conserva inalterato, e a volte lo ammette perfino nella liturgia, purché possa armonizzarsi con il vero e autentico spirito liturgico» (SC, n. 37)28. Si tratta di un principio in armonia con la più genuina tradizione della liturgia romana29,

applicabile, ovviamente, all’inculturazione, ma anche, alla polarità tra universale e particolare nella normativa liturgica, che reclama un’adeguata articolazione che renda effettivamente operativa la pluralità nell’unità. È significativo, infatti, che nei due numeri immediatamente successivi della SC siano contenute due precise indicazioni pratiche, indirizzate all’autorità universale e alla competente autorità particolare, sull’importanza di tenere presente il principio della varietà nell’unità nella revisione dei libri liturgici:

«Salva la sostanziale unità del rito romano, anche nella revisione dei libri liturgici si lasci posto alle

legittime diversità e ai legittimi adattamenti ai vari gruppi etnici, regioni, popoli, soprattutto nelle

27 Cfr., a titolo di esempio, LG, nn. 13, 22-23; AG, n. 6; OE, n. 2, UR, nn. 4, 14, 16. 28 Va ricordato che nella commissione conciliare sulla sacra liturgia «si affermava che in materia di fede deve essere mantenuta un’assoluta unità, mentre per quanto riguarda il bene comune è sufficiente un’unità relativa» (A. D’AURIA, Inculturazione e liturgia, in AA.VV., Diritto e Liturgia, cit., 77-110 [87]; cfr. A. CHUPUNGCO, Adattamento, in AA.VV., Nuovo Dizionario di Liturgia, a cura di D. Sartore e A.M. Triacca, Cinisello Balsamo 1990, 1-15). A proposito del significato dell’espressione «vero e autentico spirito liturgico», che chiude SC, n. 37, affermava san Giovanni Paolo II: «Questo “spirito” non deriva dalle forme esteriori che provengono, in gran parte, dalle culture in cui il Cristianesimo si è diffuso, ma sottostà ad esse come ciò che conferisce loro l’essere, come strumento e manifestazione esteriore di convergenza dell’azione di Cristo e della sua Chiesa a livello di grazia invisibile. (…) Se la Liturgia non portasse i fedeli a manifestare con la vita il mistero salvifico di Cristo, Dio e Uomo, e la genuina natura della vera Chiesa, dove ciò che è “umano” è “ordinato e subordinato al divino, il visibile all’invisibile, l’azione alla contemplazione, la realtà presente alla città futura verso la quale siamo incamminati” (SC, n. 2), non si potrebbe parlare dell’applicazione del “vero e autentico spirito della Liturgia”» (Discorso ai Presuli della Regione Nordest III della Conferenza Episcopale del Brasile in visita ad Limina Apostolorum, 29 settembre 1995, n. 6, in AAS 88, 1996, 550-559). 29 Si deve infatti rilevare che la logica della varietà rituale nell’unità della fede ha guidato la normativa liturgica della Chiesa romana fino al Concilio di Trento. Così lo manifesta, in modo paradigmatico, la famosa risposta di san Gregorio Magno a sant’Agostino di Canterbury: «Interrogatio Augustini. Cum una sit fides, sunt Ecclesiarum diversae consuetudines, et altera consuetudo missarum in sancta Romana Ecclesia, atque altera in Galliarum tenetur? Respondit Gregorius papa. Novit fraternitas tua Romanae Ecclesiae consuetudinem, in qua se meminit nutritam. Sed mihi placet, sive in Romana, sive in Galliarum, seu in qualibet Ecclesia, aliquid invenisti quod plus omnipotenti Deo possit placere, sollicite eligas, et in Anglorum Ecclesia, quae adhuc ad fidem nova est, institutione praecipua, quae de multis Ecclesiis colligere potuisti, infundas. Non enim pro locis res, sed pro bonis rebus loca amanda sunt. Ex singulis ergo quibusque Ecclesiis, quae pia, quae religiosa, quae recta sunt elige, et haec quasi infasciculum collecta, apud Anglorum mentes in consuetudinem depone» (BEDA VENERABILIS, Historia ecclesiastica gentis Anglorum, 1, 27, in PL 95, 58-59).

Page 9: XX CONVEGNO DI STUDI ACOLTÀ DI IRITTO … mesi fa, ad un incontro internazionale di teologia: «Non esiste una Chiesa particolare isolata, che possa dirsi sola, come se pretendesse

TESTO PROVVISORIO

9

Missioni; e sarà bene tener opportunamente presente questo principio nella struttura dei riti e nell’ordinamento delle rubriche» (SC, n. 38)30.

«Entro i limiti stabiliti nelle edizioni tipiche dei libri liturgici, spetterà alla competente autorità

ecclesiastica territoriale, di cui all’art. 22 § 2, determinare gli adattamenti, specialmente riguardo all’amministrazione dei Sacramenti, ai Sacramentali, alle processioni, alla lingua liturgica, alla musica sacra e alle arti, sempre però secondo le norme fondamentali contenute nella presente Costituzione» (SC, n. 39)31. La prima è, infatti, una precisa indicazione del Concilio indirizzata all’autorità universale perché

nella riforma dei libri liturgici «si lasci posto alle legittime diversità e ai legittimi adattamenti» e si tenga «opportunamente presente questo principio nella struttura dei riti e nell’ordinamento delle rubriche». La seconda è un’indicazione rivolta, invece, alla competente autorità particolare, alla quale spetterà «determinare gli adattamenti» negli ambiti indicati, «sempre però secondo le norme fondamentali contenute» nella SC e «entro i limiti stabiliti nelle edizioni tipiche dei libri liturgici».

Oltre a queste indicazioni riguardanti il principio della varietà nell’unità – o dell’unità dei particolari nell’universale – nella revisione dei libri liturgici, la SC contiene anche delle indicazioni normative sulle autorità competenti in materia liturgica che, per quanto conosciute, è indispensabile considerare in questa sede, anche perché hanno segnato un cambiamento epocale nei confronti del modus operandi dei secoli immediatamente precedenti. Come è noto, il Concilio di Trento, allo scopo di tutelare l’unità della Chiesa di fronte alle esigenze del momento, aveva accentrato nella Sede Apostolica tutte le competenze normative in materia liturgica32. Il Concilio Vaticano II ha promosso, invece, una diversificazione delle fonti normative e, sebbene abbia comunque riaffermato il ruolo primario esercitato dalla Sede Apostolica sin dai primi secoli33, ha anche riconosciuto un ruolo, seppure limitato e subordinato, anche al Vescovo e alle Conferenze Episcopali, nella regolamentazione della liturgia:

«§ 1. Regolare la sacra Liturgia compete unicamente all’autorità della Chiesa, la quale risiede nella

Sede Apostolica e, a norma del diritto, nel Vescovo. § 2. In base ai poteri concessi dal diritto, regolare la Liturgia spetta, entro limiti determinati, anche alle

competenti assemblee episcopali territoriali di vario genere legittimamente costituite. § 3. Di conseguenza assolutamente nessun altro, anche se sacerdote, osi, di sua iniziativa, aggiungere,

togliere o mutare alcunché in materia liturgica» (SC, n. 22)34.

30 Circa la portata dell’espressione «salva la sostanziale unità del rito romano», che apre SC, n. 38, san Giovanni Paolo II affermava: «Come nell’ambito di una Chiesa locale, oltre alle differenze esistenti nel popolo di Dio, tra i membri della gerarchia e i laici, tra i gruppi e le culture, è sempre la Liturgia che deve manifestare e unire una Chiesa locale (cfr. SC, n. 41), allo stesso modo, e a maggior ragione, le Chiese nate dalla trasmissione apostolica della tradizione romana, nonostante la varietà di lingue e di culture, è nella Liturgia che devono sentirsi e incontrarsi unite. Il bisogno o l’esigenza di unità, che è una delle caratteristiche della Chiesa, deve continuare a essere ancora più presente oggi, nell’ambito del Rito romano, per sostenere l’intera vita della Chiesa e il suo rapporto con il mondo da evangelizzare» (Discorso ai Presuli della Regione Nordest III della Conferenza Episcopale del Brasile in visita ad Limina Apostolorum, cit., n. 7). 31 Tutti e tre i nn. 37-39 appartengono alla sottosezione D) Normae ad aptationem ingenio et traditionibus populorum perficiendam, della sezione III. De sacrae Liturgiae instauratione, del capitolo I. De principiis generalibus ad sacram Liturgiam instaurandam atque fovendam, della Costituzione conciliare. 32 Cfr. H. JEDIN, Concilio tridentino e riforma dei libri liturgici, in IDEM, Chiesa della fede, Chiesa della storia. Saggi scelti, a cura di G. Alberigo, Brescia 1972, 391-425. Tale competenza esclusiva è stata formulata nel can. 1257 CIC di 1917 nei seguenti termini: «Unius Apostolicae Sedis est tum sacram ordinare liturgiam tum liturgicos approbare libros». 33 Cfr. le monografie di I. GORDON, Liturgia et potestas in re liturgica, Roma 1966 e L. PIZZI, Unificazione della liturgia in occidente: frutto della azione del papato? Interventi epistolari papali da Aniceto (c. 155) a Pio V (1570), Thesis ad Lauream, Pontificio Istituto Liturgico Sant’Anselmo, Roma 1988. 34 Come è noto, le «competenti assemblee episcopali territoriali di vario genere legittimamente costituite» indicate nel § 2, non sono altre che le Conferenze Episcopali di cui si sarebbe poi occupato il Concilio (cfr. CD, nn. 37-38).

Page 10: XX CONVEGNO DI STUDI ACOLTÀ DI IRITTO … mesi fa, ad un incontro internazionale di teologia: «Non esiste una Chiesa particolare isolata, che possa dirsi sola, come se pretendesse

TESTO PROVVISORIO

10

Da un lato, si dichiara in modo tassativo che la regolamentazione della liturgia («sacrae Liturgiae moderatio») compete in modo esclusivo all’autorità della Chiesa («ab Ecclesiae auctoritate unice pendet»). Dall’altro, si cerca di rendere in qualche modo operativa la polarità universale-particolare, attribuendo un certo protagonismo nella normativa liturgica all’istanza particolare – il Vescovo, ad normam iuris, e le Conferenze Episcopali, «ex potestate a iure concessa» e «inter limites statutos» –, che era stata completamente offuscata nei secoli precedenti, ma mantenendo comunque la prevalenza dell’istanza universale – la Sede Apostolica –. Poi nel § 3 si afferma in modo perentorio che «assolutamente nessun altro», all’infuori dunque dei sacri Pastori, «anche se sacerdote», abbia l’ardire «di sua iniziativa» di cambiare «alcunché in materia liturgica»35.

Si tratta di indicazioni che sono state successivamente inserite, con piccole variazioni, nella rinnovata legislazione canonica, di cui si potrà forse discutere la giustezza; sostenendo, ad esempio, la convenienza di attribuire qualche competenza nella regolamentazione della liturgia anche ad altri soggetti – come, ad esempio, le Commissioni liturgiche, nazionali o diocesane, accennate in SC (cfr. nn. 44-45) –, oppure affermando l’opportunità di riconoscere maggiori margini di autonomia alle istanze particolari, non esigendo, ad esempio, la recognitio dei libri liturgici nelle lingue vernacole, stabilita in SC (cfr. n. 63, b). Tuttavia, il tenore delle disposizioni conciliari non lascia molti margini d’interpretazione sulla volontà dei Padri conciliari nell’indicare, come uniche istanze competenti in materia di regolamentazione liturgica, la Sede Apostolica e i Vescovi, nei modi da essa stabiliti36. Il che non vuol dire che non si possa fare altrimenti in futuro, cambiando opportunamente le regole, o che non sia stato fatto diversamente in passato, anche senza cambiarle, come è successo in non poche questioni liturgiche concrete, in cui le indicazioni conciliari sono state ampiamente superate, talvolta dalla prassi, talaltra dalla normativa liturgica postconciliare, talvolta in modo irregolare o, come si suol dire, «fuori dai canoni», almeno in un primo momento37, talaltra sin dall’inizio in modo pienamente legittimo o «secondo i canoni».

35 Ciò non toglie, ovviamente, che tutte le persone con le opportune competenze in materia – sacerdoti o no, uomini o donne – possano contribuire con i propri apporti, e debbano essere ascoltati dai Pastori, come la stessa Costituzione conciliare prescrive per la riforma dei libri liturgici: «I libri liturgici siano riveduti quanto prima, servendosi di periti e consultando Vescovi di diverse regioni dell’orbe» (SC, n. 24). 36 A questo riguardo si devono ricordare le cinque successive Istruzioni «per la retta Applicazione della Costituzione sulla sacra Liturgia del Concilio Vaticano II», emanate dalla Santa Sede dal 1964 al 2001, attraverso le quali la Sede Apostolica ha esercitato in modo effettivo la propria competenza, sottolineando al contempo la responsabilità e il ruolo centrale del Vescovo in materia liturgica, di fronte ad altre istanze, quali Commissioni o gruppi di esperti. Sul valore normativo dell’ultima di queste istruzioni (CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO E LA DISCIPLINA DEI SACRAMENTI [= CCDDS], Istruzione quinta «per la retta applicazione della Costituzione sulla Sacra Liturgia del Concilio Vaticano II» (ad Cost. art. 36) Liturgiam authenticam [= LA], 28 maggio 2001, in AAS 93, 2001, 685-726; in italiano in Enchiridion Vaticanum [EV] 20, 2001, nn. 363-533), cfr. A. MONTAN, Liturgiam authenticam: problemi giuridici relativi al tema delle traduzioni, in Rivista Liturgica 92, 2005, 211-223. In questi decenni, non sono mancate le critiche da parte degli esperti a tali istruzioni, specialmente a LA (vedi, ad esempio, le critiche ragionate di alcuni contributi dei fascicoli 1 e 2 del 2005 della Rivista Liturgica). Tuttavia, se ci è consentito di parafrasare Papa Francesco, che a proposito delle questioni secolari ha detto che i laici non hanno bisogno del Vescovo-pilota o del monsignore-pilota, forse si dovrebbe dire che, nelle questioni liturgiche, la Sede Apostolica e i Vescovi non hanno bisogno del “teologo o canonista (sacerdote o laico)-pilota”. A questo proposito è utile riportare l’affermazione del Cardinale Ratzinger circa il ruolo dei Vescovi e degli esperti in materia liturgica: «Nella riforma liturgica non deve spettare agli esperti l’ultima parola. Esperti e pastori hanno ciascuno il proprio ruolo (così come, in politica, i tecnici e coloro che sono chiamati a decidere rappresentano due livelli diversi). Le conoscenze degli studiosi sono importanti, ma non possono essere immediatamente trasformate in decisioni dei pastori, i quali hanno la responsabilità di ascoltare i fedeli nell’attuare con intelligenza assieme a loro ciò che oggi aiuta a celebrare i sacramenti con fede oppure no. Una delle debolezze della prima fase della riforma dopo il Concilio fu che quasi soltanto gli esperti avevano voce in capitolo. Sarebbe stata auspicabile una maggiore autonomia da parte dei pastori» (Recensione alla monografia di A. REID, The Organic Development of the Liturgy, London 2004. Originale tedesco in Forum Katholische Theologie 21, 2005, 36-39; in italiano nel mensile 30 giorni, dicembre 2004, 72-75, con traduzione di L. Cappelletti e S. Kritzenberger). 37 Forse l’esempio paradigmatico di questo genere è l’introduzione in modo irregolare della distribuzione della Comunione eucaristica sulla mano, diventata poi regolare attraverso l’approvazione delle autorità competenti. Cfr. A. BUGNINI, La riforma liturgica (1948-1975), Roma 19972, 621-641.

Page 11: XX CONVEGNO DI STUDI ACOLTÀ DI IRITTO … mesi fa, ad un incontro internazionale di teologia: «Non esiste una Chiesa particolare isolata, che possa dirsi sola, come se pretendesse

TESTO PROVVISORIO

11

Quest’ultimo è il caso delle indicazioni conciliari sull’uso delle lingue vernacole nel Rito latino38. Anche se è utile osservare che, ancor prima della riforma, in alcune regioni era stata concessa tale possibilità39, è chiaro che il Concilio, con la sua decisione di dare ampio spazio, accanto al latino, in modo ordinario e abituale e non solo in via eccezionale, alle lingue vernacole, ha operato un cambiamento, anche in questo caso epocale, che è opportuno evidenziare a proposito del nostro argomento di studio, anche perché è stata proprio questa possibilità, stabilita dal Concilio, che ha condotto alla pubblicazione, accanto ai libri liturgici in latino, dei libri liturgici nelle lingue vernacole, che è l’ambito dove maggiormente si manifesta attualmente l’intreccio tra universale e particolare nella normativa liturgica40. Il Concilio aveva infatti stabilito:

«§ 1. L’uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei Riti latini. § 2. Dato però che, sia nella Messa che nell’amministrazione dei Sacramenti, sia in altre parti della

Liturgia, non di rado l’uso della lingua vernacola può riuscire di grande utilità per il popolo, si conceda ad essa una parte più ampia, specialmente nelle letture e nelle ammonizioni, in alcune preghiere e canti, secondo le norme fissate per i singoli casi nei capitoli seguenti.

§ 3. In base a queste norme, spetta alla competente autorità ecclesiastica territoriale, di cui all’art. 22 § 2 – consultati anche, se è il caso, i Vescovi delle regioni limitrofe della stessa lingua – decidere circa l’ammissione e l’estensione della lingua vernacola. Tali decisioni devono essere approvate ossia confermate dalla Sede Apostolica.

§ 4. La traduzione del testo latino in lingua vernacola da usarsi nella Liturgia deve essere approvata dalla competente autorità ecclesiastica territoriale di cui sopra» (SC, n. 36). Sono disposizioni, come si vede, di carattere eminentemente pratico in cui si cercava di rendere

operativa la varietà nell’unità, anche attraverso la coesistenza del latino e delle lingue vernacole41. Se, da un lato, si stabiliva, a favore dell’unità, che nei Riti latini fosse conservato l’uso della lingua latina; dall’altro, si concedeva, in favore della varietà e per una maggiore utilità dei fedeli, l’uso delle lingue moderne, se così fosse stato stabilito dall’autorità territoriale, ma sempre con la approvazione della Sede Apostolica. La stessa logica seguivano le indicazioni specifiche sull’uso della lingua vernacola nella celebrazione eucaristica e nell’amministrazione dei sacramenti e dei sacramentali:

«Nelle Messe celebrate con partecipazione di popolo si possa concedere una congrua parte alla lingua

vernacola, specialmente nelle letture e nell’“orazione comune” e, secondo le condizioni dei vari luoghi, anche nelle parti spettanti al popolo, a norma dell’art. 36 di questa Costituzione.

38 Per una visione panoramica dell’applicazione della SC, anche in merito all’uso delle lingue vernacole, cfr. H. HOPING, The Constitution Sacrosanctum Concilium and the Liturgical Reform, in Annuarium Historiae Conciliorum 42, 2010, 297-316. Per una descrizione specifica dello sviluppo dell’uso delle lingue vernacole nel Rito romano, cfr. A. WARD, «Sacrosanctum Concilium» at the Fulcrum of Developing Experience on the Vernacular, in Ephemerides Liturgicae 118, 2004, 63-108. Cfr. anche N. GIAMPIETRO, A cinquant’anni dall’Istruzione «Inter Oecumenici», in Ephemerides Liturgicae 129, 2015, 300-313, dove l’Autore si sofferma su alcuni interventi del beato Paolo VI sull’ingresso delle lingue vernacole nel Rito latino. 39 È stato opportunamente ricordato che «neppure la rigida uniformità dei libri liturgici post-tridentini misconobbe completamente l’istanza dell’adattamento. Circa la lingua, ad esempio, fu concesso, nel 1920, di usare il paleoslavo in certi riti e feste a regioni della Ceco-Slovacchia; quindi l’edizione di Rituali bilingui per Monaco nel 1929, per Vienna nel 1935, per la Francia nel 1947, estesi poi a diocesi di lingua francese in Belgio, Svizzera, Italia (Aosta) e Canada; il Rituale latino-bretone nel 1949; la Collectio rituum per le diocesi tedesche nel 1950; in linea di principio, nel 1949, la facoltà di tradurre in cinese l’Ordo Missæ, ad eccezione del Canone; infine nel 1947, il Manuale parvum latino-francese-tedesco (edito nel 1951) per le diocesi di Strasburgo e Metz, città in cui coesistevano lingue differenti» (C. MAGGIONI, Gli adattamenti previsti nei libri liturgici: significato, valori e problematiche, cit., 855). 40 Cfr. M. DEL POZZO, La giustizia nel culto. Profili giuridici della liturgia della Chiesa, cit., 445. 41 Un proposito simile si trova nelle disposizioni riguardanti in modo specifico l’inculturazione – o “adattamento più profondo” (cfr. SC, n. 40) –, che tralasciamo per essere oggetto di un’altra relazione. Cfr. CCDDS, Istruzione quarta «per la retta applicazione della Costituzione sulla Sacra Liturgia del Concilio Vaticano II» (ad Cost. art. 36) Varietates legitimae [= VL], 25 gennaio 1994, in AAS 87, 1995, 288-314; in italiano in EV 14, 1994-1995, nn. 66-157.

Page 12: XX CONVEGNO DI STUDI ACOLTÀ DI IRITTO … mesi fa, ad un incontro internazionale di teologia: «Non esiste una Chiesa particolare isolata, che possa dirsi sola, come se pretendesse

TESTO PROVVISORIO

12

Si abbia cura però che i fedeli sappiano recitare e cantare insieme, anche in lingua latina, le parti dell’Ordinario della Messa che spettano ad essi.

Se poi in qualche luogo sembrasse opportuno un uso più ampio della lingua vernacola nella Messa, si osservi quanto prescrive l’art. 40 di questa Costituzione» (SC, n. 54).

«Non di rado nell’amministrazione dei Sacramenti e dei Sacramentali può essere molto utile per il

popolo l’uso della lingua vernacola; le sia data quindi una parte maggiore secondo le norme che seguono: a) Nell’amministrazione dei Sacramenti e dei Sacramentali si può usare la lingua vernacola a norma

dell’art. 36. b) Sulla base della nuova edizione del Rituale romano la competente autorità ecclesiastica territoriale,

di cui all’art. 22 § 2 di questa Costituzione, prepari al più presto i Rituali particolari adattati alle necessità delle singole regioni, anche per quanto riguarda la lingua; questi Rituali saranno usati nelle rispettive regioni dopo la ricognizione da parte della Sede Apostolica. Nel comporre i Rituali particolari o speciali Collezioni di riti non si omettano le istruzioni poste all’inizio dei singoli riti nel Rituale romano, sia quelle pastorali e rubricali, sia quelle che hanno una speciale importanza sociale» (SC, n. 63)42. Non riferite principalmente alla lingua, ma di speciale rilievo a proposito della polarità

universale-particolare, sono le indicazioni sugli adattamenti nel rito del matrimonio:

«(…) “Se nella celebrazione del Sacramento del Matrimonio qualche regione usa altre consuetudini e cerimonie degne di essere approvate, il Santo Sinodo desidera vivamente che queste vengano senz’altro conservate” (Concilio di Trento, Sessio XXIV, 11 novembre 1568, De reformatione, cap. 1).

Inoltre alla competente autorità ecclesiastica territoriale, di cui all’art. 22 § 2 di questa Costituzione, viene lasciata facoltà di preparare, a norma dell’articolo 63, un rito proprio che risponda agli usi dei luoghi e dei popoli, fermo però restando l’obbligo che il sacerdote che assiste chieda e riceva il consenso dei contraenti» (SC, n. 77)43. In tutte queste indicazioni è possibile apprezzare l’intento d’integrare il particolare

nell’universale, evidenziato soprattutto nella decisione di concedere ampio spazio alle lingue moderne, senza però abbandonare completamente il latino. Tuttavia, come è ben noto, nell’evoluzione postconciliare l’apprezzamento generalizzato da parte di pastori e fedeli per la decisione di ammettere le lingue vernacole nella liturgia «ha portato sotto la guida dei Vescovi e della stessa Sede Apostolica alla concessione che tutte le celebrazioni liturgiche con partecipazione di popolo si possano fare in lingua viva» (IGMR, n. 12)44. Una evoluzione compiutasi – come dicevo – in modo regolare o «secondo i canoni», anche se in molti paesi, forse in modo esagerato, si

42 È utile sottolineare, come criterio pratico per tutelare l’unità nella varietà nella composizione dei libri liturgici particolari, l’indicazione che non si omettano le istruzioni o praenotanda presenti nei singoli riti del Rituale romano. Col senno di poi, probabilmente il punto più debole di questo numero è l’indicazione “al più presto”; una fretta che ha portato poi alla convenienza di rivedere le traduzioni, fatte sicuramente con competenza e con la migliore volontà e approvate regolarmente dalla Sede Apostolica, ma rivelatesi inadeguate dopo non molto tempo. 43 Anche se questo numero riguarda più direttamente il ruolo delle consuetudini locali, sembra opportuno rilevare, a dispetto della visione corrente sulle “rigidità tridentine”, il vivo desiderio del Concilio di Trento che non solo le consuetudini, ma anche le «cerimonie [locali] degne di essere approvate» venissero «senz’altro conservate». A proposito dell’uso delle lingue vernacole nel rito del matrimonio il Concilio Vaticano II stabiliva: «La benedizione della sposa, opportunamente ritoccata così da inculcare ad entrambi gli sposi lo stesso dovere della fedeltà vicendevole, può essere detta nella lingua vernacola» (SC, n. 78). 44 È utile riportare l’intero numero – già presente nella seconda edizione dell’IGMR del 1975 – con una spiegazione sintetica di quest’evoluzione: «Convocato perché la Chiesa adattasse ai nostri tempi i compiti della sua missione apostolica, il Concilio Vaticano II ha, come quello di Trento, esaminato profondamente la natura didattica e pastorale della Liturgia (SC, n. 33). E poiché non v’è ormai nessun cattolico che neghi la legittimità e l’efficacia del rito compiuto in lingua latina, il Concilio ha ammesso senza difficoltà che “l’uso della lingua parlata può riuscire spesso di grande utilità per il popolo” e l’ha quindi autorizzata (SC, n. 36). L’entusiasmo con cui questa decisione è stata dovunque accolta, ha portato, sotto la guida dei Vescovi e della stessa Sede Apostolica, alla concessione che tutte le celebrazioni liturgiche con partecipazione di popolo si possono fare in lingua viva, per rendere più facile la piena intelligenza del mistero celebrato» (IGMR, n. 12).

Page 13: XX CONVEGNO DI STUDI ACOLTÀ DI IRITTO … mesi fa, ad un incontro internazionale di teologia: «Non esiste una Chiesa particolare isolata, che possa dirsi sola, come se pretendesse

TESTO PROVVISORIO

13

è arrivato al quasi completo abbandono del latino, privilegiando, almeno per quanto riguarda la lingua, la dimensione particolare su quella universale45.

All’abbandono dell’uso del latino, si è aggiunta poi la questione della qualità o idoneità di alcune traduzioni nelle lingue moderne e il mandato di rivedere le traduzioni dei libri liturgici, stabilito nel 2001 dalla Sede Apostolica (cfr. LA, nn. 131-133). Un argomento complesso e articolato, in cui non sono mancate le polemiche46, e sul quale ritorneremo più avanti. Ma prima esaminiamo, seppure brevemente e nelle sue linee generali, l’intreccio tra universale e particolare nelle disposizioni canoniche sulla liturgia.

3. Universale e particolare nelle disposizioni canoniche in materia liturgica Lo stesso sforzo di integrare il particolare nell’universale è presente nelle norme generali

riguardanti la liturgia del CIC, che ha recepito con poche variazioni le indicazioni conciliari circa la revisione dei libri liturgici, le autorità competenti in materia e la lingua da usarsi nella liturgia latina (cfr. SC. nn. 22 §§ 1-2, e 38-39). Concretamente si stabilisce:

«§ 1. Regolare la sacra liturgia dipende unicamente dall’autorità della Chiesa: ciò compete

propriamente alla Sede Apostolica e, a norma del diritto, al Vescovo diocesano. § 2. È di competenza della Sede Apostolica ordinare la sacra liturgia della Chiesa universale,

pubblicare i libri liturgici e autorizzarne le versioni nelle lingue correnti, nonché vigilare perché le norme liturgiche siano osservate fedelmente ovunque.

§ 3. Spetta alle Conferenze Episcopali preparare le versioni dei libri liturgici nelle lingue correnti, dopo averle adattate convenientemente entro i limiti definiti negli stessi libri liturgici, e pubblicarle, previa autorizzazione della Santa Sede.

§ 4. Al Vescovo diocesano nella Chiesa a lui affidata spetta, entro i limiti della sua competenza, dare norme in materia liturgica, alle quali tutti sono tenuti» (can. 838 CIC)47. Da un lato, si precisa che la competenza per emanare norme in materia liturgica, accanto alla

Sede Apostolica ed entro i limiti stabiliti dal diritto, corrisponde non a qualunque Vescovo, ma unicamente «al Vescovo diocesano nella Chiesa a lui affidata». Dall’altro, si stabilisce la competenza esclusiva della Sede Apostolica per regolare la liturgia della Chiesa universale, per pubblicare il libri liturgici in lingua latina e per autorizzare le versioni e la pubblicazione dei libri

45 Anche se il passaggio praticamente totale dal latino alle lingue moderne sia stato legittimamente stabilito dalle Conferenze Episcopali, con la recognitio della Sede Apostolica, e sia sicuramente da condividere, per tanti motivi, non sembra tuttavia logico che si escluda, in linea di principio o nella prassi, un uso misurato del latino, perlomeno nelle parti invariabili della Messa, e, soprattutto, nelle celebrazioni con sacerdoti e fedeli di paesi diversi, come segno di unità e di cattolicità. In questo senso, forse andrebbe aggiornato il testo appena riportato di IGMR, n. 12, il quale parla di “concessione” dell’uso della lingua viva, mentre attualmente sarebbe l’uso del latino ad avere quasi bisogno di essere concesso. Per quanto riguarda poi l’affermazione «non v’è ormai nessun cattolico che neghi la legittimità e l’efficacia del rito compiuto in lingua latina», forse vera nel 1975, non appare molto aderente alla situazione attuale, in cui l’uso del latino è considerato quasi fosse una caratteristica esclusiva del “rito antico” (vedi infra, nota 50), o, secondo alcuni, uno strumento per l’autoreferenzialità. 46 Vedi supra, nota 36. 47 Come è noto, col nome di Sede Apostolica si intende «non solo il Romano Pontefice, ma anche, se non risulta diversamente dalla natura della questione o dal contesto» i Dicasteri della Curia Romana (cfr. can. 361 CIC). Nella regolamentazione della liturgia esercita le funzioni della Sede Apostolica la CCDDS, salva la competenza della CDF nelle questioni che riguardano la fede e nei delitti più gravi commessi nella celebrazione dei sacramenti (cfr. GIOVANNI PAOLO II, Costituzione Apostolica sulla Curia Romana Pastor bonus, 28 giugno 1988, art. 62, in AAS 80, 1988, 841-912), e salva la competenza della Pontificia Commissione Ecclesia Dei, strettamente collegata alla CDF, circa la forma straordinaria del Rito romano (cfr. BENEDETTO XVI, Lettera Apostolica in forma di Motu Proprio sull’uso straordinario della forma antica del Rito Romano Summorum Pontificum [= SP], 7 luglio 2007, artt. 11-12, in AAS 99, 2007, 777-781).

Page 14: XX CONVEGNO DI STUDI ACOLTÀ DI IRITTO … mesi fa, ad un incontro internazionale di teologia: «Non esiste una Chiesa particolare isolata, che possa dirsi sola, come se pretendesse

TESTO PROVVISORIO

14

liturgici nelle lingue correnti, dopo che sono stati preparati e opportunamente adattati «entro i limiti definiti negli stessi libri liturgici» dalle Conferenze Episcopali48.

In un canone diverso viene poi recepita l’indicazione di SC, n. 22 § 3, ma solo riferita alla celebrazione dei sacramenti:

«Nella celebrazione dei sacramenti, si seguano fedelmente i libri liturgici approvati dalla

competente autorità; perciò nessuno aggiunga, tolga o muti alcunché di sua iniziativa» (can. 846 § 1 CIC)49.

Per quanto riguarda la lingua, l’unico riferimento del CIC all’uso della lingua latina o della

lingua vernacola, è quanto mai aperto e solo nei confronti della celebrazione eucaristica:

«La celebrazione eucaristica venga compiuta in lingua latina o in altra lingua, purché i testi liturgici siano stati legittimamente approvati» (can. 928 CIC)50.

Per quanto concerne poi le materie concrete sulle quali il Vescovo diocesano, secondo le

indicazioni conciliari e il can. 838 CIC, può stabilire norme liturgiche particolari, ci limitiamo a rimandare, come utile punto di riferimento, al capitolo dedicato al munus sanctificandi del Vescovo diocesano del Direttorio per il ministero pastorale dei Vescovi51. e alla parte dell’Istruzione Redemptionis Sacramentum dedicata al ruolo del Vescovo diocesano nella regolamentazione della liturgia in generale52. In questi documenti si ricorda, tra l’altro, che il Vescovo diocesano «deve regolare la disciplina sui sacramenti secondo le norme stabilite dalla competente autorità della Chiesa» e che deve dedicarsi «in particolare a istruire i fedeli, perché comprendano il significato di ogni sacramento e lo “vivano” in tutto il suo valore personale e comunitario» (AS, n. 150). In effetti, in quanto «grande sacerdote del suo gregge», il Vescovo è il «moderatore della vita liturgica diocesana» e il principale «responsabile del culto divino nella Chiesa particolare», al quale compete, non solo «regolare», ma anche – e direi soprattutto – «promuovere e custodire tutta la vita

48 Per una visione d’insieme, cfr. T. RINCÓN-PÉREZ, La liturgia e i sacramenti nel diritto della Chiesa, Roma 2014, 75-91; M. DEL POZZO, La giustizia nel culto. Profili giuridici della liturgia della Chiesa, cit., 431-447. 49 A proposito del valore normativo dei libri liturgici vanno comunque ricordati altri canoni riguardanti la celebrazione dei singoli sacramenti – battesimo (cfr. can. 850 CIC), confermazione (cfr. can. 880 § 1 CIC), Eucaristia (cfr. can. 941 § 1 CIC), unzione degli infermi (cfr. can. 998 CIC), ordine sacro (cfr. can. 1009 § 2 CIC), matrimonio (cfr. can. 1119 CIC) – dei sacramentali (cfr. can. 1167 CIC), della liturgia delle ore (cfr. 276 § 2,3° CIC), ecc. 50 Attualmente, dopo la promulgazione del SP, si è arrivati, nella mentalità comune, ad una quasi totale identificazione tra “Messa in latino” e Messa secondo il Missale Romanum del 1962, che forse sarebbe opportuno superare. Se la Messa secondo il Missale Romanum del 2002 può essere certamente celebrata in latino, non ci dovrebbero essere impedimenti, almeno teoricamente – se la Sede Apostolica e le Conferenze Episcopali lo volessero, in conformità a SC, nn. 36 § 2 e 54 –, perché fossero preparate versioni del Missale Romanum del 1962, in cui fosse concessa una congrua parte alla lingua vernacola. 51 Cfr. CONGREGAZIONE PER I VESCOVI, Direttorio per il ministero pastorale dei Vescovi Apostolorum Successores [= AS], 22 febbraio 2004, Città del Vaticano 2004. In esso (cfr. n. 145) sono elencate le seguenti materie: la partecipazione dei fedeli laici alla liturgia (cfr. can. 230 §§ 2-3 CIC); l’esposizione dell’Eucaristia da parte dei fedeli laici, quando il numero dei ministri sacri risulti insufficiente (cfr. can. 943 CIC); le processioni (cfr. can. 944 § 2 CIC); le celebrazioni domenicali della liturgia della Parola, quando manca il ministro sacro o vi sia un grave impedimento a partecipare alla celebrazione eucaristica (cfr. can. 1248 § 2 CIC); la possibilità per i sacerdoti di celebrare due messe al giorno per giusta causa o, se lo richiede la necessità pastorale, tre messe nelle domeniche e nelle feste di precetto (cfr. can. 905 § 2 CIC); rispetto alle indulgenze, il Vescovo ha il diritto di concedere indulgenze parziali ai suoi fedeli (cfr. can. 995 CIC). Per l’analisi della portata di ognuna di queste competenze si rimanda ai commenti ai rispettivi canoni: cfr., ad esempio, AA.VV., Comentario exegético al Código de Derecho Canónico, a cura di A. Marzoa, J. Miras e R. Rodríguez-Ocaña, Pamplona 20023; in inglese AA.VV., Exegetical Commentary on the Code of Canon Law, Montreal-Chicago 2004. Cfr. anche F. COCCOPALMERIO, L’autorità del Vescovo diocesano in materia liturgica, in Rivista Liturgica 98, 2011, 848-854. 52 Cfr. CCDDS, Istruzione su alcune cose che si devono osservare ed evitare circa la Santissima Eucaristia Redemptionis Sacramentum [= RS], 25 marzo 2004, nn. 19-25, in AAS 96, 2004, 549-601.

Page 15: XX CONVEGNO DI STUDI ACOLTÀ DI IRITTO … mesi fa, ad un incontro internazionale di teologia: «Non esiste una Chiesa particolare isolata, che possa dirsi sola, come se pretendesse

TESTO PROVVISORIO

15

liturgica della diocesi» (AS, n. 145)53. A questo proposito, viene sottolineato il compito di vigilanza proprio del Vescovo:

«Dovrà perciò vigilare perché le norme stabilite dalla legittima autorità siano attentamente

osservate e in particolare ciascuno, tanto i ministri come i fedeli, svolga l’incarico che gli spetta e non altro, senza mai introdurre cambiamenti nei riti sacramentali o nelle celebrazioni liturgiche secondo preferenze o sensibilità personali (cfr. SC, n. 28; CIC, can. 838; CCE, n. 1125)» (AS, n. 145)54.

Una vigilanza che riguarda, come si vede, la normativa liturgica universale e particolare e che

va intesa, ovviamente, non in un senso meramente negativo, di evitare eventuali irregolarità, ma anzitutto, in un senso positivo, di promozione del culto e di una migliore partecipazione dei fedeli (cfr. AS, n. 146)55. A proposito poi del ruolo delle commissioni liturgiche, nazionali e diocesane, nella formazione liturgica dei pastori e dei fedeli56, sono significative alcune indicazioni in cui si percepisce la preoccupazione della Sede Apostolica perché il Vescovo diocesano si faccia aiutare dagli esperti57 , senza rinunciare però alla propria responsabilità e all’esercizio della propria autorità58.

In effetti, non solo quando emana norme, ma anche quando esercita le funzioni d’istruzione, di promozione e di vigilanza in ambito liturgico, il Vescovo manifesta la sua condizione di Pastore della Chiesa diocesana e, quale membro del Collegio Episcopale, anche della Chiesa universale (cfr. cann. 336, 375, 392 CIC). «Cum Petro et sub Petro», il Vescovo è partecipe della «sollecitudo omnium ecclesiarum» e responsabile, della vita liturgica sia della Chiesa particolare sia della Chiesa universale 59 . Con un occhio di riguardo a questa duplice responsabilità vanno, quindi, concretamente esercitati i vari compiti di vigilanza in materia di sacramenti e sacramentali,

53 Cfr. anche RS, n. 19. Come ha dichiarato l’ultimo Concilio, i Vescovi «sono i principali dispensatori dei misteri di Dio e nello stesso tempo organizzatori, promotori e custodi della vita liturgica nella Chiesa loro affidata» (CD, n. 15). 54 Il corsivo è dell’originale. 55 In questo contesto è particolarmente interessante per il nostro argomento la raccomandazione di RS: «Il Vescovo vigili sempre che non venga meno quella libertà, che è prevista dalle norme dei libri liturgici, di adattare, in modo intelligente, la celebrazione sia all’edificio sacro sia al gruppo dei fedeli sia alle circostanze pastorali, cosicché l’intero rito sacro sia effettivamente rispondente alla sensibilità delle persone» (n. 21). 56 A proposito della necessità di una adeguata formazione liturgica e spirituale che favorisca la partecipazione dei fedeli e la loro comprensione dei misteri celebrati, anche dopo l’introduzione della lingua vernacola, e circa il ruolo che dovrebbero giocare in questo campo le commissioni di liturgia – create sulla spinta di SC (cfr. nn. 44-45) per promuovere la pastorale e l’apostolato liturgico – è utile richiamare le considerazioni dell’allora Prefetto della CDF: «Temo che i Padri conciliari in realtà abbiano sottovalutato questa complessità della “comprensibilità”, presupponendo ancora una comune coscienza cristiana che non c’è più. La liturgia stessa non può essere trasformata in lezione di religione, e non la si può salvare con la banalizzazione. Ci vuole una formazione liturgica o piuttosto, in generale, una formazione spirituale, e il grande compito delle Commissioni liturgiche e delle Conferenze episcopali dovrebbe essere proprio quello di trovare le strade e le forme per essa. Gran parte dei cristiani di oggi si trova de facto nello stato catecumenale, e noi dobbiamo prendere finalmente questo dato sul serio nella prassi» (J. RATZINGER, I 40 anni della Costituzione sulla Sacra Liturgia. Retrospettiva e prospettiva, in IDEM, Opera omnia, vol. XI, Teologia della liturgia. La fondazione sacramentale dell'esistenza cristiana, Città del Vaticano 2010, 769-787 [783]). 57 «Il Vescovo saprà valersi dell’aiuto di uffici o commissioni diocesane di liturgia, di musica sacra, di arte sacra, ecc., che offrano un prezioso sostegno per promuovere il culto divino, curare la formazione liturgica dei fedeli e fomentare nei pastori di anime un interesse prioritario per tutto ciò che riguarda la celebrazione dei divini misteri (cfr. SC, nn. 45-46)» (AS, n. 145). Il corsivo è dell’originale. 58 Su questo punto è interessante il richiamo della Sede Apostolica affinché queste commissioni agiscano «secondo il pensiero e le direttive del Vescovo» (RS, n. 25) e, dunque, non viceversa. Esse, infatti, «dovranno poter contare sulla sua autorità e sulla sua ratifica per svolgere convenientemente il proprio compito e perché sia mantenuto l’effettivo governo del Vescovo nella sua diocesi. Riguardo a tutti questi gruppi, agli altri istituti e a qualsiasi iniziativa in materia liturgica, i Vescovi si chiedano, come già da tempo risulta urgente, se sia stata finora fruttuosa la loro attività e valutino attentamente quali correttivi o miglioramenti vadano inseriti nella loro struttura e nella loro attività, affinché trovino nuovo vigore. Si tenga sempre presente che gli esperti vanno scelti tra coloro, la cui solidità nella fede cattolica e la cui preparazione in materia teologica e culturale siano riconosciute» (RS, n. 25). Vedi supra, note 36 e 56. 59 Cfr. i vari studi del volume AA.VV., Primato e collegialità. «Partecipi della sollecitudine per tutte le Chiese», a cura di R. La Delfa, Roma 2008.

Page 16: XX CONVEGNO DI STUDI ACOLTÀ DI IRITTO … mesi fa, ad un incontro internazionale di teologia: «Non esiste una Chiesa particolare isolata, che possa dirsi sola, come se pretendesse

TESTO PROVVISORIO

16

specificati in modo dettagliato in AS (cfr. n. 150), con espliciti e significativi riferimenti sia alla normativa universale sia a quella particolare. Sono tutti compiti che il Vescovo diocesano deve esercitare con responsabilità personale e in comunione sia con la Sede Apostolica sia con gli altri membri del Collegio Episcopale, in modo speciale, con gli altri membri della propria Conferenza Episcopale.

Anche su questo punto è utile rilevare quanto si afferma a proposito degli adattamenti in campo liturgico affidati alle Conferenze Episcopali:

«Ai Vescovi riuniti in Conferenza Episcopale compete adattare i libri liturgici all’indole e alle

tradizioni del popolo e alle particolari necessità del ministero pastorale, entro i margini stabiliti dai rituali stessi (cfr. can. 838 § 3 CIC).

In questo necessario quanto delicato compito, il Vescovo terrà presente che la inculturazione comporta la trasformazione degli autentici valori delle diverse culture mediante l’integrazione nel cristianesimo, e, pertanto, la purificazione di quegli elementi culturali che risultino incompatibili con la fede cattolica, in modo che la diversità non danneggi l’unità in una stessa fede e nei medesimi segni sacramentali (cfr. SC, nn. 37-40; Giovanni Paolo II, Redemptoris Missio, nn. 52-54.)» (AS, n. 148).

È significativa la presenza in entrambi i paragrafi di indicazioni indirizzate a tutelare sia la

varietà sia l’unità: si devono «adattare i libri liturgici all’indole e alle tradizioni» dei popoli, ma «entro i margini stabiliti dai rituali stessi»; è opportuna l’inculturazione, ma si deve fare in modo che «la diversità non danneggi l’unità in una stessa fede e nei medesimi segni sacramentali». In ogni caso, per avere un quadro completo delle competenze delle Conferenze Episcopali sarebbe necessario esaminare le indicazioni contenute nei praenotanda delle edizioni tipiche dei singoli libri liturgici, e poi verificare, nazione per nazione, come tali possibilità siano state effettivamente esercitate e formalizzate nelle edizioni tipiche dei libri liturgici nelle varie lingue e nelle varie nazioni60, ma questo compito esula, senz’altro, dai limiti di questo contributo.

Passiamo, quindi, all’ultimo punto in cui, nell’impossibilità di esaminarli tutti, o soltanto una parte, prenderemo come punto di riferimento il principale libro liturgico della Chiesa, vale a dire il Missale Romanum61.

4. Le edizioni tipiche dei libri liturgici, in latino e in lingua vernacola, tra universale e particolare; il Missale Romanum e la sua Institutio generalis. Prima di esaminare come si manifesta la polarità universale-particolare nell’ultima edizione del

Missale Romanum, conviene comunque evitare il possibile equivoco di considerare le edizioni tipiche in latino dei libri liturgici come se queste fossero espressione della dimensione universale e ritenere, invece, le edizioni tipiche nelle lingue vernacole come espressioni della dimensione particolare. Invero, anche se nelle prime può apparire come prevalente l’universale e nelle seconde il particolare, si deve però affermare che tutti i libri liturgici, siano in latino siano in lingua vernacola, per il fatto di essere libri liturgici della Chiesa, sono espressioni della cattolicità della Chiesa, e si muovono tutti tra l’universale e il particolare. Anche le traduzioni, seppure siano state preparate dalle singole Conferenze Episcopali o da gruppi di esse, non appartengono in esclusiva alle singole Chiese particolari, ma a tutta la Chiesa, e devono perciò riflettere non solo le particolarità dei diversi popoli, ma anche l’universalità dell’unico popolo di Dio.

D’altronde, seguendo delle precise indicazioni conciliari, tutte le edizioni tipiche dei libri liturgici in latino hanno nelle rispettive introduzioni o praenotanda le indicazioni relative agli adattamenti che competono ai Vescovi e alle Conferenze Episcopali (cfr. SC, n. 39); e tutte le

60 Per una visione di insieme, cfr. C. MAGGIONI, Gli adattamenti previsti nei libri liturgici: significato, valori e problematiche, cit., 857-860. 61 Va comunque ricordato il Lectionarium, che dopo l’ultima riforma è da considerare sempre accanto al Missale Romanum (cfr. M. SODI, Storia della messa in Italia, cit.).

Page 17: XX CONVEGNO DI STUDI ACOLTÀ DI IRITTO … mesi fa, ad un incontro internazionale di teologia: «Non esiste una Chiesa particolare isolata, che possa dirsi sola, come se pretendesse

TESTO PROVVISORIO

17

edizioni tipiche in lingua vernacola devono riprendere integralmente gli stessi praenotanda (cfr. SC, n. 63, b) e sono, di fatto, nella quasi totalità dei contenuti, tranne la piccola parte in cui sono stati apportati degli adattamenti, una traduzione dall’originale latino. In tal senso, si potrebbe ben dire che sono, in realtà, «lo stesso libro liturgico» seppure pubblicato in lingue diverse.

D’altra parte, questa qualità di essere espressione della cattolicità della Chiesa, che può essere predicata di ogni libro liturgico di qualunque Rito cattolico, vale ancora di più per i libri liturgici del Rito romano e, in modo speciale, per il Messale Romano, che ha come uno dei suoi pregi e come una delle sue caratteristiche più significative la flessibilità e la varietà nell’unità o, se si preferisce, la capacità d’integrare il particolare nell’universale62. A proposito dell’intreccio tra universale e particolare nei libri liturgici, sono di grande interesse alcune affermazioni, già presenti in VL, ma significativamente inserite negli ultimi tre numeri dell’IGMR della editio typica tertia del Missale Romanum del 2002 (cfr. nn. 397-399), come una sorta di colophon, che conferma e, in qualche modo, aumenta la loro autorevolezza63. Sono dichiarazioni che valgono per l’inculturazione, ma che hanno, senz’altro, una rilevanza più generale e possono essere assunte come principi ispiratori per un retto rapporto tra particolare e universale nella normativa liturgica, in modo speciale di quella latina. Nel primo di questi tre numeri si afferma:

«Si osservi anche il principio per cui ogni Chiesa particolare deve concordare con la Chiesa

universale, non solo quanto alla dottrina della fede e ai segni sacramentali, ma anche quanto agli usi universalmente accettati dalla ininterrotta tradizione apostolica, che devono essere osservati non solo per evitare errori, ma anche per trasmettere l’integrità della fede, perché la legge della preghiera della Chiesa corrisponde alla sua legge di fede (cfr. VL, nn. 26-27)» (IGMR, n. 397 § 1)64.

62 Così si è sviluppato nel passato il Rito romano antico, e così potrebbe anche svilupparsi nel presente il Rito romano rinnovato. Come affermato da san Giovanni Paolo II, «il Rito romano, dopo la riforma voluta dal Concilio, ha nelle sue espressioni liturgiche una vitalità in grado di prendere in considerazione la sensibilità e l’espressività delle varie culture, anche di quelle più lontane dall’area in cui originariamente è nato e si è sviluppato» (Discorso ai Presuli della Regione Nordest III della Conferenza Episcopale del Brasile in visita ad Limina Apostolorum, cit., n. 7). 63 Circa il valore normativo dell’IGMR, anche sotto il profilo propriamente giuridico, è stato giustamente rilevato che «sebbene venga chiamata Institutio e non Instructio, il documento possiede una particolare valenza legislativa. Dopo l’entrata in vigore del Messale, le norme precettive dell’Institutio Generalis hanno la forza del diritto universale della Chiesa latina, alle quali solo il Sommo Pontefice – che l’ha approvata con la sua autorità – può derogare. (…) L’aspetto normativo dell’Institutio, pertanto, non va ignorato né sottovalutato, ma riconosciuto e considerato nel suo specifico valore, poiché nel suo insieme essa conferisce un solido ordinamento alla liturgia, quale esercizio del sacerdozio di Cristo nella Chiesa. Le norme, quindi, con le quali è regolata la celebrazione eucaristica sono presentate in maniera organica e inserite in un contesto teologico, rituale e pastorale che non diminuisce affatto la forza giuridico-legislativa. (…) L’aspetto giuridico dell’IGMR, come il resto degli altri libri liturgici, ha una sua importanza molto più profonda rispetto alla semplice osservanza, magari asettica, di una norma, in quanto è a servizio della santificazione degli uomini e del culto a Dio, quale garanzia del loro pieno raggiungimento. La dimensione giuridica, mentre tutela l’integrità del contenuto dottrinale, garantisce l’autenticità della celebrazione liturgica, premunisce contro il pericolo del giuridismo sterile, facilita una chiara sintesi dei principi teologici e giuridici e agevola il superamento di contrastanti tensioni nella vita ecclesiale» (M. BARBA, «Institutio Generalis Missalis Romani». Prospetto delle redazioni 1969-1975, in Ephemerides Liturgicae 122, 2008, 257-273 [257-258]). Cfr. IDEM, «Institutio Generalis Missalis Romani». Prospetto delle redazioni 1975-2002, in Ephemerides Liturgicae 123, 2009, 3-50. 64 È comunque opportuno citare il testo originale di VL da cui proviene quest’affermazione: «La Chiesa di Cristo è resa presente e significata, in un dato luogo e tempo, dalle Chiese locali o particolari, che nella celebrazione liturgica ne manifestano la vera natura (cfr. LG, nn. 28 e 26). Per questo ogni Chiesa particolare deve concordare con la Chiesa universale non soltanto sulla dottrina della fede e sui segni sacramentali, ma anche sugli usi universalmente ricevuti dall’ininterrotta tradizione apostolica (cfr. S. Ireneo, Adversus haereses, III, 2; S. Agostino, Epistula ad Ianuarium, 54: “Sappiamo che le tradizioni non attestate dalla Scrittura ma che noi custodiamo e che sono osservate in tutto il mondo, sono da ritenere come affidate e stabilite dagli stessi Apostoli o dai concili plenari, la cui autorità è molto salutare per la Chiesa…”; Giovanni Paolo II, Redemptoris missio, nn. 53-54; CN, nn. 7-10). È il caso della preghiera quotidiana (cfr. SC, 83), della santificazione della domenica, del ritmo settimanale, della Pasqua e della presentazione dell’intero mistero di Cristo lungo l’anno liturgico (cfr. SC, 102, 106 e Appendice), della pratica della penitenza e del digiuno (cfr. Paolo VI, Paenitemini), dei sacramenti dell’iniziazione cristiana, della celebrazione del memoriale del Signore e del rapporto tra liturgia della parola e liturgia eucaristica, della remissione dei peccati, del ministero ordinato, del matrimonio, dell’unzione di malati» (VL, n. 26). Significativa è, infatti, l’affermazione iniziale sulla Chiesa di Cristo, che è resa presente «dalle Chiese locali o particolari, che nella celebrazione liturgica ne manifestano la vera natura».

Page 18: XX CONVEGNO DI STUDI ACOLTÀ DI IRITTO … mesi fa, ad un incontro internazionale di teologia: «Non esiste una Chiesa particolare isolata, che possa dirsi sola, come se pretendesse

TESTO PROVVISORIO

18

Una dichiarazione in cui viene evocato l’antico adagio «lex orandi, lex credendi» e si rileva che

nella liturgia bisogna non solo evitare errori, ma deve essere trasmessa l’integrità della fede; un’esigenza che giustifica la necessaria concordia di ogni Chiesa particolare con la Chiesa universale, nella fede, nei sacramenti e negli usi trasmessi dalla Tradizione apostolica, ma che non impedisce affatto le legittime varietà in tutto il resto. Di fatto, nello stesso numero, dopo aver ricordato l’importanza del Rito romano nel patrimonio liturgico di tutta la Chiesa Cattolica65, si mette nel dovuto risalto una peculiarità specifica del suo sviluppo storico e del suo presente:

«Questo Rito nel corso dei secoli non solo ha conservato gli usi liturgici che hanno avuto origine

nella città di Roma, ma in modo profondo, organico e armonico ha integrato in sé alcuni altri usi che derivavano dalle consuetudini e dalla cultura dei diversi popoli e delle diverse Chiese particolari dell’Occidente e dell’Oriente, acquisendo in tal modo un carattere che supera i limiti di una sola regione. Nel nostro tempo l’identità e l’espressione unitaria di questo Rito si trova nelle edizioni tipiche dei libri liturgici, promulgati dall’autorità del Sommo Pontefice e nei libri liturgici ad essi corrispondenti, confermati dalle Conferenze Episcopali per i loro territori e riconosciuti dalla Sede Apostolica (cfr. Giovanni Paolo II, Vicesimus quintus annus, n. 16; VL, nn. 2, 36)» (IGMR, n. 397 § 3)66.

Viene dunque autorevolmente dichiarato che, nonostante le differenze che si possano dare tra le

versioni nelle varie lingue vernacole di un libro liturgico, e tra queste e la sua edizione tipica latina, in tutte troviamo «l’identità e l’espressione unitaria» del Rito romano. Anche se ci sono molteplici versioni nelle varie lingue, non esistono molteplici «Messali Romani», uno in latino e universale e molti in lingue moderne e particolari, ma un unico Messale Romano, che in tutte le sue edizioni, non solo quelle attuali – il Missale Romanum del 2002 in latino, e le varie edizioni attualmente in uso nelle lingue vernacole, alcune già riviste secondo quest’editio typica tertia, molte ancora basate sull’editio typica altera del 1975, – ma anche quelle passate, è, come si diceva, espressione della cattolicità della Chiesa fra universale e particolare e, dunque, patrimonio di tutti i cattolici67.

Anche di rilievo è il rimando a CN. Si deve aggiungere, infine, che la sostanza di questa dichiarazione è stata ripresa in LA, n. 80 (vedi infra, pagina 20). 65 «Il Rito romano costituisce una parte notevole e preziosa del tesoro e del patrimonio liturgico della Chiesa Cattolica; le sue ricchezze giovano al bene di tutta la Chiesa, tanto che la loro perdita le nuocerebbe gravemente» (IGMR, n. 397 § 2). 66 Di rilievo per il nostro tema è l’ultima affermazione, che riprende quanto era stato detto, nel 1990, in un’editoriale di Notitiae, in occasione del ventennio della promulgazione del Missale Romanum riformato dopo il Concilio Vaticano II: «Il Messale Romano attualmente in vigore continua ad essere, come voleva Paolo VI, uno dei segni dell’unità del rito romano. Essa non viene intaccata dalle edizioni tipiche nelle diverse lingue, in quanto queste derivano tutte da quella tipica latina, e come tali sono confermate dalla Sede Apostolica. Gli elementi infatti che costituiscono l’unità sostanziale del Messale Romano si trovano invariabilmente in esse: la Institutio Generalis con il Calendario generale, lo stesso Ordo lectionum Missae, lo stesso Ordo Missae con le quattro Preghiere eucaristiche, insieme con l’eucologia minore. Le particolarità esistenti per concessione della Sede Apostolica nelle edizioni tipiche del Messale Romano delle diverse Conferenze Episcopali, non alterano questa unità sostanziale, né costituiscono una novità nella storia liturgica del rito romano, ma piuttosto tendono ad arricchire la preghiera della Chiesa» (Notitiae 26, 1990, 517-520). 67 Anche se è comune e legittimo riferirsi alle varie edizioni del Missale con il nome del Papa che le ha promulgate (il Messale di Pio V o l’edizione del Messale di Giovanni XXIII; il Messale di Paolo VI, o l’edizione del Messale di Giovanni Paolo II) o anche con il Concilio che le ha ispirate (il Messale di Trento e il Messale del Vaticano II), mi sembra preferibile parlare semplicemente del Missale Romanum, indicando, ma solo quando fosse necessario, soltanto la data e, semmai, le caratteristiche dell’edizione (l’editio princeps del Missale Romanum del 1570, l’editio typica del Missale Romanum del 1962, l’editio typica del Missale Romanum del 1970 e la sua reimpressio emendata del 1971, l’editio typica altera del Missale Romanum del 1975, l’editio typica tertia del Missale Romanum del 2002 e la sua reimpressio emendata del 2008), per così rimarcare la sostanziale identità del Missale, quale libro princeps della liturgia romana (cfr. M. NOIROT, Livres liturgiques de l’Église Romaine, in AA.VV., Dictionnaire de Droit Canonique, VI, a cura di R. Naz, Paris 1957, coll. 595-606). Anche se, nel discorso scientifico, molte volte occorrerà evidenziare le differenze che intercorrono tra le varie edizioni – soprattutto tra quelle precedenti e quelle successive alla riforma liturgica – penso che sia preferibile seguire questa denominazione, che ha peraltro il vantaggio di segnalare, indipendentemente dal diverso grado di sviluppo (rituale, ecclesiologico, ecc.), la loro comune condizione di libri

Page 19: XX CONVEGNO DI STUDI ACOLTÀ DI IRITTO … mesi fa, ad un incontro internazionale di teologia: «Non esiste una Chiesa particolare isolata, che possa dirsi sola, come se pretendesse

TESTO PROVVISORIO

19

Sulla stessa linea si muovono le indicazioni contenute negli ultimi due numeri dell’IGMR, in cui si ricorda la necessità di venire incontro alle peculiarità delle varie culture senza pregiudicare «l’indole propria del Rito romano»68, i cui libri liturgici, e in modo speciale il Messale, «anche nella diversità di lingue e in un certa varietà di consuetudini», rimangono strumento e segno di unità69.

Per quanto riguarda poi, le caratteristiche dell’editio typica tertia del Missale Romanum, del 2002, oggetto di una reimpressio emendata nel 200870, conviene ricordare il triplice scopo con cui è stata concepita: a) in primo luogo, per dotare la Chiesa di un Messale latino aggiornato, completo e decoroso che possa essere usato nella celebrazione in latino; b) in secondo luogo, perché serva come punto di riferimento per l’adattamento e l’inculturazione della liturgia specificamente eucaristica, in linea con le indicazioni della Sede Apostolica nei confronti di tutta la liturgia romana contenute in VL del 1994; c) e, in terzo luogo, perché serva come base per la revisione delle precedenti traduzioni del Messale nelle lingue moderne, in armonia con le indicazioni della Sede Apostolica per tutti i libri della liturgia romana contenute in LA del 2001.

Si tratta, infatti, di una vera nuova edizione, in cui sono stati riveduti gli elementi eucologici e rubricali, e si è avuta una nuova stesura di «quella parte non meno importante e fondamentale costituita dall’IGMR, documento [normativo] che offre il significato delle singole sequenze rituali e dei particolari elementi celebrativi che compongono il rito della Messa, fornendo allo stesso tempo utili orientamenti per l’uso e per le modalità di realizzazione»71. Per quanto ben noto agli addetti ai lavori, è necessario ricordare, da una parte, che la principale novità dell’ultima stesura dell’IGMR è l’inserimento di un capitolo dedicato agli adattamenti che competono ai Vescovi diocesani e alle Conferenze Episcopali72, e, dall’altra, che il Decreto di promulgazione dell’editio typica tertia ha disposto che tutte le traduzioni del Missale Romanum nelle lingue moderne, fatte sulla base dell’editio typica del 1970 o dell’editio typica altera del 1975, vengano riviste ed emendate con liturgici della Chiesa, e dunque patrimonio di tutti, e non solo di alcuni. Come disse, nel 1977, il Cardinale Ratzinger: «il cosiddetto Messale di Paolo VI non è altro che una redazione rinnovata dello stesso Messale sul quale hanno già lavorato Pio X, Urbano VIII, Pio V e i loro predecessori, risalendo fino all’epoca della Chiesa nascente. La consapevolezza dell’unita intima mai interrotta della storia della fede – unità che si esprime nella sempre presente unità della preghiera derivante da tale storia – è essenziale per la Chiesa» (Liturgia mutabile o immutabile?, in J. RATZINGER, Opera omnia, vol. XI, Teologia della liturgia, cit., 701-717 [709]). 68 «La ricerca dell’inculturazione infine non tende affatto alla creazione di nuove famiglie rituali, ma a provvedere alle esigenze di una data cultura, in modo però che gli adattamenti introdotti sia nel Messale sia negli altri libri liturgici non rechino pregiudizio all’indole propria del Rito romano (cfr. VL, n. 36)» (IGMR, n. 398 § 2). 69 «Perciò il Messale Romano, anche nella diversità delle lingue e in una certa varietà di consuetudini (cfr. VL, n. 54), si deve conservare per il futuro come strumento e segno eccellente di integrità e di unità del Rito romano (cfr. SC, n. 38; Paolo VI, Costituzione Apostolica Missale Romanum)» (IGMR, n. 399). 70 MISSALE ROMANUM, ex decreto Sacrosancti Œcumenici Concilii Vaticani II instauratum auctoritate Pauli PP. VI promulgatum, Ioannis Pauli PP. II cura recognitum, editio typica tertia, Città del Vaticano 2002, reimpressio emendata, Città del Vaticano 2008. Circa le caratteristiche generali dell’edizione del 2002, cfr. M. LESSI-ARIOSTO, L’editio typica tertia del Missale Romanum, in Rivista Liturgica 90, 2003, 501-512. Per le caratteristiche specifiche della reimpressione emendata del 2008, cfr. M. BARBA, L’«editio typica tertia emendata» del «Missale Romanum», in Rivista Liturgica 95, 2008, 1098-1119. 71 M. BARBA, La nuova Institutio generalis del Missale Romanum, in Rivista Liturgica 90, 2003, 513-532; dove si descrive l’IGMR come «una normativa che, nonostante le variazioni e integrazioni avute nel tempo, ma pur sempre animata dal valore teologico, liturgico, rituale, spirituale e pastorale, contribuisce a dare alla celebrazione del mistero eucaristico quella efficacia che garantisce la consapevole, attiva e fruttuosa partecipazione del popolo di Dio» (ibidem, 513-514). Cfr. anche C. BRAGA, L’«editio typica tertia» della «Institutio generalis Missalis Romani», in Ephemerides Liturgicae 114, 2000, 481-497. 72 Cfr. A. WARD, Features and Significance of the New Chapter of the «Institutio generalis Missalis Romani», in Ephemerides Liturgicae 114, 2000, 498-510; M. AUGÉ, Il capitolo IX dell’Institutio generalis: tra adattamento e inculturazione?, in Rivista Liturgica 90, 2003, 533-547. Interessante quanto Augé afferma a proposito dell’IGMR in generale, citando Maggiani, e del suo capitolo IX: «l’Institutio è composta da un “codice teologico” e da un “codice rubricale” con referenze teologiche a carattere pastorale riguardante direttamente il modo di celebrare. Il cap. IX, però, di cui ci occupiamo, per lo più non riguarda direttamente il modo di celebrare, ma la normativa che precede il celebrare, e cioè l’insieme delle norme relative all’adattamento / inculturazione della liturgia della messa. Abbiamo quindi un testo che è composto certamente da un “codice teologico”, ma anche da un “codice normativo” più complesso di quello strettamente rubricale» (ibidem, 533-534).

Page 20: XX CONVEGNO DI STUDI ACOLTÀ DI IRITTO … mesi fa, ad un incontro internazionale di teologia: «Non esiste una Chiesa particolare isolata, che possa dirsi sola, come se pretendesse

TESTO PROVVISORIO

20

cura, in modo che, nel rispetto delle caratteristiche proprie di ogni lingua, siano tuttavia più fedeli all’originale latino, e i testi tradotti vengano presentati alla Santa Sede per la necessaria recognitio73.

Secondo la Sede Apostolica, lo scopo della revisione delle traduzioni sarebbe quello di preservare le caratteristiche del Rito romano, che è ritenuto di per sé un valido esempio e strumento di vera inculturazione, sia per la sua capacità di assumere testi, canti, gesti e riti che derivano dalle consuetudini e idiosincrasia dei vari popoli e Chiese particolari, sia perché realizza allo stesso tempo una adeguata e conveniente unità, che supera i confini di qualunque regione. Si tratta, secondo la valutazione della Sede Apostolica, di una qualità che si manifesta non tanto o non solo negli elementi rituali, ma specialmente nei testi eucologici che, per la loro capacità di superare i limiti delle circostanze originali, rappresentano le orazioni dei cristiani di qualunque luogo ed epoca (cfr. LA, n. 5). Tuttavia, sempre secondo la Sede Apostolica, dall’esame complessivo delle traduzioni realizzate sulla base delle edizioni precedenti, anche se approvate con l’opportuna recognitio, si è vista la necessità di un miglioramento, attraverso opportune correzioni o nuove traduzioni, in quanto, a causa delle carenze, delle omissioni o, persino, degli errori di alcune traduzioni, non si sarebbe riusciti a compiere il rinnovamento di cui la Chiesa avrebbe bisogno (cfr. LA, n. 6)74. Per queste ragioni, la Sede Apostolica ha cercato di promuovere, attraverso il lavoro di revisione delle traduzioni, una nuova fase del rinnovamento liturgico che nel rispetto dell’idiosincrasia e delle tradizioni delle Chiese particolari, assicuri anche la fede e l’unità di tutta la Chiesa (cfr. LA, n. 7).

Sotto il profilo prettamente giuridico del necessario rispetto delle rispettive competenze nella normativa liturgica è opportuno riprendere per esteso l’indicazione della Sede Apostolica riguardante l’intervento delle Conferenze Episcopali e la portata della recognitio nell’approvazione delle nuove traduzioni:

«La prassi di domandare la recognitio della Sede Apostolica per tutte le traduzioni dei testi liturgici

(cfr SC, n. 36; Inter œcumenici, nn. 20-21; can. 838 CIC) offre la necessaria garanzia che la traduzione è autentica e corrispondente ai testi originali ed esprime, nonché favorisce, il vero legame della comunione tra il successore di san Pietro e suoi fratelli nell’episcopato. Inoltre questa recognitio non è tanto una formalità quanto un atto della potestà di governo, assolutamente necessario (in caso di omissione, infatti, gli atti delle Conferenze dei Vescovi non hanno forza di legge), che può comportare delle modifiche, anche sostanziali (Communicationes 15, 1964, 882, 884). Così, non è permesso pubblicare testi liturgici tradotti, o testi di nuova composizione per l’uso dei celebranti o, in genere, del popolo, se manca la recognitio. Siccome è sempre necessario che la lex orandi concordi con la lex credendi e manifesti e corrobori la fede del popolo cristiano, le traduzioni liturgiche non possono essere degne di Dio se non rendono fedelmente nella lingua vernacola la ricchezza della dottrina cattolica del testo originale, cosicché il linguaggio sacro sia adeguato al suo contenuto dogmatico (cfr. Paolo VI, Allocutio ad Sodales et Peritos Consilii «ad exsequendam Constitutionem de S. Liturgia», 13 ottobre 1966; Allocutio ad Sodales et Peritos Consilii «ad exsequendam Constitutionem de S. Liturgia», 14 ottobre 1968). Inoltre, bisogna osservare il principio secondo cui ciascuna Chiesa

73 «Ex præsenti tertia typica editione Conferentiæ Episcoporum curabunt ut, intra congruum tempus, novæ versiones vernaculæ Missalis Romani fideliter atque adamussim fiant, præcedentibus versionibus adhuc in usum accurate emendatis ad fidem textus originalis Latini, a Sede Apostolica ad normam iuris recognoscendæ» (CCDDS, Decretum de editione typica tertia Tertio ineunte millennio, 20 aprile 2000, in Notitiae 38, 2002, 452-453). A proposito della disparità tra la data del Decreto di promulgazione e la data della pubblicazione effettiva della terza edizione del Missale Romanum, cfr. M. LESSI-ARIOSTO, L’editio typica tertia del Missale Romanum, cit., 501. 74 Non bisogna comunque dimenticare che una tale valutazione dei limiti delle prime traduzioni non è sorta nel 2001, ma era già stata espressa nel 1988 da san Giovanni Paolo II: «Le conferenze episcopali hanno avuto il grave incarico di preparare le traduzioni dei libri liturgici (cfr. SC, nn. 36 e 63). Le necessità del momento hanno a volte portato ad utilizzare traduzioni provvisorie, che sono state approvate ad interim. Ma ora è giunto il tempo di riflettere su certe difficoltà emerse successivamente, di porre rimedio a certe carenze o inesattezze, di completare le traduzioni parziali, di creare o di approvare i canti da utilizzare nella liturgia, di vigilare sul rispetto dei testi approvati, di pubblicare finalmente i libri liturgici in uno stato da considerarsi stabilmente acquisito e in una veste che sia degna dei misteri celebrati» (Lettera apostolica nel XXV Anniversario della Costituzione conciliare «Sacrosanctum Concilium» sulla sacra Liturgia Vicesimus quintus annus, 4 dicembre 1988, n. 20, in AAS 81, 1989, 897-918). Cfr. A. WARD, «Sacrosanctum Concilium» at the Fulcrum of Developing Experience on the Vernacular, cit., 88-89.

Page 21: XX CONVEGNO DI STUDI ACOLTÀ DI IRITTO … mesi fa, ad un incontro internazionale di teologia: «Non esiste una Chiesa particolare isolata, che possa dirsi sola, come se pretendesse

TESTO PROVVISORIO

21

particolare deve concordare con la Chiesa universale non solo in ciò che riguarda la dottrina della fede e i segni sacramentali, ma anche ciò che riguarda gli usi universalmente ricevuti dall’ininterrotta tradizione apostolica (cfr. IGMR, n. 397); in tal modo la recognitio de la Sede Apostolica ha per fine di vegliare affinché le traduzioni stesse, così come i diversi adattamenti legittimamente introdotti, non nuocciano all’unità del popolo di Dio, ma piuttosto la rafforzino in misura sempre maggiore (cfr. LG, n. 13; Giovanni Paolo II, Apostolos suos, n. 22» (LA, n. 80)75.

Sono, infatti, significative per quanto riguarda il nostro argomento, le parole in cui si sottolinea

che la vigilanza della Sede Apostolica, esercitata attraverso lo strumento della recognitio, è rivolta ad assicurare che le traduzioni siano corrispondenti alla dottrina cattolica e che le variazioni legittimamente introdotte non arrechino danni all’unità del popolo di Dio, che sono beni sicuramente più importanti dell’unità del Rito romano, che è pure necessario tutelare, ma solo quale strumento per tutelare il bene superiore della comunione nella Chiesa. In questo senso, penso che si possa ben affermare che la ragione della richiesta di una maggiore fedeltà delle traduzioni all’originale latino, soprattutto degli elementi eucologici, non sia dovuta – come potrebbe sembrare in una visone superficiale – ad una difesa ad oltranza dell’unità del Rito romano considerata in sé stessa, né tanto meno ad una visione quasi mitica della lingua latina, come se venisse considerata una lingua sacra76, ma, più semplicemente, come un mezzo per garantire una maggiore fedeltà delle traduzioni alla fede della Chiesa nei misteri che vengono celebrati. Questa è stata peraltro la ragione fondamentale, fin dal secolo VIII, dell’insistenza dei Romani Pontefici di seguire la regola romana: preservare, anzitutto, le verità di fede che vengono celebrate nella liturgia e, soltanto dopo, l’unità rituale o disciplinare.

È anche noto che buona parte di questo lavoro di revisione delle traduzioni è ancora in corso d’opera. Per quanto riguarda la revisione delle traduzioni del Missale Romanum nelle lingue moderne più diffuse, finora sono state pubblicate soltanto l’edizione in inglese (The Roman Missal, approvato nel 2011, in uso in Australia, Canada, Inghilterra e Galles, India, Irlanda, Nuova Zelanda, Filippine, Scozia, Stati Uniti, Sudafrica, e altri) e alcune edizioni in spagnolo (la versione argentina del Misal Romano, approvata nel 2009, in uso in Argentina, Bolivia, Cile, Paraguay e Uruguay; e la versione messicana, approvata nel 2013, in uso in Messico, Costa Rica, Honduras, Stati Uniti, Venezuela e altri). Sono invece in fase di recognitio presso la CCDDS le edizioni in francese, in tedesco, in italiano, in portoghese e in spagnolo (per la Spagna e per altri paesi di lingua castigliana). Alcune voci dicono che l’approvazione della Sede Apostolica di queste traduzioni sia questione di pochi mesi, ma tenuto conto dell’esperienza degli ultimi anni, forse è meglio non fare previsioni77.

75 È utile riportare le indicazioni date da Paolo VI, nel 1965, direttamente ai traduttori: «Est demum animadvertendum textus liturgicos, a competenti auctoritate approbatos et ab Apostolica Sede confirmatas, tales esse, ut religiose debeant servari. Nemini ergo licet eos ad suum arbitrium mutare, minuere, amplificare, omittere. Quodsi Ecclesia in re liturgica Matrem se praebet benignam ac liberalem, ut filii sui sacros ritus “actuose, conscie, pie” queant participare, tamen ea, quae legitime sunt constituta, iam vim habent legum ecclesiasticarum, quibus e conscientiae officio omnes obsequi debent; idque vel magis, cum de legibus agatur, quibus actio omnium sanctissima regitur» (Allocutio in aula Clementina habita iis qui operam dant liturgicis textibus in vulgares sermones convertendis, cum Romae Conventum agerent, 10 novembre 1965, in AAS 57,1965, 967-970). 76 In questo senso, mi sembra che l’espressione “linguaggio sacro” («sermo sacer»), adoperata in LA, n. 80, non si riferisca alla lingua latina né a nessuna lingua in particolare, bensì ad ogni linguaggio in cui si cerca di esprimere le realtà sacre. 77 In ogni caso, se si tiene conto di questo fatto, penso che si possa affermare che la riforma liturgica, per quanto riguarda la normativa propriamente liturgica, è ormai praticamente compiuta solo nella lingua latina, ma ancora incompiuta nelle lingue vernacole. Solo quando saranno pubblicate le nuove edizioni tipiche dei libri liturgici, con le nuove traduzioni, nelle più importanti lingue moderne, sarà possibile affermare che la riforma liturgica, avviata dal Concilio Vaticano II, è felicemente conclusa. E questo solo dal punto di vista normativo. Poi sarà necessario fare tutto il possibile, mediante un’adeguata formazione liturgica e spirituale dei ministri e del resto dei fedeli, perché la liturgia rinnovata raggiunga il suo obiettivo principale, cioè favorisca il loro coinvolgimento e la loro partecipazione attiva, in modo che la liturgia regolata nelle norme e nei libri liturgici venga rettamente celebrata e alimenti abbondantemente la vita dell’intero popolo di Dio. Cfr. C. MAGGIONI, Valore e significato del libro liturgico, cit., 404-406 e 410-414.

Page 22: XX CONVEGNO DI STUDI ACOLTÀ DI IRITTO … mesi fa, ad un incontro internazionale di teologia: «Non esiste una Chiesa particolare isolata, che possa dirsi sola, come se pretendesse

TESTO PROVVISORIO

22

Ma accenniamo, prima di concludere, alle indicazioni normative contenute nell’IGMR in cui si manifesta la polarità universale-particolare, a cominciare dalla peculiarità del titolo del capitolo IX. Come è stato notato, infatti, «se confrontiamo il titolo del nostro capitolo con quello dei luoghi paralleli degli altri libri liturgici, vediamo che in questi ultimi vengono nominati come soggetti responsabili dell’adattamento solo le Conferenze Episcopali, o, nell’ordine: prima queste e poi i Vescovi. Nel titolo del nostro capitolo invece vengono nominati prima i Vescovi diocesani e in seguito le loro Conferenze, e così si procede anche in seguito nell’esposizione tematica»78.

Il capitolo IX si apre con una dichiarazione sul fondamento della legittimità e necessità degli adattamenti (cfr. IGMR, n. 386), che, come è stato opportunamente rilevato, può essere «ricondotto al diritto-dovere dei fedeli, in forza della condizione di battezzati, di essere in tutto favoriti nell’esercitare “quella piena, cosciente e attiva partecipazione, che è richiesta dalla natura stessa della liturgia” (SC, 14)»79. Segue poi, in un unico numero, una sintesi dei compiti del Vescovo diocesano, con i riferimenti ai numeri dell’IGMR in cui tali compiti sono considerati in modo specifico:

«Il Vescovo diocesano, che è da considerare come il grande sacerdote del suo gregge, dal quale in

qualche misura deriva e dipende la vita dei suoi fedeli in Cristo (cfr. SC, n. 41), deve promuovere, guidare e vigilare sulla vita liturgica nella sua diocesi. A lui, in questo Ordinamento generale è affidato il compito di regolare la disciplina della concelebrazione (cfr. nn. 202, 374), stabilire le norme circa il compito di servire il sacerdote all’altare (cfr. n. 107), circa la distribuzione della sacra Comunione sotto le due specie (cfr. n. 283), circa la costruzione e la ristrutturazione delle chiese (cfr. n. 291). Ma a lui spetta prima di tutto coltivare nei presbiteri, nei diaconi e nei fedeli lo spirito della sacra Liturgia» (IGMR, n. 387).

Tra le materie indicate, la più significativa è, senz’altro, la distribuzione della sacra Comunione

sotto le due specie, che è sicuramente una delle principali novità della nuova edizione del Missale Romanum. Anche di rilievo è l’indicazione finale, in cui si ricorda che il primo compito del Vescovo diocesano è coltivare nei ministri e nei fedeli «lo spirito della sacra Liturgia».

Seguono poi ben sei numeri dedicati alle competenze delle Conferenza Episcopali, da esercitare in collaborazione sinergica con la Sede Apostolica, il cui necessario intervento di conferma viene segnalato espressamente a più riprese, a cominciare dalla preparazione dell’edizione «di questo Messale» nelle lingue moderne approvate:

«Alle Conferenze Episcopali spetta anzitutto preparare e approvare l’edizione di questo Messale

Romano nelle lingue moderne approvate, affinché, dopo la conferma della Sede Apostolica, si usi poi nelle rispettive regioni (cfr. can. 838 § 3 CIC).

Il Messale Romano, sia nel testo latino che nelle traduzioni nazionali legittimamente approvate, si deve pubblicare integralmente» (IGMR, n. 389).

È anche significativa l’indicazione della pubblicazione “integrale” del Messale Romano, onde

evitare omissioni che potrebbero eventualmente oscurare qualche aspetto della fede della Chiesa o, pregiudicare l’unità del Rito romano.

Successivamente vengono elencate le materie in cui le Conferenze Episcopali possono stabilire adattamenti, ma solo dopo la conferma della Sede Apostolica, con i riferimenti ai numeri dell’IGMR dove tali materie sono considerate in modo specifico:

78 M. AUGÉ, Il capitolo IX dell’Institutio generalis: tra adattamento e inculturazione?, cit., 534. L’Autore vede giustamente in questo cambiamento una precisa e significativa scelta ecclesiologica. 79 Ordinamento generale del Messale Romano. Commento e testo, a cura di R. Falsini e A. Lameri, Padova 2006, 98, che nel loro commento aggiungono: «Gli adattamenti proposti in questo capitolo e quelli affidati al giudizio del Vescovo o delle Conferenze Episcopali nazionali sono, quindi, non tanto una concessione della Sede Apostolica, quanto piuttosto un modo per rispondere “più pienamente alle norme e allo spirito della sacra Liturgia”».

Page 23: XX CONVEGNO DI STUDI ACOLTÀ DI IRITTO … mesi fa, ad un incontro internazionale di teologia: «Non esiste una Chiesa particolare isolata, che possa dirsi sola, come se pretendesse

TESTO PROVVISORIO

23

«È proprio delle Conferenze Episcopali, dopo la conferma della Sede Apostolica, definire e introdurre nel Messale gli adattamenti che sono indicati in questo Ordinamento generale nel rito della Messa, come:

- i gesti dei fedeli e gli atteggiamenti del corpo (cfr. n. 43); - i gesti di venerazione verso l’altare e l’Evangeliario (cfr. n.273); - i testi dei canti all’ingresso, all’offertorio e alla Comunione (cfr. nn. 48, 74, 87); - le letture della sacra Scrittura da usare in particolari circostanze (cfr. n. 362); - la modalità dello scambio di pace (cfr. n. 82); - il modo di ricevere la sacra Comunione (cfr. nn. 160, 283); - la materia dell’altare e della sacra suppellettile, specialmente dei vasi sacri, e anche la materia, la

forma e il colore delle vesti liturgiche (cfr. nn. 301, 326, 329, 339, 342-346)» (IGMR, n. 390). Va anche rilevata la necessità del riconoscimento della Sede Apostolica anche perché altri

eventuali documenti (direttori o istruzioni pastorali), ritenuti utili dalle Conferenze Episcopali, possano essere introdotti nel Messale Romano in un luogo opportuno (cfr. IGMR, n. 390).

Seguono poi varie indicazioni date alle Conferenze Episcopali circa: a) la cura particolare che devono adoperare nella «traduzione dei testi biblici che si usano nella celebrazione della Messa» (cfr. IGMR, n. 391); b) la grande diligenza con cui devono preparare la «traduzione degli altri testi, cosicché, nel rispetto anche del carattere proprio di ciascuna lingua, venga reso pienamente e fedelmente il senso del testo originale latino» (cfr. IGMR, n. 392)80; c) la loro competenza per l’approvazione delle melodie adatte per il canto durante la celebrazione della Messa e sul loro giudizio circa le forme musicali, le melodie e gli strumenti musicali da ammettere nel culto divino «perché siano veramente adatti all’uso sacro o possano adattarvisi» (IGMR, n. 393); e d) la preparazione di un Calendario proprio della nazione «o, con le altre Conferenze, un Calendario per una più vasta regione, da approvarsi dalla Sede Apostolica» (IGMR, n. 394)81.

In definitiva, sono tutte disposizioni in cui la richiesta dell’intervento congiunto della Sede Apostolica, dei Vescovi diocesani e delle Conferenze Episcopali manifesta in modo non teorico e astratto, bensì pratico e concreto, l’intreccio e la polarità tensionale e sinergica tra universale e particolare nella normativa liturgica per il bene dei fedeli e dell’intero popolo di Dio. Rimandiamo dunque ad ulteriori studi l’esame dettagliato di come siano state messe in pratica nelle varie nazioni le possibilità offerte dal rinnovamento liturgico promosso dal Concilio Vaticano II.

80 «Nel compiere questo lavoro, conviene prestare attenzione ai diversi generi di espressioni che si usano nella Messa, quali le orazioni presidenziali, le antifone, le acclamazioni, i responsori, le invocazioni litaniche, ecc. Si tenga presente che la traduzione dei testi non ha come primo scopo la meditazione, ma piuttosto la proclamazione o il canto nell’atto della celebrazione. Si usi un linguaggio adatto ai fedeli della regione; tuttavia sia dignitoso e dotato di qualità letteraria, ferma restando la necessità di una catechesi sul senso biblico e cristiano di alcune parole ed espressioni. È opportuno che, nelle regioni che hanno la stessa lingua, per quanto possibile, si abbia la stessa traduzione dei testi liturgici, soprattutto dei testi biblici e del rito della Messa (cfr. SC, 36 § 3)» (IGMR, n. 392). 81 E viene precisato: «Nel fare questo lavoro, si deve rispettare e difendere la domenica, come festa primordiale, quindi ad essa non siano anteposte altre celebrazioni, se non sono davvero di grandissima importanza (cfr. SC, n. 106). Inoltre si presti attenzione che l’anno liturgico, rinnovato per volere del Concilio Vaticano II, non sia oscurato da elementi secondari» (IGMR n. 394).