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Scuola superiore dell'economia e delle finanze ANNO III Numero 5 Maggio 2006 Tra identità e integrazione: aspetti della posizione dello straniero nel mondo greco Sommario: 1. Greci, xenoi, bárbaroi – 2. Sentimento di identità e rifiuto dell’integrazione: il mito dell’autoctonia 3. La posizione delicata dell’apolide 1) Greci, xenoi, bárbaroi [1] La compresenza, nel mondo greco, di una forte omogeneità culturale e di un’estrema frammentazione politica incide in modo significativo sulla percezione dello straniero. Nel rivendicare la propria identità in rapporto allo “straniero”, l’uomo greco distingue infatti fra lo straniero di stirpe greca (xenos), che è tale in quanto appartiene ad una comunità politica diversa dalla propria, e il barbaro. I livelli di estraneità sono, nei due casi, assai diversi. Nel caso dello xenos, l’estraneità investe esclusivamente l’aspetto politico: il Greco cittadino di un altro stato, città (polis) o stato federale (ethnos), appartiene infatti alla medesima comunità di sangue, di lingua, di culti, di costumi che definisce, in Erodoto VIII, 144, la Grecità (Hellenikón) come unità etnicoculturale. La coscienza dell’appartenenza ad una civiltà unitaria, che è ben espressa dal passo erodoteo, convive con la coscienza delle differenze culturali tra ethne (per esempio, fra Dori e Ioni) e con il forte senso di appartenenza alle singole entità politiche, ognuna caratterizzata da una sua specifica identità culturale espressa nella comune esperienza religiosa (i culti) e politica (le leggi); essa tende poi ad accrescersi, nel corso del IV secolo, con lo sviluppo del panellenismo, ma senza indebolire il senso di appartenenza alla polis. Il barbaro, invece, diversamente dallo xenos, è “straniero due volte”, sia sul piano etnicoculturale, sia su quello politico: mentre non condivide con i Greci nessuno degli elementi identificati da Erodoto nella definizione della Grecità, vive pure un’esperienza dello stato radicalmente opposta a quella dei Greci. Egli

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Scuola superiore dell'economia e delle finanze

ANNO III ­ Numero 5 ­ Maggio 2006

Tra identità e integrazione: aspetti della posizione dello straniero nel mondogreco

Sommario: 1. Greci, xenoi, bárbaroi – 2. Sentimento di identità e rifiutodell’integrazione: il mito dell’autoctonia ­ 3. La posizione delicatadell’apolide

1) Greci, xenoi, bárbaroi

[1]La compresenza, nel mondo greco, di una forte omogeneità culturale e diun’estrema frammentazione politica incide in modo significativo sulla percezionedello straniero. Nel rivendicare la propria identità in rapporto allo “straniero”,l’uomo greco distingue infatti fra lo straniero di stirpe greca (xenos), che è talein quanto appartiene ad una comunità politica diversa dalla propria, e il barbaro.I livelli di estraneità sono, nei due casi, assai diversi.

Nel caso dello xenos, l’estraneità investe esclusivamente l’aspetto politico: ilGreco cittadino di un altro stato, città (polis) o stato federale (ethnos),appartiene infatti alla medesima comunità di sangue, di lingua, di culti, dicostumi che definisce, in Erodoto VIII, 144, la Grecità (Hellenikón) come unitàetnico­culturale. La coscienza dell’appartenenza ad una civiltà unitaria, che èben espressa dal passo erodoteo, convive con la coscienza delle differenzeculturali tra ethne (per esempio, fra Dori e Ioni) e con il forte senso diappartenenza alle singole entità politiche, ognuna caratterizzata da una suaspecifica identità culturale espressa nella comune esperienza religiosa (i culti) epolitica (le leggi); essa tende poi ad accrescersi, nel corso del IV secolo, con losviluppo del panellenismo, ma senza indebolire il senso di appartenenza allapolis.

Il barbaro, invece, diversamente dallo xenos, è “straniero due volte”, sia sulpiano etnico­culturale, sia su quello politico: mentre non condivide con i Grecinessuno degli elementi identificati da Erodoto nella definizione della Grecità,vive pure un’esperienza dello stato radicalmente opposta a quella dei Greci. Egli

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si contrappone “in maniera simmetrica e completa alla duplice identitàdell’uomo greco”[2] e ne rappresenta l’immagine negativa.

I barbari sono dunque radicalmente “altri”, e inferiori, in quanto, come mostral’origine del termine bárbaros, parlano una lingua incomprensibile, percepitacome un balbettio inarticolato, e in quanto sono caratterizzati da una ferocia dicostumi che va a detrimento della loro piena umanità. Ma soprattutto, essihanno con lo stato un rapporto di servitù, che li caratterizza come douloi difronte al dispotismo del monarca, mentre i Greci si pongono di fronte allo statocome cittadini, liberi ed autonomi, protetti dalla sovranità della legge (cfr. ildiscorso di Demarato a Serse in Erodoto VII, 101­105).

Il processo di maturazione della percezione di sé da parte dell’uomo greco, conla sua caratterizzazione eminentemente politica e la sua forte contrapposizionecon il barbaro[3], si colloca nel contesto delle guerre persiane, come evidenziala letteratura contemporanea. Eschilo, nei Persiani del 472, celebra la vittoriagreca esaltando la superiorità non tanto di natura, quanto di civiltà politica deiGreci sui barbari: i Greci vengono definiti come coloro che “di nessun mortalesono chiamati servi né sudditi” (v. 242); Grecia e Persia sono rappresentatecome due donne, “sorelle della stessa stirpe”, ma l’una docile al giogo, l’altraintollerante di ogni costrizione, che rifiuta di lasciarsi imporre le redini (v. 176ss.). In tutta la tragedia attica i barbari sono presentati come incapaci diconcepire il potere politico se non come assoluto e dispotico: come tali essisono destinati ad essere dominati dai Greci, radicalmente diversi da loro[4].L’esasperata autocoscienza che induce il Greco a contrapporsi al barbaro hadunque come contenuto l’antinomia fra polites e doulos, fra cittadino libero esuddito.

Nel IV secolo affiora invece l’idea di una vera e propria superiorità etnica, e nonsolo politica, del Greco sul barbaro. Isocrate (Antidosi, 293­294; cfr. Panegirico,184; Panatenaico, 163) considera i barbari inferiori per virtù (areté) e pereducazione (paideia); Aristotele (Politica, 1285 a 20) arriva a definire i barbari,che si lasciano governare dispoticamente, come schiavi per natura. “Grecità”diviene così uguale a cultura e civiltà, mentre l’Oriente persiano incarna labarbarie, non più soltanto in senso politico, ma anche come stile di vitacollegato con le qualità naturali della razza: l’autocoscienza greca assume uncarattere non più soltanto etico­politico, ma più ampiamente "culturale", fino adassumere risvolti etnici non chiaramente presenti in origine[5].

Il mondo greco ci propone dunque una duplice definizione dello straniero: unadefinizione culturale, che identifica il barbaro, e una definizione politica, cheidentifica lo xenos[6]. La percezione dello xenos non risente, ovviamente,dell’estraneità etnico­culturale relativa ai barbari, ma anch’egli, quando non siagarantito da specifici rapporti di tipo personale o familiare che lo trasformano inospite o protetto da convenzioni stipulate a livello di comunità, è un individuo

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formalmente privo di diritti e, quanto meno potenzialmente, anche un polemios,un nemico, esposto al diritto di rappresaglia (il diritto di impadronirsi dellapersona o dei beni di qualcuno, che il cittadino di uno stato poteva esercitarenei confronti del cittadino di uno stato estero, quando non potesse far valere isuoi diritti davanti agli organi di tale stato). E’ questo il riflesso delfrazionamento politico del mondo greco, in cui ogni comunità statale si pone inposizione antagonistica e competitiva rispetto alle altre: ma del problema siprese coscienza, cercando, fin dall’età arcaica, di porvi rimedio con istitutiparticolari. Essi riguardano prevalentemente il mondo degli xenoi, e sembranodunque presupporre, almeno idealmente, una omogeneità politico­culturale(non sono pensati, cioè, per essere applicati, in via normale, ai rapporti con ibarbari).

Tra queste forme, la più antica era la xenía, presente nel mondo greco findall’arcaismo: essa era una forma di ospitalità fondata sulla reciprocità, cheprevedeva la mutua assistenza (espressa attraverso l’ospitalità concreta, cioèl’offerta di vitto e alloggio, e attraverso la rappresentanza di fronte allacomunità cittadina ospitante) e veniva sancita con lo scambio di sýmbola,piccoli oggetti spesso spezzati in due parti, che servivano come strumento diriconoscimento e come prova dei legami di ospitalità anteriormente stabiliti.

La prossenia costituisce l’adattamento alle esigenze pubbliche dell’anticapratica privata della xenía. Il prosseno era un cittadino che, risiedendo nella suacittà d’origine, rappresentava la comunità straniera che gli aveva conferito iltitolo di prosseno; veniva nominato dalla comunità interessata non fra i propricittadini, ma fra i cittadini della comunità in cui si desiderava assicurareprotezione ai propri cittadini quando vi giungevano come xenoi. Suo compitoera essenzialmente quello di assicurare la protezione materiale dello straniero ela cura dei suoi interessi; in cambio, il prosseno veniva considerato stranieroprivilegiato nello stato che gli aveva conferito il titolo, e talora gli venivaaddirittura concessa la cittadinanza[7].

L’asylía o inviolabilità si sviluppò invece in ambito sacrale. In origine essacaratterizzava lo hieròn ásylon, il luogo sacro da cui persone e cose nonpotevano essere allontanate con la violenza e entro il quale esse erano protetteda una garanzia giuridica che le rendeva immuni dal diritto di rappresaglia. Conl’evoluzione del diritto, si sviluppò una differenza tra la sacralità del santuario,ove chiunque aveva il diritto di porsi come supplice (hikesía), e l’asylía vera epropria, che non era legata solo al diritto sacrale, ma era giuridicamentegarantita anche dalla legge positiva e presupponeva una concessione. L’asylía,nel senso di immunità dal diritto di rappresaglia, poteva essere concessa aisingoli in virtù di particolari benemerenze oppure ad intere città in seguito atrattati; in quest’ultimo caso essa era concepita anche come riconoscimentodell’inviolabilità di un’area sacra o di un intero territorio, all’interno dei qualiveniva garantita protezione, in quanto l’area dichiarata ásylos era sottratta alla

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giurisdizione secolare. Le dichiarazioni di asylía si diffusero in età ellenisticagrazie all’iniziativa dei grandi santuari, come Delfi, di sovrani e di città:nonostante il loro carattere prevalentemente onorifico, esse contribuirononotevolmente, grazie alla protezione che offrivano, a favorire la liberacircolazione internazionale[8].

Si è detto che i sýmbola erano, in origine, i doni che gli ospiti si scambiavanocome pegno di ospitalità. Il termine passò poi a designare le convenzionigiudiziarie, di carattere reciproco, tra due stati, destinate a proteggere irispettivi cittadini nei casi di contenzioso riguardanti prevalentemente l’ambitocommerciale. Il termine symbolaí, invece (che designava in origine i rapporti ditipo creditizio in ambito di diritto privato), venne ad identificare prima gliaccordi tra Atene e le città appartenenti alla lega delio­attica (trattati chegarantivano l’immunità della persona e dei beni di cittadini ateniesi eregolavano le procedure esperibili per agire in giudizio sui rispettivi territori, e dicui abbiamo alcune testimonianze epigrafiche), poi accordi giudiziari tra statigreci di portata più generale, non limitati all’area dei rapporti creditizi[9].

Lo straniero di passaggio nella polis poteva poi godere di alcune concessioni.Nel diritto attico sono attestati il diritto di svolgere traffici commercialinell’agorá, il diritto di usare pascoli in territorio ateniese, il diritto di possedereimmobili (énktesis ghes kai oikías), il diritto di sposare una donna attica(epigamía). Concessioni come l’epigamía e l’énktesis, che incoraggiavano lastabilizzazione, erano di carattere eccezionale, perché la polis era assairiluttante a concedere forme di equiparazione allo straniero, anche in uncontesto democratico come quello dell’Atene periclea.

Un notevole progresso nella mitigazione della posizione dello straniero ful’istituto della metoikía, a noi noto soprattutto in ambito ateniese, macertamente esistente anche in altre città greche. I meteci, o stranieri residenti,avevano uno status intermedio tra cittadini e xenoi: erano stranieri, di stirpegreca, che si stabilivano in Atene, per motivi commerciali, per un periodosuperiore a un mese. Avevano l’obbligo di porsi sotto la protezione di uncittadino, che assumeva la funzione di patrono (prostates): suo compito eraappoggiare la richiesta di iscrizione nelle liste dei meteci e garantire ilpagamento della tassa (di 12 dracme all’anno) cui erano sottoposti gli stranieriresidenti. I meteci erano iscritti in speciali registri anagrafici e prestavanoservizio militare (flotta, truppe ausiliarie), ma erano esclusi da ogni forma dipartecipazione politica. Per quanto riguarda la capacità processuale, potevanoottenere la tutela dei loro diritti intentando le apposite azioni davanti almagistrato competente, l’arconte polemarco (che in età classica eracompetente per ciò che riguardava i rapporti con gli stranieri). Si ritiene ingenere che avessero la possibilità di agire in giudizio solo quando erano in giocoi loro interessi particolari: potevano cioè esperire solo azioni private, nonpubbliche (riservate ai cittadini), e comunque, secondo una testimonianza di

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Aristotele (Politica 1275 a 5 ss.), attraverso il prostates. Sembra però chequest’ultimo non avesse una funzione di rappresentanza, ma semplicemente digaranzia in sede di citazione o di istruttoria, anche in relazione al deposito dellespese legali.

La posizione del meteco nell’ambito della comunità della polis è assai discussa.In genere sono state sottolineate le forme di esclusione del meteco rispetto alcittadino: l’impossibilità di esercitare i diritti politici, le restrizioni in termini digodimento dei diritti civili (matrimonio, proprietà), la mancata equiparazionegiuridica e fiscale. Tuttavia, è stato posto l’accento anche sulle modalità diparziale integrazione (a livello militare, fiscale, giudiziario) e sulla necessità diridimensionare il ruolo del prostates. La posizione del meteco rispetto allacomunità ateniese sembra insomma essersi avviata verso una maggioreintegrazione nel corso del IV secolo, soprattutto nel campo giudiziario[10].

2) Sentimento di identità e rifiuto dell’integrazione: il mitodell’autoctonia

Non tutti gli stati greci avevano lo stesso atteggiamento di fronte al rapportocon lo xenos. Atene non temeva il rapporto con gli stranieri ed era disponibilead accoglierli nel suo territorio e a farveli risiedere stabilmente come meteci:essa aveva anzi fama di aprire le sue porte agli esuli fin dall’epoca soloniana(Plutarco, Vita di Solone, XXIV, 2) e alimentava tale fama come una dellecaratteristiche positive del proprio stile di vita (Tucidide II, 39, 1). Sparta,invece, teneva sotto attento controllo gli stranieri di passaggio e praticavaregolari xenelasíai, “espulsioni di stranieri” (Tucidide I, 144, 2): si temevainfatti che il contatto con gli stranieri e, in particolare, l’importazione di denaromonetato alterassero il delicato sistema socio­economico spartano (cfr.Senofonte, Costituzione degli Spartani XIV, 4). Ma, al di là di queste differenzelegate ad un diverso stile di vita, tutto il mondo greco è accomunato da unsostanziale rifiuto dell’integrazione, non solo verso il barbaro, ma anche versolo xenos. Diversamente che nel mondo romano, dove la coscienza di essere findalle origini un popolo misto favorì la disponibilità all’integrazione del “diverso”sul piano etnico, sociale e culturale, in Grecia l’ideale è costituito dalla “nonmescolanza”[11]: lo evidenzia bene il mito dell’autoctonia (la rivendicazione diessere “nati dalla terra” e di non essere immigrati nella propria sede distanziamento dall’esterno), utilizzato come forma di rivendicazione di identitàetnico­culturale.

Un primo esempio ci è offerto dal contesto ateniese, che ripropone il mitodell’autoctonia attraverso diverse fonti. Tucidide si premura di precisare chel’Attica “fin dai tempi più remoti era stata abitata sempre dalle stesse persone”(I, 2, 4), mentre i Dori erano giunti nel Peloponneso ottant’anni dopo la guerradi Troia, sotto la guida degli Eraclidi (I, 12, 3). La contrapposizione tra gliAteniesi, autoctoni e di origine pura, e i popoli giunti da fuori e di carattere

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“misto” (migades) è espressa con particolare forza da Isocrate (Panegirico, 24).Il tema mitico vale a rivendicare aspetti apparentemente contraddittori delsistema di vita ateniese. Da una parte, esso ha un significato democratico esottolinea l’uguaglianza fra i cittadini di Atene, tutti parte di una popolazioneetnicamente e culturalmente unitaria, priva di stratificazioni sociali legateall’arrivo di nuove popolazioni sovrappostesi a quelle già insediate nel territorio(come era invece avvenuto, nel Peloponneso, con l’arrivo dei Dori)[12]. Lomette bene in evidenza un passo del celebre Epitafio di Pericle (Tucidide II, 36,1) che collega autoctonia e libertà; analoga sottolineatura delle conseguenzeche discendono dall’essere gli Ateniesi autoctoni, in termini di libertà e didemocrazia, emerge da un passo dell’Epitafio di Lisia (II, 17­18). D’altro lato, ilmito dell’autoctonia ha in ambito ateniese un risvolto assai meno nobile: poichési basa su una forte rivendicazione di identità anche etnica, esso vale infatti agiustificare la “serrata” della cittadinanza, voluta dalla legge di Pericle del451/50, che limitava l’accesso al corpo dei cittadini di pieno diritto ai figli dipadre e di madre ateniese, con l’intento di riservare ad un gruppo relativamentelimitato i privilegi derivanti dal possesso dello status di cittadino: privilegi chenella democrazia ateniese erano tanto significativi da frenare ogni disponibilitàad estenderli oltre la cerchia dei cittadini “puri” (katharoí). Del resto, nonmanca l’utilizzazione del tema dell’autoctonia in chiave imperialistica:l’immagine dell’Attica come madrepatria dell’intera stirpe ionica, che armonizzamito dell’autoctonia e tema della parentela ionica, ebbe un ruolo importante nelsostenere le pretese egemoniche degli Ateniesi rispetto agli alleati ionici dellalega delio­attica.

Un altro esempio è offerto dal caso dell’Arcadia, che ripropone il temadell’autoctonia in un contesto geopolitico molto diverso, quello del Peloponneso,la cui storia era stata caratterizzata dall’arrivo successivo di diverse popolazionie dalla ricerca di non sempre facili compromessi di convivenza con i popoli giàpresenti sul territorio. Gli Spartani, non a caso, giustificavano la loro egemoniasul Peloponneso con il mito del “ritorno degli Eraclidi”, testimoniato anche daTucidide I, 12, 3: l’arrivo dei Dori nella penisola non sarebbe stata una vera epropria invasione di popoli estranei all’area peloponnesiaca, ma il ritorno allaloro terra d’origine degli antichi abitanti. In questo contesto di tensioni e rivalitàfra popolazioni etnicamente non omogenee, gli Arcadi, all’epoca dell’egemoniatebana, si appellano alla tradizione che li voleva unica popolazione autoctonadel Peloponneso[13] per rivendicare il diritto all’egemonia su di esso, sia controgli Spartani, invasori provenienti dall’esterno, sia contro i Tebani, possibili“nuovi Spartani”, a loro volta estranei al Peloponneso. Il tema viene proposto inun discorso dell’arcade Licomede di Mantinea, che risale all’anno 364 e che ci èconservato da Senofonte (Elleniche VII, 1, 23­24). Il richiamo all’autoctonia ha,come si è già ricordato, anche precise implicazioni democratiche, che siripropongono qui nella contrapposizione tra gli Arcadi, stato federale aorientamento democratico, e la Sparta oligarchica paladina delle autonomie

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cittadine. Ma l’aspetto a mio parere più significativo sta nel collegamento tra ilmito dell’autoctonia e la crescita di una autocoscienza che porta gli Arcadi arivendicare l’egemonia sul Peloponneso. Licomede presenta infatti gli Arcadicome gli unici abitanti autoctoni del Peloponneso, dunque i più antichi e i soli apoter vantare diritti sul territorio; inoltre, come la popolazione “più numerosa epiù forte della Grecia”, come la più coraggiosa e capace di fornire uninsostituibile contributo militare. La convinta rivendicazione dell’origineautoctona e della forza militare e demografica degli Arcadi va di pari passo conl’invito ad assumersi le relative responsabilità storiche come egemoni di unPeloponneso libero da influenze esterne, finalmente nelle mani non di usurpatorivenuti da fuori, ma di un popolo dotato di una forte identità etnica strettamentelegata alla dimensione locale[14].

Il mito dell’autoctonia riveste dunque per i Greci un ruolo fondamentale nellarivendicazione della propria identità etnico­culturale ed è usato, di volta involta, per porre l’accento su aspetti diversi, dall’uguaglianza “democratica” trale componenti della cittadinanza alla difesa dei propri privilegi, dallagiustificazione di pretese egemoniche su elementi culturalmente affini allarivendicazione nazionalistica dei propri diritti ancestrali su un territorio controusurpatori di diversa origine. In tutti i casi, appare forte la tendenza asottolineare la propria identità politica e culturale nei confronti di altre realtàelleniche, verso le quali viene percepita e sottolineata, a diversi livelli,un’estraneità che fa da presupposto al rifiuto di ogni autentica prospettiva diintegrazione.

3) La posizione delicata dell’apolide

Esclusione tendenziale dello straniero e forte sottolineatura dell’identitàrendono particolarmente difficile la posizione, in Grecia, dell’apolide. Tale è lacondizione degli esuli (phygades), la cui posizione giuridica è, nel mondo greco,anche più delicata di quella degli xenoi. Gli apolidi sono infatti uomini rimastiprivi della cittadinanza: ed essendo il Greco essenzialmente un polites,l’assenza di cittadinanza rende l’esule degno di disprezzo. Si diventava esuli inseguito a provvedimenti di bando, dovuti a motivi di carattere politico (le lottedi fazione che caratterizzarono la storia della Grecia classica furono potentifattori di crescita del fenomeno dell’esilio) oppure all’applicazione di una pena;era però relativamente frequente che vi si ricorresse volontariamente, persfuggire (anche preventivamente) a questi provvedimenti o per cercare altrovecondizioni di vita più favorevoli. Nel corso del IV secolo il numero degli esulicrebbe enormemente nel mondo greco: gli apolidi, in condizioni di graveprecarietà sul piano economico e sociale, andarono ad accrescere le masseitineranti di avventurieri, mercenari, mercanti (Isocrate fa spesso riferimento aloro definendoli con il nome di planómenoi, “erranti”: cfr. Plataico, 46 ss.;Archidamo, 68; Filippo, 96). In una Grecia povera di risorse, queste masse diapolidi privi di residenza fissa e di mezzi di sostentamento (l’aporía tou biou di

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cui parla Isocrate, Panegirico, 174, sottolineandone le conseguenze negative intermini di instabilità sociale) alimentarono anche il brigantaggio[15].

L’esule poteva porre rimedio alla sua condizione (che spesso comportava anchela rottura dei rapporti familiari e la confisca dei beni) chiedendo ospitalità adun’altra comunità politica. L’esule si affidava, in questo caso, al principioreligioso della sacralità dell’ospite, posto sotto la protezione di Zeus Xenios, epoteva rendere più impegnativa per l’interlocutore la sua richiesta ponendosinella condizione di supplice (hiketes): tuttavia, le autorità politiche potevanoesitare nel concedere protezione, per motivi di opportunità politica (evitareconflitti con la comunità d’origine dell’esule) o anche per il possibile contrastotra norma religiosa e legge positiva (l’esule poteva trovarsi nella sua condizioneanche in base a fondati motivi giuridici). La sicurezza dell’esule dipendevainsomma dalla disponibilità di comunità che non avevano obblighi nei suoiconfronti, il che lo esponeva a diversi rischi: egli poteva essere dichiaratonemico dallo stato ospite, e dunque perseguito, catturato e ucciso (si pensi alcaso di Temistocle, inseguito per tutta la Grecia da emissari spartani e ateniesi,o ai “cacciatori di esuli” sguinzagliati dai Macedoni contro i democratici ateniesinel 322), oppure essere oggetto di una richiesta di estradizione (come quellarivolta da Sparta alle città greche a proposito dei democratici esuli all’epoca deiTrenta Tiranni). Il tema dei rischi che l’esule correva nel momento in cui sirivolgeva ad una comunità per chiedere ospitalità è fortemente presente nellatragedia attica, a riprova dell’importanza del problema nella società, nellacultura e nell’etica greca (per esempio nelle Supplici di Eschilo, nell’Edipo aColono di Sofocle, negli Eraclidi di Euripide). Già abbiamo ricordato latradizionale disponibilità degli Ateniesi nei confronti degli esuli: possiamoaggiungere che l’epigrafia ha restituito diversi decreti ateniesi in favore di esuli,i quali prevedono, oltre a vari onori e concessioni, forme di affidamento alleautorità (la boulé, gli strateghi), affinché essi non subiscano adikía e godano ditutela giuridica.

La massima aspirazione degli esuli era costituita, in ogni caso, nondall’integrazione in un diverso contesto politico e sociale, ma dal ritorno allapropria comunità di origine. Lo mostra bene il caso degli abitanti di Platea, unacomunità di esuli che, in condizioni assai sfavorevoli, riuscì a mantenere unasalda identità cittadina e coltivò sempre il sogno del ritorno, mostrandosidisinteressata all’integrazione in un contesto diverso. Platea, città beoticagravitante fin dal VI secolo su Atene, cui era legata da una stabile amicizia,venne distrutta nel 427 dai Tebani, sostenuti dagli Spartani; gli uomini furonouccisi, donne e bambini resi schiavi (Tucidide III, 68). Circa 2000 Plateesi (tracui circa 550 adulti maschi) trovarono rifugio in Atene, dove ricevettero, con unraro caso di naturalizzazione di gruppo, la cittadinanza ateniese[16].

L’inserimento nel corpo civico ateniese consentì ai Plateesi di sfuggire allaprecaria condizione di apolidi, in attesa di tempi migliori. Durante la

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permanenza in Atene, sappiamo che la comunità dei Plateesi cercò dimantenere la sua coesione attraverso lo stretto contatto con i connazionali e ilmantenimento delle proprie abitudini e tradizioni. Un passo dell’orazione lisianaContro Pancleone, rivolta contro un tale che si diceva Plateese ed erasospettato di volere, con ciò, usurpare i diritti concessi dagli Ateniesi aglisfortunati abitanti di Platea, ci informa del fatto che i Plateesi residenti in Atenesi riunivano fra loro una volta al mese al mercato del formaggio fresco (LisiaXXIII, 5­6). La testimonianza illustra bene la volontà dei Plateesi di mantenerela propria identità e la coesione della comunità, costituendo una sorta dienclave nell’ambito del corpo civico ateniese, in attesa del ritorno alla propriacittà di origine. La difficoltà di integrazione dei Plateesi in ambito ateniese,nonostante la tradizionale amicizia con Atene e la generosa accoglienzaricevuta, è testimoniata dal mantenimento dell’etnico Plataieus (che emerge,oltre che dalla testimonianza lisiana, dalle iscrizioni sepolcrali)[17] e dallosvolgimento del servizio militare in unità separate (Tucidide IV, 67, 1­2). Unaconferma viene dal fatto che gli Ateniesi, già nel 421, cercarono di trovare unanuova sede ai Plateesi, inviandoli col loro consenso a Scione, distrutta espopolata (Tucidide V, 32, 1; Isocrate, Panegirico, 109; Diodoro XII, 76, 4). Nel404 però, dopo la sconfitta di Atene nella guerra del Peloponneso, i Plateesifurono espulsi da Scione per volontà di Lisandro (Plutarco, Vita di Lisandro, XIV,4) e dovettero rientrare in Atene, dove come testimonia Lisia, si trovavano agliinizi del IV secolo.

Ma la vicenda non finisce qui. Platea fu ricostruita in seguito alla pace comunedel 386 (Pausania IX, 1, 4), dalla quale probabilmente i Plateesi si attendevanouna garanzia di autonomia dalle pretese tebane. In un clima politico che vedevaAtene e Tebe alleate contro Sparta, l’appoggio di quest’ultima divenivafondamentale per Platea, che accolse una guarnigione spartana e con Spartacollaborò negli anni successivi. Nell’estate del 373 Platea, riluttante ad aderirealla Lega beotica sottomettendosi al controllo di Tebe, fu nuovamente attaccatae distrutta dai Tebani; l’intervento fece precipitare i rapporti fra Atene e Tebe,che erano state fino a quel momento unite contro Sparta (Senofonte, Elleniche,VI, 3, 1)[18]. Si apriva così, per i Plateesi, una nuova stagione di incertezza.Nonostante l’impegno profuso da Isocrate, che pubblicò fra 373 e 371 il Plataicoper sostenere i Plateesi che chiedevano la ricostruzione della loro città e dipinsea tinte fosche il triste destino dei Plateesi privati della patria (§ 46 ss.), questavolta l’impegno ateniese nei confronti degli esuli fu meno deciso di quello del427. Del resto, forse gli stessi Plateesi non si attendevano, né desideravano, unnuovo assorbimento nel corpo civico ateniese: dal Plataico isocrateo risulta inrealtà che essi si limitarono a richiedere la ricostruzione della loro città,lamentando la perdita del koinòs bios e, con esso, del rapporto solidale con lacomunità (§ 46­49). Il passo mostra come i Plateesi temessero soprattutto laperdita di identità collegata con la fine di quel koinòs bios che si sperimentavanell’ambito della polis e che costituiva uno degli aspetti fondamentali

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dell’identità greca, tant’è vero che essi avevano cercato in ogni modo dimantenerne alcuni aspetti durante il soggiorno ateniese del secolo precedente:in questa prospettiva, una nuova concessione di cittadinanza da parte ateniesenon avrebbe certo risolto i loro problemi. Non è la piena integrazione nel corpocivico dell’amica Atene che i Plateesi si attendevano, bensì un concreto aiuto atornare a Platea e a ricostituire l’integrità della comunità cittadina originaria: ilche poté avvenire solo dopo il 338, quando Platea fu ricostruita per iniziativa diFilippo II di Macedonia.

Nella situazione di estrema precarietà dei Plateesi, costretti a lunghi periodi diesilio che comportarono la resezione dei rapporti con il territorio e losfaldamento della comunità e li costrinsero a sopravvivere come minoranzanumerica più o meno ben tollerata in ambiente estraneo, colpisce la capacità dimantenere comunque una forte identità etnica, politica e culturale, in grado diconsentire la rifioritura della comunità, una volta realizzate condizioni piùfavorevoli. E colpisce soprattutto il disinteresse per l’integrazione in Atene, chepure li aveva accolti con generosità, concedendo loro una eccezionalenaturalizzazione di gruppo e sottraendoli al loro stato di apolidi.

La percezione dello straniero nella mentalità dei Greci e la posizione giuridica dicui egli godeva nel mondo delle città greche autorizzano a parlare di una sua“definizione funzionale”[19]: egli, cioè, riceve una serie di concessioni che nemigliorano la condizione e ne favoriscono, se non l’integrazione, almeno lasicura convivenza con i cittadini della comunità che più o meno stabilmente liospita, nella misura in cui essi offrono a tale comunità prestazioni che essariconosce utili. Il rapporto che si viene a determinare è dunque di naturacontrattuale: la polis, nel suo carattere di comunità fondata sul riconoscimentodi culti e di leggi comuni e sulla partecipazione dei cittadini alla gestione degliaffari comuni, in linea di principio esclude lo straniero; ma ne può apprezzarel’attività in campo economico, contributivo, militare, evergetico. In questo caso,la città elabora i diversi istituti che abbiamo esaminato e, pur non integrando lostraniero, gli offre la possibilità di non essere considerato un nemico e dientrare in una qualche relazione con la comunità cittadina.

Ma il rapporto fra identità e integrazione nel mondo greco è complesso. Ilcittadino, con il suo forte senso di identità, anche nei confronti degli altri Greci,che così bene si esprime nel mito dell’autoctonia, è riluttante a integrare loxenos; ma è anche vero che neppure lo xenos vuole veramente integrarsi, e gliapolidi, come mostra il caso dei Plateesi, mostrano un sostanziale disinteresseper ogni soluzione (dall’integrazione alla ricerca di nuove sedi) che noncomporti la ricostruzione della comunità originaria. Il forte senso identitariocaratteristico dell’uomo greco tende ad escludere ogni forma di integrazione,non solo, come è logico, nel caso in cui si debba concederla, ma anche nel casoin cui se ne sia beneficiari.

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Il tramonto, in seguito all’affermazione dei grandi regni ellenistici,dell’esperienza politica della polis (le cui tradizionali strutture sopravvivono, maormai prive, una volta venute meno l’autonomia e la libertà, del loro piùautentico significato partecipativo) favorì una percezione diversa, ecaratterizzata da maggiore apertura e disponibilità, verso lo straniero. Lagrande crescita della popolazione e la commistione che essa portò con sé creòun tessuto sociale assai composito, in cui la diversità, anche etnica, fupercepita in forma meno drammatica. All’interno delle città, la differenza trameteci e xenoi, così forte nella polis classica, si affievolì; lo sviluppo della vitaassociativa, in ambito militare, commerciale e religioso­cultuale, favorìl’integrazione degli elementi stranieri, anche di etnia non greca. La cittàellenistica, concepita come centro di cultura piuttosto che come forma di stato,può essere considerata, diversamente da quella classica, una più efficacestruttura di integrazione.

Cinzia Bearzot

Università cattolica di Milano

[1] Ho già trattato i temi discussi in queste pagine nei seguenti interventi: Lostraniero nel mondo greco: xenoi, apolidi, barbari, in Stranieri, profughi emigranti nell’antichità, Nuova Secondaria 18, 3, novembre 2000, 30­38; Imeteci di Lisia, Nuova Secondaria 18, 3, novembre 2000, 34­36; Rivendicazionedi identità e rifiuto dell’integrazione nella Grecia antica (Ateniesi, Arcadi,Plateesi, Messeni), in Identità e integrazione. Passato e presente delleminoranze nell’Europa meridionale (Atti del Seminario, Milano 29 aprile e 3maggio 2004), in corso di stampa; Autoctonia, rifiuto della mescolanza,civilizzazione: da Isocrate a Megastene, in Incontri tra culture nell’Orienteellenistico e romano (Atti del Convegno, Ravenna 11­12 marzo 2005), in corsodi stampa.

[2] M. MOGGI, Greci e barbari: uomini e no, in Civiltà classica e mondo deibarbari. Due modelli a confronto, Trento 1991, 31­46, 34; ID., Straniero duevolte: il barbaro e il mondo greco, in Lo straniero ovvero l’identità culturale aconfronto, Roma­Bari 1992, 51­76; ID., Lo straniero (xenos e barbaros) nellaletteratura greca di epoca arcaica e classica, Ricerche storico­bibliche VIII, 1­2(1996), 103­116.

[3] Che ha indotto J.M. HALL, Ethnic Identity in Greek Antiquity, Cambridge ­New York 1997, 47 ss., a parlare di “oppositional identity”, rispetto alla“aggregative identity” dell’arcaismo.

[4] Cfr. Eschilo, Supplici, 370 ss.; Euripide, Ecuba, 1199 ss.; Elena, 276; Ifigeniain Aulide, 1400.

[5] Cfr. W. NIPPEL, La costruzione dell’“altro”, in I Greci. Storia cultura artesocietà, I: Noi e i Greci, Torino 1996, 165­196.

[6] Cfr., oltre ai contributi di MOGGI citati alle note 3 e 4, M.­F. BASLEZ,

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L’étranger dans la Grèce antique, Paris 1984, 22.

[7] Su xenía e prossenia cfr. M. SCOTT, Philos, philotes and xenia, in “Actaclassica” 25 (1982), 1­19; M.B. WALBANK, Athenian Proxenies of the FifthCentury B.C., Toronto­Sarasota 1978; B. BRAVO, “Sulan”. Représailles etjustice privée dans les cités grecques, “Annali della Scuola Normale Superiore diPisa” III, 10, 1980, 675­987.

[8] Sull’asylía, cfr. K.J. RIGSBY, Asylia. Territorial Inviolability in the HellenisticWorld, Berkeley­Los Angeles 1996; M. DREHER (ed.), Das antike Asyl. KultischeGrundlagen, rechtliche Ausgestaltung und politische Funktion (Akten desKolloquiums Villa Vigoni, Loveno di Menaggio, 13.­16. März 2002), Köln 2003.

[9] Sulle convenzioni fra stati cfr. P. GAUTHIER, Symbola. Les étrangers et lajustice dans les cités grecques, Nancy 1972; S. CATALDI, Symbolai e relazionitra le città greche nel V secolo a.C., Pisa 1983.

[10] Cfr. D. WHITEHEAD, The Ideology of the Athenian Metic, Cambridge 1977;C. BEARZOT, Apragmosyne, identità del meteco e valori democratici in Lisia, inIdentità e valori: fattori di aggregazione e fattori di crisi nell’esperienza politicaantica (Atti del Convegno, Bergamo­Brescia 16­18 dicembre 1998), Roma 2001,63­80.

[11] Cfr. M. SORDI, Integrazione, mescolanza, rifiuto nell’Europa antica, inIntegrazione, mescolanza, rifiuto. Incontri di popoli, lingue e culture in Europadall’Antichità all’Umanesimo (Atti del Convegno Cividale del Friuli, 21­23settembre 2000), Roma 2001, 17­26; EAD., Her. VIII, 144, 3 – Sall. Cat. VI, 2:unità e alterità etnica nel modello greco e nel modello romano, in L’alterità nelladinamica delle culture antiche e medievali: interferenze linguistiche e storichenel processo della formazione dell’Europa (Atti del Convegno Milano, 5­6 marzo2001), Milano 2002, 71­81.

[12] Cfr. V. ROSIVACH, Autochtony and the Athenians, CQ 37 (1987), 294­306;M. SORDI, Propaganda e confronto politico, in Alle radici della democrazia: dallapolis al dibattito costituzionale contemporaneo, Roma 1998, 57­67, 60 ss.

[13] Presente già in Erodoto (VIII, 73: “Sette popoli abitano il Peloponneso. Diessi due sono autoctoni e risiedono nella regione che abitavano anche nei tempiantichi, gli Arcadi e i Cinuri”) e in Tucidide (I, 2, 3: “Le terre migliori subivanocontinui mutamenti di abitatori, come quella che ora è chiamata Tessaglia e laBeozia e la maggior parte del Peloponneso ad eccezione dell’Arcadia”).

[14] Cfr., per ulteriore approfondimento sul discorso di Licomede, C. BEARZOT,Federalismo e autonomia nelle Elleniche di Senofonte, Milano 2004, *.

[15] Cfr. C. BEARZOT, Xenoi e profughi nell’Europa di Isocrate, in Integrazione,mescolanza, rifiuto. Incontri di popoli, lingue e culture in Europa dall’Antichitàall’Umanesimo (Atti del Convegno, Cividale del Friuli 21­23 settembre 2000),Roma 2001, 47­63.

[16] Cfr. L. PRANDI, Platea. Momenti e problemi della storia di una polis, Padova1988, 93 ss.; per una accurata disamina delle fonti sulla concessione cfr. M.J.OSBORNE, Naturalization in Athens, I, Brussel 1981, 28 (D1); II, Brussel 1982,11 ss.

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[17] Plataieús /Plataiké, con diverse grafie: cfr. IG II­III2 10086­10102.

[18] Sulla vicenda e le relative fonti cfr. PRANDI, Platea, 121 ss.; C. BEARZOT,La città che scompare. Corinto, Tespie e Platea tra autonomia cittadina epoliteiai alternative, in In limine. Ricerche su marginalità e periferia nel mondoantico, Milano 2004, 269­286.

[19] BASLEZ, L’étranger dans la Grèce antique, 204.