Wiccan. Libro Primo

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di Claudio Paganini, fantasy. Era un rigido inverno quello del 1680, quando mia madre Mary mise al mondo un piccolo esserino tutto rosso e paffuto che avrebbe poi chiamato Sara: io, tutta strilli e pianti, avida di latte e di attenzioni, misero premio dopo così tante sofferenze. Nulla di speciale nella storia di Wenham, piccolo borgo immerso nel verde dei boschi e della campagna, a poche miglia da Salem, nella contea di Essex, il 2 febbraio dell’anno del Signore 1680. Una bimba speciale, baciata dalla Dea, condannata da un’antica profezia a essere il fulcro vitale nell'eterna lotta tra il Bene e il Male, tra la Luce e le Tenebre in un contesto crudele di persecuzione e di morte che fecero di Salem e del suo tribunale un esempio indelebile di spietata ferocia.

Transcript of Wiccan. Libro Primo

In uscita il 30/9/2014 (15,00 euro)

Versione ebook in uscita tra fine ottobre e inizio novembre 2014 (4,99 euro)

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CLAUDIO PAGANINI

WICCAN LIBRO PRIMO

 

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WICCAN - LIBRO PRIMO Copyright © 2014 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-767-4 Copertina: Immagine Shutterstock.com

Prima edizione Settembre 2014 Stampato da

Logo srl Borgoricco – Padova

A mio padre. So che leggerà anche questo mio libro.

Un ringraziamento speciale a mia sorella Gabriella che

si è assunta l’onere (e l’onore) di controllare e correggere il mio lavoro.

PROLOGO Era un rigido inverno quello del 1680, quando mia madre Mary mise al mondo un piccolo esserino tutto rosso e paffuto che avrebbe poi chiamato Sara: io. Il travaglio era stato lungo ed estenuante e le cattive condizioni atmosferiche non avevano di certo aiutato; la levatrice, proveniente dal villaggio vicino, arrivò appena in tempo per aiutarmi a nascere, in mezzo alle urla e al sudore di quella povera donna. Era il secondo parto che sopportava in quelle condizioni, l’ultimo dopo un aborto spontaneo avvenuto l’anno precedente che l’aveva quasi portata in punto di morte. Ma la forte fibra dei coloni aveva avuto la meglio anche questa volta e ora mi trovavo tutta sporca e piangente tra le braccia di mia madre. I figli erano la dimostrazione dell’Amore di Dio o così almeno insegnava il pastore puritano del nostro villaggio ma in quel momento, l’unica cosa che interessava a mia madre era che io ero viva e in salute, tutto il resto erano solo parole al vento. Mio padre era alla taverna, circondato dagli amici e dai parenti più stretti, in attesa di notizie sulla mia nascita; era in ansia, visto com’era andata a finire la scorsa gravidanza, ma non lo dava a vedere, si sforzava di sembrare allegro e ottimista ma dentro di sé moriva di paura. Contrariamente a quello che succedeva di consuetudine tra gli abitanti delle colonie, il suo era stato un vero matrimonio d’amore, sbocciato in giovane età e coltivato di nascosto fino a quando le possibilità economiche gli avevano permesso di raggiungere un accordo con i futuri suoceri. A quei tempi, lui e mia madre vivevano ancora a Salem, dove mio nonno, Abraham Baldwin, possedeva un appezzamento di terreno che coltivava durante la bella stagione

mentre d’inverno cacciava animali da pelliccia insieme ai suoi figli. La sua integrità morale, unita alla disponibilità economica, gli aveva fruttato la nomina di gentiluomo nella cerchia ristretta dei puritani benestanti di Salem e questo fu fondamentale per la richiesta di matrimonio di suo figlio George con Mary Hobbs, mia futura madre. Tutto questo era privo di significato per me che, nuda e tremante, cercavo conforto e calore sul corpo esausto di quella povera donna che mi aveva appena partorito, un esserino tutto strilli e pianti, avida di latte e di attenzioni, misero premio dopo così tante sofferenze. La levatrice non era certo una donna delicata, anche se sapeva fare bene il suo lavoro: ricucì alla meglio con un grosso ago e del filo di seta le parti intime della sua paziente e mi lavò con l’acqua tiepida del catino di stagno posto ai piedi del letto; dopo di che mi avvolse in un panno morbido, caldo e pulito e mi affidò alle cure amorose di mia mamma. Questa, in breve, fu la storia della mia nascita, nulla di speciale nella storia di Wenham, piccolo borgo immerso nel verde dei boschi e della campagna, a poche miglia da Salem, nella contea di Essex, il 2 febbraio dell’anno del Signore 1680.

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CAPITOLO 1 Wenham era un piccolo paesino, poco più di un villaggio, costruito su un territorio ricco di acqua e di foreste. Prima del nostro arrivo, queste terre erano occupate dagli indiani Algonchini della tribù dei Massachusett, gente pacifica dedita alla caccia, alla pesca e alla coltivazione di un nuovo tipo di cereale, il mais. Erano un popolo nomade che si spostava, a seconda delle stagioni, verso terreni dove era più facile trovare cibo. Quando, nel 1638, il ministro della chiesa di Salem Hugh Peters predicò a un gruppo di suoi concittadini, riuniti su una collina della Great Pond, la necessità di fondare nuove colonie, un gruppo di avventurieri si spinse nel territorio algonchino fino a raggiungere un loro insediamento appena abbandonato. Trovando terreno fertile pronto per la semina e abbondanza di acqua e legname, decisero di fondare proprio in quel posto la nuova comunità, chiamandola Wenham in ricordo dei loro villaggi di provenienza, nella contea di Soffolk in Inghilterra. Insieme alle case per gli abitanti, i coloni eressero la loro chiesa, terminata nell’ottobre del 1644, con John Fiske come pastore e sette famiglie come membri anziani, secondo le migliori tradizioni puritane dell’epoca. Questa almeno era la storia che i vecchi del paese raccontavano ogni volta che potevano, arricchendola sempre di nuovi particolari a volte veramente incredibili. Erano passati poco più di quarant’anni dall’arrivo dei primi coloni ma il tenace lavoro della comunità aveva dato i suoi frutti. Altre famiglie si erano unite nel corso degli anni tanto che, al momento della mia nascita, Wenham aveva esteso i propri confini a sud verso Wenham Lake e a nord verso Pleasand Pond; le nuove fattorie che sorgevano avevano bisogno di terreno e

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di acqua e quei luoghi ne erano particolarmente ricchi. Gli indiani tornarono anno dopo anno spostando i loro campi più a ovest, tra Cedar Pond e Muddy Pond; si era temuto uno scontro i primi anni quando al ritorno dai loro campi invernali avevano trovato il loro territorio occupato da forestieri che avevano costruito fattorie proprio sulle loro terre. Ringraziando il Signore, la tribù era d’indole buona e pacifica; non solo avevano accettato di spostare il loro accampamento ma avevano iniziato una sorta di commercio basato sul baratto e insegnato ai nostri contadini come si coltivavano il mais e altri cereali come il riso selvatico. Non tutti erano stati fortunati come noi a trovare vicini così disponibili e comprensivi: erano giunte notizie che in altri posti le tribù di pellirosse si erano rifiutate di cedere la loro terra e c’erano stati scontri sanguinosi che ancora perduravano. E qui, in questa vallata incantata, io e mio fratello Jonathan passammo i primi anni della nostra infanzia. La nostra casa era situata ai margini del paese, vicino alla foresta; mio padre coltivava un appezzamento di terreno vicino a Muddy Pond, terra fertile abbastanza vicino allo stagno da garantire una facile irrigazione, mentre mia mamma, oltre ad aiutarlo nei campi, preparava medicamenti e infusi con le erbe che quotidianamente raccoglieva nei boschi. Era questo l’aspetto di mia madre che più mi affascinava: era capace di girare per ore nei boschi circostanti, spingendosi a volte molto lontano, per raccogliere erbe e funghi che poi impiegava in mille modi diversi, in cucina, per curare gli animali e, a volte, anche gli uomini. Non passava giorno che qualcuno bussasse alla nostra porta per chiederle aiuto, fosse soltanto per suturare una ferita o per alleviare il dolore per un’ustione; credo che fosse la donna più benvoluta di tutta la comunità, tanto che anche il pastore, durante la funzione del sabato, aveva più volte elogiato lo spirito caritatevole e le doti cristiane di Mary Hobbs. Non era raro che mio fratello, più grande di me di tre anni, seguisse mio padre durante le battute di caccia alle anatre selvatiche mentre io e la mamma ci dedicavamo alla raccolta delle foglie e delle radici che le occorrevano. Era un’occupazione che ogni volta mi riempiva di gioia e di ammirazione verso quella donna che conosceva così tante cose; la seguivo costantemente e osservavo tutto quello che faceva

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tanto che, all’età di quattro anni, ero già in grado di dare il mio piccolo aiuto alla sua attività. Come in ogni famiglia puritana che si rispetti, anche nella nostra lo studio della Bibbia era una pratica quotidiana che ci teneva impegnati per varie ore, ma era anche l’occasione per imparare molte cose, prima fra tutte leggere e scrivere. Mio fratello era insofferente a questi insegnamenti, tutto preso dalla smania di emulare mio padre in ogni sua attività; lo seguiva ovunque, ripetendo i gesti che gli vedeva fare, chiedendo insistentemente che gli insegnasse a cacciare con l’arco e le frecce come i pellirossa. Era una tecnica che George aveva imparato dal suo amico Falco Lucente, l’algonchino con cui, fin dal nostro arrivo, aveva commerciato e di cui, inevitabilmente, era diventato amico; aveva, infatti, un’ammirazione profonda verso quel popolo nomade, tanto pacifico quanto operoso: era affascinato dalla loro libertà, dal modo semplice di concepire la vita e i suoi misteri, dalla perfetta armonia con cui avevano organizzato la loro società. Spesso, a notte fonda, quando tutti pensavano che noi piccoli dormissimo, sentivo i nostri genitori chiacchierare sottovoce proprio di quest’argomento. Quando mio padre paragonava la loro società alla nostra, un velo di tristezza calava sulla sua voce: ero sicura che, se avesse potuto, sarebbe partito con loro invece di rimanere qui a rendere conto di tutto al consiglio della chiesa. Il suo rapporto così amichevole con “i selvaggi”, come amavano definirli i gentiluomini della nostra comunità, non era ben visto dai nostri concittadini e, spesso, ciò era stato fonte di rimprovero e di condanna, anche se limitata a battute poco gentili o a sgarbi velati: tutti avevano bisogno delle conoscenze di mia madre o della forza di mio padre ma nessuno ci avrebbe mai invitato di proposito a casa loro. I miei genitori soffrivano di questa situazione e così pure mio fratello, preso di mira dagli scherzi degli altri ragazzi e messo da parte quando si facevano giochi di gruppo. Per fortuna non tutti erano così meschini a Wenham e così potevamo onorarci di una piccola schiera di amici cui non interessavano le dicerie e le

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maldicenze, persone che apprezzavano il carattere onesto e gentile della nostra famiglia e null’altro. Anche il fatto che Mary avesse solo due figli era visto sotto una cattiva luce dai benpensanti della comunità; poco importava che tutti sapessero che la mia nascita aveva così provato il fisico di mia madre da rendere impossibile una nuova gravidanza: abituati a famiglie molto numerose, la nostra era un’eccezione che saltava subito agli occhi e non in senso positivo. Le giornate passavano una uguale all’altra, scandite dal lavoro nei campi, dalle faccende domestiche e dall’inevitabile studio delle sacre scritture; per questo l’arrivo del sabato era festeggiato come una grazia divina. In quel giorno era vietato, infatti, lavorare o commerciare, dedicando l’intera giornata al Signore; ci si riuniva in chiesa, un edificio spoglio, senza tutti quegli arredi sacri e le candele che avevo visto una volta di sfuggita in una chiesa cattolica a Gloucester, durante una visita a una delle sorelle della mamma. Cantavamo inni, leggevamo brani della Bibbia e ascoltavamo i sermoni del nostro reverendo che ci metteva in guardia dal peccato, citando i salmi e i profeti dell’Antico Testamento esortandoci a ringraziare l’Onnipotente per la nuova terra che ci aveva donato. Ma la parte più bella della giornata veniva subito dopo, quando avevamo il permesso di andare a giocare tutti insieme; durante la bella stagione era l’occasione per recarsi a uno degli specchi d’acqua poco distanti dal villaggio per fare il bagno, mentre gli adulti formavano gruppi che organizzavano pranzi frugali all’aria aperta. Anche quella era un’opportunità per stringere nuove amicizie o consolidare quelle vecchie ma, come sempre accade nelle piccole comunità, era anche la circostanza in cui i vari ceti sociali della collettività facevano pesare la loro diversità. Il nostro gruppo era sempre lo stesso, composto di altre due famiglie di amici intimi: c’erano gli Sheldon con i loro cinque figli, Mark, Susan, Abigail, la mia migliore amica, Jordan e il piccolo Tom di appena quattro mesi e gli Short con i loro sei figli scalmanati, i gemelli Abram e Robert, Ann, Samuel, poco più grande di me, William e infine Nathan che muoveva i primi passi da solo sull’erba, in quella calda giornata di primavera dell’anno del Signore 1686.

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CAPITOLO 2 Le uscite nei boschi con mia madre avevano più di uno scopo: con il pretesto della raccolta, i suoi insegnamenti si estendevano, oltre che alle piante, alle radici e alle loro proprietà, anche a tutto ciò che ci circondava. Durante le lunghe perlustrazioni nei boschi e lungo gli acquitrini osservavamo gli alberi e le loro forme, le radure: perfino i luoghi dove crescevano i fiori selvatici erano oggetto di lezioni su come la Natura fosse armonia e forza, bellezza e magia. Io seguivo i suoi insegnamenti come poteva farlo una bimba di sei anni ma sentivo, in cuor mio, che mi stava preparando a qualcosa di molto più grande, più complesso, con la delicatezza e la pazienza che solo una madre poteva possedere. Ci allontanavamo ogni volta sempre di più, alla ricerca di specie nuove, più adatte ai bisogni e alle richieste del vicinato e ogni volta osservavamo come la natura sapesse essere così perfetta, così splendente nelle sue forme. La “Grande Madre” la chiamava, mentre si chinava a recidere, con una piccola lama affilata che portava sempre con sé, lo stelo o il gambo di qualche pianta officinale e ogni volta la sentivo mormorare con un filo di voce una sorta di preghiera, un ringraziamento in una lingua che non avevo mai sentito. Ero troppo piccola per capire e mia madre reputava che fosse troppo presto per approfondire le mie conoscenze, troppo pericoloso proprio a causa della mia tenera età e del mondo che ci circondava. Una cosa però avevo imparato da sola: c’erano luoghi nella foresta o sulle rive dei laghetti che visitavamo che avevano qualcosa di strano, di impalpabile eppure di tangibile, almeno per me. Quando cominciai a percepire queste strane sensazioni non ne feci parola con nessuno, nemmeno con mia madre; avvertivo qualcosa nell’aria, nelle piante, perfino nell’acqua che mi lambiva i

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piedi, nulla di sgradevole, tutt’altro: una sorta di pizzicorino che mi attraversava tutta la pelle, partendo dalla nuca, e che mi riempiva di energie, di euforia senza alcun motivo. All’inizio ne ero intimorita, quasi stessi provando qualcosa di proibito, di peccaminoso, visto che nessun altro lo provava ma, con il passar del tempo, imparai a gioirne e ad apprezzare queste sensazioni, anche perché era proprio in quei luoghi che trovavamo le erbe migliori. Fu solo al mio nono compleanno che mi decisi ad accennare la cosa alla mamma; ricordo che era sera, davanti al fuoco del camino, stavamo disponendo alcune radici su un graticcio in modo che seccassero in modo uniforme e io mi ero incantata ad ammirare le fiamme che danzavano nel focolare. «Sara, che cos’hai? Mi sembri lontana con i pensieri… c’è qualcosa che non va?» «No mamma, nulla. Mi ero incantata a vedere le fiammelle che danzano sul ceppo: non fanno mai lo stesso movimento e, se ti immagini di suonare una musica, sembra che danzino per te.» Mia madre rimase colpita dalla mia ingenua spiegazione e posò immediatamente il canestro con le erbe sul tavolo, si avvicinò a me e dopo aver preso il mio viso tra le sue mani, cominciò a osservarmi con attenzione; aveva occhi splendidi, di un verde pallido, con pagliuzze dorate che scintillavano alla luce del fuoco. Non era preoccupata, solo incuriosita e, cosa che non riuscivo ancora a capire, si leggeva nel suo sguardo un’aspettativa, la speranza di scorgere qualcosa da tempo atteso. «Mi fai vedere come fai?» mi chiese sorridendo compiaciuta; le sue labbra si erano allargate in un’espressione di gioiosa meraviglia e tutto il suo viso si era come illuminato. «Ma, non so, mi viene naturale. Io penso a una delle musiche che suona papà con il flauto e le fiammelle si mettono a danzare, tutte insieme.» Osservavo mia madre che scrutava dentro il camino e quasi stentavo a credere che prendesse per buone le mie parole: ero abituata a essere derisa quando raccontavo le mie avventure con la mamma nei boschi e avevo imparato quasi subito a tenere per me tutto quello che mi succedeva, compreso questo strano fenomeno.

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«È vero, ballano davvero a suon di musica» la sentii dire mentre, raggiante, si voltava verso di me. «Domani andremo di nuovo nel bosco, verso sera magari, così ti insegnerò altre cose, cose speciali che non dovrai rivelare a nessuno, nemmeno a papà. Ora vai a dormire perché domani sarà un giorno molto intenso.» Capii in quell’istante che mio padre era all’oscuro dei piccoli segreti che condividevo con la mamma, di tutto ciò che esulava dalla semplice pratica dei decotti e delle tisane che mia madre preparava per chi ne aveva bisogno; in quel momento compresi di far parte di un mondo diverso, fatto di sotterfugi e stratagemmi che celavano la vera natura delle cose che sapevamo, qualunque essa fosse... e ne ebbi paura. Mi svegliai molto presto la mattina del giorno dopo; avevo dormito male durante la notte, la testa piena di pensieri e di timori: a nulla era valso il tentativo di autoconvincermi che le cose che la mamma mi avrebbe detto quel giorno potevano essere solo positive, che il sorriso sul suo volto era una prova certa che mi stava succedendo qualcosa di bello e non di orribile come temevo. Riecheggiavano ancora nelle mie orecchie le parole del reverendo che, durante il sermone del sabato, aveva esortato noi bambini a essere vigili perché «il demonio si nasconde nelle cose più comuni, dall’apparenza innocue. Vi inganna e vi tenta con le sue lusinghe.» Mio padre e mio fratello si stavano preparando per andare a pesca; le prime luci dell’alba avevano rischiarato da poco l’orizzonte e mia madre era intenta a preparare la colazione: sarebbero stati via tutto il giorno e, con un po’ di fortuna, avrebbero portato a casa dei bei pesci da arrostire nel camino. Li salutai sulla porta di casa con una punta d’invidia mista al timore per la giornata che mi attendeva; quel giorno avremmo fatto le faccende e sbrigato gli obblighi verso Dio con più rapidità del solito perché mia madre aveva altri progetti per me, qualcosa che avrebbe cambiato irrimediabilmente la mia vita e quella delle persone a me care. Solo che io ancora non lo sapevo.

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CAPITOLO 3 Il bosco sembrava ancora più verde del solito ai miei occhi; ogni colore brillava con un’intensità che faceva quasi male mentre i raggi del sole del primo pomeriggio scendevano obliqui sul terreno. Avevamo preso il sentiero dietro casa, quello che dopo pochi metri girava improvvisamente e senza alcun visibile motivo verso ovest, in direzione degli stagni; lo avevamo percorso centinaia di volte, sia per andare a raccogliere erbe che per andare a fare il bagno nei caldi pomeriggi estivi. Ora, all’inizio dell’autunno, camminavamo su un tappeto di foglie multicolori che attutivano il rumore dei nostri passi; la natura, in quel periodo dell’anno, regalava un paesaggio senza eguali: rosso, verde e giallo si fondevano e si mischiavano creando sfumature sempre diverse, una più bella dell’altra. Fu in quel miscuglio di colori e di sensazione di pace e tranquillità che non mi accorsi di aver abbandonato il solito percorso, inoltrandomi nel fitto della foresta. Mia madre mi seguiva, compiaciuta, senza interferire nella mia scelta del percorso, quasi si fidasse ciecamente delle mie sensazioni, del mio intuito. D’altra parte io ero così rapita da tutto quello che mi circondava da camminare senza nemmeno accorgermene, guidata da una forza che non sapevo spiegare ma che sentivo potente tutt’intorno a me: non ne ero spaventata, tutt’altro, ne ero inevitabilmente attratta e affascinata al punto di perdere completamente la cognizione del tempo e dello spazio. Camminammo per ore, apparentemente senza meta, finché non giungemmo in una piccola radura, nel cuore del nulla; era veramente minuscola se paragonata a quelle che si aprivano nei boschi vicino a casa, poco più grande della piazza del nostro villaggio, ma era impregnata di una forza che non avevo mai sentito, una sorta di presenza mistica, invisibile ma presente. Nessuno aveva usato

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l’ascia in quel luogo per creare quello spazio ma c’erano indizi che quel posto fosse frequentato, sia pure saltuariamente. Una pista piena di orme di animali usciva dal folto della foresta puntando dritto verso la fonte che zampillava dal terreno, al centro della radura; la sorgente creava un piccolo laghetto di acqua cristallina che ora scintillava al sole mentre, poco distante, un grosso cerchio di pietre indicava il posto dove i frequentatori umani avevano acceso un falò, abbastanza distante dal sentiero degli animali in modo da non disturbare la loro via per l’abbeveraggio. C’era uno strano silenzio, rotto solo dal gorgogliare della fonte; la mia pelle vibrava, assorbendo l’energia di cui era impregnato quel luogo e tutto mi sembrava così irreale, come in un sogno; mi voltai verso mia madre per cercare spiegazioni ma quello che vidi mi lasciò senza parole: i suoi capelli, lunghi, scuri, sembravano fluttuare nell’aria, leggeri e lucenti, quasi senza peso. Aveva gli occhi chiusi e le braccia aperte e sembrava che galleggiasse nell’aria, il viso sereno, felice, quasi in estasi; la osservai in silenzio riuscendo solo a pensare che l’unica volta che l’avevo vista così era stato l’estate precedente, a Maddy Pond, quando ci eravamo lasciate galleggiare sul pelo dell’acqua immobile dello stagno, calme e rilassate, i capelli che si allargavano a raggiera dalle nostre teste, seguendo le deboli correnti del lago. Non riuscivo a credere ai miei occhi tanto la scena appariva strana, più appropriata a un sogno che non alla realtà; non sapevo cosa fare, rapita dalla magia di quel luogo e da ciò che i miei occhi stavano guardando. «Mamma, mamma…» la chiamai con un filo di voce, timorosa di spezzare quell’incantesimo che si era creato. «Va tutto bene bambina mia, va tutto bene. Chiudi gli occhi e dammi le mani, come quando eri piccola e facevamo il girotondo, abbandonati alla Grande Madre che ti sta chiamando. Non la senti? Non senti la sua potenza che ti pervade e ti riempie di energia?» Chiusi anch’io gli occhi e allungai le braccia verso di lei; le sue mani erano calde, ruvide per il lavoro dei campi ma stranamente morbide e mi trasmettevano un senso di sicurezza, di protezione. Tutt’intorno il silenzio era totale, fatta eccezione per un rumore lieve, quasi impercettibile, come un fruscio d’ali di farfalla. Non mi

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accorsi di staccarmi da terra, almeno non subito; mi sentivo leggera, come una piuma al vento, come una foglia che lentamente viene sollevata da un refolo d’aria autunnale e trasportata lontano. Ora la nostra pelle brillava di una luce azzurrina, fluorescente mentre ci libravamo nell’aria a un palmo da terra. «Questa è “l’estasi della Wicca”, uno stato di profonda unione tra lo spirito magico e la Grande Madre, dea di tutte le cose. È il primo passo per accedere a un mondo tutto nuovo, diverso da quello che hai conosciuto, a volte in contrasto con quello in cui hai creduto fino a ora ma molto più reale e tangibile.» Aprii gli occhi e vidi mia madre che mi guardava con il suo splendido sorriso, felice e compiaciuta che anche sua figlia possedesse il dono, la capacità rara di percepire l’essenza profonda del creato e interagire con essa. «Che cosa mi sta succedendo mamma? Perché mi sento così strana? Perché avverto tutte queste cose intorno a me, il pulsare della vita ai margini del bosco, lo scorrere della linfa nelle foglie degli alberi, l’energia dell’acqua della fonte che scorre nelle mie vene?» Mi sentivo impaurita da quell’esperienza che sembrava tutto fuorché una cosa normale, come quelle possessioni del demonio lette nelle pagine del Nuovo Testamento, e il fatto di stare facendo un girotondo con mia madre a un palmo da terra non migliorava certo la situazione. Tornammo con i piedi per terra, pervase da un’euforia e da un’intimità che raramente avevo provato così forte; ci sedemmo sul bordo della polla d’acqua sorgiva e attendemmo che l’energia defluisse nuovamente. Mi sentivo stanca, non per il lungo cammino ma per tutte le emozioni che avevo provato. «Dove siamo?» le chiesi mentre mi specchiavo nella fonte. La mia pelle era ancora lucida ma il brillio che avevo notato prima stava rapidamente scomparendo. Il sole stava scendendo oltre la cima degli alberi e presto sarebbe diventato buio. «Non ne ho la minima idea» mi sussurrò divertita mia madre. «Ti ho seguita per tutta la foresta cercando di mantenere il tuo passo, sembravi attratta da un punto preciso nel cuore del bosco e ho faticato non poco per non perderti di vista. Abbiamo camminato per

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ore, cambiando più volte direzione, a volte di corsa, altre camminando adagio, come alla ricerca di una pista da seguire. Non sarà facile ritrovare la strada di casa, non oggi almeno.» «E papà? Quando lui e Giles torneranno a casa e non ci troveranno cominceranno a preoccuparsi e a chiedersi dove siamo finite! Chiederanno aiuto ai vicini e ci verranno a cercare per tutto il bosco.» «Non ti preoccupare, papà sapeva dove stavamo andando e il perché di questo viaggio. Non penserai mica che avrei potuto vivere la mia doppia vita di wicca senza l’aiuto e la complicità di tuo padre? Non ti sei chiesta come mai proprio oggi abbia voluto portare a pescare tuo fratello?» Un sorriso di complicità illuminò per un attimo il suo viso e allora capii quale profondo amore legasse i miei genitori, quale comprensione e armonia fosse alla base del loro matrimonio. «Ma anche papà è un… insomma, uno come noi?» «Papà? Oh santo cielo, no, lui non… insomma lui è come tutti gli altri ma sa chi siamo noi e quello che rappresentiamo e, a differenza di tutti gli altri, ci accetta e ci protegge.» Mi ero completamente sbagliata sul conto di mio padre; avevo creduto che fosse ingenuo, che non si accorgesse di quello che succedeva sotto il suo tetto, delle stranezze di sua moglie e di sua figlia. Invece era al corrente di tutto, gentile e garbato come solo un vero signore sa essere, in un’epoca in cui la cattiveria, l’invidia e il falso perbenismo erano una regola di vita consolidata. Provai un immediato slancio di affetto verso quell’uomo e, nello stesso tempo, un senso tremendo di vuoto dovuto alla sua assenza. «Tra poco sarà buio, cominciamo a raccogliere la legna e a preparare un riparo per stanotte. Domani all’alba cercheremo di trovare la via del ritorno e con l’aiuto degli spiriti del bosco riusciremo a tornare a casa sane e salve.» La sera ci sorprese mentre ancora stavamo preparando un riparo per la notte; avevamo preso alcune pietre dal focolare al centro della radura e le avevamo utilizzate in parte per fissare l’intelaiatura della capanna e in parte per creare un piccolo falò accanto al nostro

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giaciglio. Era un riparo di fortuna, buono solo per passarci la notte, ma ci avrebbe protetto dal vento e dall’umidità fino al giorno dopo. «Oh Gea, Dea madre, proteggi le tue figlie dai pericoli che si celano in questo silenzio che tormenta il corpo e l’anima, donaci il controllo degli elementi, della luce argentea che irradia e consacra a te alberi e torri e che brucia nel nostro cuore come fiamma ardente, del fuoco che scalda e terrorizza i nemici, dell’acqua che purifica e lava le nostre colpe, della terra da cui traiamo forza e potenza e dell’aria a cui affidiamo le nostre suppliche e da cui traiamo vigore» la sentii mormorare mentre tracciava con un grosso bastone un cerchio tutt’intorno al nostro bivacco. All’interno del circolo disegnò un’enorme stella a cinque punte, ognuna delle quali sfiorava la circonferenza in altrettanti punti: la prima orientata verso la luna che faceva capolino dalle cime degli alberi, la seconda in direzione della sorgente, la terza verso il fuoco del nostro bivacco, la quarta in direzione del folto della boscaglia e la quinta dalla parte opposta della fonte, verso in centro della radura. «Cosa stai facendo?» le chiesi curiosa. «Non essere troppo precipitosa, abbiamo fatto tanto oggi, forse troppo. Ci sono cose che dovrai scoprire da sola, altre che ti verranno insegnate da me, altre ancora che apprenderai da persone che devi ancora conoscere: le invocazioni e i ringraziamenti alla Grande Madre sono ancora prematuri. Tutto a tempo debito tesoro mio.»

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CAPITOLO 4 Rincasammo che era mattina già inoltrata, con il cestino pieno di erbe mediche e di radici, come se fossimo andate a raccoglierle quel giorno stesso; papà era nei campi intento a strappare le erbacce e a preparare il terreno per la semina di primavera. Giles era con lui, felice di passare un’altra giornata da uomo, come amava definirle lui, saltando da un compito all’altro come un grillo nell’erba alta. Mio padre lo osservava indulgente, perdonando la poca abilità e lodando l’impegno che profondeva in ogni attività; il giorno prima era riuscito addirittura a pescare due bei pesci tutto da solo e quest’impresa lo aveva talmente inorgoglito da parlarne in continuazione per tutta la via del ritorno: era caduto esausto nel suo letto prima che la cena fosse pronta, prima che l’assenza della madre e della sorella lo insospettisse. George era preoccupato di questa situazione, stava diventando sempre più difficile coprire le assenze di Mary, specialmente ora che anche la piccola Sara aveva cominciato a seguire le orme della madre. La colonia non era il luogo ideale per custodire i segreti, ancor meno a Wenham dove tutti si conoscevano e sapevano ogni cosa gli uni degli altri. Più di una volta aveva consigliato alla moglie di essere più prudente, di non essere così disponibile ad aiutare gli altri utilizzando le doti e le conoscenze della Sorellanza: l’invidia e l’ignoranza potevano creare gelosie che a lungo andare avrebbero portato solo guai, guai grossi. Questo pensava mio padre quando, a mezzogiorno, arrivai vicino al grosso sicomoro dov’ero certa di trovarlo; lo capii subito dallo sguardo d’affetto misto a preoccupazione, subito distolto e indirizzato verso mio fratello, seduto poco distante. Mi sembrava quasi di percepire i loro pensieri mentre stendevo la tovaglia disponendoci sopra il pranzo che gli avevo portato. Come sempre

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Giles era il più semplice da capire, tutto preso dal fervore dei suoi dieci anni e dal cercare di sembrare più grande di quello che era. Mio padre era tutta un’altra cosa; solo ora scoprivo quanta complessità era celata sotto il suo sguardo benevolo, nei sui modi di fare gentili, a volte bruschi ma mai violenti: era una persona a prima vista bonaria, quasi timida, ma se lo si conosceva più a fondo, si scoprivano un altruismo e una voglia di comprendere tutto ciò che lo circondava del tutto fuori dall’usuale. L’amicizia con i nostri vicini indiani era solo uno dei tanti indizi di una mente aperta, di una volontà di conoscere ogni sfumatura di quella terra così giovane, una vivace curiosità verso tutto quello che non conosceva e un’assoluta intolleranza verso il rigido e antiquato modo di pensare dei suoi concittadini. Non potevo comprendere a fondo tutto questo, dall’alto dei miei otto anni, ma le doti di empatia che si stavano velocemente sviluppando in me mi facevano percepire cose che prima mi sarebbero sicuramente sfuggite. Avevo appreso da mia madre che lui sapeva e condivideva i suoi segreti; questo mi bastava per sentirlo, oltre che un padre, anche un amico e un alleato prezioso, in un momento della mia vita pieno di confusione e di esaltazione, di gioia per le recenti scoperte sulla mia vera natura e di paura per il rischio di essere considerata “diversa” dalle altre bambine. Mi sentivo cambiata dopo la notte passata nel bosco, più grande e più matura per gli anni che avevo e il pericolo stava proprio nel gestire quel segreto. Mi sdraiai accanto a mio padre, la mia testa sulle sue ginocchia, lo sguardo perso a osservare quell’albero maestoso che ci sovrastava, alto, imponente; tra i fitti rami, carichi di giovani foglie, il sole faticava ad aprirsi un varco, disegnando fili d’argenti che, sottili, arrivavano fino a terra. Mi sentivo terribilmente piccola ma, allo stesso tempo, affascinata da quello spettacolo; chiusi gli occhi e concentrai tutta la mia attenzione sui rumori esterni, vicini o lontani, che facevano da sottofondo a quel magnifico pomeriggio. Era un gioco che mi aveva insegnato mia madre molto tempo prima e, come logico, io lo avevo sempre considerato tale; facevamo a gara a scoprire l’origine dei vari suoni che si sentivano e a descrivere l’oggetto o l’animale che li aveva prodotti. Improvvisamente, capivo

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solo ora che era molto di più di un innocente passatempo, quasi un esercizio per affinare le mie percezioni in attesa che le mie capacità si risvegliassero: chissà quanti altri giochi mi aveva insegnato per prepararmi a ciò che sarei dovuta diventare o a quello che lei sperava potessi essere un giorno. I rumori arrivarono tutti insieme, all’improvviso; una cacofonia di suoni che si accavallavano uno sull’altro senza sosta. Misi subito ordine nella mia testa separando le vibrazioni più lontane da quelle vicine: era la prima cosa che mia aveva insegnato la mamma, mettere ordine nella mente per poter udire meglio, per poter decidere cosa ascoltare e cosa, invece, far tacere. Lontano, quasi al limitare del bosco, gli uccellini cinguettavano allegri, felici della loro libertà e dei loro giochi; mi sembrava quasi di vederli, uno a uno, mentre saltavano da un ramo all’altro spiccando rapidi voli. Poco distante, su un alto ramo di un acero, uno scoiattolo rosso era intento a pulirsi il pelo, passandosi le zampine ora sul capo, ora sulla lunga e folta coda. Spalancai immediatamente gli occhi e tutti i rumori tornarono a mischiarsi: com’era possibile che io avessi visto lo scoiattolo? Non era uno dei suoni che stavo ascoltando né tantomeno poteva produrre un rumore che io potessi udire a così grande distanza. Tornai a concentrarmi su quel piccolo roditore peloso e nuovamente lo vidi tutto intento a lisciarsi la coda; la sua pelliccia era magnifica, folta e di un bel colore ramato che luccicava al sole. Lo osservai ancora per qualche istante poi, tutto a un tratto, l’animale si bloccò, alzando la testa e iniziando a fiutare l’aria: qualcosa lo aveva messo in allarme e ora era tutto intento a cercare la fonte delle sue preoccupazioni. Rimase in quella posizione, immobile e guardingo per alcuni istanti, poi velocissimo si arrampicò lungo il tronco fino a sparire completamente dalla mia vista. Riaprii nuovamente gli occhi. Il bosco era distante dal nostro albero e non avrei mai potuto sapere se quello che avevo visto era vero o solo frutto della mia immaginazione: lo scoiattolo era fuggito perché aveva percepito qualcosa, una minaccia forse, ma nel cielo non c’era traccia di falchi ed era l’unico pericolo che mi potesse venire in mente per uno scoiattolo arrampicato su di un ramo così alto di un

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albero, a meno che non avesse percepito… me. Mio padre e mio fratello si erano nel frattempo addormentati per il breve sonnellino pomeridiano e io ne approfittai per radunare gli avanzi del pasto e giocare un po’ con i fiori del prato; questa esperienza così strana sarebbe stata la prima cosa che avrei raccontato alla mamma al mio ritorno, forse lei avrebbe saputo spiegarmi cosa realmente era successo quel pomeriggio. Svegliai Giles e papà e li lasciai al lavoro dei campi; io dovevo rientrare a casa per aiutare nelle faccende domestiche e studiare le sacre scritture come ogni giorno, come una normale bambina della mia età che di normale, forse, non aveva nulla. Rientrai a casa a metà pomeriggio, persa come sempre nei miei pensieri e in tutte quelle sensazioni che da qualche tempo riempivano il mio corpo; la primavera era la stagione che preferivo in assoluto, lo sbocciare di così tanta vita e colori dopo il sonno invernale, l’aria carica di profumi, tiepida dopo tutto il freddo dei mesi prima. Ero così allegra che quando arrivai a casa l’unico pensiero era condividere tutte quelle sensazioni con mia madre. «Mamma, mamma, sapessi cosa ho visto.» Mi bloccai immediatamente non appena mi accorsi che c’era qualcun altro nella stanza. «Ciao Sara, come mai sei tutta sudata? Hai fatto la strada di corsa?» mi salutò mia madre cercando di darmi il tempo di riprendermi dalla sorpresa. «Si, volevo arrivare presto perché… ho ancora da studiare la Bibbia oggi e voglio farlo finché c’è questo bel sole» le risposi senza esitazione. «Sei veramente un tesoro, che cosa volevi raccontarmi? Cos’è che hai visto oggi di così tanto speciale?» chiese mia madre con un accenno di apprensione nella voce. Sapevo che in presenza di estranei non si doveva mai parlare di nulla ma la mamma temeva che la mia giovane età mi facesse compiere qualche passo falso perché ogni parola detta fuori luogo poteva essere male interpretata dalla gente comune. «Nulla di speciale ma al campo da papà ho visto uno scoiattolino rosso che saltava da un ramo all’altro, era così carino e con una

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pelliccia così folta» le dissi cercando di enfatizzare la parte più tenera e dolce del racconto, proprio come avrebbe fatto una mia amichetta se avesse dovuto raccontare lo stesso episodio. «Oh, buongiorno signora Roswell, non l’avevo vista. Come sta?» le chiesi fingendo imbarazzo per non averla salutata prima. Era la moglie del connestabile del villaggio, una donna antipatica e arcigna che non sorrideva mai. Era così fiera della sua posizione sociale derivante dalla carica pubblica del marito che trattava tutti come se fossero dei servi, persone di poco valore e poco degne di considerazione. «Non tanto bene cara» mi rispose senza degnarmi di uno sguardo, «ho tutte le ossa che mi fanno male e sono venuta da tua madre per farmi dare uno dei suoi rimedi.» «Mi dispiace signora Roswell, spero che la mamma riesca a farle passare tutti i dolori» le risposi con tono addolorato mentre raccoglievo la Bibbia dal tavolo e sparivo velocemente dalla loro vista. Di tutti gli abitanti di Wenham quella donna era la più insopportabile in assoluto, l’ultima persona che avrei voluto trovare in casa quel giorno. Era diventato difficile concentrarsi sulle sacre scritture dopo aver avuto un assaggio dell’energia che ci circondava, calda e pulsante come qualcosa di vivo, potente; tutto ciò in cui avevo fermamente creduto fino a qualche giorno prima ora sembrava così lontano, così diverso da quello che provavo in quel momento. Mamma mi aveva spiegato che nulla è fine a se stesso ma che tutto è parte di un disegno molto grande, infinito, dove ogni colore, ogni sfumatura ha il proprio posto e il proprio compito e tutti contribuiscono affinché il disegno diventi sempre più grande e bello. Gli uomini amano assegnare un nome a ogni cosa, per sentirle più vere, più reali ma ci sono cose, entità, che hanno molti nomi, a seconda di chi li chiama ma non per questo sono meno vere e meno reali: è per questo motivo che continuare a imparare è così importante. Le giornate scorrevano lente e la primavera cedette il passo a un’estate calda e umida, ideale per le gite fino al lago, dove noi bambini potevamo nuotare e giocare tutto il giorno.

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I nostri vicini pellirossa erano tornati, accampandosi poco distante dal villaggio, a ovest di Pleasand Pond, e rapidamente avevano montato il loro accampamento. Erano arrivati molto in ritardo rispetto agli anni passati e tutti noi ce ne chiedevamo il motivo: doveva essere stato un avvenimento fuori dall’ordinario perché mai si era verificato un evento del genere. Mio padre era molto preoccupato anche perché giravano voci che alcune tribù d’indiani si fossero ribellate all’occupazione delle loro terre e avessero dato vita a una rivolta in piena regola; temeva infatti che quelle dicerie potessero dare motivo ai meno tolleranti della comunità per iniziare ad avere atteggiamenti ostili verso i nostri amici. L’indomani mattina, di buon’ora, George e mia madre si recarono all’accampamento; ufficialmente erano lì per barattare merci e medicamenti ma la vera ragione era raccogliere notizie di prima mano sulle rivolte indiane e sulle conseguenze che queste stavano determinando sulle relazioni già fin troppo tese tra pellerossa e coloni. Avevo insistito per poter andare con loro, eccitata all’idea di poter rivedere quelle persone straordinarie; ero stata sempre accolta con cordialità e affetto da tutti i componenti della tribù, specialmente dalla moglie del sakem e da quella dello shamano, due figure importanti in quella società tribale, due donne di una dolcezza paragonabile solo a quella di mia madre. Solo dopo una serie interminabile di suppliche e promesse, finalmente, mi diedero il permesso di seguirli, a patto che non stessi troppo in giro agli adulti e che non combinassi qualche guaio. Mio fratello Giles era impegnato per tutto il fine settimana con i suoi amici più stretti a riparare la staccionata della casa del reverendo, lavoro che gli avrebbe fruttato la gratitudine del pastore e di sua moglie, oltre a qualche soldino da portare a casa ma, cosa molto più importante, lo avrebbe tenuto fuori dai piedi per due giorni interi. Il viaggio verso l’accampamento algonchino sembrò durare un’eternità anche perché stare seduta sul pianale traballante del nostro carro non era certamente comodo; lo avevamo riempito di attrezzi e ceste di varie forme, contenenti confetture, miele e sciroppo d’acacia, una specialità di cui i bambini pellirossa andavano matti, e non solo loro. Mio padre stava attento a evitare le

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buche più profonde mentre mia madre osservava la natura circostante recitando a bassa voce strane litanie. Io ero talmente contenta di essere con loro che non facevo caso a nulla, tutta presa dalla gioia di quell’avventura fuori dall’ordinario; fantasticavo di giocare con gli altri bambini ma più di tutto volevo sedere vicino alla cerchia degli anziani mentre quest’ultimi raccontavano le loro storie di caccia e di guerra: erano racconti che parlavano di luoghi lontani, di grandi guerrieri e di coraggiosi cacciatori, di paesaggi talmente belli che l’anima, contemplandoli, si innalzava fino al cielo, vicino al Grande Spirito. Ci accorgemmo di essere ormai arrivati dalle spirali di fumo che pigramente si innalzavano subito dietro il boschetto di betulle che faceva da cornice a Pleasand Pond; gli uomini erano già al lavoro nei campi per cercare di recuperare il tempo perduto mentre i ragazzi e le squaw provvedevano alle necessità dell’insediamento. I miei genitori furono accolti con calore ma la festa che mi fecero appena scesi dal carro fu davvero incredibile; alcune bambine lasciarono le loro faccende per corrermi incontro, urlando di gioia mentre altri ragazzi, poco più grandi, si tenevano a rispettosa distanza, sorridendo e salutando ripetutamente con la mano. Erano i miei compagni di giochi di ogni estate, quando ci trovavamo in riva allo stagno per giocare e fare il bagno. Erano molto diversi dai bambini con cui giocavo al villaggio, più chiassosi e allegri, felici qualunque cosa stessero facendo, contenti di condividere quei momenti di spensieratezza con gli amici. Mi corsero incontro e mi portarono subito con loro, narrando nella loro lingua tutte le avventure che avevano vissuto; poco importava se io capivo poco o nulla di ciò che dicevano, il loro modo di raccontare era così animato, così pieno di suoni e di gesti da non lasciar dubbi. Avevo capito che c’era stato un grande raduno delle tribù, nel paese delle montagne; tantissima gente era accorsa da ogni parte perché gli anziani dovevano discutere di faccende importanti che non potevano aspettare. I giovani avevano avuto modo di rincontrare parenti e amici che non vedevano da tempo e per i bambini erano stati giorni di giochi e di avventure senza fine. Un’intera luna era trascorsa prima che le tribù tornassero ai loro luoghi estivi, un mese in cui la

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pianura brulicava di tende e di fuochi accesi; mai prima d’ora si era visto un simile raduno e questo era un segno di grave preoccupazione per tutti. D’altro canto, ero talmente presa da tutte quelle novità che le inquietudini le volevo lasciare volentieri ai grandi mentre, curiosa come un gatto, mi aggiravo tra le tende in cerca di Va_Shesh_Na_Bè, Bella Collina, moglie dello shamano; era una donna ancora giovane, formosa, con grandi occhi neri simili a quelli dei cerbiatti. L’ultima volta che ci eravamo viste, mi aveva raccontato tante storie di come gli animali della foresta venivano vicino alla sua tenda, di notte, per parlare con lei; storie a cui non credevo ma che mi dilettavo ad ascoltare, tanto erano ricche di particolari da sembrare vere. Non ero molto sicura, dopo quello che avevo provato nella foresta, che fossero solo storie per far star bravi i bambini ma non potevo rivelare nulla delle mie esperienze senza prima averne parlato con mia madre. La trovai nei pressi del lago, intenta a raccogliere un tipo di erba scura, molto amara, che mamma utilizzava per curare le ferite degli animali. «Va_Shesh_Na_Bè! Va_Shesh_Na_Bè!» la chiamai a gran voce mentre le correvo incontro; lei alzò lo sguardo verso di me e un largo sorriso le illuminò il volto. «Sara, piccola mia, che gioia rivederti: anche tua madre è qui al villaggio?» «Sì Bella Collina, i miei genitori stanno parlando con Ite_O_Magazu, tuo marito Pioggia Sulla Faccia e con gli altri anziani della tribù. Come mai avete tardato così tanto quest’anno? Eravamo preoccupati per voi.» «Dolce, piccola Sara, c’è stato un grande raduno della nazione dei popoli liberi ma questi sono discorsi che lasceremo volentieri ai grandi, noi torneremo al villaggio a preparare la medicina per i nostri cavalli. Il viaggio è stato lungo e faticoso anche per loro e hanno bisogno delle nostre cure per rimettersi in fretta. Tua madre ti ha insegnato come si preparano le medicine?» «Non sono brava come lei ma l’aiuto spesso sia nella raccolta sia nella preparazione dei medicamenti e poi, dopo che siamo state nella foresta...» Mi bloccai immediatamente, spaventata di quanto stavo per rivelare. Bella Collina aveva spalancato i suoi grandi occhi

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languidi e mi aveva fissato per un lungo istante, profondamente: poi, come se nulla fosse accaduto, mi sorrise con affetto e, prendendomi per mano, mi accompagnò fino al centro dell’accampamento, verso la sua wigwam. Era un’abitazione molto semplice e funzionale, fatta di pali di legno ripiegati ad arco e ricoperti con legno, corteccia e pelli, una sorta di cupola con una porta principale e un grosso foro in alto per far uscire il fumo del focolare. Quella di Bella Collina era una delle più grandi, adorna di pali esterni dipinti con colori vivaci e arredata con soffici pellicce di animali che non avevo mai visto; una parte dell’ampia sala era riservata alle pratiche magiche di suo marito Ite-O-Magazu, lo shamano della tribù: lo si capiva perché alcune pelli della parete erano, infatti, decorate con simboli e pitture raffiguranti animali e scene di caccia. «Pioggia Sulla Faccia è un grande stregone, molto più potente di me. Lui parla direttamente con il Grande Spirito attraverso i suoi segni e usa l’energia della Grande Madre per il bene del suo popolo.» Va_Shesh_Na_Bè parlava bene la nostra lingua ma, a volte, aveva difficoltà a trovare le parole giuste per spiegare concetti complicati: per questo pensavo di aver capito male quando mi parlava di suo marito e dei suoi poteri. L’arrivo di mia madre mi salvò dall’imbarazzo di chiedere ulteriori spiegazioni, ma il suo modo di fare mi lasciò del tutto stupita. Entrando nel wigwam, infatti, si diresse verso la donna che mi stava innanzi e, dopo averla osservata intensamente per un istante, appoggiò la fronte alla sua sorridendo. «È una gioia rivederti Bella Collina, sorella nella Dea. Ho tantissime cose da raccontarti e tante cose da chiederti, ma più di tutto sono felice di essere qui con te.» Rimasero a lungo in quella posizione, gli occhi socchiusi in un’espressione di gioia; ero rimasta sconcertata da quell’abbraccio così fraterno perché non sapevo che le due donne si conoscessero così bene né sapevo che tra loro ci fosse una così palese amicizia. Mi rendevo conto solo ora di non sapere quasi nulla della vita nascosta di mia madre ed ero curiosa di apprenderne al più presto tutti i segreti.

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«Mary, carissima sorella, avremo tempo per scambiarci le notizie. Tua figlia è qui e a quanto ho capito è di lei che dovremmo parlare, sono sicura che avrà tante domande da porci e noi dovremo darle molte risposte.» Mia madre si voltò verso di me come se mi vedesse per la prima volta; le guance rosse erano rigate da lacrime di gioia mentre il sorriso si allargava ulteriormente per la mia presenza. «Sara, scusami, non ti avevo notata tanta era l’impazienza di riabbracciare la mia amica più cara. Abbiamo tante cose di cui parlare ma prima di tutte devo presentarti a lei nella tua veste di giovane wicca. Anche lei segue Gea, la Grande Madre e, pur non appartenendo alla nostra sorellanza, ci accetta e ci considera come sue sorelle.» «Avevo capito che tu eri una ragazza molto speciale e il tuo imbarazzo di poco fa me l’ha confermato. Non devi avere paura perché le seguaci di Gea, come la chiamate voi coloni, sono diffuse anche tra il mio popolo.» Ero talmente confusa e frastornata da così tante novità che rimasi in silenzio a lungo; mi rendevo conto solo ora che, pur essendo sole e divise dalle altre consorelle, eravamo comunque parte di una schiera di credenti che varcava i confini della razza e della religione. Era esaltante e nello stesso tempo incredibile che io e questa giovane squaw avessimo così tanto in comune. Fu Va_Shesh_Na_Bè che mi diede tempo di riflettere e di metabolizzare tutte quelle novità mettendosi a chiacchierare con mia madre sulle ultime vicissitudini del suo popolo e del grande raduno cui avevano partecipato.

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CAPITOLO 5 Era un periodo di grandi cambiamenti per le tribù della nazione algonchina. L’avanzamento dei coloni nelle terre degli uomini liberi aveva creato dapprima contrasti isolati che, in alcuni casi, si erano rapidamente trasformati in vere e proprie piccole guerre. Gli inglesi da una parte e i francesi dall’altra fomentavano il malcontento dei propri connazionali nei confronti del popolo pellirossa ma, allo stesso tempo, cercavano di aizzare gli indiani contro i coloni dell’opposta fazione. Il consiglio dei capi tribù aveva convocato i maggiori rappresentanti di tutta la nazione indiana: per la prima volta da decenni Albenachi, Piedi Neri, Cheyenne, Moicani, Cree, Fox, Arrapaho, Delaware e le altre nazioni dei popoli liberi erano radunati tutti insieme a discutere delle sorti del popolo rosso. In quel frangente straordinario anche le seguaci della Grande Madre avevano avuto l’occasione per incontrarsi e scambiarsi notizie e ingredienti magici con cui fare pozioni e incantesimi; mentre i Sakem discutevano, la sorellanza indiana aveva rafforzato il suo legame con la Dea cercando nelle antiche profezie e nella divinazione una speranza per il futuro del loro popolo. I riti di preghiera e di supplica alla Dea erano stati celebrati quasi contemporaneamente a quelli rivolti a Manitou, il Grande Spirito, da parte degli shamani più potenti ma dopo più di un mese di consultazioni, poco o nulla si era concluso; troppe erano le divergenze di opinione e troppo diverse erano le condizioni di vita delle varie tribù. Si era deciso di temporeggiare ancora e di stringere un’alleanza tra tutte le tribù algonchine del nord est, in modo da poter aiutare i fratelli che si sarebbero trovati i difficoltà. Va_Shesh_Na_Bè e le sue consorelle avevano concluso molto di più. I riti divinatori non lasciavano dubbi sulla sorte del popolo rosso

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ma, contemporaneamente, la Dea aveva manifestato loro una sorta di profezia: una giovane donna, prediletta di Gea, sarebbe stata la portatrice di pace tra le tribù del nord. L’avrebbero conosciuta come Igat_Sha, la viaggiatrice, figlia del popolo libero senza esserne parte. Con questa speranza nel cuore, le squaw algonchine avevano cominciato a smontare gli accampamenti per far ritorno ai loro territori estivi, certe che la Grande Madre aveva in serbo per loro ancora tante sorprese. Bella Collina aveva barattato alcune erbe che crescevano solo sulle rive di Muddy Pond per un piccolo sacchetto d’ingredienti molto particolari; lei e mia madre li avrebbero usati nel successivo sabbat per entrare in contatto direttamente con Gea. «Sara, ora dobbiamo tornare a casa. Devo raccontarti e spiegarti tante cose prima di poter tornare a far visita a Bella Collina. Loro hanno tanto lavoro da fare per poter raccogliere provviste sufficienti per l’inverno e noi dobbiamo fare in modo che i nostri concittadini siano benevoli e tolleranti nei loro confronti. Su, vieni, saluta la nostra amica. Il viaggio di ritorno è lungo e noi abbiamo poco tempo prima che venga notte.» Mi avvicinai alla nostra amica e l’abbracciai con calore; lei si chinò su di me e, appoggiando la sua fronte alla mia mi sussurrò: «Torna presto a trovarmi piccola sorella, ti parlerò di Gea e di come Lei parla al mio popolo.» Le sorrisi salutandola con la mano mentre mio padre dirigeva il carro, pieno di ogni tipo di mercanzia, verso casa. Rimanemmo a lungo in silenzio mentre le prime ombre della sera cominciavano a tessere tetri disegni tutt’intorno; l’aria si era fatta più fresca e il rumore degli uccelli che tornavano al proprio nido era un piacevole sottofondo a tutti i pensieri che affollavano le nostre menti. Papà aveva avuto conferma che la situazione stava divenendo sempre più difficile e presto sarebbe scoppiata un’altra rivolta; i francesi non perdevano occasione di spingere i pellirossa gli uni contro gli altri e, possibilmente, tutti contro i coloni inglesi del nord est. D’altro canto, la stessa cosa facevano anche i nostri conterranei, non comprendendo che, di questo passo, ci sarebbe stata una guerra terribile, senza esclusione di colpi. Mamma, dal canto suo, pur

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essendo molto preoccupata della situazione, era tutta presa dalle notizie riguardanti le altre wicca sparse un po’ ovunque nel vasto territorio del New England che aveva avuto dalle sorelle indiane; era l’unico modo che avevano per mantenere i contatti e scambiare notizie in un territorio che rendeva impossibile qualsiasi tipo di raduno. Nelle settimane successive, nulla sembrò turbare la noiosa quiete di Wenham. Le notizie dall’ovest arrivavano frammentarie insieme alle carovane o ai cacciatori di pellicce e sembravano talmente lontane da non destare preoccupazioni: ognuno badava alle proprie faccende e la politica difficilmente riusciva a prevalere sulle consuetudini e sulla vita quotidiana del villaggio. Durante quella lunga estate dell’anno del Signore 1689 ci recammo spesso a fare il bagno negli stagni vicini ma, contrariamente agli anni passati, le squaw e i bambini della tribù si fecero vedere raramente; chi non era impegnato nella raccolta di cibo era a caccia oppure tesseva le stuoie o intrecciava canestri dove riporre le provviste per l’inverno. Pioggia Sulla Faccia, lo stregone dei Massachusett, aveva predetto una stagione invernale molto rigida e tutti contribuivano a raccogliere il più possibile; a volte mamma e io incontravamo Bella Collina con le sue consorelle nel folto della boscaglia e ci scambiavamo erbe e radici. Era sempre stato così, dall’alba dei tempi, ognuna imparava dalle altre i segreti per incantesimi e pozioni e a sua volta insegnava ad altre quello che aveva imparato: c’era ancora tanto da scoprire in questo nuovo mondo e molto di più da condividere, in modo che la conoscenza delle wicca non andasse perduta ma si arricchisse ogni volta di più. L’estate volò via per far posto a un autunno piovoso e freddo; le previsioni dello shamano della tribù si stavano rivelando molto accurate e purtroppo questo avrebbe accelerato la partenza di Bella Collina e di tutti i nostri amici pellirossa. Come promesso, Va_Shesh_Na_Bè volle celebrare il penultimo sabbat dell’anno, il Samhain, con noi e con una cerchia ristretta di sorelle, proprio nella radura che avevamo trovato nella foresta. «È un posto molto speciale» ci aveva confidato una sera, mentre eravamo riunite attorno al fuoco, davanti alla sua wigwam. «Da

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sempre le sorelle nella Dea celebrano lì i loro riti più importanti: è un luogo dove l’energia fluisce direttamente dai quattro elementi e permea ogni cosa. Anche i nostri stregoni la usano per i riti propiziatori e per parlare con il Grande Spirito ma mai insieme con noi, per non rubare troppa energia agli spiriti che la governano. Prima di partire, celebreremo la morte simbolica di Manitou e il dolore di Gea per la perdita del suo amato. Il 31 ottobre tutto era pronto. Non riuscivo a calmare l’ansia e l’eccitazione per un avvenimento così importante: era il primo sabbat cui partecipavo, l’occasione per vedere con i miei occhi tutto quello che mia madre mi aveva insegnato e raccontato e, cosa più importante, metterlo in pratica. Bella Collina si sarebbe recata alla radura la mattina di buon’ora insieme con altre due consorelle e avrebbe celebrato i riti di purificazione necessari per rendere il luogo adatto alla cerimonia della sera. Mamma aveva riconosciuto una wicca in una vecchia signora di una carovana di passaggio e con la scusa di curarle una brutta tosse l’aveva invitata a casa. C’erano volute poche parole e alcuni simboli tracciati con il dito bagnato sulla superficie ruvida del tavolo per confermare la loro appartenenza alla sorellanza. Gli occhi dell’anziana signora si riempirono di lacrime mentre pronunciava le antiche formule di buon augurio che anch’io ben conoscevo, incredula di poter abbracciare una figlia di Gea in quella terra sperduta. Aveva informazioni abbastanza recenti dal vecchio continente, notizie purtroppo non buone delle consorelle rimaste a casa: l’inquisizione della chiesa cattolica aveva mandato al rogo moltissime di loro ma, cosa ancora più incredibile e atroce, anche un numero impressionante d’innocenti, donne e uomini, vittime di rancori o d’invidie o, cosa ancor più grave, di stupide superstizioni a cui la chiesa purtroppo dava ancora credito. Ormai le seguaci della Grande Madre si stavano disperdendo sempre più, raggruppate in circoli molto piccoli e ristretti o addirittura sole per sfuggire alle persecuzioni e alla morte. Anche lei era fuggita con la sua famiglia verso il nuovo mondo, verso un futuro incerto ma comunque sempre migliore di quello che poteva avere in patria. Aveva riconosciuto altre sorelle durante i mesi di viaggio ma aveva avuto timore di

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contattarle e loro avevano fatto lo stesso: noi eravamo le prime che avevano avuto il coraggio di abbracciarla e di farla sentire nuovamente parte della sorellanza. «Non posso dirti che qui le cose vanno meglio. Bisogna stare sempre allerta ed essere molto prudenti ma qui la gente è semplice e di indole buona e il nostro pastore pensa di più ai bisogni dei suoi parrocchiani piuttosto che dar la caccia al Maligno o alle streghe.» «Perché non rimani un po’ con noi? Stasera c’è…» Mi bloccai immediatamente comprendendo di avere nuovamente aperto bocca a sproposito, stavo per parlare di cose proibite con un’estranea appena conosciuta che poteva benissimo essere una spia o una persona che avrebbe potuto denunciarci alla prima occasione. Guardai preoccupata mia madre sperando di non avere fatto qualcosa di irreparabile ma il sorriso che stava comparendo sul suo viso ebbe il potere di calmarmi. «So bene che giorno è oggi e quale ricorrenza dovremmo festeggiare, ma qui, sole, come potremmo…» mi anticipò Elizabeth, l’anziana wicca da poco ritrovata con un velo di profonda tristezza nella voce. «È da così tanto tempo che non sento più l’abbraccio di Gea che a stento lo ricordo.» Calde lacrime le rigavano il viso mentre i suoi occhi vagavano persi nei ricordi più lontani. Avrebbe dato qualsiasi cosa pur di festeggiare ancora una volta un sabbat insieme alle sue sorelle e la certezza di non poterlo più fare le riempiva il cuore di una tristezza infinita. «Elizabeth, forse stasera ci sarà la possibilità di riunirci nuovamente con la Grande Madre. Altre sorelle credono nella Dea e nella sua potenza, persone diverse da noi ma unite in un unico, antico credo. È con loro che stasera ci riuniremo a Gea.» Vidi sorridere quella povera donna per la seconda volta in un giorno, un sorriso di speranza e di gioia che non aveva eguali; fissò prima mia madre e poi me, incerta se credere alle parole che aveva appena udito, timorosa di illudersi di poter sentire ancora una volta nella sua vita terrena il caldo abbraccio della sua Dea. Fine anteprima.Continua...