Il Libro Nero Del Comunismo - Primo Volume

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Il libro nero del comunismo INTRODUZIONE: Parte prima. UNO STATO CONTRO IL SUO POPOLO Violenze, repressioni, terrori nell'Unione Sovietica (di Nicolas Werth). 1. Paradossi e malintesi dell'Ottobre 2. Il «braccio armato della dittatura del proletariato» 3. Il Terrore rosso 4. La «sporca guerra» 5. Da Tambov alla grande carestia 6. Dalla tregua alla «grande svolta» 7. Collettivizzazione forzata e dekulakizzazione 8. La grande carestia 9. «Elementi estranei alla società» e cicli di repressione 10. Il Grande terrore (1936-1938) 11. L'impero dei campi 12. L'altra faccia della vittoria 13. Apogeo e crisi del gulag 14. L'ultimo complotto 15. L'uscita dallo stalinismo In conclusione:

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Il libro nero del comunismo

INTRODUZIONE: Parte prima. UNO STATO CONTRO IL SUO POPOLO

Violenze, repressioni, terrori nell'Unione Sovietica (di Nicolas Werth). 1. Paradossi e malintesi dell'Ottobre 2. Il «braccio armato della dittatura del proletariato» 3. Il Terrore rosso 4. La «sporca guerra» 5. Da Tambov alla grande carestia 6. Dalla tregua alla «grande svolta» 7. Collettivizzazione forzata e dekulakizzazione 8. La grande carestia 9. «Elementi estranei alla società» e cicli di repressione 10. Il Grande terrore (1936-1938) 11. L'impero dei campi 12. L'altra faccia della vittoria 13. Apogeo e crisi del gulag 14. L'ultimo complotto 15. L'uscita dallo stalinismo In conclusione:

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INTRODUZIONE: I crimini del comunismo (di Stéphane Courtois)

"La vita ha perso contro la morte, ma la memoria vince nella lotta contro il nulla". TZVETAN TODOROV, "Les abus de la mémoire".

Si è potuto scrivere che «la storia è la scienza dell'infelicità degli uomini» e la violenza del Novecento sembra confermare questa formula in modo eloquente. Certo, nei secoli precedenti pochi popoli e pochi paesi sono stati risparmiati dalla violenza di massa. Le principali potenze europee sono state implicate nella tratta dei neri; la Repubblica francese ha messo in atto una colonizzazione che, nonostante alcuni apporti positivi, è stata caratterizzata sino alla fine da episodi raccapriccianti. Negli Stati Uniti persiste una cultura della violenza che affonda le proprie radici in due crimini principali: la schiavitù dei neri e lo sterminio degli indiani. Rimane, comunque, il fatto che, sotto questo aspetto, il nostro secolo sembra avere superato i precedenti. Guardandolo retrospettivamente, non ci si può esimere da una conclusione sconcertante: il Novecento è stato il secolo delle grandi catastrofi umane. Due guerre mondiali e il nazismo, senza dimenticare le tragedie più circoscritte dell'Armenia, del Biafra, del Ruanda e di tanti altri paesi. L'Impero ottomano ha proceduto, infatti, al genocidio degli armeni e la Germania a quello degli ebrei e degli zingari. L'Italia di Mussolini ha massacrato gli etiopi. I cechi ammettono a fatica che la loro condotta nei confronti dei tedeschi dei Sudeti, nel 1945-1946, non è stata delle più irreprensibili. E la stessa piccola Svizzera deve fare i conti con il proprio passato di depositaria dell'oro rubato dai nazisti agli ebrei sterminati, anche se il grado di atrocità di tale comportamento non è assolutamente paragonabile a quello del genocidio. Il comunismo si inserisce nel medesimo lasso di tempo storico fitto di tragedie e ne costituisce, anzi, uno dei momenti più intensi e significativi. Il comunismo, fenomeno fondamentale di questo Novecento, il secolo breve che incomincia nel 1914 e si conclude a Mosca nel 1991, si trova proprio al centro dello scenario storico. Un comunismo che preesisteva al fascismo e al nazismo e che è sopravvissuto a essi, toccando i quattro grandi continenti. Che cosa intendiamo esattamente con il termine «comunismo»? E' necessario stabilire subito una distinzione fra la dottrina e la pratica. Come filosofia politica, il comunismo esiste da secoli, se non da millenni. Non è stato forse Platone, nella "Repubblica", a esporre per primo l'idea di una città ideale in cui gli uomini non fossero corrotti dal denaro e dal potere e in cui comandassero la saggezza, la ragione e la giustizia? Un pensatore e statista del rango di Tommaso Moro, cancelliere d'Inghilterra nel 1529, autore della famosa "Utopia" e morto per mano del boia di Enrico Ottavo, non è stato forse un altro precursore di quest'idea di città ideale? L'approccio utopico sembra perfettamente legittimo come strumento critico della società: esso partecipa del dibattito ideologico, ossigeno delle democrazie. Ma il comunismo di cui trattiamo in questa sede non si colloca nel mondo delle idee. E' un comunismo reale, che è esistito in una determinata epoca, in determinati paesi, incarnato da leader famosi: Lenin, Stalin, Mao, Ho Chi Minh, Castro eccetera e, più vicino alla storia nazionale francese, Maurice Thorez, Jacques Duclos, Georges Marchais.

Il comunismo reale, in qualunque misura sia stato influenzato nella sua pratica dalla dottrina comunista anteriore al 1917 - problema su cui ritorneremo -, ha comunque messo in atto una repressione sistematica, al punto da eleggere, nei momenti di parossismo, il terrore a sistema di governo. L'ideologia è, dunque, innocente? I nostalgici e coloro che ragionano con una mentalità scolastica potranno sempre sostenere che questo comunismo reale non aveva niente a che vedere con il comunismo ideale. E sarebbe evidentemente assurdo imputare a teorie elaborate prima di Cristo, durante il Rinascimento o ancora nell'Ottocento, eventi prodottisi nel ventesimo secolo. Ma, come osservò Ignazio Silone, le rivoluzioni come gli alberi si riconoscono dai loro frutti. Non a caso i socialdemocratici russi, meglio noti come «bolscevichi», nel novembre del 1917 hanno

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deciso di chiamarsi «comunisti». Non a caso, ancora, hanno eretto ai piedi del Cremlino un monumento in onore di coloro che consideravano i loro precursori: Moro e Campanella.

Al di là dei crimini individuali, dei singoli massacri legati a circostanze particolari, i regimi comunisti, per consolidare il loro potere, hanno fatto del crimine di massa un autentico sistema di governo. E' vero che in un arco di tempo variabile - che va da pochi anni nell'Europa dell'Est a parecchi decenni nell'URSS e in Cina - il terrore si è affievolito e i regimi si sono stabilizzati su una gestione della repressione nel quotidiano, mediante la censura di tutti i mezzi di comunicazione, il controllo delle frontiere, l'espulsione dei dissidenti. Ma la «memoria del terrore» ha continuato ad assicurare la credibilità, e quindi l'efficacia, della minaccia repressiva. Nessuna delle esperienze comuniste che hanno conosciuto una certa popolarità in Occidente è sfuggita a questa legge: né la Cina del Grande timoniere né la Corea di Kim Il Sung né il Vietnam del «gentile zio Ho» o la Cuba del pirotecnico Fidel, affiancato da Che Guevara il puro, senza dimenticare l'Etiopia di Menghistu, l'Angola di Neto e l'Afghanistan di Najibullah.

I crimini del comunismo non sono mai stati sottoposti a una valutazione legittima e consueta né dal punto di vista storico né da quello morale. Questo è, forse, uno dei primi tentativi di accostarsi al comunismo, interrogandosi sulla dimensione criminale come questione fondamentale e globale al tempo stesso. Si potrà ribattere che la maggior parte dei crimini rispondeva a una «legalità» di cui erano garanti le istituzioni dei regimi in vigore, riconosciuti sul piano internazionale e i cui capi venivano ricevuti con il massimo degli onori dai nostri stessi politici. Ma con il nazismo non è, forse, accaduto lo stesso? I crimini di cui parleremo in questo libro si definiscono come tali in rapporto al codice non scritto dei diritti naturali dell'uomo e non alla giurisdizione dei regimi comunisti. La storia dei regimi e dei partiti comunisti, della loro politica, dei loro rapporti con le rispettive società nazionali e con la comunità internazionale non si riduce alla dimensione criminale e neppure a una dimensione di terrore e di repressione. Nell'URSS e nelle «democrazie popolari» dopo la morte di Stalin, in Cina dopo quella di Mao, il terrore si è attenuato, la società ha cominciato a uscire dall'appiattimento, la coesistenza pacifica - anche se era «una continuazione della lotta di classe sotto altre forme» - è diventata una costante nei rapporti internazionali. Tuttavia, gli archivi e le abbondanti testimonianze dimostrano che il terrore è stato fin dall'origine una delle dimensioni fondamentali del comunismo moderno. Bisogna abbandonare l'idea che la tal fucilazione di ostaggi, il tal massacro di operai insorti, la tal ecatombe di contadini morti di fame siano stati semplici «incidenti di percorso» propri di questa o quell'epoca. Il nostro approccio va al di là del singolo ambito e considera quella criminale come una delle dimensioni proprie del sistema comunista nel suo insieme, nell'intero arco della sua esistenza.

Di che cosa parleremo, quindi? Di quali crimini? Il comunismo ne ha commessi moltissimi: crimini contro lo spirito innanzi tutto, ma anche crimini contro la cultura universale e contro le culture nazionali. Stalin ha fatto demolire decine di chiese a Mosca; Ceausescu ha sventrato il centro storico di Bucarest per costruirvi nuovi edifici e tracciarvi, con megalomania, sterminati e larghissimi viali; Pol Pot ha fatto smontare pietra dopo pietra la cattedrale di Phnom Penh e ha abbandonato alla giungla i templi di Angkor; durante la Rivoluzione culturale maoista le Guardie rosse hanno distrutto e bruciato tesori inestimabili. Eppure, per quanto gravi possano essere a lungo termine queste perdite, sia per le nazioni direttamente coinvolte sia per l'umanità intera, che importanza hanno di fronte all'assassinio in massa di uomini, donne e bambini?

Abbiamo, quindi, preso in considerazione soltanto i crimini contro le persone, che costituiscono l'essenza del fenomeno del terrore e che si possono ricondurre a uno schema comune, anche se ciascun regime ha la sua propensione per una particolare pratica: l'esecuzione capitale con vari metodi (fucilazione, impiccagione, annegamento, fustigazione e, in alcuni casi, gas chimici, veleno o incidente automobilistico); l'annientamento per fame (carestie indotte e/o non soccorse); la

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deportazione, dove la morte può sopravvenire durante il trasporto (marce a piedi o su carri bestiame) o sul luogo di residenza e/o di lavoro forzato (sfinimento, malattia, fame, freddo). Più complicato è il caso dei periodi detti di «guerra civile»: non sempre, infatti, è facile distinguere ciò che rientra nella lotta fra potere e ribelli dal vero e proprio massacro della popolazione civile. Possiamo, tuttavia, fornire un primo bilancio in cifre, che, pur essendo ancora largamente approssimativo e necessitando di lunghe precisazioni, riteniamo possa dare un'idea della portata del fenomeno, facendone toccare con mano la gravità:

- URSS, 20 milioni di morti, - Cina, 65 milioni di morti, - Vietnam, un milione di morti, - Corea del Nord, 2 milioni di morti, - Cambogia, 2 milioni di morti, - Europa dell'Est, un milione di morti, - America Latina, 150 mila morti, - Africa, un milione 700 mila morti, - Afghanistan, un milione 500 mila morti, - movimento comunista internazionale e partiti comunisti non al potere, circa 10 mila morti.

Il totale si avvicina ai 100 milioni di morti. Questo elenco di cifre nasconde situazioni molto diverse tra loro. In termini relativi, la palma va incontestabilmente alla Cambogia, dove Pol Pot, in tre anni e mezzo, è riuscito a uccidere nel modo più atroce - carestia generalizzata e tortura - circa un quarto della popolazione. L'esperienza maoista colpisce, invece, per l'ampiezza delle masse coinvolte, mentre la Russia leninista e stalinista fa gelare il sangue per il suo carattere sperimentale, ma perfettamente calcolato, logico, politico.

Questo approccio elementare non pretende di esaurire il problema, che merita, invece, un approfondimento qualitativo, basato su una definizione di crimine precisa e fondata su criteri obiettivi e giuridici. La questione del crimine di Stato è stata affrontata per la prima volta da un punto di vista giuridico nel 1945, dal tribunale di Norimberga istituito dagli Alleati proprio per i crimini nazisti. La natura di questi ultimi è stata definita nell'articolo 6 dello statuto del tribunale, che indica tre crimini fondamentali: i crimini contro la pace, i crimini di guerra, i crimini contro l'umanità. Ora, un esame dell'insieme dei crimini commessi durante il regime leninista- stalinista, quindi nel mondo comunista in generale, porta a riconoscervi ciascuna di queste tre categorie.

I crimini contro la pace sono definiti dall'articolo 6a e riguardano «la direzione, la preparazione, l'inizio e la continuazione di una guerra d'aggressione, o di una guerra di violazione dei trattati, degli accordi o dei patti internazionali, o la partecipazione a un piano concertato o a un complotto per la realizzazione di uno qualsiasi degli atti di cui sopra». Stalin ha innegabilmente commesso questo tipo di crimine, non foss'altro che per avere negoziato segretamente con Hitler la spartizione della Polonia e l'annessione all'URSS degli Stati baltici, della Bucovina del Nord e della Bessarabia, con i due trattati del 23 agosto e del 28 settembre 1939. Il trattato del 23 agosto, liberando la Germania dal pericolo di uno scontro sui due fronti, fu la causa diretta dello scoppio della seconda guerra mondiale. Stalin ha perpetrato un altro crimine contro la pace aggredendo la Finlandia il 30 novembre 1939. L'attacco inopinato della Corea del Nord contro la Corea del Sud il 25 giugno 1950 e l'intervento massiccio dell'esercito della Cina comunista appartengono alla stessa categoria di crimini. Anche i metodi sovversivi, ripresi talora dai partiti comunisti finanziati da Mosca, potrebbero essere assimilati ai crimini contro la pace, perché il loro impiego ha spesso portato alla guerra: un colpo di Stato comunista in Afghanistan il 27 dicembre 1979, per esempio, provocò un massiccio intervento militare dell'URSS, dando inizio a una guerra che non si è ancora conclusa.

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I crimini di guerra vengono definiti, all'articolo 6b, «violazioni delle leggi e dei costumi della guerra. Queste violazioni comprendono, senza limitarvisi, l'assassinio, i maltrattamenti o la deportazione ai lavori forzati o ad altro scopo di popolazioni civili nei territori occupati, l'assassinio o i maltrattamenti dei prigionieri di guerra o delle persone in mare, l'esecuzione capitale degli ostaggi, il saccheggio dei beni pubblici e privati, la distruzione senza motivo di città e paesi o la devastazione non giustificata da esigenze militari». Le leggi e i costumi della guerra sono descritti nelle convenzioni, la più nota delle quali è quella dell'Aja del 1907, che stabilisce: «In tempo di guerra, per la popolazione civile e per i belligeranti, rimangono in vigore i principi del diritto dei popoli quali risultano dagli usi stabiliti dalle nazioni civilizzate, dalle leggi dell'umanità e dalle esigenze della coscienza pubblica». Stalin ha ordinato e autorizzato numerosi crimini di guerra. Il più impressionante rimane l'eliminazione di quasi tutti gli ufficiali polacchi fatti prigionieri nel 1939, nell'ambito della quale lo sterminio di 4500 persone a Katyn' è soltanto un episodio. Ma altri crimini di portata assai maggiore sono passati inosservati, come l'assassinio o la messa a morte nei gulag di centinaia di migliaia di militari tedeschi fatti prigionieri fra il 1943 e il 1945, a cui si aggiungono gli stupri in massa delle donne tedesche perpetrati dai soldati dell'Armata rossa nella Germania occupata. Per non parlare del saccheggio sistematico delle strutture industriali dei paesi occupati dall'Armata. Rientrano sempre nell'articolo 6b l'imprigionamento e la fucilazione o la deportazione di militanti di gruppi organizzati che combattevano apertamente contro il potere comunista: per esempio, i militari dell'organizzazione polacca di resistenza antinazista (A.K.), i membri delle organizzazioni di partigiani armati baltici e ucraini, i partigiani afgani eccetera.

L'espressione «crimine contro l'umanità» è comparsa per la prima volta il 18 maggio 1915 in una dichiarazione di Francia, Inghilterra e Russia contro la Turchia, in occasione del massacro degli armeni, definito «nuovo crimine della Turchia contro l'umanità e la civiltà». Le atrocità naziste hanno indotto il tribunale di Norimberga a ridefinire la nozione nell'articolo 6c: «L'assassinio, lo sterminio, la schiavitù, la deportazione e ogni altro atto inumano commesso contro qualsiasi popolazione civile, prima o dopo la guerra o, ancora, le persecuzioni per motivi politici, razziali o religiosi, qualora questi atti o persecuzioni, che abbiano costituito o meno una violazione del diritto interno del paese in cui sono stati perpetrati, siano stati commessi in seguito a qualsiasi crimine che rientri nella competenza del tribunale o siano in rapporto con detto crimine».

Nella sua requisitoria a Norimberga Francois de Menthon, procuratore generale francese, sottolineava la portata ideologica di questi crimini:

"Mi propongo di dimostrarvi che qualsiasi forma di crimine organizzato e di massa deriva da ciò che oserei definire un crimine contro lo spirito, e cioè da una dottrina che, negando tutti i valori spirituali, razionali o morali sui quali i popoli hanno tentato da millenni di far progredire la condizione umana, mira a respingere l'umanità nella barbarie, non più nella barbarie naturale e spontanea dei popoli primitivi, ma in una barbarie demoniaca in quanto cosciente di sé e in grado di utilizzare ai suoi fini tutti i mezzi materiali che la scienza contemporanea mette a disposizione dell'uomo. In questo attentato allo spirito consiste il peccato originale del nazionalsocialismo da cui derivano tutti i crimini. Tale mostruosa dottrina è l'ideologia del razzismo.... Che si tratti del crimine contro la pace o dei crimini di guerra, non ci troviamo comunque di fronte a una criminalità accidentale, occasionale, che gli eventi potrebbero, non dico giustificare, ma perlomeno spiegare: ci troviamo di fronte a una criminalità sistematica, che deriva direttamente e necessariamente da una dottrina mostruosa, favorita con deliberata volontà dai dirigenti della Germania nazista".

Francois de Menthon precisava, inoltre, che le deportazioni destinate a fornire manodopera supplementare alla macchina bellica tedesca e quelle volte all'eliminazione degli oppositori del regime erano soltanto «una conseguenza naturale della dottrina nazionalsocialista per la quale l'uomo non ha nessun valore in sé quando non è al servizio della razza tedesca». Tutte le

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dichiarazioni del tribunale di Norimberga insistevano su una delle principali caratteristiche del crimine contro l'umanità: il fatto che la potenza dello Stato fosse messa al servizio di una politica e di una pratica criminali. Ma la competenza del tribunale era limitata ai crimini commessi durante la seconda guerra mondiale. Era, quindi, indispensabile estendere la nozione giuridica a situazioni che non rientrassero in quella casistica. Il nuovo Codice penale francese, entrato in vigore il 23 luglio 1992, definisce così il crimine contro l'umanità: «La deportazione, la schiavitù o la pratica massiccia e sistematica di esecuzioni capitali sommarie, di sequestri seguiti dalla scomparsa della persona rapita, della tortura o di atti disumani ispirati a motivazioni "politiche, filosofiche" [corsivo dell'Autore], razziali o religiose, e organizzati in esecuzione di un piano concertato contro un gruppo di popolazione civile».

Ora, queste definizioni, in particolare quella francese recente, si attagliano a numerosi crimini commessi sotto Lenin, e specialmente sotto Stalin, e poi in tutti i paesi comunisti eccetto (con beneficio di inventario) Cuba e il Nicaragua dei sandinisti. Il presupposto sembra inconfutabile: i regimi comunisti hanno operato «in nome di uno Stato che praticava una politica di egemonia ideologica». E proprio in nome di una dottrina, fondamento logico e necessario del sistema, vennero massacrate decine di milioni di persone innocenti a cui non si poteva rimproverare nessun atto particolare, a meno che non si riconosca come crimine il fatto di essere nobile, borghese, kulak, ucraino e persino operaio o... membro del Partito comunista. L'intolleranza attiva faceva parte del programma messo in atto. Non è stato forse il massimo dirigente dei sindacati sovietici, Tomskij, a dichiarare il 13 novembre 1927, su «Trud»: «Nel nostro paese possono esistere anche altri partiti. Ma un principio fondamentale ci distingue dall'Occidente; si immagini una simile situazione: un partito comanda e tutti gli altri sono in prigione».

La nozione di crimine contro l'umanità è complessa e comprende crimini ben definiti. Uno dei più specifici è il genocidio. In seguito a quello degli ebrei perpetrato dai nazisti, e allo scopo di precisare l'articolo 6c del tribunale di Norimberga, la nozione è stata definita da una convenzione delle Nazioni Unite del 9 dicembre 1948:

"Per genocidio si intende uno qualunque dei seguenti atti, commessi con l'intenzione di distruggere completamente o in parte un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso in quanto tale: a) assassinio di membri del gruppo; b) grave attentato all'incolumità fisica o mentale di membri del gruppo; c) imposizione intenzionale al gruppo di condizioni di vita destinate a provocarne la distruzione fisica totale o parziale; d) misure volte a ostacolare le nascite all'interno del gruppo; e) trasferimenti coatti dei figli di un gruppo a un altro".

Il nuovo Codice penale francese dà del genocidio una definizione ancora più ampia: «Il fatto, in esecuzione di un "piano concertato" tendente alla distruzione totale o "parziale" di un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, "o di un gruppo determinato sulla base di qualsiasi altro criterio arbitrario" [corsivo dell'Autore]». Questa definizione giuridica non contraddice l'approccio più filosofico di André Frossard, secondo il quale «si commette un crimine contro l'umanità quando si uccide qualcuno con il pretesto che è nato». E nel suo breve e magnifico racconto intitolato "Tutto scorre", Vasilij Grossman dice del suo personaggio, Ivan Grigorievic, di ritorno dal campo di concentramento: «E' rimasto quello che era alla nascita, un uomo». Ed è esattamente questa la ragione per cui era stato perseguitato. La definizione francese permette anche di sottolineare che il genocidio non è sempre dello stesso tipo - razziale, come nel caso degli ebrei - ma può colpire anche gruppi sociali. In un libro pubblicato a Berlino nel 1924, intitolato "La Terreur rouge en Russie", lo storico russo, e socialista, Sergej Mel'gunov, citava Lacis, uno dei primi capi della Ceka (la polizia politica sovietica) che, il primo novembre 1918, diede queste direttive ai suoi sgherri:

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"Noi non facciamo la guerra contro singole persone. Noi sterminiamo la borghesia come classe. Nelle indagini non cercate documenti e prove su ciò che l'accusato ha fatto, in atti e parole, contro l'autorità sovietica. Chiedetegli subito a che classe appartiene, quali sono le sue origini, la sua educazione, la sua istruzione e la sua professione".

Fin dal principio Lenin e i suoi compagni si sono inquadrati in una guerra di classe spietata, in cui l'avversario politico e ideologico e persino la popolazione renitente erano considerati, e trattati, alla stregua di nemici e dovevano essere sterminati. I bolscevichi hanno deciso di eliminare, sia legalmente sia fisicamente, qualsiasi opposizione o resistenza, anche passiva, al loro potere egemonico, non soltanto quando quest'ultima era prerogativa di gruppi di oppositori politici, ma anche quando era guidata da gruppi sociali in quanto tali - la nobiltà, la borghesia, l'intellighenzia, la Chiesa eccetera, e categorie professionali (gli ufficiali, le guardie...) -, e questa eliminazione ha spesso assunto la dimensione del genocidio. Fin dal 1920 la «decosacchizzazione» corrisponde ampiamente alla definizione di genocidio: un'intera popolazione a forte base territoriale, i cosacchi, veniva sterminata in quanto tale, gli uomini venivano fucilati, le donne, i vecchi e i bambini deportati, i paesi rasi al suolo o consegnati a nuovi occupanti non cosacchi. Lenin assimilava i cosacchi alla Vandea durante la Rivoluzione francese e proponeva di applicare al loro caso il trattamento che Gracchus Babeuf, l'«inventore» del comunismo moderno, aveva definito fin dal 1795 «popolicidio».

La «dekulakizzazione» del 1930-1932 fu la ripresa su ampia scala della decosacchizzazione: questa volta, però, fu rivendicata da Stalin, la cui parola d'ordine ufficiale, strombazzata dalla propaganda di regime, era «sterminare i kulak in quanto classe». I kulak che resistevano alla collettivizzazione furono fucilati, gli altri deportati con donne, vecchi e bambini. Certo non furono tutti eliminati direttamente, ma il lavoro forzato al quale vennero sottoposti, in zone non dissodate della Siberia e del Grande Nord, lasciò loro poche possibilità di sopravvivenza. Centinaia di migliaia di persone persero la vita, ma il numero esatto delle vittime non si conosce ancora. La grande carestia ucraina del 1932-1933, legata alla resistenza delle popolazioni rurali alla collettivizzazione forzata, provocò in pochi mesi la morte di 6 milioni di persone. In questo caso, il genocidio «di classe» si confonde con il genocidio «di razza»: la morte per stenti del bambino di un kulak ucraino deliberatamente ridotto alla fame dal regime stalinista «vale» la morte per stenti di un bambino ebreo del ghetto di Varsavia ridotto alla fame dal regime nazista. Questa constatazione non rimette affatto in discussione la singolarità di Auschwitz: la mobilitazione delle risorse tecniche più moderne e l'attuazione di un vero e proprio processo industriale (la costruzione di una «fabbrica di sterminio»), l'uso dei gas e dei forni crematori, ma sottolinea una particolarità di molti regimi comunisti: l'uso sistematico dell'arma della fame. Il regime tende a controllare completamente le riserve alimentari e, con un sistema di razionamento talvolta molto sofisticato, le ridistribuisce in funzione del merito o del demerito degli uni o degli altri. Questa pratica può provocare immani carestie. Facciamo notare che, dopo il 1918, soltanto i paesi comunisti hanno conosciuto carestie tali da causare la morte di centinaia di migliaia, se non di milioni, di uomini. Ancora nell'ultimo decennio due dei paesi dell'Africa che si rifacevano al marxismo-leninismo, l'Etiopia e il Mozambico, sono stati vittime di queste micidiali carestie.

E' possibile fare un primo bilancio globale di questi crimini: - fucilazione di decine di migliaia di ostaggi o di persone imprigionate senza essere state sottoposte a giudizio e massacro di centinaia di migliaia di operai e di contadini insorti fra il 1918 e il 1922; - carestia del 1922, che ha provocato la morte di 5 milioni di persone; - deportazione ed eliminazione dei cosacchi del Don nel 1920; - assassinio di decine di migliaia di persone nei campi di concentramento fra il 1918 e il 1930; - eliminazione di quasi 690 mila persone durante la Grande purga del 1937-1938;

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- deportazione di 2 milioni di kulak (o presunti tali) nel 1930-1932; - sterminio di 6 milioni di ucraini nel 1932-1933 per carestia indotta e non soccorsa; - deportazione di centinaia di migliaia di polacchi, ucraini, baltici, moldavi e bessarabi nel 1939-1941, poi nuovamente nel 1944-1945; - deportazione dei tedeschi del Volga nel 1941; - deportazione-abbandono dei tatari della Crimea nel 1943: - deportazione-abbandono dei ceceni nel 1944; - deportazione-abbandono degli ingusceti nel 1944; - deportazione-eliminazione delle popolazioni urbane della Cambogia fra il 1975 e il 1978; - lento sterminio dei tibetani per mano dei cinesi dal 1950 eccetera.

La lista dei crimini del leninismo e dello stalinismo, spesso riprodotti in modo quasi identico dai regimi di Mao Zedong, Kim Il Sung e Pol Pot, potrebbe essere estesa all'infinito. Rimane una delicata questione epistemologica: lo storico, nel delineare e interpretare i fatti, è autorizzato a ricorrere a nozioni quali «crimine contro l'umanità» e «genocidio» che, come abbiamo visto, appartengono alla sfera giuridica? Queste nozioni non sono forse troppo legate a imperativi contingenti - la condanna del nazismo a Norimberga - per essere inserite in una riflessione storica che miri a impostare, sul medio periodo, un'analisi valida? D'altro canto, queste nozioni non sono troppo cariche di valori suscettibili di falsare l'obiettività dell'analisi storica?

Per quanto riguarda il primo punto, la storia di questo secolo ha rivelato che la pratica dello sterminio di massa da parte dello Stato o di partiti-Stato non è stata un'esclusiva nazista. La Bosnia e il Ruanda dimostrano che tali pratiche perdurano e che probabilmente costituiranno una delle principali caratteristiche del nostro secolo. In merito al secondo punto, è evidente che non si può tornare all'impostazione del diciannovesimo secolo, quando lo storico cercava di giudicare più che di capire. Ma di fronte alle immense tragedie umane, direttamente provocate da determinate concezioni ideologiche e politiche, egli può forse abbandonare ogni riferimento a una mentalità umanistica - legata alla nostra civiltà giudaico-cristiana e alla nostra cultura democratica - che si fonda, per esempio, sul rispetto della persona umana? Molti storici famosi non esitano a usare l'espressione «crimine contro l'umanità» per definire i crimini nazisti, come Jean-Pierre Azema nella voce su Auschwitz o Pierre Vidal-Naquet a proposito del processo Touvier. Ci sembra, quindi, che il ricorso a queste nozioni per caratterizzare alcuni crimini commessi dai regimi comunisti non sia illegittimo.

Oltre alla questione della responsabilità diretta dei comunisti al potere si pone anche quella della complicità. Il Codice penale canadese, rimaneggiato nel 1987, all'articolo 7 (3.77) considera che si incorre nel crimine contro l'umanità nei casi di tentativo, complicità, consiglio, aiuto, "incoraggiamento o complicità di fatto". Sono parimenti assimilati agli atti di crimine contro l'umanità - articolo 7 (3.76) - «il tentativo, il complotto, "la complicità dopo il fatto" [corsivo dell'Autore], il consiglio, l'aiuto o l'incoraggiamento riguardante il fatto stesso». Ora, dagli anni Venti agli anni Cinquanta, i comunisti di tutto il mondo e molte altre persone hanno applaudito la politica di Lenin e poi quella di Stalin. Centinaia di migliaia di uomini si sono arruolate nelle file dell'Internazionale comunista delle sezioni locali del «partito mondiale della rivoluzione». Negli anni Cinquanta-Settanta altre centinaia di migliaia di uomini hanno incensato il Grande timoniere della Rivoluzione cinese e hanno tessuto le lodi del Grande balzo in avanti della Rivoluzione culturale. Per giungere a tempi ancora più recenti, l'ascesa al potere di Pol Pot è stata salutata da un diffuso entusiasmo. Molti risponderanno che «non sapevano». Ed è vero che non era sempre facile sapere, poiché i regimi comunisti avevano fatto del segreto uno dei loro mezzi di difesa preferiti. Ma, spesso, quest'ignoranza era solo il risultato di una cecità dovuta alla fede militante: fin dagli anni Quaranta e Cinquanta, infatti, molti accadimenti erano noti e inconfutabili. E se molti di questi incensatori hanno oggi abbandonato i loro idoli di ieri, lo hanno fatto nel silenzio e nella discrezione.

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Ma che cosa si deve pensare dell'amoralismo innato di chi abbandona nel segreto del proprio animo un impegno pubblico senza trarne la debita lezione?

Nel 1969 uno dei pionieri dello studio del terrore comunista, Robert Conquest, scriveva:

"Il fatto che tante persone abbiano effettivamente «mandato giù» [la Grande purga] fu probabilmente uno dei fattori che resero possibile l'intera purga. I processi, in particolare, avrebbero riscosso scarso interesse se non fossero stati convalidati da alcuni commentatori stranieri, e dunque «indipendenti». Questi ultimi devono essere considerati corresponsabili, almeno in piccola parte, di tali omicidi politici o, in ogni caso, del fatto che essi si siano rinnovati dopo che la prima operazione, il processo Zinov'ev [nel 1936], ebbe beneficiato di un credito ingiustificato".

Se si giudica con questo metro la complicità morale e intellettuale di un certo numero di non comunisti, che cosa si dovrebbe dire della complicità dei comunisti? Non si ricorda che Louis Aragon si sia pubblicamente pentito di avere auspicato, in una poesia del 1931, la creazione di una polizia politica comunista in Francia, anche se a tratti è sembrato che criticasse il periodo stalinista. Joseph Berger, un ex dirigente del Comintern che è stato «purgato» e ha conosciuto il campo di concentramento, cita la lettera scrittagli da una ex deportata in un gulag, che rimase membro del Partito dopo avere riconquistato la libertà:

"I comunisti della mia generazione hanno accettato l'autorità di Stalin. Hanno approvato i suoi crimini. Ciò è vero non soltanto per i comunisti sovietici ma anche per quelli del resto del mondo e questa macchia ci bolla individualmente e collettivamente. Possiamo cancellarla soltanto facendo in modo che non accada mai più nulla di simile. Che cosa è successo? Avevamo perso il senno o adesso siamo dei traditori del comunismo? La verità è che tutti, compresi quanti erano più vicini a Stalin, abbiamo fatto dei crimini il contrario di quello che erano. Li abbiamo cioè considerati importanti contributi alla vittoria del socialismo. Abbiamo creduto che tutto ciò che consolidava la potenza politica del Partito comunista in Unione Sovietica e nel mondo fosse una vittoria per il socialismo. Non abbiamo mai considerato che all'interno del comunismo potesse esserci conflitto fra la politica e l'etica".

Berger, dal canto suo, attenua l'affermazione:

"Ritengo che se si può condannare il comportamento di quanti hanno accettato la politica di Stalin, il che non fu il caso di tutti i comunisti, è più difficile rimproverare loro di non avere impedito questi stessi crimini. Credere che uomini, pur appartenenti alle alte sfere del potere, potessero contrastare i suoi piani significa non avere capito nulla del suo dispotismo bizantino".

Ma Berger ha la scusante di essersi trovato nell'URSS e di essere stato, quindi, afferrato dalla macchina infernale a cui non poté sfuggire. Ma perché i comunisti dell'Europa occidentale, che non dovettero subire direttamente l'N.K.V.D. (una sorta di ministero sovietico che aveva alle dipendenze la polizia politica), hanno continuato a tessere le lodi del sistema e del suo capo? Doveva essere ben potente il filtro magico che li condizionava! Martin Malia, nel suo bel libro sulla Rivoluzione russa "La tragédie soviétique", svela in parte il mistero parlando del «paradosso di un grande ideale sfociato in un grande crimine». Annie Kriegel, un'altra famosa studiosa del comunismo, insisteva su quest'articolazione quasi necessaria delle sue due facce: una luminosa e l'altra oscura. Una prima risposta a questo paradosso viene da Tzvetan Todorov:

"Chi vive in una democrazia occidentale vorrebbe credere che il totalitarismo sia interamente estraneo alle normali aspirazioni umane. Ma, se così fosse, non si sarebbe mantenuto tanto a lungo, attirando tanti individui nella sua orbita. Al contrario, esso è una macchina di temibile efficacia.

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L'ideologia comunista propone l'immagine di una società migliore e ci incita ad aspirarvi: il desiderio di trasformare il mondo in nome di un ideale non è forse parte integrante dell'identità umana? ... Per di più, la società comunista priva l'individuo delle sue responsabilità: sono sempre «loro» a decidere. E la responsabilità è un fardello spesso pesante da portare.... L'attrazione per il sistema totalitario, inconsciamente provata da moltissimi individui, deriva da una certa paura della libertà e della responsabilità; il che spiega la popolarità di tutti i regimi autoritari (è la tesi di Erich Fromm in 'Fuga dalla libertà'); esiste una «servitù volontaria», diceva già La Boétie".

La complicità di coloro che si sono abbandonati alla servitù volontaria non è stata e non è sempre astratta e teorica. Il semplice fatto di accettare e/o riprendere una propaganda destinata a nascondere la verità sfiorava e sfiora comunque la complicità attiva. Perché la pubblicità è l'unico modo - anche se non sempre efficace, come ha recentemente dimostrato la tragedia del Ruanda - di combattere i crimini di massa commessi in segreto, lontano da sguardi indiscreti. L'analisi di questa realtà fondamentale del fenomeno comunista al potere - dittatura e terrore - non è facile. Jean Ellenstein ha definito il fenomeno stalinista un misto di tirannide greca e di dispotismo orientale. La formula è seducente, ma non rende il carattere moderno di quest'esperienza e la sua portata totalitaria, diversa dalle precedenti forme storiche di dittatura. Un rapido esame comparativo permetterà di comprenderne meglio la natura. Si potrebbe incominciare ricordando la tradizione russa dell'oppressione. I bolscevichi combattevano il regime terrorista dello zar, che però impallidisce di fronte agli orrori del bolscevismo al potere. I prigionieri politici dello zar avevano diritto a un vero e proprio sistema giudiziario, dove la difesa poteva esprimersi al pari, se non meglio, dell'accusa, prendendo a testimone l'opinione pubblica nazionale, inesistente nel regime comunista, e soprattutto quella internazionale. I prigionieri e i condannati godevano di un regolamento carcerario, e le condizioni di reclusione e persino di deportazione erano relativamente leggere. I deportati potevano partire con la famiglia, leggere e scrivere ciò che desideravano, andare a caccia e a pesca e incontrarsi liberamente con i compagni di sventura. Lenin e Stalin l'avevano sperimentato di persona. Perfino le "Memorie da una casa di morti" di Dostoevskij, che tanto colpirono l'opinione pubblica al momento della pubblicazione, sembrano ben poca cosa in confronto agli orrori del comunismo. Nella Russia degli anni che vanno dal 1880 al 1914 ci furono indubbiamente sommosse e insurrezioni duramente represse da un sistema politico arcaico. Ma dal 1825 al 1917 le persone condannate a morte in Russia per le loro idee o la loro azione politica sono state 6360, di cui ne sono state giustiziate 3932 -191 dal 1825 al 1905 e 3741 dal 1906 al 1910 -, cifra che nel marzo 1918, dopo soli quattro mesi di esercizio del potere, i bolscevichi avevano già superato. Fra il bilancio della repressione zarista e quello del terrore comunista non c'è, quindi, confronto. Negli anni Venti-Quaranta il comunismo ha violentemente stigmatizzato il terrore messo in atto dai regimi fascisti. Un rapido esame delle cifre mostra che, anche in questo caso, le cose non sono poi così semplici. E' vero che il fascismo italiano, il primo a manifestarsi e a dichiararsi apertamente «totalitario», ha imprigionato e spesso maltrattato i suoi avversari politici. Ma raramente è arrivato a uccidere e, a metà degli anni Trenta, l'Italia contava poche centinaia di prigionieri politici e diverse centinaia di confinati - in domicilio coatto nelle isole -, ma, in compenso, decine di migliaia di esiliati politici.

Fino a prima della guerra il terrore nazista ha preso di mira solo pochi gruppi. L'opposizione al regime, rappresentata principalmente da comunisti, socialisti, anarchici e da alcuni sindacalisti, è stata repressa apertamente: i suoi rappresentanti sono stati incarcerati e soprattutto internati in campi di concentramento, dove hanno subito terribili angherie. Dal 1933 al 1939 nei campi di concentramento e nelle prigioni sono stati assassinati in totale circa 20 mila militanti di sinistra, con o senza processo. A tutto ciò vanno aggiunti i regolamenti di conti interni al nazismo, come la Notte dei lunghi coltelli, nel giugno del 1934. Un'altra categoria di vittime destinate alla morte era rappresentata dai tedeschi che si riteneva non corrispondessero ai criteri razziali dell'«ariano alto e biondo»: malati mentali, handicappati e vecchi. Hitler si è deciso a passare all'azione con lo scoppio

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della guerra: tra la fine del 1939 e l'inizio del 1941 sono stati sterminati in camera a gas 70 mila tedeschi, vittime di un programma di eutanasia a cui ha posto fine solo la protesta delle Chiese. I metodi di sterminio con i gas tossici messi a punto in quell'occasione sono stati utilizzati in seguito per il terzo gruppo di vittime, gli ebrei.

Prima della guerra vigevano misure di segregazione razziale di carattere generale contro gli ebrei, ma la loro persecuzione toccò il culmine durante la Notte dei cristalli, che vide parecchie centinaia di morti e 35 mila internamenti nei campi di concentramento. Ma soltanto con la guerra, e soprattutto con l'attacco all'URSS, si scatenò il terrore nazista, di cui forniamo un sommario bilancio: 15 milioni di civili uccisi nei paesi occupati; 5 milioni 100 mila ebrei; 3 milioni 300 mila prigionieri di guerra sovietici; un milione 100 mila deportati morti nei campi di concentramento; parecchie centinaia di migliaia di zingari. A queste vittime vanno aggiunti 8 milioni di persone utilizzate per i lavori forzati e un milione 600 mila persone detenute nei campi di concentramento non decedute.

Il terrore nazista ha impressionato per tre motivi. Innanzi tutto perché ha toccato direttamente gli europei. In secondo luogo perché, in seguito alla sconfitta del nazismo e al processo di Norimberga ai suoi dirigenti, i suoi crimini sono stati ufficialmente designati e stigmatizzati come tali. Infine, la rivelazione del genocidio degli ebrei ha sconvolto le coscienze per il suo carattere apparentemente irrazionale, la sua dimensione razzista e la radicalità del crimine. Non è nostra intenzione istituire in questa sede chissà quale macabra aritmetica comparativa, né tenere una contabilità rigorosa dell'orrore o stabilire una gerarchia della crudeltà. Ma i fatti parlano chiaro e mostrano che i crimini commessi dai regimi comunisti riguardano circa 100 milioni di persone, contro i circa 25 milioni di vittime del nazismo. Questa semplice constatazione deve quantomeno indurre a riflettere sulla somiglianza fra il regime che a partire dal 1945 venne considerato il più criminale del secolo e un sistema comunista che ha conservato fino al 1991 piena legittimità internazionale, e che a tutt'oggi è al potere in alcuni paesi e continua ad avere sostenitori in tutto il mondo. E anche se molti partiti comunisti hanno tardivamente riconosciuto i crimini dello stalinismo, nella maggior parte dei casi non hanno abbandonato i principi di Lenin e non si interrogano troppo sul loro coinvolgimento nel fenomeno del Terrore.

I metodi adoperati da Lenin e sistematizzati da Stalin e dai loro seguaci non soltanto ricordano quelli nazisti, ma molto spesso ne sono il precorrimento. A questo proposito Rudolf H”ss, incaricato di creare il campo di Auschwitz, che sarebbe poi stato chiamato a dirigere, ricorda significativamente che la direzione della Sicurezza aveva fatto pervenire ai comandanti dei campi una documentazione dettagliata sui campi di concentramento russi, in cui, sulla base delle testimonianze degli evasi, erano descritte nei minimi particolari le condizioni che vi vigevano, ed emergeva come i russi annientassero intere popolazioni impiegandole nei lavori forzati. Il fatto che il grado e le tecniche di violenza di massa fossero state inaugurate dai comunisti e che i nazisti abbiano potuto trarne ispirazione non implica comunque, a nostro avviso, che si possa stabilire un rapporto diretto di causa ed effetto fra l'ascesa al potere dei bolscevichi e la comparsa del nazismo.

Già alla fine degli anni Venti la G.P.U. (nuovo nome della Ceka) inaugurò il metodo delle quote: ogni regione, ogni distretto doveva arrestare, deportare o fucilare una determinata percentuale di persone appartenenti a classi sociali nemiche. Queste percentuali erano fissate dalla direzione centrale del Partito. La follia pianificatrice e la mania statistica non si sono limitate all'economia, ma hanno imperversato anche nell'ambito del terrore. Fin dal 1920, con la vittoria dell'Armata rossa su quella bianca, in Crimea, si adottano metodi statistici, e addirittura sociologici: le vittime vengono selezionate secondo criteri precisi, stabiliti sulla base di questionari ai quali nessuno può sottrarsi. Gli stessi metodi sociologici saranno utilizzati dai sovietici per organizzare le deportazioni e le eliminazioni di massa negli Stati baltici e nella Polonia occupata nel 1939-1941. Il trasporto dei

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deportati sui carri bestiame ha dato luogo ad aberrazioni del tutto analoghe a quelle naziste: nel 1943-1944, in piena guerra, Stalin ha distolto dal fronte migliaia di vagoni e centinaia di migliaia di uomini dalle truppe speciali dell'N.K.V.D. per provvedere alla deportazione delle popolazioni del Caucaso nel giro di pochissimi giorni. Questa logica genocida - che, per riprendere il Codice penale francese, consiste nella «distruzione totale o parziale di un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, o di un gruppo determinato sulla base di qualsiasi altro criterio arbitrario» - applicata dal potere comunista a gruppi individuati come nemici, a porzioni della sua stessa società, è stata portata al parossismo da Pol Pot e dai suoi khmer rossi. Il confronto fra nazismo e comunismo per quanto riguarda i rispettivi stermini può risultare sconvolgente. Eppure, Vasilij Grossman - figlio di una donna uccisa dai nazisti nel ghetto di Berdicev, autore del primo testo su Treblinka e coordinatore, insieme con altri, del "Libro nero" sullo sterminio degli ebrei in Unione Sovietica - nel racconto "Tutto scorre" fa dire a uno dei suoi personaggi a proposito della fame in Ucraina: «... lo scrivevano gli scrittori, e Stalin in persona: tutti a darci sotto su un punto solo: i kulak, i parassiti, bruciano il grano, ammazzano i bambini. E annunciarono apertamente che bisognava sollevare il furore delle masse contro di loro, annientarli tutti come classe, i maledetti ». E aggiunge: «Per ammazzarli bisognava annunciare: i kulak non sono esseri umani. Proprio come dicevano i tedeschi: gli ebrei non sono esseri umani. Così anche Lenin e Stalin: i kulak non sono esseri umani». E Grossman conclude, a proposito dei figli dei kulak: «Sì, proprio come i tedeschi, che soffocavano i bambini degli ebrei con il gas, perché loro non avevano il diritto di vivere, loro erano ebrei».

Ogni volta si colpiscono non tanto degli individui, quanto dei gruppi. Il terrore ha lo scopo di sterminare un gruppo individuato come nemico che, se è vero che costituisce soltanto una porzione della società, viene comunque colpito in quanto tale da una logica genocida. I meccanismi di segregazione e di esclusione del totalitarismo di classe presentano, quindi, una straordinaria somiglianza con quelli del totalitarismo di razza. La futura società nazista doveva essere costruita attorno alla razza pura, la futura società comunista attorno a un popolo proletario depurato da qualsiasi scoria borghese. La ricostruzione di queste due società venne progettata allo stesso modo, anche se i criteri di esclusione non furono gli stessi. E', quindi, un errore sostenere che il comunismo sia una dottrina universalistica: è vero che il progetto ha una vocazione mondiale, ma una parte dell'umanità è dichiarata indegna di esistere, esattamente come nel nazismo. L'unica differenza consiste nel fatto che la società comunista, invece di essere divisa su base razziale e territoriale come quella nazista, è stratificata in classi sociali. I misfatti leninisti, stalinisti, maoisti e l'esperienza cambogiana pongono, quindi, all'umanità, oltre che ai giuristi e agli storici, un nuovo quesito: come definire il crimine che consiste nello sterminio, per ragioni politico-ideologiche, non più di individui o di gruppi limitati di oppositori, ma di massicce porzioni della società? Bisogna limitarsi, come fanno i giuristi cechi, a definire i crimini commessi durante il regime comunista semplicemente «crimini comunisti»? O bisogna inventare una nuova denominazione? Alcuni autori anglosassoni la pensano in questo modo e hanno coniato il termine «politicidio».

Che cosa si sapeva dei crimini del comunismo? Che cosa si voleva saperne? Perché si è dovuta aspettare la fine del secolo affinché questo tema potesse diventare oggetto di un'indagine scientifica? E', infatti, evidente che lo studio del terrore stalinista e comunista in generale, paragonato allo studio dei crimini nazisti, ha un enorme ritardo da colmare, anche se nell'Est le ricerche si fanno sempre più numerose.

A questo proposito non si può non rilevare con un certo stupore un forte contrasto. I vincitori del 1945 hanno legittimamente fatto del crimine, e in particolare del genocidio degli ebrei, il fulcro della loro condanna del nazismo. Numerosi studiosi di tutto il mondo lavorano da decenni su quest'argomento, a cui sono state dedicate decine di libri e decine di film, alcuni dei quali famosissimi: su registri alquanto diversi, "Notte e nebbia" e "Olocausto", "La scelta di Sophie" e

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"Schindler's List". Raul Hilberg, per fare un solo nome, ha incentrato la sua opera principale sulla minuziosa descrizione delle modalità di eliminazione degli ebrei nel Terzo Reich.

Ma sul tema dei crimini comunisti non esistono studi di questo tipo. Mentre i nomi di Himmler o di Eichmann sono noti in tutto il mondo come simboli della barbarie contemporanea, quelli di Dzerzinskij, di Jagoda o di Ezov sono ignorati dai più. E per Lenin, Mao, Ho Chi Minh, e persino per Stalin, si continua ad avere un sorprendente rispetto. La lotteria di Stato francese ha addirittura commesso la leggerezza di sfruttare l'immagine di Stalin e di Mao per una delle sue campagne pubblicitarie! A chi sarebbe mai venuto in mente di usare Hitler o Goebbels per una simile operazione?

L'eccezionale attenzione dedicata ai crimini hitleriani è perfettamente giustificata. Risponde alla volontà dei sopravvissuti di testimoniare, degli studiosi di comprendere e delle autorità morali e politiche di confermare i valori democratici. Ma perché le testimonianze sui crimini comunisti hanno un'eco così debole nell'opinione pubblica? Perché questo silenzio imbarazzato dei politici? E, soprattutto, perché questo silenzio accademico sulla catastrofe comunista che ha toccato, da ottant'anni a questa parte, circa un terzo dell'umanità, distribuito sui quattro continenti? Perché quest'incapacità di porre al centro dell'analisi del comunismo un fattore essenziale come il crimine, il crimine di massa, il crimine sistematico, il crimine contro l'umanità? Siamo di fronte all'impossibilità di comprendere o si tratta piuttosto del volontario rifiuto di sapere, della paura di capire?

Le ragioni di questo occultamento sono molteplici e complesse. Innanzitutto, la classica e costante volontà dei carnefici di far scomparire le tracce dei loro crimini e di giustificare ciò che non potevano nascondere. Il «rapporto segreto» di Hruscov del 1956, che ha costituito la prima ammissione dei crimini da parte dei dirigenti comunisti stessi, rimane comunque la confessione di un carnefice che tenta allo stesso tempo di mascherare e di coprire i propri crimini - come capo del Partito comunista ucraino al culmine del terrore -, attribuendoli unicamente a Stalin e giustificandosi con la scusa dell'obbedienza agli ordini; di occultarne la maggior parte (parla soltanto delle vittime comuniste, molto meno numerose delle altre); di minimizzarli (li definisce «abusi commessi durante il regime di Stalin»); e infine di giustificare la continuità del sistema con gli stessi principi, le stesse strutture e gli stessi uomini.

HruscOv ne offre una cruda testimonianza, quando riferisce dell'opposizione che incontrò durante la preparazione del «rapporto segreto», in particolare da parte di uno degli uomini di fiducia di Stalin:

"Kaganovic era talmente accondiscendente, che avrebbe tagliato la gola anche a suo padre se Stalin glielo avesse ordinato in nome della causa, cioè della causa stalinista. ... Intervenne allora Kaganovic opponendosi violentemente a me sulla stessa linea. La sua posizione non era determinata da un'analisi profonda delle conseguenze che questo problema avrebbe avuto nel partito, ma soltanto dalla paura che egli aveva di lasciarci la pelle. Era mosso soltanto dal desiderio di sfuggire a ogni responsabilità per quanto era avvenuto. Se erano stati commessi dei crimini, Kaganovic voleva essere certo che non venissero scoperte le sue colpe".

L'assoluta chiusura degli archivi nei paesi comunisti, il totale controllo della stampa, dei mass media e di tutte le vie di comunicazione con l'estero, la propaganda sui «successi» del regime, tutto questo dispositivo di blocco dell'informazione mirava in primo luogo a impedire che si facesse chiarezza sui crimini. Non contenti di nascondere i loro misfatti, i carnefici hanno combattuto con tutti i mezzi gli uomini che tentavano di informare l'opinione pubblica. Diversi osservatori e analisti hanno infatti tentato di aprire gli occhi ai loro contemporanei. Dopo la seconda guerra mondiale, ciò fu particolarmente evidente in due occasioni in Francia. Dal gennaio all'aprile del 1949 si tenne a

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Parigi il processo che oppose Viktor Kravcenko - ex alto funzionario sovietico che aveva scritto "Ho scelto la libertà", in cui descriveva la dittatura stalinista - al giornale comunista diretto da Louis Aragon, «Les lettres francaises», che lo copriva di insulti. Dal novembre del 1950 al gennaio del 1951 si tenne, sempre a Parigi, un altro processo fra «Les lettres francaises» e David Rousset, un intellettuale ex trotzkista, che era stato deportato in Germania dai nazisti e che, nel 1946, aveva ricevuto il premio Renaudot per il libro "L'univers concentrationnaire". Il 12 novembre 1949 Rousset aveva rivolto un appello a tutti gli ex deportati dei campi nazisti perché formassero una commissione d'inchiesta sui campi sovietici ed era stato violentemente attaccato dalla stampa comunista, che ne negava l'esistenza. In seguito all'appello di Rousset, il 25 febbraio 1950, in un articolo sul «Figaro littéraire» intitolato "Pour l'enquˆte sur les camps soviétiques. Qui est pire, Satan ou Belzébuth?", Margaret Buber Neumann raccontava della sua duplice esperienza di deportata nei campi nazisti e sovietici.

Contro tutte queste persone che lavoravano per illuminare le coscienze i carnefici hanno messo in campo, in un combattimento a tappeto, tutto l'arsenale dei grandi Stati moderni, in grado di intervenire nell'intero mondo. Hanno tentato di squalificarli, di screditarli, di intimidirli. Aleksandr Solzenicyn, Vladimir Bukovskij, Aleksandr Zinov'ev, Leonid Pljusc vennero espulsi dal paese; Andrej Saharov, esiliato a Gor'kij; il generale Petr Grigor'enko rinchiuso in un ospedale psichiatrico; Georgi Markov assassinato con un ombrello avvelenato.

Di fronte a un tale potere di intimidazione e di occultamento le vittime stesse esitavano a mostrarsi ed erano incapaci di reinserirsi in una società in cui i loro delatori e carnefici godevano di tutti gli onori. Vasilij Grossman descrive questa disperazione. A differenza della tragedia degli ebrei - in cui la comunità ebraica internazionale si è fatta carico della commemorazione del genocidio -, alle vittime del comunismo e ai loro eredi è stato a lungo impossibile mantenere viva la memoria della tragedia, essendo proibita qualsiasi commemorazione o richiesta di risarcimento.

Quando non riuscivano a nascondere certe verità - la pratica della fucilazione, i campi di concentramento, le carestie indotte -, i carnefici si ingegnavano a giustificare i fatti, falsandoli grossolanamente. Dopo avere rivendicato il Terrore, ne fecero l'allegoria della rivoluzione: «quando si taglia la foresta, i trucioli volano», o «non si può fare la frittata senza rompere le uova». Slogan, quest'ultimo, al quale Vladimir Bukovskij controbatteva di avere visto le uova rotte, ma di non avere mai assaggiato la frittata. Il massimo dell'aberrazione fu probabilmente raggiunto con lo stravolgimento del linguaggio. Grazie alla magia del vocabolario, il sistema dei campi di concentramento divenne un'opera di rieducazione e i carnefici educatori impegnati a trasformare gli uomini della vecchia società in «uomini nuovi». Gli "zek" - termine che indica i prigionieri dei campi di concentramento sovietici - erano «pregati» con la forza di credere in un sistema che li asserviva. In Cina il prigioniero del campo di concentramento è chiamato «studente»: deve studiare il pensiero giusto del Partito e correggere il proprio pensiero sbagliato.

Come spesso accade, la menzogna non è il contrario, in senso stretto, della verità e ogni menzogna si fonda su elementi di verità. I termini stravolti dal loro significato si collocano in una visione falsata che deforma la prospettiva d'insieme: si tratta di una forma di astigmatismo sociale e politico. Ora, è facile correggere una visione distorta dalla propaganda comunista, ma è assai difficile ricondurre chi vede da una prospettiva sbagliata a una concezione intellettuale corretta. La prima impressione rimane e si trasforma in pregiudizio. Da veri judoisti, grazie alla loro incomparabile potenza propagandistica, largamente fondata sullo stravolgimento del linguaggio, i comunisti hanno utilizzato la forza delle critiche rivolte ai loro metodi terroristici per ritorcerla loro contro, rinsaldando ogni volta le file dei loro militanti e simpatizzanti con il rinnovo dell'atto di fede comunista. In tal modo hanno ritrovato il principio primo della fede ideologica, formulato a suo tempo da Tertulliano: «Credo perché è assurdo».

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Nell'ambito di queste operazioni di contropropaganda alcuni intellettuali si sono letteralmente prostituiti. Nel 1928 Gor'kij accettò di andare in «escursione» nelle isole Soloveckie, il campo di concentramento sperimentale dal quale nascerà per «metastasi» (Solzenicyn) il sistema del gulag. Dall'esperienza nacque un libro in lode di Soloveckie e del governo sovietico. Uno scrittore francese, Henri Barbusse, premio Goncourt 1916, non esitò, dietro pagamento, a incensare il regime stalinista pubblicando nel 1928 un libro sulla «meravigliosa Georgia» - dove, nel 1921, Stalin e il suo accolito Ordzonikidze si erano dati a una vera e propria carneficina e dove Berija, capo dell'N.K.V.D., si distingueva per il suo sadico machiavellismo - e nel 1935 la prima biografia ufficiosa di Stalin. Più tardi, Maria Antonietta Macciocchi ha tessuto le lodi di Mao e recentemente Danielle Mitterrand ha fatto lo stesso con Fidel Castro. Cupidigia, debolezza, vanità, attrazione per la forza e la violenza, passione rivoluzionaria: qualunque sia la motivazione, le dittature totalitarie hanno sempre trovato gli adulatori di cui avevano bisogno, e la dittatura comunista non ha fatto eccezione.

Di fronte alla propaganda comunista l'Occidente ha dato prova a lungo di una straordinaria cecità, causata al tempo stesso dall'ingenuità nei confronti di un sistema particolarmente perverso, dal timore della potenza sovietica e dal cinismo dei politici e degli affaristi. La cecità ha regnato a Jalta, quando il presidente Roosevelt ha abbandonato l'Europa dell'Est nelle mani di Stalin in cambio della promessa, redatta con tutti i crismi, che quest'ultimo vi avrebbe organizzato al più presto libere elezioni. Il realismo e la rassegnazione hanno regnato a Mosca quando, nel dicembre 1944, il generale De Gaulle ha barattato l'abbandono della sventurata Polonia nelle grinfie del moloch con la garanzia della pace sociale e politica data da Maurice Thorez di ritorno a Parigi.

Questa cecità è stata alimentata, e quasi legittimata, dalla convinzione dei comunisti occidentali e di molti uomini di sinistra che quei paesi stessero «costruendo il socialismo», che quell'utopia che nelle democrazie nutriva i conflitti sociali e politici «laggiù» stesse diventando una realtà, di cui Simone Weil ha sottolineato il prestigio: «Gli operai rivoluzionari sono felicissimi di avere dietro di loro uno Stato: uno Stato che dà alle loro azioni quel carattere ufficiale, quella legittimità, quella realtà, che solo lo Stato conferisce, e che al tempo stesso è situato troppo lontano (geograficamente parlando) per poterli disgustare». All'epoca il comunismo mostrava la sua faccia luminosa: si richiamava all'Illuminismo, a una tradizione di emancipazione sociale e umana, al sogno dell'«uguaglianza reale» e della «felicità per tutti» inaugurata da Gracchus Babeuf. E la faccia luminosa occultava quasi totalmente quella oscura.

All'ignoranza, voluta o meno, della dimensione criminale del comunismo si è aggiunta, come sempre, l'indifferenza dei contemporanei per i loro fratelli. Non che l'uomo abbia il cuore arido. Anzi, in molte situazioni limite sfodera risorse insospettate di solidarietà, amicizia, affetto e persino amore. Ma, come sottolinea Tzvetan Todorov, «la memoria dei nostri lutti ci impedisce di cogliere la sofferenza altrui». E, alla fine delle due guerre mondiali, quale popolo europeo o asiatico non era occupato a curarsi le ferite di innumerevoli lutti? Le difficoltà stesse incontrate in Francia nell'affrontare la storia degli anni bui sono sufficientemente eloquenti. La storia, o piuttosto la non storia, dell'occupazione continua, infatti, a tormentare la coscienza francese. Lo stesso accade, anche se in misura minore, per la storia del periodo nazista in Germania, fascista in Italia, franchista in Spagna, per la guerra civile in Grecia eccetera. In questo secolo di ferro e fuoco sono stati tutti troppo presi dalle proprie disgrazie per compatire quelle altrui.

L'occultamento della dimensione criminale del comunismo rimanda, tuttavia, a tre ragioni più specifiche. La prima riguarda l'attaccamento all'idea stessa di rivoluzione. Il superamento dell'idea di rivoluzione quale era stata concepita nel diciannovesimo e nel ventesimo secolo è ancora lungi dall'essere concluso. I suoi simboli - bandiera rossa, Internazionale, pugno chiuso - risorgono ogni volta che compare un movimento sociale di una certa portata. Che Guevara ritorna di moda. Diversi

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gruppi apertamente rivoluzionari continuano a essere attivi e a operare nella piena legalità, trattando con disprezzo la minima riflessione critica sui crimini dei loro predecessori e non esitando a riesumare i vecchi discorsi giustificatori di Lenin, Trotsky o Mao. Tale passione rivoluzionaria non è stata solo degli altri. Diversi autori di questo libro hanno, infatti, creduto alla propaganda comunista, un tempo.

La seconda ragione riguarda la partecipazione dei sovietici alla vittoria sul nazismo, che ha permesso ai comunisti di mascherare dietro un ardente patriottismo i loro fini ultimi, che miravano alla presa del potere. Dal giugno 1941 i comunisti di tutti i paesi occupati sono entrati in una resistenza attiva, e spesso armata, all'occupante nazista e italiano. Come i combattenti di altre fedi, hanno pagato il prezzo della repressione con migliaia di uomini fucilati, massacrati, deportati. E si sono serviti di questi martiri per rendere sacra la causa comunista e impedire qualsiasi critica nei suoi confronti. Inoltre, durante la Resistenza molti non comunisti hanno stretto legami di solidarietà, lotta, parentela con comunisti, il che ha impedito a molti occhi di aprirsi. In Francia l'atteggiamento dei gaullisti è stato spesso dettato da questa memoria comune e incoraggiato dalla politica del generale De Gaulle, che usava l'Unione Sovietica come contrappeso agli Stati Uniti.

La partecipazione dei comunisti alla guerra e alla vittoria sul nazismo ha fatto definitivamente trionfare la nozione di antifascismo come riprova della verità a sinistra e, naturalmente, i comunisti si sono posti come i migliori rappresentanti e i migliori paladini dell'antifascismo. Quest'ultimo è diventato per il comunismo un'etichetta definitiva, in nome della quale è stato facile mettere a tacere i dissenzienti. Francois Furet ha scritto su questo punto cruciale pagine illuminanti. Dato che il nazismo sconfitto era stato bollato dagli Alleati come il Male assoluto, il comunismo è passato quasi automaticamente nel campo del Bene. Ciò risultò evidente durante il processo di Norimberga, in cui i sovietici figuravano fra i pubblici ministeri. Gli episodi imbarazzanti dal punto di vista dei valori democratici, come i patti germano-sovietici del 1939 o il massacro di Katyn', vennero quindi prontamente insabbiati. La vittoria sul nazismo fu considerata la prova della superiorità del sistema comunista. E soprattutto, nell'Europa liberata dagli angloamericani, ebbe l'effetto di suscitare un senso di gratitudine nei confronti dell'Armata rossa (di cui non si era dovuta subire l'occupazione) e un senso di colpa di fronte ai sacrifici sopportati dai popoli dell'Unione Sovietica, sentimenti che la propaganda comunista sfruttò debitamente a proprio favore.

Parallelamente, le modalità della liberazione dell'Europa dell'Est da parte dell'Armata rossa rimasero largamente ignote all'Occidente, dove gli storici fecero propri due tipi di liberazione molto diversi fra loro: uno conduceva alla restaurazione delle democrazie, l'altro apriva la strada all'instaurazione delle dittature. Nell'Europa centrale e orientale il sistema sovietico aspirava a succedere al Reich millenario e Witold Gombrowicz espresse in poche parole il dramma di questi popoli:

"La fine della guerra non ha apportato la libertà ai polacchi. In questa triste Europa centrale, ha significato soltanto lo scambio di una notte con un'altra, dei carnefici di Hitler con quelli di Stalin. Nel momento in cui nei caffè parigini le anime nobili salutavano con un canto radioso «l'emancipazione del popolo polacco dal giogo feudale», in Polonia la stessa sigaretta accesa passava semplicemente di mano e continuava a bruciare la pelle umana".

Qui sta il punto di frattura fra due memorie europee. Eppure, fin dai primi tempi, alcune opere hanno rivelato il modo in cui l'URSS ha liberato dal nazismo polacchi, tedeschi, cechi e slovacchi. L'ultima ragione dell'occultamento è più sottile e più delicata da esprimere. Dopo il 1945 il genocidio degli ebrei è apparso come il paradigma della barbarie moderna, fino a monopolizzare lo spazio riservato alla percezione del terrore di massa nel ventesimo secolo. Dopo avere negato in un primo tempo la specificità della persecuzione degli ebrei da parte dei nazisti, i comunisti hanno

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capito quanto un simile riconoscimento da parte loro potesse servire a riattivare l'antifascismo. Da allora, a qualsiasi proposito e spesso anche a sproposito, non si è mai più smesso di agitare lo spettro della «bestia immonda, il cui ventre è sempre fecondo», secondo il famoso slogan di Bertolt Brecht. Più recentemente, il fatto di aver messo in evidenza la singolarità del genocidio degli ebrei, sottolineandone l'eccezionale atrocità, ha impedito di percepire altre realtà dello stesso tipo nel mondo comunista. E poi, come si poteva immaginare che coloro che con la loro vittoria avevano contribuito a distruggere un sistema genocida potessero a loro volta adottare quei metodi? La risposta più comune fu il rifiuto di ammettere un simile paradosso.

La prima grande svolta nel riconoscimento ufficiale dei crimini comunisti risale al 24 febbraio 1956. Quella sera Nikita Hruscov, primo segretario, sale sulla tribuna del ventesimo Congresso del Partito comunista dell'Unione Sovietica, il P.C.U.S. E' una seduta a porte chiuse, a cui assistono soltanto i delegati. In un silenzio assoluto, essi ascoltano attoniti il primo segretario del Partito distruggere sistematicamente l'immagine del «piccolo padre dei popoli», del «geniale Stalin», che per trent'anni era stato l'eroe del comunismo mondiale. Questo rapporto, noto in seguito come il «rapporto segreto», costituisce uno dei cambiamenti di rotta fondamentali del comunismo contemporaneo. Per la prima volta un dirigente comunista di altissimo rango ammetteva ufficialmente, benché a uso esclusivo dei comunisti, che il regime che era salito al potere nel 1917 aveva conosciuto una «deriva» criminale.

Le ragioni che spinsero Hruscov a infrangere uno dei principali tabù del regime sovietico sono molteplici. Il suo obiettivo principale era di imputare i crimini del comunismo unicamente a Stalin e, in questo modo, circoscrivere e rimuovere il male per salvare il regime. Nella sua decisione rientrava anche la volontà di attaccare il clan degli stalinisti, che si opponevano al suo potere in nome dei metodi del loro antico padrone. Fin dall'estate del 1957, infatti, essi vennero tutti destituiti dalle loro cariche. Ma, per la prima volta dal 1934, all'eliminazione politica non seguì un'eliminazione reale, e da questo semplice particolare si può dedurre come le motivazioni di Hruscov fossero più profonde. Lui, che per anni era stato il padrone incontrastato dell'Ucraina e a questo titolo aveva guidato e coperto stragi immani, sembrava stanco di tutto quel sangue. Nelle sue memorie, in cui indubbiamente intende fare bella figura, Hruscov ricorda i suoi stati d'animo: «Il Congresso finirà e verranno votate delle risoluzioni pro forma, ma cosa si farà poi? Rimarranno sulla nostra coscienza le centinaia di migliaia di persone che sono morte fucilate».

Tutt'a un tratto, apostrofa duramente i suoi compagni:

"Quali posizioni assumeremo nei confronti di tutti coloro che sono stati arrestati o eliminati? ... Ora sappiamo che la gente che ha sofferto durante le repressioni era innocente. Abbiamo prove inconfutabili che essi, lontani dall'essere nemici del popolo, erano invece uomini e donne onesti, devoti al Partito, alla rivoluzione, alla causa leninista e all'edificazione del socialismo e del comunismo in Unione Sovietica.... Penso che sia impossibile tacere ancora. Prima o poi la gente uscirà dalle prigioni e dai campi, tornerà nelle città; e una volta a casa, racconterà ai parenti, agli amici e ai compagni cos'è avvenuto.... Perciò abbiamo l'obbligo di fare una completa confessione ai delegati sulla condotta tenuta dalla dirigenza del Partito durante gli anni in questione.... Come potremmo fingere d'ignorare quel che avvenne? ... Sappiamo che ci fu un regime di repressione e leggi arbitrarie nel Partito e noi abbiamo il dovere di dire al Congresso quel che sappiamo.... Per chiunque abbia commesso un crimine, giunge sempre il momento in cui una confessione gli può assicurare l'indulgenza anche se non l'assoluzione".

In alcuni degli uomini che avevano preso parte attiva ai crimini perpetrati durante il regime di Stalin e che, perlopiù, dovevano la promozione all'eliminazione dei loro predecessori, si faceva strada un certo rimorso; un rimorso sicuramente indotto, interessato, un rimorso da politico, ma in ogni caso

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un rimorso. Bisognava pure che qualcuno fermasse il massacro; Hruscov ebbe questo coraggio, anche se, nel 1956, non esitò a mandare i carri armati sovietici a Budapest. Nel 1961, durante il Ventiduesimo Congresso del P.C.U.S., Hruscov ricordò non soltanto le vittime comuniste, ma tutte le vittime di Stalin e propose persino di erigere un monumento in loro memoria. Probabilmente aveva superato il limite invisibile al di là del quale si rimetteva in discussione il principio stesso del regime: il monopolio del potere assoluto riservato al Partito comunista. Il monumento non vide mai la luce. Nel 1962 il primo segretario autorizzò la pubblicazione di "Una giornata di Ivan Denisovic", di Aleksandr Solzenicyn. Il 24 ottobre 1964 venne brutalmente destituito da tutte le sue funzioni ma nemmeno lui fu liquidato e morì nell'anonimato nel 1971.

Tutti gli studiosi riconoscono l'importanza decisiva del «rapporto segreto», che impresse una svolta fondamentale alla traiettoria del comunismo del ventesimo secolo. Francois Furet, che era uscito dal Partito comunista francese nel 1954, scrive a questo proposito:

"Appena reso noto, il «rapporto segreto» del febbraio 1956 sconvolge improvvisamente lo statuto dell'idea comunista nel mondo. La voce che denuncia i crimini di Stalin non viene più dall'Occidente, ma da Mosca e dal sancta sanctorum di Mosca, il Cremlino. Non è più quella di un comunista messo al bando, ma del primo dei comunisti nel mondo, il capo del partito dell'Unione Sovietica. Non è più lambita dal sospetto che colpisce il discorso degli ex comunisti, ma è rivestita dell'autorità suprema che il sistema ha assegnato al suo capo.... L'enorme impatto del «rapporto segreto» nasce dal fatto di non avere contraddittori".

L'evento era tanto più paradossale in quanto, fin dall'origine, molti contemporanei avevano messo in guardia i bolscevichi contro i pericoli del loro modo di procedere. Fin dal 1917-1918, infatti, all'interno dello stesso movimento socialista si erano scontrati coloro che credevano nella «grande luce dell'Est» e coloro che criticavano implacabilmente i bolscevichi. La disputa verteva essenzialmente sul metodo di Lenin: violenza, crimini e terrore. Mentre dagli anni Venti agli anni Cinquanta il lato oscuro dell'esperienza bolscevica è stato denunciato da molti testimoni, vittime e osservatori qualificati, in numerosi libri e articoli, bisognerà aspettare che gli stessi comunisti al potere riconoscano, sia pur limitatamente, questa realtà perché una porzione sempre più estesa dell'opinione pubblica cominci a prendere coscienza del dramma. Un riconoscimento parziale, poiché il «rapporto segreto» affrontava soltanto la questione delle vittime comuniste; ma un riconoscimento comunque, che costituiva una prima conferma delle testimonianze e degli studi precedenti e rafforzava un sospetto diffuso da tempo: il comunismo aveva provocato in Russia un'immensa tragedia.

I dirigenti di molti «partiti fratelli» non furono immediatamente convinti che bisognasse imboccare la via delle rivelazioni. Di fronte al precursore Hruscov passarono persino per retrogradi: si dovette attendere il 1979 perché il Partito comunista cinese distinguesse nella politica di Mao «grandi meriti», fino al 1957, e «grandi errori» successivamente. I vietnamiti affrontano la questione solo attraverso la condanna del genocidio perpetrato da Pol Pot. Fidel Castro, invece, nega le atrocità commesse sotto la sua egida.

Fino a quel momento la denuncia dei crimini comunisti era venuta soltanto dai loro nemici o dai dissidenti trotzkisti o anarchici; e non era stata particolarmente efficace. I superstiti dei massacri comunisti ebbero la stessa fortissima volontà di testimonianza dei superstiti dei massacri nazisti, ma vennero ascoltati poco o niente, soprattutto in Francia, dove l'esperienza concreta del sistema dei campi di concentramento sovietici toccò direttamente soltanto piccoli gruppi, come i «Malgré-nous» dell'Alsazia-Lorena. Perlopiù, le testimonianze, i flash della memoria, i lavori delle commissioni indipendenti create per iniziativa di pochi individui - quali la Commissione internazionale sul regime dei campi di concentramento di David Rousset, o la Commissione per la

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verità sui crimini di Stalin - sono stati coperti dalla grancassa della propaganda comunista, accompagnata da un silenzio vile o indifferente. Questo silenzio, che succede generalmente a qualche momento di sensibilizzazione dovuto alla comparsa di un'opera - "Arcipelago Gulag" di Solzenicyn - o di una testimonianza più inconfutabile delle altre - "I racconti di Kolyma" di Varlam Scialamov o "L'utopie meurtrière" di Pin Yathay -, è la manifestazione della resistenza di porzioni più o meno estese delle società occidentali di fronte al fenomeno comunista. Esse si sono finora rifiutate di guardare in faccia la realtà, di ammettere, cioè, che il sistema comunista, pur in diversa misura, comporta una dimensione fondamentalmente criminale. E con tale rifiuto partecipano della menzogna, nel senso in cui la intende Nietzsche: «Rifiutare di vedere qualcosa che si vede, rifiutare di vedere qualcosa come lo si vede».

Nonostante tutte queste difficoltà ad affrontare la questione, molti studiosi si sono cimentati nell'impresa. Dagli anni Venti agli anni Cinquanta, in mancanza di dati più attendibili, accuratamente occultati dal regime sovietico, la ricerca si è basata essenzialmente sulle testimonianze dei transfughi. Suscettibili di essere nutrite dalla vendetta e dalla denigrazione sistematica, o di essere manipolate da un potere anticomunista, queste testimonianze - contestabili da parte degli storici, come qualsiasi testimonianza - venivano regolarmente screditate dagli incensatori del comunismo. Che cosa bisognava pensare, nel 1959, della descrizione del gulag da parte di un transfuga d'alto rango del K.G.B., così come veniva riportata in un libro di Paul Barton?. E che cosa pensare dello stesso Paul Barton, il cui vero nome era Jirì Veltrusky, anch'egli esiliato e organizzatore insieme ad altri dell'insurrezione antinazista di Praga nel 1945, costretto a fuggire dal suo paese nel 1948? Ora, il confronto con gli archivi ormai aperti dimostra che quell'informazione del 1959 era assolutamente attendibile.

Negli anni Settanta e Ottanta la grande opera di Solzenicyn "Arcipelago Gulag" provocò un vero e proprio shock nell'opinione pubblica. Si trattò probabilmente di uno shock letterario, dovuto alla genialità del cronista, più che della presa di coscienza generale dell'orribile sistema che egli descriveva. Eppure Solzenicyn faticò ad abbattere il muro della menzogna, lui che nel 1975 era stato paragonato da un giornalista di un grande quotidiano francese a Pierre Laval, Doriot e Déat «che accoglievano i nazisti come liberatori».

La sua testimonianza è stata, tuttavia, decisiva per una prima presa di coscienza, come lo furono quelle di Scialamov sulla Kolyma o quella di Pin Yathay sulla Cambogia. Più recentemente ancora, Vladimir Bukovskij, una delle principali figure della dissidenza sovietica all'epoca di Breznev, ha lanciato un nuovo grido di protesta richiedendo, nel libro "Jugement à Moscou", l'istituzione di un nuovo tribunale di Norimberga per giudicare le attività criminali del regime. Il saggio, in Occidente, è stato accolto con favore dalla critica, ma ha avuto uno scarso successo di pubblico. Contemporaneamente si assiste a una fioritura di opere che riabilitano Stalin.

Quale motivazione, sul finire di questo ventesimo secolo, può spingere all'esplorazione di un campo così tragico, così cupo, così polemico? Oggi gli archivi non soltanto confermano queste testimonianze puntuali, ma permettono di andare molto più in là. Gli archivi interni del sistema di repressione dell'ex Unione Sovietica, delle ex democrazie popolari e della Cambogia mettono in luce una realtà terribile: il carattere massiccio e sistematico del terrore che, in molti casi, è sfociato nel crimine contro l'umanità. E' giunto il momento di affrontare in modo scientifico, documentato con fatti inconfutabili e libero da implicazioni politico-ideologiche, il problema ricorrente che tutti gli osservatori si sono posti: che ruolo ha il crimine nel sistema comunista?

In questa prospettiva, quale può essere il nostro apporto scientifico? Il nostro intervento risponde in primo luogo a un dovere di storia. Per lo storico nessun tema è tabù e le implicazioni e pressioni di qualunque tipo - politiche, ideologiche, personali - non devono impedirgli di seguire la strada della

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conoscenza, dell'esumazione e dell'interpretazione dei fatti, soprattutto quando questi ultimi siano stati a lungo e volontariamente sepolti nel segreto degli archivi e delle coscienze. Ora, questa storia del terrore comunista costituisce una delle componenti principali di una storia europea che voglia esaurire completamente la grande questione del totalitarismo. Quest'ultimo ha conosciuto una versione hitleriana ma anche una versione leninista e stalinista, e non si può più accettare una storia incompleta, che ignori il versante comunista. Così come non si può più assumere la posizione di ripiegamento che consiste nel ridurre la storia del comunismo unicamente alla dimensione nazionale, sociale e culturale. Tanto più che questa partecipazione al fenomeno totalitario non si è limitata all'Europa e all'episodio sovietico, ma ha toccato anche la Cina maoista, la Corea del Nord e la Cambogia di Pol Pot. Ogni comunismo nazionale è stato tenuto legato con una sorta di cordone ombelicale alla matrice russa e sovietica, pur contribuendo a diffondere il movimento a livello mondiale. La storia che abbiamo di fronte è quella di un fenomeno che si è sviluppato in tutto il mondo e che riguarda tutta l'umanità.

Il secondo dovere al quale risponde quest'opera è un dovere di memoria. E' un obbligo morale onorare la memoria dei morti, soprattutto quando sono le vittime innocenti e anonime di un moloch dal potere assoluto che ha cercato di cancellarne persino il ricordo. Dopo la caduta del Muro di Berlino e il crollo del centro del potere comunista a Mosca, l'Europa, matrice delle esperienze tragiche del ventesimo secolo, sta ricomponendo una memoria comune; anche noi possiamo portare il nostro contributo. Gli autori di questo libro sono essi stessi latori di questa memoria: chi più vicino all'Europa centrale per vicende di vita personale, chi all'idea e alla pratica rivoluzionaria per via di un impegno politico contemporaneo al Sessantotto o più recente.

Questo doppio dovere, di memoria e di storia, si iscrive in ambiti molto diversi. In alcuni casi tocca paesi in cui il comunismo non ha praticamente mai avuto peso, né sulla società né sul potere: Gran Bretagna, Austria, Belgio eccetera. In altri, si manifesta in paesi in cui il comunismo è stato una potenza temuta - gli Stati Uniti dopo il 1946 - o temibile, anche se non è mai salito al potere: Francia, Italia, Spagna, Grecia, Portogallo. In altri casi ancora, si impone con forza in paesi in cui il comunismo ha perso il potere che aveva detenuto per diversi decenni: Europa dell'Est, Russia. Infine, vacilla pericolosamente laddove il comunismo è ancora al potere: Cina, Corea del Nord, Cuba, Laos e Vietnam.

L'atteggiamento dei contemporanei di fronte alla storia e alla memoria è diverso in ognuna di queste situazioni. Nei primi due casi essi si limitano a un processo relativamente semplice di conoscenza e di riflessione. Nel terzo caso si trovano di fronte alle necessità imposte dalla riconciliazione nazionale, con o senza punizione dei carnefici; a questo proposito, la Germania riunificata offre probabilmente l'esempio più sorprendente e «miracoloso»; si pensi al disastro iugoslavo. Ma anche la Cecoslovacchia, diventata Repubblica ceca e Slovacchia, la Polonia e la Cambogia conoscono bene le sofferenze della memoria e della storia del comunismo. Un certo grado di amnesia, spontanea o ufficiale, può sembrare indispensabile per curare le ferite morali, psichiche, affettive, personali e collettive provocate da più di mezzo secolo di comunismo. Laddove quest'ultimo è ancora oggi al potere, i carnefici o i loro eredi o organizzano una negazione sistematica, come a Cuba o in Cina, o addirittura continuano a rivendicare il terrore quale metodo di governo, come nella Corea del Nord.

Questo dovere di storia e di memoria ha innegabilmente una portata morale. Qualcuno potrebbe, però, obiettarci: «Chi vi autorizza a definire il Bene e il Male?».

Secondo i criteri che le sono propri, esattamente a questo mirava la Chiesa cattolica quando papa Pio Undicesimo condannò con due encicliche distinte, pubblicate a pochi giorni di distanza l'una dall'altra: il nazismo, "Mit brennender Sorge" del 14 marzo 1937, e il comunismo, "Divini

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Redemptoris" del 19 marzo 1937. Quest'ultima affermava che Dio aveva dotato l'uomo di prerogative: «Il diritto alla vita, all'integrità del corpo, ai mezzi necessari all'esistenza; il diritto di tendere al suo fine ultimo nella via tracciata da Dio; il diritto d'associazione, di proprietà e il diritto di valersi di questa proprietà». E anche se si può denunciare una certa ipocrisia della Chiesa, che avallava l'arricchimento eccessivo di alcuni in virtù dell'espropriazione di altri, il suo appello al rispetto della dignità umana rimane comunque essenziale.

Già nel 1931, nell'enciclica "Quadragesimo anno", Pio Undicesimo aveva scritto:

"E' insito nell'insegnamento e nell'azione del comunismo un doppio obiettivo, che esso persegue non in segreto e per vie traverse, ma apertamente, alla luce del sole e con tutti i mezzi, anche i più violenti: una lotta di classe implacabile e la totale scomparsa della proprietà privata. Nel perseguire questo scopo, non c'è nulla che non osi, nulla che rispetti; laddove ha preso il potere, si dimostra selvaggio e disumano a un livello che si stenta a credere e che ha del prodigioso, come testimoniano i terribili massacri e le rovine che ha accumulato in immensi paesi dell'Europa orientale e dell'Asia".

L'ammonimento era particolarmente significativo, in quanto proveniva da un'istituzione che, per secoli e in nome della sua fede, aveva giustificato il massacro degli Infedeli, sviluppato l'Inquisizione, imbavagliato la libertà di pensiero e che avrebbe appoggiato regimi dittatoriali come quello di Franco o di Salazar. Tuttavia, se la Chiesa nel dire questo non faceva che tener fede al proprio ruolo di censore morale, quale deve, quale può essere il discorso dello storico di fronte al racconto eroico dei partigiani del comunismo o a quello patetico delle sue vittime? Nelle "Memorie d'oltretomba" Francois René de Chateaubriand scriveva:

"Quando, nel silenzio dell'abiezione, si sente rimbombare soltanto la catena dello schiavo e la voce del delatore; quando tutto trema di fronte al tiranno, e incorrere nel suo favore è altrettanto pericoloso che meritarne la disgrazia, appare lo storico, incaricato della vendetta dei popoli. Invano Nerone prospera, nell'impero è già nato Tacito".

Lungi da noi l'idea di farci sostenitori dell'enigmatica «vendetta dei popoli», alla quale nemmeno Chateaubriand credeva più alla fine della sua vita; ma, al suo modesto livello, lo storico diventa, quasi senza volerlo, il portavoce di coloro che, a causa del Terrore, si sono trovati nell'impossibilità di dire la verità sulla loro condizione. E' lì per fare opera di conoscenza: il suo primo dovere è stabilire fatti ed elementi di verità che diventeranno conoscenza. Inoltre, il suo rapporto con la storia del comunismo è particolare: è costretto a farsi storiografo della menzogna. E, anche se l'apertura degli archivi gli fornisce i materiali indispensabili, deve stare continuamente all'erta, dal momento che molte questioni complesse sono, per loro natura, oggetto di controversie spesso viziate da secondi fini. Tuttavia questa conoscenza storica non può prescindere da un giudizio che dipende da pochi valori fondamentali: il rispetto delle regole della democrazia rappresentativa e, soprattutto, il rispetto della vita e della dignità umana. E' questo il metro con cui lo storico giudica gli attori della storia.

A queste ragioni generali, che stanno alla base di un lavoro di memoria e di storia, si è aggiunta per alcuni una motivazione personale. Alcuni autori di questo libro non sono stati estranei in passato al fascino del comunismo. Talvolta sono stati anche parte attiva, al loro modesto livello, del sistema comunista, sia nella versione ortodossa leninista-stalinista, sia in quelle annesse e dissidenti (trotzkista, maoista). E se rimangono legati alla sinistra - e proprio in virtù di questo fatto -, sono costretti a riflettere sulle ragioni della loro cecità. Questa riflessione ha preso anche le vie della conoscenza, tracciate dalla scelta dei loro argomenti di studio, dalle loro pubblicazioni scientifiche e dalla loro collaborazione con diverse riviste: «La nouvelle alternative», «Communisme». Questo libro è un ulteriore momento della loro riflessione. Una riflessione che continua a impegnarli in

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quanto hanno coscienza del fatto che non bisogna lasciare a un'estrema destra, sempre più presente, il privilegio di dire la verità; i crimini del comunismo vanno analizzati e condannati in nome dei valori democratici, non degli ideali nazionalfascisti.

Questo approccio implica un lavoro comparativo, dalla Cina all'URSS, da Cuba al Vietnam. Per il momento non disponiamo di una documentazione omogenea. In alcuni casi, gli archivi sono aperti, o semiaperti, in altri no. Ma non ci è sembrata una ragione sufficiente per rimandare il lavoro; ne sappiamo abbastanza, e da fonte «sicura», per lanciarci in un'impresa che, pur non avendo alcuna pretesa di essere esauriente, si definisce pioniera e desidera inaugurare un grande cantiere di ricerca e di riflessione. Abbiamo dato avvio a una prima recensione di una quantità di fatti, a un primo approccio che, una volta concluso, meriterà di essere sviluppato in ben altre opere. Ma bisogna pur incominciare, puntando l'attenzione soltanto sui fatti più chiari, più inconfutabili, più gravi.

Questo libro contiene molte parole e poche immagini. E' questo uno dei punti critici dell'occultamento dei crimini del comunismo: in una società mondiale ipermediatica, in cui per l'opinione pubblica fa testo soltanto l'immagine, fotografica o televisiva, disponiamo di pochissime fotografie d'archivio sul gulag o il laogai, mentre sulla dekulakizzazione o la carestia del Grande balzo in avanti non ne abbiamo neanche una. I vincitori di Norimberga hanno potuto fotografare e filmare a piacimento le migliaia di cadaveri del campo di Bergen-Belsen e le fotografie scattate dai carnefici stessi, come quella del tedesco che spara a freddo su una donna con il figlio in braccio, sono state ritrovate. Per il mondo comunista, in cui il terrore era organizzato nel più rigoroso segreto, non esiste niente di simile.

Il lettore non si accontenti dei pochi documenti iconografici qui riuniti. Dedichi il tempo necessario a prendere coscienza, pagina dopo pagina, del calvario subito da milioni di uomini. Compia l'indispensabile sforzo mentale per rappresentarsi ciò che fu quest'immensa tragedia che continuerà a segnare la storia mondiale per i decenni a venire. Gli si porrà, allora, il quesito fondamentale: perché? perché Lenin, Trotsky, Stalin e gli altri hanno ritenuto necessario sterminare tutti coloro che definivano nemici? perché si sono creduti autorizzati a infrangere il codice non scritto che regola la vita dell'umanità: «Non uccidere»? Tenteremo di rispondere a questa domanda alla fine del libro.

1. PARADOSSI E MALINTESI DELL'OTTOBRE.

«Con la caduta del comunismo non esiste più la necessità di dimostrare il carattere "storicamente ineluttabile" della "Grande Rivoluzione socialista d'Ottobre". Il 1917 può finalmente diventare un "normale" oggetto storico. Purtroppo né gli storici né, soprattutto, la nostra società sono disposti a rinunciare al mito fondatore dell'anno zero, dell'anno che pare aver segnato il principio di ogni cosa: la fortuna o la disgrazia del popolo russo.»

Il commento che precede, di uno storico russo contemporaneo, è espressione di una costante: a ottant'anni dall'evento, prosegue la «battaglia per raccontare» il 1917.

Per una prima scuola storica, che potrebbe essere definita «liberale», la Rivoluzione d'Ottobre è stata nient'altro che un colpo di Stato imposto con la violenza a una società passiva, il risultato di un'abile congiura ordita da un pugno di fanatici, disciplinati e cinici, privi di qualsiasi radicamento reale nel paese. Oggi la vulgata liberale è stata fatta propria dalla quasi totalità degli storici russi, come pure dalle élite colte e dai dirigenti della Russia postcomunista. La rivoluzione dell'ottobre 1917, privata così di ogni spessore sociale e storico, viene riletta come un incidente che ha distolto la Russia prerivoluzionaria dal suo cammino naturale: una Russia ricca, laboriosa e ben avviata

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verso la democrazia. La rottura simbolica con la «mostruosa parentesi sovietica» (proclamata a gran voce, nonostante la continuità che perdura tra i vertici dirigenti, tutti usciti dalla nomenclatura comunista) offre un vantaggio notevolissimo, quello di liberare la società russa dal peso della colpa, da un pentimento che ha tanto pesato negli anni della perestrojka, segnati dalla dolorosa riscoperta dello stalinismo. Se il colpo di Stato bolscevico del 1917 è stato un incidente e nient'altro, il popolo russo in fondo può essere considerato una vittima innocente. In contrasto con questa interpretazione, la storiografia sovietica ha tentato di dimostrare che l'Ottobre 1917 fu lo sbocco logico, prevedibile, inevitabile, di un cammino di liberazione intrapreso dalle «masse» coscienti di aderire al bolscevismo. Nelle sue diverse reincarnazioni, questa corrente storiografica ha amalgamato la «battaglia per raccontare» il 19l7 alla questione della legittimità del regime sovietico. Se la Grande Rivoluzione socialista d'Ottobre è stata il compimento del senso della Storia, evento portatore di un messaggio di emancipazione rivolto al mondo intero, allora il sistema politico, le istituzioni, lo Stato che ne erano scaturiti rimanevano legittimi, nonostante e contro tutti gli errori che lo stalinismo avesse potuto commettere. Il crollo del regime sovietico ha avuto come naturale conseguenza la completa delegittimazione della Rivoluzione d'Ottobre e la scomparsa della vulgata marxisteggiante, la quale, per citare una celebre formula bolscevica, è stata rigettata «nelle pattumiere della Storia». Nondimeno, come la memoria della paura, la memoria di questa vulgata rimane viva, in Occidente quanto e forse più che nell'ex URSS.

Una terza corrente storiografica, che respinge tanto la vulgata liberale quanto quella marxisteggiante, ha cercato di «deideologizzare» la storia della Rivoluzione russa, di comprendere, secondo quanto ha scritto Marc Ferro, come «l'insurrezione dell'Ottobre 1917 abbia potuto essere un movimento di massa al quale tuttavia partecipò soltanto un piccolo numero di persone». Molti storici che rifiutano lo schema semplicista della storiografia liberale oggi dominante, fra i numerosi quesiti che sorgono a proposito del 1917 annoverano alcuni problemi cruciali. Quale ruolo hanno avuto la militarizzazione dell'economia e la brutalizzazione dei rapporti sociali seguite all'ingresso dell'impero russo nella prima guerra mondiale? E' emersa una violenza sociale specifica, destinata a seminare quella violenza politica che si è poi rivolta contro la società? Una rivoluzione che era popolare e di popolo, profondamente antiautoritaria e antistatale, come ha potuto portare al potere il gruppo politico più dittatoriale e statalista? Quale nesso si può stabilire tra la radicalizzazione, innegabile, avvenuta nella società russa durante il 1917 e il bolscevismo?

Con il distacco assicurato dal passare del tempo e grazie ai numerosi studi di una storiografia conflittuale, e quindi ricca di stimoli intellettuali, nella rivoluzione dell'ottobre 1917 ci sembrano momentaneamente convergere due movimenti: l'ascesa al potere politico, dovuta a una minuziosa preparazione insurrezionale, di un partito che si distingue da tutti gli altri attori della rivoluzione nel modo più radicale, per la prassi, l'organizzazione e l'ideologia; e una vasta rivoluzione sociale, multiforme e autonoma. Quest'ultima si manifesta con aspetti molto diversi: in primo luogo un immenso ceto ribelle di contadini poveri, un vasto movimento di fondo radicato in una lunga storia, segnata non solo dall'odio nei confronti del proprietario terriero, ma anche dalla profonda diffidenza contadina verso la città, verso il mondo esterno, verso ogni forma di ingerenza dello Stato. L'estate e l'autunno del 1917 appaiono così come il compimento, finalmente vittorioso, di un grande ciclo di sommosse cominciato nel 1902, con un primo momento culminante nel 1905-1907. Il 1917 è la tappa decisiva di una grande rivoluzione agraria, dello scontro fra contadini e latifondisti per l'assegnazione delle terre, l'attuazione tanto attesa della «ripartizione nera», cioè l'assegnazione di tutte le terre in funzione del numero di bocche da sfamare in ogni famiglia. Ma è anche una tappa importante nello scontro fra contadini e Stato, per il rifiuto opposto dalle campagne a ogni forma di tutela imposta dal potere residente nei centri urbani. In questo senso il 1917 non è altro che una fase in un ciclo di scontri destinato a culminare nel 1918-1922, e poi ancora negli anni 1929-1933, per concludersi con la totale disfatta del mondo rurale, troncato alle radici dalla collettivizzazione forzata delle terre.

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In parallelo alla rivoluzione contadina, per tutto il 1917 si assiste alla radicale disgregazione dell'esercito, costituito da circa 10 milioni di contadini, arruolati da oltre un triennio per combattere in una guerra di cui non comprendevano affatto il senso. Quasi tutti i generali lamentavano la mancanza di patriottismo dei soldati- contadini, ben poco integrati nella nazione sotto l'aspetto politico, e inseriti in un orizzonte civico rigorosamente limitato entro i confini della loro comunità rurale.

Un terzo movimento di fondo riguarda una minoranza sociale che, pur rappresentando a malapena il 3 per cento della popolazione attiva, agisce tuttavia politicamente e ha la massima concentrazione nelle grandi città: il mondo operaio. Da questo ambiente, in cui si condensano tutte le contraddizioni sociali della modernizzazione economica avviata da non più di una generazione, nasce un movimento di rivendicazione specificamente operaia, coagulato da parole d'ordine di autentico spirito rivoluzionario: il «controllo operaio», il «potere ai soviet».

Un quarto movimento si delinea infine con la rapida emancipazione delle nazionalità e dei popoli allogeni dell'ex impero zarista, i quali chiedono dapprima l'autonomia, poi l'indipendenza.

Ciascuno di questi movimenti ha una propria scansione temporale, una propria dinamica interna e aspirazioni specifiche, che è evidentemente impossibile ridurre agli slogan o all'azione politica dei bolscevichi. Nel corso del 1917 questi movimenti operano come altrettante «forze dissolutrici» che contribuiscono potentemente a distruggere le istituzioni tradizionali e, più in generale, tutte le forme di autorità. In un attimo breve ma decisivo - la fine dell'anno 1917 - l'azione dei bolscevichi, minoranza politica operante nel circostante vuoto istituzionale, procede nel senso delle aspirazioni della maggioranza, anche se gli uni e gli altri, a medio e lungo termine, hanno obiettivi differenti. Per un momento il colpo di Stato politico e la rivoluzione sociale convergono o, per essere più precisi, sommano le loro spinte, prima di divergere verso decenni di dittatura.

I movimenti sociali e nazionali che esplodono nell'autunno del 1917 si sono sviluppati grazie a una particolarissima congiuntura, che a una situazione di guerra totale, di per sé fonte di imbarbarimento e di regresso generalizzati, ha associato crisi economica, sconvolgimento dei rapporti sociali e bancarotta dello Stato.

La prima guerra mondiale è ben lontana dal dare nuovo impulso al regime zarista e dal rafforzare la coesione del corpo sociale, ancora tutt'altro che compiuta. Al contrario, agisce come formidabile rivelatore della fragilità di un regime autocratico già lacerato dalla rivoluzione del 1905-1906 e indebolito dalla scarsa coerenza delle mosse politiche, che alternano concessioni insufficienti a giri di vite in senso conservatore. La guerra accentua inoltre le debolezze dovute alla modernizzazione incompiuta, che rende l'economia dipendente dall'estero per l'afflusso regolare di capitali, specialisti e tecnologie. Con la guerra si riapre la profonda frattura fra una Russia urbana, industriale e di governo, e la Russia rurale, priva di integrazione politica e ancora in gran parte chiusa nelle sue strutture locali e comunitarie.

Come le altre parti in conflitto, il governo zarista aveva dato per scontato che la guerra sarebbe durata poco. La chiusura degli Stretti e il blocco economico della Russia rivelarono in modo brutale quanto l'impero fosse dipendente dai fornitori stranieri. La perdita delle province occidentali, invase fin dal 1915 dalle truppe tedesche e austro-ungariche, impedì alla Russia di accedere ai prodotti dell'industria polacca, una delle più evolute dell'impero. L'economia nazionale non resse a lungo. Già nel 1915 il sistema dei trasporti ferroviari risultava dissestato dalla mancanza di pezzi di ricambio e, con la riconversione di quasi tutte le fabbriche ai fini dello sforzo bellico, il mercato interno andò in pezzi. Dopo pochi mesi, nelle retrovie vennero a mancare i prodotti manifatturieri e il paese fu travolto dall'inflazione. Nelle campagne la situazione precipitò: la drastica cessazione del

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credito agricolo e il blocco della ricomposizione fondiaria, la mobilitazione in massa degli uomini, le requisizioni di bestiame e cereali, la penuria di beni manifatturieri, l'interruzione dei circuiti di scambio tra città e campagne troncarono da un momento all'altro il processo di ammodernamento delle imprese rurali, che era stato avviato con successo nel 1906 dal primo ministro Stolypin, assassinato nel 1910. Tre anni di guerra avevano confermato l'idea che i contadini si facevano dello Stato: una forza ostile ed estranea. Le vessazioni quotidiane, in un esercito dove il soldato era trattato più da schiavo che da cittadino, esacerbarono le tensioni fra i soldati semplici e gli ufficiali, mentre le sconfitte minavano il prestigio superstite di un regime imperiale troppo remoto. Ne usciva rafforzato il vecchio substrato di arcaismo e di violenza, sempre presente nelle campagne, e che si era manifestato con forza nelle immense jacquerie degli anni tra il 1902 e il 1906.

Alla fine del 1915 il potere non era più in grado di controllare la situazione. Di fronte alla passività del regime si andarono organizzando da ogni parte associazioni e comitati decisi ad assumersi l'amministrazione del quotidiano, che lo Stato non pareva più in grado di assicurare: la cura dei feriti, il vettovagliamento delle città e delle truppe. I russi cominciarono a governarsi da soli: si era avviato un grande movimento, nato dalle viscere della società, che nessuno ancora era in grado di valutare. Ma perché un tale movimento potesse sconfiggere le forze dissolutrici che erano anch'esse all'opera, il potere avrebbe dovuto incoraggiarlo, porgergli una mano amica.

Al contrario, invece di gettare un ponte fra il potere e gli elementi più progrediti della società civile, Nicola Secondo si aggrappò all'utopia monarchico-populista del «piccolo padre zar che comanda l'armata del suo bravo popolo contadino»: assunse di persona il comando supremo delle truppe, iniziativa che nel pieno della disfatta nazionale era per l'autocrazia un suicidio. In realtà dall'autunno del 1915 Nicola Secondo, isolato sul treno speciale stazionante nel quartier generale di Mogilev, aveva cessato di dirigere il paese, lasciando mano libera alla consorte, l'imperatrice Alessandra, assai impopolare a causa della sua origine tedesca.

Nel corso del 1916 il potere sembrò dissolversi: la Duma imperiale, unica assemblea elettiva, per quanto dotata di scarsa rappresentatività, si riuniva soltanto poche settimane all'anno; governi e ministri si succedevano, tutti altrettanto incompetenti e impopolari. La voce pubblica accusava la potente cricca capeggiata dall'imperatrice e da Rasputin del deliberato proposito di spalancare le porte della nazione all'invasione nemica. Era ormai palese che l'autocrazia non era più in grado di condurre la guerra; alla fine del 1916 il paese era diventato ingovernabile. Ricominciarono gli scioperi, che dopo lo scoppio del conflitto erano diminuiti a livelli insignificanti, in un clima di crisi politica di cui l'assassinio di Rasputin, avvenuto il 31 dicembre, fu l'indizio più vistoso. Le agitazioni si estesero alle truppe, il totale dissesto dei trasporti paralizzò l'intero sistema delle forniture alimentari. Le giornate del febbraio 1917 sorpresero un regime ormai screditato e indebolito. La caduta del regime zarista, travolto dopo cinque giorni di manifestazioni operaie e dopo l'ammutinamento di alcune migliaia di uomini nella guarnigione di Pietrogrado, rivelò non soltanto la debolezza dello zarismo e lo stato di decomposizione dell'esercito (cui lo Stato maggiore non osò ricorrere per soffocare la sommossa popolare), ma anche l'impreparazione politica di tutte le forze di opposizione, frammentate da divisioni profonde, dai liberali del Partito costituzionaldemocratico fino ai socialdemocratici.

Le forze politiche di opposizione non furono mai alla guida degli avvenimenti, in nessuna fase di questa rivoluzione popolare spontanea, cominciata nelle strade e conclusa nelle stanze felpate del palazzo di Tauride, sede della Duma: i liberali avevano paura della piazza e i partiti socialisti temevano a loro volta la repressione militare. Cominciarono i negoziati (che, dopo lunghe trattative, sarebbero sfociati nell'inedita formula di un potere bicipite) tra i liberali, preoccupati per l'estensione dei disordini, e i socialisti, secondo i quali era evidentemente scoccata l'ora della rivoluzione «borghese», prima tappa di un lungo processo che col tempo avrebbe potuto aprire la

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strada a una rivoluzione socialista. Da un lato c'era il governo provvisorio, un potere preoccupato dell'ordine, che seguiva la logica del parlamentarismo e aveva l'obiettivo di una Russia capitalista, moderna e liberale, decisamente ancorata agli alleati francesi e britannici. Dall'altro il potere del Soviet di Pietrogrado, appena costituito da un pugno di militanti socialisti, il quale, nel solco della grande tradizione del Soviet di Pietroburgo del 1905, pretendeva di rappresentare le «masse» in modo più diretto, più rivoluzionario. Ma questo «potere dei soviet» era a sua volta una realtà mobile e cangiante, a seconda dell'evoluzione delle sue strutture decentrate ed embrionali, e più ancora dei cambiamenti che intervenivano in una opinione pubblica assai volubile.

I tre governi provvisori che si susseguirono dal 2 marzo al 25 ottobre 1917 si dimostrarono incapaci di risolvere i problemi ereditati dal vecchio regime: crisi economica, proseguimento della guerra, questione operaia, problema agrario. Gli uomini nuovi saliti al potere (sia i liberali del Partito costituzionaldemocratico, in maggioranza nei primi due governi, sia i socialisti rivoluzionari, in maggioranza nel terzo) appartenevano tutti all'élite urbana colta, agli elementi progrediti della società civile, divisi tra una fiducia ingenua e cieca nel «popolo» e la paura delle «masse oscure» da cui erano circondati, e che peraltro conoscevano pochissimo. Almeno nei primi mesi di una rivoluzione che aveva impressionato per il suo aspetto pacifico, la maggioranza di costoro riteneva giusto lasciare libero corso all'ondata democratica scatenata dalla crisi e poi dalla caduta del vecchio regime. Il sogno di alcuni idealisti come il principe L'vov, capo dei primi due governi provvisori, era di trasformare la Russia nel «paese più libero del mondo».

In una delle sue prime dichiarazioni pubbliche L'vov affermava: «Lo spirito del popolo russo ha rivelato la sua natura universalmente democratica, e appare pronto non soltanto a fondersi nella democrazia universale, ma a mettersi alla guida di essa, lungo il cammino del progresso segnato dai grandi principi della Rivoluzione francese: Libertà, Uguaglianza, Fraternità».

Il governo provvisorio, forte di tali convinzioni, moltiplicò i provvedimenti democratici - promulgazione delle libertà fondamentali, suffragio universale, soppressione di tutte le discriminazioni fondate su casta, razza o religione, riconoscimento a Polonia e Finlandia del diritto all'autodeterminazione, promessa di autonomia alle minoranze nazionali eccetera - che avrebbero dovuto, nelle sue intenzioni, suscitare un moto di patriottismo in vasti strati della popolazione, consolidare la coesione sociale, assicurare la vittoria militare al fianco degli Alleati e ancorare saldamente il nuovo regime alle democrazie occidentali. Tuttavia, per scrupolo di legalità, il governo si rifiutò, nonostante la situazione di guerra, di prendere una serie di importanti provvedimenti destinati a pregiudicare il futuro, prima della convocazione di un'assemblea costituente, che sarebbe stata eletta nell'autunno del 1917. Si sarebbe detto che il governo tenesse a rimanere «provvisorio» per deliberato proposito, lasciando in sospeso i problemi più scottanti: la pace e la terra. Quanto alla crisi economica dovuta al proseguire del conflitto, il governo provvisorio, così come il vecchio regime, non riuscì a risolverla nell'arco della sua breve vita, di pochi mesi soltanto: le tensioni sociali non potevano non essere esacerbate da problemi come le difficoltà di vettovagliamento, la scarsità di prodotti, l'inflazione, l'interruzione dei circuiti di scambio, la chiusura delle imprese, l'esplosione della disoccupazione.

Mentre il governo rimaneva in una posizione di attesa, la società continuò a organizzarsi in maniera autonoma. Nel giro di poche settimane si erano formati a migliaia i soviet, i comitati di fabbrica e di quartiere, gruppi di milizie operaie armate (le «Guardie rosse»), comitati di contadini, di soldati, di cosacchi, di massaie: tutti luoghi di discussione, di iniziativa, di confronto, in cui si esprimevano rivendicazioni, si manifestava l'opinione pubblica, si cercava un modo diverso di fare politica. Il "mitingovanie" (una situazione di assemblea o comizio permanente), pur essendo agli antipodi della democrazia parlamentare sognata dai politici del nuovo regime, era una vera e propria festa di liberazione, che con il passare dei giorni divenne più violenta, in quanto la Rivoluzione di Febbraio

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aveva liberato risentimenti e frustrazioni sociali da tempo accumulati. Nel corso del 1917 le rivendicazioni e i fermenti sociali mostrarono un'innegabile e progressiva radicalizzazione.

Gli operai passarono dalle rivendicazioni economiche - le otto ore lavorative, la soppressione delle ammende e di altre misure vessatorie, la previdenza sociale, gli aumenti salariali - a richieste di carattere politico, che implicavano una profonda trasformazione dei rapporti sociali fra padroni e salariati, instaurando una forma di potere diversa. Gli operai, organizzati nei comitati di fabbrica, che avevano il fine primario di controllare assunzioni e licenziamenti e impedire ai padroni chiusure abusive delle aziende con il pretesto di interruzioni nelle forniture, arrivarono a esigere il «controllo operaio» sulla produzione. Ma perché potesse attuarsi il controllo operaio, occorreva una forma di governo del tutto nuova, il «potere dei soviet», il solo in grado di adottare provvedimenti radicali, in particolare il sequestro e la nazionalizzazione delle imprese, rivendicazione ancora sconosciuta nella primavera del 1917, ma che sei mesi più tardi era proposta con sempre maggior frequenza.

Il ruolo dei soldati-contadini, una massa di 10 milioni di coscritti, fu decisivo nell'andamento delle rivoluzioni del 1917. Il rapido sfaldamento dell'esercito russo, contagiato dalle diserzioni e dal pacifismo, ebbe una parte trainante nella generale bancarotta delle istituzioni. I comitati di soldati, autorizzati dal primo testo legislativo approvato dal governo provvisorio (il famoso Decreto numero 1, vera e propria «carta dei diritti del soldato», che aboliva le più vessatorie norme disciplinari del vecchio regime), non cessarono di esorbitare dalle loro prerogative, arrivando a ricusare singoli ufficiali, a «eleggerne» di nuovi, a ingerirsi nella strategia militare, inaugurando un genere inedito di «potere dei soldati». Quest'ultimo fu all'origine di un peculiare «bolscevismo di trincea», descritto nel modo seguente dal generale Brusilov, comandante in capo dell'esercito russo: «I soldati non avevano la minima idea del comunismo, del proletariato o della Costituzione. Volevano la pace, la terra, la libertà di vivere senza leggi, senza ufficiali, senza proprietari terrieri. Il loro "bolscevismo" in realtà non era che una formidabile aspirazione alla libertà senza remore, all'anarchia». Nel giugno del 1917, fallita l'ultima offensiva delle forze armate russe, l'esercito si sfaldò: centinaia di ufficiali, sospettati di essere «controrivoluzionari», furono arrestati dai soldati e spesso massacrati. La percentuale di disertori salì alle stelle, e fra luglio e agosto arrivò a varie decine di migliaia al giorno. Ben presto i soldati-contadini non ebbero più che un pensiero: tornare a casa, per essere sicuri di partecipare alla ripartizione delle terre e del bestiame appartenenti ai latifondisti. Dal giugno all'ottobre del 1917 oltre due milioni di soldati, stanchi di combattere o di starsene ad aspettare a pancia vuota nelle trincee o nelle guarnigioni, disertarono da un esercito ormai avviato alla dissoluzione. Il loro ritorno nei villaggi alimentò a sua volta i disordini nelle campagne.

Fino all'estate tali disordini erano rimasti abbastanza circoscritti, soprattutto rispetto a quanto era accaduto durante la rivoluzione del 1905-1906. Quando si diffuse la notizia dell'abdicazione dello zar si riunirono le assemblee contadine, com'era d'uso in occasione degli eventi importanti, le quali redassero delle petizioni che esponevano le lamentele e i desideri dei contadini. La prima rivendicazione era che la terra dovesse appartenere a chi la lavorava, che le terre lasciate incolte dai latifondisti fossero immediatamente ridistribuite e gli affitti colonici ribassati. A poco a poco i contadini si organizzarono, costituendo comitati agrari nell'ambito sia dei villaggi sia dei distretti, presieduti perlopiù da membri dell'intellighenzia rurale - insegnanti, popi, agronomi, ispettori sanitari - vicini agli ambienti socialisti rivoluzionari. Dopo il maggio-giugno del 1917 il movimento contadino si irrigidì. Per non farsi travolgere dall'impazienza della base, diversi comitati agrari cominciarono a impadronirsi degli attrezzi agricoli e del bestiame dei proprietari terrieri, prendendo possesso di boschi, pascoli e terreni incolti. La lotta ancestrale per la «ripartizione nera» delle terre fu combattuta a spese dei grandi latifondisti, ma anche dei «kulak», i contadini benestanti che grazie alle riforme di Stolypin avevano potuto lasciare la comunità rurale per stabilirsi su un lotto di terreno del quale era loro garantita la piena e integrale proprietà, esente da ogni servitù comunitaria.

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Già prima della rivoluzione dell'ottobre 1917 il kulak, spauracchio di tutti i discorsi bolscevichi in cui si stigmatizzava il «rapace contadino ricco», il «borghese rurale», l'«usuraio», il «kulak succhiasangue», era ormai l'ombra di se stesso: infatti era stato costretto a restituire alla comunità del villaggio la maggior parte del bestiame, delle macchine, delle terre, riversate nel fondo comune e ripartite secondo l'ancestrale principio egualitario del numero di «bocche da sfamare».

Durante l'estate si fecero sempre più violenti i disordini nelle campagne, fomentati dal ritorno ai villaggi di centinaia di migliaia di disertori armati. Dalla fine di agosto, delusi dalle promesse non mantenute dal governo, che continuava a rimandare la riforma agraria, i contadini andarono all'assalto delle proprietà feudali, che furono sistematicamente saccheggiate e incendiate, per scacciarne i maledetti latifondisti una volta per tutte. In Ucraina, nelle province centrali della Russia - Tambov, Penza, Voronez, Saratov, Orel, Tula, Rjazan' - migliaia di residenze signorili furono incendiate, centinaia di possidenti massacrati.

Di fronte alla vastità di una simile rivolta sociale le autorità di governo e i partiti politici - con la notevole eccezione dei bolscevichi, del cui atteggiamento riparleremo in seguito - oscillavano ancora fra gli sforzi per tenere il movimento più o meno sotto controllo e la tentazione del colpo di Stato militare. I menscevichi, che godevano di popolarità nell'ambiente operaio, e i socialisti rivoluzionari, radicati nel mondo rurale più di qualsiasi altra formazione politica, avevano accettato di entrare nel governo dal mese di maggio, ma, proprio a causa dell'ingresso di alcuni loro dirigenti in un governo preoccupato dell'ordine e della legalità, si dimostrarono incapaci di attuare le riforme da sempre auspicate: in particolare, per quanto riguarda i socialisti rivoluzionari, l'assegnazione delle terre ai contadini. I partiti socialisti moderati, divenuti gestori e custodi dello Stato «borghese», lasciarono il campo della contestazione ai bolscevichi, senza peraltro trarre vantaggio dal fatto di partecipare a un governo che di giorno in giorno andava sempre più perdendo il controllo della situazione nel paese.

Di fronte alla minaccia dell'anarchia, gli ambienti padronali, i proprietari terrieri, lo Stato maggiore e un certo numero di liberali delusi furono tentati dal ricorso a un colpo di mano militare, proposto dal generale Kornilov. La mossa risultò fallimentare per l'opposizione del governo provvisorio, guidato da Aleksandr Kerenskij. La vittoria del putsch avrebbe infatti distrutto il potere civile, che, per quanto debole, restava aggrappato alla gestione formale dei problemi del paese. L'insuccesso del colpo di Stato, tentato dal generale Kornilov il 24-27 agosto 1917, accelerò la crisi definitiva del governo provvisorio, ormai incapace di reggere anche una sola delle tradizionali leve del potere. Mentre al vertice i giochi di potere contrapponevano dirigenti civili e militari, aspiranti a una dittatura illusoria, venivano meno i pilastri su cui poggiava lo Stato (giustizia, amministrazione, forze armate), il diritto era schernito, l'autorità contestata in tutte le sue forme.

Il fatto indubbio che le masse urbane e rurali si fossero radicalizzate significava forse che erano anche bolscevizzate? E' più che legittimo dubitarne. Militanti operai e dirigenti bolscevichi non attribuivano lo stesso significato alle parole degli slogan universalmente accettati, come «controllo operaio» o «potere ai soviet». Nell'esercito il «bolscevismo di trincea» esprimeva in primo luogo l'aspirazione generale alla pace, condivisa dai combattenti di tutti i paesi, impegnati da tre anni nella guerra più totale e più cruenta. Quanto alla rivoluzione contadina, essa seguiva un cammino del tutto autonomo, molto più affine al programma socialista rivoluzionario, favorevole alla «ripartizione nera», che non a quello bolscevico, sostenitore della nazionalizzazione delle terre e dello sfruttamento agricolo realizzato in grandi complessi collettivi. Nelle campagne i bolscevichi erano conosciuti soltanto attraverso i racconti dei disertori, che si facevano latori di un bolscevismo confuso sintetizzato in due parole magiche: pace e terra. Non era affatto detto che tutti gli scontenti aderissero al Partito bolscevico: secondo calcoli controversi, ai primi di ottobre del 1917 quest'ultimo contava tra i 100 mila e i 200 mila iscritti. Tuttavia, nel vuoto istituzionale dell'autunno

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del 1917, in cui ogni autorità statale era scomparsa per cedere il posto a una miriade di comitati, soviet e altri gruppuscoli, bastava che un nucleo organizzato e deciso agisse con determinazione per essere subito in grado di esercitare un'autorità sproporzionata rispetto alla sua forza reale. Ed è appunto quel che fece il Partito bolscevico.

Dal momento della sua fondazione, nel 1903, questo partito si era distinto dalle altre correnti della socialdemocrazia, sia russa sia europea, per una strategia volontaristica di radicale rottura con l'ordine esistente e per la sua concezione del partito come organismo fortemente strutturato, disciplinato, elitario ed efficiente, avanguardia costituita da rivoluzionari di professione, agli antipodi del grande partito di coalizione, aperto a simpatizzanti di tendenze largamente diverse, quale era concepito dai menscevichi e in generale dai socialdemocratici europei.

La prima guerra mondiale accentuò ulteriormente la specificità del bolscevismo leninista. Lenin, sempre più isolato, respingendo ogni collaborazione con le altre correnti socialdemocratiche, espose la giustificazione teorica della sua posizione nel saggio "L'imperialismo, fase suprema del capitalismo", in cui spiegava come la rivoluzione fosse destinata a scoppiare non nel paese dove il capitalismo era più forte, bensì in uno Stato dall'economia poco sviluppata, come la Russia, purché in esso il movimento rivoluzionario fosse guidato da un'avanguardia disciplinata, pronta ad andare fino in fondo, ossia fino a instaurare la dittatura del proletariato e a trasformare la guerra imperialista in guerra civile.

In una lettera del 17 ottobre 1914, diretta a un dirigente bolscevico, Aleksandr Shljapnikov, Lenin scriveva:

"Nell'immediato il male minore sarebbe la disfatta dello zarismo nella guerra.... Tutta l'essenza del nostro lavoro (persistente, sistematico, forse di lunga durata) è di mirare a trasformare la guerra in guerra civile. Quando ciò si verificherà è un'altra questione, non è ancora chiaro. Noi dobbiamo lasciar maturare il momento e «costringerlo a maturare» sistematicamente... Non possiamo né «promettere» la guerra civile, né «decretarla», ma abbiamo il dovere di operare - per il tempo necessario - 'in quella direzione'."

La «guerra imperialista», per il fatto di rivelare le «contraddizioni fra gli imperialismi», rovesciava così i termini del dogma marxista, rendendo l'esplosione più probabile in Russia che in qualsiasi altro paese. Per tutta la guerra Lenin tornò sul concetto che i bolscevichi dovevano essere pronti a incoraggiare con ogni mezzo lo sviluppo di una guerra civile. Nel settembre del 1916 scriveva: «Chi riconosce la guerra delle classi deve riconoscere la guerra civile, che in ogni società classista rappresenta la continuazione, lo sviluppo e l'accentuazione naturali della guerra delle classi».

Dopo la vittoria della Rivoluzione di Febbraio, alla quale non aveva preso parte nessun dirigente bolscevico di qualche livello, in quanto tutti erano o in esilio o all'estero, Lenin, addirittura in contrasto con il parere della stragrande maggioranza dei dirigenti del Partito, predisse il fallimento della politica di conciliazione con il governo provvisorio cui mirava il Soviet di Pietrogrado, dominato da una maggioranza di socialisti rivoluzionari e di socialdemocratici, in una confusione di tendenze. Nelle quattro "Lettere da lontano", scritte a Zurigo dal 20 al 25 marzo 1917, Lenin esigeva l'immediata rottura fra il Soviet di Pietrogrado e il governo provvisorio, e l'attiva preparazione della fase successiva della rivoluzione, quella «proletaria». La contrapposizione fra il testo delle lettere e le posizioni politiche sostenute allora dai dirigenti bolscevichi di Pietrogrado era così netta che il quotidiano bolscevico «Pravda» non si azzardò a pubblicarne altre dopo l'uscita della prima. Secondo Lenin, la comparsa dei soviet indicava che la rivoluzione aveva già superato la «fase borghese». Senza indugiare oltre, tali organi rivoluzionari dovevano impadronirsi del potere

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con la forza e far cessare la guerra imperialista, anche se ciò avesse provocato lo scoppio di una guerra civile, ineludibile in ogni processo rivoluzionario.

Lenin continuò a difendere posizioni estreme anche dopo il rientro in Russia, avvenuto il 3 aprile 1917. Nelle celebri "Tesi di aprile" ribadiva la propria incondizionata ostilità alla repubblica parlamentare e al processo democratico. Le idee di Lenin, accolte con stupore e ostilità dalla maggioranza dei dirigenti bolscevichi pietrogradesi, fecero rapidi progressi, in particolare fra le nuove reclute del Partito, quelli che Stalin chiamava, con ragione, i "praktik" (i «pratici», in quanto contrapposti ai «teorici»). In pochi mesi gli elementi plebei, fra cui i soldati-contadini occupavano un posto chiave, soverchiarono la componente urbanizzata e intellettuale, formata da vecchie volpi delle lotte sociali istituzionalizzate. I militanti di origine popolare, con una scarsa formazione politica, erano portatori di una forte violenza, radicata nella cultura contadina ed esacerbata da tre anni di guerra, ed erano inoltre meno prigionieri del dogma marxista, che non conoscevano affatto. Da tipici rappresentanti di un bolscevismo plebeo, che ben presto avrebbe fortemente intriso di sé il bolscevismo teorico e intellettuale dei bolscevichi «doc», non si chiedevano affatto se la «tappa borghese» fosse o non fosse necessaria prima di «passare al socialismo». Erano partigiani dell'azione immediata, del colpo di mano, i più fervidi attivisti di un bolscevismo in cui i dibattiti teorici cedevano il posto all'unica questione ormai davvero all'ordine del giorno, ovvero la conquista del potere.

La via indicata da Lenin appariva ben stretta, fra una base plebea sempre più impaziente, pronta all'avventura (i marinai della base di Kronstadt, al largo di Pietrogrado, certe unità della guarnigione pietrogradese, la Guardia rossa dei quartieri operai di Vyborg), e i dirigenti ossessionati dal pensiero del fallimento di una insurrezione prematura, destinata a essere inevitabilmente soffocata. Per tutto il 1917, al contrario di ciò che molti credono, il Partito bolscevico rimase profondamente diviso, strattonato fra gli entusiasmi degli uni e le riluttanze degli altri. La famosa disciplina del Partito era assai più un atto di fede che una realtà. Ai primi di luglio del 1917 le spinte esplosive della base, impaziente di farla finita con le forze governative, rischiarono di travolgere il Partito bolscevico, dichiarato fuorilegge in seguito alle sanguinose manifestazioni pietrogradesi del 3-5 luglio: i suoi dirigenti furono arrestati oppure costretti all'esilio, e fra gli altri lo stesso Lenin.

Se alla fine dell'agosto del 1917 il Partito bolscevico poté riemergere, in una situazione che appariva propizia a conquistare il potere con una insurrezione armata, lo si dovette al fatto che il governo si era dimostrato impotente a risolvere i grandi problemi, che le istituzioni e le autorità tradizionali avevano fallito e che il putsch militare tentato dal generale Kornilov non era andato a buon fine.

Ancora una volta Lenin ebbe un ruolo decisivo come teorico e stratega della conquista del potere. Nelle settimane precedenti il colpo di Stato bolscevico del 25 ottobre 1917, egli mise in atto tutte le fasi di un golpe militare, che non poté né essere anticipato dall'imprevisto insorgere delle «masse» in ebollizione, né frenato dal «legalismo rivoluzionario» di dirigenti bolscevichi come Zinov'ev o Kamenev, i quali, scottati dall'amara esperienza delle giornate di luglio, avrebbero voluto prendere il potere con una maggioranza pluralista, insieme ai socialisti rivoluzionari e ai socialdemocratici di varie tendenze, che nei soviet erano numericamente prevalenti. Dall'esilio finlandese Lenin inviava senza posa al Comitato centrale del Partito bolscevico lettere e articoli che chiamavano all'insurrezione; scriveva per esempio: «Proponendo la pace immediata e dando la terra ai contadini i bolscevichi fonderanno un potere che nessuno rovescerà. Sarebbe vano aspettare la maggioranza formale dei bolscevichi. Nessuna rivoluzione aspetta questo. Se non prenderemo il potere adesso la Storia non ci perdonerà».

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Simili appelli lasciavano scettici quasi tutti i dirigenti bolscevichi. Perché affrettare le cose, quando di giorno in giorno la situazione si radicalizzava sempre più? Non era forse sufficiente conservare il contatto con le masse, incoraggiandone la violenza spontanea, lasciar agire le forze dissolutrici dei movimenti sociali, aspettare la convocazione del Secondo Congresso panrusso dei soviet, prevista per il 20 ottobre? I bolscevichi avevano tutte le probabilità di ottenere la maggioranza relativa in un'assemblea in cui i delegati dei soviet dei grandi centri operai e dei comitati di soldati erano rappresentati in misura largamente superiore rispetto ai soviet rurali, dove predominavano i socialisti rivoluzionari. Ma, secondo Lenin, se il passaggio di potere fosse avvenuto in seguito al voto del Congresso dei soviet, ne sarebbe scaturito un governo di coalizione, in cui i bolscevichi avrebbero dovuto condividere il potere con le altre formazioni socialiste. Lenin, che da mesi andava reclamando tutto il potere per i soli bolscevichi, voleva a ogni costo che questi ultimi se ne impadronissero da sé, con una insurrezione militare, "prima" che fosse convocato il Secondo Congresso panrusso dei soviet. Sapeva che gli altri partiti socialisti avrebbero condannato il colpo di Stato insurrezionale, e quindi non avrebbero avuto altra scelta che schierarsi all'opposizione, lasciando ai bolscevichi tutto il potere. Il 10 ottobre, rientrato a Pietrogrado per vie clandestine, Lenin riunì dodici dei ventuno membri del Comitato centrale del Partito bolscevico. Dopo dieci ore di discussione riuscì a convincere la maggioranza dei presenti a votare la decisione più importante che il Partito avesse mai preso: il principio di una insurrezione armata da scatenare al più presto. Tale decisione fu approvata con dieci voti contro due, quelli di Zinov'ev e Kamenev, risolutamente attaccati all'idea che prima della riunione del Secondo Congresso dei soviet non si dovessero prendere iniziative. Il 16 ottobre, malgrado l'opposizione dei socialisti moderati, Trotsky organizzò una struttura militare che in teoria era emanazione del Soviet pietrogradese, ma in effetti era costituita da un nucleo di bolscevichi, il Comitato militare rivoluzionario (Milrevkom) di Pietrogrado, incaricato di attuare la conquista del potere in base alla tecnica dell'insurrezione militare, agli antipodi rispetto a una insurrezione popolare spontanea e anarchica, che avrebbe potuto travolgere il Partito bolscevico.

Secondo gli auspici di Lenin, il numero di quanti parteciparono direttamente alla Grande Rivoluzione socialista d'Ottobre fu molto ristretto: poche migliaia fra soldati della guarnigione, marinai di Kronstadt e Guardie rosse riunite nel Milrevkom, poche centinaia di militanti bolscevichi dei comitati di fabbrica. I rari scontri e l'insignificante numero di vittime attestano la facilità di un colpo di Stato che era atteso, preparato con cura e perpetrato senza opposizione. Fatto significativo, il potere fu conquistato in nome del Milrevkom: in tal modo i dirigenti bolscevichi lo attribuirono in tutto e per tutto a un'entità alla quale nessuno aveva dato mandato, se non il Comitato centrale bolscevico, e che quindi non dipendeva in alcun modo dal Congresso dei soviet.

La strategia di Lenin si dimostrò giusta. Di fronte al fatto compiuto i socialisti moderati, dopo aver denunciato «la congiura militare organizzata alle spalle dei soviet», abbandonarono il Secondo Congresso. I bolscevichi, rimasti in gran numero accanto ai loro unici alleati, i membri del piccolo gruppo socialista rivoluzionario di sinistra, ottennero che il loro colpo di mano fosse ratificato dai deputati del congresso ancora presenti, i quali votarono un testo formulato da Lenin in cui si attribuiva «tutto il potere ai soviet».

Poche ore dopo, prima di sciogliersi, il congresso sancì la creazione del nuovo governo bolscevico, il Consiglio dei commissari del popolo, presieduto da Lenin, e approvò i decreti sulla pace e sulla terra, i primi atti compiuti dal nuovo regime.

Con grande rapidità si moltiplicarono dapprima i malintesi, poi i conflitti, fra il nuovo potere e le forze che con la loro azione erano state autonomamente in grado di dissolvere il vecchio ordinamento politico, economico e sociale. Il primo malinteso riguardò la rivoluzione agraria. I bolscevichi, che avevano sempre sostenuto la nazionalizzazione delle terre, trovandosi in un

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rapporto di forze sfavorevole, dovettero recuperare, «rubare» il programma socialista rivoluzionario, approvando la ridistribuzione delle terre ai contadini. La disposizione fondamentale del «decreto sulla terra» proclamava: «La proprietà privata della terra è abolita senza indennità, tutte le terre sono a disposizione dei comitati agrari locali per la ridistribuzione»; ma in realtà si limitava a legittimare gli atti compiuti da numerose comunità di villaggio dopo l'estate del 1917: la brutale espropriazione delle terre appartenenti ai grandi latifondisti e ai contadini benestanti, i kulak. I bolscevichi, costretti per il momento a «aderire» alla rivoluzione contadina autonoma, che aveva tanto facilitato la loro ascesa al potere, una decina d'anni dopo avrebbero ripreso il programma originario. Il malinteso del 1917 si sarebbe tragicamente risolto con la collettivizzazione forzata delle campagne, apogeo dello scontro fra il regime uscito dall'Ottobre 1917 e il ceto contadino.

Secondo malinteso: i rapporti tra il Partito bolscevico e tutte le istituzioni (comitati di fabbrica, sindacati, partiti socialisti, comitati di quartiere e, soprattutto, soviet) che avevano al tempo stesso contribuito a distruggere gli istituti tradizionali e lottato per affermare ed estendere le proprie prerogative. In poche settimane queste istituzioni furono spogliate del loro potere, subordinate al Partito bolscevico o eliminate. Con una sorta di gioco di prestigio, il «potere ai soviet», senza dubbio la parola d'ordine più popolare nella Russia dell'ottobre del 1917, si tramutò in potere del Partito bolscevico sui soviet. Quanto al «controllo operaio», altra rivendicazione della massima importanza avanzata da coloro in nome dei quali i bolscevichi pretendevano di agire (vale a dire i proletari pietrogradesi e quelli degli altri grandi centri industriali), fu ben presto scartato a favore del controllo dello Stato, spacciato per «operaio», sulle imprese e sui lavoratori. Nasceva la reciproca incomprensione fra il mondo operaio, assediato dalla disoccupazione, dal continuo decrescere del proprio potere d'acquisto e dalla fame, e uno Stato preoccupato dell'efficienza economica. Dopo il dicembre del 1917 il nuovo regime dovette affrontare un'ondata di rivendicazioni operaie e di scioperi. In poche settimane i bolscevichi avevano perduto una parte essenziale della fiducia di cui avevano goduto per tutto il 1917 fra i lavoratori.

Terzo malinteso: i rapporti del nuovo potere con le nazionalità dell'ex impero zarista. Il colpo di Stato bolscevico accelerò tendenze centrifughe che da principio i nuovi dirigenti parvero voler garantire. I bolscevichi, che riconoscevano ai popoli del vecchio impero l'uguaglianza e la sovranità, il diritto all'autodeterminazione, alla federazione, alla secessione, sembravano invitare i popoli allogeni a emanciparsi dalla tutela del potere centrale russo. Entro pochi mesi avevano proclamato l'indipendenza polacchi, finlandesi, baltici, ucraini, georgiani, armeni, azeri. I bolscevichi, sopraffatti, ben presto subordinarono il diritto dei popoli all'autodeterminazione alla necessità di conservare il grano ucraino, il petrolio e i minerali del Caucaso, insomma di assicurare gli interessi vitali del nuovo Stato, che almeno sul piano territoriale non tardò ad affermarsi come l'erede dell'ex impero assai più che del governo provvisorio.

La somma delle spinte rappresentate da rivoluzioni sociali e nazionali multiformi e da una pratica politica particolare, che escludeva ogni condivisione del potere, avrebbe ben presto condotto a uno scontro fra il nuovo potere e ampi settori della società, uno scontro che avrebbe prodotto violenza e terrore.

2. IL «BRACCIO ARMATO DELLA DITTATURA DEL PROLETARI ATO». Il nuovo potere ha l'aspetto di una costruzione complessa: una facciata, il «potere dei soviet», di cui il Comitato centrale esecutivo è il rappresentante formale; un governo legale, il Consiglio dei commissari del popolo, che si sforza di acquisire legittimità sia internazionale sia interna; un'organizzazione rivoluzionaria, struttura operativa centrale nel dispositivo per la conquista del potere, il Comitato militare rivoluzionario (Milrevkom) di Pietrogrado. Ecco come descriveva questo comitato Feliks Dzerzinskij, che fin da principio vi ebbe un ruolo decisivo: «Una struttura

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leggera, flessibile, operativa all'istante, senza giuridicismi pignoli. Nessuna restrizione all'agire, per colpire i nemici con il braccio armato della dittatura del proletariato».

Come funzionava, fin dai primi giorni del nuovo regime, il «braccio armato della dittatura del proletariato», secondo la metafora di Dzerzinskij, in seguito ripresa per indicare la polizia politica bolscevica, la Ceka? In modo semplice e sbrigativo. Il Milrevkom era formato da una sessantina di membri, dei quali quarantotto bolscevichi, per il resto socialisti rivoluzionari e anarchici; aveva un «presidente» ufficiale, un socialista rivoluzionario di sinistra, Lazimir, debitamente affiancato da quattro vicepresidenti bolscevichi, fra i quali Antonov-Ovseenko e Dzerzinskij. In realtà, i circa seimila ordini emessi dal Milrevkom pietrogradese durante i cinquantatré giorni della sua esistenza furono stilati (in genere a matita, scarabocchiati su pezzetti di carta) e firmati, con il titolo di «presidente» o di «segretario», da una ventina di persone.

La stessa «semplicità operativa» valeva per la diffusione delle direttive e l'esecuzione degli ordini. Il Milrevkom agiva tramite una rete di circa mille «commissari», nominati presso gli organismi più diversi: unità militari, soviet, comitati di quartiere, amministrazioni. Questi commissari, che rispondevano unicamente al Milrevkom, spesso prendevano provvedimenti senza l'avallo del governo né quello del Comitato centrale bolscevico. Dal 26 ottobre (8 novembre) [1], in assenza di tutti i grandi capi bolscevichi, occupati a formare il governo, oscuri «commissari» rimasti anonimi decisero di «consolidare la dittatura del proletariato» con i provvedimenti che seguono: divieto di diffondere opuscoli «controrivoluzionari», chiusura dei sette giornali più importanti della capitale, sia «borghesi» sia «socialisti moderati», controllo sulla radio e sul telegrafo, definizione di un progetto di requisizione degli appartamenti e delle automobili di proprietà privata. La chiusura dei giornali fu legalizzata due giorni dopo da un decreto del governo, confermato una settimana più tardi, non senza aspri dibattiti, dal Comitato esecutivo centrale dei soviet.

I dirigenti sovietici, poco sicuri della loro forza, in un primo tempo incoraggiarono quella che chiamavano la «spontaneità rivoluzionaria delle masse», secondo la tattica seguita con successo durante il 1917. Nel rispondere a una delegazione di rappresentanti di soviet rurali, venuti dalla provincia di Pskov per chiedere al Milrevkom quali misure prendere per «evitare l'anarchia», Dzerzinskij spiegò:

"Il compito attuale è infrangere il vecchio ordine. Noi bolscevichi non siamo abbastanza numerosi per realizzare tale storica missione. Occorre lasciar agire la spontaneità rivoluzionaria delle masse che lottano per emanciparsi. In un secondo tempo noi bolscevichi mostreremo alle masse la via da seguire. Attraverso il Milrevkom sono le masse che parlano, che agiscono contro il loro nemico di classe, contro i nemici del popolo. Noi serviamo soltanto a incanalare e a guidare l'odio e il desiderio legittimo di vendetta che gli oppressi nutrono contro gli oppressori".

Alcuni giorni prima, durante la riunione del Milrevkom del 29 ottobre (11 novembre), alcuni presenti, voci anonime, avevano parlato della necessità di lottare con maggiore energia contro i «nemici del popolo», formula destinata a riscuotere grande successo nei mesi, anni e decenni a venire, e che fu ripresa in un proclama del Milrevkom del 13 novembre (26 novembre): «Gli alti funzionari delle amministrazioni dello Stato, delle banche, del Tesoro, delle ferrovie, delle poste e telegrafi, sabotano i provvedimenti del governo bolscevico. D'ora in poi costoro sono dichiarati nemici del popolo. I loro nomi saranno pubblicati su tutti i giornali e gli elenchi dei nemici del popolo saranno esposti in tutti i luoghi pubblici». Pochi giorni dopo l'istituzione di queste liste di proscrizione, un nuovo proclama:

«Tutti gli individui sospetti di sabotaggio, speculazione, accaparramento potranno essere arrestati sul posto come nemici del popolo e associati alle carceri di Kronstadt». In pochi giorni il

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Milrevkom aveva introdotto due concetti particolarmente temibili: quello di «nemico del popolo» e quello di «sospetto».

Il 28 novembre (11 dicembre) il governo diede valore istituzionale al concetto di «nemico del popolo»; un decreto firmato da Lenin stabiliva che «i membri degli organi dirigenti del Partito costituzionaldemocratico, partito dei nemici del popolo, sono dichiarati fuorilegge, passibili di arresto immediato e di convocazione di fronte ai tribunali rivoluzionari». Tali tribunali erano stati istituiti di recente, con il «Decreto n. 1 sui tribunali», in base al quale si abolivano tutte le leggi «in contrasto con i decreti del governo operaio e contadino, come pure con i programmi politici dei Partiti socialdemocratico e socialista rivoluzionario». Mentre si attendeva la redazione del nuovo Codice penale, i giudici avevano carta bianca nel considerare la validità della legge esistente «in funzione dell'ordine e della legalità rivoluzionari», un concetto talmente vago da consentire ogni sorta di abuso. I tribunali del vecchio regime furono soppressi e sostituiti da tribunali popolari e tribunali rivoluzionari, competenti per tutti i reati e i crimini compiuti «contro lo Stato proletario», per il «sabotaggio», lo «spionaggio», gli «abusi di potere» e gli altri «crimini controrivoluzionari». Come riconosceva Kurskij, commissario del popolo per la Giustizia dal 1918 al 1928, i tribunali rivoluzionari non erano tribunali nel senso abituale, «borghese», del termine, bensì tribunali della dittatura del proletariato, organi della lotta contro la controrivoluzione, preoccupati di estirpare più che di giudicare.

Fra i tribunali rivoluzionari figurava un Tribunale rivoluzionario per le questioni della stampa, con l'incarico di giudicare i reati di stampa e di sospendere ogni pubblicazione che avesse «seminato il disordine negli animi divulgando di proposito notizie erronee».

Mentre comparivano categorie inedite (sospetti, nemici del popolo) e si mettevano in atto nuovi dispositivi giudiziari, il Comitato militare rivoluzionario pietrogradese continuava a organizzarsi. In una città in cui le riserve di farina non erano sufficienti ad assicurare neppure la razione quotidiana da fame (all'incirca 200 grammi di pane per ogni adulto), la questione del vettovagliamento appariva senza dubbio di primaria importanza.

Il 4 novembre (17 novembre) fu creata una Commissione per il vettovagliamento, che nel suo primo proclama stigmatizzava le «classi ricche che approfittano della miseria», affermando: «E' tempo di requisire ai ricchi il superfluo, e anzi, i beni in generale». L'11 novembre (24 novembre) la commissione decise l'invio immediato, nelle province cerealicole, di speciali distaccamenti, costituiti da soldati, marinai, operai e Guardie rosse, così da procurare i prodotti alimentari di prima necessità per Pietrogrado e per il fronte. Il provvedimento, varato da una commissione del Milrevkom pietrogradese, prefigurava la politica di requisizione che sarebbe stata condotta per tre anni dai distaccamenti dell'«esercito del vettovagliamento», ed era destinata a essere il fattore essenziale dello scontro fra nuovo potere e ceto contadino, scontro generatore di violenza e di terrore.

La Commissione militare d'inchiesta, creata il 10 novembre (23 novembre), aveva l'incarico di arrestare gli ufficiali «controrivoluzionari», denunciati perlopiù dai loro soldati, i membri dei partiti «borghesi», i funzionari sospettati di «sabotaggio». Ben presto essa prese a occuparsi delle questioni più disparate. Nel clima torbido di una città alla fame, dove reparti di Guardie rosse e di milizie improvvisate perquisivano, taglieggiavano, saccheggiavano in nome della Rivoluzione, ogni giorno, sulla base dell'incerto mandato a firma di qualche «commissario», centinaia di individui erano portati davanti alla commissione per i reati più vari: «saccheggio», «speculazione», «accaparramento di prodotti di prima necessità», ma anche «stato di ebbrezza» o «appartenenza a una classe ostile».

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Gli appelli dei bolscevichi a favore della spontaneità rivoluzionaria delle masse potevano rivelarsi un'arma a doppio taglio: si moltiplicarono i regolamenti di conti e le violenze, in particolare le rapine a mano armata e il saccheggio di negozi, soprattutto delle rivendite di alcolici, e delle cantine del Palazzo d'Inverno. Con il passare dei giorni il fenomeno divenne così vasto che, su proposta di Dzerzinskij, il Milrevkom decise di creare una Commissione di lotta contro l'ubriachezza e i disordini. Il 6 dicembre (19 dicembre) la commissione dichiarò lo stato d'assedio nella città di Pietrogrado, introducendo il coprifuoco per «metter fine a disordini e sommosse fomentati da loschi elementi che si mascherano da sedicenti rivoluzionari».

Più ancora che i disordini sporadici, in realtà il governo bolscevico temeva che si estendesse lo sciopero dei funzionari, cominciato all'indomani del colpo di Stato del 25 ottobre (7 novembre). Tale minaccia costituì il pretesto per creare, il 7 dicembre (20 dicembre), la «Vserossijskaja crezvyciajnaja komissija po bor'be s kontrrevoljuciej, spekuljaciej i sabotazem», ossia la Commissione straordinaria panrussa di lotta contro la controrivoluzione, la speculazione e il sabotaggio, destinata a entrare nella storia con l'acronimo Veceka, abbreviato in Ceka.

Pochi giorni prima di creare la Ceka, il governo aveva deciso, non senza qualche esitazione, di sciogliere il Milrevkom: una struttura operativa provvisoria, fondata alla vigilia dell'insurrezione per dirigere le operazioni sul campo, che aveva ormai assolto i compiti a essa assegnati; aveva reso possibile la conquista del potere e la difesa del nuovo regime fino a che quest'ultimo non avesse costituito un proprio apparato statale; a questo punto, tuttavia, per evitare confusione di poteri e sovrapposizione di competenze, doveva trasferire le proprie prerogative al governo legale, il Consiglio dei commissari del popolo.

Ma in un momento simile, che i dirigenti bolscevichi consideravano critico, come avrebbero potuto rinunciare al «braccio armato della dittatura del proletariato»? Durante la riunione del 6 dicembre il governo diede incarico al «compagno Dzerzinskij di fondare una commissione speciale che esaminerà i mezzi per lottare, con la massima energia rivoluzionaria, contro lo sciopero generale dei funzionari e determinerà i metodi per sopprimere il sabotaggio». La scelta del «compagno Dzerzinskij» non solo non suscitò discussioni, ma apparve ovvia. Pochi giorni prima Lenin, sempre alla ricerca di paralleli storici fra la Grande rivoluzione - quella francese - e la Rivoluzione russa del 1917, aveva confidato al segretario, V. Bonc-Bruevic, che era necessario trovare con urgenza «il nostro Fouquier-Tinville, che faccia fuori tutta la nostra canaglia controrivoluzionari». Il 6 dicembre, nella designazione di un «solido giacobino proletario», per riprendere un'altra formula di Lenin, la scelta unanime cadde su Feliks Dzerzinskij, che in poche settimane, per l'energica azione svolta nel Milrevkom, era diventato il massimo specialista nelle questioni di sicurezza. D'altra parte, come spiegò Lenin a Bonc- Bruevic, «fra tutti noi è Feliks quello che ha passato più tempo nelle galere zariste e ha provocato più spesso l'Ohranka [diminutivo con significato dispregiativo del termine russo «Ohrana», la polizia politica zarista]. Lui se ne intende!».

Prima della riunione di governo del 7 dicembre (20 dicembre), Lenin inviò un messaggio a Dzerzinskij:

"Riguardo al suo rapporto di oggi, non sarebbe possibile stilare un decreto con un preambolo di questo genere: la borghesia si accinge a commettere i delitti più abominevoli, reclutando la feccia della società per organizzare delle sommosse? I complici della borghesia, in particolare gli alti funzionari, i dirigenti bancari eccetera, fanno sabotaggio e organizzano scioperi per vanificare i provvedimenti del governo destinati ad attuare la trasformazione socialista della società. La borghesia non si tira indietro neppure di fronte al sabotaggio del vettovagliamento, che condanna alla carestia milioni di uomini. Occorrono provvedimenti eccezionali per lottare contro i sabotatori e i controrivoluzionari. Di conseguenza, il Consiglio dei commissari del popolo decreta..."

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. Nella serata del 7 dicembre Dzerzinskij presentò il progetto di legge al Consiglio dei commissari del popolo; nel suo intervento esordì parlando dei pericoli che minacciavano la rivoluzione sul «fronte interno»:

"Su questo fronte, il più pericoloso e il più crudele di tutti, dobbiamo inviare compagni determinati, duri, solidi, non soggetti all'emotività, pronti a sacrificarsi per la salvezza della Rivoluzione. Non crediate, compagni, che io cerchi una forma di giustizia rivoluzionaria. Qui si tratta di ben altro che di «giustizia»! Siamo in guerra, sul fronte più crudele, perché il nemico avanza mascherato, ed è una lotta all'ultimo sangue! Io propongo, io esigo la creazione di un organo che farà i conti con i controrivoluzionari in modo rivoluzionario, autenticamente bolscevico!".

Poi Dzerzinskij affrontò il nucleo centrale dell'intervento, che trascriviamo così come appare dal verbale della seduta:

"La Commissione ha il compito: 1. di sopprimere e liquidare ogni attentato e atto di controrivoluzione e sabotaggio, da qualunque parte provenga, su tutto il territorio della Russia; 2. di far comparire di fronte a un tribunale rivoluzionario tutti i sabotatori e i controrivoluzionari.

La Commissione si limita a una inchiesta preliminare, in quanto questa è indispensabile per attuare il suo compito.

La Commissione è divisa in dipartimenti: 1. Informazione; 2. Organizzazione; 3. Operazione.

La Commissione rivolgerà particolare attenzione alle questioni di stampa, di sabotaggio, ai cadetti [o K.D.: costituzionaldemocratici], agli S.R. [socialisti rivoluzionari] di destra, ai sabotatori e agli scioperanti.

Provvedimenti repressivi affidati alla Commissione: confisca dei beni, espulsione dal domicilio, privazione delle tessere annonarie, pubblicazione di elenchi dei nemici del popolo eccetera.

Risoluzione: approvare il progetto. Denominare la Commissione: Commissione straordinaria panrussa di lotta contro la controrivoluzione, la speculazione e il sabotaggio. Da pubblicare".

Questo testo di fondazione della polizia politica sovietica sollecita un interrogativo: come interpretare la discordanza fra il bellicoso discorso di Dzerzinskij e la relativa modestia dei compiti attribuiti alla Ceka? I bolscevichi erano sul punto di concludere un accordo con i socialisti rivoluzionari di sinistra (il 12 dicembre sei loro dirigenti entrarono nel governo) per rompere il proprio isolamento politico in un momento in cui dovevano affrontare la questione della convocazione dell'Assemblea costituente, dove si trovavano in minoranza; scelsero quindi di adottare un basso profilo. In contrasto con la risoluzione approvata dal governo il 7 dicembre (20 dicembre), non fu pubblicato nessun decreto per annunciare la creazione della Ceka e definirne le competenze.

La Ceka, commissione «straordinaria», era destinata a prosperare e a operare senza la minima base legale. Dzerzinskij, che come Lenin desiderava avere le mani libere, se ne uscì con una frase stupefacente: «E' la vita stessa a indicare la strada alla Ceka». La vita, ossia il «terrore rivoluzionario delle masse», la violenza della piazza che allora quasi tutti i dirigenti bolscevichi incoraggiavano vivamente, dimenticando per il momento la propria radicata diffidenza nei confronti della spontaneità popolare.

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In un discorso del primo dicembre (14 dicembre) ai delegati del Comitato esecutivo centrale dei soviet, il commissario del popolo per la Guerra, Trotsky, ammonì: «In meno di un mese il terrore prenderà forme violentissime, sull'esempio di quanto accadde nella Grande Rivoluzione francese. Per i nostri nemici non prepareremo più soltanto la prigione, ma la ghigliottina, notevole invenzione della Grande Rivoluzione francese, che ha il vantaggio riconosciuto di accorciare gli uomini di una testa».

Poche settimane dopo, nel suo discorso a un'assemblea di operai, ancora una volta Lenin lanciò un appello al terrore, «giustizia rivoluzionaria di classe»: «Il potere sovietico ha agito come tutte le rivoluzioni proletarie avrebbero dovuto agire: ha troncato di netto la giustizia borghese, strumento delle classi dominanti.... I soldati e gli operai devono capire che se non si aiutano da sé non li aiuterà nessuno. Se le masse non si rialzano spontaneamente, non concluderemo nulla.... Finché non applicheremo il terrore nei confronti degli speculatori - una pallottola in testa, seduta stante - non arriveremo a niente!».

Gli appelli al terrore rinfocolavano la violenza, che del resto, per scatenarsi, non aveva atteso certo l'ascesa al potere dei bolscevichi. Fin dall'autunno 1917 migliaia di grandi proprietà fondiarie erano state saccheggiate dai contadini furibondi, e centinaia di latifondisti erano stati massacrati. Nella Russia dell'estate del 1917 la violenza era onnipresente; non che fosse in sé nuova, ma gli eventi di quell'anno avevano consentito che si coagulassero diverse forme di violenza, presenti allo stato latente: la violenza urbana, «reattiva» alla brutalità dei rapporti capitalistici all'interno del mondo industriale; la violenza contadina «tradizionale»; la violenza «moderna» della prima guerra mondiale, che ebbe sui rapporti umani un effetto straordinariamente regressivo e brutalizzante. La miscela di queste tre forme di violenza costituiva un cocktail esplosivo, capace di avere un effetto devastante nella particolarissima congiuntura della Russia in rivoluzione, segnata al tempo stesso dalla bancarotta delle istituzioni preposte all'ordine e all'esercizio dell'autorità, dal lievitare di risentimenti e frustrazioni sociali a lungo accumulate e dalla strumentalizzazione politica della violenza popolare. Fra città e campagna regnava una reciproca diffidenza: per i russi delle campagne la città era più che mai il luogo del potere e dell'oppressione; per l'élite urbana, per i rivoluzionari di professione, nella stragrande maggioranza usciti dai ranghi dell'intellighenzia, i contadini, come scriveva Gor'kij, restavano una massa di «individui semiselvaggi» con «istinti crudeli» e un «individualismo animale» che dovevano essere assoggettati alla «ragione organizzata della città». Al tempo stesso politici e intellettuali erano perfettamente coscienti del fatto che erano state le rivolte contadine a far vacillare il governo provvisorio, permettendo ai bolscevichi di impadronirsi del potere nel vuoto istituzionale circostante sebbene fossero fortemente minoritari nel paese.

***

Tra la fine del 1917 e i primi del 1918 non esisteva alcuna seria opposizione che minacciasse il nuovo regime; a un mese dal colpo di Stato i bolscevichi controllavano la maggior parte del nord e del centro della Russia, fino alla valle mediana del Volga, ma anche un certo numero di grandi centri abitati, fin nel Caucaso (Baku) e in Asia centrale (Tashkent). Certo, Ucraina e Finlandia avevano scelto la secessione, ma non manifestavano intenti bellicosi verso il potere bolscevico. L'unica forza militare organizzata antibolscevica era il piccolo Esercito dei volontari, di circa 3000 uomini, embrione della futura Armata bianca, radunato nel sud della Russia dai generali Alekseev e Kornilov. Questi generali zaristi fondavano tutte le loro speranze sui cosacchi del Don e del Kuban'. I cosacchi erano radicalmente diversi dagli altri contadini russi; sotto il vecchio regime il loro principale privilegio era la concessione di 30 ettari di terra, in cambio del servizio militare prestato fino all'età di trentasei anni. Non aspiravano ad acquisire altre terre, ma erano ben decisi a conservare quelle che possedevano. I cosacchi si unirono alle forze antibolsceviche nella primavera

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del 1918, spinti dal desiderio di salvaguardare in primo luogo il loro status privilegiato e l'indipendenza, e preoccupati per le dichiarazioni dei bolscevichi contro i kulak.

E' forse possibile parlare di guerra civile a proposito dei primi scontri avvenuti fra l'inverno del 1917 e la primavera del 1918, nella Russia meridionale, fra qualche migliaio di uomini dell'Esercito dei volontari e le truppe bolsceviche del generale Sivers, costituite a stento da 6000 uomini? A prima vista colpisce il contrasto fra il piccolo numero di effettivi coinvolti negli scontri e l'inaudita violenza della repressione esercitata dai bolscevichi, non solo contro i militari presi prigionieri, ma anche contro i civili. La Commissione d'inchiesta sui crimini bolscevichi, istituita nel giugno del 1919 dal generale Denikin, comandante in capo delle forze armate della Russia meridionale, nei pochi mesi della sua attività cercò di recensire le atrocità commesse dai bolscevichi in Ucraina, nel Kuban', nella regione del Don e in Crimea. Le testimonianze raccolte dalla commissione - che costituiscono la fonte principale del libro di S. P. Mel'gunov "La Terreur rouge en Russie, 1918-1924" (Il Terrore rosso in Russia, 1918-1924), il grande classico sul terrore bolscevico pubblicato nel 1924 a Londra - elencano innumerevoli atrocità perpetrate dal gennaio del 1918 in poi. A Taganrog, reparti dell'armata di Sivers avevano gettato in un altoforno, con mani e piedi legati, cinquanta fra junker e ufficiali «bianchi». A Evpatorija varie centinaia di ufficiali e di «borghesi» furono incatenati e poi gettati in mare, dopo essere stati torturati. Identiche violenze ebbero luogo nella maggior parte delle città della Crimea occupate dai bolscevichi: Sebastopoli, Jalta, Alushta, Simferopol'. Analoghe atrocità si verificarono nelle insurrezioni dei maggiori insediamenti cosacchi: le meticolose descrizioni registrate dalla commissione Denikin parlano di «cadaveri con le mani mozzate, con le ossa fratturate oppure privi della testa, con le mandibole fracassate, amputati degli organi genitali».

D'altra parte, come osserva Mel'gunov, è «difficile distinguere l'eventuale attuazione sistematica del terrore organizzato da quelli che sembrano "eccessi" sfuggiti al controllo». Fino all'agosto- settembre del 1918 non si cita quasi mai l'esistenza di una Ceka locale che guidi i massacri; prima di questa data, infatti, la rete delle Ceka è ancora in diversi punti un po' troppo rada. I massacri, diretti scientemente non solo contro i combattenti della parte avversa, ma anche contro i «nemici del popolo» civili (così, fra le 240 persone uccise a Jalta ai primi di marzo 1918 figuravano, oltre a 165 ufficiali, circa 70 uomini politici, avvocati, giornalisti, professori), furono perlopiù opera di «reparti armati, Guardie rosse e altri elementi bolscevichi» non specificati. Sterminare il «nemico del popolo» non era che il logico prolungamento di una rivoluzione insieme politica e sociale, dove gli uni erano «vincitori» e gli altri «vinti»; una simile concezione del mondo non era comparsa all'improvviso dopo l'ottobre del 1917, ma era stata legittimata dalle prese di posizione bolsceviche, del tutto esplicite in proposito.

Ricordiamo che cosa scriveva già nel marzo del 1917 un giovane capitano a proposito della rivoluzione nel proprio reggimento, in una lettera quanto mai perspicace: «Fra noi e i soldati c'è un abisso invalicabile. Per loro, noi siamo e resteremo dei "barin", dei signori. Per loro, quel che è accaduto non è una rivoluzione politica, ma una rivoluzione sociale, in cui essi sono i vincitori e noi i vinti. Ci dicono: "Prima i 'barin' eravate voi, adesso tocca a noi esserlo!". La loro impressione è di aver ottenuto finalmente la rivincita, dopo secoli di schiavitù».

I dirigenti bolscevichi incoraggiarono tutto ciò che poteva corroborare, nelle masse popolari, l'aspirazione a una «rivalsa sociale» che implicava la legittimazione morale della delazione, del terrore, di una guerra civile «giusta», secondo le espressioni usate dallo stesso Lenin. Il 15 dicembre (28 dicembre) 1917 Dzerzinskij pubblicò sull'«Izvestija» un appello per invitare tutti i soviet a organizzare delle Ceka. Ne risultò un formidabile pullulare di commissioni, distaccamenti e altri «organi straordinari» che le autorità centrali faticarono parecchio a tenere a freno quando, pochi

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mesi dopo, decisero di dichiarare conclusa la fase della «iniziativa delle masse», organizzando una rete strutturata e centralizzata di Ceka locali.

Nel luglio del 1918, descrivendo il primo semestre di vita della Ceka, Dzerzinskij scriveva: «Fu un periodo di improvvisazione e di tentativi alla cieca, nel quale la nostra organizzazione non fu sempre all'altezza delle circostanze» (19). Nondimeno, a questa data era già pesante il bilancio dell'opera compiuta dalla Ceka come organo di repressione delle libertà; e l'organizzazione che nel dicembre del 1917 era costituita da un centinaio scarso di individui, in sei mesi aveva moltiplicato i suoi effettivi di centoventi volte!

L'esordio, è vero, fu piuttosto modesto; l'11 gennaio 1918 Dzerzinskij scrisse a Lenin: «Ci troviamo in una situazione impossibile, malgrado i servizi importanti già resi. Niente finanziamenti. Lavoriamo giorno e notte senza pane, né zucchero, né tè, né burro, né formaggio. Prendete provvedimenti per assicurarci razioni decenti oppure autorizzateci a requisire noi stessi quanto ci occorre ai borghesi» . Dzerzinskij aveva reclutato un centinaio di uomini, perlopiù antichi compagni di clandestinità, in maggioranza di origine polacca o baltica, che avevano tutti lavorato nel Milrevkom di Pietrogrado, e fra i quali figuravano già i futuri quadri dirigenti della G.P.U. degli anni Venti e dell'N.K.V.D. degli anni Trenta: Lacis, Menzinskij, Messing, Moroz, Peters, Trilisser, Unshliht, Jagoda.

La prima azione compiuta dalla Ceka fu di troncare lo sciopero dei funzionari pietrogradesi, con un metodo spiccio - arresto dei «caporioni» - e una giustificazione semplice: «Chi non vuole lavorare con il popolo non ha posto al suo fianco» dichiarò Dzerzinskij, che fece arrestare un certo numero di deputati socialisti rivoluzionari e menscevichi eletti nell'Assemblea costituente. L'atto arbitrario fu subito condannato dal commissario del popolo per la Giustizia, Shtejnberg, un socialista rivoluzionario di sinistra entrato da pochi giorni a far parte del governo. Questo primo incidente fra la Ceka e il commissariato per la Giustizia poneva la questione capitale dello statuto extralegale della polizia politica.

«A che serve allora un commissariato del popolo per la Giustizia?» chiese Shtejnberg a Lenin. «Tanto varrebbe chiamarlo commissariato del popolo per lo sterminio sociale, e tutto sarebbe risolto!» «Eccellente idea» rispose Lenin. «E' esattamente così che io vedo la questione. Purtroppo non si può dargli questo nome!». Naturalmente Lenin risolse il conflitto fra Shtejnberg (che esigeva la rigorosa subordinazione della Ceka al commissariato per la Giustizia) e Dzerzinskij (che insorgeva contro il «giuridicismo pignolo della scuola del vecchio regime») a favore del secondo: la Ceka avrebbe dovuto rispondere dei suoi atti unicamente al governo.

Il 6 gennaio (19 gennaio) 1918 segnò una tappa importante nel rafforzamento della dittatura bolscevica: nelle prime ore del mattino l'Assemblea costituente (eletta nel novembre-dicembre 1917), dove i bolscevichi erano in minoranza avendo soltanto 175 deputati su un totale di 707 eletti, fu dispersa con la forza dopo essere stata in sessione un solo giorno. Tuttavia il gesto arbitrario non ebbe nel paese una risonanza apprezzabile. Una piccola manifestazione organizzata per protestare contro lo scioglimento fu repressa dalle truppe armate: si contarono 20 morti, un tributo pesante per una esperienza parlamentare durata soltanto poche ore.

Nei giorni e nelle settimane che seguirono allo scioglimento dell'Assemblea costituente la posizione del governo bolscevico a Pietrogrado si fece sempre più scomoda, nello stesso momento in cui a Brest-Litovsk Trotsky, Kamenev, Ioffe e Radek negoziavano la pace con i delegati degli imperi centrali. Il 9 gennaio 1918 il governo dedicò l'ordine del giorno alla questione del trasferimento a Mosca.

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I dirigenti bolscevichi non erano preoccupati tanto per la minaccia tedesca (l'armistizio era in vigore dal 15 [28] dicembre), quanto per un'eventuale insurrezione operaia. In effetti nei quartieri operai, che ancora due mesi prima li sostenevano, cominciava a covare lo scontento. Con la smobilitazione e la fine delle commesse militari le imprese avevano licenziato decine di migliaia di dipendenti; le sempre maggiori difficoltà di approvvigionamento avevano fatto precipitare la razione quotidiana di pane a 100 grammi circa. Lenin, incapace di risolvere la situazione, stigmatizzava «accaparratori» e «speculatori», destinati al ruolo del capro espiatorio; il 22 gennaio (4 febbraio) 1918 scriveva: «Ogni fabbrica, ogni azienda deve organizzare delle squadre di requisizione. Occorre mobilitare per la ricerca di vettovaglie non solo i volontari, ma tutti, sotto pena di immediata confisca della tessera annonaria».

La nomina di Trotsky, tornato il 31 gennaio 1918 da Brest-Litovsk, a capo di una Commissione straordinaria per il vettovagliamento e il trasporto, fu per l'appunto il segno della decisiva importanza che il governo attribuiva alla «caccia al vettovagliamento», prima tappa verso la «dittatura del vettovagliamento». A questa commissione Lenin presentò a metà febbraio una bozza di decreto che perfino i suoi membri - fra gli altri ne faceva parte, oltre a Trotsky, Cjurupa, commissario del popolo per l'Approvvigionamento - giudicarono opportuno respingere. Secondo il testo preparato da Lenin, tutti i contadini sarebbero stati obbligati a consegnare le eccedenze in cambio di una ricevuta; coloro che avessero mancato la consegna entro una certa scadenza sarebbero stati fucilati. Scrive Cjurupa nelle sue memorie: «Quando leggemmo la bozza restammo sbalorditi. Applicare un simile decreto avrebbe provocato esecuzioni in massa; alla fine il progetto di Lenin fu abbandonato».

Tuttavia l'episodio è rivelatore. Già all'inizio del 1918 Lenin, stretto nel vicolo cieco al quale la sua politica l'aveva condotto, preoccupato per la catastrofica situazione dell'approvvigionamento nei grandi centri industriali, percepiti come le uniche isolette di bolscevismo in un oceano contadino, era disposto a tutto per «prendere i cereali» piuttosto che modificare di una virgola la sua impostazione politica. Non si poteva evitare il conflitto fra un ceto contadino che desiderava tenere per sé i frutti del proprio lavoro e respingeva ogni intromissione da parte dell'autorità esterna, e il nuovo regime che voleva affermare la propria autorità, rifiutando di comprendere il funzionamento dei circuiti economici, nel desiderio - e nella convinzione - di poter imporre il proprio dominio su quella che gli pareva una semplice manifestazione di anarchismo sociale.

Il 21 febbraio 1918, di fronte alla fulminea avanzata dell'esercito tedesco seguita all'interruzione dei colloqui preliminari di Brest- Litovsk, il governo proclamò «la Patria socialista in pericolo». L'appello alla resistenza contro l'invasore era accompagnato da un secondo appello al terrore di massa: «Ogni agente nemico, speculatore, teppista, agitatore controrivoluzionario, spia tedesca, sarà fucilato sul posto». In pratica il proclama instaurava la legge marziale nelle aree in cui si svolgevano operazioni militari. Con la pace, firmata a Brest-Litovsk il 3 marzo 1918, la legge marziale avrebbe dovuto essere revocata. Ufficialmente, la pena di morte fu ripristinata in Russia soltanto il 16 giugno 1918, tuttavia a partire dal febbraio dello stesso anno la Ceka eseguì numerose esecuzioni sommarie al di fuori delle zone di guerra.

Il 10 marzo 1918 il governo lasciò Pietrogrado per Mosca, che era così promossa capitale. La Ceka trovò una sistemazione nei pressi del Cremlino, in via Bol'sciaja-Lubjanka, occupando la sede di una compagnia di assicurazioni dove sarebbe rimasta, nelle sue successive incarnazioni con sigle diverse (G.P.U., N.K.V.D., M.V.D., K.G.B.), fino alla caduta del regime sovietico. Tra il marzo e il luglio 1918 il numero di cekisti che lavoravano a Mosca nella «Casa Grande» passò da 600 a 2000, senza contare le truppe speciali; una cifra considerevole, se si tiene conto che in quella stessa data il commissariato del popolo per gli Interni, incaricato di dirigere l'immenso apparato dei soviet locali nell'intero paese, contava soltanto 400 funzionari!

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La Ceka lanciò la prima operazione di un certo rilievo nella notte fra l'11 e il 12 aprile 1918. Oltre mille uomini, appartenenti al suo corpo speciale, presero d'assalto a Mosca una ventina di case occupate da anarchici. Dopo diverse ore di lotta accanita furono arrestati 520 anarchici, 25 dei quali sottoposti a esecuzione sommaria come «banditi», denominazione che da allora in poi sarebbe servita a indicare operai in sciopero, disertori che si sottraevano al servizio militare o contadini che si ribellavano alle requisizioni.

Dopo questo primo successo, seguito da altre operazioni di «pacificazione» condotte sia a Mosca sia a Pietrogrado, il 29 aprile 1918 Dzerzinskij inviò al Comitato esecutivo centrale una lettera in cui reclamava un considerevole aumento dei mezzi della Ceka: «Nella fase odierna, di fronte alle opposizioni controrivoluzionarie che proliferano da ogni parte, è inevitabile che l'attività della Ceka abbia una crescita esponenziale».

La «fase odierna» cui Dzerzinskij accennava appare infatti come un periodo decisivo nell'assestamento della dittatura politica ed economica e nel rafforzamento della repressione contro una popolazione sempre più ostile ai bolscevichi. In effetti, dall'ottobre del 1917 in poi quest'ultima non aveva visto migliorare le proprie condizioni di vita, né conservato le libertà fondamentali acquisite nel corso del 1917. I bolscevichi, gli unici fra tutte le forze politiche ad aver lasciato che i contadini prendessero le terre tanto a lungo desiderate, si erano trasformati agli occhi dei contadini stessi in «comunisti», che li privavano dei frutti del loro lavoro. Erano proprio gli stessi? si chiedevano molti contadini, e nelle loro lagnanze distinguevano i «bolscevichi che ci hanno dato la terra» dai «comunisti che taglieggiano il lavoratore onesto, strappandogli anche l'ultima camicia».

In realtà la primavera del 1918 fu un momento cruciale, in cui la partita non era ancora decisa. Nei soviet, che non erano stati ancora imbavagliati e trasformati in semplici organi dell'amministrazione statale, si svolgevano veri e propri dibattiti politici fra bolscevichi e socialisti moderati. I giornali di opposizione continuavano a esistere, benché fossero perseguitati quotidianamente; la vita politica locale conosceva un continuo germogliare di istituzioni concorrenti. In questo periodo, segnato dall'aggravarsi delle condizioni di vita e dal totale collasso dei circuiti di scambio economico fra città e campagne, i socialisti rivoluzionari e i menscevichi riportarono innegabili successi politici. Alle elezioni per il rinnovo dei soviet, nonostante pressioni e manipolazioni varie, risultarono vincitori in diciannove capoluoghi di provincia sui trenta in cui le elezioni si svolsero e ne furono resi pubblici i risultati.

In una simile situazione il governo bolscevico reagì rendendo più rigorosa la propria dittatura, sul piano sia economico sia politico. I circuiti di distribuzione economica erano interrotti sia per quanto riguardava i mezzi, a causa dello spaventoso degrado delle comunicazioni, in particolare ferroviarie, sia per le motivazioni, in quanto l'assenza di prodotti manifatturieri scoraggiava i contadini dal tentare di vendere. Il problema vitale, dunque, era assicurare l'approvvigionamento all'esercito e alle città, luogo di potere e sede del «proletariato». I bolscevichi avevano due possibilità: ristabilire una parvenza di mercato in un'economia in rovina, oppure utilizzare misure coercitive. Scelsero la seconda, convinti che fosse necessario proseguire nella lotta per smantellare il «vecchio ordine».

Il 29 aprile 1918, parlando al Comitato esecutivo centrale dei soviet, Lenin dichiarò senza ambagi: «Sì, i piccoli padroni, i piccoli proprietari sono pronti ad aiutare noi proletari ad abbattere i grandi proprietari fondiari e i capitalisti. Essi non amano l'organizzazione, la disciplina, sono i suoi nemici. E a questo punto noi dobbiamo condurre la lotta più decisa, più implacabile contro questi proprietari privati, contro questi piccoli padroni». Alcuni giorni dopo, di fronte alla stessa assemblea il commissario del popolo per l'Approvvigionamento precisò: «Lo dico apertamente: è una questione di guerra, soltanto con i fucili riusciremo a procurarci i cereali». E Trotsky rincarava: «Il nostro partito è per la guerra civile. La guerra civile è la lotta per il pane... Viva la guerra civile!».

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Citiamo un ultimo testo, scritto nel 1921 da un altro dirigente bolscevico, Karl Radek, in cui si chiarisce a perfezione la politica bolscevica della primavera 1918, ossia diversi mesi "prima" dello scontro armato che per due anni avrebbe opposto i Rossi ai Bianchi:

"Il contadino aveva appena ricevuto la terra, era appena tornato a casa dal fronte, aveva ancora le armi, e il suo atteggiamento nei confronti dello Stato si poteva riassumere così: a che serve uno Stato? Non sapeva che farsene! Se avessimo deciso di stabilire una imposta in natura, non ci saremmo riusciti, perché non avevamo apparato statale, quello vecchio era stato distrutto, e i contadini non ci avrebbero dato niente se non fossero stati costretti. All'inizio del 1918 il nostro compito era semplice; dovevamo far capire ai contadini due cose elementari: che lo Stato aveva dei diritti su una parte dei prodotti del ceto contadino per i propri bisogni, e che disponeva della forza necessaria a far valere tali diritti".

Nel maggio-giugno del 1918 il governo bolscevico prese due provvedimenti decisivi che aprirono il periodo della guerra civile denominato tradizionalmente «comunismo di guerra». Il 13 maggio 1918 un decreto attribuì poteri straordinari al commissariato del popolo per l'Approvvigionamento, incaricato di requisire i prodotti alimentari e di organizzare un vero e proprio «esercito dell'approvvigionamento». Nel luglio 1918, circa 12 mila persone facevano già parte di quelle «squadre di vettovagliamento» che nella fase culminante, nel 1920, avrebbero riunito fino a 80 mila uomini, una buona metà dei quali operai pietrogradesi disoccupati, attirati da un salario decente e dalla rimunerazione in natura, proporzionata alla quantità di cereali confiscati. Il secondo provvedimento fu il decreto dell'11 giugno 1918 che istituiva comitati di contadini poveri, operanti in stretta collaborazione con le squadre di vettovagliamento, e a loro volta incaricati di requisire le eccedenze agricole dei contadini benestanti in cambio di una parte del materiale espropriato. I comitati di contadini poveri avrebbero inoltre sostituito i soviet rurali, che il potere riteneva poco fidati, in quanto imbevuti dell'ideologia socialista rivoluzionaria. Si può ben immaginare che cosa siano stati questi primi rappresentanti del potere bolscevico nelle campagne, considerando i compiti che erano chiamati a svolgere - impadronirsi con la forza del frutto del lavoro altrui - e le motivazioni che si presumeva dovessero stimolarli: il potere, un sentimento di frustrazione e invidia nei confronti dei «ricchi», la promessa di parte del bottino. Come scrive acutamente Andrea Graziosi, «in queste persone, la devozione alla causa - o piuttosto al nuovo Stato - e capacità operative innegabili andavano di pari passo con una coscienza sociale e politica balbettante, un forte carrierismo e comportamenti "tradizionali" come la brutalità verso i subordinati, l'alcolismo, il nepotismo.... Abbiamo qui un buon esempio del modo in cui lo "spirito" della rivoluzione di popolo penetrava il nuovo regime».

Nonostante qualche iniziale successo, l'organizzazione dei comitati di contadini poveri non funzionò. L'idea stessa di conferire maggiore autorità al settore più povero del ceto rurale rifletteva la profonda ignoranza dei bolscevichi rispetto al mondo contadino. Secondo una visione schematica, frutto di un'applicazione semplicistica del marxismo, i bolscevichi la immaginavano divisa in classi antagoniste, mentre di fatto era innanzi tutto solidale rispetto al mondo esterno, agli estranei che venivano dalla città. Quando si trattò di consegnare le eccedenze, il riflesso egualitario e comunitario delle assemblee di villaggio entrò in gioco con piena efficacia. Invece di ricadere soltanto sui contadini benestanti, il peso delle requisizioni fu ripartito secondo le disponibilità di ciascuno: fu toccata anche la massa dei contadini di medie risorse e lo scontento divenne generale. Scoppiarono disordini in numerose regioni. Dal giugno del 1918 in poi, la brutalità delle squadre di vettovagliamento, spalleggiate dalla Ceka o dall'esercito, suscitò una vera e propria opposizione di bande armate. In luglio-agosto, nelle zone sotto il controllo del nuovo potere scoppiarono 110 insurrezioni contadine, definite «rivolte di kulak» (nella terminologia bolscevica si indicavano così le sommosse di interi villaggi, in cui tutte le categorie sociali erano confuse). In poche settimane il credito di cui i bolscevichi avevano goduto per un breve momento, quando nel 1917 non si erano

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opposti all'occupazione delle terre, si era ridotto a zero. Per i successivi tre anni la politica della requisizione avrebbe provocato migliaia di sollevazioni e sommosse, che degeneravano in vere e proprie guerre contadine, soffocate con la massima violenza.

Sul piano politico, l'irrigidimento della dittatura che si verificò nella primavera del 1918 provocò la definitiva chiusura di tutti i giornali non bolscevichi, lo scioglimento dei soviet non bolscevichi, l'arresto degli oppositori e la brutale repressione di numerosi movimenti di sciopero. Nel maggio-giugno del 1918 furono chiusi del tutto duecentocinque giornali dell'opposizione socialista. Furono sciolti con la forza i soviet di Kaluga, Tver', Jaroslavl', Rjazan', Kostroma, Kazan', Saratov, Penza, Tambov, Voronez, Orel, Vologda, che avevano una maggioranza menscevica o socialista rivoluzionaria.

Quasi ovunque si ripeteva lo stesso copione: pochi giorni dopo le elezioni vinte dai partiti di opposizione, con la costituzione del nuovo soviet, la frazione bolscevica chiamava in aiuto la forza armata, il più delle volte un distaccamento cekista, che proclamava la legge marziale e arrestava gli avversari. Dzerzinskij, che aveva inviato i suoi collaboratori migliori nelle città conquistate dall'opposizione, era un deciso fautore del colpo di mano. Ne sono eloquente testimonianza le direttive inviate il 31 maggio 1918 al plenipotenziario Ejduk, in missione a Tver':

"Gli operai, influenzati dai menscevichi, dagli S.R. e da altri mascalzoni controrivoluzionari, hanno scioperato e manifestato a favore di un governo che riunisca tutti i «socialisti». Devi tappezzare l'intera città di manifesti con un proclama per annunciare che la Ceka farà giustizia sommaria e immediata di ogni bandito, ladro, speculatore o controrivoluzionario che complotti contro il potere sovietico. Imponi un contributo straordinario ai borghesi della città. Fanne un censimento. Gli elenchi torneranno utili se dovessero azzardare una mossa. Mi chiedi con quali elementi costituire la nostra Ceka locale. Scegli persone risolute, consapevoli che per mettere a tacere uno non c'è niente di più efficace di una pallottola. L'esperienza mi ha insegnato che un piccolo numero di elementi decisi è in grado di rovesciare una situazione".

Lo scioglimento dei soviet in cui gli avversari avevano la maggioranza, l'espulsione dal Comitato esecutivo panrusso dei soviet, il 14 giugno 1918, di menscevichi e socialisti rivoluzionari suscitarono proteste, manifestazioni e tentativi di sciopero in numerose città operaie, dove peraltro la situazione alimentare continuava a peggiorare. A Kolpino, nei dintorni di Pietrogrado, il capo di un distaccamento della Ceka fece sparare su una marcia della fame, organizzata da operai che avevano una razione mensile ridotta a circa 800 grammi di farina! Si contarono 10 morti. Nello stesso giorno, nella fabbrica Berezov, vicino a Ekaterinburg, un distaccamento di Guardie rosse uccise 15 persone durante un'assemblea di protesta contro i «commissari bolscevichi», accusati di essersi accaparrati le case migliori della città e di aver incamerato i 150 rubli di tassa che la borghesia locale era stata costretta a versare. Il giorno dopo le autorità del settore decretarono la legge marziale nella cittadina operaia, e 14 persone furono immediatamente fucilate dalla Ceka del posto, che non ne riferì la notizia a Mosca.

Nella seconda quindicina di maggio e nel giugno del 1918 furono soffocate nel sangue numerose manifestazioni operaie: a Sormovo, Jaroslavl', Tula, così come nelle città industriali degli Urali, Niznij-Tagil, Beloreck, Zlatoust, Ekaterinburg. La parte sempre più attiva avuta dalle Ceka locali nella repressione è attestata dalla crescente diffusione fra gli operai di parole d'ordine e slogan contro la «nuova Ohrana» (era questo il nome della polizia politica zarista) al servizio della «commissariocrazia».

Dall'8 all'11 giugno 1918 Dzerzinskij presiedette la la Conferenza panrussa delle Ceka, dove si riunì un centinaio di delegati di quarantatré sezioni locali, già corrispondenti a circa 12 mila uomini,

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destinati a diventare 40 mila alla fine del 1918 e oltre 180 mila all'inizio del 1921. La conferenza, ponendosi al di sopra dei soviet, e secondo certi bolscevichi addirittura «al di sopra del Partito», dichiarò di «accollarsi, sull'intero territorio della repubblica, il peso della lotta contro la controrivoluzione, in quanto organo supremo del potere amministrativo della Russia sovietica». L'organigramma ideale approvato alla fine della conferenza era rivelatore del vasto campo di attività affidato alla polizia politica fin dal giugno del 1918, ossia "prima" della grande ondata di insurrezioni «controrivoluzionarie» dell'estate di quello stesso anno. Ciascuna Ceka provinciale, ricalcata sul modello della casa madre della Lubjanka, doveva al più presto organizzare i dipartimenti e gli uffici seguenti: 1. Dipartimento informazioni. Uffici: Armata rossa, monarchici, cadetti, S.R. di destra e menscevichi, anarchici e delinquenti comuni, borghesia e clero, sindacati e comitati operai, cittadini stranieri. Per ognuna di tali categorie, gli uffici preposti dovevano stilare un elenco di sospetti. 2. Dipartimento di lotta contro la controrivoluzione. Uffici: Armata rossa, monarchici, cadetti, S.R. di destra e menscevichi, anarchici, sindacalisti, minoranze nazionali, stranieri, alcolismo, pogrom e ordine pubblico, questioni di stampa. 3. Dipartimento di lotta contro la speculazione e gli abusi di potere. 4. Dipartimento operativo, comprendente le unità speciali della Ceka.

Due giorni dopo la chiusura della Conferenza panrussa delle Ceka, il governo decise di reintrodurre la pena di morte nel sistema giuridico: la rivoluzione del febbraio del 1917 l'aveva abolita, ma Kerenskij l'aveva ripristinata nel luglio dello stesso anno. Tuttavia era applicata soltanto nelle zone del fronte, sottoposte alla giurisdizione militare. Uno dei primi provvedimenti approvati dal Secondo Congresso dei soviet, il 26 ottobre (8 novembre) 1917, era stato ancora una volta la soppressione della pena capitale. La decisione aveva suscitato il furore di Lenin: «E' un errore, una inammissibile debolezza, un'illusione pacifista!». Lenin e Dzerzinskij non ebbero pace finché la pena di morte non rientrò nell'ordinamento legale, sebbene sapessero benissimo che poteva essere applicata, senza «pignolerie giuridiche», da organi extralegali come le Ceka. La prima sentenza capitale legalmente emessa da un tribunale rivoluzionario fu eseguita il 21 giugno 1918: l'ammiraglio Ciastnyj fu il primo «controrivoluzionario» fucilato «legalmente».

Il 20 giugno V. Volodarskij, uno dei dirigenti bolscevichi di Pietrogrado, fu ucciso da un militante socialista rivoluzionario. L'attentato cadeva in un periodo in cui nell'ex capitale regnava una grande tensione: durante le settimane precedenti, i rapporti fra bolscevichi e mondo operaio erano andati sempre più deteriorandosi. Nel maggio-giugno del 1918 la Ceka di Pietrogrado registrò settanta «incidenti» - scioperi, assemblee antibolsceviche, manifestazioni - riguardanti perlopiù i metallurgici delle roccheforti operaie, che erano stati i più ardenti partigiani dei bolscevichi nel 1917 e negli anni precedenti. Le autorità risposero agli scioperi con la serrata delle grandi fabbriche nazionalizzate, pratica che nei mesi seguenti sarebbe stata applicata su larga scala per spezzare la resistenza operaia. All'assassinio di Volodarskij seguì un'ondata di arresti senza precedenti negli ambienti operai di Pietrogrado; fu sciolta l'Assemblea dei plenipotenziari operai, organismo a maggioranza menscevica che coordinava l'opposizione operaia pietrogradese, vero e proprio contropotere rispetto al Soviet di Pietrogrado. In due giorni furono arrestati oltre 800 «sobillatori». Gli operai risposero agli arresti di massa proclamando uno sciopero generale per il 2 luglio 1918.

Lenin, che si trovava a Mosca, inviò a Zinov'ev, presidente del Comitato pietrogradese del Partito bolscevico, una lettera da cui emergono sia la concezione leninista del terrore sia uno stupefacente abbaglio politico. In effetti Lenin cadeva vittima di un formidabile controsenso politico, affermando che gli operai insorgevano contro l'assassinio di Volodarskij!

"Compagno Zinov'ev, solo oggi abbiamo appreso al C.C. che a Pietrogrado gli 'operai' volevano rispondere al l'assassinio di Volodarskij col terrore di massa, e che voi (non voi personalmente, ma elementi pietrogradesi del C.C. o del comitato di Pietrogrado) li avete trattenuti. Protesto

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decisamente! Noi ci compromettiamo: minacciamo persino nelle risoluzioni del Soviet dei deputati di passare al terrore di massa, e quando viene il momento 'ostacoliamo' un'iniziativa rivoluzionaria delle masse perfettamente giusta. Questo è im-pos-si-bi-le! I terroristi ci considereranno degli stracci. Il momento è più che di guerra. Bisogna stimolare le forme energiche e massicce del terrore contro i controrivoluzionari, e specialmente a Pietrogrado, il cui esempio decide. Saluti. Lenin".

NOTE.

1. Fino al primo febbraio 1918, in Russia restò in vigore il calendario giuliano, la cui datazione è posticipata di tredici giorni rispetto a quella del calendario gregoriano. Perciò, quando in Russia era il 25 ottobre 1917, in Occidente era il 7 novembre 1917.

3. IL TERRORE ROSSO Il 3 agosto 1918 l'ambasciatore tedesco a Mosca, Karl Helfferich, riferiva al suo governo: «I bolscevichi dicono apertamente di avere i giorni contati. Mosca è in preda a un vero e proprio panico... Corrono le voci più pazze sui "traditori" che si sarebbero introdotti in città».

I bolscevichi non avevano mai sentito così minacciato il loro potere come nell'estate del 1918. In effetti il loro controllo era limitato a un territorio che comprendeva la sola Moscovia storica, contrapposta a tre fronti antibolscevichi ormai consolidati: uno nella regione del Don, occupata dalle truppe cosacche dell'atamano Krasnov e dall'Armata bianca del generale Denikin; il secondo in Ucraina, tenuto dai tedeschi e dalla Rada, il governo nazionale ucraino; il terzo lungo la Transiberiana, dove la maggior parte delle grandi città era nelle mani della Legione ceca, la cui offensiva era appoggiata dal governo socialista rivoluzionario di Samara.

Nelle regioni più o meno controllate dai bolscevichi, nell'estate del 1918 scoppiarono circa 140 rivolte e insurrezioni di ampia portata. Le più frequenti riguardavano comunità di villaggio che si opponevano alle requisizioni condotte con brutalità dalle squadre di vettovagliamento, alle limitazioni imposte al commercio privato, alle nuove campagne di reclutamento dell'Armata rossa. Folle di contadini inferociti convergevano sulla città più vicina, assediavano il soviet locale, a volte cercavano di incendiarlo. Quasi immancabilmente gli incidenti degeneravano: le truppe, le milizie incaricate di mantenere l'ordine e - sempre più spesso - i reparti cekisti non esitavano a sparare sui manifestanti.

I dirigenti bolscevichi interpretavano questi scontri, di giorno in giorno sempre più numerosi, come una vasta congiura controrivoluzionaria, ordita dai «kulak travestiti da Guardie bianche» contro il loro potere.

Il 9 agosto 1918 Lenin telegrafò al presidente del Comitato esecutivo del Soviet di Niznij-Novgorod, che gli aveva dato notizia di incidenti scatenati da contadini per protesta contro le requisizioni: «A Niznij- Novgorod evidentemente si prepara una rivolta di Guardie bianche. Bisogna tendere tutte le forze, costituire un triumvirato, instaurare "subito" il terrore di massa, "fucilare e portar via" centinaia di prostitute, le quali ubriacano i soldati, gli ex ufficiali eccetera.

Neanche un minuto di indugio. Bisogna agire con la massima energia: perquisizioni in massa. Fucilazione per chi è in possesso di armi. Deportazione in massa dei menscevichi e degli elementi infidi». Il giorno dopo, 10 agosto, Lenin spedì un secondo telegramma, di analogo tenore, al Comitato esecutivo del Soviet di Penza:

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"Compagni! L'insurrezione dei kulak nei vostri cinque distretti dev'essere soffocata senza pietà. Lo esigono gli interessi della rivoluzione intera, perché ormai è cominciata dappertutto la «battaglia finale» contro i kulak. Bisogna dare un esempio. 1. Impiccare (e dico impiccare "in modo che tutti vedano") non meno di 100 kulak, ricconi, notori succhiasangue. 2. Pubblicarne i nomi. 3. Appropriarsi di tutto il loro grano. 4. Individuare gli ostaggi, come abbiamo scritto nel nostro telegramma di ieri. Fate così in modo che tutti lo vedano, per centinaia di leghe tutto intorno, e tremino, e pensino: questi ammazzano e continueranno ad ammazzare i kulak assetati di sangue. Telegrafate che avete ricevuto ed eseguito queste istruzioni. Vostro Lenin. P.S. Trovate elementi più duri".

In effetti, come attesta la lettura attenta dei rapporti cekisti sulle rivolte dell'estate del 1918, a quanto pare le sole che fossero state preparate in anticipo erano le sommosse di Jaroslavl', Rybinsk e Murom, organizzate dall'Unione di difesa della patria di Boris Savinkov, dirigente socialista rivoluzionario, e la rivolta degli operai delle fabbriche di armi di Izevsk, ispirata dai menscevichi e dai socialisti rivoluzionari del luogo. Tutte le altre insurrezioni nacquero in modo spontaneo, e il loro elemento scatenante fu sempre dovuto a incidenti in cui erano coinvolte comunità contadine che resistevano alle requisizioni o all'arruolamento. Furono tutte soffocate con ferocia in pochi giorni da reparti fidati dell'Armata rossa o della Ceka. Poté resistere una quindicina di giorni soltanto la città di Jaroslavl', dove il potere bolscevico locale era stato rovesciato dalle truppe di Savinkov; dopo che i ribelli si furono arresi Dzerzinskij mandò a Jaroslavl' una «commissione speciale di inchiesta», la quale, nei cinque giorni fra il 24 e il 28 luglio 1918, fece eseguire 428 condanne a morte.

Per tutto l'agosto del 1918, ossia prima del 3 settembre, quando fu «ufficialmente» proclamato il Terrore rosso, i dirigenti bolscevichi, Lenin e Dzerzinskij in testa, spedirono un gran numero di telegrammi ai locali responsabili della Ceka o del Partito, in cui si esigevano «misure preventive» per arginare ogni tentativo di insurrezione. Fra le altre, come spiegava Dzerzinskij, «le più efficaci sono la cattura di ostaggi scelti nella borghesia sulla base delle liste da voi compilate per i contributi straordinari imposti ai borghesi ... l'arresto e la reclusione in campi di concentramento di tutti gli ostaggi e i sospetti». L'8 agosto Lenin incaricò Cjurupa, commissario del popolo per l'Approvvigionamento, di stilare un decreto in base al quale «in ogni distretto cerealicolo, venticinque ostaggi scelti fra gli abitanti più facoltosi rispondano con la loro vita della mancata attuazione del piano di requisizione». Poiché Cjurupa aveva fatto orecchi da mercante, con il pretesto che organizzare un simile arresto di ostaggi sarebbe stato difficile, Lenin gli spedì un secondo messaggio, ancor più esplicito: «Non intendo suggerire che gli ostaggi debbano essere catturati, ma che siano "indicati per nome" in ciascun distretto. Lo scopo di una tale individuazione è che i ricchi rispondano con la vita dell'immediata attuazione del piano di requisizione relativo al loro distretto, così come sono tenuti a risponderne per la loro singola quota».

Nell'agosto del 1918, oltre al sistema degli ostaggi, i dirigenti bolscevichi sperimentarono un secondo strumento di repressione nato nella Russia in guerra: il campo di concentramento. Il 9 agosto 1918 Lenin telegrafò al Comitato esecutivo della provincia di Penza ordinando di «applicare implacabile terrore di massa contro kulak, pope e Guardie bianche; rinchiudere i sospetti in un campo di concentramento fuori città». Pochi giorni prima, anche Dzerzinskij e Trotsky avevano prescritto che gli ostaggi fossero rinchiusi in «campi di concentramento». Si trattava di campi di internamento dove dovevano essere collocati gli «elementi equivoci» con un semplice provvedimento amministrativo e senza processo. In Russia, come negli altri paesi in conflitto, esistevano numerosi campi dove erano stati internati i prigionieri di guerra.

Fra gli «elementi equivoci» destinati all'arresto preventivo figuravano in primo luogo i responsabili politici dei partiti d'opposizione ancora in libertà. Il 15 agosto 1918 Lenin e Dzerzinskij firmarono il

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mandato di arresto dei principali dirigenti del Partito menscevico: Martov, Dan, Potresov, Gol'dman, mentre gli organi di stampa di quel partito erano già stati messi a tacere e i suoi rappresentanti espulsi dai soviet.

I dirigenti bolscevichi non riconoscevano più alcuna differenza fra le svariate categorie di avversari, perché - secondo loro - il conflitto in cui combattevano era una guerra civile che aveva leggi proprie, come essi stessi spiegavano.

Il 23 agosto 1918 Lacis, uno dei principali collaboratori di Dzerzinskij, scriveva sull'«Izvestija»:

"La guerra civile non ha leggi scritte. La guerra capitalista ha le sue leggi scritte ... ma la guerra civile ha leggi proprie ... Oltre a distruggere le forze attive del nemico, bisogna anche mostrare che chi brandisce la spada contro l'ordine di classe esistente perirà di spada. Sono queste le regole da sempre osservate dalla borghesia, nelle guerre civili che essa ha condotto contro il proletariato.... Non abbiamo ancora assimilato a sufficienza tali regole. I nostri vengono uccisi a centinaia e a migliaia. Noi giustiziamo i loro a uno a uno, dopo lunghi dibattimenti davanti a commissioni e tribunali. Nella guerra civile non ci sono tribunali per il nemico. E' un duello all'ultimo sangue: se non uccidi, sarai ucciso. Dunque uccidi, se non vuoi essere ucciso!".

Il 30 agosto 1918 i dirigenti bolscevichi, convinti che una vera e propria congiura minacciasse addirittura la loro sopravvivenza, furono confermati in questa idea da due attentati, uno contro M. S. Urickij, capo della Ceka di Pietrogrado, l'altro contro Lenin. In realtà non c'era nessun rapporto fra i due. Il primo, appartenente alla più pura tradizione del terrorismo rivoluzionario populista, era stato commesso da un giovane studente che voleva vendicare la morte di un amico ufficiale, giustiziato pochi giorni prima dalla Ceka pietrogradese. Quanto al secondo attentato, quello contro Lenin, che è stato a lungo attribuito a Fannie Kaplan (una militante vicina agli ambienti anarchici e socialisti rivoluzionari, arrestata sul momento e giustiziata senza processo tre giorni dopo), oggi sembra ormai certo che si sia trattato invece di una provocazione organizzata dalla Ceka e sfuggita di mano agli istigatori. Il governo bolscevico attribuì subito gli attentati ai «socialisti rivoluzionari di destra, lacchè dell'imperialismo francese e inglese». Fin dal giorno successivo furono pubblicati articoli di giornale e dichiarazioni ufficiali che esigevano a gran voce la proclamazione di un'offensiva di terrore. La «Pravda» del 31 agosto 1918 dichiarava: «Lavoratori, per noi è giunta l'ora di annientare la borghesia, altrimenti essa vi annienterà. Le città devono essere ripulite con implacabile determinazione da tutto il marcio borghese. Tutti questi signori saranno schedati, e quelli che rappresentano un pericolo per la causa rivoluzionaria sterminati.... L'inno della classe operaia sarà un canto di odio e di vendetta!»

Lo stesso giorno Dzerzinskij e il suo vice, Peters, redassero un "Appello alla classe operaia" animato da spirito analogo: «Che la classe operaia schiacci l'idra della controrivoluzione con il terrore di massa! Lo sappiano i nemici della classe operaia: ogni individuo arrestato che sia trovato illecitamente in possesso di un'arma sarà giustiziato all'istante, ogni individuo che osi fare la minima propaganda contro il regime sovietico sarà subito arrestato e rinchiuso in campo di concentramento!». L'appello comparve sull'«Izvestija» del 3 settembre; il giorno successivo fu pubblicata una direttiva inviata a tutti i soviet da G. I. Petrovskij, commissario del popolo per l'Interno: Petrovskij lamentava il fatto che, nonostante la «repressione di massa» esercitata dai nemici del regime contro le «masse operaie», il Terrore rosso tardasse a manifestarsi:

"E' ormai l'ora di farla finita con tutte queste mollezze e sentimentalismi. Tutti i socialisti rivoluzionari di destra devono essere immediatamente arrestati. Si deve prendere un grande numero di ostaggi nella borghesia e tra gli ufficiali. Di fronte alla minima resistenza si dovrà ricorrere alle esecuzioni in massa. In questo campo i comitati esecutivi di provincia devono dare prova di spirito

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d'iniziativa. Le Ceka e le altre milizie devono individuare e arrestare tutti i sospetti, giustiziando immediatamente chiunque risulti compromesso in attività.... I responsabili dei comitati esecutivi devono immediatamente informare il commissariato del popolo per gli Interni di ogni circostanza in cui i soviet locali abbiano manifestato mollezza o indecisione.... Nell'attuare il terrore di massa non si possono tollerare debolezze o esitazioni".

Questo telegramma, che segna l'inizio ufficiale del Terrore rosso su larga scala, confuta l'argomentazione presentata a posteriori da Dzerzinskij e da Peters, secondo cui «il Terrore rosso, espressione della generale e spontanea indignazione delle masse contro gli attentati del 30 agosto 1918, si scatenò senza la minima direttiva centrale». In realtà il Terrore rosso era il naturale sbocco di un odio quasi astratto nutrito dalla maggioranza dei dirigenti bolscevichi verso gli «oppressori», che essi erano pronti a liquidare non individualmente ma «in quanto classe». Il dirigente menscevico Rafail Abramovic riporta nelle sue memorie un dialogo quanto mai rivelatore che nell'agosto del 1917 aveva avuto con Feliks Dzerzinskij, futuro capo della Ceka.

"«Abramovic, ti ricordi il discorso di Lassalle sull'essenza di una Costituzione?» «Certo.» «Diceva che ogni Costituzione era determinata dal rapporto fra le forze sociali in un certo paese e in un dato momento. Mi chiedo come potrebbe cambiare questa correlazione fra il politico e il sociale.» «Be', attraverso i vari processi di evoluzione economica e politica, con l'emergenza di nuove forme economiche, l'ascesa di determinate classi sociali eccetera, tutte cose che tu conosci perfettamente, Feliks.» «Sì, ma non si potrebbe cambiare questa correlazione in maniera radicale? Per esempio assoggettando o sterminando determinate classi della società?»".

Non erano pochi i bolscevichi che condividevano una simile crudeltà fredda, calcolata, cinica, nata dall'estremizzazione della logica implacabile della «guerra di classe». Nel settembre 1918 uno dei principali dirigenti bolscevichi, Grigorij Zinov'ev, dichiarò: «Per distruggere i nostri nemici dobbiamo avere il nostro proprio terrore socialista. Dobbiamo tirare dalla nostra parte, diciamo, novanta sui cento milioni di abitanti della Russia sovietica. Quanto agli altri, non abbiamo nulla da dirgli. Devono essere annientati».

Il 5 settembre il governo sovietico legalizzò il terrore con il famoso decreto «Sul Terrore rosso»: «Nella situazione attuale è assolutamente vitale rafforzare la Ceka ... proteggere la Repubblica sovietica contro i nemici di classe, isolandoli in campi di concentramento, fucilando sull'istante ogni individuo implicato nelle organizzazioni delle Guardie bianche, nei complotti, in insurrezioni o sommosse, e pubblicando i nomi dei fucilati insieme alle ragioni per cui sono stati passati per le armi». In seguito Dzerzinskij lo riconobbe: «Finalmente i testi del 3 e del 5 settembre 1918 ci conferivano legalmente ciò che fino a quel momento persino alcuni compagni del Partito ci avevano contestato, il diritto di farla finita su due piedi con la feccia controrivoluzionaria, senza doverne riferire a nessuno». In una circolare interna datata 17 settembre, Dzerzinskij invitò tutte le Ceka locali ad «accelerare le procedure e a concludere, ossia a "liquidare", le faccende in sospeso». A dire il vero, le «liquidazioni» erano già iniziate dal 31 agosto. Il 3 settembre l'«Izvestija» riferì che nei giorni precedenti la Ceka di Pietrogrado aveva giustiziato oltre 500 ostaggi. Secondo fonti cekiste, nel settembre del 1918 a Pietrogrado sarebbero state giustiziate 800 persone, una cifra pesantemente inferiore alla realtà. Un testimone dei fatti riferì i seguenti particolari: «Per Pietrogrado un calcolo superficiale dà un totale di 1300 esecuzioni.... Nelle loro "statistiche" i bolscevichi non contano le centinaia di ufficiali e civili fucilati a Kronstadt per ordine delle autorità locali. Soltanto a Kronstadt, in una sola notte furono fucilate 400 persone; si scavarono tre grandi fosse nel cortile, 400 persone furono allineate davanti allo scavo e giustiziate una dopo l'altra». Peters, il braccio destro di Dzerzinskij, in un'intervista rilasciata al giornale «Utro Moskvy» il 3 novembre 1918 riconobbe che «a Pietrogrado i cekisti di cuore tenero [sic] alla fine hanno perso la testa e hanno esagerato. Prima dell'assassinio di Urickij non era stato giustiziato nessuno - e

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credetemi, nonostante tutto quel che si vuole sostenere, io non sono così sanguinario come si dice - mentre dopo ci sono state un po' troppe esecuzioni, e spesso senza discernimento. Ma da parte sua Mosca ha risposto all'attentato a Lenin limitandosi a giustiziare un po' di ministri dello zar». Sempre secondo l'«Izvestija», il 3 e 4 settembre a Mosca furono passati per le armi «soltanto» 29 ostaggi, appartenenti al «blocco della controrivoluzione». Fra questi si contavano due ex ministri di Nicola Secondo, A. N. Hvostov (Interni) e I. Sceglovitov (Giustizia). Tuttavia, molte testimonianze riferiscono di centinaia di esecuzioni avvenute nelle prigioni moscovite durante i «massacri di settembre».

In questa epoca di Terrore rosso, Dzerzinskij fece pubblicare un giornale, «Ezenedel'nik V.C.K.» (Il settimanale della Ceka), che aveva l'esplicito compito di vantare i meriti della polizia politica e di rinfocolare il «giusto desiderio di vendetta delle masse». Nelle sei settimane precedenti la sua soppressione, decisa dal Comitato centrale in un momento in cui la Ceka era contestata da un certo numero di dirigenti bolscevichi, il giornale riferì senza mascherature né pudori gli arresti di ostaggi, gli internamenti nei campi di concentramento, le esecuzioni capitali eccetera. In questo settimanale, che costituisce una fonte ufficiale e "a minima" del Terrore rosso per i mesi di settembre e ottobre del 1918, si legge che la Ceka di Niznij- Novgorod, particolarmente pronta nel rispondere agli ordini di Nikolaj Bulganin (destinato a diventare capo dello Stato sovietico dal 1954 al 1957), dal 31 agosto in poi aveva giustiziato 141 ostaggi; in tre giorni, in questa città russa di medie dimensioni, ne erano stati arrestati 700. Da Vjatka la Ceka regionale degli Urali, evacuata da Ekaterinburg, riferiva che in una settimana erano stati giustiziati 23 «ex poliziotti», 154 «controrivoluzionari», 8 «monarchici», 28 «membri del Partito costituzionaldemocratico», 186 «ufficiali», 10 «menscevichi e S.R. di destra». La Ceka di Ivanovo-Voznesensk annunciava che erano stati presi 181 ostaggi e giustiziati 25 «controrivoluzionari», ed era stato costruito un «campo di concentramento di mille posti». Per la Ceka della cittadina di Sebezck si citavano «16 kulak passati per le armi e un prete che aveva celebrato una messa per il sanguinario tiranno Nicola Secondo»; per la Ceka di Tver', 130 ostaggi catturati e 39 esecuzioni capitali; per la Ceka di Perm', 50 esecuzioni. Il macabro catalogo, ricavato dai sei numeri usciti dell'«Ezenedel'nik V.C.K», potrebbe continuare.

Per tutto l'autunno del 1918 anche altri giornali provinciali riferirono di migliaia di arresti e di esecuzioni. Citiamo soltanto due esempi. L'unico numero uscito di «Izvestija Caricynskoj Gubceka» (Notizie della Ceka della provincia di Caricyn) per la settimana dal 3 al 10 settembre 1918 parlava di 103 persone giustiziate. Fra il primo e l'8 novembre 1918 sfilarono davanti al tribunale locale della Ceka 371 persone: 50 furono condannate a morte, le altre a essere «rinchiuse in un campo di concentramento, come misura preventiva e in qualità di ostaggi, fino alla completa liquidazione di tutte le insurrezioni controrivoluzionarie». Il numero unico dell'«Izvestija Penzenskoj Gubceka» (Notizie della Ceka della provincia di Penza) riferiva, senz'altro commento: «Per l'assassinio del compagno Egorov, operaio di Pietrogrado comandato in un distaccamento di requisizione, sono state giustiziate dalla Ceka 152 Guardie bianche. Altri provvedimenti ancor più rigorosi [sic] saranno presi in futuro contro tutti coloro che si leveranno in armi contro il braccio armato del proletariato».

I rapporti confidenziali ("svodka") inviati a Mosca dalle Ceka locali, da poco tempo aperti alla consultazione, confermano peraltro la brutalità con la quale fin dall'estate del 1918 furono repressi i minimi incidenti che scoppiavano fra le comunità contadine e le autorità locali, in genere per il rifiuto delle requisizioni o della coscrizione obbligatoria: erano catalogati in modo sistematico come «sommosse di kulak controrivoluzionari» e soffocati senza pietà. Sarebbe vano tentare di stabilire il numero di vittime provocate dalla prima grande ondata di Terrore rosso. Secondo Lacis, uno fra i principali dirigenti della Ceka, negli ultimi sei mesi del 1918 la Ceka avrebbe giustiziato 4500 persone; non senza cinismo, Lacis soggiungeva: «Se si può muovere un'accusa alla Ceka, non è

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davvero per eccesso di zelo nell'eseguire le condanne capitali, ma piuttosto per l'insufficiente applicazione dei provvedimenti supremi di pena. Il pugno di ferro provoca sempre una minore quantità di vittime».

Alla fine dell'ottobre del 1918 il dirigente menscevico Julij Martov calcolava che dai primi di settembre in poi si fossero avute oltre 10 mila vittime cadute direttamente per mano della Ceka.

Qualunque sia l'esatto numero delle vittime del Terrore rosso nell'autunno 1918 (e basta sommare le cifre delle esecuzioni riportate sulla stampa per concludere che non può essere inferiore a 10 mila-15 mila), questo episodio rappresenta la definitiva consacrazione di una prassi bolscevica: trattare ogni forma di contestazione, reale o potenziale, nel quadro di una guerra civile senza possibilità di tregua e soggetta, per citare la formula di Lacis, a «leggi proprie». Bastava che scoppiasse uno sciopero, come accadde per esempio ai primi di novembre del 1918 nella fabbrica di armi di Motoviliha, nella provincia di Perm' (dove gli operai protestavano contro il principio bolscevico del razionamento «in base all'origine sociale» e contro gli abusi della Ceka locale), perché la fabbrica intera fosse subito dichiarata dalle autorità «in stato di insurrezione». Con gli scioperanti non si trattava: la reazione era la serrata, il licenziamento di tutti gli operai, l'arresto dei «sobillatori», la ricerca dei «controrivoluzionari» menscevichi che si presumeva fossero all'origine dello sciopero. Tali pratiche erano certo diventate correnti dall'estate 1918 in poi. Tuttavia in autunno la Ceka locale, ormai ben strutturata e «pungolata» dagli appelli alla strage lanciati dal Centro, andò più in là nella repressione: furono giustiziati oltre 100 scioperanti senza sottoporli a nessuna forma di processo.

La dimensione stessa del fenomeno - da 10 mila a 15 mila esecuzioni sommarie in due mesi - segna già a questo punto un vero e proprio salto di qualità rispetto all'epoca zarista. Basta ricordare che per l'intero periodo fra il 1825 e il 1917 le sentenze di morte pronunciate dai tribunali zaristi (corti marziali comprese) in tutti i processi che avessero qualche «rapporto con l'ordine politico» erano arrivate a 6231, con una punta di 1310 condanne a morte nel 1906, anno della reazione contro i rivoluzionari del 1905. In poche settimane la Ceka da sola aveva giustiziato un numero di persone da due a tre volte superiore rispetto a quanti l'impero zarista ne avesse condannati a morte in novantadue anni; peraltro costoro, oggetto di una sentenza pronunciata al termine di un procedimento legale, non furono tutti giustiziati, perché in molti casi la pena fu commutata in una condanna ai lavori forzati.

Il salto di qualità era ben più che una pura e semplice questione di cifre. L'introduzione di categorie nuove, come «sospetto», «nemico del popolo», «ostaggio», «campo di concentramento», «tribunale rivoluzionario», di pratiche inedite come la «reclusione preventiva» o l'esecuzione sommaria, senza processo, di centinaia e migliaia di persone arrestate da una polizia politica di tipo nuovo, al di sopra delle leggi, costituiva una vera e propria rivoluzione copernicana in questo ambito.

Una simile rivoluzione era qualcosa a cui alcuni dirigenti bolscevichi non erano preparati, come testimonia la polemica scoppiata fra l'ottobre e il dicembre del 1918 nel loro gruppo circa il ruolo della Ceka. In assenza di Dzerzinskij (partito in incognito per la Svizzera, dove sarebbe rimasto un mese a rigenerarsi nel corpo e nella mente), il 25 ottobre 1918 il Comitato centrale del Partito bolscevico discusse un nuovo statuto per la Ceka. Mentre criticavano «i pieni poteri lasciati a una organizzazione che pretende di operare al di sopra dei soviet e dello stesso Partito», Buharin, Olminskij, un veterano del partito, e Petrovskij, commissario del popolo per gli Interni, chiesero che si prendessero provvedimenti per arginare «gli eccessi di zelo di una organizzazione affollata di criminali e di sadici, di elementi degenerati del Lumpenproletariat». Fu costituita una commissione di controllo politico, un membro della quale, Kamenev, arrivò a proporre la pura e semplice abolizione della Ceka.

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Ben presto, però, ebbero di nuovo la meglio i suoi fautori incondizionati: fra questi ultimi, oltre a Dzerzinskij, si contavano i vertici del Partito, come Sverdlov, Stalin, Trotsky e, beninteso, Lenin, il quale prese risolutamente le difese di una istituzione «attaccata non solo dai nemici, ma spesso anche dagli amici.... Ciò che mi sorprende ... è l'incapacità di impostare il problema secondo una prospettiva più ampia». Il 19 dicembre 1918, su proposta di Lenin, il Comitato centrale approvò una risoluzione che vietava alla stampa bolscevica di pubblicare «articoli calunniosi sulle istituzioni, specialmente sulla Ceka, che opera in condizioni di particolare difficoltà». Così il dibattito era chiuso: il «braccio armato della dittatura del proletariato» aveva ricevuto il suo brevetto di infallibilità. Come disse Lenin, «il buon comunista è anche buon cekista».

Ai primi del 1919 Dzerzinskij ottenne dal Comitato centrale la costituzione di dipartimenti speciali della Ceka ai quali affidare la sicurezza militare. Il 16 marzo 1919 fu nominato commissario del popolo per l'Interno e sotto l'egida della Ceka intraprese la riorganizzazione di tutte le milizie, truppe, distaccamenti e unità ausiliarie fino a quel momento dipendenti da amministrazioni diverse. Nel maggio del 1919 queste unità - milizie ferroviarie, squadre di vettovagliamento, guardie di frontiera, battaglioni cekisti - furono tutte riunite in un corpo speciale, le Truppe di difesa interna della Repubblica, che nel 1921 sarebbero arrivate a contare 200 mila effettivi. Tali truppe avevano l'incarico di assicurare la sorveglianza di campi, stazioni e altri punti strategici, di svolgere operazioni di requisizione ma anche e soprattutto di reprimere le rivolte contadine, le sommosse operaie e gli ammutinamenti dell'Armata rossa. Unità speciali della Ceka e Truppe di difesa interna della Repubblica, ossia in totale circa 200 mila uomini, rappresentavano una forza formidabile di controllo e di repressione, un vero e proprio esercito inserito in una Armata rossa minata dalle diserzioni, che non arrivò mai, sebbene in teoria contasse un numero di effettivi elevatissimo (da tre a cinque milioni di uomini), a schierare più di 500 mila soldati con equipaggiamento completo.

Uno dei primi decreti del nuovo commissario del popolo per gli Interni riguardava le modalità di organizzazione dei campi, che esistevano dall'estate del 1918 senza la minima regolamentazione o base giuridica. Il Decreto del 15 aprile 1919 li distingueva in due tipi: i «campi di lavoro forzato» nei quali, in linea di principio, erano internati coloro che erano stati condannati da un tribunale, e i «campi di concentramento» in cui erano raggruppate le persone incarcerate, perlopiù come «ostaggi», in base a una semplice ordinanza amministrativa. In realtà le distinzioni fra i due tipi di campo rimasero in larga misura teoriche, come attesta la circolare esplicativa del 17 maggio 1919 che, oltre a stabilire la costituzione di «almeno un campo in ogni provincia, della capacità minima di trecento posti», prevedeva la stesura di una lista tipo con sedici categorie di persone destinate all'internamento. Fra queste figuravano le tipologie più disparate, quali «ostaggi provenienti dall'alta borghesia», «funzionari del vecchio regime fino al rango di assessore di collegio, procuratore, e loro sostituti, sindaci e vicesindaci delle città capoluogo di distretto», «soggetti che sotto il regime sovietico abbiano subito condanne, di qualsiasi entità, per reati di parassitismo, prossenetismo, prostituzione», «disertori ordinari (non recidivi) e soldati prigionieri della guerra civile» eccetera.

Tra il 1919 e il 1921 il numero degli internati nei campi di lavoro o di concentramento ebbe una crescita costante, dai circa 16 mila nel maggio del 1919 agli oltre 70 mila del settembre del 1921. Tali cifre non tengono conto di un certo numero di campi allestiti nelle regioni insorte contro il potere sovietico. Così, nell'estate del 1921, per la sola provincia di Tambov, nei sette campi di concentramento organizzati dalle autorità che avevano il compito di reprimere l'insurrezione contadina si contavano almeno 50 mila «banditi» e «familiari dei banditi trattenuti come ostaggi».

4. LA «SPORCA GUERRA». La guerra civile in Russia è stata quasi sempre analizzata come un conflitto fra i Rossi (bolscevichi) e i Bianchi (monarchici). In realtà, se si prescinde dagli scontri militari fra due eserciti - l'Armata rossa e le diverse unità che costituivano l'Armata bianca, piuttosto eterogenea - gli avvenimenti più

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importanti accaddero senza dubbio dietro le linee del fronte, che si spostavano con estrema facilità. Questa dimensione della guerra civile, definita «fronte interno», è caratterizzata dalle varie forme di repressione esercitate dal potere costituito dei Bianchi e dei Rossi (la repressione rossa era molto più generale e sistematica) contro i militanti politici dei partiti o dei gruppi di opposizione, gli operai che scioperavano per rivendicare una serie di diritti, i disertori che evitavano l'arruolamento o fuggivano dalle loro unità, o semplicemente contro cittadini appartenenti a una classe sociale sospetta o «ostile», la cui unica colpa consisteva nel fatto di trovarsi in una città o in un borgo riconquistato al «nemico». La lotta sul fronte interno della guerra civile consistette anche e soprattutto nella resistenza opposta da milioni di contadini, ribelli e disertori, che sia i Rossi sia i Bianchi chiamavano «Verdi»: la loro funzione fu determinante per l'avanzata o la sconfitta di uno schieramento o dell'altro. Per esempio, durante l'estate del 1919 nel Medio Volga e in Ucraina scoppiarono violente rivolte contadine contro il potere bolscevico, che permisero all'ammiraglio Kolciak e al generale Denikin di sfondare le linee bolsceviche per centinaia di chilometri. Analogamente, alcuni mesi dopo, l'insurrezione dei contadini siberiani - esasperati per il ripristino dei diritti dei proprietari terrieri - accelerò la disfatta dell'ammiraglio bianco Kolciak di fronte all'Armata rossa.

Anche se le operazioni militari di una certa portata fra Bianchi e Rossi durarono soltanto un anno, dalla fine del 1918 all'inizio del 1920, quella che di solito viene chiamata «guerra civile» fu in realtà una «sporca guerra», una guerra di pacificazione condotta dalle svariate autorità militari o civili, rosse o bianche, contro tutti gli avversari, potenziali o reali, nelle zone controllate temporaneamente dai rispettivi schieramenti. Nelle regioni occupate dai bolscevichi assunse la forma di «lotta di classe» contro gli «aristocratici», i borghesi, gli «elementi estranei alla società», di caccia ai militanti di tutti i partiti non bolscevichi, e di repressione degli scioperi operai, degli ammutinamenti di unità poco affidabili dell'Armata rossa e delle rivolte contadine. Nelle zone occupate dai Bianchi si concretizzò nella caccia agli elementi sospettati di simpatizzare per i «giudeo-bolscevichi».

I bolscevichi non avevano il monopolio del terrore. Esisteva anche un Terrore bianco, che si manifestò con particolare virulenza con l'ondata di pogrom perpetrati in Ucraina durante l'estate e l'autunno del 1919 da alcuni distaccamenti dell'esercito di Denikin e alcune unità di Petlura, pogrom in cui perirono quasi 150 mila persone. Ma, come ha osservato la maggior parte degli storici del Terrore rosso e bianco durante la guerra civile russa, questi due fenomeni non possono essere messi sullo stesso piano. La politica bolscevica del terrore fu più metodica e organizzata; venne teorizzata e messa in atto contro interi gruppi sociali molto prima della guerra civile. Il Terrore bianco non ebbe mai carattere sistematico. Riguardò quasi sempre dei distaccamenti senza controllo, sottrattisi all'autorità di un comando militare che cercava senza molto successo di assumere le funzioni del governo. Se si eccettuano i pogrom, che furono condannati da Denikin, il Terrore bianco si limitò quasi sempre a una repressione poliziesca analoga a quella esercitata da un servizio di controspionaggio militare. Rispetto al controspionaggio delle unità bianche, la Ceka e le Truppe di difesa interna della Repubblica costituivano uno strumento di repressione assai più strutturato e potente, al quale il regime bolscevico accordava la massima priorità.

Come sempre accade per le guerre civili, è difficile tracciare un bilancio completo delle forme di repressione e dei tipi di terrore perpetrati dagli opposti schieramenti. Il terrore bolscevico, il solo di cui parleremo qui, può essere classificato adeguatamente in base a molte tipologie. Fu assai anteriore alla guerra civile propriamente detta, che si sviluppò solo a partire dalla fine dell'estate del 1918, e aveva i propri metodi, le proprie peculiarità e i propri bersagli privilegiati. Abbiamo scelto uno schema esemplificativo che individua, nella continuità di una evoluzione di cui è possibile seguire il corso fin dai primi mesi del regime, i principali gruppi di vittime sottoposti a una repressione coerente e sistematica:

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- i militanti politici non bolscevichi, dagli anarchici ai monarchici; - gli operai in lotta per la difesa dei diritti più elementari: pane, lavoro, un minimo di libertà e di dignità; - i contadini, spesso disertori, coinvolti in qualcuna delle innumerevoli insurrezioni contadine o negli ammutinamenti di unità dell'Armata rossa; - i cosacchi, deportati in massa poiché come gruppo sociale ed etnico erano considerati ostili al regime sovietico. La «decosacchizzazione» prefigura le grandi operazioni di deportazione degli anni Trenta («dekulakizzazione», deportazione di gruppi etnici), e mette in luce la continuità della fase leniniana e di quella staliniana in materia di politica repressiva; - gli «elementi estranei alla società» e altri «nemici del popolo», «sospetti» e «ostaggi» liquidati «preventivamente», soprattutto durante l'evacuazione di città da parte dei bolscevichi, o la riconquista di città e territori occupati in precedenza dai Bianchi.

La repressione meglio nota di tutte è senz'altro quella che si abbatté sui militanti politici dei vari partiti di opposizione al regime bolscevico. Esistono numerose testimonianze dei principali dirigenti dei partiti di opposizione, che furono incarcerati e spesso esiliati, ma che in generale sopravvissero; non può dirsi lo stesso dei militanti operai e contadini di base, che venivano fucilati senza processo o massacrati nel corso di operazioni punitive della Ceka. Una delle prime azioni militari di quest'ultima fu l'assalto sferrato l'11 aprile 1918 contro gli anarchici di Mosca, molte decine dei quali vennero fucilati sul posto. Nel corso degli anni successivi la lotta contro gli anarchici non conobbe tregua, benché molti di essi fossero entrati nei ranghi bolscevichi; alcuni occuparono anche cariche importanti all'interno della Ceka, come Aleksandr Gol'dberg, Mihail Brener o Timofej Samsonov. La maggioranza degli anarchici avversava sia la dittatura bolscevica sia il ritorno dei fautori del vecchio regime, e quindi viveva un dilemma ben esemplificato dai voltafaccia del grande dirigente anarchico contadino Mahno, che dovette far causa comune con l'Armata rossa contro i Bianchi, e poi, una volta sventata la minaccia bianca, combattere contro i Rossi per cercare di difendere i propri ideali. Nel corso delle azioni repressive contro gli eserciti contadini di Mahno e dei suoi seguaci, migliaia di anonimi militanti anarchici furono giustiziati come «banditi». Secondo il bilancio della repressione bolscevica presentato a Berlino nel 1922 dagli anarchici russi in esilio, l'unico disponibile benché incompleto, la stragrande maggioranza delle vittime anarchiche fu costituita da quei contadini. Sempre secondo la stessa fonte, negli anni 1919-1921 furono giustiziati 138 militanti anarchici, 281 furono esiliati e 608 erano ancora in prigione il primo gennaio 1922.

I socialisti rivoluzionari di sinistra, che fino all'estate del 1918 erano alleati dei bolscevichi, beneficiarono di una relativa clemenza fino al febbraio del 1919. Nel dicembre del 1918 la loro leader storica, Marija Spiridonova, presiedette un congresso del suo partito tollerato dai bolscevichi. Il 10 febbraio 1919 fu arrestata insieme ad altri 210 militanti per aver criticato con vigore il terrore praticato quotidianamente dalla Ceka, e condannata dal Tribunale rivoluzionario alla «detenzione in sanatorio, essendone stata accertata la condizione isterica»: si tratta del primo esempio di reclusione di un avversario politico in un ospedale psichiatrico da parte del regime bolscevico; Marija Spiridonova riuscì a evadere e continuò a dirigere in clandestinità il Partito socialista rivoluzionario di sinistra, messo fuori legge dai bolscevichi. Secondo le fonti cekiste, nel 1919 furono smantellate 58 organizzazioni socialiste rivoluzionarie di sinistra, e 45 nel 1920. Durante questi due anni furono imprigionati come ostaggi 1875 militanti, in conformità alle direttive di Dzerzinskij, che il 18 marzo 1919 aveva dichiarato: «D'ora in poi la Ceka non farà più distinzioni fra Guardie bianche del tipo di Krasnov e Guardie bianche del campo socialista. ... Gli S.R. e i menscevichi arrestati saranno considerati ostaggi, e il loro destino dipenderà dal comportamento politico dei rispettivi partiti».

I bolscevichi avevano sempre considerato i socialisti rivoluzionari di destra i propri avversari politici più pericolosi. Nessuno aveva dimenticato che all'epoca delle libere elezioni a suffragio universale del novembre-dicembre del 1917 avevano riportato una larga maggioranza nel paese.

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Dopo lo scioglimento dell'Assemblea costituente, dove disponevano della maggioranza assoluta dei seggi, i socialisti rivoluzionari avevano continuato a far parte dei soviet e del Comitato esecutivo centrale dei soviet, da cui erano stati espulsi insieme ai menscevichi nel giugno del 1918. Con alcuni costituzionaldemocratici e menscevichi, una parte dei dirigenti socialisti rivoluzionari costituì allora a Samara e a Omsk dei governi effimeri, che di lì a poco vennero rovesciati dall'ammiraglio bianco Kolciak. Per socialisti rivoluzionari e menscevichi, presi fra due fuochi in mezzo a bolscevichi e Bianchi, risultò assai difficile stabilire una linea coerente di opposizione al regime bolscevico, che contro gli avversari socialisti moderati conduceva una politica abile, alternando alla repressione misure di conciliazione e manovre di infiltrazione. Il 31 marzo 1919, nel pieno dell'offensiva dell'ammiraglio Kolciak, dopo aver autorizzato il giornale socialista rivoluzionario «Delo Naroda» (La causa del popolo) a riprendere le pubblicazioni dal 20 al 30 marzo 1919, la Ceka eseguì un'imponente retata contro i militanti socialisti rivoluzionari e menscevichi, benché i loro partiti non fossero oggetto di alcuna interdizione legale. A Mosca, Tula, Smolensk, Voronez, Penza, Samara e Kostroma furono arrestati oltre 1900 militanti. Quanti ne furono giustiziati sommariamente durante la repressione degli scioperi e delle insurrezioni contadine, dove spesso menscevichi e socialisti rivoluzionari avevano un ruolo di primaria importanza? Non esistono molte cifre a riguardo, perché anche se si conosce, almeno approssimativamente, il numero delle vittime dei principali episodi di repressione censiti, si ignora la percentuale dei militanti politici coinvolti in tali massacri.

Dopo l'articolo pubblicato sulla «Pravda» del 28 agosto 1919, in cui Lenin criticava di nuovo gli S.R. e i menscevichi, «complici e lacchè dei Bianchi, dei proprietari terrieri e dei capitalisti», vi fu una seconda ondata di arresti. Secondo le fonti della Ceka, negli ultimi quattro mesi del 1919 furono arrestati 2380 fra socialisti rivoluzionari e menscevichi. Il 23 maggio 1920, durante un comizio organizzato dal sindacato dei tipografi in onore di una delegazione operaia inglese, il dirigente socialista rivoluzionario Viktor Cernov, che era stato presidente per un giorno della disciolta Assemblea costituente e veniva ricercato attivamente dalla polizia politica, prese la parola, travestito e sotto falso nome, mettendo in ridicolo la Ceka e il governo: in seguito a questo episodio la repressione contro i militanti socialisti riprese a pieno ritmo. Tutta la famiglia di Cernov fu presa in ostaggio e i dirigenti socialisti rivoluzionari ancora liberi vennero gettati in prigione. Nell'estate del 1920, dopo essere stati debitamente schedati, furono arrestati e incarcerati come ostaggi oltre 2000 militanti socialisti rivoluzionari e menscevichi. Un documento interno della Ceka, datato primo luglio 1920, spiegava con raro cinismo le linee generali dell'azione da seguire contro gli oppositori socialisti:

"Invece di mettere fuori legge tali partiti, facendoli piombare in una clandestinità che potrebbe essere difficile controllare, è assai preferibile mantenerli in una condizione di semilegalità. Infatti in questo modo è più agevole averli a portata di mano per estrarne, quando è necessario, fomentatori di sommosse, rinnegati e altri utili informatori.... Con questi partiti antisovietici bisogna approfittare assolutamente della situazione bellica attuale, per imputare ai loro membri crimini quali l'«attività controrivoluzionaria», l'«alto tradimento», la «disorganizzazione delle retrovie», lo «spionaggio a favore di una potenza straniera interventista» eccetera.

Uno degli aspetti della repressione celati con maggior cura dal nuovo regime fu la violenza esercitata contro il mondo operaio, in nome del quale i bolscevichi avevano preso il potere. Questa repressione, incominciata nel 1918, crebbe nel 1919 e nel 1920, e culminò nella primavera del 1921 con il famosissimo episodio di Kronstadt. Già all'inizio del 1918 la classe operaia di Pietrogrado aveva incominciato a manifestare la propria diffidenza verso i bolscevichi. Nell'ex capitale, dopo il fallimento dello sciopero generale del 2 luglio 1918, le sommosse scoppiarono con rinnovata intensità nel marzo del 1919, quando i bolscevichi arrestarono un certo numero di dirigenti socialisti rivoluzionari, fra cui Marija Spiridonova, che aveva appena concluso un giro memorabile delle

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principali fabbriche di Pietrogrado, ricevendo ovunque entusiastici consensi. In una congiuntura già estremamente tesa per le difficoltà di approvvigionamento, gli arresti causarono scioperi e un vasto movimento di protesta. Il 10 marzo 1919 l'assemblea generale degli operai delle officine Putilov alla presenza di 10 mila partecipanti approvò una dichiarazione di condanna solenne dei bolscevichi: «Questo governo non è nulla più di una dittatura del Comitato centrale del Partito comunista, che governa con l'aiuto della Ceka e dei tribunali rivoluzionari».

Nella dichiarazione si chiedeva il trasferimento di tutto il potere ai soviet, lo svolgimento di libere elezioni per i soviet e i comitati di fabbrica, la soppressione delle limitazioni sulla quantità di cibo che gli operai erano autorizzati a portare a Pietrogrado dalla campagna (1 pud e mezzo, ovvero 24 chilogrammi), il rilascio di tutti i prigionieri politici degli «autentici partiti rivoluzionari», e in particolare di Marija Spiridonova. Per tentare di frenare un movimento che si diffondeva ogni giorno di più, il 12 e 13 marzo 1919 Lenin si recò personalmente a Pietrogrado. Ma quando tentò di prendere la parola nelle fabbriche in sciopero occupate dagli operai, fu schernito insieme a Zinov'ev al grido di «Abbasso gli ebrei e i commissari!». L'antisemitismo popolare latente, sempre pronto a riaffiorare, associò immediatamente ebrei e bolscevichi non appena questi ultimi persero il credito di cui avevano momentaneamente goduto subito dopo la rivoluzione dell'ottobre del 1917. Il fatto che i dirigenti bolscevichi più noti fossero in buona parte ebrei (Trotsky, Zinov'ev, Kamenev, Rykov, Radek eccetera) giustificava agli occhi delle masse questa associazione bolscevichi-ebrei.

Il 16 marzo 1919 i distaccamenti della Ceka assaltarono le officine Putilov, difese con le armi in pugno. Furono arrestati circa 900 operai. Durante i giorni successivi, nella fortezza di Shlussel'burg, a una cinquantina di chilometri da Pietrogrado, ne furono giustiziati senza processo quasi 200. Gli scioperanti, tutti licenziati, vennero riassunti seguendo un nuovo rituale: dovevano firmare una dichiarazione in cui riconoscevano di essere stati ingannati e «indotti al crimine» da sobillatori controrivoluzionari. Ormai gli operai dovevano essere tenuti sotto stretta sorveglianza. A partire dalla primavera del 1919 la divisione segreta della Ceka creò in un certo numero di centri operai una rete di informatori incaricati di riferire regolarmente sullo «stato d'animo» in questa o quella fabbrica. Classi lavoratrici, classi pericolose...

La primavera del 1919 fu segnata da numerosissimi scioperi, sedati con brutalità in molti centri operai della Russia: a Tula, Sormovo, Orel, Brjansk, Tver', Ivanovo-Voznesensk, Astrakhan. Le rivendicazioni operaie erano identiche quasi dappertutto. Gli scioperanti, ridotti alla fame dai miseri salari appena sufficienti per coprire il prezzo di una carta annonaria che garantiva 250 grammi di pane al giorno, reclamavano per prima cosa che le loro razioni fossero parificate a quelle dei soldati dell'Armata rossa. Ma avanzavano anche e soprattutto richieste politiche: soppressione dei privilegi per i comunisti, rilascio di tutti i prigionieri politici, libere elezioni per i comitati di fabbrica e i soviet, cessazione della coscrizione nell'Armata rossa, libertà di associazione, di espressione, di stampa eccetera.

I bolscevichi consideravano pericolosi questi movimenti, perché spesso le unità militari acquartierate nelle città operaie vi aderivano. A Orel, Brjansk, Gomel', Astrakhan i soldati ammutinati si unirono agli scioperanti al grido «Morte ai giudei, abbasso i commissari bolscevichi!», occupando e saccheggiando interi settori delle città, che furono riconquistati dalle squadre regolari della Ceka e dalle truppe rimaste fedeli al regime solo dopo diversi giorni di combattimento. La repressione degli scioperi e degli ammutinamenti assunse diverse forme. Andò dalla serrata in massa di tutte le fabbriche, con confisca delle tessere annonarie - una delle armi più efficaci del potere bolscevico era la fame - fino all'esecuzione in massa di centinaia di scioperanti e ammutinati. Fra gli episodi di repressione più significativi spiccano quelli avvenuti a Tula e ad Astrakhan nel periodo marzo-aprile 1919. Il 3 aprile 1919 Dzerzinskij si recò personalmente a Tula, capitale storica della produzione di armi della Russia, per liquidare lo sciopero degli operai delle fabbriche

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di armamenti. Durante l'inverno 1918-1919 queste fabbriche, di importanza vitale per l'Armata rossa - vi si produceva l'80 per cento dei fucili russi -, erano già state teatro di interruzioni del lavoro e di scioperi. Fra i militanti politici di questo ambiente operaio altamente qualificato i menscevichi e i socialisti rivoluzionari erano nettamente maggioritari. All'inizio di marzo del 1919 l'arresto di centinaia di militanti socialisti suscitò un'ondata di proteste, che il 27 marzo culminarono in un'immensa «marcia per la libertà e contro la fame» cui parteciparono migliaia di operai e di ferrovieri. Il 4 aprile Dzerzinskij ordinò l'arresto di altri 800 «sobillatori» e fece evacuare con la forza le fabbriche, che da parecchie settimane erano occupate dagli scioperanti. Tutti gli operai furono licenziati. La resistenza operaia fu spezzata con l'arma della fame. Le tessere annonarie non valevano più da molte settimane e, per ottenere tessere nuove, che dessero diritto a 250 grammi di pane, e riavere il lavoro dopo la serrata generale, gli operai dovettero firmare una domanda di assunzione in cui si stabiliva in particolare che da quel momento qualsiasi interruzione del lavoro sarebbe stata considerata una diserzione punibile con la pena di morte. Il 10 aprile la produzione riprese. Il giorno prima erano stati passati per le armi 26 «sobillatori».

Nella primavera del 1919 la città di Astrakhan, vicina alla foce del Volga, aveva un'importanza strategica del tutto particolare: costituiva l'ultima barriera bolscevica che impediva alle truppe dell'ammiraglio Kolciak, situate a nordest, di congiungersi con quelle del generale Denikin a sudovest. Si deve certo a questa circostanza eccezionale la violenza straordinaria con cui nel marzo del 1919 fu represso lo sciopero degli operai della città. Lo sciopero, incominciato all'inizio di marzo per ragioni economiche (le quote di razionamento molto basse) e politiche (l'arresto di militanti socialisti) degenerò il 10 marzo, quando il 45simo reggimento di fanteria rifiutò di aprire il fuoco sugli operai che sfilavano nel centro cittadino. I soldati si unirono agli operai, e insieme saccheggiarono la sede del partito bolscevico, uccidendone diversi responsabili. Sergej Kirov, presidente del Comitato militare rivoluzionario della regione, ordinò allora di «sterminare senza pietà con ogni mezzo quei pidocchi delle Guardie bianche». Prima di intraprendere metodicamente la riconquista della città, le truppe rimaste fedeli al regime e i distaccamenti della Ceka ne bloccarono tutte le vie di accesso. Quando le prigioni furono sul punto di scoppiare, centinaia di ammutinati e scioperanti vennero imbarcati su chiatte e gettati nel Volga con una pietra al collo. Fra il 12 e il 14 marzo furono fucilati o annegati da 2000 a 4000 fra operai in sciopero e ammutinati. A partire dal 15 marzo la repressione si abbatté sui «borghesi» della città, con il pretesto che avevano «ispirato» il complotto della «Guardia bianca», di cui operai e soldati sarebbero stati solo le pedine. Per due giorni le ricche dimore dei commercianti di Astrakhan furono abbandonate al saccheggio e i loro proprietari arrestati e fucilati. Le incerte valutazioni sul numero delle vittime «borghesi» dei massacri di Astrakhan oscillano fra 600 e 1000 persone. In totale, nel giro di una settimana, furono giustiziate o annegate da 3000 a 5000 persone. I comunisti uccisi furono 47: vennero sepolti in pompa magna il 18 marzo, anniversario della Comune di Parigi, come fecero osservare le autorità. Alla luce dei documenti d'archivio disponibili, la strage di Astrakhan, considerata per molto tempo soltanto un episodio della guerra fra Rossi e Bianchi, rivela oggi la sua vera natura: il più grande massacro di operai compiuto dal potere bolscevico prima di quello di Kronstadt.

Alla fine del 1919 e all'inizio del 1920 i rapporti fra potere bolscevico e mondo operaio si deteriorarono ulteriormente in seguito alla militarizzazione di oltre duemila imprese. Il principale promotore della militarizzazione del lavoro, Lev Trotsky, espose le sue idee sull'argomento al Nono Congresso del Partito, svoltosi nel marzo del 1920. L'uomo è naturalmente portato alla pigrizia, spiegò Trotsky. Nel mondo capitalista gli operai devono cercare lavoro per sopravvivere. E' il mercato capitalista che pungola il lavoratore. Nel regime socialista «l'impiego delle risorse di lavoro sostituisce il mercato». Lo Stato ha dunque il compito di indirizzare, influenzare, inquadrare il lavoratore, che deve obbedire come un soldato allo Stato operaio, difensore degli interessi del proletariato. Questo era il senso, queste le basi della militarizzazione del lavoro, vivamente criticata da una minoranza di sindacalisti e dirigenti bolscevichi; in pratica significava divieto di sciopero,

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equiparato alla diserzione in tempo di guerra, inasprimento della disciplina e aumento dei poteri della dirigenza, completa subordinazione dei sindacati e dei comitati di fabbrica - il cui ruolo si limitava ormai ad attuare la politica incentrata sulla produttività -, divieto per gli operai di lasciare il posto di lavoro, punizioni per l'assenteismo e i ritardi, assai numerosi in quel periodo perché gli operai dovevano procurarsi il cibo la cui ricerca era sempre problematica.

Al malcontento suscitato nel mondo del lavoro dalla militarizzazione si aggiungevano le difficoltà crescenti della vita quotidiana. Lo ammetteva anche un rapporto della Ceka inviato al governo il 6 dicembre 1919: «In questi ultimi tempi la crisi negli approvvigionamenti ha continuato ad aggravarsi. Le masse operaie sono attanagliate dalla fame. Gli operai non hanno più la forza fisica per continuare a lavorare, e si assentano sempre più spesso per gli effetti congiunti del freddo e della fame. Se non si risolve in tempi brevissimi la questione degli approvvigionamenti, in tutta una serie di industrie metallurgiche di Mosca le masse disperate sono pronte a tutto, sciopero, ammutinamento, insurrezione».

All'inizio del 1920 il salario degli operai a Pietrogrado andava da 7000 a 12 mila rubli al mese. Oltre a questo salario di base insignificante - al mercato libero mezzo chilo di burro costava 5000 rubli, la stessa quantità di carne 3000, un litro di latte 750 rubli! - ogni lavoratore aveva diritto a una certa quantità di prodotti al giorno, secondo la categoria in cui era classificato. Alla fine del 1919, a Pietrogrado, un lavoratore manuale aveva diritto a circa due etti e mezzo di pane al giorno, mezzo chilo di zucchero al mese, due etti e mezzo di materie grasse, due chili di aringhe in salamoia. In teoria, i cittadini erano classificati in cinque categorie di «stomaci», dai lavoratori manuali e i soldati dell'Armata rossa fino agli «sfaccendati» - categoria in cui rientravano gli intellettuali, particolarmente sfavoriti - con «razioni di classe» decrescenti. In realtà il sistema era ancora più ingiusto e complesso. I più sfavoriti - «sfaccendati», intellettuali, «ex aristocratici» -, gli ultimi a essere serviti, spesso non ricevevano niente di niente. Quanto ai «lavoratori», in realtà erano divisi in una miriade di categorie, secondo una gerarchia di priorità in cui venivano privilegiati i settori essenziali per la sopravvivenza del regime. Nell'inverno 1919- 1920 a Pietrogrado esistevano 33 categorie di tessere annonarie, la cui validità non superava mai il periodo di un mese! Nel sistema di vettovagliamento centralizzato istituito dai bolscevichi, l'arma alimentare aveva una funzione importante per stimolare o punire determinate categorie di cittadini.

«La razione di pane deve essere ridotta per quelli che non lavorano nel settore dei trasporti, oggi decisivo, e aumentata per quelli che vi lavorano» scrisse Lenin a Trotsky il primo febbraio 1920. «Muoiano pure migliaia di persone, se è necessario, ma il paese deve essere salvato».

Di fronte a una tale politica, chi aveva mantenuto dei legami con la campagna, ed erano in molti, tornava appena possibile al villaggio d'origine in cerca di cibo.

Le misure di militarizzazione del lavoro, destinate a «riportare l'ordine» nelle fabbriche, non provocarono l'effetto previsto; anzi, diedero luogo a svariate sospensioni e interruzioni del lavoro, scioperi e ammutinamenti, che furono soffocati senza pietà. Sulla «Pravda» del 12 febbraio 1920 si poteva leggere: «Il posto migliore per lo scioperante, questa zanzara gialla e nociva, è il campo di concentramento!». Secondo le statistiche ufficiali del commissariato del popolo per il Lavoro, nel primo semestre del 1920 si verificarono scioperi nel 77 per cento delle grandi e medie imprese industriali della Russia. E' significativo che i settori più turbolenti - metallurgia, miniere e ferrovie - fossero quelli in cui la militarizzazione del lavoro era più avanzata. I rapporti inviati ai dirigenti bolscevichi dalla divisione segreta della Ceka gettano una luce cruda sulla repressione esercitata contro gli operai refrattari alla militarizzazione: quando venivano arrestati, molto spesso erano processati da un tribunale rivoluzionario per «sabotaggio» o «diserzione». A Simbirsk, giusto per fare un esempio, nell'aprile del 1920 dodici operai della fabbrica di armamenti furono condannati ai

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lavori forzati per «aver compiuto sabotaggio in forma di sciopero all'italiana ... aver diffuso propaganda contro il potere sovietico approfittando delle superstizioni religiose e della scarsa politicizzazione delle masse ... aver dato un'interpretazione falsa della politica sovietica in materia di salari». Decifrando l'astruso gergo politico si deduce che gli accusati avevano fatto pause non autorizzate dalla direzione, protestato contro l'obbligo di lavorare la domenica, criticato i privilegi dei comunisti e denunciato i salari da fame.

I massimi dirigenti del Partito, fra cui Lenin, invocavano una repressione esemplare degli scioperi. Il 29 gennaio 1920, inquieto per il dilagare dei movimenti operai negli Urali, Lenin telegrafò a Smirnov, capo del Consiglio militare rivoluzionario della Quinta Armata: «P. mi ha riferito che da parte dei ferrovieri c'è sabotaggio manifesto.... Mi dicono che sono della partita anche gli operai di Izevsk. Sono stupito che siate tanto accomodanti e che non procediate a esecuzioni in massa per sabotaggio». Nel 1920 la militarizzazione del lavoro provocò molti scioperi; a Ekaterinburg, nel marzo del 1920, 80 operai furono arrestati e condannati all'internamento nei campi; sulla linea ferroviaria Rjazan'-Ural, nell'aprile del 1920, furono condannati 100 ferrovieri; sulla linea Mosca-Kursk nel maggio del 1920 ne furono condannati 160; nella fabbrica metallurgica di Brjansk nel giugno del 1920 furono condannati 152 operai. Ci sono moltissimi esempi simili di scioperi repressi duramente nel quadro della militarizzazione del lavoro.

Uno dei più notevoli, nel giugno del 1920, fu quello delle manifatture d'armi di Tula, punto nevralgico della protesta operaia contro il regime, benché già provato molto duramente nell'aprile del 1919. La domenica del 6 giugno 1920 un certo numero di operai metallurgici rifiutò di fare le ore di straordinario richieste dalla direzione. Le operaie invece rifiutarono di lavorare la domenica, in quel caso specifico e in generale, spiegando che era l'unico giorno in cui potevano andare a fare provviste nelle campagne circostanti. Gli scioperanti vennero arrestati da un nutrito distaccamento di cekisti che era stato chiamato dall'amministrazione. Fu decretata la legge marziale, e una trojka composta dai rappresentanti del Partito e della Ceka ricevette l'incarico di denunciare la «cospirazione controrivoluzionaria fomentata dagli spioni polacchi e dalle Centurie nere allo scopo di indebolire la potenza combattente dell'Armata rossa».

Mentre lo sciopero si diffondeva e gli arresti dei «sobillatori» si intensificavano, un fatto nuovo venne a turbare l'andamento abituale delle vicende: centinaia, poi migliaia di operaie e semplici massaie si presentarono alla Ceka chiedendo di essere arrestate anche loro. Il movimento si estese, e anche gli operai pretesero di essere arrestati in massa, per rendere assurda la tesi di un «complotto dei polacchi e delle Centurie nere». In quattro giorni oltre 10 mila persone furono incarcerate, o meglio sistemate in un vasto spazio all'aperto sorvegliato da cekisti. Le organizzazioni locali del Partito e della Ceka rimasero sul momento spiazzate, perché non sapevano come presentare gli avvenimenti a Mosca; ma poi riuscirono a convincere le autorità centrali dell'esistenza di una vasta cospirazione. Migliaia di operaie e operai furono interrogati dal Comitato di liquidazione della cospirazione di Tula, che sperava di trovare dei responsabili. Per essere liberati, riassunti e poter ottenere una nuova carta annonaria, tutti i lavoratori arrestati dovettero firmare la seguente dichiarazione: «Io sottoscritto, cane puzzolente e criminale, mi pento davanti al Tribunale rivoluzionario e all'Armata rossa, confesso i miei peccati e prometto di lavorare coscienziosamente». Contrariamente ad altri movimenti di protesta operaia, i disordini di Tula dell'estate del 1920 si risolsero con sentenze assai lievi: 28 persone furono condannate ai lavori forzati e 200 esiliate. In una situazione in cui mancava la manodopera altamente qualificata, il potere bolscevico non poteva certo fare a meno delle migliori fabbriche di armamenti del paese. La repressione, come il vettovagliamento, doveva tener conto dei settori determinanti e degli interessi superiori del regime.

Per quanto importante fosse il «fronte operaio» sotto l'aspetto simbolico e strategico, esso rappresentava soltanto una minima parte degli impegni del regime sugli innumerevoli «fronti

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interni» della guerra civile. Tutte le energie erano assorbite dalla lotta contro i contadini, soprannominati «Verdi», che si opponevano alle requisizioni e alla coscrizione militare. I rapporti attualmente accessibili delle divisioni speciali della Ceka e delle Truppe di difesa interna della Repubblica, incaricate di lottare contro gli ammutinamenti, le diserzioni e le sommosse contadine, rivelano in tutto il suo orrore la straordinaria violenza di questa «sporca guerra» di pacificazione condotta a margine dei combattimenti fra Rossi e Bianchi. Fu proprio nello scontro cruciale fra il potere bolscevico e la classe contadina che trovò la sua forma definitiva la prassi politica del Terrore, basata su una visione radicalmente pessimista delle masse «cieche e ignoranti al punto da non essere nemmeno in grado di capire quale sia il loro interesse», come scriveva Dzerzinskij. Queste masse bestiali potevano essere domate solo con la forza, con la «scopa di ferro» evocata metaforicamente da Trotsky per spiegare come andava attuata la repressione per «ripulire» l'Ucraina dalle «bande di banditi» al comando di Nestor Mahno e di altri condottieri contadini. Le sommosse contadine erano cominciate nell'estate del 1918. Si diffusero ulteriormente fra il 1919 e il 1920, e culminarono nell'inverno 1920-1921, costringendo il regime bolscevico ad arretrare.

I contadini avevano due ragioni immediate per ribellarsi: le requisizioni e la coscrizione nell'Armata rossa. Nel gennaio del 1919 la disordinata ricerca di eccedenze agricole, che dall'estate del 1918 caratterizzava le prime operazioni, fu sostituita da un sistema di requisizioni centralizzato e pianificato. Ogni provincia, ogni distretto, ogni circoscrizione, ogni comunità contadina doveva consegnare allo Stato una quota prestabilita in rapporto ai raccolti previsti. Tali quote non si limitavano ai cereali, ma comprendevano una ventina di prodotti molto diversi fra loro: patate, miele, uova, burro, semi oleosi, carne, panna, latte eccetera. Ogni comunità di villaggio era responsabile in solido della raccolta. Solo quando tutto il villaggio aveva completato le sue quote, le autorità distribuivano le ricevute con cui era possibile acquistare manufatti, in quantità nettamente inferiore alle esigenze, che alla fine del 1920 venivano soddisfatte solo al 15 per cento. Per quanto riguarda il pagamento dell'ammasso agricolo, questo veniva effettuato a prezzi simbolici, poiché alla fine del 1920 il rublo aveva perso il 96 per cento del proprio valore rispetto al rublo oro. Dal 1918 al 1920 le requisizioni di cereali triplicarono. Il numero delle rivolte contadine, difficile da calcolare con precisione, aumentò almeno altrettanto.

Dopo tre anni sui fronti e nelle trincee della «guerra imperialista», il rifiuto alla coscrizione nell'Armata rossa costituiva il secondo motivo delle rivolte contadine. Il più delle volte, infatti, a insorgere erano i Verdi, i disertori che si nascondevano nelle foreste. Si calcola che negli anni 1919-1920 il numero dei disertori superasse i 3 milioni. Nel 1919 i vari distaccamenti della Ceka e le Commissioni speciali di lotta contro i disertori ne arrestarono circa 500 mila; nel 1920, da 700 mila a 800 mila. Ciò nonostante, riuscirono a sottrarsi alle ricerche quasi 2 milioni di disertori, per la stragrande maggioranza contadini che conoscevano bene il territorio.

Vista la portata del problema, il governo adottò misure repressive sempre più severe. Migliaia di disertori furono fucilati e i loro familiari trattati come ostaggi. La prassi di prendere ostaggi in realtà veniva comunemente applicata già dall'estate del 1918. Lo attesta, per esempio, il decreto governativo firmato da Lenin il 15 febbraio 1919, che ingiungeva alle Ceka locali di prendere ostaggi fra i contadini nelle località in cui le corvée di sgombero della neve dalle linee ferroviarie non erano state eseguite in modo soddisfacente: «Se lo sgombero non viene eseguito, gli ostaggi saranno passati per le armi». Il 12 maggio 1920 Lenin inviò le seguenti istruzioni a tutte le Commissioni provinciali di lotta contro i disertori: «Una volta scaduto il termine di sette giorni accordato ai disertori per arrendersi e ottenere la grazia, bisogna inasprire ulteriormente le sanzioni per questi incorreggibili traditori del popolo lavoratore. I familiari e tutti quelli che aiutano in qualunque modo i disertori saranno considerati ostaggi e trattati di conseguenza». Questo decreto si limitava a legalizzare la prassi quotidiana. Tuttavia il numero delle diserzioni non si ridusse affatto. Nel 1920 e nel 1921, come nel 1919, i disertori costituivano il grosso dei partigiani verdi, contro cui

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i bolscevichi condussero per tre anni (e in alcune regioni anche per quattro o cinque) una guerra spietata di inaudita crudeltà.

Oltre a opporsi alle requisizioni e alla coscrizione, i contadini rifiutavano più in generale qualsiasi intrusione di un potere che sentivano estraneo, il potere dei «comunisti» provenienti dalla città. In fondo al cuore molti contadini consideravano i comunisti che praticavano le requisizioni diversi dai «bolscevichi» che avevano incoraggiato la rivoluzione agraria del 1917. Nelle campagne, sottomesse ora alla soldatesca bianca ora alle squadre di requisizione rosse, regnavano incontrastate la confusione e la violenza.

I rapporti dei vari dipartimenti della Ceka incaricati della repressione, che costituiscono una fonte eccezionale per comprendere le molteplici sfaccettature del movimento armato contadino, distinguono le sommosse contadine in due tipi principali: il "bunt", una rivolta circoscritta, una breve fiammata di violenza in cui era coinvolto un numero relativamente ristretto di partecipanti, da alcune decine a un centinaio; e la "vosstanie", l'insurrezione che comportava la partecipazione di migliaia, o persino di decine di migliaia di contadini, organizzati in veri e propri eserciti capaci di impadronirsi di borghi e città, e dotati di un programma politico coerente, a tendenza socialista rivoluzionaria o anarchica.

"30 aprile 1919. Provincia di Tambov. All'inizio di aprile, nel distretto Lebjadanskij è scoppiata una sommossa di kulak e di disertori che protestavano contro la mobilitazione degli uomini e dei cavalli, e contro la requisizione dei cereali. Al grido di «Abbasso i comunisti! Abbasso i soviet!» gli insorti armati hanno messo a sacco quattro Comitati esecutivi di circoscrizione e ucciso barbaramente sette comunisti, segandoli vivi. Il 212esimo battaglione della Ceka, chiamato in soccorso dai membri della squadra di requisizione, ha annientato i kulak ribelli. Sono state arrestate 60 persone, 50 giustiziate sul posto, e il villaggio da cui è partita la ribellione è stato interamente bruciato.

Provincia di Voronez, 11 giugno 1919, ore 16.15. Dispaccio telegrafico. La situazione migliora. La rivolta del distretto di Novohopersk in pratica è liquidata. Il nostro aeroplano ha bombardato e bruciato interamente il borgo Tret'jaki, uno dei covi principali dei banditi. Le operazioni di rastrellamento proseguono. Provincia di Jaroslavl', 23 giugno 1919. La rivolta dei disertori nella volost' Petropavlovskaja è stata liquidata. Le famiglie dei disertori sono state prese in ostaggio. Quando abbiamo iniziato a fucilare un uomo in ogni famiglia di disertori, i Verdi hanno incominciato a uscire dal bosco e ad arrendersi: 34 disertori sono stati fucilati per dare l'esempio".

***

Migliaia di rapporti analoghi attestano la straordinaria violenza di questa «guerra di pacificazione» condotta dalle autorità contro la resistenza contadina, cui partecipavano soprattutto disertori ma il più delle volte definita «rivolta di kulak» o «insurrezione di banditi». I tre estratti citati espongono i sistemi di repressione utilizzati più di frequente: arresto ed esecuzione di ostaggi prelevati nelle famiglie dei disertori o dei «banditi», villaggi bombardati e bruciati. La repressione cieca e sproporzionata si basava sul principio della responsabilità collettiva della comunità del villaggio. In generale, le autorità concedevano un termine entro il quale i disertori dovevano arrendersi. Dopo la scadenza il disertore era considerato un «bandito delle foreste», passibile di esecuzione immediata. D'altronde, i comunicati delle autorità civili e militari precisavano: «Se gli abitanti di un villaggio aiutano in qualsiasi modo banditi che si nascondono nelle foreste limitrofe, il villaggio sarà dato alle fiamme».

Alcuni rapporti riassuntivi della Ceka riportano le cifre relative all'entità di questa guerra di pacificazione delle campagne. Per esempio nel periodo 15 ottobre - 30 novembre 1918, solo in 12

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province della Russia scoppiarono 44 sommosse ("bunt"), nel corso delle quali furono arrestate 2320 persone, 620 furono uccise e 982 fucilate. Durante i disordini rimasero uccisi 480 funzionari sovietici, oltre a 112 uomini delle squadre di vettovagliamento, di unità dell'Armata rossa e della Ceka. Nel settembre del 1919, nelle 10 province russe per le quali disponiamo di informazioni sintetiche, 48735 disertori e 7325 «banditi» vennero arrestati, 1826 uccisi, 2230 fucilati, e vi furono 430 vittime fra funzionari e militari sovietici. Queste cifre molto parziali non tengono conto delle perdite, ben più ingenti, subite durante le grandi insurrezioni contadine. Tali insurrezioni ebbero svariati momenti di punta: marzo-agosto 1919, in particolare nelle regioni del Medio Volga e dell'Ucraina; febbraio- agosto 1920, nelle province di Samara, Ufa, Kazan', Tambov, e di nuovo nell'Ucraina riconquistata ai Bianchi dai bolscevichi, ma sempre controllata, nelle zone interne, da gruppi di contadini armati. Alla fine del 1920 e per tutta la prima metà del 1921 il movimento contadino, malridotto in Ucraina e nelle regioni del Don e del Kuban', raggiunse in Russia l'apogeo con un'immensa rivolta rurale che ebbe il suo epicentro nelle province di Tambov, Penza, Samara, Saratov, Simbirsk, Caricynì. L'incendio della guerra contadina si spense solo con l'arrivo di una delle carestie più terribili del ventesimo secolo.

Nel marzo del 1919, nelle ricche province di Samara e Simbirsk, che in quell'anno dovevano sopperire da sole a quasi un quinto delle requisizioni di cereali in Russia, per la prima volta dalla nascita del regime bolscevico le sommosse contadine locali si trasformarono in un'insurrezione vera e propria. Decine di borghi furono conquistati da un esercito insurrezionale contadino che arrivò a contare fino a 30 mila uomini armati. Per quasi un mese il potere bolscevico perse il controllo della provincia di Samara. Questa ribellione favorì l'avanzata verso il Volga delle unità dell'Armata bianca comandate dall'ammiraglio Kolciak; infatti i bolscevichi erano stati costretti a inviare parecchie decine di migliaia di uomini contro un esercito contadino piuttosto ben organizzato e con un programma politico coerente, che chiedeva la fine delle requisizioni, libertà di commercio, libere elezioni dei soviet, fine della «commissariocrazia bolscevica». All'inizio di aprile del 1919, tracciando un bilancio della liquidazione delle insurrezioni contadine nella provincia, il capo della Ceka di Samara riferiva di 4240 persone uccise fra gli insorti, 625 fucilate, 6210 disertori e banditi arrestati.

Il fuoco era momentaneamente spento nella provincia di Samara, e subito riprendeva con un vigore senza precedenti nella maggior parte dell'Ucraina. Il governo bolscevico aveva deciso di riconquistare l'Ucraina fin dal 1918, alla partenza di tedeschi e austro-ungarici. Era la regione agricola più ricca dell'ex impero zarista, e doveva «nutrire il proletariato di Mosca e di Pietrogrado». Le quote di requisizione erano qui ancora più elevate che altrove. Consegnarle significava condannare alla fame certa migliaia di villaggi, già spremuti per tutto il 1918 dagli eserciti di occupazione tedeschi e austro-ungarici. Inoltre, in Ucraina i bolscevichi non intendevano seguire la linea che avevano dovuto applicare in Russia alla fine del 1917, dividendo le terre fra le comunità contadine, ma volevano nazionalizzare tutte le grandi proprietà terriere, le più moderne dell'ex impero. Inevitabilmente questa politica, che mirava a trasformare vasti territori cerealicoli e di produzione zuccheriera in grandi proprietà collettive in cui i coltivatori sarebbero diventati operai agricoli, suscitava il malcontento fra i contadini. Questi ultimi si erano agguerriti lottando contro le forze di occupazione tedesche e austro-ungariche. All'inizio del 1919 in Ucraina esistevano veri e propri eserciti contadini comandati da capi militari e politici ucraini, come Sem‰n Petlura, Nestor Mahno, Grigor'ev o Zelenyj. Questi eserciti contadini erano fermamente decisi a far trionfare la propria concezione della rivoluzione agraria: la terra ai contadini, libertà di commercio, soviet liberamente eletti «senza moscoviti né ebrei». Per la maggior parte della classe rurale dell'Ucraina, che aveva alle spalle una lunga tradizione di antagonismo fra le campagne popolate soprattutto di ucraini e le città abitate per la maggior parte da russi e da ebrei, l'equazione era allettante e semplice: moscoviti = bolscevichi = ebrei. Andavano tutti cacciati via dall'Ucraina.

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Tali caratteristiche spiegano la brutalità e la durata degli scontri fra i bolscevichi e una larga parte della classe contadina ucraina. La presenza di un altro fattore, i Bianchi, osteggiati sia dai bolscevichi sia dagli svariati eserciti contadini ucraini, che non volevano il ritorno dei grandi proprietari, rendeva ancor più complessa la situazione politica e militare della regione, dove alcune città, come Kiev, cambiarono padrone anche quattordici volte nel giro di due anni.

Le prime grandi rivolte contro i bolscevichi e le loro odiate squadre di requisizione scoppiarono nell'aprile del 1919. In un solo mese nelle province di Kiev, Cernigov, Poltava e Odessa si verificarono 93 rivolte contadine. Secondo i dati ufficiali della Ceka, nei primi venti giorni di luglio del 1919 si verificarono 210 insurrezioni, in cui furono coinvolti oltre 100 mila combattenti armati e molte centinaia di migliaia di contadini. Fra l'aprile e il maggio del 1919 l'esercito contadino di Grigor'ev - quasi 20 mila uomini armati, fra cui molte unità ammutinate dell'Armata rossa, con 50 cannoni e 700 mitragliatrici - conquistò tutta una serie di città dell'Ucraina meridionale, fra cui Cerkassy, Herson, Nikolaev e Odessa, istituendo un potere autonomo con parole d'ordine inequivocabili: «Tutto il potere ai soviet del popolo ucraino!», «L'Ucraina agli ucraini, senza bolscevichi né ebrei!», «Ripartizione delle terre!», «Libertà d'impresa e di commercio!». I partigiani di Zelenyj, quasi 20 mila uomini armati, controllavano tutta la provincia di Kiev, a parte le città principali. Al grido «Viva il potere sovietico, abbasso i bolscevichi e i giudei!» organizzarono decine di cruenti pogrom contro le comunità ebraiche dei borghi e delle piccole città delle province di Kiev e di Cernigov. Più nota è l'azione di Nestor Mahno, che è stata oggetto di molti studi. Mahno guidava un esercito contadino di decine di migliaia di uomini e proponeva un programma insieme nazionale, sociale e anarchicheggiante, elaborato durante veri e propri congressi, come il Congresso dei delegati contadini, dei ribelli e degli operai di Guljajpole, svoltosi nell'aprile del 1919 nel cuore stesso dell'insurrezione mahnovista. Come molti altri movimenti meno strutturati, i mahnovisti esprimevano innanzi tutto l'opposizione a qualsiasi ingerenza dello Stato nelle questioni contadine e l'aspirazione a un autogoverno della classe rurale, una sorta di autogestione basata su soviet liberamente eletti. A queste rivendicazioni di base si aggiungeva un certo numero di richieste comuni a tutti i movimenti contadini: fine delle requisizioni, soppressione delle tasse e delle imposte, libertà per tutti i partiti socialisti e i gruppi anarchici, ripartizione delle terre, cessazione della «commissariocrazia bolscevica» e scioglimento delle truppe speciali e della Ceka.

Le centinaia di insurrezioni contadine scoppiate nelle retrovie dell'Armata rossa fra la primavera e l'estate del 1919 contribuirono in modo determinante alla vittoria senza futuro delle truppe bianche del generale Denikin. L'Armata bianca, che era partita dall'Ucraina meridionale il 19 maggio 1919, avanzò molto rapidamente verso le unità dell'Armata rossa impegnate in operazioni di repressione contro i contadini ribelli. Le truppe di Denikin conquistarono Har'kov il 12 giugno, Kiev il 28 agosto, Voronez il 30 settembre. La ritirata dei bolscevichi, che erano riusciti a stabilire il loro potere solo nelle città più grandi, abbandonando le campagne ai contadini ribelli, fu accompagnata da esecuzioni in massa di prigionieri e di ostaggi, su cui torneremo in seguito. Nella ritirata precipitosa attraverso le zone interne del paese, controllate dai movimenti armati contadini, i distaccamenti dell'Armata rossa e della Ceka non risparmiarono niente e nessuno: centinaia di villaggi bruciati, esecuzioni in massa di «banditi», «disertori», «ostaggi». L'abbandono e poi la riconquista dell'Ucraina, avvenuta tra la fine del 1919 e l'inizio del 1920, diedero luogo a un'orgia di violenza contro la popolazione civile, descritta con cura nel capolavoro di Isaak Babel' "L'armata a cavallo".

All'inizio del 1920 le forze armate dei Bianchi erano tutte sconfitte, a eccezione di alcune unità sparse ai comandi del barone Vrangel', successore di Denikin, che avevano trovato rifugio in Crimea. Restavano a fronteggiarsi le forze bolsceviche e i contadini. Si abbatté così sulle campagne in lotta contro il potere una repressione spietata che sarebbe durata fino al 1922. Nel periodo febbraio-marzo 1920, su un vasto territorio che si estendeva dal Volga agli Urali, nelle province di

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Kazan', Simbirsk e Ufa, scoppiò una nuova grande rivolta, nota come «insurrezione dei forconi». Queste zone, popolate da russi ma anche da tatari e baschiri, erano sottoposte a requisizioni particolarmente pesanti. In poche settimane la ribellione dilagò in una decina di distretti. Al suo apogeo, l'esercito contadino insorto delle «Aquile nere» era costituito da 50 mila combattenti. Le Truppe di difesa interna della Repubblica, fornite di cannoni e mitragliatrici, decimarono i ribelli armati di forche e picconi. Nel giro di qualche giorno, migliaia di insorti furono massacrati e centinaia di villaggi vennero dati alle fiamme.

Dopo il rapido annientamento dell'«insurrezione dei forconi» la fiamma delle rivolte contadine si propagò di nuovo nelle province del Medio Volga, anch'esse sottoposte a forti requisizioni: Tambov, Penza, Samara, Saratov e Caricyn. Per ammissione del dirigente bolscevico Antonov-Ovseenko, che condusse poi la repressione contro i contadini insorti a Tambov, i piani di requisizione del 1920-1921, se attuati, avrebbero condannato i contadini a morte certa: infatti lasciavano loro in media un pud (16 chilogrammi) di cereali e un pud e mezzo di patate a testa per anno, cioè da dieci a dodici volte meno del minimo vitale. Quindi la lotta intrapresa nell'estate del 1920 dai contadini di queste province riguardava la sopravvivenza. Sarebbe durata per due interi anni fino a quando la carestia non ebbe la meglio sulla rivolta contadina.

Nel 1920 il terzo grande teatro di scontri fra i bolscevichi e i contadini restava l'Ucraina, che fra il dicembre del 1919 e il febbraio del 1920 fu strappata alle armate bianche. Le campagne, però, erano ancora sotto il controllo di centinaia di distaccamenti verdi che non avevano vincoli di fedeltà con nessuno e di unità che grosso modo potevano essere considerate agli ordini di Mahno. A differenza delle Aquile nere, i distaccamenti ucraini, composti essenzialmente da disertori, erano ben armati. Durante l'estate del 1920 l'esercito di Mahno era ancora costituito da quasi 15 mila uomini, 2500 cavalieri, un centinaio di mitragliatrici, una ventina di cannoni d'artiglieria e due veicoli blindati. Inoltre esistevano centinaia di «bande» minori, composte da qualche decina o qualche centinaio di combattenti, che opponevano una forte resistenza alla penetrazione bolscevica. Per lottare contro questo movimento armato contadino, all'inizio di maggio del 1920 il governo conferì al capo della Ceka, Feliks Dzerzinskij, il titolo di «comandante in capo delle retrovie del fronte sudoccidentale». Dzerzinskij rimase più di due mesi a Har'kov per istituire 24 unità speciali della forza di Sicurezza interna della Repubblica, unità scelte, dotate di una cavalleria incaricata di inseguire i «ribelli» e di aerei destinati a bombardare i «covi dei banditi». Avevano il compito di sradicare il movimento contadino in tre mesi. In realtà le operazioni di «pacificazione» si prolungarono per oltre due anni, dall'estate del 1920 all'autunno del 1922, e costarono decine di migliaia di vite umane.

***

Un posto a parte fra i diversi episodi della guerra sferrata dal potere bolscevico contro i contadini occupa la «decosacchizzazione», cioè l'eliminazione dei cosacchi del Don e del Kuban' in quanto gruppo sociale. Infatti, per la prima volta il nuovo regime adottò una serie di misure repressive per eliminare, sterminare, deportare, in base al concetto di responsabilità collettiva, tutta la popolazione di un territorio che i dirigenti bolscevichi avevano preso l'abitudine di chiamare «Vandea sovietica». Le operazioni non scaturirono da misure di rappresaglia militare adottate nel pieno dei combattimenti, ma furono pianificate in anticipo: costituirono l'oggetto di molti decreti emanati dai massimi livelli dello Stato e coinvolsero direttamente molti responsabili politici di alto rango (Lenin, Ordzonikidze, Syrcov, Sokolnikov, Rejngol'd). La decosacchizzazione, fallita una prima volta nella primavera del 1919 a causa delle sconfitte militari dei bolscevichi, riprese con rinnovata crudeltà nel 1920, quando i bolscevichi riconquistarono i territori cosacchi del Don e del Kuban'.

I cosacchi, privati dal dicembre del 1917 dello statuto giuridico di cui beneficiavano sotto il vecchio regime, catalogati dai bolscevichi come «kulak» e «nemici di classe», si erano uniti, sotto le insegne

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dell'atamano Krasnov, alle forze bianche costuitesi nella Russia meridionale durante la primavera del 1918. I primi distaccamenti dell'Armata rossa penetrarono nei territori cosacchi del Don solo nel febbraio del 1919, durante l'avanzata generale dei bolscevichi verso l'Ucraina e la Russia meridionale. I bolscevichi adottarono una serie di provvedimenti che eliminarono in un colpo solo tutto ciò che costituiva la specificità cosacca: le terre appartenenti ai cosacchi furono confiscate e ridistribuite a coloni russi o a contadini locali privi dello status di cosacchi; ai cosacchi fu intimato, sotto minaccia di morte, di consegnare le armi (va detto che, essendo tradizionalmente considerati i guardiani dei confini dell'impero russo, tutti i cosacchi erano armati); le assemblee e le circoscrizioni amministrative cosacche furono sciolte. Tutte queste misure facevano parte di un piano prestabilito di decosacchizzazione, esposto in una risoluzione segreta del Comitato centrale del Partito bolscevico datata 24 gennaio 1919: «Tenendo conto dell'esperienza della guerra civile contro i cosacchi, l'unico provvedimento da considerare politicamente corretto è la lotta spietata, il terrore di massa contro i ricchi cosacchi, che dovranno essere sterminati e liquidati fisicamente dal primo all'ultimo».

In realtà, come ammise nel giugno del 1919 lo stesso Rejngol'd, presidente del Comitato rivoluzionario del Don, incaricato di imporre l'«ordine bolscevico» nei territori cosacchi, «tendenzialmente abbiamo praticato una politica di sterminio di massa di tutti i cosacchi senza alcuna distinzione». In poche settimane, da metà febbraio a metà marzo del 1919, i distaccamenti bolscevichi avevano giustiziato oltre 8000 cosacchi. In ogni "stanica" (insediamento cosacco) i tribunali rivoluzionari procedevano in pochi minuti a giudizi sommari dei sospetti in lista, di solito tutti condannati alla pena capitale per «comportamento controrivoluzionario». Di fronte a questi eccessi repressivi i cosacchi non ebbero altra scelta che la rivolta. L'insurrezione incominciò nel distretto di Vescenskaja l'11 marzo 1919. I cosacchi insorti, ben organizzati, decretarono la mobilitazione generale di tutti gli uomini dai sedici ai cinquantacinque anni e inviarono in tutta la regione del Don e fino alla provincia limitrofa di Voronez telegrammi in cui esortavano la popolazione a insorgere contro i bolscevichi: «Noi cosacchi non siamo contrari ai soviet. Siamo per le libere elezioni. Siamo contro i comunisti, le comuni [aziende agricole collettive] e gli ebrei. Siamo contro le requisizioni, i furti e le esecuzioni perpetrate dalle Ceka». All'inizio di aprile i cosacchi ribelli costituivano una forza considerevole di quasi 30 mila uomini ben armati e agguerriti. Operando nelle retrovie dell'Armata rossa, che combatteva più a sud contro le truppe di Denikin alleate ai cosacchi del Kuban', fra il maggio e il giugno del 1919 gli insorti del Don contribuirono all'avanzata folgorante delle forze bianche, proprio come avevano fatto i contadini ucraini insorti. All'inizio di giugno i cosacchi del Don si unirono al grosso delle armate bianche, sostenute dai cosacchi del Kuban'. Tutta la «Vandea cosacca» era libera dall'odiato potere di «moscoviti, ebrei e bolscevichi».

Ma le fortune militari cambiarono, e nel febbraio del 1920 tornarono i bolscevichi. Cominciò allora la seconda occupazione militare dei territori cosacchi, ancor più letale della prima. La regione del Don fu assoggettata a un tributo di 36 milioni di pud di cereali, una quantità largamente superiore alla produzione locale complessiva; la popolazione rurale fu spogliata sistematicamente non solo delle magre riserve alimentari, ma anche di tutti i suoi beni, «compresi scarpe, abiti, guanciali e samovar», come precisava un rapporto della Ceka. Tutti gli uomini in condizione di combattere risposero alle repressioni e ai saccheggi sistematici unendosi alle bande di partigiani verdi. Nel luglio del 1920, nel Kuban' e nel Don esse contavano almeno 35 mila uomini. Il generale Vrangel', bloccato in Crimea da febbraio, decise di fare un ultimo tentativo per liberarsi dalla morsa bolscevica e unirsi ai cosacchi e ai Verdi del Kuban'. Il 17 agosto 1920, nei pressi di Novorossijsk sbarcarono 5000 uomini. Sotto la pressione congiunta dei Bianchi, dei cosacchi e dei Verdi, i bolscevichi furono costretti ad abbandonare Ekaterinodar, la principale città del Kuban', e poi l'intera regione. Il generale Vrangel', dal canto suo, avanzava nell'Ucraina meridionale. I successi dei Bianchi furono però di breve durata. Alla fine di ottobre le truppe di Vrangel', accerchiate dalle

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forze bolsceviche numericamente assai superiori e appesantite dall'immenso seguito di civili, si ritirarono in Crimea in una confusione indescrivibile. La rioccupazione della Crimea da parte dei bolscevichi, ultimo episodio dello scontro fra Bianchi e Rossi, diede luogo alle stragi più cruente della guerra civile. Fra il novembre e il dicembre del 1920 i bolscevichi massacrarono oltre 50 mila civili.

I cosacchi si trovarono un'altra volta dalla parte dei vinti e furono sottoposti a un nuovo Terrore rosso. Il lettone Karl Lander, uno dei principali dirigenti della Ceka, venne nominato «plenipotenziario del Caucaso settentrionale e del Don». Istituì delle trojka, tribunali rivoluzionari speciali preposti alla decosacchizzazione. Nel solo mese di ottobre del 1920 le trojka condannarono a morte oltre 6000 persone, subito giustiziate. I familiari - talora i vicini - dei partigiani verdi e dei cosacchi che avevano impugnato le armi contro il regime e non erano stati catturati, furono sistematicamente arrestati come ostaggi e chiusi in campi di concentramento, veri e propri campi di morte, come ammetteva in un suo rapporto Martyn Lacis, il capo della Ceka ucraina: «Raccolti in un campo nei dintorni di Majkop, gli ostaggi - donne, vecchi e bambini sopravvivono in condizioni spaventose, nel fango e nel freddo di ottobre.... Muoiono come mosche.... Le donne sono pronte a tutto per sfuggire alla morte. I soldati che sorvegliano il campo approfittano per farne commercio».

Qualsiasi atto di resistenza veniva punito senza pietà. Quando il capo della Ceka di Pjatigorsk cadde in un'imboscata, i cekisti decisero di organizzare una «Giornata del Terrore rosso». Andando oltre le istruzioni di Lander, in cui si auspicava che «questo atto terroristico fosse sfruttato per catturare ostaggi preziosi allo scopo di giustiziarli e per accelerare le procedure di esecuzione delle spie bianche e dei controrivoluzionari in generale», si scatenarono in un'orgia di arresti e di esecuzioni. Secondo Lander, «la questione del Terrore rosso fu risolta in modo semplicistico. I cekisti di Pjatigorsk decisero di far giustiziare 300 persone in un giorno. Stabilirono delle quote per la città di Pjatigorsk e per ogni borgo dei dintorni, e ordinarono alle organizzazioni di partito di stilare delle liste dei condannati.... Questo metodo insoddisfacente innescò un gran numero di regolamenti di conti.... A Kislovodsk, in mancanza di altre idee, furono giustiziate le persone che si trovavano all'ospedale».

Uno dei metodi più sbrigativi di decosacchizzazione era la distruzione degli insediamenti cosacchi e la deportazione di tutti i sopravvissuti. Negli archivi di Sergo Ordzonikidze, uno dei massimi dirigenti bolscevichi, all'epoca presidente del Comitato rivoluzionario del Caucaso settentrionale, si sono conservati i documenti di una delle operazioni di questo tipo che si svolsero tra la fine di ottobre e la metà di novembre del 1920. Il 23 ottobre Ordzonikidze ordinò:

"1. bruciare totalmente l'insediamento di Kalinovskaja; 2. evacuare tutti gli abitanti degli insediamenti di Ermolovskaja, Romanovskaja, Samascinskaja e Mihajlovskaja; le case e le terre appartenenti agli abitanti saranno distribuite ai contadini poveri e in particolare ai ceceni, che hanno sempre dato prova di profondo attaccamento al potere sovietico; 3. caricare su convogli tutta la popolazione maschile dai diciotto ai cinquant'anni dei suddetti insediamenti e deportarla sotto scorta verso nord, per eseguire lavori forzati di categoria pesante; 4. espellere donne, vecchi e bambini, autorizzandoli tuttavia a trasferirsi in altri borghi più a nord; 5. requisire tutto il bestiame e tutti i beni degli abitanti degli insediamenti summenzionati".

Tre settimane dopo, un rapporto inviato a Ordzonikidze descriveva così lo svolgimento delle operazioni:

"Kalinovskaja: borgo interamente bruciato, tutta la popolazione (4220) deportata o espulsa. Ermolovskaja: ripulita di tutti gli abitanti (3218). Romanovskaja: deportati 1600; ancora da deportare 1661.

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Samascinskaja: deportati 1018; ancora da deportare 1900. Mihajlovskaja: deportati 600; ancora da deportare 2200. Inoltre, sono stati spediti a Groznyj 154 vagoni di prodotti alimentari. Nei tre insediamenti in cui la deportazione non è ancora conclusa sono state deportate innanzi tutto le famiglie degli elementi bianco-verdi e quelle degli elementi che hanno partecipato all'ultima insurrezione. Fra quanti non sono stati ancora deportati figurano simpatizzanti del regime sovietico, familiari di soldati dell'Armata rossa, funzionari e comunisti. Il ritardo nelle operazioni di deportazione è dovuto alla mancanza di vagoni. Per portare a termine le operazioni riceviamo in media soltanto un convoglio al giorno. Per concludere le operazioni di deportazione, si richiedono d'urgenza 306 vagoni supplementari".

Come si conclusero le «operazioni»? Purtroppo non abbiamo documenti che lo attestino. Sappiamo però che andarono per le lunghe e che alla fine la maggior parte non fu inviata verso il Grande Nord, come sarebbe accaduto in seguito, ma verso le miniere del Donec, che erano più vicine. Date le condizioni dei convogli ferroviari alla fine del 1920, l'amministrazione non riusciva a reggere il passo. Ma sotto molti aspetti le operazioni di decosacchizzazione del 1920 prefiguravano le grandi operazioni di dekulakizzazione avviate dieci anni dopo: stesso principio della responsabilità collettiva, stesso metodo di deportazione su convogli, stessi problemi amministrativi, luoghi di destinazione impreparati ad accogliere i deportati, stessa idea di sfruttarli adibendoli ai lavori forzati. Le regioni cosacche del Don e del Kuban' pagarono un pesante tributo per essersi opposte ai bolscevichi. Secondo le stime più affidabili, nel periodo 1919-1920 furono uccise o deportate da 300 mila a 500 mila persone, su una popolazione complessiva non superiore a 3 milioni di individui.

I massacri di detenuti e ostaggi incarcerati soltanto perché appartenenti a una «classe nemica« o «estranea alla società» sono operazioni repressive tra le più difficili da classificare e da valutare. Rientrano nella continuità e nella logica del Terrore rosso della seconda metà del 1918, ma su scala ancora più vasta. Quest'orgia di massacri «su base di classe» era sempre giustificata dal fatto che stava nascendo un mondo nuovo. Tutto era permesso, come spiegava ai lettori l'editoriale del primo numero di «Krasnyj Mec» (Il gladio rosso), giornale della Ceka di Kiev:

"Respingiamo i vecchi sistemi di moralità e «umanità» inventati dalla borghesia allo scopo di opprimere e sfruttare le «classi inferiori». La nostra moralità non ha precedenti, la nostra umanità è assoluta perché si basa su un nuovo ideale: distruggere qualsiasi forma di oppressione e di violenza. A noi tutto è permesso, poiché siamo i primi al mondo a levare la spada non per opprimere e ridurre in schiavitù, ma per liberare l'umanità dalle catene... Sangue? Che il sangue scorra a fiotti! Perché solo il sangue può tingere per sempre la nera bandiera della borghesia pirata, trasformandola in uno stendardo rosso, la bandiera della Rivoluzione. Poiché solo la morte definitiva del vecchio mondo può liberarci per sempre dal ritorno degli sciacalli!".

Questi appelli all'omicidio istigavano l'antico substrato di violenza e il desiderio di vendetta sociale di molti cekisti, che spesso venivano reclutati fra gli «elementi criminali e socialmente degenerati della società», come ammettevano perfino diversi dirigenti bolscevichi. In una lettera del 22 marzo 1919 indirizzata a Lenin, il dirigente bolscevico Gopner descriveva così le attività della Ceka di Ekaterinoslavl': «In quest'organizzazione marcia di criminalità, violenza e arbitrio, dominata da canaglie e criminali comuni, uomini armati fino ai denti giustiziavano tutti quelli che non trovavano di proprio gusto, perquisivano, saccheggiavano, profanavano, imprigionavano, spacciavano denaro falso, esigevano bustarelle, poi facevano cantare quelli cui avevano estorto le bustarelle, e li liberavano in cambio di somme dieci o venti volte maggiori». Gli archivi del Comitato centrale e quelli di Feliks Dzerzinskij contengono innumerevoli rapporti di responsabili del Partito o di ispettori della polizia politica che descrivono la «degenerazione» delle Ceka locali «ebbre di violenza e di sangue». Spesso la scomparsa di tutti i principi giuridici e morali favoriva una totale

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autonomia dei responsabili locali della Ceka, che non rispondevano delle proprie azioni nemmeno ai superiori e diventavano tiranni sanguinari, incontrollati e incontrollabili. Questa deriva della Ceka in un contesto di arbitrio assoluto e di totale assenza del diritto è documentata da tre brani di rapporti, fra decine di altri dello stesso tenore.

Ecco il rapporto di Smirnov, istruttore della Ceka, inviato a Dzerzinskij da Sysran', nella provincia di Tambov, in data 22 marzo 1919:

"Ho verificato la faccenda dell'insurrezione di kulak nella volost' Novomatrionskaja. L'inchiesta è stata condotta in modo caotico. Sono state interrogate sotto tortura 65 persone, e dai verbali delle testimonianze non si riesce a capire nulla.... Il 16 febbraio sono state fucilate 5 persone, l'indomani 13. Il verbale delle condanne e delle esecuzioni è datato 28 febbraio. Quando ho chiesto spiegazioni al responsabile della Ceka locale, mi ha risposto: «Non abbiamo mai tempo di scrivere i verbali degli interrogatori. E comunque a che cosa servirebbe, visto che sterminiamo i kulak e i borghesi come classe?»".

Ecco il rapporto inviato da Jaroslavl' il 26 settembre 1919 dal segretario dell'organizzazione regionale del Partito bolscevico:

"I cekisti saccheggiano e arrestano chi capita. Sapendo che resteranno impuniti, hanno trasformato la sede della Ceka in un immenso bordello, dove portano le «borghesi». Il vizio del bere è generalizzato. Fra i piccoli dirigenti si fa largamente uso di cocaina".

Ecco il rapporto di missione inviato da Astrakhan il 16 ottobre 1919 da N. Rozental', ispettore della direzione delle Divisioni speciali:

"Atarbekov, capo delle divisioni speciali dell'Undicesima Armata, non riconosce nemmeno più il potere centrale. Il 30 luglio scorso, quando il compagno Zakovskij, inviato da Mosca a controllare il lavoro delle divisioni speciali, si è recato da Atarbekov, questi gli ha detto: «Dica a Dzerzinskij che non mi lascerò controllare...». Nessuna norma amministrativa viene rispettata e il personale è composto per la maggioranza da elementi equivoci, o addirittura criminali. I fascicoli della Divisione operativa sono quasi inesistenti. Riguardo le condanne a morte e le esecuzioni delle sentenze, non ho trovato protocolli processuali né sentenze individuali, ma solo liste, spesso incomplete, con la dicitura «Fucilato per ordine del compagno Atarbekov». Per quanto riguarda i fatti di marzo, è impossibile farsi un'idea su chi è stato fucilato e perché ... I bagordi e le orge sono all'ordine del giorno. Quasi tutti i cekisti fanno largo uso di cocaina. Questo permette loro, a quanto dicono, di sopportare meglio la vista quotidiana del sangue. Ebbri di violenza e di sangue, i cekisti fanno il proprio dovere, ma sono indubbiamente elementi incontrollati che devono essere tenuti sotto stretta sorveglianza".

***

I rapporti interni della Ceka e del Partito bolscevico confermano oggi le numerose testimonianze raccolte a partire dagli anni 1919-1920 dagli avversari dei bolscevichi e in particolare dalla Commissione speciale di inchiesta sui crimini bolscevichi, creata dal generale Denikin, i cui archivi sono oggi accessibili dopo essere stati trasferiti nel 1945 da Praga a Mosca, dove rimasero a lungo coperti dal segreto. Dal 1926 lo storico socialista rivoluzionario russo Sergej Mel'gunov aveva tentato nel suo libro "La Terreur rouge en Russie" di catalogare i principali massacri di detenuti, ostaggi e semplici civili giustiziati in massa dai bolscevichi, quasi sempre su una «base di classe». L'elenco dei principali episodi legati a questo genere di repressione riportato in quest'opera precorritrice, sebbene incompleto, è pienamente confermato da una serie di fonti documentarie

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provenienti dai due schieramenti contrapposti, molto differenti tra loro ma concordanti. Dato il caos organizzativo che regnava nella Ceka resta però incerto il numero delle vittime giustiziate durante i principali episodi repressivi oggi individuati con precisione. Attingendo da fonti diverse si può arrivare al massimo ad azzardare qualche ipotesi sull'ordine di grandezza delle stragi.

I primi massacri di sospetti, ostaggi e altri «nemici del popolo», rinchiusi preventivamente in prigione o in campo di concentramento con semplice provvedimento amministrativo, erano incominciati nel settembre del 1918, all'epoca del primo Terrore rosso. Una volta stabilite le categorie di «sospetti», «ostaggi», «nemici del popolo», e resi operativi in tutta fretta i campi di concentramento, la macchina repressiva era pronta a mettersi in funzione. L'elemento scatenante, in una guerra con fronti molto mobili e in cui ogni mese le sorti militari si invertivano più volte, era, com'è logico, la conquista di una città occupata fino a quel momento dall'avversario, oppure il suo abbandono precipitoso.

L'imposizione della «dittatura del proletariato» nelle città conquistate o riconquistate seguiva le stesse tappe: scioglimento di tutte le assemblee elette in precedenza, interdizione di qualsiasi commercio (provvedimento che comportava l'immediato rincaro di tutte le derrate, e poi la loro scomparsa), confisca delle imprese, nazionalizzate o municipalizzate, imposizione di un tributo finanziario assai ingente alla borghesia (600 milioni di rubli a Har'kov nel febbraio del 1919, 500 milioni a Odessa nell'aprile dello stesso anno). Per garantire il puntuale versamento venivano presi in ostaggio e rinchiusi in campi di concentramento centinaia di «borghesi». In realtà, il tributo era sinonimo di saccheggio, esproprio e vessazione, prima tappa dell'annientamento della «borghesia come classe».

«In conformità alle risoluzioni del soviet dei lavoratori, la giornata odierna, 13 maggio, è stata decretata giorno di espropriazione della borghesia» si poteva leggere su «Izvestija Odesskogo Soveta rabocih deputatov» (Notizie del Consiglio dei deputati operai di Odessa) il 13 maggio 1919. «Le classi possidenti dovranno riempire un questionario dettagliato elencando i prodotti alimentari, le calzature, gli abiti, i gioielli, le biciclette, le coperte, le lenzuola, l'argenteria, il vasellame e altri oggetti indispensabili al popolo lavoratore ... Tutti devono assistere le Commissioni di espropriazione in questo sacro compito ... Chi non obbedirà agli ordini delle Commissioni di espropriazione sarà arrestato immediatamente. Chi resisterà verrà fucilato sul posto».

Lacis, capo della Ceka ucraina, in una circolare alle Ceka locali ammetteva che tutte le «espropriazioni» finivano in tasca dei cekisti e di altri piccoli dirigenti di innumerevoli squadre di requisizione, Commissioni di espropriazione, unità di Guardie rosse sempre assai numerose in simili occasioni.

La seconda tappa delle espropriazioni era la confisca degli appartamenti borghesi. In questa «guerra di classe», anche l'umiliazione dei vinti aveva la sua importanza: «Il pesce ama essere condito con la panna. La borghesia ama l'autorità che infierisce e che uccide» si poteva leggere nel già citato giornale di Odessa il 26 aprile 1919. «Se giustizieremo qualche decina di questi buoni a nulla e di questi idioti, se li ridurremo a spazzare le strade, se obbligheremo le loro donne a lavare le caserme delle Guardie rosse (e per loro sarebbe un onore non indifferente), capiranno che il nostro potere è saldo, e che non devono aspettarsi niente dagli inglesi o dagli ottentotti».

L'umiliazione delle «borghesi» costrette a pulire le latrine e le caserme dei cekisti o delle Guardie rosse era un tema ricorrente in molti articoli di giornali bolscevichi a Odessa, Kiev, Har'kov, Ekaterinoslav, ma anche Perm', negli Urali, e Niznij-Novgorod: a quanto pare si trattava di una pratica corrente. Ma era anche una versione edulcorata e «politicamente presentabile» di una realtà assai più brutale: lo stupro, fenomeno che, secondo molte testimonianze concordi, assunse

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dimensioni spaventose soprattutto nel 1920, durante la seconda riconquista dell'Ucraina, delle regioni cosacche e della Crimea.

E' dimostrato che in molte città conquistate dai bolscevichi furono giustiziati detenuti, sospetti e ostaggi incarcerati per il semplice fatto di appartenere alle «classi possidenti»; era l'ultima fase, la conseguenza logica, dello «sterminio della borghesia come classe». A Har'kov tra il febbraio e il giugno del 1919 furono giustiziate da 2000 a 3000 persone; da 1000 a 2000 alla seconda riconquista della città, nel dicembre del 1919. A Rostov sul Don nel gennaio del 1920 avvennero circa 1000 esecuzioni; a Odessa 2200 fra il maggio e l'agosto del 1919, poi da 1500 a 3000 fra il febbraio del 1920 e il febbraio del 1921; a Kiev almeno 3000 tra il febbraio e l'agosto del 1919; a Ekaterinodar almeno 3000 fra l'agosto del 1920 e il febbraio del 1921; ad Armavir, una cittadina del Kuban', da 2000 a 3000 fra l'agosto e l'ottobre del 1920. Si potrebbe proseguire l'elenco. In realtà furono uccise molte persone anche altrove, ma tali esecuzioni non sono state registrate nelle inchieste condotte pochissimo tempo dopo i massacri. Così si sa molto di più di quanto è accaduto in Ucraina o nel sud della Russia che non nel Caucaso, in Asia centrale o negli Urali. In effetti, di solito le esecuzioni si intensificavano all'approssimarsi del nemico, nel momento in cui i bolscevichi abbandonavano le loro posizioni e «scaricavano» le prigioni. A Har'kov, nel corso dei due giorni precedenti all'arrivo dei Bianchi, l'8 e il 9 giugno 1919, furono giustiziate centinaia di ostaggi. Fra il 22 e il 28 agosto 1919 a Kiev furono abbattute oltre 1800 persone, prima che i Bianchi riprendessero la città il 30 agosto. Stessa situazione a Ekaterinodar, una cittadina che prima della guerra contava meno di 30 mila abitanti, dove in tre giorni, dal 17 al 19 agosto 1920, il capo della Ceka locale, Atarbekov, fece giustiziare 1600 «borghesi» perché le truppe cosacche stavano avanzando.

I documenti delle Commissioni di inchiesta delle unità dell'Armata bianca, arrivate sul posto alcuni giorni, o addirittura alcune ore dopo le esecuzioni, contengono una miriade di deposizioni, testimonianze, rapporti autoptici, fotografie riguardanti i massacri e l'identità delle vittime. Mentre i giustiziati «dell'ultima ora», eliminati in fretta con un proiettile alla nuca, in generale non presentavano tracce di tortura, le cose andavano diversamente per i cadaveri esumati dalle fosse comuni più vecchie. L'uso di torture terribili è attestato da rapporti autoptici, elementi concreti e testimonianze. Descrizioni dettagliate di tali torture compaiono in particolare nella raccolta già citata di Sergej Mel'gunov e in quella dell'Ufficio centrale del Partito socialista rivoluzionario, "Ceka", pubblicata a Berlino nel 1922.

I massacri raggiunsero l'apogeo in Crimea, durante l'evacuazione delle ultime unità bianche di Vrangel' e dei civili che fuggivano di fronte all'avanzata dei bolscevichi. Nel giro di alcune settimane, dalla metà novembre alla fine di dicembre del 1920, furono fucilate o impiccate circa 50 mila persone. Un gran numero di esecuzioni ebbe luogo subito dopo l'imbarco delle truppe di Vrangel'. A Sebastopoli il 26 novembre molte centinaia di scaricatori furono fucilati per aver contribuito all'evacuazione dei Bianchi. Il 28 e il 30 novembre, il Notiziario del Comitato rivoluzionario di Sebastopoli pubblicò due liste di fucilati. La prima conteneva 1634 nomi, la seconda 1202.

All'inizio di dicembre, quando la febbre delle prime esecuzioni di massa era calata, le autorità incominciarono a procedere a una schedatura il più completa possibile, date le circostanze, della popolazione delle principali città della Crimea, dove si presumeva che si nascondessero decine, o addirittura centinaia di migliaia di borghesi, evacuati da tutta la Russia nei loro tradizionali luoghi di villeggiatura. Il 6 dicembre Lenin dichiarò davanti a un'assemblea di responsabili a Mosca che 300 mila borghesi si erano ammassati in Crimea. Assicurò che in un futuro prossimo quegli «elementi», che costituivano «una fonte di speculazione, di spionaggio, da cui muoverà ogni aiuto ai capitalisti», sarebbero stati «sottomessi».

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I cordoni militari che circondavano l'istmo di Perekop, unica via di fuga terrestre, furono rinforzati. Dopo aver chiuso la trappola, le autorità ordinarono che ogni abitante si presentasse alla Ceka per compilare un lungo formulario di inchiesta, contenente una cinquantina di domande sull'origine sociale, il passato, le attività, gli introiti, ma anche il modo di impiegare il tempo nel novembre del 1920, le opinioni sulla Polonia, su Vrangel', sui bolscevichi eccetera. Sulla base di queste «inchieste», la popolazione fu divisa in tre categorie: da fucilare, da mandare in campo di concentramento, da risparmiare. Le testimonianze dei rari sopravvissuti, pubblicate sui giornali dell'emigrazione nel 1921, descrivono Sebastopoli, una delle città colpite con maggior durezza dalla repressione, come una «città di impiccati». «La prospettiva Nahimovskij era piena di cadaveri impiccati di ufficiali, soldati, civili arrestati per strada.... La città era morta, la popolazione si nascondeva nelle cantine e nei granai. Tutti i muri delle case, le palizzate, i pali telegrafici, le vetrine dei negozi, erano coperti di manifesti "Morte ai traditori".... Impiccavano nelle strade per dare l'esempio».

L'ultimo episodio dello scontro fra Bianchi e Rossi non mise fine alla repressione. I fronti militari della guerra civile non esistevano più, ma la guerra di «pacificazione» e di «sradicamento» sarebbe continuata quasi per altri due anni.

5. DA TAMBOV ALLA GRANDE CARESTIA Alla fine del 1920 il regime bolscevico sembrava trionfare. L'ultimo esercito bianco era stato battuto, i cosacchi potevano dirsi sconfitti e i distaccamenti di Mahno erano in rotta. Tuttavia, anche se la guerra dichiarata, quella dei Rossi contro i Bianchi, era finita, lo scontro fra il regime e alcune grandi categorie sociali proseguiva a pieno ritmo. L'apogeo delle guerre contadine si colloca all'inizio del 1921, quando intere province sfuggivano al controllo dei bolscevichi.

Nella provincia di Tambov, in una parte delle province del Volga (Samara, Saratov, Caricyn, Simbirsk) e in Siberia occidentale, i bolscevichi tenevano soltanto le città. Le campagne erano sotto il controllo di centinaia di bande di Verdi, o addirittura di veri e propri eserciti contadini. Fra le unità dell'Armata rossa ogni giorno scoppiavano ammutinamenti. Scioperi, sommosse e proteste operaie si moltiplicavano negli ultimi centri industriali del paese ancora in attività, a Mosca, Pietrogrado, Ivanovo-Voznesensk e Tula. Alla fine di febbraio del 1921 si ammutinarono anche i marinai della base navale di Kronstadt, al largo di Pietrogrado. La situazione era esplosiva, il paese stava diventando ingovernabile. Di fronte alla minaccia di un vero e proprio maremoto sociale che rischiava di travolgere il regime, i dirigenti bolscevichi furono costretti a fare marcia indietro e a prendere l'unico provvedimento in grado di placare temporaneamente il malcontento più imponente, più generale e più pericoloso, quello dei contadini: promisero di eliminare le requisizioni, sostituendole con l'imposta in natura. In questo contesto di scontri fra regime e società, a partire dal marzo del 1921 incominciò a delinearsi la NEP, la Nuova politica economica.

L'impostazione storico-politica, che per lungo tempo ha prevalso, dava eccessivo rilievo alla «rottura» del marzo del 1921. La sostituzione delle requisizioni con l'imposta in natura, decisa in fretta e furia l'ultimo giorno del Decimo Congresso del Partito bolscevico sotto la minaccia di una conflagrazione sociale, non comportò né la fine delle insurrezioni contadine e degli scioperi operai, né un allentamento della repressione. Gli archivi oggi accessibili mostrano che nella primavera del 1921 la pace sociale non si instaurò da un giorno all'altro. Le tensioni rimasero molto forti almeno fino all'estate del 1922, e in alcune regioni per molto più tempo. Le squadre di requisizione continuarono a setacciare le campagne, gli scioperi operai furono selvaggiamente soffocati, gli ultimi militanti socialisti vennero arrestati, e lo «snidamento dei banditi dalle foreste» proseguì con ogni mezzo: fucilazioni in massa di ostaggi, bombardamento dei villaggi con gas asfissiante. In fin dei conti, fu la grande carestia del 1921-1922 a piegare le campagne più turbolente, quelle che le squadre di requisizione avevano spremuto maggiormente e che erano insorte per sopravvivere. La

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carta della carestia combacia esattamente con quella delle zone in cui negli anni precedenti erano state effettuate le requisizioni più significative e con quella delle zone in cui si erano verificate le insurrezioni contadine più importanti. Oltre a essere un'«alleata» del regime, l'arma finale della pacificazione, la carestia servì da pretesto ai bolscevichi per sferrare un colpo decisivo alla Chiesa ortodossa e all'intellighenzia, che si erano mobilitate per lottare contro il flagello.

La rivolta contadina di Tambov fu la più lunga, la più importante e la meglio organizzata di tutte quelle scoppiate da quando erano incominciate le requisizioni, nell'estate del 1918. La provincia di Tambov, a meno di 500 chilometri a sudest di Mosca, dall'inizio del secolo era uno dei bastioni del Partito socialista rivoluzionario, erede del populismo russo. Fra il 1918 e il 1920, nonostante le repressioni che si erano abbattute sul partito, i militanti restavano numerosi e attivi. Ma la provincia di Tambov era anche il granaio più vicino a Mosca, e dall'autunno del 1918 in questa provincia agricola densamente popolata imperversavano oltre cento squadre di requisizione. Nel 1919 erano scoppiate decine di "bunt", sommosse senza futuro che furono tutte soffocate implacabilmente. Nel 1920 le quote previste per la requisizione vennero aumentate in modo significativo, passando da 18 a 27 milioni di pud, mentre i contadini avevano ridotto notevolmente le terre coltivate a grano, sapendo che tutto quello che non facevano in tempo a consumare sarebbe stato inesorabilmente requisito. Realizzare le quote significava dunque far morire di fame i contadini. Il 19 agosto 1920 nel borgo di Hitrovo alcuni incidenti del tipo in cui erano normalmente coinvolte le squadre di vettovagliamento degenerarono. Le stesse autorità locali ammisero i fatti: «I distaccamenti compivano una serie di abusi; saccheggiavano tutto ciò che capitava loro sottomano, persino i guanciali e gli attrezzi da cucina, si spartivano il bottino e coprivano di botte sotto gli occhi di tutti anche vecchi di settant'anni. I vecchi erano puniti per l'assenza dei figli disertori, che si nascondevano nella foresta ... I contadini erano indignati anche perché il grano confiscato, trasportato fino alla stazione più vicina, era lasciato lì a marcire sotto il cielo».

La rivolta scoppiata a Hitrovo si propagò fulmineamente. Alla fine di agosto del 1920 più di 14 mila uomini, per la maggior parte disertori, armati di fucili, forconi e falci avevano cacciato o massacrato tutti i «rappresentanti del potere sovietico» di tre distretti della provincia di Tambov. Nel giro di alcune settimane l'insurrezione contadina, che all'inizio non si distingueva in nulla da centinaia d'altre scoppiate in Russia e in Ucraina negli ultimi due anni, in quel bastione tradizionale dei socialisti rivoluzionari si trasformò in un movimento insurrezionale ben organizzato sotto la direzione di un capo militare ispirato, Aleksandr Stepanovic Antonov.

Antonov era un socialista rivoluzionario militante dal 1906; dal 1908 alla Rivoluzione di Febbraio del 1917 era stato esiliato in Siberia, e poi, come molti altri socialisti rivoluzionari «di sinistra», aveva aderito al regime bolscevico e aveva svolto le mansioni di capo della milizia di Kirsanov, il suo distretto natale. Nell'agosto del 1918 aveva rotto con i bolscevichi e aveva assunto la guida di una delle innumerevoli bande di disertori che controllavano la campagna, affrontando le squadre di vettovagliamento e aggredendo i rari funzionari sovietici che si arrischiavano a recarsi nei villaggi.

Nell'agosto del 1920, quando nel distretto di Kirsanov scoppiò l'insurrezione contadina, Antonov creò un'efficiente organizzazione di milizie, ma anche un notevole servizio di informazione che si infiltrò persino nella Ceka di Tambov. Istituì inoltre un servizio di propaganda, che diffondeva volantini e proclami denunciando la «commissariocrazia bolscevica» e mobilitando i contadini su una serie di rivendicazioni popolari, come la libertà di commercio, la fine delle requisizioni, le libere elezioni e l'abolizione dei commissari bolscevichi e della Ceka.

Parallelamente, l'organizzazione clandestina del Partito socialista rivoluzionario istituì l'Unione dei lavoratori contadini, una rete clandestina di militanti contadini ben inseriti localmente. Nonostante le forti tensioni esistenti fra Antonov, socialista rivoluzionario dissidente, e la direzione dell'Unione

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dei lavoratori contadini, il movimento della provincia di Tambov disponeva di un'organizzazione militare, di un servizio di informazioni e di un programma politico che gli davano una forza e una coerenza sconosciute prima alla maggior parte dei movimenti contadini, a eccezione del movimento mahnovista. Nell'ottobre del 1920 il potere bolscevico controllava ormai soltanto la città di Tambov e alcuni rari centri urbani di provincia. I disertori entrarono a migliaia nell'esercito contadino di Antonov, che al suo apogeo era costituito da oltre 50 mila uomini armati. Alla fine, il 19 ottobre, rendendosi conto della gravità della situazione, Lenin scrisse a Dzerzinskij: «Una rapidissima (ed esemplare) liquidazione dell'insurrezione è assolutamente necessaria.... Bisogna manifestare maggiore energia».

All'inizio di novembre i bolscevichi disponevano di appena 5000 uomini delle Truppe di sicurezza interna della Repubblica, ma dopo la sconfitta di Vrangel' in Crimea, gli effettivi delle truppe speciali inviate a Tambov aumentarono rapidamente, fino a raggiungere i 100 mila uomini, compresi i distaccamenti dell'Armata rossa, sempre minoritari perché considerati poco affidabili per reprimere insurrezioni popolari.

All'inizio del 1921 le insurrezioni contadine divamparono in nuove regioni: in tutto il Basso Volga (province di Samara, Saratov, Caricyn, Astrakhan) ma anche nella Siberia occidentale. La situazione diventava esplosiva, la carestia minacciava queste regioni ricche ma saccheggiate spietatamente da anni. Il 12 febbraio 1921, nella provincia di Samara il comandante del distretto militare del Volga riferiva: «Folle di molte migliaia di contadini affamati assediano i depositi dove i distaccamenti hanno stivato il grano requisito per le città e l'esercito. La situazione è degenerata più volte, e l'esercito ha dovuto sparare sulla folla ebbra di collera». Da Saratov, i dirigenti bolscevichi locali telegrafarono a Mosca: «Il banditismo ha conquistato l'intera provincia. I contadini si sono impadroniti di tutte le riserve - 3 milioni di pud - nei depositi di Stato. Sono ben armati grazie ai fucili forniti loro dai disertori. Intere unità dell'Armata rossa si sono volatilizzate».

Nello stesso momento, a oltre 1000 chilometri verso est, si stava formando un nuovo focolaio di disordini contadini. Il governo bolscevico, dopo aver prosciugato tutte le risorse possibili nelle prospere regioni della Russia meridionale e dell'Ucraina, nell'autunno del 1920 aveva preso di mira la Siberia occidentale, dove le quote di consegna furono fissate arbitrariamente in funzione delle esportazioni di cereali realizzate nel... 1913! Ma si potevano paragonare le rese destinate a esportazioni pagate in rubli oro sonanti alle rese che i contadini riservavano a requisizioni estorte con la forza? I contadini siberiani insorsero, come dappertutto, per difendere il frutto del proprio lavoro e assicurarsi la sopravvivenza. Nel periodo gennaio- marzo 1921 i bolscevichi persero il controllo delle province di Tjumen', Omsk, Celjabinsk ed Ekaterinburg, un territorio più vasto della Francia; la Transiberiana, l'unica ferrovia che collegasse la Russia europea alla Siberia, fu interrotta. Il 21 febbraio un esercito popolare contadino si impadronì della città di Tobol'sk, che le unità dell'Armata rossa riuscirono a riconquistare solo il 30 marzo. All'inizio del 1921, dall'altra parte del paese, nelle capitali - quella vecchia, Pietrogrado, e quella nuova, Mosca - la situazione era quasi altrettanto esplosiva. L'economia era pressoché bloccata, i treni non circolavano più, quasi tutte le fabbriche erano chiuse o lavoravano a ritmo ridotto per la penuria di combustibile e l'approvvigionamento delle città non era più assicurato. Gli operai erano in miseria oppure giravano nei villaggi circostanti alla ricerca di cibo, o, ancora, discutevano negli stabilimenti gelidi e semismantellati, perché ognuno aveva rubato tutto quello che poteva portar via per scambiare i «manufatti» con un po' di cibo.

«Il malcontento è generale» concludeva il 16 gennaio un rapporto del Dipartimento informazioni della Ceka. «Negli ambienti operai prevedono una prossima caduta del regime. Non lavora più nessuno, la gente ha fame. Sono imminenti scioperi di vasta portata. Le unità della guarnigione di Mosca sono sempre meno sicure e possono sfuggire in qualsiasi momento al nostro controllo. Si

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impongono misure preventive». Il 21 gennaio un decreto governativo impose di ridurre di un terzo, a partire dal giorno dopo, le razioni di pane a Mosca, Pietrogrado, Ivanovo-Voznesensk e Kronstadt. Questo provvedimento, sopraggiunto in un momento in cui il regime non poteva più sbandierare la minaccia del pericolo controrivoluzionario e fare appello al patriottismo di classe delle masse operaie - infatti le ultime armate bianche erano state annientate -, diede fuoco alla miccia. Dalla fine di gennaio alla metà di marzo del 1921 si succedettero quotidianamente scioperi, comizi di protesta, marce della fame, manifestazioni, occupazioni di fabbriche. Tanto a Mosca come a Pietrogrado i disordini raggiunsero il culmine tra la fine di febbraio e l'inizio di marzo. Tra il 22 e il 24 febbraio si verificarono gravi incidenti fra distaccamenti della Ceka e manifestanti operai che cercavano di forzare l'ingresso delle caserme per fraternizzare con i soldati. Alcuni lavoratori furono uccisi e vennero eseguiti centinaia di arresti.

A Pietrogrado i disordini acquisirono nuova diffusione a partire dal 22 febbraio, quando gli operai di molte grandi fabbriche elessero, come nel marzo del 1918, una «assemblea dei plenipotenziari operai» a forte colorazione menscevica e socialista rivoluzionaria. Nel suo primo proclama questa assemblea chiedeva l'abolizione della dittatura bolscevica, libere elezioni dei soviet, libertà di parola, di associazione e di stampa, e il rilascio di tutti i prigionieri politici. Per raggiungere questi obiettivi l'assemblea proclamò lo sciopero generale. Il comando militare non riuscì a impedire che in diversi reggimenti si tenessero dei comizi, durante i quali furono approvate mozioni di sostegno agli operai. Il 24 febbraio alcuni distaccamenti della Ceka aprirono il fuoco su una manifestazione operaia, uccidendo 12 lavoratori. Quel giorno furono arrestati quasi mille fra operai e militanti socialisti. Ciò nonostante, il numero dei manifestanti continuava ad aumentare, e migliaia di soldati disertavano le proprie unità per unirsi agli operai. A quattro anni di distanza dalle giornate di febbraio che avevano rovesciato il regime zarista, sembrava che la scena si ripetesse: manifestanti operai e soldati ammutinati fraternizzavano. Il 26 febbraio alle 21 Zinov'ev, il dirigente dell'organizzazione bolscevica di Pietrogrado, inviò a Lenin un telegramma da cui trapelava il panico: «Gli operai sono entrati in contatto con i soldati di guarnigione.... Aspettiamo sempre le unità di rinforzo richieste a Novgorod. Se le truppe fidate non arrivano nelle prossime ore, verremo sopraffatti».

Due giorni dopo si verificò l'avvenimento che i dirigenti bolscevichi temevano più di ogni altra cosa: l'ammutinamento dei marinai di due corazzate della base navale di Kronstadt, al largo di Pietrogrado. Il 28 febbraio alle 23 Zinov'ev inviò un altro telegramma a Lenin: «Kronstadt: le due navi principali, la "Sevastopol'" e la "Petropavlovsk", hanno adottato risoluzioni S.R.-Centurie nere e dato un ultimatum cui dobbiamo rispondere entro ventiquattr'ore. Fra gli operai di Pietrogrado la situazione resta molto instabile. Le grandi imprese sono in sciopero. Riteniamo che gli S.R. accelereranno il movimento».

Le rivendicazioni che Zinov'ev definiva «S.R.-Centurie nere» erano esattamente le stesse formulate dalla stragrande maggioranza dei cittadini dopo tre anni di dittatura bolscevica: rielezione a scrutinio segreto dei soviet dopo una fase di dibattito e libere elezioni; libertà di parola e di stampa, anche se si precisava «in favore degli operai, dei contadini, degli anarchici e dei partiti socialisti di sinistra»; parità di razionamento per tutti e rilascio di tutti i detenuti politici membri di partiti socialisti, di tutti gli operai, i contadini, i soldati, i marinai imprigionati per le loro attività in movimenti operai e contadini; costituzione di una commissione incaricata di esaminare i casi di tutti i detenuti nelle prigioni e nei campi di concentramento; fine delle requisizioni; abolizione delle divisioni speciali della Ceka; libertà assoluta per i contadini di fare quello che volevano sulla loro terra e di allevare bestiame proprio, a condizione che se la cavassero con i propri mezzi.

A Kronstadt gli avvenimenti precipitarono. Il primo marzo si tenne un immenso comizio che riunì oltre 15 mila persone, un quarto della popolazione civile e militare della base navale. Mihail Kalinin,

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presidente del Comitato esecutivo centrale dei soviet, arrivato sul posto per cercare di salvare la situazione, fu cacciato fra gli schiamazzi della folla. L'indomani gli insorti, ai quali si unì almeno la metà dei 2000 bolscevichi di Kronstadt, formarono un Comitato rivoluzionario provvisorio che tentò subito di entrare in contatto con gli scioperanti e i soldati di Pietrogrado.

I rapporti quotidiani della Ceka sulla situazione a Pietrogrado nella prima settimana di marzo del 1921 attestano l'ampio sostegno popolare su cui poteva contare l'ammutinamento di Kronstadt: «Il Comitato rivoluzionario di Kronstadt aspetta da un giorno all'altro un'insurrezione generale a Pietrogrado. Gli ammutinati sono entrati in contatto con un gran numero di industrie.... Oggi, durante un comizio alla fabbrica Arsenal, gli operai hanno votato una risoluzione che invitava a unirsi all'insurrezione. Per mantenere i contatti con Kronstadt è stata eletta una delegazione di tre persone: un anarchico, un menscevico, un socialista rivoluzionario».

Per tagliare le gambe al movimento, il 7 marzo la Ceka di Pietrogrado ricevette l'ordine di «intraprendere azioni decisive contro gli operai». In quarantott'ore furono arrestati oltre 2000 operai, simpatizzanti e militanti socialisti o anarchici. A differenza degli ammutinati, gli operai non avevano armi e non potevano opporre alcuna resistenza ai distaccamenti della Ceka. Dopo aver eliminato la base che sosteneva l'insurrezione, i bolscevichi prepararono minuziosamente l'assalto contro Kronstadt. L'incarico di liquidare la ribellione fu affidato al generale Tuhacevskij. Per sparare sul popolo, il vincitore della campagna di Polonia del 1920 fece appello alle giovani reclute della Scuola militare, senza tradizione rivoluzionaria, e alle truppe speciali della Ceka. Le operazioni incominciarono l'8 marzo. Dieci giorni dopo Kronstadt cadde: da entrambe le parti vi furono migliaia di morti. La repressione dell'insurrezione fu spietata. Nei giorni successivi alla disfatta furono passate per le armi diverse centinaia di insorti. Gli archivi resi accessibili di recente attestano, nel solo periodo aprile-giugno, 2103 condanne a morte e 6459 condanne a pene detentive o ai lavori forzati. Subito prima che Kronstadt venisse conquistata, quasi 8000 persone erano riuscite a fuggire attraverso le distese ghiacciate del golfo fino in Finlandia, dove vennero internate in campi profughi, a Terijoki, Vyborg e Ino. Nel 1922 molte di esse rientrarono in Russia ingannate da una promessa di amnistia, ma furono subito arrestate e mandate nei campi di concentramento delle isole Soloveckie e di Holmogory, uno dei più terribili, nei dintorni di Arcangelo. Secondo fonti anarchiche, dei 5000 prigionieri di Kronstadt inviati a Holmogory quelli ancora vivi nella primavera del 1922 erano meno di 1500.

Il campo di Holmogory, che si trovava su un grande fiume, la Dvina, era tristemente famoso per il modo sbrigativo con cui ci si sbarazzava di molti detenuti. I malcapitati venivano imbarcati su chiatte e precipitati nelle acque del fiume con una pietra al collo e le braccia legate. Mihail Kedrov, uno dei principali dirigenti della Ceka, aveva inaugurato questi annegamenti di massa nel giugno del 1920. Molte testimonianze concordano sul fatto che nel 1922 sarebbero stati annegati nella Dvina un gran numero di ammutinati di Kronstadt, di cosacchi e contadini della provincia di Tambov deportati a Holmogory. Nello stesso anno, una commissione speciale di evacuazione deportò in Siberia 2514 civili di Kronstadt semplicemente perché erano rimasti nella cittadella durante gli avvenimenti.

***

Dopo aver soffocato la rivolta di Kronstadt, il regime impegnò tutte le sue forze per dare la caccia ai militanti socialisti, lottare contro gli scioperi e la «negligenza» operaia, sedare le insurrezioni contadine che continuavano a pieno ritmo benché ufficialmente fosse stata dichiarata la fine delle requisizioni, e reprimere la Chiesa. Già il 28 febbraio 1921 Dzerzinskij aveva ordinato a tutte le Ceka provinciali: «1) di arrestare immediatamente tutta l'intellighenzia anarchicheggiante, menscevica, socialista rivoluzionaria, in particolare i funzionari che lavorano nei commissariati del

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popolo per l'Agricoltura e l'approvvigionamento; 2) dopo questo esordio, di arrestare tutti i menscevichi, i socialisti rivoluzionari e gli anarchici che lavorano nelle fabbriche in cui possa verificarsi la proclamazione di scioperi o manifestazioni».

Anziché segnare un allentamento della politica repressiva, l'introduzione della NEP, nel marzo del 1921, fu accompagnata da una recrudescenza della repressione contro i militanti socialisti moderati. Tale repressione non era dettata dal pericolo che si opponessero alla Nuova politica economica, quanto piuttosto dal fatto che la reclamavano da tempo, dimostrando così la propria perspicacia e la giustezza della propria analisi. Nell'aprile del 1921 Lenin scriveva: «L'unico posto per i menscevichi e gli S.R., dichiarati o camuffati, è la prigione».

Alcuni mesi dopo, ritenendo che i socialisti fossero ancora troppo «turbolenti», scrisse: «Se menscevichi e S.R. mostrano ancora la punta del naso, fucilarli senza pietà!». Fra il marzo e il giugno del 1921 furono arrestati più di 2000 militanti e simpatizzanti socialisti moderati. Tutti i membri del Comitato centrale del Partito menscevico finirono in prigione. Nel gennaio del 1922, rischiando di essere deportati in Siberia, incominciarono lo sciopero della fame: dodici dirigenti, fra cui Dan e Nikolaevskij, furono allora espulsi e arrivarono a Berlino nel febbraio del 1922.

Nella primavera del 1921 uno degli obiettivi prioritari del regime era di far ridecollare la produzione industriale calata a un decimo dei livelli del 1913. Anziché allentare la pressione sugli operai, i bolscevichi mantennero, o addirittura intensificarono, la militarizzazione del lavoro istituita negli anni precedenti. A opinione di molti, la politica condotta dopo l'adozione della NEP nella grande regione industriale e mineraria del Donbass, che produceva oltre l'80 per cento del carbone e dell'acciaio del paese, dimostra chiaramente i metodi dittatoriali impiegati dai bolscevichi per «far ricominciare a lavorare gli operai». Alla fine del 1920 Pjatakov, uno dei dirigenti più importanti e intimo di Trotsky, era stato nominato a guidare la Direzione centrale dell'industria carbonifera. Nel giro di un anno riuscì a quintuplicare la produzione di carbone, con una politica di sfruttamento e di repressione della classe operaia senza precedenti, basata sulla militarizzazione del lavoro dei 120 mila minatori alle sue dipendenze. Pjatakov impose una disciplina rigorosa: qualsiasi assenza era considerata «atto di sabotaggio» e punita con la detenzione in campo di concentramento, o addirittura con la pena di morte: nel 1921 furono giustiziati 18 minatori per «parassitismo aggravato». Pjatakov decretò l'allungamento dell'orario di lavoro (in particolare introdusse il lavoro di domenica) e generalizzò il «ricatto della carta annonaria» per ottenere dagli operai un aumento della produttività. Tutti questi provvedimenti furono presi in un momento in cui gli operai venivano retribuiti esclusivamente con una quantità di pane che andava da un terzo alla metà di quello necessario per sopravvivere, e in cui alla fine della giornata di lavoro dovevano prestare l'unico paio di scarpe che possedevano ai compagni del turno successivo. Come ammetteva la stessa Direzione dell'industria carbonifera, fra le svariate ragioni alla base del forte assenteismo operaio figuravano, oltre alle epidemie, la «fame permanente» e l'«assenza quasi totale di abiti, di pantaloni e di scarpe». Per ridurre il numero delle bocche da sfamare, dato l'incombere della carestia, il 24 giugno 1921 Pjatakov ordinò l'espulsione dalle città minerarie di tutte le persone che non lavoravano nelle miniere e che rappresentavano perciò un «peso morto». Ai membri delle famiglie dei minatori furono ritirate le carte annonarie. Le norme di razionamento vennero rapportate strettamente alle prestazioni individuali di ciascun minatore, e fu introdotta una forma primitiva di salario a cottimo.

Tutte queste misure contrastavano con le idee di eguaglianza e di «razionamento garantito» in cui si cullavano ancora molti operai, tratti in inganno dalla mitologia operaistica bolscevica, e prefiguravano molto da vicino le misure antioperaie degli anni Trenta. Le masse operaie erano solo la "rabsila" (la forza lavoro) da sfruttare nel modo più efficace possibile, aggirando la legislazione sul lavoro e gli inutili sindacati, il cui unico ruolo era ormai quello di stimolare la produttività. La militarizzazione del lavoro sembrava la forma più efficace per inquadrare questa manodopera

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indocile, affamata e poco produttiva. Non si può fare a meno di rilevare l'affinità fra questa forma di sfruttamento del lavoro libero e i lavori forzati dei grandi complessi penitenziari creati all'inizio degli anni Trenta. Come molti altri episodi di quegli anni di formazione del bolscevismo, che non possono essere ridotti semplicemente alla guerra civile, ciò che accadeva nel Donbass nel 1921 preannunciava un certo numero di procedure che dovevano costituire l'essenza dello stalinismo.

Fra le altre operazioni prioritarie per il regime bolscevico nella primavera del 1921, c'era la «pacificazione» di tutte le regioni controllate da bande e distaccamenti contadini. Il 27 aprile 1921 l'Ufficio politico ("Politbjuro") affidò al generale Tuhacevskij la guida delle «operazioni di liquidazione delle bande di Antonov nella provincia di Tambov». Tuhacevskij, alla testa di quasi 100 mila uomini, molti dei quali appartenevano ai distaccamenti speciali della Ceka e disponevano di artiglieria pesante e di aerei, riuscì a sconfiggere i distaccamenti di Antonov, esercitando una repressione d'inaudita violenza. Tuhacevskij e Antonov-Ovseenko, presidente della Commissione plenipotenziaria del Comitato esecutivo centrale nominata per insediare un vero e proprio regime di occupazione della provincia di Tambov, fecero largo uso di sistemi come prendere ostaggi, giustiziare, internare in campo di concentramento, sterminare con gas asfissianti e deportare interi villaggi sospettati di aiutare o di ospitare i «banditi».

L'Ordine del giorno n. 171, datato 11 giugno 1921 e firmato da Antonov-Ovseenko e da Tuhacevskij, chiarisce i metodi con i quali fu «pacificata» la provincia di Tambov. L'ordine prescriveva in particolare:

"1. Fucilare sul posto senza processo qualsiasi cittadino che rifiuti di declinare le proprie generalità. 2. Le Commissioni politiche di distretto o le Commissioni politiche di circoscrizione hanno il potere di emettere l'ordine di prendere ostaggi nei villaggi ove siano nascoste delle armi, e di fucilarli qualora le armi non vengano consegnate. 3. Nel caso in cui si trovino armi nascoste, fucilare sul posto senza processo il primogenito della famiglia. 4. Se una famiglia nasconde un bandito nella sua casa è passibile di arresto e di deportazione fuori della provincia; i suoi beni sono confiscati e il primogenito della famiglia viene fucilato senza processo. 5. Le famiglie che nascondono membri della famiglia di un bandito o suoi averi devono essere trattate alla stregua dei banditi stessi, e il primogenito della famiglia va fucilato sul posto senza processo. 6. In caso di fuga della famiglia di un bandito, spartirne i beni fra i contadini fedeli al potere sovietico, e bruciare o demolire le case abbandonate. 7. Applicare con rigore e senza pietà il presente Ordine del giorno".

Il giorno successivo alla promulgazione dell'Ordine n. 171, il generale Tuhacevskij ordinò di gassare i ribelli. «I resti delle bande disciolte e alcuni banditi isolati continuano a raccogliersi nelle foreste.... Le foreste in cui si nascondono i banditi devono essere ripulite per mezzo dei gas asfissianti. Si deve calcolare ogni cosa in modo che la nube di gas penetri nella foresta e stermini tutto quello che vi si nasconde. L'ispettore dell'artiglieria deve fornire immediatamente le quantità richieste di gas asfissianti, oltre a specialisti competenti per questo genere di operazioni». Il 19 luglio, di fronte all'opposizione di molti dirigenti bolscevichi a questa forma estrema di «sradicamento», l'Ordine n. 171 fu annullato. Nel mese di luglio del 1921 le autorità militari e la Ceka avevano già creato 7 campi di concentramento dove, secondo i dati ancora parziali, erano rinchiuse almeno 50 mila persone, per la maggioranza donne, vecchi e bambini, «ostaggi» e familiari dei contadini-disertori. In tali campi la situazione era spaventosa: il tifo e il colera erano endemici e i detenuti, seminudi, mancavano di tutto. Durante l'estate del 1921 arrivò la carestia. In

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autunno la mortalità raggiunse il 15- 20 per cento al mese. Il primo settembre 1921 si contavano ormai solo alcune bande, che complessivamente comprendevano poco più di un migliaio di uomini armati, rispetto ai 40 mila del febbraio del 1921, quando il movimento contadino era all'apogeo. A partire dal novembre del 1921, quando ormai le campagne erano già da tempo «pacificate», molte migliaia dei detenuti più validi furono deportati nei campi di concentramento della Russia settentrionale, ad Arcangelo e a Holmogory.

Come attestano i rapporti settimanali della Ceka ai dirigenti bolscevichi, in diverse regioni (Ucraina, Siberia occidentale, province del Volga, Caucaso) la «pacificazione» delle campagne continuò almeno fino alla seconda metà del 1922. Le abitudini prese negli anni precedenti erano dure a morire e, anche se ufficialmente le requisizioni erano state abolite nel marzo del 1921, il prelievo dell'imposta in natura che sostituiva le requisizioni spesso veniva eseguito con estrema brutalità. Le quote, molto elevate rispetto alla situazione catastrofica dell'agricoltura nel 1921, mantenevano una tensione costante nelle campagne, dove un buon numero di contadini aveva conservato le armi.

Secondo quanto riferiva il vicecommissario del popolo per l'Agricoltura Nikolaj Osinskij descrivendo le impressioni di un viaggio nelle province di Tula, Orel e Voronez compiuto nel maggio 1921, i funzionari locali erano convinti che le requisizioni sarebbero state ripristinate in autunno. Le autorità locali «non potevano considerare i contadini altrimenti che come sabotatori nati».

____________________________________________________________ [Box: RAPPORTO del presidente della Commissione plenipotenziaria di 5 membri sulle misure repressive contro i banditi della provincia di Tambov. 10 luglio 1921. Le operazioni di ripulitura della volost' (circoscrizione) Kudrjukovskaja sono incominciate il 27 giugno con il villaggio Osinovki, che in passato ha dato asilo a gruppi di banditi. L'atteggiamento dei contadini nei confronti dei nostri distaccamenti repressivi era caratterizzato da una certa diffidenza. I contadini non denunciavano i banditi delle foreste, e se interrogati rispondevano di non sapere niente. Abbiamo preso quaranta ostaggi, dichiarato il villaggio in stato d'assedio e dato due ore agli abitanti per consegnare i banditi e le armi nascoste. Gli abitanti del villaggio, riuniti in assemblea, esitavano sulla condotta da tenere, ma non si decidevano a collaborare attivamente alla caccia ai banditi. Certo non prendevano sul serio le nostre minacce di giustiziare gli ostaggi. Alla scadenza del termine, ne abbiamo fatti giustiziare 21 davanti all'assemblea del villaggio. L'esecuzione pubblica, per fucilazione individuale, con tutte le formalità d'uso, in presenza di tutti i membri della Commissione plenipotenziaria, dei comunisti eccetera, ha provocato un notevole effetto fra i contadini... Quanto al villaggio Karaevka, che per la sua collocazione geografica era una postazione privilegiata dei gruppi di banditi ... la Commissione ha deciso di cancellarlo dalla carta geografica. Tutta la popolazione è stata deportata, i beni confiscati, a eccezione delle famiglie dei soldati in servizio nell'Armata rossa, che sono state trasferite nel borgo Kurdjuki e alloggiate nelle case confiscate alle famiglie dei banditi. Dopo aver recuperato alcuni oggetti di valore, intelaiature delle finestre, oggetti di vetro, di legno eccetera, le case del villaggio sono state messe a fuoco... Il 3 luglio abbiamo incominciato le operazioni nel borgo Bogoslovka. Di rado avevamo incontrato contadini così indocili e organizzati. Quando si discuteva con loro, rispondevano tutti all'unanimità, dal più giovane al più vecchio, con un'aria stupita: «Banditi da noi? Neanche per idea! Forse ne abbiamo visti passare una volta nei paraggi, ma non sappiamo nemmeno se fossero banditi. Noi viviamo tranquilli, non facciamo male a nessuno, non sappiamo nulla». Abbiamo adottato gli stessi provvedimenti di Osinovki, prendendo 58 ostaggi. Il 4 luglio abbiamo fucilato pubblicamente un primo gruppo di 21 persone, l'indomani 15, abbiamo messo in condizione

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di non nuocere 60 famiglie di banditi, cioè 200 persone circa. Insomma, alla fine abbiamo raggiunto lo scopo, e i contadini sono stati costretti a partire a caccia dei banditi e delle armi nascoste... La ripulitura dei villaggi e dei borghi suddetti si è conclusa il 6 luglio. L'operazione è stata coronata dal successo, e ha conseguenze che vanno addirittura al di là delle due volost' limitrofe. Prosegue la resa dei banditi. Il presidente della Commissione plenipotenziaria di 5 membri, Uskonin. ("Krestjanskoe vosstanie v Tambovskoj gubernii v 1919-1921", cit., p. 218).]

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Per accelerare la raccolta dell'imposta in Siberia, la regione che doveva fornire il grosso dei prodotti agricoli in un momento in cui la carestia devastava tutte le province del Volga, nel dicembre del 1921 vi fu inviato come plenipotenziario straordinario Feliks Dzerzinskij. Istituì dei «tribunali rivoluzionari volanti» incaricati di rastrellare i villaggi e di condannare sul posto a pene detentive in prigione o nei campi i contadini che non pagavano il tributo.

Questi tribunali, affiancati da «distaccamenti fiscali», si comportarono come le squadre di requisizione: commisero un tale numero di abusi che lo stesso presidente del Tribunale supremo, Nikolaj Krylenko, dovette ordinare un'inchiesta sull'operato di questi organi nominati dal capo della Ceka. Il 14 febbraio 1922 un ispettore scriveva da Omsk: «Gli abusi delle squadre di requisizione hanno raggiunto un livello inimmaginabile. I contadini arrestati vengono sistematicamente rinchiusi in magazzini non riscaldati, frustati e minacciati di morte. Quelli che non hanno completato la quota di consegna vengono legati, costretti a correre nudi lungo la strada principale del villaggio, poi sono rinchiusi in un magazzino non riscaldato. Moltissime donne sono state picchiate fino a perdere conoscenza, infilate nude in buche scavate nella neve...». In tutte le province la tensione rimaneva molto alta.

Lo attestano questi brani di un rapporto della polizia politica dell'ottobre 1922, un anno e mezzo dopo l'inizio della NEP:

"Nella provincia di Pskov le quote fissate per l'imposta in natura rappresentano i 2 terzi del raccolto. Quattro distretti hanno impugnato le armi ... Nella provincia di Novgorod le quote non saranno raggiunte, nonostante la riduzione del 25 per cento accordata di recente in considerazione della scarsità del raccolto. Nelle province di Rjazan' e di Tver', la realizzazione delle quote al 100 per cento condannerebbe i contadini a morire di fame ... Nella provincia di Novo-Nikolaevsk, la carestia incombe e i contadini fanno provvista di erbe e di radici per il proprio consumo.... Ma tutti questi fatti appaiono insignificanti rispetto alle informazioni che ci pervengono dalla provincia di Kiev, dove si assiste a un'ondata di suicidi senza precedenti: i contadini si uccidono in massa perché non possono né pagare le imposte né riprendere le armi che sono state confiscate. La carestia che si è abbattuta da un anno su tutta una serie di regioni rende i contadini molto pessimisti riguardo all'avvenire".

Comunque, nell'autunno del 1922 il peggio era passato. Dopo due anni di carestia, i sopravvissuti avevano accantonato un raccolto che avrebbe consentito loro di passare l'inverno, a condizione però che le imposte non venissero riscosse al cento per cento. «Quest'anno il raccolto dei cereali sarà inferiore alla media degli ultimi dieci anni»: così il 2 luglio 1921 la «Pravda» aveva citato per la prima volta il «problema alimentare» sul «fronte agricolo» in un breve trafiletto in ultima pagina. Dieci giorni dopo Mihail Kalinin, presidente del Comitato esecutivo centrale dei soviet, in un "Appello a tutti i cittadini della R.S.F.S.R." pubblicato sulla «Pravda» il 12 luglio 1921, ammetteva: «In molti distretti la siccità di quest'anno ha distrutto il raccolto».

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«Questa calamità non dipende soltanto dalla siccità» spiegava una risoluzione del Comitato centrale del 21 luglio. «Deriva e dipende da tutta la storia passata, dal ritardo della nostra agricoltura, dalla mancanza di organizzazione, dalla scarsità delle cognizioni agronomiche, dalla povertà tecnica, dalle forme superate di rotazione delle colture. E' aggravata dalle conseguenze della guerra e del blocco, dalla guerra che i latifondisti, i capitalisti e i loro lacchè continuano a farci, dalle azioni incessanti dei banditi che eseguono gli ordini di organizzazioni ostili alla Russia sovietica e a tutta la sua popolazione di lavoratori».

Nella lunga enumerazione delle cause di questa «calamità» di cui non si osava ancora dire il nome, mancava il fattore principale: la politica delle requisizioni che da anni spremeva un'agricoltura già molto fragile. I dirigenti delle province colpite dalla carestia, convocati a Mosca nel giugno del 1921, furono concordi nel ribadire le responsabilità del governo, e in particolare dell'onnipotente commissariato del popolo per il Vettovagliamento, riguardo alla diffusione e all'aggravarsi della carestia. Il rappresentante della provincia di Samara, un certo Vavilin, spiegò che da quando erano incominciate le requisizioni il Comitato provinciale per il vettovagliamento continuava a gonfiare le valutazioni relative al raccolto.

Nonostante il cattivo raccolto del 1920, quell'anno erano stati requisiti 10 milioni di pud di cereali. Erano state confiscate tutte le riserve, comprese le sementi per l'anno successivo. Già a gennaio del 1921 molti contadini non avevano più niente da mangiare. La mortalità era cominciata ad aumentare in febbraio. Nel giro di due o tre mesi, nella provincia di Samara sommosse e ribellioni contro il regime in pratica cessarono. Vavilin spiegava: «Ora non ci sono più rivolte. Si vedono fenomeni nuovi: folle di migliaia di affamati assediano pacificamente il Comitato esecutivo dei soviet o del Partito, e aspettano per giorni chissà quale miracoloso arrivo di cibo. Non si riesce a cacciare la folla, ogni giorno le persone muoiono come mosche.... Ritengo che nella provincia ci siano almeno 900 mila affamati».

Leggendo i rapporti della Ceka e del Servizio informazioni militare si constata che fin dal 1919 molte regioni erano afflitte dalla penuria di cibo. Nel corso del 1920 la situazione non aveva cessato di peggiorare. A partire dall'estate del 1920 la Ceka, il commissariato del popolo per l'Agricoltura e il commissariato del popolo per l'Approvvigionamento, perfettamente consapevoli della situazione, elencavano nei loro rapporti province e distretti «affamati» o «in preda alla carestia». Nel gennaio del 1921, fra le cause della carestia diffusasi nella provincia di Tambov un rapporto indicava l'«orgia» di requisizioni del 1920. Come attestano i discorsi riferiti dalla polizia politica, per il popolo minuto era evidente che il potere sovietico voleva «far crepare di fame tutti i contadini così temerari da resistergli». Il governo, pur perfettamente informato sulle inevitabili conseguenze della politica delle requisizioni, non adottò alcun provvedimento. Il 30 luglio 1921, proprio mentre la carestia si stava diffondendo in un numero crescente di regioni, Lenin e Molotov inviarono un telegramma a tutti i dirigenti dei comitati regionali e provinciali del partito, chiedendo loro di «rinforzare gli apparati di raccolta ... di sviluppare un'intensa propaganda presso la popolazione rurale, spiegandole la necessità economica e politica di pagare le imposte puntualmente e totalmente ... di mettere a disposizione delle agenzie di raccolta dell'imposta in natura tutta l'autorità del Partito e il totale potere di repressione dell'apparato statale»!.

Di fronte all'atteggiamento delle autorità, che perseguivano a ogni costo la loro politica di sfruttamento della popolazione rurale, gli ambienti informati e illuminati dell'intellighenzia si mobilitarono. Nel giugno del 1921 agronomi, economisti e universitari costituirono in seno alla Società moscovita dell'agricoltura un Comitato sociale di lotta contro la carestia. Fra i primi a aderire al comitato furono gli eminenti economisti Kondrat'ev e Prokopovic, ex ministro dell'Approvvigionamento del governo provvisorio, Ekaterina Kuskova, giornalista vicina a Ma'ksim Gor'kij, scrittori, medici, agronomi. Grazie alla mediazione di Gor'kij, ben introdotto negli ambienti

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dirigenziali bolscevichi, una delegazione del Comitato, che Lenin aveva rifiutato di ricevere, a metà luglio del 1921 ottenne un'udienza con Lev Kamenev. Dopo il colloquio Lenin, sempre diffidente riguardo alla «sensibilità morbosa» di certi dirigenti bolscevichi, mandò un biglietto ai colleghi dell'Ufficio politico: «Mettere assolutamente la Kuskova in condizione di non nuocere.... Della Kuskova accettiamo il nome, la firma, un vagone o due [di viveri] da parte di coloro che provano simpatia per lei (e per quelli della sua specie). Nient'altro». Alla fine i membri del Comitato riuscirono a convincere un certo numero di dirigenti della propria utilità. Erano i rappresentanti più famosi della scienza, della letteratura e della cultura russe, noti in Occidente, e la maggior parte di loro aveva già partecipato attivamente all'organizzazione degli aiuti alle vittime della carestia del 1891. Avevano inoltre numerosi contatti fra gli intellettuali di tutto il mondo e avrebbero potuto farsi garanti di un'equa distribuzione di eventuali aiuti internazionali. Erano pronti a dare il proprio avallo, ma esigevano che il Comitato avesse un riconoscimento ufficiale.

Il 21 luglio 1921 il governo bolscevico decise, non senza riluttanza, di legalizzare il Comitato, che prese il nome di Comitato panrusso di aiuto agli affamati, e al quale fu conferito l'emblema della Croce rossa. Era autorizzato a procurarsi in Russia e all'estero viveri, foraggio, medicinali, e a ripartire i soccorsi fra la popolazione bisognosa, a ricorrere a trasporti eccezionali per eseguire le consegne, a organizzare mense popolari, a creare sezioni e comitati locali, a «comunicare liberamente con gli organismi e i procuratori che intenderà designare all'estero» e anche a «discutere i provvedimenti adottati dalle autorità centrali e locali, che a suo parere riguardino la questione della lotta contro la carestia». In nessun altro momento della storia sovietica furono concessi altrettanti diritti a un'organizzazione sociale. Le concessioni del governo erano proporzionate alla crisi che travagliava il paese, quattro mesi dopo l'instaurazione ufficiale, e molto timida, della NEP.

Il Comitato si mise in contatto con il capo della Chiesa ortodossa, il patriarca Tihon, che creò subito un Comitato ecclesiastico panrusso di aiuto agli affamati. Il 7 luglio 1921 il patriarca fece leggere in tutte le chiese una lettera pastorale: «Per la popolazione affamata la carne dei cadaveri è diventata un piatto prelibato, difficile da trovare. Ovunque risuonano pianti e gemiti. Si arriva già al cannibalismo... Tendete una mano caritatevole ai vostri fratelli e alle vostre sorelle! Con l'accordo dei fedeli, per soccorrere gli affamati potete utilizzare i tesori della chiesa che non hanno valore sacramentale, come anelli, catene e braccialetti, le decorazioni che ornano le sante icone eccetera».

Dopo aver ottenuto l'aiuto della Chiesa, il Comitato panrusso di aiuto agli affamati contattò svariate istituzioni internazionali, fra cui la Croce rossa, i quaccheri e l'American Relief Association (ARA), che risposero tutte positivamente. Ciò nonostante, la collaborazione fra il regime e il Comitato doveva durare soltanto cinque settimane. Il Comitato fu sciolto il 27 agosto 1921, sei giorni dopo che il governo ebbe firmato un accordo con i rappresentanti dell'American Relief Association, presieduta da Herbert Hoover. Per Lenin, ora che gli americani inviavano i primi cargo di provviste, il Comitato aveva esaurito le sue funzioni: «il nome e la firma della Kuskova» erano serviti da garanzia ai bolscevichi. E tanto bastava.

"Propongo di sciogliere il Comitato oggi stesso, venerdì 26 agosto ... Arrestare Prokopovic per intenzioni sediziose ... e tenerlo tre mesi in prigione ... Espellere immediatamente da Mosca, oggi stesso, gli altri membri del Comitato, mandarli separati gli uni dagli altri nei capoluoghi di distretto, se possibile lontano dalla rete ferroviaria, in domicilio coatto ... Domani pubblicheremo un comunicato governativo breve e secco, di cinque righe: Comitato sciolto per rifiuto di lavorare. Dare la direttiva ai giornali di iniziare da domani a coprire di ingiurie i membri del Comitato. Figli di papà, Guardie bianche, più disposti a farsi un giro all'estero che a recarsi in provincia, metterli in ridicolo con ogni mezzo e maltrattarli almeno una volta alla settimana per due mesi".

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La stampa seguì alla lettera le istruzioni di Lenin e si scatenò contro i sessanta intellettuali di fama che erano entrati nel Comitato. I titoli degli articoli pubblicati dimostrano chiaramente il carattere diffamatorio di questa campagna: "Non si scherza con la fame!" («Pravda», 30 agosto 1921); "Speculavano sulla fame" («Kommunisticeskij trud», 31 agosto 1921); "Il Comitato di aiuto... alla controrivoluzione" («Izvestija», 30 agosto 1921). A una persona andata a intercedere in favore dei membri del Comitato arrestati e deportati Unshliht uno dei vice di Dzerzinskij alla Ceka, dichiarò: «Lei dice che il Comitato non ha commesso alcun atto di slealtà. E' vero. Ma è diventato un polo di attrazione per la società. E questo non possiamo ammetterlo. Sa, quando si mette in un bicchiere d'acqua un ramoscello che non ha ancora getti, inizia a germogliare in fretta. Il Comitato ha incominciato altrettanto in fretta a estendere le sue ramificazioni nella collettività sociale.... Abbiamo dovuto togliere il rametto dall'acqua e spezzarlo».

Al posto del Comitato, il governo creò una Commissione centrale di soccorso agli affamati, un pesante organismo burocratico composto di funzionari di vari commissariati del popolo, molto inefficiente e corrotto. Nel pieno della carestia, che nell'estate del 1922 era al culmine e affliggeva quasi 30 milioni di persone, la Commissione centrale assicurò un soccorso alimentare irregolare a meno di 3 milioni di persone. L'ARA, la Croce rossa e i quaccheri, dal canto loro, nutrivano circa 11 milioni di persone al giorno. Nonostante la mobilitazione internazionale, fra il 1921 e il 1922 almeno 5 dei 29 milioni di persone colpite dalla carestia morirono di fame. L'ultima grande carestia che aveva colpito la Russia nel 1891, più o meno nelle stesse regioni (Medio e Basso Volga, e una parte del Kazakistan), aveva fatto da 400 mila a 500 mila vittime. In quell'occasione Stato e società avevano fatto a gara per soccorrere i contadini afflitti dalla siccità. All'inizio del decennio 1890-1900 il giovane avvocato Vladimir Ul'janov Lenin viveva a Samara, capoluogo di una delle province più colpite dalla carestia del 1891. Fu l'unico rappresentante dell'intellighenzia locale che, oltre a non partecipare al soccorso sociale agli affamati, si pronunciò categoricamente contro gli aiuti. Come ricordava un suo amico, «Vladimir Il'ic Ul'janov ebbe il coraggio di dichiarare apertamente che la carestia aveva molte conseguenze positive, e cioè la nascita di un proletariato industriale, affossatore dell'ordine borghese». «Distruggendo l'economia contadina arretrata» spiegava «la carestia ci avvicina oggettivamente all'obiettivo finale, il socialismo, tappa immediatamente successiva al capitalismo. Inoltre la carestia distrugge la fede, non solo nello zar, ma anche in Dio».

Trent'anni dopo il giovane avvocato, divenuto capo del governo bolscevico, riprendeva l'idea: la carestia poteva e doveva servire a «colpire mortalmente il nemico alla testa». Il nemico era la Chiesa ortodossa. «L'elettricità prenderà il posto di Dio. Lasciate che il contadino preghi l'elettricità, avvertirà il potere delle autorità più di quello del cielo» disse Lenin nel 1918, discutendo con Leonid Krasin riguardo all'elettrificazione della Russia. I rapporti fra il nuovo regime e la Chiesa ortodossa si erano già deteriorati subito dopo l'ascesa al potere dei bolscevichi. Il 5 febbraio 1918 il governo bolscevico aveva decretato la separazione della Chiesa dallo Stato, e della scuola dalla Chiesa, proclamato la libertà di coscienza e di culto, annunciato la nazionalizzazione dei beni della Chiesa. Contro questo attentato al ruolo tradizionale della confessione ortodossa, che sotto lo zarismo era religione di Stato, il patriarca Tihon aveva protestato con vigore in quattro lettere pastorali ai credenti. I bolscevichi moltiplicarono le provocazioni, «sottoponendo a perizia» le reliquie dei santi, cioè profanandole, organizzando «carnevali antireligiosi» durante le grandi feste religiose, imponendo che il grande monastero della Trinità, nei dintorni di Mosca, dove erano conservate le reliquie di San Sergio da Radonez, fosse trasformato in museo dell'ateismo. In questo clima già teso, mentre molti preti e vescovi erano stati arrestati per essersi opposti alle provocazioni, con il pretesto della carestia i dirigenti bolscevichi, su iniziativa di Lenin, lanciarono una vasta operazione politica contro la Chiesa. Il 26 febbraio 1922 la stampa pubblicò un decreto del governo che ordinava «la confisca immediata nelle chiese di tutti gli oggetti preziosi d'oro e d'argento, e di tutte le pietre preziose che non servono direttamente al culto»: «Questi oggetti saranno inviati agli

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organi del commissariato del popolo per le Finanze, che li trasferirà ai fondi della Commissione centrale di soccorso agli affamati». Le operazioni di confisca incominciarono ai primi di marzo e furono accompagnate da numerosi scontri fra le squadre incaricate di prelevare i tesori delle chiese e i fedeli. I più gravi si verificarono il 15 marzo 1922 a Sciuja, una cittadina industriale della provincia di Ivanovo, dove i soldati spararono sulla folla dei fedeli, uccidendo una decina di persone. Lenin prese a pretesto questa strage per intensificare la campagna antireligiosa.

In una lettera del 19 marzo 1922 indirizzata ai membri dell'Ufficio politico, spiegava con il suo tipico cinismo come si poteva sfruttare la carestia per «colpire mortalmente il nemico alla testa»:

"Riguardo agli avvenimenti di Sciuja, che saranno discussi all'Ufficio politico, secondo me va presa una ferma decisione fin da ora, nel quadro del piano generale di lotta su questo fronte.... Se si pensa a quanto riferiscono i giornali sull'atteggiamento del clero rispetto alla campagna di confisca dei beni della Chiesa, e sulla presa di posizione sovversiva del patriarca Tihon, risulta evidente che il clero delle Centurie nere sta mettendo in atto un piano studiato per infliggerci proprio in questo momento una sconfitta decisiva.... Ritengo che il nemico stia commettendo un errore strategico madornale. Infatti il momento attuale è straordinariamente favorevole a noi, e non a loro. Abbiamo novantanove possibilità su cento di sferrare al nemico un colpo mortale alla testa ottenendo il successo, e di assicurarci per i prossimi decenni le posizioni che vogliamo. Con tutta questa gente affamata che si nutre di carne umana, con le vie disseminate di centinaia, migliaia di cadaveri, ora e solo ora possiamo (e di conseguenza dobbiamo) confiscare i beni della Chiesa con un'energia brutale, spietata. E' proprio adesso e soltanto adesso che l'immensa maggioranza delle masse contadine può sostenerci, o più esattamente, che non può essere in grado di sostenere il pugno di preti delle Centurie nere e di piccoli borghesi reazionari... Possiamo così procurarci un tesoro di molte centinaia di milioni di rubli oro (pensate alle ricchezze di certi monasteri!). Senza questo tesoro, non è immaginabile eseguire i compiti dello Stato in generale, ristrutturare l'economia in particolare, e difendere le nostre posizioni. Dobbiamo impadronirci a tutti i costi di questo tesoro di molte centinaia di milioni di rubli (forse anche di molti miliardi!). Si può fare con successo soltanto adesso. Tutto fa pensare che in un altro momento non raggiungeremmo i nostri scopi, perché soltanto la disperazione generata dalla fame può indurre un atteggiamento benevolo, o almeno neutrale, delle masse nei nostri confronti... Perciò sono giunto alla conclusione categorica che è il momento di annientare il clero delle Centurie nere con la massima decisione e spietatezza, con una brutalità tale da fargliela ricordare per decenni. Prevedo di mettere in atto il nostro piano in questo modo: ufficialmente i provvedimenti saranno adottati soltanto dal compagno Kalinin. Il compagno Trotsky non dovrà comparire sulla stampa o in pubblico... Uno dei membri più energici e più intelligenti del Comitato esecutivo centrale dovrà essere inviato ... a Sciuja, con istruzioni verbali di un membro dell'Ufficio politico. Tali istruzioni stabiliranno che la sua missione a Sciuja è di arrestare il maggior numero possibile di membri del clero, piccoli borghesi e borghesi, almeno qualche dozzina, con l'accusa di partecipazione diretta o indiretta alla resistenza violenta contro il decreto sulla confisca dei beni della Chiesa. Al ritorno dalla missione, tale responsabile renderà conto all'Ufficio politico in assemblea plenaria, oppure a due dei suoi membri. Sulla base del rapporto, l'Ufficio politico darà dettagliati ordini verbali alle autorità giudiziarie, affinché il processo dei ribelli di Sciuja venga eseguito il più in fretta possibile, e si risolva soltanto con l'esecuzione per fucilazione di un ingente numero di membri delle Centurie nere di Sciuja, ma anche di Mosca e di altri centri religiosi... Più sarà ingente il numero dei rappresentanti del clero passati per le armi, meglio sarà per noi. Dobbiamo dare immediatamente una lezione a tutte le persone di questo genere, in modo tale che per decenni non tentino nemmeno più di opporre resistenza...".

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Come attestano i rapporti settimanali della polizia politica, la campagna di confisca dei beni della Chiesa raggiunse l'apogeo in marzo, aprile e maggio del 1922, provocando 1414 incidenti registrati, e l'arresto di parecchie migliaia di sacerdoti, monaci e monache. Secondo fonti ecclesiastiche, nel 1922 furono uccisi 2691 preti, 1962 monaci e 3447 monache. Il governo organizzò molti grandi processi pubblici ai membri del clero a Mosca, Ivanovo, Sciuja, Smolensk e Pietrogrado. In ottemperanza agli ordini di Lenin, il 22 marzo, una settimana dopo gli incidenti di Sciuja, l'Ufficio politico propose una serie di provvedimenti: «Arrestare il sinodo e il patriarca, non subito ma fra 15-25 giorni. Rendere pubbliche le circostanze del caso di Sciuja. Entro una settimana far processare i preti e i laici di Sciuja. Fucilare i sobillatori della ribellione». In una nota all'Ufficio politico, Dzerzinskij segnalava: «Il patriarca e la sua banda ... si oppongono apertamente alla confisca dei beni della Chiesa. ... Già ora ci sono motivi più che sufficienti per arrestare Tihon e i membri più reazionari del sinodo. La G.P.U. ritiene che: 1) sia opportuno arrestare il sinodo e il patriarca; 2) non si debba autorizzare la designazione di un nuovo sinodo; 3) qualsiasi prete che si opponga alla confisca dei beni della Chiesa dovrebbe essere condannato come nemico del popolo al domicilio coatto nelle regioni del Volga più colpite dalla carestia». A Pietrogrado furono condannati ai lavori forzati 76 ecclesiastici e 4 vennero giustiziati, fra cui il metropolita Benjamin, eletto nel 1917, il quale, pur essendo molto vicino al popolo, aveva perorato calorosamente l'idea della separazione fra Stato e Chiesa. A Mosca, 148 fra ecclesiastici e laici furono condannati ai lavori forzati e 6 alla pena capitale, eseguita immediatamente. Il patriarca Tihon fu posto in domicilio coatto al monastero Donskoj di Mosca.

Qualche settimana dopo queste parodie giudiziarie, il 6 giugno 1922 si aprì a Mosca un grande processo politico, annunciato sulla stampa il 26 febbraio: 34 socialisti rivoluzionari erano accusati di «attività controrivoluzionarie e terroristiche contro il governo sovietico», fra le quali figuravano in particolare l'attentato del 31 agosto 1918 contro Lenin e la «direzione politica» della rivolta contadina di Tambov. La prassi seguita fu la stessa che sarebbe stata ampiamente usata negli anni Trenta: gli imputati erano un insieme eterogeneo di autentici dirigenti politici, fra cui 12 membri del Comitato centrale del Partito socialista rivoluzionario, diretto da Avram Goc e Dmitrij Donskoj, e di agenti provocatori incaricati di testimoniare contro i coimputati e di «confessare i propri crimini». Questo processo permise anche, come scrive Hélène Carrère d'Encausse, di «sperimentare il metodo delle accuse inscatolate una dentro l'altra come bambole russe, che partendo da un fatto preciso - dal 1918 i socialisti rivoluzionari si opponevano davvero all'assolutismo della gestione bolscevica - afferma il principio ... che in ultima analisi qualsiasi opposizione equivale alla collaborazione con la borghesia internazionale».

Il 7 agosto 1922, come risultato di questo processo farsa, durante il quale le autorità inscenarono manifestazioni popolari reclamando la pena di morte per i «terroristi», 11 degli accusati, e precisamente i dirigenti del Partito socialista rivoluzionario, furono condannati alla pena capitale. Di fronte alle proteste della comunità internazionale mobilitata dai socialisti russi in esilio, e più ancora di fronte alla minaccia concreta di una ripresa delle insurrezioni nelle campagne dove rimaneva vivace lo «spirito socialista rivoluzionario», l'esecuzione delle sentenze fu sospesa «a patto che il Partito socialista rivoluzionario cessasse qualsiasi attività sovversiva, terrorista e insurrezionale». Nel gennaio del 1924 le condanne a morte furono commutate in cinque anni di internamento in campo di concentramento. Tuttavia i condannati non vennero mai liberati, e furono giustiziati negli anni Trenta, in un momento in cui la dirigenza bolscevica non teneva più in alcun conto né l'opinione pubblica internazionale né il pericolo di insurrezioni contadine.

In occasione del processo ai socialisti rivoluzionari era stato applicato il nuovo Codice penale, entrato in vigore il primo giugno 1922. Lenin aveva seguito con molta attenzione l'elaborazione del codice, che doveva legalizzare la violenza esercitata contro i nemici politici, dato che ufficialmente la fase delle eliminazioni sbrigative, giustificate dalla guerra civile, si era conclusa. Dopo aver

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esaminato i primi abbozzi, Lenin fece delle osservazioni, e il 15 maggio 1922 le inviò a Kurskij, il commissario del popolo per la Giustizia: «Secondo me bisogna estendere la condanna alla fucilazione (con la commutazione in esilio) a tutte le forme di attività dei menscevichi, "dei socialisti rivoluzionari eccetera". Trovare una formulazione che ponga queste attività "in relazione" con la "borghesia internazionale"». Due giorni più tardi, Lenin scriveva nuovamente:

"Compagno Kurskij, voglio aggiungere al nostro colloquio questa bozza per un paragrafo supplementare del Codice penale ... L'essenziale è chiaro, credo. Bisogna affermare apertamente, intendo in senso politico, e non in termini strettamente giuridici, il principio che motiva l'essenza e la giustezza del terrore, la sua necessità, i suoi limiti. Il tribunale non deve sopprimere il terrore, dirlo equivarrebbe a mentirsi o a mentire, ma dargli un fondamento, legalizzarlo in base a dei principi, con chiarezza, senza barare o nascondere la verità. La formulazione deve essere il più aperta possibile, perché solo la coscienza legale rivoluzionaria e la coscienza rivoluzionaria creano le condizioni per applicarlo nei fatti".

Seguendo le istruzioni di Lenin, il Codice penale identificava il reato controrivoluzionario con qualsiasi atto «inteso ad abbattere o a indebolire il potere dei soviet operai e contadini stabilito dalla rivoluzione proletaria», ma anche con qualsiasi atto che contribuisse «ad aiutare il partito della borghesia internazionale, il quale non riconosce l'eguaglianza dei diritti del sistema comunista di proprietà succeduto al sistema capitalista, e cerca di rovesciarlo con la forza, l'intervento militare, il blocco, lo spionaggio, il finanziamento alla stampa e altri mezzi simili».

Erano punibili con la morte non solo tutte le attività (rivolta, sommossa, sabotaggio, spionaggio eccetera) che potevano essere qualificate come «atti controrivoluzionari», ma anche la partecipazione e il supporto prestato a un'organizzazione «nel senso di aiuto a un partito della borghesia internazionale». Era considerata un crimine controrivoluzionario punibile con la privazione della libertà «che non potrebbe essere inferiore a tre anni» o la messa al bando definitiva anche la «propaganda in favore di un partito della borghesia internazionale».

Nel quadro della legalizzazione della violenza intrapresa all'inizio del 1922, va citato il fatto che la polizia politica cambiò nome. Il 6 febbraio 1922 un decreto aboliva la Ceka e la sostituiva subito con la G.P.U. ("Gosudarstzlennoe politiceskoe upravlenie", Amministrazione politica statale), che dipendeva dal commissariato del popolo per gli Interni. Pur cambiando il nome, i responsabili e le strutture rimanevano identici, e questo attesta con chiarezza la continuità dell'istituzione. Che cosa poteva significare allora il cambiamento di etichetta? Nominalmente la Ceka era una commissione straordinaria, e questo suggeriva il carattere transitorio della sua esistenza e di quanto la giustificava. G.P.U. (pronunciato "ghepeù") suggeriva invece che lo Stato doveva disporre di istituzioni normali e permanenti di controllo e di repressione politica. Dietro al cambiamento del nome si delineavano la perpetuazione e la legalizzazione del terrore come sistema per risolvere i rapporti conflittuali fra il nuovo Stato e la società.

Una delle disposizioni inedite del nuovo Codice penale era la messa al bando definitiva, con divieto di rientrare in URSS, sotto pena di messa a morte immediata. Fu attuata a partire dall'autunno del 1922, in seguito a una grande operazione di espulsione che colpì quasi duecento intellettuali di fama sospettati di opporsi al bolscevismo. Fra questi spiccavano tutti coloro che avevano fatto parte del Comitato di lotta contro la carestia, sciolto il 27 luglio 1921. Il 20 maggio 1922, in una lunga lettera a Dzerzinskij, Lenin espose un vasto piano di «esilio degli scrittori e dei professori che hanno aiutato la controrivoluzione». «Bisogna preparare la cosa più accuratamente» scriveva Lenin. «Convocare a Mosca una riunione con Messing, Mantsev e ancora qualche altro. Impegnare i membri dell'Ufficio politico e dedicare due o tre ore alla settimana all'esame di una serie di

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pubblicazioni e di libri.... Raccogliere sistematicamente informazioni sull'anzianità politica, il lavoro e l'attività letteraria dei professori e degli scrittori.»

E Lenin faceva un esempio:

"Tutt'altra cosa è la rivista di Pietrogrado, l'«Ekonomist», edita dall'undicesima sezione della Società tecnica russa. Quello, secondo me, è un vero centro di Guardie bianche. Nel n. 3 ( soltanto nel terzo!!! Nota bene!) è pubblicato sulla copertina l'elenco dei collaboratori. Questi, penso, sono quasi tutti legittimi candidati all'esilio. Sono tutti controrivoluzionari dichiarati, complici dell'Intesa, appartengono a un'organizzazione di servi e spie dell'Intesa, di corruttori della gioventù studiosa. Bisogna fare in modo da acciuffare continuamente e sistematicamente queste «spie militari» e esiliarle".

Il 22 maggio l'Ufficio politico istituì una commissione speciale di cui facevano parte Kamenev, Kurskij, Unshliht, Mancev (due assistenti diretti di Dzerzinskij), incaricata di schedare un certo numero di intellettuali per arrestarli e poi espellerli. I primi a essere espulsi, nel giugno del 1922, furono i due principali dirigenti dell'ex Comitato sociale di lotta contro la carestia, Sergej Prokopovic ed Ekaterina Kuskova. Un primo gruppo di 160 famosi intellettuali, filosofi, scrittori, storici, professori universitari, arrestati fra il 16 e il 17 agosto, fu espulso via mare in settembre. Tra gli altri vi erano alcuni nomi che avevano già acquisito o dovevano acquisire fama internazionale: Nikolaj Berdjaev, Sergej Bulgakov, Sem‰n Frank, Nikolaj Loskij, Lev Karsavin, Fedor Stepun, Sergej Trubeckoj, Aleksandr Izgoev, Ivan Lapscin, Mihail Osorgin, Aleksandr Kisvetter. Dovettero tutti firmare un documento in cui si affermava che in caso di ritorno in Russia sarebbero stati immediatamente fucilati. Gli espulsi erano autorizzati a portare con sé un cappotto e un soprabito, un abito, la biancheria di ricambio, due camicie e due camicie da notte, due paia di mutande, due di calze! Oltre a questi effetti personali, ogni espulso poteva tenere con sé 20 dollari in valuta.

Contemporaneamente alle espulsioni, la polizia politica continuava la schedatura di tutti gli intellettuali di secondo piano sospetti, destinati alla deportazione amministrativa in zone remote del paese, legalizzata da un decreto del 10 agosto 1922, oppure all'internamento nei campi di concentramento. Il 5 settembre 1922 Dzerzinskij scrisse al suo vice Unshliht:

"Compagno Unshliht! Nell'ambito della schedatura dell'intellighenzia, le cose sono ancora assai artigianali! Da quando Agranov è andato via, non abbiamo più un responsabile competente in questo settore. Zarajskij è un po' troppo giovane. Mi sembra che per andare avanti la faccenda dovrebbe essere presa in mano dal compagno Menzinskij ... E' indispensabile preparare un buon piano di lavoro, che correggeremo e completeremo regolarmente. Bisogna classificare tutta l'intellighenzia in gruppi e sottogruppi: 1) scrittori; 2) giornalisti e politici; 3) economisti (indispensabile fare dei sottogruppi: a) finanziari; b) specialisti dell'energia; c) specialisti dei trasporti; d) commerciali; e) specialisti della cooperazione eccetera); 4) tecnici specialisti (anche in questo caso si impongono dei sottogruppi: a) ingegneri; b) agronomi; c) medici eccetera); 5) professori universitari, loro assistenti eccetera. Le informazioni su tutti questi signori devono pervenire alle nostre sezioni ed essere sintetizzate dalla divisione «Intellighenzia». Ogni intellettuale deve avere il suo fascicolo presso di noi.... Bisogna tenere sempre presente che il nostro dipartimento non ha soltanto il compito di espellere o di arrestare degli individui, ma anche di contribuire all'elaborazione della linea politica generale rispetto agli specialisti: tenerli sotto stretta sorveglianza, dividerli, ma anche promuovere quelli che sono pronti, non solo a parole ma concretamente, a sostenere il potere sovietico".

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Alcuni giorni dopo, Lenin inviò un lungo memorandum a Stalin, in cui con il suo senso maniacale per i particolari si dilungava sulla «ripulitura definitiva» della Russia da tutti i socialisti, gli intellettuali, i liberali e altri «signori»:

"Riguardo alla questione dell'espulsione dei menscevichi, dei socialisti popolari, dei cadetti eccetera mi piacerebbe fare alcune domande sul perché questo provvedimento, che si era avviato prima della mia partenza, non si è ancora concluso. E' stato deciso di estirpare tutti i socialisti popolari? Pecehonov, Mjakotin, Gornfel'd, Petriscev e gli altri? Penso che dovrebbero essere tutti espulsi. Sono più pericolosi degli S.R. perché sono più astuti. E anche Potresov, Izgoev e tutti quelli della rivista «Ekonomist» (Ozerov e molti altri). I menscevichi Rozanov (medico, furbo), Vigdorcik (Migulo o qualcosa del genere), Ljubov' Nikolaevna Radcenko e la sua giovane figlia (a quanto si sostiene, le più perfide nemiche del bolscevismo), N. A. Rozkov (deve essere espulso, è incorreggibile) ... La Commissione Mancev-Messing dovrà stilare delle liste e molte centinaia di questi signori dovranno essere espulsi senza pietà. Ripuliremo la Russia una volta per tutte.... Tutti gli autori della Casa degli scrittori, e anche del Pensiero (a Pietrogrado). Har'kov deve essere ispezionata da cima a fondo, non abbiamo la minima idea di che cosa vi accada, per noi è un paese straniero. La città deve essere ripulita in modo radicale e rapido, non oltre la fine del processo agli S.R. Occupatevi degli autori e degli scrittori di Pietrogrado (i loro indirizzi compaiono su «Novaja Russkaja Misl'», n. 4, 1922, p. 37) e anche della lista degli editori privati (p. 29). E' arcimportante!"

6. DALLA TREGUA ALLA «GRANDE SVOLTA» Per un po' meno di cinque anni, dall'inizio del 1923 alla fine del 1927, vi fu una pausa nello scontro fra il regime e la società. Gran parte dell'attività politica dei dirigenti bolscevichi era monopolizzata dalle lotte per la successione di Lenin, che era morto il 24 gennaio 1924 ma che dal marzo del 1923 viveva ormai totalmente isolato da qualsiasi attività politica in seguito al terzo attacco cerebrale. Durante quei pochi anni la società lenì le sue ferite. Durante la tregua i contadini, che rappresentavano oltre l'85 per cento della popolazione, tentarono di ricostituire la rete degli scambi, di ottenere di più dai frutti del loro lavoro e di vivere «come se l'utopia contadina funzionasse», per usare la bella espressione di Michael Confino, il grande storico del ceto rurale russo. L'«utopia contadina», che i bolscevichi chiamavano volentieri "eserovscina" - la traduzione più fedele sarebbe «mentalità socialista rivoluzionaria» - si basava su principi che da decenni costituivano il fondamento di tutti i programmi contadini: eliminazione dei proprietari terrieri, ripartizione della terra in funzione delle bocche da sfamare, libertà di disporre liberamente dei frutti del proprio lavoro e libertà di commercio, autogoverno contadino rappresentato dalla comunità di villaggio tradizionale, e presenza esterna dello Stato bolscevico ridotta alla sua espressione più semplice: un soviet rurale per un certo numero di villaggi e una cellula del Partito comunista in un villaggio su cento!

Ripresero a funzionare i meccanismi di mercato, che erano stati cancellati dal 1914 al 1922, e che ora venivano riconosciuti almeno in parte dal potere, tollerati temporaneamente come segno di «arretratezza» in un paese a maggioranza contadina. Subito ripresero le migrazioni stagionali verso le città, frequentissime sotto il vecchio regime; poiché l'industria di Stato trascurava il settore dei beni di consumo, l'artigianato rurale ebbe un notevole sviluppo, penuria e carestia si attenuarono e i contadini ricominciarono a mangiare a sazietà.

Ma la calma apparente di quei pochi anni non poteva mascherare le tensioni profonde sempre vive fra il regime e una società che non aveva dimenticato la violenza di cui era stata vittima. Per i contadini esistevano ancora molti motivi di malcontento. I prezzi dei prodotti agricoli erano troppo bassi, i manufatti troppo cari e troppo rari, le tasse troppo pesanti. Avevano la sensazione di essere

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dei cittadini di seconda categoria rispetto agli abitanti dei centri urbani e soprattutto agli operai, che spesso erano considerati dei privilegiati. I contadini si lamentavano anche degli innumerevoli abusi di potere compiuti dai rappresentanti di base del regime sovietico, che si erano formati alla scuola del «comunismo di guerra». Continuavano a subire l'arbitrio assoluto di un potere locale erede al tempo stesso di una certa tradizione russa e delle pratiche terroristiche degli anni precedenti. «Nell'apparato giudiziario, in quello amministrativo e in quello poliziesco sono diffusissimi l'alcolismo generalizzato, la pratica corrente delle bustarelle ... il burocratismo e un atteggiamento di grossolanità generale rispetto alle masse contadine» ammetteva un lungo rapporto della polizia politica della fine del 1925 sulla «situazione della legalità socialista nelle campagne».

Pur condannando gli abusi più evidenti dei rappresentanti del potere sovietico, i dirigenti bolscevichi in genere continuavano a considerare le campagne una "terra incognita" pericolosa, «un ambiente formicolante di kulak, di socialisti rivoluzionari, di popi, di ex proprietari terrieri non ancora eliminati», secondo l'espressione immaginifica di un rapporto del capo della polizia politica della provincia di Tula.

Come attestano i documenti del dipartimento Informazione della G.P.U., anche la classe operaia continuava a essere tenuta sotto stretta sorveglianza. Dopo anni di guerra, di rivoluzione, di guerra civile, la classe operaia era un gruppo sociale in via di ricostruzione, e veniva ancora sospettato di mantenere dei legami con il mondo ostile delle campagne. Gli informatori, presenti in tutte le industrie, davano la caccia a intenzioni e atti devianti, a quegli «umori contadini» che si presumeva gli operai riportassero in città quando tornavano dal periodo di vacanza, durante il quale lavoravano nei campi. I rapporti di polizia dividevano il mondo operaio in «elementi ostili», senz'altro influenzati da gruppuscoli controrivoluzionari, «elementi politicamente arretrati», di solito provenienti dalle campagne, ed elementi degni di essere considerati «politicamente coscienti». Interruzioni del lavoro e scioperi, abbastanza rari in quegli anni in cui la disoccupazione era forte e chi aveva un lavoro poteva contare su un tenore di vita relativamente migliore, venivano studiati con cura; i sobillatori erano arrestati.

I documenti interni della polizia politica, oggi parzialmente accessibili, mostrano che dopo anni di formidabile espansione questa istituzione incontrava alcune difficoltà, dovute in particolare all'interruzione dell'operazione intrapresa dai bolscevichi per trasformare la società. Nel periodo 1924-1926 Dzerzinskij fu persino costretto a battagliare duramente contro certi dirigenti secondo i quali bisognava ridurre in modo drastico gli effettivi della polizia politica, le cui attività erano in declino. Per la prima e unica volta, fino al 1953, gli effettivi della polizia politica diminuirono notevolmente. Nel 1921 la Ceka dava lavoro a 105 mila civili circa e a quasi 180 mila militari di diversi corpi speciali, comprese le guardie di confine, le Ceka adibite alle ferrovie e le guardie dei campi di concentramento. Nel 1925 tali effettivi si erano ridotti a 26 mila civili circa e a 63 mila militari. A queste cifre si aggiungevano circa 30 mila informatori: allo stato attuale delle conoscenze documentarie non si sa quanti fossero invece nel 1921. Nel dicembre del 1924 Nikolaj Buharin scrisse a Feliks Dzerzinskij: «Ritengo che dobbiamo passare con maggiore celerità a una forma più "liberale" di potere sovietico: meno repressione, più legalità, più discussioni, più potere locale (sotto la direzione del Partito, ovviamente) eccetera».

Alcuni mesi dopo, il primo maggio 1925, il presidente del Tribunale rivoluzionario Nikolaj Krylenko, che aveva presieduto la farsa giudiziaria del processo ai socialisti rivoluzionari, inviò all'Ufficio politico una lunga dichiarazione in cui criticava gli abusi della G.P.U., che secondo lui eccedeva i diritti conferitile per legge. In effetti, molti decreti emanati fra il 1922 e il 1923 avevano limitato le competenze della G.P.U. ai casi di spionaggio, banditismo, falsa moneta e «controrivoluzione». Per questi crimini la G.P.U. era l'unico giudice e il suo Collegio speciale poteva comminare pene di deportazione e di invio al confino (fino a tre anni), di internamento in

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campo di concentramento o addirittura la pena di morte. Nel 1924, su 62 mila incartamenti aperti dalla G.P.U., 52 mila e più erano stati trasmessi ai tribunali ordinari. Gli organi giudiziari speciali della G.P.U. avevano conservato oltre 9000 casi, una cifra considerevole vista la congiuntura politica stabile; lo ricordava anche Nikolaj Krylenko, che concludeva: «Le persone deportate e mandate al confino in buchi sperduti della Siberia e senza un soldo vivono in condizioni spaventose. Vi sono sia ragazzi di diciotto-diciannove anni degli ambienti studenteschi, sia vecchi di settant'anni, soprattutto membri del clero, e vecchie "appartenenti alle classi socialmente pericolose"».

Perciò Krylenko proponeva di limitare la qualificazione di «controrivoluzionario» solo ai membri riconosciuti dei «partiti politici che rappresentano gli interessi della borghesia», onde evitare «una interpretazione abusiva del termine da parte dei servizi della G.P.U.».

Di fronte a queste critiche, Dzerzinskij e i suoi assistenti non mancarono di tempestare i massimi dirigenti del Partito, e soprattutto Stalin, di rapporti allarmistici sulla permanenza di gravi problemi interni, di minacce separatiste orchestrate dalla Polonia, i paesi baltici, la Gran Bretagna, la Francia e il Giappone. Secondo il rapporto delle attività della G.P.U. per il 1924, la polizia politica aveva:

"- arrestato 11453 «banditi», 1858 dei quali giustiziati sul posto; - fermato 926 stranieri (espellendone 357) e 1542 «spie»; - evitato una «insurrezione di Guardie bianche» in Crimea (132 persone giustiziate nell'ambito di questo caso); - effettuato 81 «operazioni» contro gruppi anarchici, conclusesi con 266 arresti; - «liquidato» 14 organizzazioni mensceviche (540 arresti), 6 organizzazioni di socialisti rivoluzionari di destra (152 arresti), 7 organizzazioni di socialisti rivoluzionari di sinistra (52 arresti), 117 organizzazioni «varie di intellettuali» (1360 arresti), 24 organizzazioni «monarchiche» (1245 arresti), 85 organizzazioni «clericali» o «settarie» (1765 arresti), 675 «gruppi di kulak» (1148 arresti); - espulso, in due grandi operazioni, nel febbraio e nel luglio del 1924, circa 4500 «ladri», «recidivi» e «nepmen» (commercianti e piccole imprese private) di Mosca e Leningrado; - posto «sotto sorveglianza individuale» 18200 persone «socialmente pericolose»; - sorvegliato 15501 imprese e amministrazioni varie; - letto 5.078.174 lettere e corrispondenze varie".

Fino a che punto sono affidabili questi dati, così burocraticamente scrupolosi e precisi da sfiorare il ridicolo? Erano inseriti nel progetto di bilancio della G.P.U. per il 1925, e avevano la funzione di dimostrare che la polizia politica non abbassava la guardia davanti alle minacce esterne e meritava quindi i fondi stanziati in suo favore. Nonostante tutto sono preziosi per lo storico, perché al di là delle cifre e delle categorie arbitrarie dimostrano che i metodi e i nemici potenziali restavano immutati, così come la struttura, momentaneamente meno attiva ma pur sempre operativa.

Malgrado i tagli di bilancio e alcune critiche di dirigenti bolscevichi incoerenti, l'inasprimento della legislazione penale non poteva non incoraggiare l'attivismo della G.P.U. Infatti i "Principi fondamentali della legislazione penale dell'URSS", adottati il 31 ottobre 1924, proprio come il nuovo Codice penale del 1926, allargavano sensibilmente la definizione di reato controrivoluzionario, e codificavano il concetto di «persona socialmente pericolosa». La legge includeva fra i reati controrivoluzionari tutte le attività che, senza mirare direttamente a rovesciare o indebolire il potere sovietico, erano di per se stesse «in modo manifesto al delinquente» un «attentato alle conquiste politiche o economiche della rivoluzione proletaria». Insomma, la legge puniva non solo le intenzioni dirette, ma anche le intenzioni eventuali o indirette.

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Del resto era definita «socialmente pericolosa ... qualsiasi persona responsabile di un atto pericoloso per la società, o i cui rapporti con un ambiente criminale o l'attività passata comportano un pericolo». Le persone accusate in base a questi criteri così flessibili potevano essere condannate anche senza aver commesso alcuna colpa. Lo si precisava chiaramente: «Il Tribunale può applicare misure di protezione sociale alle persone riconosciute socialmente pericolose, sia per aver commesso un reato specifico, sia nel caso in cui, perseguite con l'accusa di aver compiuto un reato specifico, vengano dichiarate innocenti dal Tribunale ma riconosciute socialmente pericolose». Tutte queste disposizioni codificate nel 1926, fra le quali compariva il famoso articolo 58 del Codice penale con i suoi 14 commi che definivano i reati controrivoluzionari, consolidavano la base legale del terrore. Il 4 maggio 1926 Dzerzinskij inviò una lettera al suo assistente Jagoda in cui esponeva un vasto programma di «lotta contro la speculazione» che ben rivelava i limiti della NEP e una certa persistenza fra i massimi dirigenti bolscevichi dello «spirito da guerra civile»:

"La lotta contro la «speculazione» riveste oggi un'importanza estrema.... E' indispensabile ripulire Mosca da parassiti e speculatori. Ho chiesto a Pauker di raccogliermi tutta la documentazione disponibile sulla schedatura degli abitanti di Mosca riguardo a questo problema. Per il momento non ho ricevuto niente da lui. Non pensa che alla G.P.U. dovrebbe essere costituito un dipartimento speciale di colonizzazione, finanziato da un fondo speciale alimentato con le confische...? Bisogna popolare le zone inospitali del paese con i parassiti (e famiglia) delle nostre città, seguendo un piano prestabilito approvato dal governo. Dobbiamo ripulire le città a ogni costo dalle centinaia di migliaia di speculatori e di parassiti che vi prosperano... Questi parassiti ci divorano. Per colpa loro non ci sono merci per i contadini, per colpa loro i prezzi salgono e il nostro rublo cala. La G.P.U. deve affrontare il problema di petto e con la massima energia".

Una delle specificità del sistema penale sovietico era il fatto che esistevano due tipi distinti di procedimento contro i reati penali, uno giudiziario e l'altro amministrativo, e due strutture di detenzione, una gestita dal commissariato del popolo per gli Interni, l'altra dalla G.P.U. Accanto alle prigioni tradizionali, dove erano rinchiusi i prigionieri condannati in base a un procedimento giudiziario «ordinario», esisteva un complesso di campi gestiti dalla G.P.U., dove venivano rinchiuse le persone condannate dagli organi giudiziari speciali della polizia politica per crimini di sua competenza: tutte le forme di reati controrivoluzionari, grande banditismo, falsificazione monetaria, reati commessi da membri della polizia politica.

Nel 1922 il governo propose alla G.P.U. di installare un vasto campo nell'arcipelago delle Soloveckie, cinque isole del Mar Bianco al largo di Arcangelo, la maggiore delle quali ospitava un grande monastero della Chiesa ortodossa russa. Dopo aver cacciato i monaci, la G.P.U. organizzò sull'arcipelago un complesso di campi raggruppati sotto la sigla SLON ("Soloveckie lageri osobennogo naznacenija", Campi speciali delle Soloveckie). I primi ospiti, provenienti dai campi di Holmogory e Pertominsk, arrivarono alle Soloveckie all'inizio di luglio del 1923. Alla fine dell'anno vi erano già 4000 detenuti, 15 mila nel 1927 e quasi 38 mila alla fine del 1928.

Una peculiarità del complesso penitenziario delle Soloveckie era di essere autogestito. A parte il direttore e alcuni responsabili, nel campo erano i detenuti a svolgere tutte le mansioni. Nella stragrande maggioranza si trattava di ex collaboratori della polizia politica condannati per abusi particolarmente gravi. L'autogestione, praticata da individui del genere, era sinonimo di arbitrio totale, e in breve peggiorò il destino quasi privilegiato, in buona parte ereditato dal vecchio regime, di cui beneficiavano i detenuti con lo status di prigionieri politici. Sotto la NEP, l'amministrazione della G.P.U. distingueva infatti tre categorie di detenuti.

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Nella prima rientravano i politici, cioè soltanto i membri del Partito menscevico, di quello socialista rivoluzionario e di quello anarchico; nel 1921 questi detenuti avevano ottenuto un regime relativamente clemente da Dzerzinskij, che sotto lo zarismo era stato a lungo prigioniero politico e aveva trascorso quasi dieci anni in prigione o in esilio: ricevevano un'alimentazione migliore, chiamata «razione politica», conservavano alcuni effetti personali, potevano farsi mandare giornali e riviste. Vivevano in comunità, e soprattutto erano esentati da lavori forzati di qualsiasi genere. Questa condizione di privilegio fu soppressa alla fine degli anni Venti.

La seconda categoria, la più numerosa, comprendeva i «controrivoluzionari»: membri di partiti politici non socialisti, membri del clero, ex ufficiali dell'esercito zarista, ex funzionari, cosacchi, partecipanti alle insurrezioni di Kronstadt e di Tambov, e qualsiasi altra persona condannata ai sensi dell'articolo 58 del Codice penale.

Della terza categoria facevano parte i detenuti comuni condannati dalla G.P.U. (banditi, falsari) e gli ex cekisti condannati dalla loro istituzione per crimini e reati vari. I controrivoluzionari, costretti a coabitare con i detenuti comuni che dettavano legge all'interno del campo, erano sottoposti al più totale arbitrio, alla fame, al freddo estremo in inverno, alle zanzare in estate (una delle torture più frequenti consisteva nell'appendere le persone nude nei boschi, e lasciarle in pasto alle zanzare, particolarmente numerose e temibili in quelle isole settentrionali costellate di laghi). Per passare da un settore all'altro, ricorda uno dei più celebri prigionieri delle Soloveckie, lo scrittore Varlam Scialamov, i detenuti esigevano che venissero loro legate le mani dietro la schiena e che questo fosse espressamente previsto nel regolamento: «Era l'unico mezzo di autodifesa dei detenuti contro la laconica formula "ucciso durante un tentativo di evasione"».

Fu proprio nei campi delle Soloveckie che fu organizzato davvero, dopo gli anni di improvvisazione della guerra civile, il sistema di lavoro forzato che avrebbe conosciuto uno sviluppo folgorante a partire dal 1929. Fino al 1925 i detenuti furono impiegati, in modo non molto produttivo, in vari lavori all'interno dei campi. A partire dal 1926 l'amministrazione decise di stipulare dei contratti di produzione con un certo numero di organismi statali e di sfruttare più «razionalmente» il lavoro forzato, diventato fonte di profitto e non più - conformemente all'ideologia dei primi campi di «lavoro correttivo» degli anni 1919-1920 - fonte di «rieducazione». I campi delle Soloveckie, riorganizzati sotto la sigla USLON ("Upravlenie severnyh Ingerej osobennogo naznacenija", Direzione dei campi speciali del nord), si diffusero sul continente, incominciando dalle coste del Mar Bianco. Nel 1926-1927 furono creati nuovi campi nei pressi della foce della Pecora, a Kem', e in altri punti di quella costa inospitale ma con un entroterra ricco di foreste. I detenuti erano incaricati di eseguire un programma preciso di produzione, soprattutto il taglio dei boschi e del legname. L'aumento esponenziale dei programmi di produzione richiese ben presto un numero crescente di detenuti. Nel giugno del 1929 essa indusse a riformare radicalmente il sistema detentivo, trasferendo dalle prigioni ai campi di lavoro tutti i prigionieri condannati a pene superiori ai tre anni. Questo provvedimento diede un impulso formidabile ai campi di lavoro. I «campi speciali» dell'arcipelago delle Soloveckie, laboratorio sperimentale del lavoro forzato, furono senza dubbio la matrice di un altro arcipelago in gestazione, un arcipelago immenso, adeguato all'intero paese-continente: l'«Arcipelago Gulag».

***

Le attività ordinarie della G.P.U., con il loro lotto annuale di alcune migliaia di condanne ai lavori forzati o al domicilio coatto, non escludevano un certo numero di operazioni repressive speciali di grande portata. In realtà negli anni calmi della NEP, dal 1923 al 1927, gli episodi di repressione più massicci e cruenti ebbero luogo nelle repubbliche periferiche della Russia, in Transcaucasia e in Asia centrale. Tali regioni in generale avevano resistito accanitamente all'invasione russa nel

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diciannovesimo secolo ed erano state riconquistate tardi dai bolscevichi: l'Azerbaigian nell'aprile del 1920, l'Armenia nel dicembre del 1920, la Georgia nel febbraio del 1921, il Daghestan alla fine del 1921, e il Turkestan, con Bukhara, nell'autunno del 1920. Continuavano inoltre a opporre forte resistenza alla sovietizzazione. «Controlliamo soltanto le città principali, anzi il centro delle città principali» scriveva nel gennaio del 1923 Peters, l'inviato plenipotenziario della Ceka nel Turkestan. Dal 1918 alla fine del 1920, e in certe regioni fino al 1935-1936, la maggior parte dell'Asia centrale, a eccezione delle città, era tenuta dai "basmac". Il termine "basmac" (in usbeco, «brigante») era applicato dai russi ai diversi tipi di partigiani, stanziali ma anche nomadi, usbechi, kirghisi, turkmeni, che agivano in molte regioni autonomamente gli uni dagli altri.

Il focolaio principale della rivolta era situato nella valle della Fergana. Dopo la conquista di Bukhara da parte dell'Armata rossa nel settembre del 1920, l'insurrezione si diffuse alla regione orientale e a quella meridionale dell'ex emirato di Bukhara, e nella regione settentrionale delle steppe turkmene. All'inizio del 1921 lo Stato maggiore dell'Armata rossa calcolava che i "basmac" armati fossero 30 mila. La direzione del movimento era eterogenea, formata da capi locali discendenti dai notabili di villaggio o di clan, da capi religiosi tradizionali ma anche da nazionalisti musulmani estranei alla regione, come Enver Pascià, l'ex ministro della Difesa della Turchia, ucciso nel 1922 durante uno scontro con squadre della Ceka. Il movimento dei "basmac" era un'insurrezione spontanea, istintiva, contro «l'infedele», «l'oppressore russo», l'antico nemico ricomparso sotto nuove spoglie, che non si proponeva soltanto di impadronirsi di terre e bestiame, ma anche di profanare il mondo spirituale musulmano. La lotta contro i "basmac", guerra di «pacificazione» a carattere coloniale, mobilitò per oltre dieci anni una parte importante delle forze armate e delle truppe speciali della polizia politica, che fra i suoi principali dipartimenti aveva proprio il Dipartimento orientale. Allo stato attuale è impossibile valutare, anche in maniera approssimativa, il numero delle vittime di questa guerra.

Il secondo grande settore del Dipartimento orientale della G.P.U. era la Transcaucasia. Nella prima metà degli anni Venti furono particolarmente colpiti dalla repressione il Daghestan, la Georgia e la Cecenia. Il Daghestan resistette alla penetrazione sovietica fino alla fine del 1921. La confraternita musulmana della Naqshbandiyya, sotto la direzione dello sceicco Uzun Hadzi, prese la guida di una grande rivolta di montanari, e la lotta assunse il carattere di guerra santa contro l'invasore russo. Durò più di un anno, ma certe regioni furono «pacificate» soltanto nel 1923-1924, a costo di massicci bombardamenti e di massacri di civili.

Dopo tre anni di indipendenza sotto un governo menscevico, la Georgia fu occupata dall'Armata rossa nel febbraio del 1921, ma per esplicita ammissione di Aleksandr Mjasnikov, segretario del Comitato del Partito bolscevico della Transcaucasia, continuò a configurarsi come «un problema abbastanza arduo». Al minuscolo Partito bolscevico locale, che in tre anni di potere era riuscito a reclutare appena 10 mila persone, si opponevano una fascia intellettuale e nobiliare nettamente ostile ai bolscevichi, costituita da quasi 100 mila persone, e una struttura menscevica ancora abbastanza forte: infatti nel 1920 il partito menscevico contava oltre 60 mila aderenti. Nonostante il terrore esercitato dall'onnipotente Ceka della Georgia, che godeva di ampia autonomia da Mosca ed era capeggiata da un giovane dirigente di polizia venticinquenne con un grande futuro davanti a sé, Lavrentij Berija, alla fine del 1922 i dirigenti menscevichi in esilio riuscirono a organizzare, insieme ad altri partiti antibolscevichi, un Comitato segreto per l'indipendenza della Georgia, che preparò un'insurrezione. Tale insurrezione incominciò il 28 agosto 1924 nella cittadina di Ciatura, e vi parteciparono per la maggior parte contadini della regione di Gori: nel giro di pochi giorni furono conquistati 5 dei 25 distretti georgiani. Gli insorti dovettero affrontare forze superiori dotate di artiglieria e di aviazione, e furono sconfitti in una settimana. Lavrentij Berija e Sergo Ordzonikidze, primo segretario del Comitato del Partito bolscevico della Transcaucasia, approfittarono della scusa dell'insurrezione per «farla finita una volta per tutte con il menscevismo e l'aristocrazia georgiana».

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Secondo dati resi pubblici di recente, fra il 29 agosto e il 5 settembre del 1924 furono fucilate 12578 persone. La repressione assunse una tale portata da turbare persino l'Ufficio politico. La direzione del Partito mandò un richiamo all'ordine a Ordzonikidze, chiedendogli di non procedere a esecuzioni in massa sproporzionate e a esecuzioni politiche senza l'esplicita autorizzazione del Comitato centrale. Ciò nonostante le esecuzioni sommarie continuarono per mesi. Davanti al plenum del Comitato centrale, riunitosi nell'ottobre del 1924 a Mosca, Sergo Ordzonikidze ammise: «Forse abbiamo esagerato un po', ma non ci si può più far niente!».

Un anno dopo la repressione dell'insurrezione georgiana dell'agosto del 1924, il regime lanciò una vasta operazione di «pacificazione» della Cecenia, dove tutti concordavano sul fatto che il potere sovietico non esisteva. Dal 27 agosto al 15 settembre 1925, oltre 10 mila uomini delle truppe regolari dell'Armata rossa, dirette dal generale Uborevic e fiancheggiate da unità speciali della G.P.U., tentarono di disarmare i partigiani ceceni che controllavano l'interno del paese. Furono prese decine di migliaia di armi, e quasi mille «banditi» vennero arrestati. Di fronte alla resistenza della popolazione, il dirigente della G.P.U. Unshliht ammise: «Le truppe sono state costrette a ricorrere all'artiglieria pesante e al bombardamento dei covi dei banditi più ostinati». Alla fine di questa nuova operazione di «pacificazione», eseguita durante quello che si suole chiamare «l'apogeo della NEP», Unshliht concludeva così il suo rapporto: «Come ha dimostrato l'esperienza della lotta contro i "basmac" in Turkestan, contro il banditismo in Ucraina, nella provincia di Tambov e altrove, la repressione militare è efficace solo nel caso in cui sia seguita da una profonda sovietizzazione del paese».

A partire dalla fine del 1926, dopo la morte di Dzerzinskij, la G.P.U., diretta ormai da Vjaceslav Rudol'fovic Menzinskij, braccio destro di Dzerzinskij e anch'egli di origine polacca, a quanto pare incominciò di nuovo a essere molto sollecitata da Stalin, che preparava contemporaneamente l'offensiva politica contro Trotsky e Buharin. Nel gennaio del 1927 la G.P.U. ricevette l'ordine di accelerare la schedatura degli «elementi pericolosi per la società e antisovietici» nelle campagne. Nel giro di un anno il numero delle persone schedate passò da 30 mila a 72 mila circa. Nel settembre del 1927 la G.P.U. lanciò in molte province campagne di arresti di kulak e altri «elementi pericolosi per la società». A posteriori, queste operazioni sembrano esercizi preparatori per le grandi retate della «dekulakizzazione», effettuate nell'inverno 1929-1930.

Fra il 1926 e il 1927 la G.P.U. Si dimostrò molto attiva anche nella caccia agli oppositori comunisti, catalogati come «zinovievisti» o «trotzkisti». La pratica di schedare e seguire gli oppositori comunisti era nata molto presto, nel periodo 1921-1922. Nel settembre del 1923, per «rinsaldare l'unità ideologica del Partito», Dzerzinskij aveva proposto che i comunisti si impegnassero a trasmettere alla polizia politica qualsiasi informazione in loro possesso sull'esistenza di frazioni o deviazioni in seno al Partito. La proposta aveva suscitato una levata di scudi da parte di un certo numero di responsabili, fra cui Trotsky. Ciò nonostante, negli anni successivi l'abitudine di far sorvegliare gli oppositori si generalizzò. Fra gennaio e febbraio del 1926 l'epurazione dell'organizzazione comunista di Leningrado, diretta da Zinov'ev, coinvolse ampiamente i servizi della G.P.U. Gli oppositori non furono solo esclusi dal Partito, ma molte centinaia di essi vennero esiliati in città remote del paese e continuarono a vivere in modo assai precario, perché nessuno osava offrire loro lavoro. Nel 1927 la caccia agli oppositori trotzkisti - alcune migliaia in tutto il paese - mobilitò per mesi una parte dei servizi della G.P.U. Furono tutti schedati e centinaia di attivisti vennero arrestati e poi esiliati con un semplice provvedimento amministrativo. Nel novembre del 1927 furono espulsi dal Partito e arrestati tutti i principali dirigenti dell'opposizione: Trotsky, Zinov'ev, Kamenev, Radek, Rakovskij. Tutti quelli che rifiutarono di fare pubblicamente autocritica furono esiliati. Il 19 gennaio 1930 la «Pravda» annunciò la partenza da Mosca di Trotsky e di un gruppo di trenta oppositori, esiliati ad Alma Ata.

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Un anno dopo Trotsky fu bandito dall'URSS. La trasformazione di uno dei principali artefici del terrore bolscevico in «controrivoluzionario» apriva una nuova fase, sotto la guida del nuovo uomo forte del Partito: Stalin.

All'inizio del 1928, subito dopo aver eliminato l'opposizione trotzkista, la maggioranza staliniana dell'Ufficio politico decise di rompere la tregua con la società, che le sembrava deviasse sempre più dalla via su cui volevano condurla i bolscevichi. Come dieci anni prima, il nemico principale restava l'immensa maggioranza contadina, guardata come una massa ostile, incontrollata e incontrollabile. Incominciò così il secondo atto della guerra contro la classe rurale che, come osserva giustamente lo storico Andrea Graziosi, «fu comunque abbastanza diverso dal primo. L'iniziativa era ormai interamente nelle mani dello Stato, e l'attore sociale non poteva far altro che reagire, sempre più debolmente, agli attacchi sferrati contro di lui».

Anche se nel complesso l'agricoltura si era risollevata dalla catastrofe degli anni 1918-1922, alla fine degli anni Venti il «nemico contadino» era più debole - e lo Stato più forte - che all'inizio del decennio. Lo dimostrano, per esempio, la migliore informazione di cui disponevano le autorità su quanto accadeva nei villaggi, la schedatura degli «elementi estranei alla società», che permise alla G.P.U. di portare a buon fine le prime retate durante la «dekulakizzazione», lo sradicamento graduale ma effettivo del «banditismo», il disarmo dei contadini, la crescita costante della percentuale di riservisti presenti ai richiami periodici, lo sviluppo di una rete scolastica più fitta. La corrispondenza fra i dirigenti bolscevichi e gli stenogrammi delle discussioni al vertice del Partito rivelano che nel 1928 la direzione staliniana - proprio come del resto i suoi oppositori Buharin, Rykov e Kamenev - era pienamente consapevole dei rischi di un nuovo attacco contro la classe contadina. «Avrete una guerra contadina come nel 1918-1919» avvertì Buharin. Stalin era pronto, a qualunque costo. Sapeva che questa volta il regime ne sarebbe uscito vincitore.

Alla fine del 1927 la «crisi dell'ammasso» fornì a Stalin il pretesto cercato. Il mese di novembre del 1927 fu caratterizzato da un calo spettacolare dei prodotti agricoli conferiti agli organismi statali preposti, calo che in dicembre assunse proporzioni catastrofiche. Nel gennaio del 1928 fu necessario arrendersi all'evidenza: nonostante il raccolto fosse stato buono, i contadini avevano conferito solo 4 milioni 800 mila tonnellate, invece dei 6 milioni 800 mila dell'anno precedente. Questa crisi, che Stalin definì subito «sciopero dei kulak», si poteva spiegare con il calo dei prezzi offerti dallo Stato, la penuria dei manufatti e il loro alto costo, la disorganizzazione delle agenzie preposte all'ammasso e le voci di guerra; era causata insomma dal malcontento generale dei contadini verso il regime. Il gruppo staliniano ne approfittò per ricorrere di nuovo alle requisizioni e a tutta una serie di misure repressive già sperimentate ai tempi del comunismo di guerra. Stalin si recò personalmente in Siberia. Altri dirigenti, come Andreev, Mikojan, Postyscev o Kosior partirono per le grandi zone cerealicole: la regione delle Terre nere, l'Ucraina e il Caucaso settentrionale. Il 14 gennaio 1928 l'Ufficio politico inviò una circolare alle autorità locali, chiedendo loro di «arrestare gli speculatori, i kulak e altri disorganizatori del mercato e della politica dei prezzi». Nelle campagne furono inviati «plenipotenziari» - già il termine ricordava le requisizioni degli anni 1918-1921 - e distaccamenti di militanti comunisti, per epurare le autorità locali giudicate compiacenti verso i kulak e per scovare le eccedenze nascoste, se necessario con l'aiuto dei contadini poveri, cui veniva promesso un quarto dei cereali trovati presso i «ricchi».

Uno dei provvedimenti destinati a penalizzare i contadini che non volevano consegnare i prodotti agricoli nei termini prescritti e a prezzi irrisori, equivalenti a un terzo o a un quarto di quelli di mercato, consisteva nel raddoppiare, triplicare o quintuplicare le quantità stabilite all'inizio. Si fece anche ampio ricorso all'articolo 107 del Codice penale, che prevedeva una pena di tre anni di prigione per qualsiasi azione che contribuisse a far salire i prezzi. Per finire, in due anni le imposte sui kulak furono decuplicate. Si procedette inoltre alla chiusura dei mercati, misura che ovviamente

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non colpiva solo i contadini agiati. In poche settimane tutti questi provvedimenti interruppero bruscamente la tregua fra il regime e la classe contadina, che durava bene o male dal 1922-1923. Le requisizioni e le misure repressive ebbero soltanto l'effetto di aggravare la crisi: nell'immediato le autorità riuscirono a raccogliere con la forza una quantità di prodotti appena inferiore a quella del 1927, ma per l'anno successivo, come ai tempi del comunismo di guerra, i contadini reagirono diminuendo il seminato.

La «crisi dell'ammasso» dell'inverno 1927-1928 ebbe un'influenza determinante per la svolta che presero gli avvenimenti in seguito: infatti Stalin ne trasse tutta una serie di conclusioni sulla necessità di creare nelle campagne delle «fortezze del socialismo» (immensi kolhoz e sovhoz), di collettivizzare l'agricoltura per poter avere il controllo diretto sulla produzione agricola e i produttori senza essere costretti a tener conto delle leggi di mercato, e di sbarazzarsi una volta per tutte dei kulak, «liquidandoli come classe». Nel 1928 il regime ruppe anche la tregua che aveva concluso con un'altra categoria sociale, gli "spec", cioè gli «specialisti borghesi» provenienti dall'intellighenzia del vecchio regime, che alla fine degli anni Venti occupavano ancora la stragrande maggioranza dei quadri intermedi sia nelle industrie sia nelle amministrazioni. In occasione del plenum del Comitato centrale dell'aprile del 1928 fu annunciato che nella regione di Sciahty, un bacino carbonifero del Donbass, era stata scoperta un'impresa di «sabotaggio industriale» all'interno del cartello Donugol'; l'impresa dava lavoro a «specialisti borghesi» e intratteneva rapporti con gli ambienti finanziari occidentali. Qualche settimana dopo, 53 imputati, in maggioranza ingegneri e funzionari, comparvero in giudizio nel primo processo politico dopo quello intentato ai socialisti rivoluzionari del 1922. Undici imputati furono condannati a morte e cinque giustiziati. Il processo esemplare, di cui la stampa si occupò diffusamente, illustrava uno dei miti principali del regime, quello del «sabotatore al soldo dello straniero» che sarebbe servito a mobilitare militanti e informatori della G.P.U., e a «spiegare» tutti gli insuccessi economici, ma che avrebbe anche permesso di «sequestrare» quadri per i nuovi «uffici speciali di costruzione della G.P.U.», diventati famosi con il nome di "sciarashkin". Migliaia di ingegneri e di tecnici condannati per sabotaggio scontarono la pena nei cantieri e nelle imprese del primo piano quinquennale. Nei mesi successivi al processo di Sciahty, il dipartimento economico della G.P.U. fabbricò diverse decine di casi analoghi, soprattutto in Ucraina. Solo nel complesso metallurgico Jugostal' di Dnepropetrovsk, nel corso del mese di maggio del 1928 furono arrestati 112 quadri.

I quadri industriali non furono l'unico bersaglio della vasta operazione contro gli specialisti lanciata nel 1928. Parecchi professori e studenti di origine «estranea alla società» furono esclusi dagli istituti di istruzione superiore in occasione di una delle molte campagne di epurazione delle università e di promozione di una nuova «intellighenzia rossa e proletaria».

L'inasprimento della repressione e le difficoltà economiche degli ultimi anni della NEP, caratterizzati da una crescente disoccupazione e dall'incremento della criminalità, ebbero come risultato un aumento spettacolare del numero delle condanne penali: 578 mila nel 1926, 709 mila nel 1927, 909 mila nel 1928, un milione 178 mila nel 1929.

Per tentare di arginare questo flusso che ingorgava le prigioni, dove nel 1928 potevano essere ospitate solo 150 mila persone, il governo adottò due importanti decisioni. La prima, promulgata con il Decreto del 26 marzo 1928, prevedeva che per i reati minori la reclusione di breve durata fosse sostituita da lavori correttivi svolti senza remunerazione «nelle industrie, nei cantieri, nello sfruttamento boschivo». Il secondo provvedimento, emanato con il Decreto del 27 giugno 1929, doveva avere conseguenze enormi. Prevedeva infatti che tutti i detenuti nelle prigioni condannati a pene superiori a tre anni fossero trasferiti in campi di lavoro il cui obiettivo era di «valorizzare le ricchezze naturali delle regioni orientali e settentrionali del paese». L'idea era nell'aria da diversi anni. La G.P.U. si era impegnata in un vasto programma di produzione di legname per

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l'esportazione e aveva già chiesto a svariate riprese altra manodopera alla Direzione principale dei luoghi di detenzione del commissariato del popolo per gli Interni, che gestiva le prigioni comuni; i «suoi» prigionieri dei campi speciali delle Soloveckie, 38 mila nel 1928, non erano infatti sufficienti per realizzare la produzione prevista.

La preparazione del primo piano quinquennale pose all'ordine del giorno i problemi di ripartizione della manodopera e di sfruttamento delle regioni inospitali ma ricche di risorse naturali. In quest'ottica, la manodopera penitenziaria fino ad allora inutilizzata, se sfruttata adeguatamente poteva diventare una vera ricchezza: controllarla e gestirla avrebbe fruttato soldi, influenza e potere. I dirigenti della G.P.U., soprattutto Menzinskij e il suo vice Jagoda, erano pienamente consapevoli della posta in gioco e godevano dell'appoggio di Stalin. Nell'estate del 1929 misero a punto un ambizioso piano di «colonizzazione» della regione di Narym, nella Siberia occidentale, che si estendeva su 350 mila chilometri quadrati di taiga, e non cessarono di reclamare l'applicazione immediata del Decreto del 27 giugno 1929. In questo contesto nacque l'idea della «dekulakizzazione», vale a dire la deportazione in massa di tutti coloro che venivano considerati contadini agiati. Negli ambienti ufficiali si pensava infatti che i kulak si sarebbero senz'altro opposti con forza alla collettivizzazione.

Tuttavia, Stalin e i suoi sostenitori impiegarono un anno intero per vincere le resistenze opposte anche in seno alla direzione del Partito alla politica di collettivizzazione forzata, di dekulakizzazione e di industrializzazione accelerata, tre elementi inscindibili di un programma coerente di trasformazione brutale dell'economia e della società. Questo programma era basato sul blocco dei meccanismi di mercato, l'espropriazione delle terre dei contadini e la valorizzazione delle ricchezze naturali delle regioni inospitali del paese per mezzo del lavoro forzato di milioni di proscritti,

«dekulakizzati» e altre vittime di questa «seconda rivoluzione». L'opposizione detta «di destra», guidata in particolare da Rykov e Buharin, riteneva che la collettivizzazione avrebbe avuto come conseguenze inevitabili lo «sfruttamento militar-feudale» della classe contadina, la guerra civile, l'imperversare del terrore, il caos e la carestia: fu battuta nell'aprile del 1929. Nell'estate di quell'anno la stampa attaccò quotidianamente i «destrorsi» con una campagna di rara violenza, accusandoli di «collaborazione con gli elementi capitalisti» e di «collusione con i trotzkisti». Alla fine, totalmente screditati, gli oppositori fecero pubblica autocritica al plenum del Comitato centrale del novembre del 1929.

Mentre al vertice si svolgevano i diversi episodi della lotta fra chi sosteneva e chi negava la necessità di abbandonare la NEP, il paese piombava in una crisi economica sempre più profonda. Nel 1928-1929 la produzione agricola diede risultati catastrofici. Nonostante il ricorso sistematico a tutto un arsenale di misure coercitive che colpivano i contadini nel loro complesso - forti multe, pene detentive per chi rifiutava di vendere i suoi prodotti agli organismi statali -, la campagna di ammasso produsse assai meno cereali della precedente, creando allo stesso tempo un clima di estrema tensione nelle campagne. Dal gennaio del 1928 al dicembre del 1929, cioè prima della collettivizzazione forzata, la G.P.U. registrò oltre 1300 sommosse e «manifestazioni di massa» nelle campagne, durante le quali furono arrestate decine di migliaia di contadini. Un'altra cifra attesta il clima che regnava allora nel paese: nel 1929 oltre 3200 funzionari sovietici furono vittime di «atti terroristici». Nel febbraio del 1929 le tessere annonarie, che erano scomparse dall'inizio della NEP, ricomparvero nelle città, dove c'era carenza di tutto da quando le autorità avevano chiuso la maggior parte delle attività di piccolo commercio e delle botteghe artigiane, definite imprese «capitalistiche».

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Per Stalin la situazione critica dell'agricoltura era dovuta all'azione dei kulak e di altre forze ostili che si accingevano a «minare il potere sovietico». La posta in gioco era chiara: i «capitalisti rurali» o i kolhoz! Nel giugno del 1929 il governo annunciò l'inizio di una nuova fase, quella della «collettivizzazione di massa». Gli obiettivi del primo piano quinquennale, ratificato in aprile dal Sedicesimo Congresso del Partito, furono rivisti e accresciuti. Inizialmente il piano prevedeva entro la fine del quinquennio la collettivizzazione di 5 milioni di focolari, cioè il 20 per cento circa delle colture. In giugno fu annunciato un obiettivo di 8 milioni di focolari per il solo 1930: in settembre di 13 milioni! Durante l'estate del 1929 le autorità mobilitarono decine di migliaia di comunisti, sindacalisti, membri delle organizzazioni comuniste giovanili (i komsomol), operai e studenti, mandandoli a lavorare nei villaggi sotto la direzione dei responsabili locali del Partito e degli agenti della G.P.U. Le pressioni sui contadini continuarono a intensificarsi, mentre le organizzazioni locali del Partito rivaleggiavano in zelo per battere i primati di collettivizzazione. Il 31 ottobre 1929 la «Pravda» chiedeva la «collettivizzazione totale», senza alcun limite all'operazione. Una settimana dopo, in occasione del dodicesimo anniversario della Rivoluzione, Stalin pubblicò il suo famoso articolo "La grande svolta", basato su una valutazione sostanzialmente errata secondo cui «il contadino medio si era orientato verso i kolhoz». La NEP aveva fatto il suo tempo.

7. COLLETTIVIZZAZIONE FORZATA E DEKULAKIZZAZIONE Come confermano gli archivi oggi accessibili, la collettivizzazione forzata delle campagne fu una vera e propria guerra, dichiarata dallo Stato sovietico contro un'intera nazione di piccoli produttori agricoli. Furono deportati oltre 2 milioni di contadini di cui un milione 800 mila solo nel 1930-1931; 6 milioni morirono di fame, centinaia di migliaia perirono nelle zone di deportazione: queste poche cifre danno la misura della tragedia umana provocata dal «grande attacco» contro la classe contadina. Questa guerra non finì nell'inverno 1929-1930, ma durò invece almeno fino alla metà degli anni Trenta, e culminò negli anni 1932-1933: in questo periodo si verificò una terribile carestia, provocata deliberatamente dalle autorità per piegare la resistenza della classe contadina. La violenza esercitata contro i contadini permise di sperimentare metodi che in seguito furono applicati contro altri gruppi sociali. In questo senso, ciò rappresenta una tappa decisiva nello sviluppo del Terrore staliniano.

Nel suo rapporto al plenum del Comitato centrale del novembre del 1929 Vjaceslav Molotov aveva dichiarato: «Nell'ambito del piano quinquennale i ritmi della collettivizzazione non costituiscono un problema.... Restano novembre, dicembre, gennaio, febbraio, marzo, quattro mesi e mezzo durante i quali, se gli imperialisti non ci attaccano direttamente, dobbiamo effettuare uno sfondamento decisivo nell'ambito dell'economia e della collettivizzazione». Le decisioni del plenum ratificarono questo balzo in avanti. Una commissione elaborò un nuovo calendario di collettivizzazione, che fu promulgato il 5 gennaio 1930 dopo molte revisioni al rialzo. Entro l'autunno del 1930 dovevano essere totalmente collettivizzati il Caucaso settentrionale, il Basso e il Medio Volga; le altre regioni cerealicole un anno dopo.

Già il 27 dicembre 1929 Stalin aveva annunciato il passaggio dalla «limitazione delle tendenze sfruttatrici dei kulak alla liquidazione dei kulak come classe». Una commissione dell'Ufficio politico, presieduta da Molotov, fu incaricata di mettere a punto i dettagli pratici per effettuarlo. La commissione individuò tre categorie di kulak: i primi, «impegnati in attività controrivoluzionarie», dovevano essere arrestati e trasferiti nei campi di lavoro della G.P.U., o in caso di resistenza giustiziati; le loro famiglie sarebbero state deportate e i beni confiscati. I kulak della seconda categoria, che esprimevano «un'opposizione meno attiva», ma erano «comunque arcisfruttatori, e quindi naturalmente inclini ad aiutare la controrivoluzione», dovevano essere arrestati e deportati insieme ai familiari in regioni remote del paese. Infine i kulak di terza categoria, definiti «fedeli al regime», sarebbero stati insediati d'ufficio al margine dei distretti in cui risiedevano, «fuori dalle zone collettivizzate, su terre che necessitano di essere bonificate». Il decreto precisava: «La quantità

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di colture di kulak da liquidare entro quattro mesi ... deve essere compresa fra il 3 e il 5 per cento del numero totale delle colture»; si trattava di una cifra indicativa che avrebbe dovuto guidare le operazioni di dekulakizzazione . Le operazioni venivano coordinate in ciascun distretto da una trojka composta dal primo segretario del Comitato del partito, dal presidente del Comitato esecutivo dei soviet e dal responsabile locale della G.P.U., ed erano condotte da commissioni e brigate di dekulakizzazione. La lista dei kulak di prima categoria, che in base al «piano indicativo» stabilito dall'Ufficio politico comprendeva 60 mila capifamiglia, era di competenza esclusiva della polizia politica. Le liste dei kulak delle altre categorie, invece, venivano approntate in loco, tenendo conto delle «raccomandazioni» degli «attivisti» del villaggio. Chi erano questi attivisti? Uno dei più intimi collaboratori di Stalin, Sergo Ordzonikidze, li descriveva così: «Dato che nei villaggi non ci sono militanti del Partito, in generale vi abbiamo collocato un "giovane comunista", affiancandogli due o tre contadini poveri; questo "attivo" è incaricato di regolare direttamente tutte le questioni del villaggio: collettivizzazione, dekulakizzazione». Le istruzioni erano chiare: collettivizzare il maggior numero di colture possibile, e arrestare i recalcitranti bollandoli come kulak.

Questi sistemi, com'è logico, provocavano abusi e regolamenti di conti di ogni genere. Come definire il kulak? E un kulak di seconda categoria o uno di terza? Nel gennaio-febbraio del 1930, per individuare la coltura di un kulak non si poteva nemmeno più ricorrere ai criteri che negli anni precedenti erano stati pazientemente elaborati dopo infinite discussioni da vari ideologi ed economisti del Partito. Infatti nell'ultimo anno i kulak si erano molto impoveriti per far fronte alle imposte sempre più pesanti. In assenza di segni esteriori di ricchezza, le commissioni dovevano ricorrere alle liste fiscali conservate dai soviet rurali, spesso vecchie e incomplete, alle informazioni della G.P.U., alle denunce di vicini allettati dalla possibilità di saccheggiare i beni altrui. Anziché seguire le istruzioni ufficiali, compilando un inventario preciso e dettagliato dei beni per poi trasferirli al fondo inalienabile del kolhoz, le brigate di dekulakizzazione si attenevano al principio: «Mangiamo e beviamo, è tutto nostro». Come osservava un rapporto della G.P.U. proveniente dalla provincia di Smolensk, «i dekulakizzatori toglievano ai contadini agiati gli abiti invernali e la biancheria calda, impadronendosi in primo luogo delle scarpe. Lasciavano i kulak in mutande, e prendevano tutto, comprese le vecchie scarpe di gomma, i vestiti delle donne, 50 copechi di tè, attizzatoi, brocche... Le brigate confiscavano persino i piccoli guanciali posti sotto la testa dei bambini, persino la "kascia" che cuoceva sul fuoco e che spalmavano sulle icone dopo averle infrante» . Gli averi dei contadini dekulakizzati spesso venivano semplicemente messi al sacco o venduti all'asta a prezzi irrisori; alcune izba furono acquistate da membri delle brigate di dekulakizzazione per 60 copechi, delle mucche per 15 copechi, cioè a prezzi diverse centinaia di volte inferiori all'effettivo valore. Oltre a dare possibilità di saccheggio illimitate, spesso la dekulakizzazione serviva anche da pretesto per regolare conti personali.

In queste condizioni, non stupisce che in certi distretti i contadini dekulakizzati fossero all'80-90 per cento "serednjak", contadini medi. Bisognava raggiungere, e se possibile superare, il numero «indicativo» di kulak stabilito dalle autorità locali! I contadini venivano arrestati e deportati per aver venduto dei cereali al mercato durante l'estate, per aver assunto un bracciante agricolo per due mesi nel 1925 o nel 1926, per aver posseduto due samovar, per aver ammazzato un maiale nel settembre del 1929 «allo scopo di consumarlo e sottrarlo così all'appropriazione socialista». Un contadino veniva arrestato con il pretesto di essersi «dato al commercio», mentre era solo un contadino povero che vendeva i suoi prodotti; un altro veniva deportato con il pretesto che suo zio era stato ufficiale zarista, un altro ancora era bollato come kulak per la sua «frequentazione assidua della chiesa». Ma il più delle volte il semplice fatto di essersi opposti apertamente alla collettivizzazione bastava per essere considerati kulak. Nelle brigate di dekulakizzazione regnava una confusione tale da causare talvolta assurdità vere e proprie. In un borgo dell'Ucraina, per citare solo un esempio, un "serednjak" membro di una brigata di dekulakizzazione fu arrestato come kulak dai rappresentanti di un'altra brigata di dekulakizzazione di stanza all'altra estremità del borgo!

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Tuttavia, dopo una prima fase che a qualcuno servì da pretesto per regolare vecchi conti, o semplicemente per darsi al saccheggio, la comunità contadina non tardò a coalizzarsi contro i «dekulakizzatori» e i «collettivizzatori». Nel gennaio del 1930 la G.P.U. registrò 402 rivolte e «manifestazioni di massa» contadine contro la collettivizzazione e la dekulakizzazione, 1048 in febbraio e 6528 in marzo .

Questa resistenza massiccia e inattesa della classe contadina indusse il potere a modificare temporaneamente i suoi piani. Il 2 marzo 1930 tutti i giornali sovietici pubblicarono il famoso articolo "La vertigine del successo", in cui Stalin condannava «le numerose distorsioni al principio del volontariato nell'adesione dei contadini ai kolhoz», imputando gli «eccessi» della collettivizzazione ai responsabili locali «ebbri di successo». L'impatto dell'articolo fu immediato: durante il solo mese di marzo, più di 5 milioni di contadini lasciarono i kolhoz. Ma le sommosse e i disordini provocati dalla riappropriazione, spesso violenta, degli arnesi e del bestiame da parte dei proprietari non cessarono. Per tutto il mese di marzo le autorità centrali ricevettero quotidianamente rapporti della G.P.U. in cui si riferiva di insurrezioni massicce nell'Ucraina occidentale, nella regione centrale delle Terre nere, nel Caucaso settentrionale, nel Kazakistan. In questo mese cruciale la G.P.U. contò in totale oltre 6500 «manifestazioni di massa», più di 800 delle quali dovettero essere «soffocate dalle forze armate». Nel corso di questi incidenti oltre 1500 funzionari furono uccisi, feriti o picchiati di santa ragione. Il numero delle vittime fra gli insorti è ignoto, ma dev'essere nell'ordine di alcune migliaia .

All'inizio di aprile il potere fu costretto a fare altre concessioni. Inviò alle autorità locali molte circolari in cui si chiedeva di rallentare il ritmo della collettivizzazione, ammettendo che esisteva il pericolo reale «di una vera ondata di guerre contadine» e «dell'annientamento fisico della metà dei funzionari locali del potere sovietico». In aprile il numero delle rivolte e delle manifestazioni contadine calò, pur restando comunque imponente: 1992 casi registrati dalla G.P.U. A partire dall'estate diminuirono ancora più in fretta: 886 rivolte in giugno, 618 in luglio, 256 in agosto. Complessivamente, nel 1930 quasi 2 milioni 500 mila contadini parteciparono a quasi 14 mila rivolte, sommosse e manifestazioni di massa contro il regime. Le regioni più colpite furono l'Ucraina (e soprattutto l'Ucraina occidentale, in cui interi distretti sfuggirono al controllo del regime, specialmente alle frontiere con la Polonia e con la Romania), la regione delle Terre nere, il Caucaso settentrionale .

Una delle peculiarità di questi movimenti era il ruolo chiave che vi svolgevano le donne, mandate in prima linea nella speranza che non avrebbero subito punizioni troppo severe . Le autorità erano particolarmente colpite dalle manifestazioni di protesta dei contadini contro la chiusura delle chiese o la collettivizzazione delle mucche da latte, che metteva a rischio la sopravvivenza stessa dei loro figli, ma va sottolineato che ci furono anche numerosi scontri sanguinosi fra le squadre della G.P.U. e gruppi di contadini armati di forconi e di scuri. Centinaia di soviet furono messi al sacco; i comitati contadini assumevano per qualche ora o qualche giorno la direzione dei villaggi, formulando liste di rivendicazioni in cui erano citate alla rinfusa la restituzione degli utensili e del bestiame confiscati, lo scioglimento dei kolhoz, il ripristino della libertà di commercio, la riapertura delle chiese, la restituzione ai kulak dei loro beni, il ritorno dei contadini deportati, l'abolizione del potere bolscevico o... la restaurazione dell'«Ucraina indipendente» . I contadini riuscirono, soprattutto in marzo e in aprile, a sconvolgere i piani governativi di collettivizzazione accelerata, ma il loro successo fu di breve durata. A differenza di quanto era accaduto nel 1920-1921, non riuscirono a organizzarsi davvero, a trovare dei capi, a federarsi almeno a livello regionale. Le rivolte contadine fallirono per mancanza di tempo, poiché il regime reagiva in fretta, per mancanza di quadri, che erano stati decimati durante la guerra civile, e per mancanza di armi, che erano state via via confiscate nel corso degli anni Venti.

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La repressione fu terribile. Solo nei distretti di confine dell'Ucraina occidentale, alla fine di marzo del 1930 il «rastrellamento degli elementi controrivoluzionari» condusse all'arresto di oltre 15 mila persone. Inoltre, nel giro di 40 giorni, dal primo febbraio al 15 marzo, la G.P.U. dell'Ucraina arrestò altre 26 mila persone, 650 delle quali furono fucilate. Secondo i dati della G.P.U., nel 1930 soltanto gli organi giudiziari speciali della polizia politica condannarono a morte 20200 persone.

Mentre proseguiva la repressione degli «elementi controrivoluzionari», la G.P.U. applicava la Direttiva n. 44/21 di G. Jagoda sull'arresto di 60 mila kulak di prima categoria. A giudicare dai rapporti quotidiani inviati a Jagoda, l'operazione fu condotta con rapidità: il primo rapporto, datato 6 febbraio, attesta l'arresto di 15985 individui; il 9 febbraio, per citare l'espressione usata dalla G.P.U., erano state «ritirate dalla circolazione» 25245 persone. Un «rapporto segreto» ("specsvodka") datato 15 febbraio precisava: «Fra liquidazioni, individui ritirati dalla circolazione e operazioni di massa, si arriva a un totale di 64589 persone, di cui 52166 ritirate durante operazioni preparatorie (prima categoria), e 12423 ritirate nel corso di operazioni di massa». In pochi giorni il «piano» di liquidazione di 60 mila kulak di prima categoria era stato superato. In realtà, i kulak rappresentavano soltanto una parte delle persone «ritirate dalla circolazione». Gli agenti locali della G.P.U. avevano approfittato dell'occasione per «ripulire» il proprio distretto dagli «elementi estranei alla società», fra cui figuravano «poliziotti dell'ancien régime», «ufficiali bianchi», «servitori del culto», «monache», «artigiani rurali», ex «commercianti», «membri dell'intellighenzia rurale» e «altri». In calce al rapporto del 15 febbraio 1930, che specificava le varie categorie di individui arrestati nel quadro della liquidazione dei kulak di prima categoria, Jagoda scrisse: «Le regioni di Nord-Est e Leningrado non hanno capito le nostre direttive oppure non vogliono capirle: "bisogna obbligarli a capire". Non stiamo ripulendo il territorio da popi, commercianti e altri. Se dicono 'altri' vuol dire che non sanno "chi arrestano". Avremo tutto il tempo per sbarazzarci dei popi e dei commercianti, oggi bisogna centrare con precisione l'obiettivo: "i kulak", e i kulak controrivoluzionari». Quanti individui arrestati nel quadro dell'operazione di «liquidazione dei kulak di prima categoria» furono giustiziati? A tutt'oggi non ci sono dati disponibili.

I kulak «di prima categoria» costituirono senza dubbio una parte notevole dei primi contingenti di detenuti trasferiti nei campi di lavoro. Nell'estate del 1930 la G.P.U. aveva già organizzato una vasta rete di campi. Il complesso penitenziario più antico, quello delle isole Soloveckie, continuò a estendersi sul litorale del Mar Bianco, dalla Carelia alla regione di Arcangelo. Oltre 40 mila detenuti costruivano la strada Kem'-Uhta e assicuravano la maggior parte della produzione di legname esportata dal porto di Arcangelo. Il gruppo dei campi settentrionali, che contava circa 40 mila detenuti, era attivo nella costruzione di una ferrovia di 300 chilometri fra Ust', Sysol'sk e Pinjug, e di una strada di 280 chilometri fra Ust', Sysol'sk e Uhta. Nel gruppo dei campi estremoorientali, i 15 mila detenuti costituivano la sola manodopera del cantiere della linea ferroviaria di Boguciacinsk. Un quarto gruppo, detto della Vigera e che contava 20 mila detenuti circa, forniva la manodopera del cantiere del grande complesso chimico di Berezniki, negli Urali. Infine, il Gruppo dei campi siberiani, forte di 24 mila detenuti circa, collaborava alla costruzione della linea ferroviaria Tomsk-Enisejsk e del complesso metallurgico di Kuzneck.

Nel giro di un anno e mezzo, dalla fine del 1928 all'estate del 1930, la manodopera penitenziaria sfruttata nei campi della G.P.U. aumentò del 350 per cento, passando da 40 mila a 140 mila detenuti circa. I successi nello sfruttamento di questa forza lavoro incoraggiarono il potere ad avviare nuovi grandi progetti. Nel giugno 1930 il governo decise di costruire un canale lungo 240 chilometri, che doveva essere scavato per la maggior parte nella roccia granitica e che avrebbe collegato il Mar Baltico al Mar Bianco. A causa della mancanza di mezzi tecnici e di macchinari, per il faraonico progetto era necessaria una manodopera di almeno 120 mila detenuti, che come unici utensili avevano picconi, pale e carriole. Ma nell'estate del 1930, in piena dekulakizzazione, la manodopera penitenziaria non era certo un prodotto deficitario!

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In realtà, la massa dei dekulakizzati era tale - oltre 700 mila persone alla fine del 1930, oltre un milione 800 mila alla fine del 1931 - che le «strutture di inquadramento» non riuscivano a «star loro dietro». Le operazioni di deportazione dell'immensa maggioranza dei kulak, detti di «seconda» e «terza» categoria, si svolsero nell'improvvisazione e nell'anarchia assolute. Produssero una forma senza precedenti di «deportazione-abbandono» che sul piano economico non rendeva nulla alle autorità, anche se uno degli obiettivi principali della dekulakizzazione era di valorizzare per mezzo dei deportati le regioni inospitali ma ricche di risorse naturali del paese . Le deportazioni dei kulak di seconda categoria incominciarono nella prima settimana di febbraio del 1930. Secondo il piano approvato dall'Ufficio politico, 60 mila famiglie dovevano essere deportate durante la prima fase, la cui conclusione era prevista per la fine d'aprile. La zona settentrionale doveva accogliere 45 mila famiglie, gli Urali 15 mila. Tuttavia il 16 febbraio Stalin telegrafò a Eihe, primo segretario del Comitato regionale di partito della Siberia occidentale: «E' inammissibile che la Siberia e il Kazakistan pretendano di non essere pronti per accogliere i deportati. Tra ora e la fine di aprile la Siberia deve assolutamente accogliere 15 mila famiglie». In risposta Eihe inviò a Mosca un «preventivo» in cui erano calcolati i costi di «installazione» del contingente di deportati pianificato: si trattava di 40 milioni di rubli, somma che non ricevette mai .

Insomma, le operazioni di deportazione furono caratterizzate dalla completa assenza di coordinamento fra i diversi anelli della catena. I contadini arrestati furono parcheggiati per settimane in locali improvvisati - caserme, edifici amministrativi, stazioni - da cui molti di loro riuscirono a fuggire. La G.P.U. aveva previsto per la prima fase 240 convogli di 53 vagoni: secondo le norme stabilite dalla G.P.U., ciascun treno doveva essere costituito da 44 carri bestiame per 40 deportati ciascuno, di 8 vagoni per il trasporto degli utensili, degli approvvigionamenti e dei pochi averi dei deportati, entro un limite di 480 chilogrammi a famiglia, e di una carrozza per il trasporto delle guardie. Come testimonia l'aspra corrispondenza fra la G.P.U. e il commissariato del popolo per i Trasporti, i convogli arrivavano con il contagocce. Restavano fermi per settimane con il loro carico umano nei grandi centri di smistamento, a Vologda, Kotlas, Rostov, Sverdlovsk e Omsk. Lo stazionamento prolungato dei convogli di proscritti, che contenevano un gran numero di donne, bambini e vecchi, di solito non passava inosservato alla popolazione locale: lo attestano numerose lettere collettive inviate a Mosca, che stigmatizzavano il «massacro degli innocenti», ed erano firmate dal «collettivo degli impiegati e operai di Vologda» o dai «ferrovieri di Kotlas» .

Nei convogli fermi in pieno inverno su qualche binario morto, nell'attesa di un luogo di destinazione dove si potessero «installare» i deportati, il freddo, la mancanza di igiene, le epidemie mietevano, a seconda dei treni, un certo numero di vittime; ma non disponiamo di molti dati per gli anni 1930-1931. Una volta giunti in treno a una stazione, spesso gli uomini validi venivano divisi dalla famiglia, che era collocata provvisoriamente in baracche costruite in fretta; partivano poi sotto scorta verso i «luoghi di colonizzazione» situati, come previsto dalle istruzioni ufficiali, «a distanza dalle vie di comunicazione». L'interminabile odissea proseguiva quindi per molte altre centinaia di chilometri, con o senza famiglia, d'inverno su carovane di slitte, d'estate su carrette o a piedi. Dal punto di vista pratico, quest'ultima tappa dell'odissea dei kulak di seconda categoria era spesso simile alla deportazione dei kulak di terza categoria, trasferiti nei «territori che devono essere bonificati all'interno della loro regione»; in Siberia o negli Urali tali regioni coprivano infatti diverse centinaia di migliaia di chilometri quadrati. Il 7 marzo 1930 le autorità del distretto di Tomsk, in Siberia occidentale, riferivano: «Le prime carovane di kulak di terza categoria sono arrivate a piedi, senza cavalli, slitte, finimenti ... In generale, i cavalli attaccati ai convogli sono assolutamente inadatti a spostamenti di 300 chilometri e più, perché quando si sono formate le carovane tutti i cavalli buoni appartenenti ai deportati sono stati sostituiti con ronzini.... Vista la situazione, non c'è nemmeno da parlare di trasportare i beni e gli approvvigionamenti per due mesi cui hanno diritto i kulak. Inoltre non si sa che fare dei bambini e dei vecchi, che rappresentano oltre il 50 per cento del contingente» .

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In un altro rapporto dello stesso tenore, il Comitato esecutivo centrale della Siberia occidentale dimostrava per assurdo l'impossibilità di mettere in atto le istruzioni della G.P.U. riguardo alla deportazione di 4902 kulak di terza categoria di due distretti della provincia di Novosibirsk. «Trasportare per 370 chilometri di strade esecrabili le 8560 tonnellate di cereali e foraggio cui i deportati avrebbero teoricamente diritto "per il viaggio e l'insediamento" comporterebbe la mobilitazione di 28909 cavalli e di 7227 sorveglianti (un sorvegliante ogni quattro cavalli).» Il rapporto concludeva: «Attuare questa operazione comprometterebbe la campagna della semina di primavera, in quanto i cavalli, spossati, avrebbero bisogno di un lungo periodo di riposo ... Perciò è indispensabile ridurre notevolmente le provviste che i deportati sono autorizzati a portare con sé» .

Quindi i deportati dovettero stabilirsi nelle loro sedi senza provviste né arnesi, molto spesso senza un riparo; nel settembre del 1930 un rapporto proveniente dalla regione di Arcangelo ammetteva che, delle 1641 abitazioni «programmate» per i deportati, ne erano state costruite soltanto 7! I deportati si «insediarono» su qualche pezzo di terra, in mezzo alla steppa o alla taiga. A quel punto i più fortunati, che avevano avuto la possibilità di portare qualche attrezzo, potevano cercare di costruirsi un rifugio rudimentale, molto spesso la tradizionale "zemljanka", un semplice buco in terra ricoperto di rami. In certi casi, quando migliaia di deportati erano destinati a zone vicine a qualche grande cantiere o sito industriale in costruzione, venivano alloggiati in baracche sommarie, su letti a castello a tre piani, in diverse centinaia per ogni baracca. Quante delle 1.803.392 persone ufficialmente deportate durante la dekulakizzazione del 1930-1931 morirono di freddo e di fame nei primi mesi della loro «nuova vita»? Negli archivi di Novosibirsk è stato conservato un documento sorprendente, il rapporto inviato a Stalin nel maggio del 1933 da un istruttore del Comitato di partito di Narym, in Siberia occidentale, sulla sorte riservata a tre convogli che contenevano oltre 6000 deportati provenienti da Mosca e da Leningrado. Per quanto più tardo e relativo a un'altra categoria di deportati, non contadini ma «elementi declassati» cacciati dalla nuova «città socialista» a partire dalla fine del 1932, questo documento illustra una situazione che non era certo eccezionale, e che potremmo definire «deportazione-abbandono».

Ecco alcuni estratti di questa terribile testimonianza:

"Il 29 e il 30 aprile 1933, ci sono stati inviati via treno da Mosca e da Leningrado due convogli di elementi declassati. Arrivati a Tomsk, questi elementi sono stati caricati su chiatte e sono stati sbarcati, gli uni il 18 maggio e gli altri il 26 maggio, sull'isola di Nazino, situata alla confluenza dell'Ob' e del Nazina. Il primo convoglio comprendeva 5070 persone, il secondo 1044, per un totale di 6114 persone. Le condizioni di trasporto erano spaventose: cibo insufficiente e disgustoso, mancanza d'aria e di spazio, vessazioni subite dai più deboli ... Risultato: una mortalità di circa 35-40 persone al giorno. Tuttavia queste condizioni di vita si sono dimostrate un vero e proprio lusso rispetto a quello che aspettava i deportati sull'isola di Nazino (da dove dovevano essere spediti a gruppi alla loro destinazione finale, i settori di colonizzazione situati a monte del fiume Nazina). L'isola di Nazino è un luogo totalmente vergine, senza ombra di abitazione ... Niente attrezzi, niente sementi, niente cibo... La nuova vita è incominciata. Il giorno dopo l'arrivo del primo convoglio, il 19 maggio, ha iniziato a nevicare e si è alzato il vento. Affamati, dimagriti, senza un tetto, senza attrezzi... i deportati si sono ritrovati in una situazione senza via di uscita. Riuscivano solo ad accendere dei fuochi per tentare di sfuggire al freddo. La gente ha incominciato a morire ... Il primo giorno sono stati sepolti 295 cadaveri ... Solo il quarto o il quinto giorno dopo l'arrivo dei deportati sull'isola le autorità hanno inviato per nave un po' di farina, in ragione di qualche etto a persona. Dopo aver ricevuto la loro magra razione, le persone correvano verso la riva e tentavano di diluire con l'acqua un po' della farina nella 'sciapka', nei pantaloni o nella giacca. Ma moltissimi deportati tentavano di ingoiare la farina così com'era,

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e spesso morivano soffocati. Nel corso di tutto il soggiorno sull'isola i deportati non hanno ricevuto nient'altro che un po' di farina. I più intraprendenti si sforzavano di cuocere delle gallette, ma non c'era l'ombra di un recipiente ... Ben presto si sono verificati casi di cannibalismo ... Alla fine del mese di giugno è incominciato l'invio dei deportati verso i cosiddetti villaggi di colonizzazione. Erano situati a circa 200 chilometri dall'isola risalendo il Nazina, in piena taiga. Villaggi o non villaggi, quella era natura vergine. Ciò nonostante si è riusciti a costruire un forno primitivo, e questo ha permesso di produrre una specie di pane. Ma per il resto non c'erano molti cambiamenti rispetto alla vita sull'isola di Nazino: stesso ozio, stessi fuochi, stessa miseria. L'unica differenza era quella specie di pane, distribuito a intervalli di alcuni giorni. La gente continuava a morire. Un solo esempio. Delle 78 persone imbarcate sull'isola verso il quinto settore di colonizzazione, solo 12 sono arrivate vive. Ben presto le autorità hanno ammesso che quei luoghi non erano colonizzabili, e tutto il contingente dei sopravvissuti è stato rispedito a valle in nave. Le evasioni si moltiplicavano ... A partire dalla seconda metà di luglio i deportati sopravvissuti, cui infine avevano dato alcuni arnesi, hanno incominciato a costruire dei ripari seminterrati nel terreno nei nuovi luoghi di insediamento ... Ci sono stati ancora alcuni casi di cannibalismo ... Ma la vita ha ripreso progressivamente i suoi diritti: i deportati si sono rimessi a lavorare, ma avevano l'organismo talmente logoro che, anche quando ricevevano 750-1000 grammi di pane al giorno, continuavano ad ammalarsi, a crepare, a mangiare muschio, erba, foglie eccetera. Risultato: su 6100 persone partite da Tomsk (cui vanno aggiunte 500- 700 persone mandate nella regione da altri luoghi di provenienza), il 20 agosto restavano in vita soltanto 2200 persone circa".

Quante Nazino ci furono, quanti casi analoghi di deportazione- abbandono? Alcune cifre danno la misura delle perdite. Fra il febbraio del 1930 e il dicembre del 1931 furono deportati un po' più di un milione 800 mila dekulakizzati. Ma il primo gennaio 1932, quando le autorità effettuarono una prima verifica generale, furono recensite soltanto 1 milione 317022 persone . Le perdite raggiungevano il mezzo milione, cioè quasi il 30 per cento dei deportati. Certo, il numero di coloro che erano riusciti a fuggire era senza dubbio alto . Nel 1932 l'evoluzione dei «contingenti» fu oggetto per la prima volta di uno studio sistematico da parte della G.P.U., che dall'estate del 1931 era l'unica responsabile dei deportati, ormai definiti «coloni speciali», in tutte le fasi dell'operazione, dalla deportazione fino alla gestione dei «villaggi di colonizzazione». Secondo questo studio c'erano stati oltre 210 mila evasi e circa 90 mila morti. Nel 1933, anno della grande carestia, le autorità registrarono 151601 decessi su un milione 142022 coloni speciali censiti il primo gennaio 1933. Quindi nel 1932 il tasso di mortalità annua era del 6,8 per cento circa, nel 1933 del 13,3 per cento. Per gli anni 1930-1931 disponiamo soltanto di dati parziali, ma eloquenti: nel 1931 la mortalità era dell'1,3 per cento fra i deportati del Kazakistan, dello 0,8 per cento fra quelli della Siberia occidentale. Per quanto riguarda la mortalità infantile, oscillava fra l'8 e il 12 per cento... al mese, con punte del 15 per cento a Magnitogorsk. Dal primo giugno 1931 al primo giugno 1932 la mortalità fra i deportati della regione di Narym, in Siberia occidentale, raggiunse l'11,7 per cento annuo. Nel complesso, è poco probabile che nel 1930-1931 il tasso di mortalità fosse inferiore a quello del 1932: senz'altro si avvicinava al 10 per cento annuo, e forse lo superava. Perciò, si può calcolare che in tre anni morirono durante la deportazione circa 300 mila persone .

Per le autorità centrali, preoccupate di «rendere redditizio» il lavoro di quelli che definivano «trasferiti speciali» oppure, a partire dal 1932, «coloni di lavoro», la deportazione-abbandono era solo un ripiego, imputabile, come scriveva N. Puzickij, uno dei dirigenti della G.P.U. responsabili dei coloni di lavoro, «alla negligenza criminale e alla miopia politica dei responsabili locali che non hanno assimilato l'idea della colonizzazione da parte degli ex kulak» .

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Nel marzo del 1931, per porre fine all'«insopportabile confusione della manodopera deportata», fu istituita una commissione speciale in contatto diretto con l'Ufficio politico, presieduta da V. Andreev e in cui Jagoda aveva un ruolo determinante. L'obiettivo primario della commissione era «una gestione razionale ed efficace dei coloni di lavoro». Infatti le prime inchieste condotte dalla commissione avevano rilevato che la produttività della manodopera deportata era quasi nulla. Per esempio, su 300 mila coloni di lavoro insediati negli Urali, nell'aprile del 1931 solo l'8 per cento era assegnato «al taglio dei boschi e ad altri lavori produttivi»; gli altri adulti validi «costruivano alloggi per se stessi... e si davano da fare per sopravvivere». Un altro documento ammetteva che nel complesso le operazioni di dekulakizzazione avevano costituito una perdita per lo Stato: il valore medio dei beni confiscati ai kulak nel 1930 ammontava a 564 rubli per coltura, una somma irrisoria (equivalente a mezza mensilità di salario di un operaio), e questo la diceva lunga sulla pretesa «agiatezza» dei kulak. Quanto alle spese affrontate per la deportazione dei kulak, ammontavano a oltre 1000 rubli a famiglia!

Secondo la Commissione Andreev, la razionalizzazione della gestione dei coloni di lavoro doveva incominciare con la riorganizzazione amministrativa delle strutture responsabili dei deportati. Durante l'estate del 1931 la G.P.U. ottenne il monopolio della gestione amministrativa dei «popolamenti speciali», che fino a quel momento dipendevano dalle autorità locali. Fu istituita tutta una rete di «comandi» ("komandatura"), una vera e propria amministrazione parallela che permetteva alla G.P.U. di godere di una specie di extraterritorialità e di controllare completamente immensi territori in cui i coloni speciali costituivano ormai il grosso della popolazione. I coloni erano inoltre soggetti a un regolamento interno molto severo. Erano sottoposti a domicilio coatto e venivano impiegati dall'amministrazione in un'impresa statale oppure in una «cooperativa agricola o artigianale a statuto speciale, diretta dal comandante locale dell'O.G.P.U.», o ancora in lavori di costruzione e manutenzione di strade o di dissodamento. Naturalmente, sia standard di produttività sia salari erano sottoposti a uno statuto speciale: in media gli standard erano dal 30 al 50 per cento superiori a quelli dei lavoratori liberi; per quanto riguarda i salari, quando venivano corrisposti, subivano una ritenuta che andava dal 15 al 25 per cento, versata direttamente all'amministrazione della G.P.U.

In realtà, come attestano i documenti della Commissione Andreev, la G.P.U. era molto soddisfatta del «costo di inquadramento» dei coloni di lavoro, che era inferiore di nove volte a quello dei detenuti dei campi; per esempio, nel giugno del 1933 i 203 mila coloni speciali della Siberia occidentale, ripartiti in 83 comandi, erano sorvegliati da appena 971 persone L'obiettivo della G.P.U. era di fornire, previo versamento di una commissione costituita da una percentuale sui salari e da una somma forfettaria per contratto, la "propria" manodopera a un certo numero di grandi complessi industriali incaricati dello sfruttamento delle risorse naturali nelle regioni settentrionali e orientali del paese, come Uralesprom (sfruttamento forestale), Uralugol', Vostugol' (carbone), Vostokstal' (acciaierie), Cvetmetzoloto (minerali non ferrosi), Kuznecstroj (metallurgia) eccetera. In linea di principio, l'impresa si incaricava di assicurare le infrastrutture abitative, scolastiche e di approvvigionamento dei deportati. In realtà, come ammettevano gli stessi funzionari della G.P.U., le imprese avevano la tendenza a considerare una risorsa gratuita questa manodopera che si trovava in una condizione ambigua, tra la semilibertà e la semidetenzione. I coloni di lavoro spesso non ricevevano alcun salario, in quanto le somme che guadagnavano erano in genere inferiori a quelle trattenute dall'amministrazione per la costruzione delle baracche, gli utensili, le quote obbligatorie in favore dei sindacati, il prestito di Stato eccetera.

Erano dei veri paria, iscritti nell'ultima categoria di razionamento, sempre vittime della fame ma anche di ogni tipo di vessazione e di abuso. Fra gli abusi più palesi sottolineati nei rapporti dell'amministrazione c'erano l'istituzione di standard irrealizzabili, il mancato versamento dei salari, il pestaggio dei deportati o la loro reclusione in pieno inverno in prigioni improvvisate senza alcun

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riscaldamento, il baratto delle deportate «con mercanzie da parte dei comandanti della G.P.U.» o il loro invio come domestiche gratuite «tuttofare» ai capetti locali. Questa osservazione del direttore di un'impresa forestale degli Urali in cui erano impiegati coloni di lavoro, citata e criticata in un rapporto della G.P.U. del 1933, riassumeva bene lo stato d'animo di molti dirigenti verso questo tipo di manodopera, che poteva essere sfruttata a volontà: «Potremmo liquidarvi tutti, perché comunque la G.P.U. ci manderà al vostro posto un'altra infornata di centomila come voi!».

A poco a poco, da un punto di vista strettamente produttivo, l'utilizzo di coloni di lavoro diventò più razionale. Dal 1932 si assistette a un progressivo abbandono delle «zone di popolamento» o di «colonizzazione» più inospitali in favore dei grandi cantieri, dei poli minerari e industriali. In certi settori la manodopera deportata, che lavorava nelle stesse imprese o negli stessi cantieri dei lavoratori liberi e viveva in baracche contigue, era molto numerosa, e talvolta predominante. Nelle miniere del Kuzbass, alla fine del 1933, gli oltre 41 mila coloni di lavoro rappresentavano il 47 per cento del totale dei minatori. A Magnitogorsk i 42462 deportati registrati nel settembre del 1932 costituivano i due terzi della popolazione locale . Erano costretti a risiedere in quattro zone di popolamento speciale, a una distanza che andava da 2 a 6 chilometri dal luogo di costruzione principale, ma lavoravano nelle stesse squadre degli operai liberi, e questa situazione tendeva a cancellare almeno in parte il limite fra la diversa condizione degli uni e degli altri. Per forza di cose, e cioè per gli imperativi economici, gli ex dekulakizzati, diventati coloni di lavoro, si reintegravano in una società segnata da una penalizzazione generale dei rapporti sociali, e in cui nessuno sapeva chi sarebbero stati i prossimi esclusi.

8. LA GRANDE CARESTIA Per lungo tempo la grande carestia del 1932-1933, che - secondo fonti oggi incontestabili - provocò oltre 6 milioni di vittime, ha rappresentato uno degli «spazi bianchi» nella storia dell'Unione Sovietica . Tale catastrofe tuttavia non fu come tutte le altre, una qualsiasi nella serie di carestie che a intervalli regolari si abbattevano sulla Russia zarista. Fu una diretta conseguenza del nuovo sistema di «sfruttamento militar-feudale» dei contadini (secondo l'espressione del dirigente bolscevico antistalinista Nikolaj Buharin), attuato all'epoca della collettivizzazione forzata, e una tragica esemplificazione dello spaventoso regresso sociale che accompagnò l'assalto sferrato dal potere sovietico contro le campagne alla fine degli anni Venti.

A differenza della carestia del 1921-1922, ammessa anche dalle autorità sovietiche, le quali ricorsero in larga misura agli aiuti internazionali, quella del 1932-1933 fu sempre negata dal regime, che all'estero si servì della propaganda per soffocare le rare voci levatesi per attirare l'attenzione sulla tragedia, e nel suo sforzo fu aiutato moltissimo da «testimonianze» sollecitate, come quella di Edouard Herriot, deputato francese e leader del Partito radicale. Herriot, che visitò l'Ucraina nell'estate del 1933, proclamò ai quattro venti di aver visto soltanto «orti colcosiani ammirevolmente irrigati e coltivati» e «raccolti decisamente ammirevoli», per arrivare infine alla perentoria conclusione: «Ho attraversato l'Ucraina. Ebbene, dichiaro di averla trovata tale e quale un giardino in pieno rigoglio» . La sua cecità era in primo luogo dovuta a una formidabile messinscena organizzata dalla G.P.U. in onore degli ospiti stranieri, che seguivano un itinerario tutto kolhoz e scuole materne modello. Era evidentemente un accecamento corroborato da considerazioni politiche, in particolare da parte dei dirigenti francesi allora al potere, i quali si preoccupavano di non interrompere il processo di riavvicinamento iniziato con l'Unione Sovietica mentre la Germania diventava più minacciosa, in seguito alla recente ascesa al potere di Adolf Hitler.

Tuttavia un certo numero di dirigenti politici di alto rango, in particolare tedeschi e italiani, vennero a conoscenza della carestia del 1932-1933 con notevole precisione. I rapporti inviati al governo dai diplomatici italiani di stanza a Har'kov, Odessa o Novorossijsk, scoperti e pubblicati in anni recenti

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dallo storico italiano Andrea Graziosi , mostrano come Mussolini, che li leggeva attentamente, fosse informato di ogni aspetto della situazione, e tuttavia si sia astenuto dal servirsene per alimentare la propaganda anticomunista. Al contrario l'estate del 1933 fu segnata dalla firma di un trattato commerciale italo-sovietico, seguita da quella di un patto di amicizia e di non aggressione. La verità sulla grande carestia, negata o sacrificata alla ragione di Stato, ricordata in pubblicazioni a tiratura ridotta curate dalle associazioni di ucraini fuorusciti, cominciò a imporsi soltanto dopo la seconda metà degli anni Ottanta, dopo che furono pubblicati vari studi e ricerche, sia di storici occidentali sia di studiosi dell'ex Unione Sovietica.

Ovviamente non è possibile comprendere la carestia del 1932-1933 senza darle la giusta collocazione nel contesto dei nuovi rapporti instauratisi fra Stato sovietico e ceto contadino in seguito alla collettivizzazione forzata. Nelle campagne collettivizzate il kolhoz aveva un ruolo strategico. La sua funzione era assicurare allo Stato consegne prestabilite di prodotti agricoli, grazie a un salasso sempre più alto del raccolto «collettivo». Ogni autunno la campagna di ammasso si trasformava in un'autentica prova di forza fra lo Stato e un ceto contadino che faceva uno sforzo disperato per trattenere una parte del raccolto. La posta in gioco era cospicua: per lo Stato il prelievo, per il contadino la sopravvivenza. Quanto più le regioni erano fertili, tanto più erano salassate. Nel 1930 lo Stato raccolse il 30 per cento della produzione agricola in Ucraina, il 38 per cento nelle ricche pianure del Kuban', nella regione settentrionale del Caucaso, il 33 per cento del raccolto del Kazakistan. Nel 1931, con un raccolto di gran lunga più ridotto, le quote prelevate furono rispettivamente del 41,5, del 47 e del 39,5 per cento. Un prelievo simile non poteva non sconvolgere del tutto il ciclo produttivo; basti ricordare qui che nella fase della NEP i contadini mettevano in vendita soltanto il 15-20 per cento del raccolto, riservandone il 12- 15 per cento per la semina, il 25-30 per cento al bestiame e il resto al consumo proprio. Era inevitabile il conflitto fra i contadini, decisi a ricorrere a ogni sorta di stratagemma per conservare una parte del proprio raccolto, e le autorità locali, costrette a realizzare a ogni costo un piano che era sempre meno realistico: nel 1932 le quote stabilite per l'ammasso superavano quelle dell'anno precedente del 32 per cento .

Nel 1932 la campagna per l'ammasso ebbe un inizio piuttosto fiacco. Appena si cominciò a mietere il nuovo raccolto i colcosiani si sforzarono di nasconderne una parte o di «rubarla» durante la notte. Si formò un vero e proprio «fronte di resistenza passiva», sostenuto dall'accordo tacito e reciproco che spesso univa il colcosiano e il gendarme, il gendarme e il contabile, il contabile e il direttore del kolhoz, a sua volta contadino di recente promozione, e infine il direttore e il segretario del Partito locale. Per «prendere i cereali» le autorità centrali dovettero inviare nuove «squadre d'assalto» reclutate in città, fra i komsomol e i comunisti.

Ecco che cosa scriveva ai propri superiori gerarchici, a proposito dell'autentico clima di guerra che allora regnava nelle campagne, un istruttore del Comitato esecutivo centrale, inviato in missione in un distretto cerealicolo del Basso Volga:

"Gli arresti e le perquisizioni sono eseguiti dai soggetti più vari: dai membri del soviet rurale, da ogni sorta di agenti, dalle squadre di assalto, da qualsiasi komsomol che abbia voglia di darsi da fare. Quest'anno il 12 per cento circa dei proprietari coltivatori del distretto è passato davanti al tribunale, senza contare i kulak deportati, i contadini colpiti da ammende eccetera. Secondo i calcoli dell'ex viceprocuratore del distretto, nel corso dell'ultimo anno il 15 per cento della popolazione adulta è rimasto vittima della repressione sotto varie forme. Se si aggiunge che nell'ultimo mese circa ottocento proprietari coltivatori sono stati espulsi dai kolhoz, si avrà un'idea della vastità della repressione compiuta nel distretto ... Se si escludono i casi in cui la repressione di massa è davvero giustificata, occorre dire che l'efficacia delle misure repressive continua a diminuire quanto più diventa difficile metterle

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in atto allorché superano una certa soglia ... Tutte le prigioni sono piene da scoppiare. In quella di Balasciov ci sono cinque volte più detenuti del previsto, e a Elan', nel piccolo carcere del distretto, si trovano 610 persone. In quest'ultimo mese la prigione di Balasciov ha «restituito» a Elan' 78 condannati, 48 dei quali avevano meno di dieci anni; 21 sono stati subito rilasciati ... Per concludere su questo famoso metodo, il solo adottato qui - il metodo della forza -, due parole a proposito dei contadini singoli, nei confronti dei quali si fa di tutto per dissuaderli dal seminare e dal produrre. Il seguente esempio mostra fino a qual punto essi sono terrorizzati: a Morty un contadino singolo, che aveva realizzato il piano al 100 per cento, è venuto a trovare il compagno Fomicev, presidente del Comitato esecutivo del distretto, e gli ha chiesto di farlo deportare nel Nord, perché, ha spiegato, in ogni modo «in queste condizioni non si può più vivere». Altrettanto esemplare la petizione, firmata da sedici contadini singoli del soviet rurale di Aleksandrov, in cui i firmatari chiedono di essere deportati fuori della loro regione! ... In breve, la sola forma di «lavoro di massa» è «l'assalto»: si «prendono d'assalto» le sementi, i crediti, l'allevamento del bestiame, si «va all'assalto» del lavoro eccetera. Non si fa niente senza «assalto».... Si «assedia» di notte, dalle 9-10 di sera fino all'alba. L'«assalto» si svolge nel modo seguente: la «squadra d'assalto», in sessione in una izba, «convoca» a turno tutte le persone che non hanno adempiuto al tale o talaltro obbligo o piano e con mezzi vari le «convince» a onorare i propri impegni. Ciascuna persona iscritta nell'elenco viene «assediata» in questo modo e si va avanti così per tutta la notte".

Nell'arsenale della repressione aveva un ruolo decisivo una legge famosa, promulgata il 7 agosto 1932, al culmine della guerra tra ceto contadino e regime, secondo la quale chiunque fosse riconosciuto colpevole di «ogni furto o dilapidazione della proprietà socialista» era condannato a dieci anni di campo di concentramento o alla pena di morte. Tra il popolo questa disposizione era nota col nome di «legge delle spighe», perché il più delle volte chi era condannato in base a essa aveva rubato qualche spiga di grano o di segale nei campi colcosiani. Grazie a questa legge scellerata, fra l'agosto del 1932 e il dicembre del 1933 furono condannate oltre 125 mila persone, 5400 delle quali alla pena capitale .

A dispetto di tali provvedimenti draconiani, il grano non «rientrava». A metà ottobre 1932 il piano di ammasso per le principali regioni cerealicole del paese era stato realizzato soltanto per il 15-20 per cento. Il 22 ottobre 1932 l'Ufficio politico decise quindi di inviare in Ucraina e nel Caucaso settentrionale due commissioni straordinarie, una diretta da Vjaceslav Molotov, l'altra da Lazar' Kaganovic, allo scopo di «accelerare gli ammassi» . Il 2 novembre giunse a Rostov sul Don la Commissione Kaganovic, di cui faceva parte Genrih Jagoda, e subito convocò una riunione di tutti i segretari di distretto del Partito della regione del Caucaso settentrionale, al termine della quale fu approvata la seguente risoluzione: «In seguito al fallimento particolarmente vergognoso del piano di ammasso dei cereali, gli organismi locali del Partito devono essere obbligati a contrastare il sabotaggio organizzato dai kulak controrivoluzionari, e ad annientare la resistenza dei comunisti rurali e dei presidenti di kolhoz che sono a capo di tale sabotaggio». Nei confronti di un certo numero di distretti inseriti nella «lista nera» (secondo la terminologia ufficiale) furono approvati i seguenti provvedimenti: ritiro di tutti i prodotti dai negozi, blocco totale del commercio, immediato rimborso di tutti i crediti in corso, imposizione straordinaria di tasse, arresto di tutti i «sabotatori», «elementi estranei» e «controrivoluzionari» con procedura accelerata, sotto l'egida della G.P.U. Se il «sabotaggio» fosse proseguito, la popolazione avrebbe potuto essere sottoposta alla deportazione in massa. Nella regione del Caucaso settentrionale, di grande importanza strategica per la produzione agricola, durante il solo novembre del 1932, primo mese di «lotta contro il sabotaggio», furono arrestati 5000 comunisti rurali, giudicati colpevoli di «criminale compiacenza» nei confronti del «sabotaggio» della campagna di ammasso, oltre a 15 mila colcosiani. In dicembre cominciarono deportazioni in massa non più dei soli kulak, ma di interi villaggi, in particolare di "stanic" cosacche,

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che nel 1920 erano già state colpite da provvedimenti analoghi . Il numero di coloni speciali riprese a salire rapidamente. Mentre nel 1932, secondo i dati dell'amministrazione dei gulag ("Gosudarstverlnoe Upravlenie Lagerej", Amministrazione centrale dei campi), erano arrivati 71236 deportati, nel 1933 si registrò un afflusso di 268091 coloni speciali .

In Ucraina la Commissione Molotov si comportò in modo analogo; i distretti in cui il piano di ammasso non era stato attuato furono inseriti nella «lista nera», con tutte le conseguenze descritte in precedenza: epurazione degli organi di partito locali, arresti in massa non solo di colcosiani, ma anche dei dirigenti del kolhoz, presunti colpevoli di «minimizzare la produzione». Ben presto gli stessi provvedimenti furono estesi ad altre regioni cerealicole. Tali metodi repressivi erano in grado di assicurare allo Stato la vittoria nella guerra contro i contadini? In una relazione ufficiale, il console italiano di Novorossijsk argomentava con notevole perspicacia la sua risposta negativa:

"L'apparato sovietico, preponderante per armamento e potenza, si trova in effetti nell'impossibilità di uscire vittorioso da una o più battaglie in campo aperto; il nemico non è raggruppato, è disperso, e lo esaurisce in una infinita serie di minuscole operazioni: qui un campo non è stato sarchiato, là sono stati occultati alcuni quintali di grano; senza contare un trattore inattivo, un altro guastato volutamente, un terzo che gira a vuoto invece di lavorare... E poi si constata che un magazzino è stato saccheggiato, che i libri contabili, grandi o piccoli, sono tenuti male o falsificati, che i direttori dei kolhoz, per paura o per cattiva volontà, nei loro rapporti non dichiarano il vero... E così via, all'infinito, e ricominciando sempre in questo territorio immenso! ... Il nemico dev'essere rintracciato casa per casa, villaggio per villaggio: come attingere acqua con un secchio sfondato!" .

Così, per sconfiggere «il nemico», rimaneva soltanto una soluzione: affamarlo.

Fin dall'estate del 1932 Mosca ricevette i primi rapporti che prevedevano il rischio di una «situazione alimentare critica» per l'inverno 1932-1933. Nell'agosto del 1932 Molotov riferì all'Ufficio politico che esisteva «una concreta minaccia di carestia perfino nei distretti in cui si era avuto un eccellente raccolto», proponendo tuttavia di attuare a tutti i costi il piano di ammasso. Nello stesso mese d'agosto, il presidente del Consiglio dei commissari del popolo del Kazakistan, Isaev, avvertì Stalin dell'estensione della carestia nella sua repubblica, dove la collettivizzazione e la riduzione alla vita sedentaria degli abitanti, nomadi per tradizione, ne aveva del tutto dissestato l'economia. Perfino staliniani di ferro come Stanislav Kosior, primo segretario del Partito comunista di Ucraina, o Mihail Hataevic, primo segretario del Partito della regione di Dnepropetrovsk, chiesero a Stalin e a Molotov di ridurre le quote del piano. Nel novembre del 1932 Hataevic scriveva a Molotov: «Affinché in avvenire la produzione possa aumentare in conformità alle esigenze dello Stato proletario, noi dobbiamo prendere in considerazione le esigenze minime dei colcosiani, altrimenti non ci sarà più nessuno per seminare e assicurare la produzione».

Molotov rispose: «La sua posizione è profondamente scorretta e non bolscevica. Noi bolscevichi non possiamo mettere né al decimo né al secondo posto le esigenze dello Stato, esigenze determinate con esattezza dalle risoluzioni del Partito» .

Pochi giorni dopo l'Ufficio politico inviava alle autorità locali una circolare in cui si ordinava che i kolhoz inadempienti rispetto alle quote del piano fossero subito privati di «tutto il grano in loro possesso, comprese le cosiddette riserve per la semina»!

Milioni di contadini, nelle più ricche regioni agricole dell'Unione Sovietica, costretti a consegnare tutte le loro magre riserve sotto minaccia o sotto tortura, non avendo né i mezzi né la possibilità di comprare nulla, si trovarono preda della carestia e non ebbero altra risorsa che emigrare verso le città. Ma poco prima, il 27 dicembre 1932, il governo aveva introdotto l'obbligo del passaporto

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interno e della registrazione dei residenti urbani, allo scopo di limitare l'esodo rurale, di «liquidare il parassitismo sociale» e «combattere l'infiltrazione di kulak nelle città». Perciò, per fronteggiare il fenomeno dei contadini in fuga dalle campagne per la sopravvivenza, il 22 gennaio 1933 fu emanata una circolare che in pratica programmava la condanna a morte di milioni di affamati: era stata firmata da Stalin e Molotov e ordinava alle autorità locali, in particolare alla G.P.U., di impedire «con ogni mezzo ai contadini dell'Ucraina e del Caucaso settentrionale di partire in massa verso le città. Dopo l'arresto degli elementi controrivoluzionari, gli altri fuggitivi saranno ricondotti nei luoghi di residenza». La circolare spiegava la situazione in questo modo: «Il Comitato centrale e il governo hanno la prova che tale esodo in massa dei contadini è organizzato dai nemici del potere sovietico, dai controrivoluzionari e dagli agenti polacchi, a scopo di propaganda contro il sistema colcosiano in particolare e il potere sovietico in generale» .

In tutte le regioni colpite dalla carestia fu immediatamente sospesa la vendita dei biglietti ferroviari e furono istituiti blocchi stradali, controllati dalle unità speciali della G.P.U., per impedire ai contadini di lasciare le province di residenza. Ai primi di marzo del 1933 un rapporto della polizia politica precisava che in un mese, nell'ambito delle operazioni destinate a limitare l'esodo dei contadini affamati verso le città, erano state fermate 219460 persone e 186588 erano state «ricondotte alle regioni di origine»; le altre furono arrestate e processate. Il rapporto taceva però sulla sorte delle persone espulse dalle città.

Su questo punto ecco la testimonianza del console italiano a Har'kov, nel cuore di una regione fra le più colpite dalla carestia:

"Da una settimana è stato organizzato un servizio per raccogliere i bambini abbandonati. Infatti, oltre ai contadini che affluiscono alla città perché in campagna non hanno più speranza di sopravvivere, ci sono i bambini che erano stati portati qui e sono stati poi abbandonati dai genitori, tornati ai loro villaggi per morire. Sperano che in città qualcuno si prenda cura della loro prole ... Da una settimana gli 'dvornik' [portinai] in camicia bianca sono stati mobilitati, e pattugliano la città per portare i bambini nel più vicino posto di polizia ... Verso mezzanotte cominciano a trasportarli, sui camion, fino alla stazione merci di Severo-Donec, dove riuniscono anche i bambini trovati nelle stazioni e sui treni, le famiglie di contadini, gli anziani rimasti isolati, tutti quelli che hanno rastrellato in città durante la giornata. C'è del personale medico ... che fa la «selezione». Quelli che non si sono ancora gonfiati e hanno qualche probabilità di sopravvivere sono avviati ai baraccamenti di Holodnaja Gora, dove agonizza una popolazione di circa 8000 anime, essenzialmente bambini, stesi sulla paglia, nei capannoni ... Quelli che si sono gonfiati sono trasportati con i treni merci in aperta campagna, e abbandonati a 50-60 chilometri dalla città, in modo che muoiano senza essere visti da nessuno ... All'arrivo nel luogo stabilito, si scavano grandi fosse e si tolgono dai vagoni tutti i morti" .

Nella primavera del 1933 la mortalità nelle campagne arrivò al culmine: alla fame si aggiunse il tifo; in borgate con varie migliaia di abitanti sopravvissero soltanto poche decine di persone. I rapporti della G.P.U., così come quelli dei diplomatici italiani a Har'kov, segnalano casi di cannibalismo: «Ogni notte si raccolgono a Har'kov circa 250 cadaveri di persone morte di fame o di tifo. Si è osservato che in moltissimi casi i corpi erano privi di fegato, evidentemente asportato attraverso un ampio squarcio. La polizia ha finito col cogliere sul fatto alcuni dei misteriosi "amputatori", i quali hanno confessato di aver preparato con quelle carni il ripieno dei "pirozok" [piccoli sformati di pasta farciti] che poi hanno venduto al mercato».

Nell'aprile del 1933 lo scrittore Mihail Sciolohov, transitando in un centro abitato del Kuban', scrisse a Stalin due lettere in cui riferiva nei particolari il modo in cui le autorità locali avevano

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torturato i colcosiani colpiti dalla carestia per estorcere loro tutte le riserve; chiedeva al primo segretario di inviare sul luogo soccorsi alimentari. Nel rispondergli Stalin non esitò a rivelare la propria posizione: i contadini avevano il giusto castigo per aver «fatto scioperi e sabotaggi» e per aver «cercato di scalzare il potere sovietico dichiarandogli guerra a oltranza» . Nell'anno 1933, mentre milioni di contadini morivano di fame, il governo sovietico continuava a vendere all'estero 18 milioni di quintali di grano per «le esigenze dell'industrializzazione».

Gli archivi demografici e i censimenti del 1937 e del 1939, tenuti segreti fino ad anni recentissimi, permettono di valutare la portata della carestia del 1933. In termini geografici «l'area della fame» corrispondeva alla totalità dell'Ucraina, a una parte della regione delle Terre nere, alle ricche pianure del Don, del Kuban' e del Caucaso settentrionale, a gran parte del Kazakistan. Circa 40 milioni di persone soffrirono per la carestia; nelle zone più colpite, come le aree agricole intorno a Har'kov, fra gennaio e giugno del 1933 la mortalità risultò decuplicata rispetto alla media: nel giugno del 1933 si ebbero 100 mila decessi nella regione di Har'kov, contro i 9000 del giugno del 1932. Si deve inoltre osservare che erano numerosissime le morti non registrate. E se è vero che la campagna fu colpita più duramente delle città, neppure queste ultime furono risparmiate: in un anno Har'kov perdette oltre 120 mila abitanti, Krasnodar 40 mila, Stavropol' 20 mila.

Le perdite demografiche, in parte provocate dalla carestia, non furono trascurabili nemmeno fuori dall'«area della fame». Nelle zone rurali della regione moscovita fra il gennaio e il giugno del 1933 la mortalità crebbe del 50 per cento; nella città di Ivanovo, dove nel 1932 erano scoppiate sommosse per la fame, nel primo semestre del 1933 la mortalità crebbe del 35 per cento. Nel 1933, considerando il paese nel suo complesso, il numero dei decessi aumentò di oltre 6 milioni di unità. Poiché questo incremento si deve soprattutto alla carestia, si può verosimilmente attribuire a quest'ultima un bilancio di circa 6 milioni di vittime. Il ceto contadino ucraino pagò il tributo più pesante, con almeno 4 milioni di morti; nel Kazakistan i morti furono circa un milione, in particolare fra la popolazione nomade, che la collettivizzazione aveva privato di tutto il bestiame e costretto con la forza alla vita stanziale: nel Caucaso settentrionale e nella regione delle Terre nere i morti furono un milione...

_______________________________________________________________ [Box: ESTRATTO della lettera inviata a Stalin, il 4 aprile 1933, dall'autore del "Placido" Don, Mihail Sciolohov. Compagno Stalin! La mancata attuazione del piano di conferimento dei cereali nel distretto Vescenskij, come in molti altri del Caucaso settentrionale, non è dovuta a eventuali «sabotaggi di kulak», ma alla cattiva gestione degli organi di partito locali... Nello scorso dicembre, per accelerare la campagna di ammasso, il Comitato regionale del Partito ha inviato un «plenipotenziario», il compagno Ovcinnikov, il quale ha preso i seguenti provvedimenti: 1. Requisire tutti i cereali disponibili, compreso l'«anticipo», dato dalla direzione dei kolhoz ai colcosiani per la semina del prossimo raccolto; 2. Ripartire tra le famiglie le consegne dovute allo Stato da ogni kolhoz. Qual è stato il risultato? Quando sono cominciate le requisizioni, i contadini si sono messi a nascondere e a sotterrare il grano. Adesso, una parola sugli effetti numerici di tutte queste requisizioni. Cereali «trovati»: 5930 quintali... Ed ecco alcuni dei metodi usati per riavere queste 593 tonnellate, una parte delle quali era sotto terra... dal 1918! Il metodo del freddo... Si spoglia il colcosiano e lo si lascia «al freddo», nudo, in un capannone. Spesso sono state messe «al freddo» intere squadre di colcosiani. Il metodo del caldo. Si bagnano con il cherosene i piedi e l'orlo delle gonne delle colcosiane e vi si dà fuoco. Poi si spegne il fuoco e si ricomincia... Nel kolhoz Napolovskij un certo Plotkin, «plenipotenziario» del Comitato di distretto, quando

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interrogava i colcosiani li costringeva a stendersi su una stufa arroventata, e poi li «refrigerava», rinchiudendoli nudi dentro un hangar... Nel kolhoz Lebjazenskij i colcosiani venivano fatti allineare al muro e poi si simulava una esecuzione... Perciò, se la mia lettera le sembra degna dell'attenzione del Comitato centrale, mandi dei comunisti autentici, con il coraggio di smascherare tutti coloro che in questo distretto hanno sferrato un colpo mortale alla costruzione colcosiana... Lei è la nostra sola speranza. Suo Mihail Sciolohov (Archivi della presidenza, 45/1182717-22).

Ed ecco la risposta di Stalin a M. Sciolohov, in data 6 maggio 1933.

"Caro compagno Sciolohov, grazie per le sue due lettere. Il soccorso che chiede è stato accordato. Ho mandato il compagno Skiriatov per sbrigare le faccende di cui mi parla; le chiedo di aiutarlo. Ecco fatto. Ma non è tutto qui, compagno Sciolohov, quel che volevo scriverle. Infatti il quadro che le sue lettere descrivono io lo definirei non oggettivo, e a tale proposito vorrei dirle due parole. L'ho ringraziata per le sue lettere, che rivelano un piccolo malanno del nostro apparato e dimostrano come nel voler fare bene, ossia disarmare i nostri nemici, certi nostri funzionari del Partito se la prendono con i nostri amici e possono addirittura diventare sadici. Ma queste osservazioni non significano che io sia IN TUTTO d'accordo con lei. Lei vede UN aspetto delle cose, e non lo vede male. Ma è soltanto UN aspetto. In politica, per non sbagliare - e le sue lettere non sono letteratura, sono politica pura - occorre saper vedere L'ALTRO aspetto della realtà. E l'altro aspetto è che gli stimati agricoltori del suo distretto, e non solo del suo, hanno fatto scioperi e sabotaggi, ed erano pronti a lasciare senza pane gli operai e l'Armata rossa! ll fatto che si trattasse di un sabotaggio silenzioso e in apparenza pacifico (senza spargimento di sangue) è un fatto che non cambia per nulla la sostanza della faccenda, ossia che quegli stimati agricoltori hanno cercato di scalzare il potere sovietico. Facendogli guerra a oltranza, caro compagno Sciolohov! Beninteso, tali precisazioni non possono giustificare gli abusi che secondo lei sono stati commessi dai nostri funzionari. E i colpevoli dovranno rispondere del loro comportamento. Ma è chiaro come il sole che i nostri stimati agricoltori non sono innocenti agnellini, come si potrebbe pensare leggendo le sue lettere. Dunque, stia bene. Le stringo la mano. Suo I. Stalin (Archivi della presidenza, 3/61/549/194).]

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Cinque anni prima del Grande terrore che colpì in primo luogo l'intellighenzia e i ranghi intermedi dell'economia e del Partito, la grande carestia del 1932-1933, apogeo del secondo atto della guerra anticontadina intrapresa dal Partito-Stato nel 1929, appare un episodio decisivo nell'attuazione di un sistema repressivo sperimentato di volta in volta e, a seconda delle opportunità politiche contingenti, contro l'uno o l'altro gruppo sociale. Si assiste alla proliferazione di piccoli tiranni e despoti locali, pronti a tutto per estorcere le ultime provviste ai contadini; è l'avvento della barbarie. L'estorsione diventa prassi quotidiana, i bambini sono abbandonati, ricompare il cannibalismo, insieme alle epidemie e al brigantaggio; si costruiscono le «baracche della morte», e sotto la sferza del Partito-Stato i contadini conoscono una nuova forma di servitù. Come scriveva acutamente Sergo Ordzonikidze, nel gennaio del 1934, a Sergej Kirov: «I nostri funzionari che hanno conosciuto la situazione del 1932-1933 e hanno saputo essere all'altezza sono davvero come acciaio temperato. Penso che con loro costruiremo uno Stato quale la storia non ne ha ancora conosciuti». Dobbiamo vedere in questa carestia, come oggi fanno alcuni pubblicisti e storici ucraini, un «genocidio del

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popolo ucraino»? . Non si può negare che i contadini ucraini siano stati le vittime principali della carestia del 1932-1933, e che già nel 1929 tale «assalto» fosse stato preceduto da numerose offensive, prima contro l'intellighenzia ucraina, accusata di «deviazionismo nazionalista», e quindi, dal 1932 in poi, contro una parte dei comunisti ucraini. E' incontestabile che si possa parlare della «ucrainofobia di Stalin», per riprendere l'espressione di Andrej Saharov. Tuttavia è altrettanto importante notare che la repressione per mezzo della carestia ha colpito in pari misura le province cosacche del Kuban' e del Don e il Kazakistan. In quest'ultima repubblica la collettivizzazione e la vita stanziale imposta alle popolazioni nomadi dal 1930 in poi avevano avuto effetti disastrosi: in due anni andò perduto l'80 per cento del bestiame. Due milioni di kazaki, privati dei loro beni, ridotti alla fame, emigrarono in parte verso l'Asia centrale (circa mezzo milione), in parte verso la Cina (un milione e mezzo circa).

In realtà in numerose regioni, come l'Ucraina e le province cosacche, e perfino in alcuni distretti delle Terre nere, la carestia sembra l'episodio finale nel conflitto fra Stato bolscevico e ceto contadino, cominciato negli anni 1918-1922. Infatti si può constatare una notevole coincidenza fra le zone in cui le requisizioni del 1918-1921 e la collettivizzazione del 1929-1930 avevano incontrato più forte resistenza e le zone colpite dalla carestia. Su 14 mila sommosse e rivolte contadine registrate nel 1930 dalla G.P.U., oltre l'85 per cento si verificò nelle regioni «castigate» dalla carestia del 1932- 1933. Le più colpite dalla grande carestia del 1932-1933 sono le regioni agricole più ricche e più dinamiche, quelle che avevano più da dare allo Stato e al tempo stesso avevano più da perdere con il sistema di estorsione della produzione agricola attuato in base alla collettivizzazione forzata.

9. «ELEMENTI ESTRANEI ALLA SOCIETA'» E CICLI DI REP RESSIONE Il tributo più pesante al progetto staliniano di radicale trasformazione della società fu pagato, è vero, dal ceto contadino nel suo complesso, ma anche altri gruppi, definiti «estranei» alla «nuova società socialista», furono a diverso titolo messi al bando, privati dei diritti civili, espulsi dal posto di lavoro e dall'abitazione, retrocessi nella scala sociale, esiliati: le vittime principali della «rivoluzione anticapitalista» cominciata nei primi anni Trenta furono gli «specialisti borghesi», gli ex aristocratici, i membri del clero e delle professioni liberali, i piccoli imprenditori privati, i commercianti e gli artigiani. Ma anche la «gente comune» delle città, che non rientrava nella categoria canonica del «proletariato operaio protagonista dell'edificazione del socialismo», subì una certa quota di provvedimenti repressivi, tutti miranti a riportare sotto il giogo - e alla conformità ideologica - una società considerata recalcitrante a marciare verso il progresso.

***

Il famoso processo di Sciahty aveva chiaramente segnalato la fine della tregua fra il regime e gli «specialisti» cominciata nel 1921. Alla vigilia del lancio del primo piano quinquennale la lezione politica scaturita dal processo di Sciahty era evidente a tutti: lo scetticismo, l'indecisione, l'indifferenza nei confronti dell'opera intrapresa dal Partito potevano soltanto sfociare nel «sabotaggio»: dubitare equivaleva già a tradire. Lo "speceedstvo" - alla lettera, il continuo «stuzzicare lo specialista» - aveva radici profonde nella mentalità bolscevica, e la base fu pronta a cogliere il segnale politico costituito dal processo di Sciahty. Gli "spec" erano destinati a diventare i capri espiatori sia dei fallimenti dell'economia sia delle frustrazioni dovute al precipitare del tenore di vita. Dalla fine del 1928 migliaia di impiegati dell'industria e di ingegneri «borghesi» furono licenziati, privati delle tessere annonarie, esclusi dai servizi sanitari, talvolta sfrattati dall'abitazione. Nel 1929 migliaia di funzionari del Gosplan ("Gosudarstvennyj narodnohozjajstvennyj plan", Piano economico statale), del Consiglio supremo dell'economia nazionale, dei commissariati del popolo per le Finanze, il Commercio e l'Agricoltura furono epurati, adducendo pretesti come «deviazionismo di destra», «sabotaggio», appartenenza a una «classe estranea alla società», anche

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se effettivamente l'80 per cento degli alti funzionari delle Finanze vi erano impiegati già sotto il regime zarista .

La campagna di epurazione di alcune amministrazioni divenne più rigorosa dopo l'estate del 1930, quando Stalin, volendo farla finita per sempre con i «destrorsi», e in particolare con Rykov, ancora insediato alla carica di capo del governo, decise di dimostrare che questo gruppo era in collegamento con gli «specialisti sabotatori». Nell'agosto-settembre del 1930 la G.P.U. moltiplicò gli arresti di specialisti di chiara fama che occupavano posti importanti nel Gosplan, nella Banca di Stato e nei commissariati del popolo per le Finanze, il Commercio e l'Agricoltura. Fra le personalità arrestate avevano particolare rilievo il professor Kondrat'ev (l'inventore dei famosi «cicli Kondrat'ev» e viceministro per l'Approvvigionamento nel governo provvisorio del 1917, che dirigeva l'Istituto della congiuntura del commissariato del popolo per le Finanze), i professori Makarov e Ciajanov, titolari di cariche elevate nel commissariato del popolo per l'Agricoltura, il professor Sadyrin, membro della direzione della Banca nazionale dell'URSS, Groman, esperto di statistica economica tra i più noti del Gosplan, il professor Ramzin, e altri eminenti specialisti .

La G.P.U., debitamente istruita da Stalin, il quale seguiva con particolare attenzione le vicende degli «specialisti borghesi», aveva preparato una serie di incartamenti per dimostrare l'esistenza di una rete di organizzazioni antisovietiche collegate l'una all'altra nell'ambito di un presunto «Partito contadino del lavoro» diretto da Kondrat'ev e di un altrettanto fantomatico «Partito industriale» diretto da Ramzin. I funzionari incaricati dell'istruttoria riuscirono a estorcere a un certo numero di arrestati una serie di «confessioni» riguardanti sia i contatti avuti con i «destrorsi» Rykov, Buharin e Syrcov, sia la partecipazione a immaginari complotti miranti a eliminare Stalin e a rovesciare il regime sovietico con l'aiuto di organizzazioni antisovietiche dell'emigrazione e di servizi segreti stranieri. La G.P.U. si spinse ancora oltre: riuscì a strappare a due istruttori dell'Accademia militare la «confessione» circa un complotto che si andava preparando sotto la guida di Mihail Tuhacevskij, capo di Stato maggiore dell'Armata rossa. Come appare dalla lettera inviata allora a Sergo Ordzonikidze, in quel momento Stalin non si azzardò a far arrestare Tuhacevskij, preferendo colpire altri bersagli, gli «specialisti sabotatori» .

Tale episodio è significativo perché dimostra chiaramente come già nel 1930 fossero rodati a perfezione i marchingegni tecnici con i quali si inventavano le imprese di cosiddetti «gruppi di terroristi», costituiti da comunisti contrari alla linea staliniana. Per il momento Stalin non voleva e non poteva spingersi oltre. Le provocazioni e le manovre di quel periodo avevano sempre obiettivi tutto sommato abbastanza modesti: scoraggiare gli ultimi oppositori della linea staliniana all'interno del Partito, spaventare tutti gli indecisi e tutti gli esitanti.

Il 22 settembre 1930 la «Pravda» pubblicò le «confessioni» di 48 funzionari dei commissariati del popolo per il Commercio e per le Finanze, che ammettevano di essere colpevoli «delle difficoltà di approvvigionamento nel paese e della scomparsa dalla circolazione delle monete d'argento». Alcuni giorni prima, in una lettera a Molotov, Stalin aveva dettato le proprie direttive riguardo alla situazione: «Dobbiamo: a. Attuare la radicale epurazione dell'apparato del commissariato del popolo per le Finanze e della Banca di Stato, nonostante gli strepiti dei comunisti dubbiosi come Pjatakov o Brjuhanov. b. Fucilare senz'altro due o tre decine di sabotatori infiltrati in tali apparati... c. Proseguire, su tutto il territorio dell'URSS, le operazioni della G.P.U. miranti a recuperare le monete d'argento in circolazione». Il 25 settembre 1930 i 48 specialisti furono giustiziati .

Nei mesi successivi furono allestiti parecchi processi identici: alcuni si svolsero a porte chiuse, come quello contro gli «specialisti del Consiglio supremo dell'economia nazionale» o del «Partito contadino del lavoro»; altri furono pubblici, come il processo del «Partito industriale», durante il quale otto imputati «confessarono» di aver costituito una vasta rete, formata da duemila specialisti,

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con il compito di organizzare la sovversione dell'economia, su istigazione di certe ambasciate straniere. Simili processi servivano ad alimentare il mito del sabotaggio che, insieme a quello del complotto, avrebbe costituito il fulcro dell'apparato ideologico staliniano.

Fra il 1928 e il 1931 furono esclusi dalla funzione pubblica 138 mila funzionari, 23 mila dei quali vennero privati dei diritti civili in quanto classificati nella prima categoria («nemici del potere sovietico») . La caccia agli specialisti si accentuò ancora di più nelle aziende, sottoposte a una pressione produttivistica che accentuava fenomeni come gli incidenti sul lavoro, la fabbricazione di prodotti difettosi, i guasti ai macchinari. Dal gennaio del 1930 al giugno del 1931 il 48 per cento degli ingegneri del Donbass furono licenziati o arrestati; nel primo semestre del 1931 furono «smascherati» 4500 «specialisti sabotatori» soltanto nel settore dei trasporti. La persecuzione degli specialisti si sommava alla consuetudine di fissare obiettivi irrealizzabili al di fuori di qualsiasi controllo, al tracollo della produttività e della disciplina del lavoro, al disprezzo ostentato per le esigenze imprescindibili dell'economia: come risultato finale, il funzionamento delle aziende subiva continui dissesti.

La portata della crisi era tale da costringere la direzione del Partito a varare alcuni «correttivi». Il 10 luglio 1931 l'Ufficio politico approvò una serie di provvedimenti che tendevano a limitare l'arbitrio cui erano soggetti gli "spec" dal 1928: immediata liberazione di diverse migliaia di ingegneri e tecnici, «prioritariamente nell'industria metallurgica e nei bacini carboniferi», abolizione delle discriminazioni che impedivano ai loro figli di accedere alle scuole superiori, divieto per la G.P.U. di arrestare uno specialista senza il consenso preliminare del commissariato del popolo di cui era dipendente. La semplice enunciazione di tali provvedimenti basta a comprovare quanto fossero estese le discriminazioni e la repressione da cui erano state colpite, dopo il processo di Sciahty, decine di migliaia di ingegneri, di agronomi, di tecnici e di amministratori a tutti i livelli .

Fra le altre categorie bandite dalla «nuova società socialista» figuravano in particolare i membri del clero. Negli anni 1929-1930 lo Stato sovietico lanciò contro la Chiesa la seconda grande offensiva dopo quella del 1918-1922. Alla fine degli anni Venti, sebbene un certo numero di prelati avesse contestato la dichiarazione di fedeltà al potere sovietico del metropolita Sergij, successore del patriarca Tihon, la Chiesa ortodossa aveva ancora una grande importanza nella società. Su 54692 chiese attive nel 1914, circa 39 mila erano ancora aperte al culto all'inizio del 1929 . Emel'jan Jaroslavskij, presidente della Lega dei senzadio, fondata nel 1925, riconosceva che sui 130 milioni di abitanti del paese, erano meno di 10 milioni coloro che «avevano rotto» con la religione.

L'offensiva antireligiosa del 1929-1930 si svolse in due fasi. Nella prima, tra la primavera e l'estate del 1929, fu riattivata e inasprita la legislazione antireligiosa vigente nel 1918-1922. L'8 aprile 1929 fu promulgato un importante decreto che sottoponeva la vita delle parrocchie a un controllo più stretto da parte delle autorità locali, imponendo ulteriori restrizioni all'attività delle associazioni religiose. Ormai, ogni attività «che superasse i limiti della pura e semplice soddisfazione delle aspirazioni religiose» ricadeva sotto i rigori della legge, in particolare del comma 10 del temibile articolo 58 del Codice penale, in base al quale «ogni sfruttamento dei pregiudizi religiosi delle masse ... mirante a indebolire lo Stato» era passibile «di una pena variabile da una detenzione minima di tre anni fino alla pena capitale». Il 26 agosto 1929 il governo istituì la settimana con cinque giorni lavorativi continui e uno di riposo; in questo modo si eliminava la pausa della domenica come giorno di riposo comune alla totalità della popolazione. Il provvedimento avrebbe dovuto «facilitare la lotta per lo sradicamento della religione» . I vari decreti erano un semplice preludio a interventi più diretti, che costituirono la seconda fase dell'offensiva antireligiosa. Nell'ottobre del 1929 fu ordinato il sequestro delle campane: «Il suono delle campane infrange il diritto al riposo delle grandi masse atee nei centri urbani e rurali». I ministri del culto furono assimilati ai kulak: oberati di imposte (fra il 1928 e il 1930 i tributi che i sacerdoti ortodossi

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dovevano versare furono decuplicati), privati dei diritti civili (ossia, nello specifico, delle tessere annonarie e di ogni sorta di assistenza medica), spesso arrestati, più tardi esiliati o deportati. Secondo dati incompleti, nel 1930 furono sottoposti a dekulakizzazione oltre 13 mila ministri del culto. In molti villaggi e borghi il simbolico segnale di apertura della collettivizzazione era la chiusura della chiesa, mentre il processo di dekulakizzazione cominciava dal prete. E' significativo che, fra le sommosse e le insurrezioni contadine registrate nel 1930, nel 14 per cento circa dei casi il motivo scatenante sia stato la chiusura delle chiese e la confisca delle campane . La campagna antireligiosa raggiunse l'acme nell'inverno del 1929-1930: al primo marzo 1930 risultavano chiuse o demolite 6715 chiese. E' vero che in seguito al famoso articolo di Stalin intitolato "La vertigine del successo", uscito il 2 marzo 1930, il Comitato centrale emanò una risoluzione in cui cinicamente si censuravano le «inammissibili deviazioni nella lotta contro i pregiudizi religiosi, in particolare la chiusura delle chiese per disposizione amministrativa, senza il consenso degli abitanti»: ma questa condanna formale non ebbe il minimo effetto sulla sorte dei ministri del culto deportati.

Negli anni successivi le offensive su vasta scala contro la Chiesa lasciarono il passo a forme di disturbo capillare, attuate giorno per giorno nei confronti dei ministri del culto e delle associazioni religiose. Le autorità locali proseguivano la loro attività repressiva rifacendosi a una libera interpretazione dei 68 articoli del Decreto dell'8 aprile 1929; per quanto riguardava la chiusura delle chiese andavano ben oltre le proprie prerogative, imponendola per i più diversi motivi: edifici decrepiti o in «condizioni contrarie alle norme igieniche», «assenza di copertura assicurativa», mancato pagamento delle imposte e degli altri innumerevoli tributi da cui erano oppressi i membri delle associazioni religiose. Alcuni ministri del culto, rimasti privi di diritti civili, impossibilitati a esercitare il magistero e a guadagnarsi da vivere con un impiego salariato, arbitrariamente bollati come «parassiti che vivono di redditi non salariali», non ebbero altra soluzione che diventare «preti erranti», conducendo un'esistenza clandestina ai margini della società. In tal modo, soprattutto nelle province di Voronez e di Tambov, nacquero alcuni movimenti scismatici che si opponevano alla politica di fedeltà al potere sovietico di cui era fautore il metropolita Sergij.

I fedeli di Aleksej Buj, vescovo di Voronez, arrestato nel 1929 per l'intransigenza con cui respingeva ogni compromesso fra la Chiesa e il regime, costituirono una Chiesa autonoma, la «Vera Chiesa ortodossa», dotata di un proprio clero, spesso «errante», ordinato al di fuori della gerarchia ecclesiale guidata dal patriarca Sergij. Non avendo a disposizione edifici per il culto, gli adepti di questa «Chiesa del deserto» si riunivano a pregare nei luoghi più disparati: abitazioni private, romitori, grotte . Contro i «veri cristiani ortodossi», come essi stessi si definivano, la persecuzione fu particolarmente accanita; furono arrestati in molte migliaia e deportati nelle colonie speciali o reclusi nei campi di lavoro. Quanto alla Chiesa ortodossa, la costante pressione esercitata dalle autorità provocò un calo nettissimo nel numero dei luoghi di culto e dei membri del clero, anche se il 70 per cento degli adulti continuava a dichiararsi credente, come dimostrò più tardi il censimento (annullato) del 1937. Alla data del primo aprile 1936 in URSS rimanevano aperte al culto soltanto 15835 chiese ortodosse (il 28 per cento del totale dell'epoca prerivoluzionaria), 4830 moschee (il 32 per cento del totale di prima della rivoluzione) e poche decine di chiese cattoliche e protestanti. Il totale dei ministri del culto ufficialmente censiti non superava le 17857 unità, contro le 112629 del 1914 e le circa 70 mila ancora esistenti nel 1928. Per citare la formula ufficiale, il clero non era altro che «un relitto delle classi moribonde» .

***

I kulak, gli "spec" e i membri del clero non furono le uniche vittime della «rivoluzione anticapitalista» dei primi anni Trenta. Nel gennaio 1930 le autorità lanciarono una vasta campagna di «estromissione degli imprenditori privati», un'operazione che prendeva di mira in modo specifico commercianti, artigiani e alcuni esponenti delle professioni liberali: in totale, circa un milione e

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mezzo di individui, che all'epoca della NEP avevano esercitato la propria attività nel settore privato, d'altronde di modestissime dimensioni. Tali imprenditori privati, che in media investivano nel commercio un capitale non superiore ai 1000 rubli, e nel 98 per cento dei casi non avevano neppure un dipendente salariato, furono rapidamente estromessi con vari espedienti: imponendo loro tasse decuplicate, confiscandone i beni e poi privandoli dei diritti civili in quanto «elementi declassati», «nullafacenti» o «stranieri», così come ne era stato privato un gruppo eterogeneo, costituito da «ex aristocratici» e da altri «membri delle classi possidenti e dell'apparato statale zarista». In un decreto del 12 dicembre 1930 si elencavano oltre trenta categorie di "liscenec", ossia di cittadini privati dei diritti civili: «ex proprietari terrieri», «ex commercianti», «ex aristocratici», «ex poliziotti», «ex funzionari zaristi», «ex kulak», «ex locatari o proprietari di imprese private», «ex ufficiali bianchi», ministri del culto, monaci, monache, «ex membri di partiti politici» eccetera. Le discriminazioni imposte ai "liscenec" (i quali nel 1932 costituivano il 4 per cento dell'elettorato, ossia, insieme alle famiglie, 7 milioni di persone) evidentemente non si limitavano alla privazione del diritto di voto. Nel 1929-1932 non avere diritto al voto significava infatti perdere ogni diritto all'abitazione, ai servizi sanitari e alle tessere annonarie. Nel 1933-1934 furono decisi provvedimenti ancor più severi, fino a circoscrivere l'intera categoria con un'operazione specifica: l'imposizione del passaporto interno obbligatorio, con la quale si intendeva epurare le città dagli «elementi declassati» .

La collettivizzazione forzata delle campagne, accompagnandosi a una spinta accelerata verso l'industrializzazione, aveva troncato alla radice le strutture sociali e i modi di vita rurali, spingendo i ceti contadini verso le città in una valanga migratoria. La Russia contadina si trasformò in un paese di vagabondi, "Rus' brodjnzaja". Tra la fine del 1928 e la fine del 1932 le città sovietiche furono sommerse da un'alluvione di contadini, costituita, secondo calcoli di stima, da 12 milioni di individui che fuggivano dalla collettivizzazione e dall'eliminazione dei kulak. Le sole regioni di Mosca e Leningrado «accolsero» più di 3 milioni e mezzo di emigranti, fra i quali un buon numero di contadini intraprendenti che avevano preferito scappare dal villaggio, «autodekulakizzandosi», se necessario, piuttosto che entrare a far parte delle fattorie collettive. Questa mano d'opera, che si accontentava di poco, nel 1930-1931 fu assorbita senza difficoltà dagli innumerevoli cantieri in funzione; ma dal 1932 in poi le autorità cominciarono a preoccuparsi per l'afflusso in massa, senza controlli, di una popolazione vagabonda che «ruralizzava» la città, luogo del potere e vetrina del nuovo ordine socialista, e metteva a repentaglio tutto il sistema annonario, laboriosamente costruito dal 1929 in poi (con un numero di «aventi diritto» che dai 26 milioni dei primi mesi del 1930 arrivò a circa 40 milioni alla fine del 1932), trasformando le fabbriche in immensi «accampamenti di nomadi». In fondo, i nuovi arrivati non potevano forse essere considerati responsabili di tutta una serie di «fenomeni negativi» individuati dalle autorità come motivo di cronica disorganizzazione della produzione: assenteismo, crollo nella disciplina del lavoro, teppismo, fabbricazione di pezzi difettosi, aumento dell'alcolismo e della criminalità? .

Per combattere una simile "stihija" (vocabolo che si riferisce agli elementi della natura in quanto caos primigenio, ma è usato anche per indicare l'anarchia e il disordine sociale), nel novembre-dicembre del 1932 le autorità vararono una serie di provvedimenti repressivi, a partire dalla novità assoluta di introdurre sanzioni penali nella regolamentazione dei rapporti di lavoro, fino al tentativo di epurare le città dagli «elementi estranei alla società». La Legge del 15 novembre 1932 prevedeva sanzioni severe contro l'assenteismo: i contravventori potevano essere puniti con il licenziamento in tronco, la confisca delle tessere annonarie, l'espulsione dall'abitazione. La norma aveva l'esplicito obiettivo di smascherare gli «pseudo-operai». Il Decreto del 4 dicembre 1932, che attribuiva alle imprese la responsabilità di distribuire le nuove tessere annonarie, aveva in primo luogo lo scopo di eliminare tutte le «anime morte» e i «parassiti» indebitamente iscritti negli elenchi municipali di razionamento compilati con scarsa attenzione.

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Ma la chiave di volta del dispositivo fu l'introduzione del passaporto interno, il 27 dicembre 1932. Con la «passaportizzazione» della popolazione si intendevano raggiungere vari obiettivi, enunciati in modo esplicito nel preambolo del decreto: liquidare il «parassitismo sociale», limitare l'«infiltrazione» dei kulak nei centri urbani e l'attività dei kulak stessi nei mercati, frenare l'esodo rurale, salvaguardare la purezza sociale delle città. I servizi di polizia distribuivano un passaporto a tutti i cittadini adulti, ossia maggiori di sedici anni, in possesso dei diritti civili, come pure ai ferrovieri, ai dipendenti fissi dei cantieri di costruzione, agli operai agricoli delle fattorie di Stato; ma il documento era valido soltanto se era provvisto di un timbro ufficiale, certificante il domicilio legale del cittadino ("propiska"). La "propiska" era l'elemento cruciale dello statuto del cittadino, con i peculiari vantaggi che ne derivavano: tessera annonaria, previdenza sociale, diritto all'abitazione. Le città furono divise in due categorie: «aperte» o «chiuse». Le città «chiuse» (Mosca, Leningrado, Kiev, Odessa, Minsk, Har'kov, Rostov sul Don, in un primo tempo Vladivostok) godevano di uno statuto privilegiato, avevano assicurato un congruo approvvigionamento e permettevano di ottenere il domicilio permanente soltanto per filiazione, per matrimonio o grazie all'assunzione in un impiego specifico che comportasse il diritto alla "propiska"; nelle città «aperte» la "propiska" si otteneva con maggiore facilità.

L'attuazione delle norme che introducevano il «passaporto interno» per l'intera popolazione si prolungò per tutto il 1933 (furono consegnati 27 milioni di passaporti) e permise alle autorità di depurare le città degli elementi indesiderabili. A Mosca il bilancio della prima settimana di introduzione del nuovo ordinamento, cominciata il 5 gennaio 1933, fu la «scoperta» di 3450 «ex Guardie bianche, ex kulak e altri elementi criminali». In totale, nelle «città chiuse» il passaporto fu rifiutato a circa 385 mila persone, che furono costrette a lasciare la propria residenza entro dieci giorni, con il divieto di stabilirsi in permanenza in un'altra città, fosse pure una di quelle «aperte». In un rapporto del 13 agosto 1934 il capo del Dipartimento passaporti dell'N.K.V.D. riconosceva: «A questa cifra occorre beninteso aggiungere tutti coloro che hanno preferito abbandonare le città di propria iniziativa, appena è stata annunciata l'operazione "passaporto interno", sapendo che non avrebbero potuto ottenerlo. Per esempio a Magnitogorsk hanno lasciato la città 35 mila persone circa ... A Mosca, durante i primi due mesi dell'operazione, la popolazione è diminuita di 60 mila unità. A Leningrado in un solo mese sono scomparse nel nulla 54 mila persone». Nelle città «aperte» l'operazione permise di espellere oltre 420 mila persone .

I controlli di polizia e le retate di individui privi di documenti ebbero come effetto la condanna all'esilio di centinaia di migliaia di persone. Nel dicembre del 1933 Genrih Jagoda ordinò ai suoi servizi di «ripulire» ogni settimana le stazioni e i mercati delle città «chiuse». Nei primi otto mesi del 1934 nelle sole città «chiuse» furono fermate per infrazioni al regime dei passaporti oltre 630 mila persone; 65661 di esse furono imprigionate con provvedimento amministrativo e poi in genere deportate come «elementi declassati» con lo statuto di coloni speciali, 3596 furono deferite ai tribunali e 175627 esiliate senza avere lo statuto di coloni speciali; gli altri se la cavarono con una semplice multa .

Le operazioni più spettacolari ebbero luogo durante il 1933: fra il 28 giugno e il 3 luglio furono arrestati e deportati in «villaggi di lavoro» siberiani 5470 zingari moscoviti ; fra l'8 e il 12 luglio furono arrestati e deportati 4750 «elementi declassati» di Kiev; nell'aprile, giugno e luglio del 1933 si ebbero retate e deportazioni di tre contingenti di «elementi declassati» a Mosca e a Leningrado , per un totale di oltre 18 mila persone. Il primo dei tre gruppi fu trasportato sull'isolotto di Nazino, dove in un mese perirono i due terzi dei detenuti.

Circa l'identità di alcuni fra i cosiddetti «elementi declassati», deportati in seguito a un semplice controllo di polizia, ecco cosa scriveva l'istruttore del Partito di Narym, nel rapporto che abbiamo già citato:

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"Potrei fornire molteplici esempi di deportazioni del tutto ingiustificate. Purtroppo, tutte queste persone, amici, operai, membri del Partito, sono morte perché erano le meno adatte a sopravvivere in quelle condizioni: Novozilov Vladimir, di Mosca, autista della fabbrica «Compressore» di Mosca, tre volte premiato, con moglie e figlio a Mosca; stava per andare al cinema con la moglie: mentre lei si preparava, è sceso a comprare le sigarette senza portare i documenti con sé, e in strada è incappato in una retata. La Vinogradova, colcosiana, andava a trovare il fratello, capo della milizia dell'ottavo settore, a Mosca: appena scesa dal treno in una delle stazioni cittadine è stata presa in una retata e deportata. Vojkin Nikolaj Vasil'evic, membro del Komsomol dal 1929, operaio nella fabbrica «L'operaio tessile rosso» di Serpuhov, premiato tre volte; andava a una partita di calcio, di domenica, e aveva dimenticato di portare con sé i documenti: preso nella retata, deportato. Matveev, I. M., operaio edile, dipendente del cantiere della Fabbrica di panificazione n. 9; aveva un passaporto da lavoratore stagionale, valido fino a dicembre 1933: preso nella retata con passaporto e tutto; diceva che nessuno aveva voluto neppure dare un'occhiata ai suoi documenti" .

L'epurazione compiuta nelle città nel 1933 fu accompagnata da numerose altre operazioni, condotte con cura e nello stesso spirito sia nelle amministrazioni sia nelle imprese. Nella primavera di quell'anno fu epurato l'8 per cento del personale addetto ai trasporti ferroviari, settore strategico diretto con pugno di ferro da Andreev e poi da Kaganovic: un totale di 20 mila persone circa. Troviamo descritta una di queste operazioni, «l'eliminazione degli elementi controrivoluzionari e antisovietici nelle ferrovie», in un rapporto del capo del Dipartimento trasporti della G.P.U., datato 5 gennaio 1933:

"Le operazioni di pulizia effettuate dal Dipartimento trasporti della G.P.U. dell'ottava regione hanno dato i seguenti risultati. Penultima epurazione: 700 persone arrestate e deferite ai tribunali, di cui: ladri di bagagli 325, teppisti ed elementi criminali 221, banditi 27, controrivoluzionari 127; 73 ladri di bagagli organizzati in bande sono stati passati per le armi. Durante l'ultima epurazione ... sono state arrestate circa 200 persone. Si tratta soprattutto di kulak. Inoltre sono stati licenziati con provvedimento amministrativo 300 elementi poco fidati. Negli ultimi quattro mesi sono state quindi eliminate dalla rete, in una maniera o nell'altra, 1250 persone; le operazioni di pulizia proseguono" .

Nella primavera del 1934 il governo adottò una serie di provvedimenti repressivi nei confronti dei giovani vagabondi e delinquenti minorili che, in seguito alla dekulakizzazione, alla carestia, al generale abbrutimento dei rapporti sociali, erano sempre più numerosi nelle città. Il 7 aprile 1935 l'Ufficio politico emanò un decreto in base al quale si prescriveva: «Deferire alla giustizia, in vista dell'applicazione di tutte le sanzioni penali previste dalla legge, gli adolescenti dai dodici anni in poi giudicati colpevoli di furti, di atti di violenza, di danneggiamenti alle persone, di atti di mutilazione e di assassinio». Pochi giorni dopo il governo inviò agli uffici della pubblica accusa una direttiva segreta, in cui si precisava che le sanzioni penali da applicare agli adolescenti non escludevano neppure «la suprema sanzione in difesa della società», ossia la pena di morte: erano perciò abrogate le disposizioni del Codice penale che in passato vietavano di comminare ai minorenni la pena capitale . In parallelo l'N.K.V.D. ebbe l'incarico di riorganizzare le «case di accoglienza e di residenza obbligata dei minori» fino ad allora dipendenti dal commissariato del popolo per l'Istruzione, e di costituire una rete di «colonie di lavoro» destinate ai minorenni.

Tuttavia la crescente diffusione della delinquenza giovanile e del vagabondaggio resero del tutto inefficaci tali provvedimenti, come appare da un rapporto relativo alla «liquidazione del vagabondaggio minorile nel periodo dal primo luglio 1935 al primo ottobre 1937»:

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"Nonostante la riorganizzazione dei servizi, la situazione non è affatto migliorata ... Dal febbraio del 1937 si osserva un forte afflusso di vagabondi dalle zone rurali, in particolare dalle regioni colpite dal cattivo raccolto del 1936 ... L'abbandono in massa delle campagne da parte dei fanciulli, a causa di temporanee difficoltà materiali attraversate dalle famiglie di origine, si spiega non solo con la scadente organizzazione delle casse di mutuo soccorso dei kolhoz, ma anche con le pratiche criminali dei dirigenti di numerose fattorie collettive, che, volendo sbarazzarsi dei giovani accattoni e dei vagabondi, concedono a questi ultimi un «attestato di vagabondaggio e di mendicità» e li avviano alle stazioni e città più vicine ... Dal canto loro, l'amministrazione delle ferrovie e la polizia ferroviaria, invece di arrestare i minorenni vagabondi e indirizzarli ai centri di accoglienza e di distribuzione dell'N.K.V.D., si ostinano a collocarli a forza sui treni di passaggio «per ripulire il loro settore» ... e così i vagabondi si ritrovano nelle grandi città" .

Bastano poche cifre per farsi un'idea dell'estensione del fenomeno: nel solo anno 1936 transitarono dalle «case di accoglienza» dell'N.K.V.D. oltre 125 mila minorenni; dal 1935 al 1939 oltre 155 mila furono reclusi nelle colonie di lavoro dell'N.K.V.D., e 92 mila bambini fra i dodici e i sedici anni furono deferiti a un tribunale soltanto nel periodo 1936-1939. Alla data del primo aprile 1939 oltre 10 mila minorenni erano incarcerati nel sistema dei campi del gulag.

Nella prima metà degli anni Trenta l'attività repressiva esercitata dal Partito-Stato contro la società si svolse con fasi di intensità variabile, veri e propri cicli in cui i momenti di scontro violento, con tutto il loro seguito di provvedimenti terroristici e di epurazioni in massa, si alternavano ai momenti di pausa che permettevano di ritrovare un certo equilibrio, o meglio frenavano il conflitto permanente, evitando che la situazione precipitasse verso il caos, fuori da ogni possibile controllo.

La primavera del 1933 segnò senza dubbio l'apogeo di un primo grande ciclo del terrore, cominciato alla fine del 1929 con la dekulakizzazione; fu il momento in cui le autorità si trovarono a dover affrontare problemi davvero inediti, in primo luogo quello di garantire che i campi venissero lavorati nelle regioni devastate dalla carestia, in modo da provvedere al futuro raccolto. Nell'autunno del 1932 un importante dirigente del Partito a livello regionale aveva ammonito: «Se non teniamo conto delle esigenze minime dei colcosiani non avremo più nessuno che semini e ci assicuri la produzione».

Inoltre, che fare delle centinaia di migliaia di imputati di cui erano affollate le prigioni, e che il sistema dei campi non era neppure in grado di sfruttare? Nel marzo del 1933 un altro responsabile locale del Partito si domandava: «Quale effetto possono avere sulla popolazione le nostre leggi ultrarepressive, quando sappiamo che su proposta della pubblica accusa sono già state liberate centinaia di colcosiani, condannati soltanto il mese scorso a due anni e oltre di carcere per aver sabotato la semina?».

Le risposte che le autorità fornirono nel corso dell'estate del 1933 a queste due situazioni limite rivelavano due orientamenti diversi: il modo di combinarli, di alternarli, di mantenerne il fragile equilibrio avrebbe caratterizzato il periodo fra l'estate del 1933 e l'autunno del 1936, prima che si scatenasse il Grande terrore.

La risposta delle autorità al primo interrogativo - come assicurare il lavoro dei campi, e quindi il prossimo raccolto, nelle regioni devastate dalla carestia? - fu la più sbrigativa possibile: si organizzarono massicce retate della popolazione urbana, che venne inviata nei campi "manu militari".

Il 20 luglio 1933 il console italiano di Har'kov scriveva: «La mobilitazione delle forze cittadine ha assunto enormi proporzioni ... In questa settimana, ogni giorno sono state mandate in campagna

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almeno 20 mila persone ... L'altro ieri hanno setacciato il bazar, catturato tutte le persone valide, uomini, donne, adolescenti di entrambi i sessi: la G.P.U. li ha scortati alla stazione e sono stati mandati nei campi» .

L'arrivo in massa dei residenti urbani nelle campagne affamate provocava inevitabili tensioni: i contadini incendiavano le baracche in cui erano stati alloggiati i «mobilitati»; d'altra parte le autorità non mancavano di ammonire questi ultimi a non avventurarsi nei villaggi, «popolati da cannibali». Tuttavia la situazione meteorologica era straordinariamente favorevole, tutta la manodopera urbana disponibile era stata mobilitata, e i superstiti, relegati nei propri villaggi e posti di fronte all'alternativa se coltivare le terre che non gli appartenevano più o morire, seguirono il proprio istinto di sopravvivenza: quindi, le regioni che nel 1932-1933 erano state colpite dalla carestia, nell'autunno del 1933 fornirono un raccolto tutto sommato onorevole.

Alla seconda domanda - che fare della valanga di detenuti che affollava le prigioni? - il potere rispose in modo pragmatico: furono scarcerate parecchie centinaia di migliaia di persone. In una circolare confidenziale del Comitato centrale, dell'8 maggio 1933, si riconosceva la necessità di «regolamentare gli arresti ... da chiunque effettuati», di «sfollare i luoghi di detenzione» e di «portare il totale dei detenuti da 800 mila a 400 mila entro due mesi, senza considerare quelli dei campi» . L'operazione di «sfollamento» durò quasi un anno e furono liberati circa 320 mila arrestati.

L'anno 1934 fu caratterizzato da una certa attenuazione della politica repressiva. Si ebbe infatti un forte calo nel numero di condanne pronunciate in processi seguiti dalla G.P.U., crollate a 79 mila contro le 240 mila del 1933 . Fu inoltre riorganizzata la polizia politica: in base al Decreto del 10 luglio 1934 la G.P.U. diventava un dipartimento del nuovo commissariato del popolo per gli Interni, unificato sull'intero territorio dell'URSS, e in tal modo sembrava fondersi con altri dipartimenti meno temuti, come la milizia operaia e contadina, le guardie di confine eccetera. La «nuova» polizia politica, indicata con la stessa sigla del commissariato del popolo per gli Interni, in russo "Narodnyj komissariat vnutrennih del", ovvero N.K.V.D., perdeva alcune sue prerogative giudiziarie: terminata l'istruttoria i fascicoli dovevano essere «trasmessi agli organi giudiziari competenti», e l'N.K.V.D. non era più autorizzata a ordinare esecuzioni capitali senza l'avallo delle autorità politiche centrali. Inoltre si istituiva una procedura di appello: tutte le condanne a morte dovevano essere confermate da una commissione dell'Ufficio politico.

Tali direttive, presentate come miranti a «rafforzare la legalità socialista», ebbero però effetti limitatissimi: il controllo sui mandati di arresto emanati dalla pubblica accusa si rivelò inesistente, perché il procuratore generale Vyscinskij lasciava agli organi della repressione la massima libertà di agire. D'altronde, dal settembre del 1934 in poi, l'Ufficio politico fu il primo a trasgredire le norme emanate per sua stessa iniziativa circa la ratifica delle condanne a morte: autorizzò infatti i responsabili di un certo numero di regioni a tralasciare di riferire a Mosca sulle sentenze capitali pronunciate a livello locale. Il periodo di bonaccia fu di breve durata.

***

Un nuovo ciclo di repressione fu scatenato dall'assassinio di Sergej Kirov, membro dell'Ufficio politico e primo segretario dell'organizzazione partitica di Leningrado: il primo dicembre 1934 Kirov era stato ucciso da Leonid Nikolaev, un giovane comunista esaltato che era riuscito a entrare armato nella sede della direzione del Partito di Leningrado, l'ex istituto Smolny.

Per decenni è prevalsa l'opinione che lo stesso Stalin avesse avuto una parte diretta nell'assassinio del proprio «rivale» politico più temibile, opinione confermata dalle «rivelazioni» del «Rapporto segreto», presentato la notte fra il 24 e il 25 febbraio 1956 da Nikita Hrusc‰v ai delegati sovietici

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riuniti nel Ventesimo Congresso del P.C.U.S. Ma in epoca recente l'ipotesi è stata confutata, in particolare nell'opera di Alla Kirilina , che ha potuto attingere a fonti di archivio inedite prima di allora; resta peraltro verissimo che Stalin si servì largamente dell'assassinio di Kirov per raggiungere i propri fini politici. Infatti l'attentato rappresentava la sensazionale materializzazione di una metafora cruciale nell'armamentario retorico staliniano: quella del complotto.

Permetteva quindi di alimentare un clima di crisi e di tensione e, al momento opportuno, poteva servire come prova tangibile - in realtà, come unico elemento costitutivo - dell'esistenza di una vasta cospirazione che minacciava il paese, i suoi dirigenti, il socialismo; in prospettiva forniva poi un'eccellente giustificazione alle debolezze del sistema: se le cose andavano male, se la vita era difficile invece di essere, secondo la famosa espressione di Stalin, «allegra e felice», la colpa era «degli assassini di Kirov».

Poche ore dopo che era stata diffusa la notizia dell'assassinio, Stalin stilò il testo di un decreto noto sotto il nome di Legge del primo dicembre: un provvedimento legislativo straordinario, emanato per decisione personale di Stalin e sancito dall'Ufficio politico soltanto due giorni dopo, in cui si prescriveva di ridurre a dieci giorni la fase istruttoria nei processi per terrorismo, di portarli in giudizio in assenza delle parti e di applicare immediatamente le sentenze capitali. La legge rappresentava una rottura netta con le procedure fissate pochi mesi prima, e sarebbe stata lo strumento ideale per attuare il Grande terrore .

Nelle settimane seguenti fu accusato di attività terroristiche un gran numero di ex oppositori di Stalin all'interno del Partito. Il 22 dicembre 1934 la stampa annunciò che l'«odioso delitto» era opera di un «gruppo terroristico clandestino» composto da tredici ex «zinovievisti» pentiti, oltre che da Nikolaev, e diretto da un presunto «Centro di Leningrado». Tutti i membri del gruppo furono giudicati a porte chiuse il 28 e 29 dicembre, condannati a morte e subito giustiziati. Il 9 gennaio 1935 ebbe inizio il processo contro il mitico «Centro controrivoluzionario zinovievista di Leningrado», con 77 imputati, fra i quali molti illustri militanti del Partito che in passato si erano opposti alla linea staliniana: furono tutti condannati alla carcerazione. La scoperta del Centro di Leningrado permise di mettere le mani su un «Centro di Mosca», che si pretendeva formato da 19 membri, compresi gli stessi Zinov'ev e Kamenev. Essi furono accusati di «complicità ideologica» con gli assassini di Kirov e processati il 16 gennaio 1935. Zinov'ev e Kamenev ammisero che «la trascorsa attività dell'opposizione, per la forza delle circostanze oggettive, non poteva non costituire uno stimolo alla degenerazione di questi criminali». Il riconoscimento di tale stupefacente «complicità ideologica», sopravvenuto dopo una serie di pentimenti e rinnegamenti pubblici, e che in futuro avrebbe esposto i due ex dirigenti ad apparire come vittime espiatorie in una parodia di giustizia, costò loro per il momento la condanna rispettivamente a cinque e dieci anni di carcere. In due mesi, fra il dicembre del 1934 e il febbraio del 1935, in base alle nuove procedure instaurate dalla legge sul terrorismo del primo dicembre furono condannate in totale 6500 persone.

Subito dopo la condanna di Zinov'ev e Kamenev, il Comitato centrale inviò a tutti gli organi di partito una circolare segreta, intitolata "Lezioni da trarre dagli eventi connessi all'ignobile assassinio del compagno Kirov". Nel testo si affermava l'esistenza di un complotto guidato da «due centri zinovievisti ... copertura di una organizzazione di Guardie bianche», e si ricordava come la storia del Partito fosse stata e continuasse a essere una lotta permanente contro i «gruppi antipartito»: trotzkisti, «centristi democratici», «deviazionisti di destra», «sinistrorsi aborti della destra» eccetera. Quindi erano sospetti tutti coloro che in un momento o nell'altro si erano pronunciati contro la direzione di Stalin: la caccia ai passati oppositori divenne più accanita. Alla fine del gennaio del 1935, 988 ex sostenitori di Zinov'ev furono espulsi da Leningrado ed esiliati in Siberia e Iacuzia. Il Comitato centrale ordinò a tutti gli organismi locali del Partito di compilare elenchi dei comunisti che nel 1926- 1928 erano stati radiati perché appartenenti al «blocco trotzkista e trotzkista-

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zinovievista». Gli arresti compiuti in seguito partirono appunto da questi elenchi. Nel maggio 1935 Stalin fece spedire agli organi locali del Partito una nuova lettera del Comitato centrale, in cui si ordinava che la tessera di ogni comunista fosse sottoposta a una minuziosa verifica.

L'«enorme importanza politica» della campagna di verifica delle tessere era dimostrata in maniera clamorosa dalla versione ufficiale, secondo cui l'assassinio di Kirov era stato perpetrato da un individuo penetrato nello Smolny grazie a una «falsa» tessera di partito. La campagna si prolungò per oltre sei mesi, con l'attivo contributo dell'apparato della polizia politica: l'N.K.V.D. forniva agli organi di partito i fascicoli raccolti sui comunisti «poco fidati», mentre a loro volta gli organismi partitici comunicavano all'N.K.V.D. le informazioni riguardanti gli iscritti espulsi durante la campagna di «verifica». Il bilancio di quest'ultima fu l'espulsione dal Partito del 9 per cento degli aderenti, ossia circa 250 mila persone .

Secondo dati incompleti, presentati al plenum del Comitato centrale convocato alla fine del dicembre 1935 da Nikolaj Ezov, capo del Dipartimento centrale dei funzionari e responsabile dell'operazione, nel corso della campagna furono arrestati 15218 «nemici» espulsi dal Partito. Tuttavia, secondo Ezov, l'epurazione era stata condotta molto male: era durata il triplo del tempo previsto, a causa della «cattiva volontà, ai limiti del sabotaggio», di un gran numero di «elementi burocratizzati installati negli apparati». Nonostante gli appelli delle autorità centrali a smascherare trotzkisti e zinovievisti, soltanto il 3 per cento degli esclusi apparteneva a queste categorie: spesso i dirigenti locali del Partito si erano mostrati riluttanti «a prendere contatto con gli organi dell'N.K.V.D. e a fornire al Centro un elenco individuale delle persone da mandare senz'altro in esilio, su mandato amministrativo». In breve, secondo Ezov, la campagna di verifica delle tessere aveva rivelato fino a qual punto la «cautela solidale» degli apparati partitici locali intralciasse qualsiasi efficace controllo da parte delle autorità centrali su quel che davvero accadeva nel paese . Era un insegnamento fondamentale, di cui Stalin si sarebbe ricordato.

L'ondata di terrore scatenata all'indomani dell'assassinio di Kirov non travolse soltanto coloro che un tempo all'interno del Partito avevano rappresentato l'opposizione: con il pretesto che «terroristi delle Guardie bianche avevano varcato la frontiera occidentale dell'URSS», il 27 dicembre 1934 l'Ufficio politico decretò la deportazione di duemila «famiglie antisovietiche» delle province confinanti dell'Ucraina. Analogamente, il 15 marzo 1935 fu deciso di deportare «in Kazakistan e nella Siberia occidentale ... tutti gli elementi poco fidati delle province di confine della regione di Leningrado e della repubblica autonoma di Carelia». Si trattava soprattutto di finlandesi, le prime vittime delle deportazioni etniche che avrebbero raggiunto il culmine durante la guerra. La prima grande deportazione, riguardante circa 10 mila persone, scelte in base a criteri di nazionalità, fu seguita nella primavera del 1936 da una seconda, che coinvolse oltre 15 mila famiglie e 50 mila persone circa, polacchi e tedeschi di Ucraina che furono deportati nella regione di Karaganda, nel Kazakistan, e assegnati alle fattorie collettive.

Come dimostra la quantità di sentenze di condanna emesse nei processi seguiti dall'N.K.V.D. nel 1935 (267 mila) e nel 1936 (oltre 274 mila), in questi due anni il ciclo repressivo divampò di nuovo; nello stesso periodo furono anche varate alcune, rare, misure più rassicuranti: la soppressione della categoria dei "liscenec", l'annullamento delle condanne a periodi di reclusione inferiori ai cinque anni inflitte ai colcosiani, la liberazione anticipata di 37 mila persone condannate in base alla Legge del 7 agosto 1932, la restituzione dei diritti civili ai coloni speciali deportati, l'abrogazione delle discriminazioni che impedivano ai figli di deportati di accedere all'insegnamento superiore. Ma si trattava di provvedimenti contraddittori: i kulak deportati, che in linea di principio dopo cinque anni di esilio avrebbero dovuto essere reintegrati nei diritti civili, non potevano però lasciare il domicilio coatto. Appena si videro restituiti i propri diritti, cominciarono a tornare nei loro villaggi, provocando una sequela di problemi inestricabili: era forse possibile lasciarli entrare nel kolhoz?

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Dove potevano abitare, dal momento che i loro beni e le loro case erano stati confiscati? La logica della repressione poteva tollerare soltanto qualche pausa, ma non consentiva di tornare indietro.

Le tensioni fra il regime e la società si accentuarono ancora quando le autorità decisero di ricuperare il movimento stacanovista (nato dopo il famoso «record» ottenuto dal minatore Aleksej Stahanov, che aveva aumentato di quattordici volte le quote di produzione del carbone attuando una formidabile organizzazione di squadra) e di promuovere una vasta campagna produttivistica. Nel novembre del 1935, appena due mesi dopo il celebre record di Stahanov, a Mosca si riunì una conferenza dei lavoratori di avanguardia, alla quale Stalin intervenne sottolineando il carattere «profondamente rivoluzionario di un movimento liberato dal conservatorismo degli ingegneri, dei tecnici e dei dirigenti di azienda». Nelle condizioni in cui funzionava l'industria sovietica dell'epoca, l'organizzazione di giornate, settimane o decadi stacanovistiche dissestava la produzione in modo permanente: i macchinari si deterioravano, gli incidenti sul lavoro diventavano più frequenti, ai record seguiva una fase di crollo della produzione. Naturalmente, ricollegandosi allo "speceedstzvo" degli anni 1928-1931, le autorità imputarono le difficoltà economiche ai sabotatori che a loro dire si erano infiltrati tra i funzionari, gli ingegneri e gli specialisti. Una parola imprudente nei confronti degli stacanovisti, una serie di interruzioni nei ritmi produttivi, un incidente tecnico erano considerati atti controrivoluzionari. Nel primo semestre del 1936 oltre 14 mila funzionari dell'industria furono arrestati con l'accusa di sabotaggio. Stalin si servì della campagna stacanovista per irrigidire ancora di più la sua politica repressiva e scatenare una nuova ondata di terrore senza precedenti, destinata a entrare nella storia con il nome di «Grande terrore».

10. IL GRANDE TERRORE. (1936-1938) Molto è stato scritto sul «Grande terrore» che i sovietici chiamano anche "ezovscina", «l'epoca di Ezov». Infatti, proprio nei due anni in cui l'N.K.V.D. era diretto da Nikolaj Ezov (dal settembre del 1936 al novembre del 1938) la repressione acquisì un'ampiezza senza precedenti, coinvolgendo tutte le componenti della popolazione sovietica, dai dirigenti dell'Ufficio politico ai semplici cittadini arrestati per strada all'unico scopo di completare le quote di «elementi controrivoluzionari da reprimere». Per decenni non si è fatta parola sulla tragedia del Grande terrore. In Occidente quel periodo veniva rammentato solo per i tre spettacolari processi pubblici svoltisi a Mosca nell'agosto del 1936, nel gennaio del 1937 e nel marzo del 1938, in cui i più prestigiosi compagni di Lenin (Zinov'ev, Kamenev, Krestinskij, Rykov, Pjatakov, Radek, Buharin e altri) confessarono misfatti infami: di aver organizzato «nuclei terroristici» di fede «trotzkista-zinovievista» o «trotzkista- destrorsa» allo scopo di rovesciare il governo sovietico, assassinarne i dirigenti, restaurare il capitalismo, eseguire atti di sabotaggio, scalzare il potere militare dell'URSS, smembrare l'Unione Sovietica e separarne l'Ucraina, la Bielorussia, la Georgia, l'Armenia, i paesi sovietici dell'Estremo Oriente eccetera, per favorire le potenze straniere.

I processi di Mosca furono un evento spettacolare d'eccezione, un richiamo per distrarre l'attenzione degli osservatori stranieri invitati alla rappresentazione da tutto quello che accadeva intorno: la repressione di massa di tutte le categorie sociali. Per questi osservatori, che avevano già taciuto riguardo la dekulakizzazione, la carestia e l'espandersi della rete dei campi, gli anni 1936-1938 costituirono soltanto l'ultimo atto della lotta politica che, per oltre un decennio, aveva contrapposto Stalin ai suoi principali avversari: erano l'epilogo dello scontro fra la «burocrazia del Termidoro staliniano» e la «vecchia guardia leninista» rimasta fedele all'impegno rivoluzionario.

Il 27 luglio 1936 l'editorialista del prestigioso quotidiano francese «Le Temps», riprendendo i temi principali della "Rivoluzione tradita", l'opera di Trockij uscita nel 1936, scriveva: «La Rivoluzione russa vive il suo Termidoro. Stalin ha compreso quanto siano vuoti la pura ideologia marxista e il mito della rivoluzione mondiale. Essendo sì un buon socialista, ma innanzi tutto un patriota, si rende conto che si tratta di un'ideologia e di un mito pericolosi per il suo paese. Probabilmente

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sogna un dispotismo illuminato, una specie di paternalismo certo lontano dal capitalismo, ma lontano anche dalle chimere del comunismo.»

E il 30 gennaio 1937 l'«Echo de Paris» esprimeva la stessa idea in termini più coloriti e meno rispettosi:

«Il georgiano con la fronte bassa si affianca senza volerlo a Ivan il Terribile, Pietro il Grande e Caterina Seconda. Gli altri, quelli che fa massacrare, sono i rivoluzionari rimasti fedeli al loro credo diabolico, nevrotici perennemente in preda a una furia distruttrice».

Si è dovuto aspettare il «Rapporto segreto» di Hruscov al Ventesimo Congresso del P.C.U.S., il 25 febbraio 1956, perché finalmente fossero rivelati i «numerosi atti di violazione della legalità socialista commessi negli anni 1936-1938 contro i dirigenti e i quadri del Partito». Negli anni seguenti sono stati riabilitati diversi responsabili, soprattutto militari. Ma non si è fatta parola delle vittime «comuni». Certo, al Ventiduesimo Congresso del P.C.U.S., nell'ottobre del 1961, Hruscov ammise pubblicamente che la «repressione di massa» aveva «colpito dei comuni e onesti cittadini sovietici», ma non disse nulla riguardo l'ampiezza della repressione, di cui era stato direttamente responsabile come molti altri dirigenti della sua generazione.

Comunque alla fine degli anni Sessanta uno storico della levatura di Robert Conquest è riuscito a ricostruire per sommi capi la trama generale del Grande terrore, basandosi sulle testimonianze dei sovietici fuggiti in Occidente e sulle pubblicazioni uscite negli ambienti dell'emigrazione e in Unione Sovietica nel periodo del «disgelo cruscioviano», anche se le sue deduzioni sui meccanismi decisionali talvolta sono azzardate e va rilevata una significativa sopravvalutazione del numero delle vittime.

L'opera di Robert Conquest ha suscitato molte discussioni, soprattutto sul grado di centralizzazione del terrore, sui rispettivi ruoli di Stalin e di Ezov, e sul numero delle vittime. Per esempio, alcuni storici della scuola revisionista americana hanno contestato la tesi secondo cui Stalin avrebbe pianificato con precisione il corso degli avvenimenti dal 1936 al 1938, sottolineando invece quanto fossero aumentati gli attriti fra le autorità centrali e gli apparati locali sempre più potenti, nonché gli «sconfinamenti» di una repressione in larga misura priva di controlli; hanno quindi attribuito l'eccezionale portata della repressione negli anni 1936-1938 agli apparati locali che, desiderando sviare il colpo destinato a loro, avevano usato l'arma del terrore contro innumerevoli «capri espiatori», per dimostrare al Centro quanto fossero vigili e intransigenti nella lotta contro i «nemici» di tutti gli schieramenti.

Un altro punto di divergenza riguarda il numero delle vittime. Per Conquest e i suoi discepoli il bilancio del Grande terrore si chiuse con almeno 6 milioni di arresti, 3 milioni di esecuzioni e 2 milioni di morti nei campi. Per gli storici revisionisti queste cifre sono decisamente eccessive.

Oggi l'apertura degli archivi sovietici, sebbene ancora parziale, ci consente di rifare il punto sul Grande terrore. Non si tratta di ripercorrere in queste poche pagine, come altri hanno già fatto, la storia straordinariamente complessa e tragica degli anni più cruenti del regime sovietico, ma di cercare di far luce su alcune questioni dibattute negli ultimi anni, in particolare il grado di centralizzazione del terrore, le categorie e il numero delle vittime. Per quanto riguarda la prima questione, i documenti dell'Ufficio politico oggi accessibili (4) confermano che la repressione di massa è stata effettivamente il risultato di una iniziativa assunta dall'organo supremo del Partito, l'Ufficio politico, e in particolare da Stalin. Il modo in cui fu organizzata e poi attuata la più cruenta fra le grandi operazioni di repressione, la «liquidazione di ex kulak, criminali e altri elementi antisovietici» che si svolse dall'agosto 1937 al maggio 1938, getta una luce davvero rivelatrice sul

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ruolo esercitato nella repressione dal potere centrale e da quello locale, ma anche sulla logica di questa operazione, che, almeno all'inizio, era destinata a risolvere definitivamente un problema cui non era stato possibile ovviare negli anni precedenti.

Nel 1936-1937, la questione del destino futuro degli ex kulak deportati era all'ordine del giorno. Sempre più «coloni speciali» si confondevano nella massa dei lavoratori liberi, nonostante venisse ricordato loro di continuo che era proibito lasciare il luogo di domicilio coatto. In un rapporto dell'agosto 1936 Rudol'f Berman, capo del gulag, scriveva: «Numerosi coloni speciali, che lavorano da tempo in squadre miste con gli operai liberi, hanno lasciato il luogo di residenza approfittando di un regime di sorveglianza abbastanza lassista. E' sempre più difficile recuperarli. Infatti hanno acquisito una specializzazione, l'amministrazione delle imprese ci tiene a non perderli, e talvolta sono riusciti anche a ottenere un passaporto, si sono sposati con colleghe libere, spesso hanno una casa».

Molti coloni speciali con domicilio coatto presso gli insediamenti industriali avevano la tendenza a fondersi con la classe operaia locale, ma altri fuggivano più lontano. Un gran numero di questi «fuggiaschi», senza documenti e senza tetto, si univa alle bande di emarginati sociali e di piccoli delinquenti che erano sempre più numerose alle periferie delle città. Le ispezioni condotte nell'autunno del 1936 nella giurisdizione di certi comandi rivelarono una situazione «intollerabile» agli occhi delle autorità: per esempio, nella regione di Arcangelo erano rimasti sul posto solo 37 mila degli 87900 coloni speciali che in teoria vi erano assegnati a domicilio coatto.

L'ossessione del «kulak sabotatore infiltrato nelle imprese» e del «kulak bandito che si aggira per le città» spiega perché questa categoria sia diventata il principale capro espiatorio nella grande operazione di repressione decisa da Stalin all'inizio del luglio del 1937.

Il 2 luglio l'Ufficio politico inviò un telegramma alle autorità locali con l'ordine di «arrestare immediatamente tutti i kulak e i criminali ... di fucilare i più ostili previa disamina amministrativa del loro caso da parte di una trojka e di deportare gli elementi meno attivi, ma comunque ostili al regime». E proseguiva: «Il Comitato centrale chiede che gli vengano segnalati entro cinque giorni la composizione delle trojka, il numero degli individui da fucilare e di quelli da deportare».

Perciò nelle settimane successive le autorità centrali ricevettero le «cifre indicative» fornite dalle autorità locali; su quella base Ezov preparò l'Ordine operativo n. 00447, datato 30 luglio 1937, e lo stesso giorno lo sottopose per ratifica all'Ufficio politico. Nel quadro di questa «operazione» furono arrestate 259450 persone, di cui 72950 vennero fucilate. In realtà queste cifre erano incomplete, perché nella lista stabilita mancava una serie di regioni che, a quanto pare, non avevano ancora fatto pervenire a Mosca le loro «valutazioni». Come all'epoca della dekulakizzazione, a ciascuna regione furono assegnate delle quote per le due categorie (prima categoria: da giustiziare; seconda categoria: da deportare). Si deve notare che gli elementi presi di mira dall'operazione appartenevano a una fascia sociopolitica assai più vasta rispetto alle categorie enumerate all'inizio: accanto agli «ex kulak» e ai «criminali» figuravano gli «elementi pericolosi per la società», i «membri dei partiti antisovietici», gli «ex funzionari zaristi» le «Guardie bianche» eccetera. Naturalmente questi appellativi erano attribuiti a qualsiasi sospetto, sia che appartenesse al Partito, all'intellighenzia o alla «gente comune». Quanto alle liste dei sospetti, per anni i servizi competenti della G.P.U., e poi dell'N.K.V.D., avevano avuto tutto il tempo per prepararle, tenerle aggiornate e servirsene.

L'Ordine operativo del 30 luglio 1937 conferiva ai dirigenti locali la facoltà di chiedere a Mosca elenchi complementari di individui da assoggettare a repressioni. Le famiglie dei condannati all'internamento nei campi o dei giustiziati potevano essere arrestate «in eccedenza alle quote».

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A partire dalla fine di agosto l'Ufficio politico ricevette da ogni parte la richiesta di aumentare le quote. Dal 28 agosto al 15 dicembre 1937 ratificò un gran numero di proposte, per un totale di 22500 individui da giustiziare e di 16800 da internare nei campi. Il 31 gennaio 1938 su iniziativa dell'N.K.V.D. approvò un'altra «aggiunta» di 57200 persone, 48 mila delle quali dovevano essere giustiziate. Tutte le operazioni si dovevano concludere entro il 15 marzo 1938. Ma anche questa volta le istituzioni locali, che dall'anno precedente erano state «epurate» e rinnovate diverse volte, ritennero opportuno fare sfoggio di zelo. Fra il primo febbraio e il 29 agosto 1938 l'Ufficio politico ratificò altri provvedimenti di repressione destinati a colpire contingenti supplementari di individui per un totale di 90 mila unità.

Insomma l'operazione, che in origine doveva durare quattro mesi, si prolungò per oltre un anno, e coinvolse almeno 200 mila persone in più rispetto alle quote approvate all'inizio. Chiunque fosse sospettato di avere «cattive» origini sociali diventava una vittima potenziale. Inoltre erano particolarmente vulnerabili tutti coloro che abitavano nelle zone di confine, o che, in un modo o nell'altro, avevano avuto contatti con l'estero: ex prigionieri di guerra o persone con parenti, anche lontani, fuori dall'URSS. Queste persone avevano forti probabilità di essere accusate di spionaggio; altrettanto valeva per i radioamatori, i filatelici o gli esperantisti. Dal 6 agosto al 21 dicembre 1937 l'Ufficio politico e l'N.K.V.D., che lo affiancava in questa attività, vararono almeno dieci operazioni analoghe a quella inaugurata con l'Ordine operativo n. 00447, per liquidare, una nazionalità dopo l'altra, tutti i gruppi sospettati di «spionaggio» e «separatismo»: tedeschi, polacchi, giapponesi, romeni, finlandesi, lituani, estoni, lettoni, greci, turchi. Durante queste operazioni «antispie», nel giro di quindici mesi, fra l'agosto del 1937 e il novembre del 1938, furono arrestate diverse centinaia di migliaia di persone.

Su altre operazioni disponiamo oggi di informazioni molto lacunose, dato che gli archivi dell'ex K.G.B. e gli archivi presidenziali in cui sono conservati i documenti più confidenziali non sono ancora accessibili ai ricercatori; fra esse citiamo:

- l'operazione di «liquidazione dei contingenti tedeschi impiegati presso le imprese della Difesa nazionale», cominciata il 20 luglio 1937; - l'operazione di «liquidazione delle attività terroristiche, di diversione e di spionaggio della rete giapponese dei rimpatriati di Harbin», cominciata il 19 settembre 1937; - l'operazione di «liquidazione dell'organizzazione nipponico-militare di destra dei cosacchi», cominciata il 4 agosto 1937; fra settembre e dicembre del 1937 nel quadro di questa operazione furono colpite oltre 19 mila persone; - l'operazione di «repressione delle famiglie dei nemici del popolo arrestati» decretata con l'Ordine operativo dell'N.K.V.D. n. 00486 del 15 agosto 1937.

Questo breve elenco di una piccola parte delle operazioni decise dall'Ufficio politico e messe in atto dall'N.K.V.D., sebbene assai incompleto, è sufficiente a dimostrare il carattere centralista delle repressioni di massa degli anni 1937-1938. Certo, come tutte le grandi azioni repressive condotte dai funzionari locali su ordine del potere centrale - la dekulakizzazione, l'epurazione delle città o la caccia agli specialisti - erano soggette a sconfinamenti o eccessi. Dopo il Grande terrore una sola commissione fu inviata a indagare in loco sugli eccessi della "ezovscina", in Turkmenistan. In questa piccola repubblica di un milione 300 mila abitanti (lo 0,7 per cento della popolazione sovietica) fra l'agosto del 1937 e il settembre del 1938 le trojka dell'N.K.V.D. avevano condannato 13259 persone nel quadro della sola operazione di «liquidazione degli ex kulak, criminali e altri elementi antisovietici»; 4037 di esse erano state fucilate. Le quote fissate da Mosca erano rispettivamente di 6277 (numero totale delle condanne) e di 3225 (numero totale delle esecuzioni). Si può supporre che anche in altre regioni del paese si siano verificati eccessi e sconfinamenti analoghi. Erano una conseguenza del principio stesso delle quote, degli ordini pianificati emanati

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dal Centro e dei riflessi burocratici inculcati da anni e ormai ben assimilati, che consistevano nell'anticipare i desideri dei superiori in linea gerarchica e le direttive di Mosca.

Il carattere centralistico di questi massacri ordinati e ratificati da Stalin e dall'Ufficio politico è confermato da un'altra serie di documenti. Si tratta delle liste di personalità da condannare compilate dalla Commissione per gli affari giudiziari dell'Ufficio politico. Tutti costoro dovevano essere processati dal collegio militare della Corte suprema, dai tribunali militari o dal Consiglio speciale dell'N.K.V.D., ma le pene erano predeterminate dalla Commissione degli affari giudiziari dell'Ufficio politico. Tale commissione, di cui faceva parte Ezov, sottopose alla firma di Stalin e dei membri dell'Ufficio politico almeno 383 liste, che contenevano oltre 44 mila nomi di dirigenti e di quadri del Partito, dell'esercito e del settore economico. Oltre 39 mila di essi furono condannati alla pena di morte. La firma di Stalin compare in calce a 362 liste, quella di Molotov a 373, quella di Voroscilov a 195, quella di Kaganovic 191, quella di Zdanov a 177, quella di Mikojan a 62 liste.

A partire dall'estate del 1937 tutti questi dirigenti si recarono personalmente in loco per condurre le epurazioni delle organizzazioni di partito locali: per esempio Kaganovic fu inviato a epurare il Donbass, le regioni di Celjabinsk, Jaroslavl', Ivanovo e Smolensk. Zdanov, dopo aver epurato la propria regione, quella di Leningrado, partì per proseguire l'opera a Orenburg, nella Repubblica dei Baschiri e in quella dei Tatari. Andreev si recò nel Caucaso settentrionale, in Uzbekistan e in Tagikistan. Mikojan in Armenia, Hruscov in Ucraina. Benché moltissime direttive sulla repressione di massa siano state ratificate come risoluzioni collettive dell'Ufficio politico, alla luce dei documenti d'archivio oggi accessibili risulta che l'autore e il propugnatore della maggior parte delle decisioni di questo tipo a tutti i livelli fu Stalin in persona. Facciamo soltanto un esempio: il 27 agosto 1937, alle 17, quando la segreteria del Comitato centrale ricevette una comunicazione di Mihail Korocenko, segretario del Comitato regionale del partito della Siberia orientale, circa lo svolgimento di un processo ad agronomi «colpevoli di atti di sabotaggio», alle 17.10 fu Stalin stesso a telegrafare: «Le consiglio di condannare i sabotatori del distretto di Andreev alla pena di morte e di far pubblicare sulla stampa la notizia dell'esecuzione».

Tutti i documenti oggi disponibili (protocolli dell'Ufficio politico, agenda di Stalin ed elenco dei visitatori ricevuti da Stalin al Cremlino) dimostrano come Stalin stesso controllasse e dirigesse nei minimi dettagli l'attività di Ezov. Correggeva le principali direttive dell'N.K.V.D. e seguiva lo svolgimento dell'istruttoria dei grandi processi politici, stabilendone addirittura il copione. Durante l'istruttoria del caso del «complotto militare» in cui furono processati il maresciallo Tuhacevskij e altri alti dirigenti dell'Armata rossa, Stalin riceveva Ezov tutti i giorni. Stalin mantenne il controllo politico degli avvenimenti in tutte le fasi della "ezovscina". Fu lui a decidere la nomina di Ezov alla carica di commissario del popolo per gli Interni, inviando da Soci all'Ufficio politico il famoso telegramma del 25 settembre 1936: «E' assolutamente necessario e urgente che il compagno Ezov sia nominato alla carica di commissario del popolo per gli Interni. Jagoda ha dimostrato chiaramente di non essere all'altezza del compito di smascherare il blocco trotzkista-zinovievista. Su questo caso la G.P.U. ha quattro anni di ritardo». Fu ancora Stalin a decidere di porre fine agli «eccessi dell'N.K.V.D.». Il 17 novembre 1938 un decreto del Comitato centrale interruppe (temporaneamente) l'organizzazione delle «operazioni di arresto e deportazione in massa». Una settimana dopo Ezov fu destituito dalla carica di commissario del popolo per gli Interni, e sostituito da Berija. Il Grande terrore si concluse come era incominciato: per ordine di Stalin.

Si può stilare un bilancio documentato sul numero e le categorie delle vittime della "ezovscina"? Attualmente disponiamo di alcuni documenti ultraconfidenziali approntati durante la destalinizzazione da Nikita Hruscov e dai principali dirigenti del Partito; in particolare, di un lungo studio sulle «repressioni esercitate all'epoca del culto della personalità» realizzato da una commissione presieduta da Nikolaj Shvernik, che era stata istituita alla conclusione del

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Ventiduesimo Congresso del P.C.U.S. I ricercatori possono confrontare questi dati con molte altre fonti statistiche ora disponibili, dell'amministrazione del gulag, del commissariato del popolo per la Giustizia, dell'Ufficio della pubblica accusa.

Risulta così che, nel solo periodo 1937-1938, l'N.K.V.D. arrestò un milione 575 mila persone; che un milione 345 mila (ovvero l'85,4 per cento) furono condannate nel corso degli stessi anni; che 681692 (cioè il 51 per cento delle persone condannate) furono giustiziate. Le persone arrestate venivano condannate seguendo svariate procedure. I «quadri» politici, economici e militari erano processati dai tribunali militari e dai Consigli speciali dell'N.K.V.D., come pure gli intellettuali, la categoria più individuabile e meglio conosciuta. Le operazioni avevano una tale portata che a fine luglio del 1937 il governo istituì delle trojka a livello regionale, composte dal procuratore, dal direttore dell'N.K.V.D. e dal capo della polizia. Queste trojka adottavano procedure estremamente sbrigative, poiché rispondevano a quote fissate in anticipo dal potere centrale. Era sufficiente «riattivare» le liste degli individui già schedati dai servizi. L'istruttoria era ridotta ai minimi termini: le trojka esaminavano molte centinaia di casi al giorno, come conferma per esempio la recente pubblicazione del "Leningradskij Martirolog" (Martirologio di Leningrado), un annuario in cui, a partire dall'agosto del 1937, sono enumerati mese per mese i leningradesi arrestati e condannati a morte ai sensi dell'articolo 58 del Codice penale. Il lasso di tempo che intercorreva abitualmente fra l'arresto e la sentenza capitale andava da qualche giorno a qualche settimana. La condanna, senza appello, era eseguita nel giro di pochi giorni. Nel quadro delle operazioni specifiche di «liquidazione delle spie e dei separatisti» e delle grandi campagne di repressione, come la «liquidazione dei kulak» lanciata il 30 luglio 1937, la «liquidazione degli elementi criminali» lanciata il 12 settembre 1937, la «repressione delle famiglie di nemici del popolo» eccetera, le possibilità di essere arrestati all'unico scopo di completare la quota dipendevano da una serie di fattori fortuiti: casualità «geografiche» (le persone che vivevano nei territori di frontiera erano molto più esposte), trascorsi individuali (avere un qualche rapporto con un paese straniero o essere di origine straniera), omonimia. Se la lista delle persone schedate era insufficiente per «raggiungere gli standard», le autorità locali «si arrangiavano». Così, solo per fare un esempio, l'N.K.V.D. della Turkmenia, dovendo completare la categoria dei «sabotatori», colse l'occasione di un incendio scoppiato in una fabbrica per arrestare tutti quelli che si trovavano sul posto, costringendoli a indicare dei «complici». Il terrore, che era programmato dall'alto e stabiliva arbitrariamente le categorie dei nemici «politici», generava per sua stessa natura sconfinamenti molto indicativi riguardo la cultura di violenza da cui erano animati gli apparati repressivi di base.

Questi dati, da cui tra l'altro si deduce che i quadri comunisti rappresentavano soltanto una piccola percentuale dei 681692 giustiziati, non sono certo esaurienti. Non riguardano le deportazioni effettuate nel corso di questi anni (come per esempio l'operazione di deportazione dall'Estremo Oriente sovietico di 172 mila coreani, trasferiti nel Kazakistan e nell'Uzbekistan fra maggio e ottobre del 1937), non tengono conto né delle persone arrestate morte sotto tortura durante il soggiorno in prigione o il trasferimento verso i campi (cifra sconosciuta) né dei detenuti morti nei campi (25 mila circa nel 1937 oltre 90 mila nel 1938). Anche se ridotte rispetto a quanto si può dedurre dalle testimonianze dei sopravvissuti, queste cifre rivelano la spaventosa entità delle stragi di centinaia di migliaia di persone, che colpivano l'intera società.

Allo stato attuale è possibile analizzare più a fondo le categorie a cui appartenevano le vittime di questi massacri? Disponiamo di alcuni dati statistici, di cui parleremo più avanti, sui detenuti nei campi alla fine degli anni Trenta. Queste informazioni riguardano l'insieme dei reclusi (e non solo quelli arrestati durante il Grande terrore) e forniscono soltanto dati assai parziali sulle vittime condannate all'internamento nei campi durante la "ezovscina". Per esempio, si osserva un forte incremento proporzionale dei detenuti con un'istruzione superiore (oltre il 70 per cento fra il 1936 e

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il 1939), a conferma che alla fine degli anni Trenta il terrore veniva esercitato in particolare contro le élite colte, indipendentemente dalla loro appartenenza al Partito.

La repressione dei quadri del Partito è uno degli aspetti più conosciuti del Grande terrore, poiché fu la prima a essere denunciata (al Ventesimo Congresso). Nel suo «Rapporto segreto» Hruscov si dilungò ampiamente su questo aspetto della repressione, che colpì cinque membri dell'Ufficio politico, tutti fedeli a Stalin (Postyscev, Rudzutak, Eihe, Kosior, Ciubar), 98 membri del Comitato centrale su 139, 1108 delegati del Diciassettesimo Congresso del Partito (1934) su 1966. Esso interessò anche i quadri dirigenti del Komsomol: furono arrestati 72 membri del Comitato centrale su 93, 319 segretari regionali su 385, e 2210 segretari di distretto su 2750. In generale, furono totalmente rinnovati gli apparati regionali e locali del Partito e del Komsomol, sospettati dal Centro di «sabotare» le decisioni di Mosca, che erano per forza «corrette», e di ostacolare ogni controllo efficace da parte delle autorità centrali su quanto accadeva nel paese. A Leningrado, città sospetta per eccellenza, in cui il Partito era stato diretto da Zinov'ev e in cui Kirov era stato assassinato, Zdanov e Zakovskij, capo dell'N.K.V.D. regionale, arrestarono oltre il 90 per cento dei quadri di partito. Costoro costituivano però soltanto una piccola parte degli abitanti di Leningrado arrestati fra il 1936 e il 1939. Per accelerare le epurazioni, il potere centrale inviò nelle province degli emissari accompagnati da truppe dell'N.K.V.D.: la loro missione, per usare l'espressione colorita della «Pravda», era di «affumicare e distruggere i nidi delle cimici trotzkiste-fasciste».

Alcune regioni, per cui disponiamo di dati statistici parziali, furono «epurate», con maggior cura: al primo posto figura anche questa volta l'Ucraina. Durante il solo 1938, dopo la nomina di Hruscov alla guida del Partito comunista ucraino, nella repubblica furono arrestate oltre 106 mila persone (per la grande maggioranza giustiziate). Su 200 membri del Comitato centrale del Partito comunista ucraino sopravvissero soltanto in tre. Lo stesso copione fu replicato in tutti gli organismi regionali e locali del Partito, dove vennero organizzate decine di processi pubblici di dirigenti comunisti.

A differenza dei processi a porte chiuse o delle sessioni segrete delle trojka, in cui si decideva nel giro di pochi minuti il destino degli accusati, i processi pubblici dei dirigenti avevano una forte colorazione populista e svolgevano un'importante funzione di propaganda. Avevano lo scopo di rinsaldare l'alleanza fra il «popolo minuto, il piccolo militante, che ha la soluzione giusta» e la Guida, denunciando i dirigenti locali, i «nuovi signori sempre soddisfatti di se stessi ... che con il loro atteggiamento inumano producono artificialmente molti insoddisfatti e irritati, creando in questo modo un esercito di riserve per i trotzkisti» (Stalin, discorso del 3 marzo 1937). Come i grandi processi di Mosca, ma questa volta su scala di distretto, questi processi pubblici, le cui udienze erano riportate ampiamente dalla stampa locale, davano luogo a una straordinaria mobilitazione ideologica, popolare e populista. Smascherando il complotto, immagine fondamentale dell'ideologia, e assumendo una funzione di inversione carnevalesca (i potenti diventati cattivi, le «persone normali» divenute depositarie della «soluzione giusta») i processi pubblici costituivano, per riprendere l'espressione di Annie Kriegel, «un formidabile meccanismo di prevenzione sociale».

Naturalmente le azioni repressive dirette contro i responsabili locali del Partito rappresentavano soltanto la punta dell'iceberg. Prendiamo l'esempio di Orenburg: per questa provincia disponiamo di un rapporto dettagliato del dipartimento regionale dell'N.K.V.D., in cui sono descritti i «provvedimenti operativi di liquidazione di gruppi clandestini trotzkisti e bucariniani, oltre che di altre formazioni controrivoluzionarie, messi in atto fra il primo aprile e il 18 settembre 1937», cioè prima della missione di Zdanov, destinata ad «accelerare» le epurazioni.

Nella provincia di Orenburg nel giro di cinque mesi erano stati arrestati:

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- 420 «trotzkisti», tutti quadri politici ed economici di primo piano; - 120 «destrorsi», tutti importanti dirigenti locali.

Questi 540 quadri del Partito rappresentavano quasi il 45 per cento della nomenklatura locale. In seguito alla missione di Zdanov a Orenburg furono arrestati e giustiziati altri 598 quadri. In questa provincia, come altrove, nell'autunno del 1937 la quasi totalità dei dirigenti politici ed economici fu eliminata e sostituita da una nuova generazione, quella dei «promossi» del primo piano quinquennale, Breznev, Kosygin, Ustinov, Gromyko, insomma l'Ufficio politico degli anni Settanta.

Tuttavia, accanto a queste migliaia di quadri veniva arrestata una massa di persone comuni: membri del Partito, ex comunisti, e quindi particolarmente vulnerabili, o semplici cittadini schedati da anni, che costituirono il grosso delle vittime del Grande terrore. Riprendiamo il rapporto dell'N.K.V.D. di Orenburg:

"- un po' più di 2000 membri dell'organizzazione nipponico-militare di destra dei cosacchi [1500 dei quali furono fucilati]; - oltre 1500 ufficiali e funzionari zaristi esiliati nel 1935 da Leningrado a Orenburg [si trattava di «elementi estranei alla società» esiliati in varie regioni del paese dopo l'assassinio di Kirov]; - circa 250 persone arrestate nell'ambito del processo ai polacchi; - circa 95 persone arrestate ... nell'ambito del processo agli individui originari di Harbin; - 3290 persone nel quadro dell'operazione di liquidazione degli ex kulak; - 1399 persone ... durante l'operazione di liquidazione degli elementi criminali".

Insomma, contando anche la trentina di membri del Komsomol e la cinquantina di cadetti della Scuola di istruzione militare locale, nella provincia in cinque mesi erano state arrestate dall'N.K.V.D. oltre 7500 persone, prima ancora che la repressione si intensificasse in conseguenza della missione di Andrej Zdanov. L'arresto del 90 per cento dei quadri della nomenklatura locale, anche se fu molto spettacolare, rappresentava soltanto una percentuale trascurabile rispetto al numero totale delle persone colpite dalla repressione, quasi tutte classificate in una delle categorie prese di mira nel corso di operazioni specifiche decise e approvate dall'Ufficio politico, e da Stalin in particolare.

Furono decimate soprattutto alcune categorie di quadri e di dirigenti: i diplomatici e il personale del commissariato del popolo per gli Affari esteri, vittime naturali dell'accusa di spionaggio, o anche i funzionari dei ministeri economici e i dirigenti di fabbrica, sospettati di «sabotaggio». Fra i diplomatici di rango arrestati, e per la maggior parte giustiziati, figuravano Krestinskij, Sokol'nikov, Bogomolov, Jurenev, Ostrovskij, Antonov-Ovseenko, rispettivamente in carica a Berlino, Londra, Pechino, Tokyo, Bucarest e Madrid.

In alcuni ministeri fu colpita dalla repressione la totalità dei funzionari, quasi senza eccezioni. Per esempio, nell'oscuro commissariato del popolo per le Macchine utensili fu rinnovata l'intera amministrazione; vennero arrestati anche tutti i dirigenti di fabbrica che dipendevano da questo settore (eccetto due), e la quasi totalità degli ingegneri e dei tecnici. Accadde lo stesso negli altri settori industriali, in particolare quello aeronautico e navale, nella metallurgia, come pure nei trasporti, tutti comparti su cui disponiamo di studi frammentari. Dopo la fine del Grande terrore, al Diciottesimo Congresso (marzo 1939), Kaganovic ammise: «Nel 1937 e nel 1938 il personale dirigente dell'industria pesante è stato rinnovato totalmente; migliaia di uomini nuovi sono stati nominati alle cariche dirigenziali al posto dei sabotatori smascherati. In certi settori si sono dovute rimuovere diverse fasce di sabotatori e di spie ... Ora abbiamo dei quadri capaci di accettare qualsiasi compito che il compagno Stalin assegnerà loro».

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Fra i quadri del Partito colpiti più duramente durante la "ezovscina" figuravano i dirigenti dei partiti comunisti stranieri e i quadri dell'Internazionale comunista che vivevano a Mosca, all'hotel Lux. Fra gli arrestati di spicco molti appartenenti al Partito comunista tedesco: Heinz Neumann, Hermann Remmele, Fritz Schulte, Hermann Schubert, tutti ex membri dell'Ufficio politico; Leo Flieg, segretario del Comitato centrale, Heinrich Susskind e Werner Hirsch, direttori del giornale «Rote Fahne», Hugo Eberlein, delegato tedesco alla conferenza di fondazione dell'Internazionale comunista. Nel febbraio del 1940, qualche mese dopo la stipula del patto tedesco- sovietico, 570 comunisti tedeschi incarcerati nelle prigioni di Mosca furono consegnati alla Gestapo sul ponte di confine di Brest-Litovsk. L'epurazione compì la sua opera devastante anche fra i comunisti ungheresi. Béla Kun, istigatore della rivoluzione ungherese del 1919, fu arrestato e giustiziato, come altri 12 commissari del popolo dell'effimero governo comunista di Budapest, tutti rifugiati a Mosca. Furono arrestati quasi 200 comunisti italiani (fra cui Paolo Robotti, cognato di Togliatti) e un centinaio di comunisti iugoslavi (fra cui Gorkic, segretario generale del Partito, Vlada Ciopic, segretario dell'organizzazione e dirigente delle Brigate internazionali, oltre a tre quarti dei membri del Comitato centrale).

___________________________________________________________ [Box: Fra le vittime del Grande terrore, una schiacciante maggioranza di anonimi. Estratti di un fascicolo «normale» del 1938.

Fascicolo n. 24260. 1. Cognome: Sidorov 2. Nome: Vasilij Klementovic 3. Luogo e data di nascita: Sycevo, regione di Mosca, 1893. 4. Indirizzo: Sycevo, distretto Kolomenskij, regione di Mosca. 5. Professione: dipendente di una cooperativa. 6. Affiliazione sindacale: sindacato dei dipendenti delle cooperative. 7. Patrimonio al momento dell'arresto (descrizione dettagliata): una casa di legno di 8 metri per 8 con tetto di latta, un cortile in parte coperto di 20 metri per 7, una mucca, 4 pecore, 2 maiali, pollame. 8. Patrimonio nel 1929: lo stesso, più un cavallo. 9. Patrimonio nel 1917: una casa di legno 8 metri per 8; un cortile in parte coperto di 30 metri per 20; 2 granai, 2 magazzini, 2 cavalli, 2 mucche, 7 pecore. 10. Situazione sociale al momento dell'arresto: dipendente. 11. Stato di servizio nell'esercito zarista: nel 1915-1916 fantaccino di seconda classe nel Sesto Reggimento fanteria del Turkestan. 12. Stato di servizio nell'Armata bianca: nessuno. 13. Stato di servizio nell'Armata rossa: nessuno. 14. Origine sociale: Mi considero figlio di un contadino medio. 15. Passato politico: non iscritto ad alcun partito. 16: Nazionalità, cittadinanza: russo, cittadino dell'URSS. 17. Appartenenza al R.K.P.(b): no. 18. Livello di istruzione: elementare. 19. Stato militare attuale: riservista. 20. Condanne pregresse: nessuna. 21. Stato di salute: ernia. 22. Situazione familiare: coniugato. Moglie: Anastasija Fodorovna, 43 anni, colcosiana; figlia: Nina, 24 anni. Arrestato il 13 febbraio 1938 dalla direzione distrettuale dell'N.K.V.D.

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Estratti del verbale di interrogatorio. Domanda: Ci fornisca ragguagli sulla sua origine sociale, e sulla sua situazione sociale e patrimoniale prima e dopo il 1917. Risposta: Sono nato in una famiglia di commercianti. Fino al 1904 circa mio padre possedeva una botteguccia a Mosca, in via Zolotorozskaja dove, a quanto mi ha detto, esercitava il commercio senza avere nessun dipendente. Dopo il 1904 mio padre ha dovuto chiudere bottega, perché non riusciva a competere con i grandi commercianti. E' tornato in campagna, a Sycevo, e ha preso in affitto sei ettari di terra arabile e due ettari di prato. Aveva un dipendente, un certo Gorjacev, che ha lavorato con mio padre per molti anni, fino al 1916. Dopo il 1917 abbiamo conservato i nostri campi, ma abbiamo perso i cavalli. Ho lavorato con mio padre fino al 1925, poi dopo la sua morte mio fratello e io abbiamo diviso la terra. Non mi riconosco colpevole per nessun addebito.

Estratti dell'atto di accusa. ... Sidorov, maldisposto verso il potere sovietico in generale e il Partito in particolare, conduceva una sistematica propaganda antisovietica diffondendo le seguenti affermazioni: «Stalin e la sua banda non vogliono mollare il potere, Stalin ha ucciso un sacco di gente ma non vuole andarsene. I bolscevichi stanno al potere, arrestano le persone oneste, e non se ne può nemmeno parlare, perché se no ti internano in un campo per venticinque anni». L'imputato Sidorov si è dichiarato non colpevole, ma è stato smascherato da diverse testimonianze. L'incartamento è stato inviato a una trojka per il processo. Firmato: Salahaev, sottotenente della milizia distrettuale di Kolomenskoe. Per assenso: Galkin, tenente della Sicurezza di Stato, capo del distaccamento della Sicurezza di Stato del distretto di Kolomenskoe.

Estratti del processo verbale di sentenza della trojka, 15 luglio 1938. ... Caso Sidorov, V. K. Ex commerciante, sfruttava una bottega insieme al padre. Accusato di aver diffuso la propaganda controrivoluzionaria fra i colcosiani, caratterizzata da affermazioni disfattiste, accompagnate da minacce contro i comunisti, critiche contro la politica del Partito e del governo. Verdetto: FUCILARE Sidorov Vasilij Klementovic, confiscarne tutti i beni. La sentenza è stata eseguita il 3 agosto 1938.

Riabilitazione postuma: 24 gennaio 1989. («Volja», 2-3, 1994, p.p. 45-46).]

___________________________________________________________

Ma furono i polacchi a pagare il tributo più pesante. I comunisti polacchi si trovarono in una situazione assai particolare: il Partito comunista polacco era nato dal Partito socialdemocratico dei regni di Polonia e Lituania, che nel 1906 era stato ammesso in seno al Partito operaio socialdemocratico della Russia con statuto autonomo. Il Partito comunista polacco, che prima del 1917 annoverava tra i propri dirigenti Feliks Dzerzinskij, aveva legami molto stretti con il Partito russo. Molti socialdemocratici polacchi avevano fatto carriera nel Partito bolscevico: Dzerzinskij, Menzinskij, Unshliht (tutti dirigenti della G.P.U.), Radek, per citare soltanto i più noti.

Fra il 1937 e il 1938 il Partito comunista polacco fu completamente liquidato. I dodici membri polacchi del Comitato centrale presenti in URSS furono giustiziati, così come tutti i rappresentanti polacchi negli organismi dell'Internazionale comunista. Il 28 novembre 1937 Stalin firmò un documento in cui proponeva la «ripulitura» del Partito comunista polacco. In generale, dopo aver fatto epurare un partito Stalin sceglieva nuovo personale dirigente appartenente a una delle fazioni rivali emerse durante l'epurazione. Nel caso del Partito comunista polacco tutte le fazioni furono accusate di «seguire le direttive dei servizi segreti controrivoluzionari polacchi». Il 16 agosto 1938

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il Comitato esecutivo dell'Internazionale votò lo scioglimento del Partito comunista polacco. Come spiegò Manuil'skij, «gli agenti del fascismo polacco avevano manovrato in modo da occupare tutti i posti chiave del Partito comunista polacco».

Naturalmente i responsabili sovietici dell'Internazionale comunista, che si erano lasciati «ingannare» e avevano mancato di «vigilanza», in seguito furono colpiti dall'epurazione. Quasi tutti i quadri sovietici dell'Internazionale (fra cui Knorin, membro del Comitato esecutivo, Mirov-Abramov, capo del Dipartimento comunicazioni con l'estero, Alihanov, capo del Dipartimento quadri) furono liquidati: si trattava di diverse centinaia di persone. Sopravvissero all'epurazione dell'Internazionale pochissimi dirigenti, totalmente ligi a Stalin, come Manuil'skij o Kuusinen.

***

Fra le altre categorie duramente colpite negli anni 1937-1938 per le quali disponiamo di dati precisi figurano i militari. L'11 giugno 1937 la stampa annunciò che in seguito a un processo a porte chiuse per tradimento e spionaggio un tribunale militare aveva condannato a morte il maresciallo Tuhacevskij, vicecommissario per la Difesa e principale artefice della modernizzazione dell'Armata rossa - il quale dopo la campagna di Polonia del 1920 aveva avuto svariati dissidi con Stalin e Voroscilov -, e sette generali d'armata, Jakir (comandante della regione militare di Kiev), Uborevic (comandante della regione militare della Bielorussia), Ejdeman, Kork, Putna, Fel'dman, Primakov. Nei dieci giorni seguenti furono arrestati 980 ufficiali superiori, fra cui 21 generali di corpo d'armata e 37 generali di divisione. Il caso del «complotto militare» attribuito a Tuhacevskij e ai suoi «complici» era stato preparato da molti mesi. I principali accusati furono arrestati nel corso del maggio 1937. Gli imputati furono sottoposti a interrogatori «energici» (molte pagine della deposizione del maresciallo Tuhacevskij, esaminate all'epoca della sua riabilitazione, avvenuta vent'anni dopo, recavano tracce di sangue) diretti da Ezov in persona, e poco prima del processo confessarono. Stalin sovrintese direttamente a tutta l'istruttoria. Verso il 15 maggio l'ambasciatore sovietico a Praga gli aveva trasmesso un incartamento falsificato, costruito dai servizi segreti nazisti, che conteneva false lettere scambiate fra Tuhacevskij e membri del Comando supremo tedesco. L'N.K.V.D. aveva raggirato anche i servizi tedeschi...

Nel giro di due anni l'epurazione dell'Armata rossa eliminò:

- 3 marescialli su 5 (Tuhacevskij, Egorov e Bljuher; gli ultimi due furono eliminati rispettivamente nel febbraio e nell'ottobre del 1938); - 13 generali d'armata su 15; - 8 ammiragli su 9; - 50 generali di corpo d'armata su 57; - 154 generali di divisione su 186; - 16 commissari d'armata su 16; - 25 commissari di corpo d'armata su 28.

Fra il maggio del 1937 e il settembre del 1938 furono arrestati o congedati dall'esercito 35020 ufficiali. Non si sa ancora quanti ne furono giustiziati. Circa 11 mila (fra cui i generali Rokossovskij e Gorbatov) furono richiamati fra il 1939 e il 1941. Ma dopo il settembre del 1938 avvennero altre epurazioni, e quindi secondo le valutazioni più attendibili il numero totale degli arresti nell'esercito durante il Grande terrore fu di 30 mila quadri su un totale di 178 mila. L'«epurazione» dell'Armata rossa, soprattutto ai massimi gradi, fu relativamente meno pesante di quanto in generale si pensasse; si fece comunque sentire durante la guerra russo- finlandese del 1940 e all'inizio della guerra tedesco-sovietica, e costituì un handicap pesantissimo per l'Armata rossa.

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Stalin, secondo il quale la minaccia hitleriana era molto meno temibile di quanto pensassero altri dirigenti bolscevichi, come Buharin o Litvinov, commissario del popolo per gli Affari esteri fino all'aprile del 1939, non esitò a sacrificare la maggior parte dei migliori ufficiali dell'Armata rossa: li sostituì con effettivi totalmente nuovi, che non avevano memoria alcuna degli episodi discutibili in cui lo stesso Stalin era stato coinvolto come «capo militare» durante la guerra civile. Nessuno dei neopromossi si sarebbe inoltre azzardato a contestare una serie di decisioni militari e politiche prese da Stalin alla fine degli anni Trenta (in particolare il riavvicinamento alla Germania nazista), come avrebbe potuto fare invece un uomo con il prestigio del maresciallo Tuhacevskij.

***

L'intellighenzia è un'altra categoria di vittime del Grande terrore per la quale disponiamo di informazioni relativamente abbondanti. Dalla metà del diciannovesimo secolo, epoca in cui era diventata un gruppo sociale riconosciuto, l'intellighenzia russa era sempre stata il fulcro della resistenza contro il dispotismo e l'asservimento del pensiero. Era naturale che venisse colpita dall'epurazione in modo particolarmente cruento rispetto alle ondate di repressione che si erano susseguite nel 1922 e nel 1928-1931. Fra il marzo e l'aprile del 1937 una campagna di stampa stigmatizzò il «deviazionismo» in ambito economico, storico, letterario. In realtà venivano prese di mira tutte le branche dell'attività scientifica e letteraria: i pretesti dottrinali e politici spesso servivano a coprire rivalità e ambizioni.

In ambito storico, per esempio, furono arrestati tutti i discepoli di Pokrovskij, morto nel 1932. Dovendo continuare a tenere lezioni pubbliche, e avendo quindi la possibilità di influenzare un ampio uditorio di studenti, i professori erano particolarmente vulnerabili, perché qualsiasi loro affermazione poteva essere riportata alle autorità da informatori zelanti. Università, istituti e accademie furono decimati, soprattutto in Bielorussia (dove 87 accademici su 105 vennero arrestati come «spie polacche») e in Ucraina. In questa repubblica nel 1933 si era svolta una prima epurazione contro i «nazionalisti borghesi»; molte migliaia di intellettuali ucraini furono arrestati per aver «trasformato l'Accademia ucraina delle scienze, l'Istituto Sevcenko, l'Accademia agricola, l'Istituto ucraino del marxismo-leninismo, oltre ai commissariati del popolo per l'Istruzione, l'Agricoltura e la Giustizia, in altrettanti asili per nazionalisti borghesi e controrivoluzionari» (discorso di Postyscev, 22 giugno 1933). In questo caso la grande epurazione del 1937-1938 completò una operazione incominciata quattro anni prima.

Furono colpiti anche gli ambienti scientifici che avevano un qualche rapporto, seppure alla lontana, con la politica, l'ideologia, l'economia o la difesa. I personaggi più autorevoli dell'industria aeronautica, come Tupolev (costruttore del famoso aereo) o Korolev (all'origine del primo programma spaziale sovietico), furono arrestati e inviati in una di quelle unità di ricerca dell'N.K.V.D. descritte da Solzenicyn nel "Primo cerchio". Furono arrestati anche: la quasi totalità (27 su 29) degli astronomi del grande osservatorio di Pulkovo; la quasi totalità degli statistici della Direzione centrale dell'economia nazionale, che aveva appena realizzato il censimento del gennaio 1937, annullato per «grave violazione dei fondamenti elementari della scienza statistica e delle direttive del governo»; numerosi linguisti che si opponevano alla teoria del «linguista» marxista Marr, che aveva l'approvazione ufficiale dello stesso Stalin; parecchie centinaia di biologi, che respingevano la ciarlataneria del «biologo ufficiale» Lysenko. Fra le vittime più note comparivano il professor Levit, direttore dell'Istituto medico-genetico, Tulajkov, direttore dell'Istituto dei cereali, il botanico Janata e l'accademico Vavilov, presidente dell'Accademia Lenin delle scienze agrarie, arrestato il 6 agosto 1940 e morto in prigione il 26 gennaio 1943.

Scrittori, pubblicisti, uomini di teatro, giornalisti furono accusati di difendere opinioni «straniere» o «ostili» e di deviare dalle norme del «realismo socialista»; pagarono quindi un pesante tributo alla

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"ezovscina". Furono arrestati e deportati in campo di concentramento o giustiziati circa 2000 membri dell'Unione degli scrittori. Fra le vittime più famose comparivano Isaak Babel', autore dei "Racconti di Odessa" e dell'"Armata a cavallo" (fucilato il 27 gennaio 1940), gli scrittori Boris Pil'njak, Jurij Olescia, Pantelejmon Romanov, i poeti Nikolaj Kljuev, Nikolaj Zabolockij, Osip Mandel'shtam (morto in un campo di transito siberiano il 26 dicembre 1938), Gurdzen Maari, Tician Tabidze. Furono arrestati anche dei musicisti (il compositore Zeljaev, il direttore d'orchestra Mikoladze) e degli artisti di teatro, primo fra tutti il grande attore e regista Vsevolod Mejerhol'd. All'inizio del 1938 il teatro Mejerhol'd fu chiuso in quanto «estraneo all'arte sovietica». Essendosi rifiutato di fare pubblica autocritica, nel giugno del 1939 Mejerhol'd venne arrestato e torturato, quindi giustiziato il 2 febbraio 1940.

Durante questi anni le autorità tentarono di «liquidare definitivamente gli ultimi residui del clero», per riprendere un'espressione in voga all'epoca. Il censimento annullato del gennaio del 1937 aveva rivelato che nonostante le numerose pressioni di vario genere un'ampia maggioranza della popolazione - il 70 per cento circa - aveva dato risposta positiva alla domanda: «Lei è credente?»; perciò i dirigenti sovietici decisero di sferrare il terzo e ultimo attacco contro la Chiesa. Nell'aprile del 1935 Malenkov inviò un dispaccio a Stalin in cui dichiarava superata la legislazione sul culto e proponeva l'abrogazione del Decreto dell'8 aprile 1929. Spiegava: «[Tale decreto] aveva creato una base legale per l'istituzione, da parte dei membri più attivi del clero e delle sette, di una organizzazione ramificata di 600 mila individui ostili al potere sovietico». E concludeva: «E' tempo di finirla con le organizzazioni clericali e la gerarchia ecclesiastica». Migliaia di preti e la stragrande maggioranza dei vescovi ripresero la via dei campi, ma questa volta furono giustiziati quasi tutti. All'inizio del 1941 meno di 1000 chiese e moschee delle 20 mila ancora in attività nel 1936 erano rimaste aperte al culto. Quanto al numero dei sacerdoti ufficialmente censiti, all'inizio del 1941 era di 5665 (di cui oltre la metà provenienti dai territori baltici, polacchi, ucraini, moldavi incorporati nel 1939-1941), mentre nel 1936 era ancora superiore a 24 mila.

***

Il Grande terrore fu un'operazione politica iniziata e messa in atto dall'inizio alla fine dai massimi organismi del Partito, cioè da Stalin, che all'epoca dominava completamente i colleghi dell'Ufficio politico, e realizzò i suoi due obiettivi principali.

Il primo era di organizzare una burocrazia civile e militare obbediente, costituita di quadri giovani formatisi nello spirito staliniano degli anni Trenta, che - secondo quanto disse Kaganovic al Diciottesimo Congresso - avrebbero accettato «qualsiasi compito assegnato loro dal compagno Stalin». Fino ad allora le varie amministrazioni, una compagine eterogenea di «specialisti borghesi» cresciuti professionalmente sotto il vecchio regime e di quadri bolscevichi, spesso poco competenti, formatisi «sul campo» durante la guerra civile, avevano tentato di conservare la propria professionalità, le proprie logiche amministrative, o semplicemente la propria autonomia e le proprie reti clientelari, senza piegarsi ciecamente al volontarismo ideologico e agli ordini del potere centrale. La difficoltà della campagna di «verifica delle tessere di partito» del 1935, che si era scontrata con la resistenza passiva dei dirigenti comunisti locali, e il rifiuto, espresso dalla maggioranza degli statistici, di «abbellire» i risultati del censimento del gennaio 1937 adeguandoli ai desideri di Stalin, costituiscono due esempi significativi: sono problemi che fecero riflettere i dirigenti staliniani sulla natura dell'amministrazione di cui disponevano per governare il paese. Appariva evidente che moltissimi quadri, comunisti e non, erano restii a eseguire indiscriminatamente gli ordini emanati dal potere centrale. Perciò Stalin aveva necessità di sostituirli con persone più «efficienti», cioè più disposte a obbedire.

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Il secondo obiettivo del Grande terrore era portare a termine l'eliminazione radicale di tutti gli «elementi pericolosi per la società», un concetto dai limiti molto vaghi. Secondo il Codice penale era considerato un pericolo per la società qualsiasi individuo che avesse «commesso un atto pericoloso per la società, o i cui rapporti con un ambiente criminale o la cui attività passata» rappresentassero una minaccia. In base a questi principi era pericolosa per la società la vasta schiera degli «ex», che per la maggior parte erano già stati oggetto di misure repressive nel passato: ex kulak, ex criminali, ex funzionari zaristi, ex membri del Partito menscevico, socialista rivoluzionario eccetera. Durante il Grande terrore tutti questi «ex» furono eliminati, in conformità alla teoria staliniana esposta al plenum del Comitato centrale del febbraio-marzo 1937, secondo la quale «più si avanza verso il socialismo, più diventa accanita la lotta ai sopravvissuti delle classi moribonde».

Nell'intervento al plenum del Comitato centrale del febbraio-marzo 1937, Stalin insistette particolarmente sull'idea che le potenze nemiche avevano accerchiato l'URSS, l'unico paese in cui era stato «edificato il socialismo». Tali potenze limitrofe (Finlandia, paesi baltici, Polonia, Romania, Turchia, Giappone), con l'aiuto della Francia e della Gran Bretagna, inviavano in URSS «eserciti di diversionisti e di spie», incaricati di sabotare l'edificazione del socialismo. L'URSS, Stato unico e sacralizzato, aveva «sacri confini» che rappresentavano il fronte contro l'onnipresente nemico esterno. Dato il contesto, non stupisce che l'essenza del Grande terrore consistesse nella caccia alle spie, cioè a tutti quelli che avevano avuto qualche contatto, per quanto vago, con l'«altro mondo», e nell'eliminazione di una mitica «quinta colonna» potenziale. Così, partendo dalla suddivisione delle vittime in grandi categorie - quadri e specialisti, elementi pericolosi per la società (gli «ex»), spie - si possono individuare i caratteri principali di questa furia parossistica che ebbe come conseguenza l'eliminazione fisica di quasi 700 mila persone in due anni.

10. IL GRANDE TERRORE. (1936-1938) Molto è stato scritto sul «Grande terrore» che i sovietici chiamano anche "ezovscina", «l'epoca di Ezov». Infatti, proprio nei due anni in cui l'N.K.V.D. era diretto da Nikolaj Ezov (dal settembre del 1936 al novembre del 1938) la repressione acquisì un'ampiezza senza precedenti, coinvolgendo tutte le componenti della popolazione sovietica, dai dirigenti dell'Ufficio politico ai semplici cittadini arrestati per strada all'unico scopo di completare le quote di «elementi controrivoluzionari da reprimere». Per decenni non si è fatta parola sulla tragedia del Grande terrore. In Occidente quel periodo veniva rammentato solo per i tre spettacolari processi pubblici svoltisi a Mosca nell'agosto del 1936, nel gennaio del 1937 e nel marzo del 1938, in cui i più prestigiosi compagni di Lenin (Zinov'ev, Kamenev, Krestinskij, Rykov, Pjatakov, Radek, Buharin e altri) confessarono misfatti infami: di aver organizzato «nuclei terroristici» di fede «trotzkista-zinovievista» o «trotzkista- destrorsa» allo scopo di rovesciare il governo sovietico, assassinarne i dirigenti, restaurare il capitalismo, eseguire atti di sabotaggio, scalzare il potere militare dell'URSS, smembrare l'Unione Sovietica e separarne l'Ucraina, la Bielorussia, la Georgia, l'Armenia, i paesi sovietici dell'Estremo Oriente eccetera, per favorire le potenze straniere.

I processi di Mosca furono un evento spettacolare d'eccezione, un richiamo per distrarre l'attenzione degli osservatori stranieri invitati alla rappresentazione da tutto quello che accadeva intorno: la repressione di massa di tutte le categorie sociali. Per questi osservatori, che avevano già taciuto riguardo la dekulakizzazione, la carestia e l'espandersi della rete dei campi, gli anni 1936-1938 costituirono soltanto l'ultimo atto della lotta politica che, per oltre un decennio, aveva contrapposto Stalin ai suoi principali avversari: erano l'epilogo dello scontro fra la «burocrazia del Termidoro staliniano» e la «vecchia guardia leninista» rimasta fedele all'impegno rivoluzionario.

Il 27 luglio 1936 l'editorialista del prestigioso quotidiano francese «Le Temps», riprendendo i temi principali della "Rivoluzione tradita", l'opera di Trockij uscita nel 1936, scriveva:

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«La Rivoluzione russa vive il suo Termidoro. Stalin ha compreso quanto siano vuoti la pura ideologia marxista e il mito della rivoluzione mondiale. Essendo sì un buon socialista, ma innanzi tutto un patriota, si rende conto che si tratta di un'ideologia e di un mito pericolosi per il suo paese. Probabilmente sogna un dispotismo illuminato, una specie di paternalismo certo lontano dal capitalismo, ma lontano anche dalle chimere del comunismo.»

E il 30 gennaio 1937 l'«Echo de Paris» esprimeva la stessa idea in termini più coloriti e meno rispettosi:

«Il georgiano con la fronte bassa si affianca senza volerlo a Ivan il Terribile, Pietro il Grande e Caterina Seconda. Gli altri, quelli che fa massacrare, sono i rivoluzionari rimasti fedeli al loro credo diabolico, nevrotici perennemente in preda a una furia distruttrice».

Si è dovuto aspettare il «Rapporto segreto» di Hruscov al Ventesimo Congresso del P.C.U.S., il 25 febbraio 1956, perché finalmente fossero rivelati i «numerosi atti di violazione della legalità socialista commessi negli anni 1936-1938 contro i dirigenti e i quadri del Partito». Negli anni seguenti sono stati riabilitati diversi responsabili, soprattutto militari. Ma non si è fatta parola delle vittime «comuni». Certo, al Ventiduesimo Congresso del P.C.U.S., nell'ottobre del 1961, Hruscov ammise pubblicamente che la «repressione di massa» aveva «colpito dei comuni e onesti cittadini sovietici», ma non disse nulla riguardo l'ampiezza della repressione, di cui era stato direttamente responsabile come molti altri dirigenti della sua generazione.

Comunque alla fine degli anni Sessanta uno storico della levatura di Robert Conquest è riuscito a ricostruire per sommi capi la trama generale del Grande terrore, basandosi sulle testimonianze dei sovietici fuggiti in Occidente e sulle pubblicazioni uscite negli ambienti dell'emigrazione e in Unione Sovietica nel periodo del «disgelo cruscioviano», anche se le sue deduzioni sui meccanismi decisionali talvolta sono azzardate e va rilevata una significativa sopravvalutazione del numero delle vittime.

L'opera di Robert Conquest ha suscitato molte discussioni, soprattutto sul grado di centralizzazione del terrore, sui rispettivi ruoli di Stalin e di Ezov, e sul numero delle vittime. Per esempio, alcuni storici della scuola revisionista americana hanno contestato la tesi secondo cui Stalin avrebbe pianificato con precisione il corso degli avvenimenti dal 1936 al 1938, sottolineando invece quanto fossero aumentati gli attriti fra le autorità centrali e gli apparati locali sempre più potenti, nonché gli «sconfinamenti» di una repressione in larga misura priva di controlli; hanno quindi attribuito l'eccezionale portata della repressione negli anni 1936-1938 agli apparati locali che, desiderando sviare il colpo destinato a loro, avevano usato l'arma del terrore contro innumerevoli «capri espiatori», per dimostrare al Centro quanto fossero vigili e intransigenti nella lotta contro i «nemici» di tutti gli schieramenti.

Un altro punto di divergenza riguarda il numero delle vittime. Per Conquest e i suoi discepoli il bilancio del Grande terrore si chiuse con almeno 6 milioni di arresti, 3 milioni di esecuzioni e 2 milioni di morti nei campi. Per gli storici revisionisti queste cifre sono decisamente eccessive.

Oggi l'apertura degli archivi sovietici, sebbene ancora parziale, ci consente di rifare il punto sul Grande terrore. Non si tratta di ripercorrere in queste poche pagine, come altri hanno già fatto, la storia straordinariamente complessa e tragica degli anni più cruenti del regime sovietico, ma di cercare di far luce su alcune questioni dibattute negli ultimi anni, in particolare il grado di centralizzazione del terrore, le categorie e il numero delle vittime. Per quanto riguarda la prima questione, i documenti dell'Ufficio politico oggi accessibili confermano che la repressione di massa è stata effettivamente il risultato di una iniziativa assunta dall'organo supremo del Partito, l'Ufficio politico, e in particolare da Stalin. Il modo in cui fu organizzata e poi attuata la più cruenta fra le grandi operazioni di repressione, la «liquidazione di ex kulak, criminali e altri elementi

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antisovietici» che si svolse dall'agosto 1937 al maggio 1938, getta una luce davvero rivelatrice sul ruolo esercitato nella repressione dal potere centrale e da quello locale, ma anche sulla logica di questa operazione, che, almeno all'inizio, era destinata a risolvere definitivamente un problema cui non era stato possibile ovviare negli anni precedenti.

Nel 1936-1937, la questione del destino futuro degli ex kulak deportati era all'ordine del giorno. Sempre più «coloni speciali» si confondevano nella massa dei lavoratori liberi, nonostante venisse ricordato loro di continuo che era proibito lasciare il luogo di domicilio coatto. In un rapporto dell'agosto 1936 Rudol'f Berman, capo del gulag, scriveva: «Numerosi coloni speciali, che lavorano da tempo in squadre miste con gli operai liberi, hanno lasciato il luogo di residenza approfittando di un regime di sorveglianza abbastanza lassista. E' sempre più difficile recuperarli. Infatti hanno acquisito una specializzazione, l'amministrazione delle imprese ci tiene a non perderli, e talvolta sono riusciti anche a ottenere un passaporto, si sono sposati con colleghe libere, spesso hanno una casa».

Molti coloni speciali con domicilio coatto presso gli insediamenti industriali avevano la tendenza a fondersi con la classe operaia locale, ma altri fuggivano più lontano. Un gran numero di questi «fuggiaschi», senza documenti e senza tetto, si univa alle bande di emarginati sociali e di piccoli delinquenti che erano sempre più numerose alle periferie delle città. Le ispezioni condotte nell'autunno del 1936 nella giurisdizione di certi comandi rivelarono una situazione «intollerabile» agli occhi delle autorità: per esempio, nella regione di Arcangelo erano rimasti sul posto solo 37 mila degli 87900 coloni speciali che in teoria vi erano assegnati a domicilio coatto.

L'ossessione del «kulak sabotatore infiltrato nelle imprese» e del «kulak bandito che si aggira per le città» spiega perché questa categoria sia diventata il principale capro espiatorio nella grande operazione di repressione decisa da Stalin all'inizio del luglio del 1937.

Il 2 luglio l'Ufficio politico inviò un telegramma alle autorità locali con l'ordine di «arrestare immediatamente tutti i kulak e i criminali ... di fucilare i più ostili previa disamina amministrativa del loro caso da parte di una trojka e di deportare gli elementi meno attivi, ma comunque ostili al regime». E proseguiva: «Il Comitato centrale chiede che gli vengano segnalati entro cinque giorni la composizione delle trojka, il numero degli individui da fucilare e di quelli da deportare».

Perciò nelle settimane successive le autorità centrali ricevettero le «cifre indicative» fornite dalle autorità locali; su quella base Ezov preparò l'Ordine operativo n. 00447, datato 30 luglio 1937, e lo stesso giorno lo sottopose per ratifica all'Ufficio politico. Nel quadro di questa «operazione» furono arrestate 259450 persone, di cui 72950 vennero fucilate (7). In realtà queste cifre erano incomplete, perché nella lista stabilita mancava una serie di regioni che, a quanto pare, non avevano ancora fatto pervenire a Mosca le loro «valutazioni». Come all'epoca della dekulakizzazione, a ciascuna regione furono assegnate delle quote per le due categorie (prima categoria: da giustiziare; seconda categoria: da deportare).

Si deve notare che gli elementi presi di mira dall'operazione appartenevano a una fascia sociopolitica assai più vasta rispetto alle categorie enumerate all'inizio: accanto agli «ex kulak» e ai «criminali» figuravano gli «elementi pericolosi per la società», i «membri dei partiti antisovietici», gli «ex funzionari zaristi» le «Guardie bianche» eccetera. Naturalmente questi appellativi erano attribuiti a qualsiasi sospetto, sia che appartenesse al Partito, all'intellighenzia o alla «gente comune». Quanto alle liste dei sospetti, per anni i servizi competenti della G.P.U., e poi dell'N.K.V.D., avevano avuto tutto il tempo per prepararle, tenerle aggiornate e servirsene.

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L'Ordine operativo del 30 luglio 1937 conferiva ai dirigenti locali la facoltà di chiedere a Mosca elenchi complementari di individui da assoggettare a repressioni. Le famiglie dei condannati all'internamento nei campi o dei giustiziati potevano essere arrestate «in eccedenza alle quote».

A partire dalla fine di agosto l'Ufficio politico ricevette da ogni parte la richiesta di aumentare le quote. Dal 28 agosto al 15 dicembre 1937 ratificò un gran numero di proposte, per un totale di 22500 individui da giustiziare e di 16800 da internare nei campi. Il 31 gennaio 1938 su iniziativa dell'N.K.V.D. approvò un'altra «aggiunta» di 57200 persone, 48 mila delle quali dovevano essere giustiziate. Tutte le operazioni si dovevano concludere entro il 15 marzo 1938. Ma anche questa volta le istituzioni locali, che dall'anno precedente erano state «epurate» e rinnovate diverse volte, ritennero opportuno fare sfoggio di zelo. Fra il primo febbraio e il 29 agosto 1938 l'Ufficio politico ratificò altri provvedimenti di repressione destinati a colpire contingenti supplementari di individui per un totale di 90 mila unità.

Insomma l'operazione, che in origine doveva durare quattro mesi, si prolungò per oltre un anno, e coinvolse almeno 200 mila persone in più rispetto alle quote approvate all'inizio. Chiunque fosse sospettato di avere «cattive» origini sociali diventava una vittima potenziale. Inoltre erano particolarmente vulnerabili tutti coloro che abitavano nelle zone di confine, o che, in un modo o nell'altro, avevano avuto contatti con l'estero: ex prigionieri di guerra o persone con parenti, anche lontani, fuori dall'URSS. Queste persone avevano forti probabilità di essere accusate di spionaggio; altrettanto valeva per i radioamatori, i filatelici o gli esperantisti. Dal 6 agosto al 21 dicembre 1937 l'Ufficio politico e l'N.K.V.D., che lo affiancava in questa attività, vararono almeno dieci operazioni analoghe a quella inaugurata con l'Ordine operativo n. 00447, per liquidare, una nazionalità dopo l'altra, tutti i gruppi sospettati di «spionaggio» e «separatismo»: tedeschi, polacchi, giapponesi, romeni, finlandesi, lituani, estoni, lettoni, greci, turchi. Durante queste operazioni «antispie», nel giro di quindici mesi, fra l'agosto del 1937 e il novembre del 1938, furono arrestate diverse centinaia di migliaia di persone.

Su altre operazioni disponiamo oggi di informazioni molto lacunose, dato che gli archivi dell'ex K.G.B. e gli archivi presidenziali in cui sono conservati i documenti più confidenziali non sono ancora accessibili ai ricercatori; fra esse citiamo:

- l'operazione di «liquidazione dei contingenti tedeschi impiegati presso le imprese della Difesa nazionale», cominciata il 20 luglio 1937; - l'operazione di «liquidazione delle attività terroristiche, di diversione e di spionaggio della rete giapponese dei rimpatriati di Harbin», cominciata il 19 settembre 1937; - l'operazione di «liquidazione dell'organizzazione nipponico-militare di destra dei cosacchi», cominciata il 4 agosto 1937; fra settembre e dicembre del 1937 nel quadro di questa operazione furono colpite oltre 19 mila persone; - l'operazione di «repressione delle famiglie dei nemici del popolo arrestati» decretata con l'Ordine operativo dell'N.K.V.D. n. 00486 del 15 agosto 1937.

Questo breve elenco di una piccola parte delle operazioni decise dall'Ufficio politico e messe in atto dall'N.K.V.D., sebbene assai incompleto, è sufficiente a dimostrare il carattere centralista delle repressioni di massa degli anni 1937-1938. Certo, come tutte le grandi azioni repressive condotte dai funzionari locali su ordine del potere centrale - la dekulakizzazione, l'epurazione delle città o la caccia agli specialisti - erano soggette a sconfinamenti o eccessi. Dopo il Grande terrore una sola commissione fu inviata a indagare in loco sugli eccessi della "ezovscina", in Turkmenistan. In questa piccola repubblica di un milione 300 mila abitanti (lo 0,7 per cento della popolazione sovietica) fra l'agosto del 1937 e il settembre del 1938 le trojka dell'N.K.V.D. avevano condannato 13259 persone nel quadro della sola operazione di «liquidazione degli ex kulak, criminali e altri

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elementi antisovietici»; 4037 di esse erano state fucilate. Le quote fissate da Mosca erano rispettivamente di 6277 (numero totale delle condanne) e di 3225 (numero totale delle esecuzioni). Si può supporre che anche in altre regioni del paese si siano verificati eccessi e sconfinamenti analoghi. Erano una conseguenza del principio stesso delle quote, degli ordini pianificati emanati dal Centro e dei riflessi burocratici inculcati da anni e ormai ben assimilati, che consistevano nell'anticipare i desideri dei superiori in linea gerarchica e le direttive di Mosca.

Il carattere centralistico di questi massacri ordinati e ratificati da Stalin e dall'Ufficio politico è confermato da un'altra serie di documenti. Si tratta delle liste di personalità da condannare compilate dalla Commissione per gli affari giudiziari dell'Ufficio politico. Tutti costoro dovevano essere processati dal collegio militare della Corte suprema, dai tribunali militari o dal Consiglio speciale dell'N.K.V.D., ma le pene erano predeterminate dalla Commissione degli affari giudiziari dell'Ufficio politico. Tale commissione, di cui faceva parte Ezov, sottopose alla firma di Stalin e dei membri dell'Ufficio politico almeno 383 liste, che contenevano oltre 44 mila nomi di dirigenti e di quadri del Partito, dell'esercito e del settore economico. Oltre 39 mila di essi furono condannati alla pena di morte. La firma di Stalin compare in calce a 362 liste, quella di Molotov a 373, quella di Voroscilov a 195, quella di Kaganovic 191, quella di Zdanov a 177, quella di Mikojan a 62 liste.

A partire dall'estate del 1937 tutti questi dirigenti si recarono personalmente in loco per condurre le epurazioni delle organizzazioni di partito locali: per esempio Kaganovic fu inviato a epurare il Donbass, le regioni di Celjabinsk, Jaroslavl', Ivanovo e Smolensk. Zdanov, dopo aver epurato la propria regione, quella di Leningrado, partì per proseguire l'opera a Orenburg, nella Repubblica dei Baschiri e in quella dei Tatari. Andreev si recò nel Caucaso settentrionale, in Uzbekistan e in Tagikistan. Mikojan in Armenia, Hruscov in Ucraina. Benché moltissime direttive sulla repressione di massa siano state ratificate come risoluzioni collettive dell'Ufficio politico, alla luce dei documenti d'archivio oggi accessibili risulta che l'autore e il propugnatore della maggior parte delle decisioni di questo tipo a tutti i livelli fu Stalin in persona. Facciamo soltanto un esempio: il 27 agosto 1937, alle 17, quando la segreteria del Comitato centrale ricevette una comunicazione di Mihail Korocenko, segretario del Comitato regionale del partito della Siberia orientale, circa lo svolgimento di un processo ad agronomi «colpevoli di atti di sabotaggio», alle 17.10 fu Stalin stesso a telegrafare: «Le consiglio di condannare i sabotatori del distretto di Andreev alla pena di morte e di far pubblicare sulla stampa la notizia dell'esecuzione».

Tutti i documenti oggi disponibili (protocolli dell'Ufficio politico, agenda di Stalin ed elenco dei visitatori ricevuti da Stalin al Cremlino) dimostrano come Stalin stesso controllasse e dirigesse nei minimi dettagli l'attività di Ezov. Correggeva le principali direttive dell'N.K.V.D. e seguiva lo svolgimento dell'istruttoria dei grandi processi politici, stabilendone addirittura il copione. Durante l'istruttoria del caso del «complotto militare» in cui furono processati il maresciallo Tuhacevskij e altri alti dirigenti dell'Armata rossa, Stalin riceveva Ezov tutti i giorni. Stalin mantenne il controllo politico degli avvenimenti in tutte le fasi della "ezovscina". Fu lui a decidere la nomina di Ezov alla carica di commissario del popolo per gli Interni, inviando da Soci all'Ufficio politico il famoso telegramma del 25 settembre 1936: «E' assolutamente necessario e urgente che il compagno Ezov sia nominato alla carica di commissario del popolo per gli Interni. Jagoda ha dimostrato chiaramente di non essere all'altezza del compito di smascherare il blocco trotzkista-zinovievista. Su questo caso la G.P.U. ha quattro anni di ritardo». Fu ancora Stalin a decidere di porre fine agli «eccessi dell'N.K.V.D.». Il 17 novembre 1938 un decreto del Comitato centrale interruppe (temporaneamente) l'organizzazione delle «operazioni di arresto e deportazione in massa». Una settimana dopo Ezov fu destituito dalla carica di commissario del popolo per gli Interni, e sostituito da Berija. Il Grande terrore si concluse come era incominciato: per ordine di Stalin.

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Si può stilare un bilancio documentato sul numero e le categorie delle vittime della "ezovscina"? Attualmente disponiamo di alcuni documenti ultraconfidenziali approntati durante la destalinizzazione da Nikita Hruscov e dai principali dirigenti del Partito; in particolare, di un lungo studio sulle «repressioni esercitate all'epoca del culto della personalità» realizzato da una commissione presieduta da Nikolaj Shvernik, che era stata istituita alla conclusione del Ventiduesimo Congresso del P.C.U.S. I ricercatori possono confrontare questi dati con molte altre fonti statistiche ora disponibili, dell'amministrazione del gulag, del commissariato del popolo per la Giustizia, dell'Ufficio della pubblica accusa.

Risulta così che, nel solo periodo 1937-1938, l'N.K.V.D. arrestò un milione 575 mila persone; che un milione 345 mila (ovvero l'85,4 per cento) furono condannate nel corso degli stessi anni; che 681692 (cioè il 51 per cento delle persone condannate) furono giustiziate. Le persone arrestate venivano condannate seguendo svariate procedure. I «quadri» politici, economici e militari erano processati dai tribunali militari e dai Consigli speciali dell'N.K.V.D., come pure gli intellettuali, la categoria più individuabile e meglio conosciuta. Le operazioni avevano una tale portata che a fine luglio del 1937 il governo istituì delle trojka a livello regionale, composte dal procuratore, dal direttore dell'N.K.V.D. e dal capo della polizia. Queste trojka adottavano procedure estremamente sbrigative, poiché rispondevano a quote fissate in anticipo dal potere centrale. Era sufficiente «riattivare» le liste degli individui già schedati dai servizi. L'istruttoria era ridotta ai minimi termini: le trojka esaminavano molte centinaia di casi al giorno, come conferma per esempio la recente pubblicazione del "Leningradskij Martirolog" (Martirologio di Leningrado), un annuario in cui, a partire dall'agosto del 1937, sono enumerati mese per mese i leningradesi arrestati e condannati a morte ai sensi dell'articolo 58 del Codice penale. Il lasso di tempo che intercorreva abitualmente fra l'arresto e la sentenza capitale andava da qualche giorno a qualche settimana. La condanna, senza appello, era eseguita nel giro di pochi giorni. Nel quadro delle operazioni specifiche di «liquidazione delle spie e dei separatisti» e delle grandi campagne di repressione, come la «liquidazione dei kulak» lanciata il 30 luglio 1937, la «liquidazione degli elementi criminali» lanciata il 12 settembre 1937, la «repressione delle famiglie di nemici del popolo» eccetera, le possibilità di essere arrestati all'unico scopo di completare la quota dipendevano da una serie di fattori fortuiti: casualità «geografiche» (le persone che vivevano nei territori di frontiera erano molto più esposte), trascorsi individuali (avere un qualche rapporto con un paese straniero o essere di origine straniera), omonimia. Se la lista delle persone schedate era insufficiente per «raggiungere gli standard», le autorità locali «si arrangiavano». Così, solo per fare un esempio, l'N.K.V.D. della Turkmenia, dovendo completare la categoria dei «sabotatori», colse l'occasione di un incendio scoppiato in una fabbrica per arrestare tutti quelli che si trovavano sul posto, costringendoli a indicare dei «complici». Il terrore, che era programmato dall'alto e stabiliva arbitrariamente le categorie dei nemici «politici», generava per sua stessa natura sconfinamenti molto indicativi riguardo la cultura di violenza da cui erano animati gli apparati repressivi di base.

Questi dati, da cui tra l'altro si deduce che i quadri comunisti rappresentavano soltanto una piccola percentuale dei 681692 giustiziati, non sono certo esaurienti. Non riguardano le deportazioni effettuate nel corso di questi anni (come per esempio l'operazione di deportazione dall'Estremo Oriente sovietico di 172 mila coreani, trasferiti nel Kazakistan e nell'Uzbekistan fra maggio e ottobre del 1937), non tengono conto né delle persone arrestate morte sotto tortura durante il soggiorno in prigione o il trasferimento verso i campi (cifra sconosciuta) né dei detenuti morti nei campi (25 mila circa nel 1937 oltre 90 mila nel 1938). Anche se ridotte rispetto a quanto si può dedurre dalle testimonianze dei sopravvissuti, queste cifre rivelano la spaventosa entità delle stragi di centinaia di migliaia di persone, che colpivano l'intera società.

Allo stato attuale è possibile analizzare più a fondo le categorie a cui appartenevano le vittime di questi massacri? Disponiamo di alcuni dati statistici, di cui parleremo più avanti, sui detenuti nei

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campi alla fine degli anni Trenta. Queste informazioni riguardano l'insieme dei reclusi (e non solo quelli arrestati durante il Grande terrore) e forniscono soltanto dati assai parziali sulle vittime condannate all'internamento nei campi durante la "ezovscina". Per esempio, si osserva un forte incremento proporzionale dei detenuti con un'istruzione superiore (oltre il 70 per cento fra il 1936 e il 1939), a conferma che alla fine degli anni Trenta il terrore veniva esercitato in particolare contro le élite colte, indipendentemente dalla loro appartenenza al Partito.

La repressione dei quadri del Partito è uno degli aspetti più conosciuti del Grande terrore, poiché fu la prima a essere denunciata (al Ventesimo Congresso). Nel suo «Rapporto segreto» Hruscov si dilungò ampiamente su questo aspetto della repressione, che colpì cinque membri dell'Ufficio politico, tutti fedeli a Stalin (Postyscev, Rudzutak, Eihe, Kosior, Ciubar), 98 membri del Comitato centrale su 139, 1108 delegati del Diciassettesimo Congresso del Partito (1934) su 1966. Esso interessò anche i quadri dirigenti del Komsomol: furono arrestati 72 membri del Comitato centrale su 93, 319 segretari regionali su 385, e 2210 segretari di distretto su 2750. In generale, furono totalmente rinnovati gli apparati regionali e locali del Partito e del Komsomol, sospettati dal Centro di «sabotare» le decisioni di Mosca, che erano per forza «corrette», e di ostacolare ogni controllo efficace da parte delle autorità centrali su quanto accadeva nel paese. A Leningrado, città sospetta per eccellenza, in cui il Partito era stato diretto da Zinov'ev e in cui Kirov era stato assassinato, Zdanov e Zakovskij, capo dell'N.K.V.D. regionale, arrestarono oltre il 90 per cento dei quadri di partito. Costoro costituivano però soltanto una piccola parte degli abitanti di Leningrado arrestati fra il 1936 e il 1939. Per accelerare le epurazioni, il potere centrale inviò nelle province degli emissari accompagnati da truppe dell'N.K.V.D.: la loro missione, per usare l'espressione colorita della «Pravda», era di «affumicare e distruggere i nidi delle cimici trotzkiste-fasciste».

Alcune regioni, per cui disponiamo di dati statistici parziali, furono «epurate», con maggior cura: al primo posto figura anche questa volta l'Ucraina. Durante il solo 1938, dopo la nomina di Hruscov alla guida del Partito comunista ucraino, nella repubblica furono arrestate oltre 106 mila persone (per la grande maggioranza giustiziate). Su 200 membri del Comitato centrale del Partito comunista ucraino sopravvissero soltanto in tre. Lo stesso copione fu replicato in tutti gli organismi regionali e locali del Partito, dove vennero organizzate decine di processi pubblici di dirigenti comunisti.

A differenza dei processi a porte chiuse o delle sessioni segrete delle trojka, in cui si decideva nel giro di pochi minuti il destino degli accusati, i processi pubblici dei dirigenti avevano una forte colorazione populista e svolgevano un'importante funzione di propaganda. Avevano lo scopo di rinsaldare l'alleanza fra il «popolo minuto, il piccolo militante, che ha la soluzione giusta» e la Guida, denunciando i dirigenti locali, i «nuovi signori sempre soddisfatti di se stessi ... che con il loro atteggiamento inumano producono artificialmente molti insoddisfatti e irritati, creando in questo modo un esercito di riserve per i trotzkisti» (Stalin, discorso del 3 marzo 1937). Come i grandi processi di Mosca, ma questa volta su scala di distretto, questi processi pubblici, le cui udienze erano riportate ampiamente dalla stampa locale, davano luogo a una straordinaria mobilitazione ideologica, popolare e populista. Smascherando il complotto, immagine fondamentale dell'ideologia, e assumendo una funzione di inversione carnevalesca (i potenti diventati cattivi, le «persone normali» divenute depositarie della «soluzione giusta») i processi pubblici costituivano, per riprendere l'espressione di Annie Kriegel, «un formidabile meccanismo di prevenzione sociale». Naturalmente le azioni repressive dirette contro i responsabili locali del Partito rappresentavano soltanto la punta dell'iceberg. Prendiamo l'esempio di Orenburg: per questa provincia disponiamo di un rapporto dettagliato del dipartimento regionale dell'N.K.V.D., in cui sono descritti i «provvedimenti operativi di liquidazione di gruppi clandestini trotzkisti e bucariniani, oltre che di altre formazioni controrivoluzionarie, messi in atto fra il primo aprile e il 18 settembre 1937», cioè prima della missione di Zdanov, destinata ad «accelerare» le epurazioni.

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Nella provincia di Orenburg nel giro di cinque mesi erano stati arrestati:

- 420 «trotzkisti», tutti quadri politici ed economici di primo piano; - 120 «destrorsi», tutti importanti dirigenti locali.

Questi 540 quadri del Partito rappresentavano quasi il 45 per cento della nomenklatura locale. In seguito alla missione di Zdanov a Orenburg furono arrestati e giustiziati altri 598 quadri. In questa provincia, come altrove, nell'autunno del 1937 la quasi totalità dei dirigenti politici ed economici fu eliminata e sostituita da una nuova generazione, quella dei «promossi» del primo piano quinquennale, Breznev, Kosygin, Ustinov, Gromyko, insomma l'Ufficio politico degli anni Settanta.

Tuttavia, accanto a queste migliaia di quadri veniva arrestata una massa di persone comuni: membri del Partito, ex comunisti, e quindi particolarmente vulnerabili, o semplici cittadini schedati da anni, che costituirono il grosso delle vittime del Grande terrore. Riprendiamo il rapporto dell'N.K.V.D. di Orenburg:

"- un po' più di 2000 membri dell'organizzazione nipponico-militare di destra dei cosacchi [1500 dei quali furono fucilati]; - oltre 1500 ufficiali e funzionari zaristi esiliati nel 1935 da Leningrado a Orenburg [si trattava di «elementi estranei alla società» esiliati in varie regioni del paese dopo l'assassinio di Kirov]; - circa 250 persone arrestate nell'ambito del processo ai polacchi; - circa 95 persone arrestate ... nell'ambito del processo agli individui originari di Harbin; - 3290 persone nel quadro dell'operazione di liquidazione degli ex kulak; - 1399 persone ... durante l'operazione di liquidazione degli elementi criminali".

Insomma, contando anche la trentina di membri del Komsomol e la cinquantina di cadetti della Scuola di istruzione militare locale, nella provincia in cinque mesi erano state arrestate dall'N.K.V.D. oltre 7500 persone, prima ancora che la repressione si intensificasse in conseguenza della missione di Andrej Zdanov. L'arresto del 90 per cento dei quadri della nomenklatura locale, anche se fu molto spettacolare, rappresentava soltanto una percentuale trascurabile rispetto al numero totale delle persone colpite dalla repressione, quasi tutte classificate in una delle categorie prese di mira nel corso di operazioni specifiche decise e approvate dall'Ufficio politico, e da Stalin in particolare.

Furono decimate soprattutto alcune categorie di quadri e di dirigenti: i diplomatici e il personale del commissariato del popolo per gli Affari esteri, vittime naturali dell'accusa di spionaggio, o anche i funzionari dei ministeri economici e i dirigenti di fabbrica, sospettati di «sabotaggio». Fra i diplomatici di rango arrestati, e per la maggior parte giustiziati, figuravano Krestinskij, Sokol'nikov, Bogomolov, Jurenev, Ostrovskij, Antonov-Ovseenko, rispettivamente in carica a Berlino, Londra, Pechino, Tokyo, Bucarest e Madrid.

In alcuni ministeri fu colpita dalla repressione la totalità dei funzionari, quasi senza eccezioni. Per esempio, nell'oscuro commissariato del popolo per le Macchine utensili fu rinnovata l'intera amministrazione; vennero arrestati anche tutti i dirigenti di fabbrica che dipendevano da questo settore (eccetto due), e la quasi totalità degli ingegneri e dei tecnici. Accadde lo stesso negli altri settori industriali, in particolare quello aeronautico e navale, nella metallurgia, come pure nei trasporti, tutti comparti su cui disponiamo di studi frammentari. Dopo la fine del Grande terrore, al Diciottesimo Congresso (marzo 1939), Kaganovic ammise: «Nel 1937 e nel 1938 il personale dirigente dell'industria pesante è stato rinnovato totalmente; migliaia di uomini nuovi sono stati nominati alle cariche dirigenziali al posto dei sabotatori smascherati. In certi settori si sono dovute

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rimuovere diverse fasce di sabotatori e di spie ... Ora abbiamo dei quadri capaci di accettare qualsiasi compito che il compagno Stalin assegnerà loro».

Fra i quadri del Partito colpiti più duramente durante la "ezovscina" figuravano i dirigenti dei partiti comunisti stranieri e i quadri dell'Internazionale comunista che vivevano a Mosca, all'hotel Lux. Fra gli arrestati di spicco molti appartenenti al Partito comunista tedesco: Heinz Neumann, Hermann Remmele, Fritz Schulte, Hermann Schubert, tutti ex membri dell'Ufficio politico; Leo Flieg, segretario del Comitato centrale, Heinrich Susskind e Werner Hirsch, direttori del giornale «Rote Fahne», Hugo Eberlein, delegato tedesco alla conferenza di fondazione dell'Internazionale comunista. Nel febbraio del 1940, qualche mese dopo la stipula del patto tedesco- sovietico, 570 comunisti tedeschi incarcerati nelle prigioni di Mosca furono consegnati alla Gestapo sul ponte di confine di Brest-Litovsk. L'epurazione compì la sua opera devastante anche fra i comunisti ungheresi. Béla Kun, istigatore della rivoluzione ungherese del 1919, fu arrestato e giustiziato, come altri 12 commissari del popolo dell'effimero governo comunista di Budapest, tutti rifugiati a Mosca. Furono arrestati quasi 200 comunisti italiani (fra cui Paolo Robotti, cognato di Togliatti) e un centinaio di comunisti iugoslavi (fra cui Gorkic, segretario generale del Partito, Vlada Ciopic, segretario dell'organizzazione e dirigente delle Brigate internazionali, oltre a tre quarti dei membri del Comitato centrale).

___________________________________________________________ [Box: Fra le vittime del Grande terrore, una schiacciante maggioranza di anonimi. Estratti di un fascicolo «normale» del 1938.

Fascicolo n. 24260. 1. Cognome: Sidorov 2. Nome: Vasilij Klementovic 3. Luogo e data di nascita: Sycevo, regione di Mosca, 1893. 4. Indirizzo: Sycevo, distretto Kolomenskij, regione di Mosca. 5. Professione: dipendente di una cooperativa. 6. Affiliazione sindacale: sindacato dei dipendenti delle cooperative. 7. Patrimonio al momento dell'arresto (descrizione dettagliata): una casa di legno di 8 metri per 8 con tetto di latta, un cortile in parte coperto di 20 metri per 7, una mucca, 4 pecore, 2 maiali, pollame. 8. Patrimonio nel 1929: lo stesso, più un cavallo. 9. Patrimonio nel 1917: una casa di legno 8 metri per 8; un cortile in parte coperto di 30 metri per 20; 2 granai, 2 magazzini, 2 cavalli, 2 mucche, 7 pecore. 10. Situazione sociale al momento dell'arresto: dipendente. 11. Stato di servizio nell'esercito zarista: nel 1915-1916 fantaccino di seconda classe nel Sesto Reggimento fanteria del Turkestan. 12. Stato di servizio nell'Armata bianca: nessuno. 13. Stato di servizio nell'Armata rossa: nessuno. 14. Origine sociale: Mi considero figlio di un contadino medio. 15. Passato politico: non iscritto ad alcun partito. 16: Nazionalità, cittadinanza: russo, cittadino dell'URSS. 17. Appartenenza al R.K.P.(b): no. 18. Livello di istruzione: elementare. 19. Stato militare attuale: riservista. 20. Condanne pregresse: nessuna. 21. Stato di salute: ernia. 22. Situazione familiare: coniugato. Moglie: Anastasija Fodorovna, 43 anni, colcosiana; figlia: Nina,

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24 anni. Arrestato il 13 febbraio 1938 dalla direzione distrettuale dell'N.K.V.D.

Estratti del verbale di interrogatorio. Domanda: Ci fornisca ragguagli sulla sua origine sociale, e sulla sua situazione sociale e patrimoniale prima e dopo il 1917. Risposta: Sono nato in una famiglia di commercianti. Fino al 1904 circa mio padre possedeva una botteguccia a Mosca, in via Zolotorozskaja dove, a quanto mi ha detto, esercitava il commercio senza avere nessun dipendente. Dopo il 1904 mio padre ha dovuto chiudere bottega, perché non riusciva a competere con i grandi commercianti. E' tornato in campagna, a Sycevo, e ha preso in affitto sei ettari di terra arabile e due ettari di prato. Aveva un dipendente, un certo Gorjacev, che ha lavorato con mio padre per molti anni, fino al 1916. Dopo il 1917 abbiamo conservato i nostri campi, ma abbiamo perso i cavalli. Ho lavorato con mio padre fino al 1925, poi dopo la sua morte mio fratello e io abbiamo diviso la terra. Non mi riconosco colpevole per nessun addebito.

Estratti dell'atto di accusa. ... Sidorov, maldisposto verso il potere sovietico in generale e il Partito in particolare, conduceva una sistematica propaganda antisovietica diffondendo le seguenti affermazioni: «Stalin e la sua banda non vogliono mollare il potere, Stalin ha ucciso un sacco di gente ma non vuole andarsene. I bolscevichi stanno al potere, arrestano le persone oneste, e non se ne può nemmeno parlare, perché se no ti internano in un campo per venticinque anni». L'imputato Sidorov si è dichiarato non colpevole, ma è stato smascherato da diverse testimonianze. L'incartamento è stato inviato a una trojka per il processo. Firmato: Salahaev, sottotenente della milizia distrettuale di Kolomenskoe. Per assenso: Galkin, tenente della Sicurezza di Stato, capo del distaccamento della Sicurezza di Stato del distretto di Kolomenskoe.

Estratti del processo verbale di sentenza della trojka, 15 luglio 1938. ... Caso Sidorov, V. K. Ex commerciante, sfruttava una bottega insieme al padre. Accusato di aver diffuso la propaganda controrivoluzionaria fra i colcosiani, caratterizzata da affermazioni disfattiste, accompagnate da minacce contro i comunisti, critiche contro la politica del Partito e del governo. Verdetto: FUCILARE Sidorov Vasilij Klementovic, confiscarne tutti i beni. La sentenza è stata eseguita il 3 agosto 1938.

Riabilitazione postuma: 24 gennaio 1989. («Volja», 2-3, 1994, p.p. 45-46).]

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Ma furono i polacchi a pagare il tributo più pesante. I comunisti polacchi si trovarono in una situazione assai particolare: il Partito comunista polacco era nato dal Partito socialdemocratico dei regni di Polonia e Lituania, che nel 1906 era stato ammesso in seno al Partito operaio socialdemocratico della Russia con statuto autonomo. Il Partito comunista polacco, che prima del 1917 annoverava tra i propri dirigenti Feliks Dzerzinskij, aveva legami molto stretti con il Partito russo. Molti socialdemocratici polacchi avevano fatto carriera nel Partito bolscevico: Dzerzinskij, Menzinskij, Unshliht (tutti dirigenti della G.P.U.), Radek, per citare soltanto i più noti.

Fra il 1937 e il 1938 il Partito comunista polacco fu completamente liquidato. I dodici membri polacchi del Comitato centrale presenti in URSS furono giustiziati, così come tutti i rappresentanti polacchi negli organismi dell'Internazionale comunista. Il 28 novembre 1937 Stalin firmò un documento in cui proponeva la «ripulitura» del Partito comunista polacco. In generale, dopo aver

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fatto epurare un partito Stalin sceglieva nuovo personale dirigente appartenente a una delle fazioni rivali emerse durante l'epurazione. Nel caso del Partito comunista polacco tutte le fazioni furono accusate di «seguire le direttive dei servizi segreti controrivoluzionari polacchi». Il 16 agosto 1938 il Comitato esecutivo dell'Internazionale votò lo scioglimento del Partito comunista polacco. Come spiegò Manuil'skij, «gli agenti del fascismo polacco avevano manovrato in modo da occupare tutti i posti chiave del Partito comunista polacco».

Naturalmente i responsabili sovietici dell'Internazionale comunista, che si erano lasciati «ingannare» e avevano mancato di «vigilanza», in seguito furono colpiti dall'epurazione. Quasi tutti i quadri sovietici dell'Internazionale (fra cui Knorin, membro del Comitato esecutivo, Mirov-Abramov, capo del Dipartimento comunicazioni con l'estero, Alihanov, capo del Dipartimento quadri) furono liquidati: si trattava di diverse centinaia di persone. Sopravvissero all'epurazione dell'Internazionale pochissimi dirigenti, totalmente ligi a Stalin, come Manuil'skij o Kuusinen.

***

Fra le altre categorie duramente colpite negli anni 1937-1938 per le quali disponiamo di dati precisi figurano i militari. L'11 giugno 1937 la stampa annunciò che in seguito a un processo a porte chiuse per tradimento e spionaggio un tribunale militare aveva condannato a morte il maresciallo Tuhacevskij, vicecommissario per la Difesa e principale artefice della modernizzazione dell'Armata rossa - il quale dopo la campagna di Polonia del 1920 aveva avuto svariati dissidi con Stalin e Voroscilov -, e sette generali d'armata, Jakir (comandante della regione militare di Kiev), Uborevic (comandante della regione militare della Bielorussia), Ejdeman, Kork, Putna, Fel'dman, Primakov. Nei dieci giorni seguenti furono arrestati 980 ufficiali superiori, fra cui 21 generali di corpo d'armata e 37 generali di divisione. Il caso del «complotto militare» attribuito a Tuhacevskij e ai suoi «complici» era stato preparato da molti mesi. I principali accusati furono arrestati nel corso del maggio 1937. Gli imputati furono sottoposti a interrogatori «energici» (molte pagine della deposizione del maresciallo Tuhacevskij, esaminate all'epoca della sua riabilitazione, avvenuta vent'anni dopo, recavano tracce di sangue) diretti da Ezov in persona, e poco prima del processo confessarono.

Stalin sovrintese direttamente a tutta l'istruttoria. Verso il 15 maggio l'ambasciatore sovietico a Praga gli aveva trasmesso un incartamento falsificato, costruito dai servizi segreti nazisti, che conteneva false lettere scambiate fra Tuhacevskij e membri del Comando supremo tedesco. L'N.K.V.D. aveva raggirato anche i servizi tedeschi...

Nel giro di due anni l'epurazione dell'Armata rossa eliminò:

- 3 marescialli su 5 (Tuhacevskij, Egorov e Bljuher; gli ultimi due furono eliminati rispettivamente nel febbraio e nell'ottobre del 1938); - 13 generali d'armata su 15; - 8 ammiragli su 9; - 50 generali di corpo d'armata su 57; - 154 generali di divisione su 186; - 16 commissari d'armata su 16; - 25 commissari di corpo d'armata su 28.

Fra il maggio del 1937 e il settembre del 1938 furono arrestati o congedati dall'esercito 35020 ufficiali. Non si sa ancora quanti ne furono giustiziati. Circa 11 mila (fra cui i generali Rokossovskij e Gorbatov) furono richiamati fra il 1939 e il 1941. Ma dopo il settembre del 1938 avvennero altre epurazioni, e quindi secondo le valutazioni più attendibili il numero totale degli arresti nell'esercito

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durante il Grande terrore fu di 30 mila quadri su un totale di 178 mila. L'«epurazione» dell'Armata rossa, soprattutto ai massimi gradi, fu relativamente meno pesante di quanto in generale si pensasse; si fece comunque sentire durante la guerra russo- finlandese del 1940 e all'inizio della guerra tedesco-sovietica, e costituì un handicap pesantissimo per l'Armata rossa.

Stalin, secondo il quale la minaccia hitleriana era molto meno temibile di quanto pensassero altri dirigenti bolscevichi, come Buharin o Litvinov, commissario del popolo per gli Affari esteri fino all'aprile del 1939, non esitò a sacrificare la maggior parte dei migliori ufficiali dell'Armata rossa: li sostituì con effettivi totalmente nuovi, che non avevano memoria alcuna degli episodi discutibili in cui lo stesso Stalin era stato coinvolto come «capo militare» durante la guerra civile. Nessuno dei neopromossi si sarebbe inoltre azzardato a contestare una serie di decisioni militari e politiche prese da Stalin alla fine degli anni Trenta (in particolare il riavvicinamento alla Germania nazista), come avrebbe potuto fare invece un uomo con il prestigio del maresciallo Tuhacevskij.

L'intellighenzia è un'altra categoria di vittime del Grande terrore per la quale disponiamo di informazioni relativamente abbondanti. Dalla metà del diciannovesimo secolo, epoca in cui era diventata un gruppo sociale riconosciuto, l'intellighenzia russa era sempre stata il fulcro della resistenza contro il dispotismo e l'asservimento del pensiero. Era naturale che venisse colpita dall'epurazione in modo particolarmente cruento rispetto alle ondate di repressione che si erano susseguite nel 1922 e nel 1928-1931. Fra il marzo e l'aprile del 1937 una campagna di stampa stigmatizzò il «deviazionismo» in ambito economico, storico, letterario. In realtà venivano prese di mira tutte le branche dell'attività scientifica e letteraria: i pretesti dottrinali e politici spesso servivano a coprire rivalità e ambizioni.

In ambito storico, per esempio, furono arrestati tutti i discepoli di Pokrovskij, morto nel 1932. Dovendo continuare a tenere lezioni pubbliche, e avendo quindi la possibilità di influenzare un ampio uditorio di studenti, i professori erano particolarmente vulnerabili, perché qualsiasi loro affermazione poteva essere riportata alle autorità da informatori zelanti. Università, istituti e accademie furono decimati, soprattutto in Bielorussia (dove 87 accademici su 105 vennero arrestati come «spie polacche») e in Ucraina. In questa repubblica nel 1933 si era svolta una prima epurazione contro i «nazionalisti borghesi»; molte migliaia di intellettuali ucraini furono arrestati per aver «trasformato l'Accademia ucraina delle scienze, l'Istituto Sevcenko, l'Accademia agricola, l'Istituto ucraino del marxismo-leninismo, oltre ai commissariati del popolo per l'Istruzione, l'Agricoltura e la Giustizia, in altrettanti asili per nazionalisti borghesi e controrivoluzionari» (discorso di Postyscev, 22 giugno 1933). In questo caso la grande epurazione del 1937-1938 completò una operazione incominciata quattro anni prima.

Furono colpiti anche gli ambienti scientifici che avevano un qualche rapporto, seppure alla lontana, con la politica, l'ideologia, l'economia o la difesa. I personaggi più autorevoli dell'industria aeronautica, come Tupolev (costruttore del famoso aereo) o Korolev (all'origine del primo programma spaziale sovietico), furono arrestati e inviati in una di quelle unità di ricerca dell'N.K.V.D. descritte da Solzenicyn nel "Primo cerchio". Furono arrestati anche: la quasi totalità (27 su 29) degli astronomi del grande osservatorio di Pulkovo; la quasi totalità degli statistici della Direzione centrale dell'economia nazionale, che aveva appena realizzato il censimento del gennaio 1937, annullato per «grave violazione dei fondamenti elementari della scienza statistica e delle direttive del governo»; numerosi linguisti che si opponevano alla teoria del «linguista» marxista Marr, che aveva l'approvazione ufficiale dello stesso Stalin; parecchie centinaia di biologi, che respingevano la ciarlataneria del «biologo ufficiale» Lysenko. Fra le vittime più note comparivano il professor Levit, direttore dell'Istituto medico-genetico, Tulajkov, direttore dell'Istituto dei cereali, il botanico Janata e l'accademico Vavilov, presidente dell'Accademia Lenin delle scienze agrarie, arrestato il 6 agosto 1940 e morto in prigione il 26 gennaio 1943.

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Scrittori, pubblicisti, uomini di teatro, giornalisti furono accusati di difendere opinioni «straniere» o «ostili» e di deviare dalle norme del «realismo socialista»; pagarono quindi un pesante tributo alla "ezovscina". Furono arrestati e deportati in campo di concentramento o giustiziati circa 2000 membri dell'Unione degli scrittori. Fra le vittime più famose comparivano Isaak Babel', autore dei "Racconti di Odessa" e dell'"Armata a cavallo" (fucilato il 27 gennaio 1940), gli scrittori Boris Pil'njak, Jurij Olescia, Pantelejmon Romanov, i poeti Nikolaj Kljuev, Nikolaj Zabolockij, Osip Mandel'shtam (morto in un campo di transito siberiano il 26 dicembre 1938), Gurdzen Maari, Tician Tabidze. Furono arrestati anche dei musicisti (il compositore Zeljaev, il direttore d'orchestra Mikoladze) e degli artisti di teatro, primo fra tutti il grande attore e regista Vsevolod Mejerhol'd. All'inizio del 1938 il teatro Mejerhol'd fu chiuso in quanto «estraneo all'arte sovietica». Essendosi rifiutato di fare pubblica autocritica, nel giugno del 1939 Mejerhol'd venne arrestato e torturato, quindi giustiziato il 2 febbraio 1940.

Durante questi anni le autorità tentarono di «liquidare definitivamente gli ultimi residui del clero», per riprendere un'espressione in voga all'epoca. Il censimento annullato del gennaio del 1937 aveva rivelato che nonostante le numerose pressioni di vario genere un'ampia maggioranza della popolazione - il 70 per cento circa - aveva dato risposta positiva alla domanda: «Lei è credente?»; perciò i dirigenti sovietici decisero di sferrare il terzo e ultimo attacco contro la Chiesa. Nell'aprile del 1935 Malenkov inviò un dispaccio a Stalin in cui dichiarava superata la legislazione sul culto e proponeva l'abrogazione del Decreto dell'8 aprile 1929. Spiegava: «[Tale decreto] aveva creato una base legale per l'istituzione, da parte dei membri più attivi del clero e delle sette, di una organizzazione ramificata di 600 mila individui ostili al potere sovietico». E concludeva: «E' tempo di finirla con le organizzazioni clericali e la gerarchia ecclesiastica». Migliaia di preti e la stragrande maggioranza dei vescovi ripresero la via dei campi, ma questa volta furono giustiziati quasi tutti. All'inizio del 1941 meno di 1000 chiese e moschee delle 20 mila ancora in attività nel 1936 erano rimaste aperte al culto. Quanto al numero dei sacerdoti ufficialmente censiti, all'inizio del 1941 era di 5665 (di cui oltre la metà provenienti dai territori baltici, polacchi, ucraini, moldavi incorporati nel 1939-1941), mentre nel 1936 era ancora superiore a 24 mila.

Il Grande terrore fu un'operazione politica iniziata e messa in atto dall'inizio alla fine dai massimi organismi del Partito, cioè da Stalin, che all'epoca dominava completamente i colleghi dell'Ufficio politico, e realizzò i suoi due obiettivi principali.

Il primo era di organizzare una burocrazia civile e militare obbediente, costituita di quadri giovani formatisi nello spirito staliniano degli anni Trenta, che - secondo quanto disse Kaganovic al Diciottesimo Congresso - avrebbero accettato «qualsiasi compito assegnato loro dal compagno Stalin». Fino ad allora le varie amministrazioni, una compagine eterogenea di «specialisti borghesi» cresciuti professionalmente sotto il vecchio regime e di quadri bolscevichi, spesso poco competenti, formatisi «sul campo» durante la guerra civile, avevano tentato di conservare la propria professionalità, le proprie logiche amministrative, o semplicemente la propria autonomia e le proprie reti clientelari, senza piegarsi ciecamente al volontarismo ideologico e agli ordini del potere centrale. La difficoltà della campagna di «verifica delle tessere di partito» del 1935, che si era scontrata con la resistenza passiva dei dirigenti comunisti locali, e il rifiuto, espresso dalla maggioranza degli statistici, di «abbellire» i risultati del censimento del gennaio 1937 adeguandoli ai desideri di Stalin, costituiscono due esempi significativi: sono problemi che fecero riflettere i dirigenti staliniani sulla natura dell'amministrazione di cui disponevano per governare il paese. Appariva evidente che moltissimi quadri, comunisti e non, erano restii a eseguire indiscriminatamente gli ordini emanati dal potere centrale. Perciò Stalin aveva necessità di sostituirli con persone più «efficienti», cioè più disposte a obbedire.

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Il secondo obiettivo del Grande terrore era portare a termine l'eliminazione radicale di tutti gli «elementi pericolosi per la società», un concetto dai limiti molto vaghi. Secondo il Codice penale era considerato un pericolo per la società qualsiasi individuo che avesse «commesso un atto pericoloso per la società, o i cui rapporti con un ambiente criminale o la cui attività passata» rappresentassero una minaccia. In base a questi principi era pericolosa per la società la vasta schiera degli «ex», che per la maggior parte erano già stati oggetto di misure repressive nel passato: ex kulak, ex criminali, ex funzionari zaristi, ex membri del Partito menscevico, socialista rivoluzionario eccetera. Durante il Grande terrore tutti questi «ex» furono eliminati, in conformità alla teoria staliniana esposta al plenum del Comitato centrale del febbraio-marzo 1937, secondo la quale «più si avanza verso il socialismo, più diventa accanita la lotta ai sopravvissuti delle classi moribonde».

Nell'intervento al plenum del Comitato centrale del febbraio-marzo 1937, Stalin insistette particolarmente sull'idea che le potenze nemiche avevano accerchiato l'URSS, l'unico paese in cui era stato «edificato il socialismo». Tali potenze limitrofe (Finlandia, paesi baltici, Polonia, Romania, Turchia, Giappone), con l'aiuto della Francia e della Gran Bretagna, inviavano in URSS «eserciti di diversionisti e di spie», incaricati di sabotare l'edificazione del socialismo. L'URSS, Stato unico e sacralizzato, aveva «sacri confini» che rappresentavano il fronte contro l'onnipresente nemico esterno. Dato il contesto, non stupisce che l'essenza del Grande terrore consistesse nella caccia alle spie, cioè a tutti quelli che avevano avuto qualche contatto, per quanto vago, con l'«altro mondo», e nell'eliminazione di una mitica «quinta colonna» potenziale. Così, partendo dalla suddivisione delle vittime in grandi categorie - quadri e specialisti, elementi pericolosi per la società (gli «ex»), spie - si possono individuare i caratteri principali di questa furia parossistica che ebbe come conseguenza l'eliminazione fisica di quasi 700 mila persone in due anni.

11. L'IMPERO DEI CAMPI. Negli anni Trenta l'attività repressiva contro la società ebbe uno sviluppo senza precedenti, accompagnato dalla formidabile espansione del sistema dei campi di concentramento. Gli archivi del gulag, oggi accessibili, permettono di scorgerne con precisione l'andamento nel corso di quegli anni, le varie riorganizzazioni, e i dati relativi ai detenuti: il flusso e il numero di questi ultimi, le loro condizioni economiche, la loro ripartizione in base alla condanna, al sesso, all'età, alla nazionalità, al livello d'istruzione. Certo rimangono ancora delle zone d'ombra: la burocrazia del gulag funzionava bene quando si trattava di tenere la contabilità degli ospiti permanenti, quelli che arrivavano a destinazione. Ma in termini statistici non si sa quasi nulla di tutti coloro che non sono mai arrivati, morti in carcere oppure durante le interminabili operazioni di trasferimento, sebbene non manchino le descrizioni della via crucis che intercorreva fra il momento dell'arresto e la condanna. A metà del 1930 nei campi gestiti dalla G.P.U. lavoravano già circa 140 mila detenuti. Lo sterminato cantiere del canale tra il Baltico e il Mar Bianco, che assorbiva da solo un contingente di manodopera servile di 120 mila unità, accelerò il trasferimento di migliaia di detenuti dalle prigioni ai campi di lavoro, mentre le condanne continuavano ad aumentare: nel 1929 nei processi seguiti dalla G.P.U. furono pronunciate 56 mila sentenze di condanna, oltre 208 mila nel 1930 (contro un milione 178 mila condannati nel 1929 in processi non dipendenti dalla G.P.U. e un milione 238 mila nel 1931).

All'inizio del 1932 erano più di 300 mila i detenuti che tribolavano nei grandi cantieri della G.P.U., dove il tasso di mortalità annuale poteva arrivare al 10 per cento, come accadde in quello per il canale Baltico-Mar Bianco.

Nel luglio del 1934, quando la G.P.U. fu trasformata nell'N.K.V.D., nel gulag furono inglobate 780 colonie penitenziarie minori (per un totale di circa 212 mila detenuti) considerate scarsamente produttive e mal gestite, che fino a quel momento dipendevano dal commissariato del popolo per la

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Giustizia. Per essere produttivo e rispecchiare l'immagine del resto del paese, il campo di lavoro doveva essere grande e specializzato: nell'economia dell'URSS staliniana gli immensi complessi penitenziari, comprendenti ciascuno decine di migliaia di detenuti, erano destinati ad avere un ruolo di primaria importanza. Al primo gennaio 1935 il sistema del gulag, ormai unificato, comprendeva oltre 965 mila detenuti, 725 mila dei quali erano reclusi nei «campi di lavoro» e 240 mila nelle «colonie di lavoro», unità di ridotte dimensioni a cui erano assegnati gli individui aventi «minore pericolosità sociale», di solito condannati a pene inferiori ai tre anni.

A questa data la mappa del gulag era, a grandi linee, quella che sarebbe stata nel ventennio successivo. Il complesso penitenziario delle isole Soloveckie, con circa 45 mila detenuti, aveva proliferato con sciami di «campi volanti» che si spostavano, in funzione dei cantieri di taglio del legname, di volta in volta in Carelia, sul litorale del Mar Bianco e nella regione di Vologda. Il grande complesso dello Svirlag, con 43 mila detenuti, aveva il compito di rifornire l'agglomerato urbano di Leningrado della quantità necessaria di legname da ardere, mentre quello di Temnikovo, comprendente 35 mila detenuti, svolgeva la stessa funzione per Mosca.

Dal quadrivio strategico di Kotlas partiva una «via del nordest», che con i suoi binari, i suoi cantieri di taglio del legname e le sue miniere si spingeva verso il Vym' occidentale, Uhta, la Peciora e la Vorkuta. In questa regione dell'estremo nord l'Uhtpechlag sfruttava 51 mila detenuti per la costruzione di strade, l'estrazione del carbone e lo sfruttamento dei pozzi petroliferi. Un secondo ramo si dirigeva verso il nord degli Urali e i complessi chimici di Solikamsk e di Berezniki, mentre nel sudest l'agglomerato di campi della Siberia occidentale, con i suoi 63 mila detenuti, forniva manodopera gratuita per il complesso carbonifero di Kuzbassugol'.

Più a sud, nella regione di Karaganda, nel Kazakistan, si trovavano i «campi agricoli» dello Steplag, con 30 mila detenuti, dove si sperimentava una formula nuova per lo sfruttamento agrario delle steppe, e dove, a quanto pare, vigeva un regime meno rigoroso rispetto a quello che era il più vasto dei cantieri funzionanti a metà degli anni Trenta: lo Dmitlag (196 mila detenuti). Questo complesso cantieristico, dopo aver completato nel 1933 il canale fra il Baltico e il Mar Bianco, costruì la seconda grande canalizzazione staliniana, tra la Moscova e il Volga.

Altro cantiere di dimensioni faraoniche era il BAM (iniziali di "Bajkalo-amurskaja magistral'"), la linea ferroviaria che congiungendo il lago Bajkal al fiume Amur avrebbe raddoppiato in quel tratto la Transiberiana. All'inizio del 1935 lavoravano al primo tronco della ferrovia circa 150 mila detenuti appartenenti al complesso concentrazionario del Bamlag, suddivisi in una trentina di «divisioni». Nel 1939, con i suoi 260 mila detenuti, il Bamlag era il settore più vasto dell'universo concentrazionario sovietico. Infine, nel 1932 entro in funzione un altro gruppo di campi (il Sevvostlag, i campi del nordest), con il compito di alimentare un complesso industriale di alto valore strategico, il Dal'stroj. Quest'ultimo doveva produrre l'oro destinato all'esportazione, grazie al quale l'URSS si procurava le apparecchiature occidentali necessarie per industrializzare il paese. Le miniere d'oro si trovavano in una regione particolarmente inospitale e del tutto isolata, dato che la si poteva raggiungere soltanto per mare: la Kolyma, destinata a diventare il luogo simbolo del gulag. Magadan, capoluogo della regione e porto di sbarco dei proscritti, fu costruita dagli stessi detenuti; anche la sua strada più importante, arteria vitale di comunicazione, collegava soltanto lager, nei quali la vita era particolarmente disumana, come sappiamo dalle magistrali descrizioni dei racconti di Varlam Scialamov. Dal 1932 al 1939 la produzione di oro estratto dai detenuti della Kolyma (nel 1939 erano 138 mila) salì da 276 chilogrammi a 48 tonnellate, totalizzando il 35 per cento dell'intera produzione sovietica di quell'ultimo anno.

Nel giugno del 1935 il governo varò un nuovo grande progetto, che non poteva essere realizzato se non con manodopera forzata: la costruzione di un grande complesso per la produzione del nichel a

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Noril'sk, oltre il Circolo polare. Negli anni Cinquanta, momento del massimo sviluppo del gulag, l'insieme dei campi di concentramento di Noril'sk arrivò a comprendere fino a 70 mila detenuti. Sulle strutture interne del gulag si rifletteva con chiarezza la funzione produttiva del campo detto di «lavoro correzionale». Le direzioni centrali non erano strutturate in base a un criterio geografico o funzionale, bensì rispondevano a esigenze economiche: direzione degli impianti idroelettrici, direzione delle costruzioni ferroviarie, direzione ponti e strade eccetera. Il detenuto o il colono speciale erano una merce, oggetto di contratti stipulati fra queste direzioni penitenziarie e le direzioni dei ministeri industriali.

Nella seconda metà degli anni Trenta la popolazione del gulag raddoppiò: dai 965 mila detenuti presenti all'inizio del 1935 passò a un milione 930 mila al principio del 1941; nel solo 1937 la cifra aumentò di 700 mila unità. In quell'anno l'afflusso in massa di nuovi detenuti ebbe sulla produzione un effetto talmente dissestante da farla diminuire del 13 per cento rispetto al 1936! Anche nel 1938 si ebbe un ristagno della produzione, finché il nuovo commissario del popolo per gli Interni, Lavrentij Berija, non prese energici provvedimenti per «razionalizzare» il lavoro dei detenuti. In una nota presentata il 10 aprile 1939 all'Ufficio politico, Berija espose il proprio «programma di riorganizzazione del gulag». In sostanza, secondo la sua spiegazione, Nikolaj Ezov, che lo aveva preceduto nella carica, aveva privilegiato la «caccia ai nemici» a detrimento della «sana gestione economica»; la razione alimentare dei detenuti, di 1400 calorie giornaliere, era stata calcolata per «chi stava seduto in una cella» (7), e in tal modo, negli anni precedenti, il numero di individui idonei al lavoro era crollato: al primo marzo 1939 250 mila detenuti risultavano inabili, e l'8 per cento del totale dei prigionieri era morto nel solo 1938. Per poter realizzare il piano di produzione affidato all'N.K.V.D., Berija proponeva di accrescere le razioni alimentari, di annullare le scarcerazioni anticipate, di infliggere punizioni esemplari a tutti i lavativi e agli altri «disorganizzatori della produzione», e infine di allungare l'orario di lavoro, da portare a undici ore al giorno con tre giornate di riposo al mese, per «sfruttare in modo razionale e al massimo tutte le risorse fisiche dei detenuti».

In contrasto con una convinzione molto diffusa, gli archivi del gulag rivelano che fra la popolazione concentrazionaria si aveva una notevole rotazione, dato che ogni anno era rilasciato dal 20 al 35 per cento dei detenuti. La rotazione si spiega con il numero relativamente elevato di condannati a meno di cinque anni, che all'inizio del 1940 rappresentavano il 57 per cento di tutti i reclusi nei campi di concentramento. L'amministrazione e la giurisdizione avevano tali caratteri di eccezionalità da poter adottare provvedimenti del tutto arbitrari, per esempio nei confronti dei «politici» che erano stati incarcerati nel 1937-1938: dieci anni dopo la condanna le pene in scadenza furono reiterate senza la minima esitazione. Tuttavia, come regola generale, l'ingresso nei campi non equivaleva a un viaggio senza ritorno, anche se, per il «dopo», era prevista un'intera gamma di «pene accessorie», come il domicilio coatto o l'esilio.

In contrasto con un'altra opinione corrente, non era affatto vero che i reclusi nei campi del gulag fossero per la maggior parte detenuti politici, condannati per «attività controrivoluzionarie» ai sensi di uno dei 14 commi del famigerato articolo 58 del Codice penale. A seconda degli anni, il contingente dei politici oscillava fra un quarto e un terzo degli effettivi del gulag. Ciò nonostante, gli altri detenuti non erano «delinquenti comuni» nel senso consueto dell'espressione: si ritrovavano nel campo per aver trasgredito una delle innumerevoli leggi repressive che regolavano quasi tutti gli ambiti possibili di attività, dalla «dilapidazione della proprietà socialista» alla «contravvenzione alla legge sui passaporti», al «teppismo», alla «speculazione», fino all'«abbandono del posto di lavoro», al «sabotaggio» o anche alla «mancata esecuzione del numero minimo di giornate lavorative» nelle fattorie collettive. Per la maggior parte, i prigionieri dei campi non erano né politici né delinquenti comuni: erano soltanto «normali» cittadini, vittime del fatto che i rapporti di lavoro e un numero sempre crescente di comportamenti sociali venivano a essere regolati dal Codice penale. Era questo

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l'effetto di un decennio di attività repressiva svolta dal Partito-Stato nei confronti di settori sempre più vasti della società.

Cercheremo di fare un bilancio provvisorio dei vari aspetti di tale attività repressiva, i quali naturalmente non hanno tutti lo stesso peso.

"- 6 milioni di morti in seguito alla carestia del 1932-1933, una catastrofe in larghissima misura imputabile alla politica di collettivizzazione forzata e di rapina dei raccolti colcosiani condotta dallo Stato; - 720 mila esecuzioni, di cui oltre 680 mila soltanto negli anni 1937- 1938, decise al termine di una parodia di processo da parte di un organismo giuridico speciale della G.P.U.-N.K.V.D.; - 300 mila decessi attestati nei campi fra il 1934 e il 1940; calcolando per estrapolazione le cifre relative agli anni 1930-1933, per i quali non abbiamo dati precisi, si può ipotizzare per l'intero decennio un totale di circa 400 mila morti, senza contare il numero, non verificabile, di quanti morivano fra il momento dell'arresto e quello dell'iscrizione nell'elenco degli «ingressi» a opera della burocrazia penitenziaria; - circa 600 mila decessi attestati fra i deportati, gli «sfollati» e i coloni speciali; - circa 2 milioni 200 mila deportati, sfollati o coloni speciali; - fra il 1934 e il 1941 un totale cumulativo di ingressi nei campi e nelle colonie del gulag di 7 milioni di persone (mancano dati sufficientemente precisi per gli anni 1930-1933)".

Al primo gennaio 1940 i 53 complessi di «campi di lavoro correzionale» e le 425 «colonie di lavoro correzionale» totalizzavano un milione 670 mila detenuti; un anno dopo ne avrebbero contati un milione 930 mila. Nelle prigioni erano recluse circa 200 mila persone in attesa della sentenza o del trasferimento in un campo di lavoro. Infine, 1800 comandi dell'N.K.V.D. amministravano oltre un milione 200 mila coloni speciali. Queste poche cifre bastano a dare la misura della repressione di cui nel corso degli anni Trenta furono vittime i più disparati settori della società, anche se i numeri sono stati molto ridotti rispetto a certe valutazioni proposte fino a epoche recenti da storici o da testimoni, i quali spesso confondevano il flusso d'entrata nel gulag con il numero di detenuti presenti in una data specifica.

Dalla fine del 1939 all'estate del 1941 nei campi, nelle colonie e negli insediamenti speciali del gulag si verificò un nuovo afflusso di proscritti, un movimento connesso alla sovietizzazione di nuovi territori e a una criminalizzazione senza precedenti dei comportamenti sociali, in particolare nel mondo del lavoro.

Il 24 agosto 1939 il mondo venne a sapere, con stupore, che il giorno precedente era stato firmato un patto di non aggressione fra l'URSS staliniana e la Germania hitleriana. L'annuncio del patto provocò un vero e proprio trauma nei paesi europei che erano direttamente toccati dalla crisi, e dove l'opinione pubblica era stata colta di sorpresa da un evento che pareva un totale capovolgimento delle alleanze: pochi furono allora in grado di comprendere quel che poteva unire due regimi scaturiti da ideologie in così netto contrasto.

Il 21 agosto 1939 il governo sovietico aveva aggiornato i negoziati che conduceva con la missione anglo-francese, giunta a Mosca l'11 agosto, allo scopo di concludere un patto che impegnasse reciprocamente le tre parti contraenti nel caso in cui la Germania aggredisse una di loro. Dall'inizio del 1939 la diplomazia sovietica, guidata da Vjaceslav Molotov, si era andata sempre più raffreddando all'idea di un accordo con la Francia e la Gran Bretagna, che sospettava di essere sul punto di concludere un nuovo accordo di Monaco a spese dei polacchi: in tal modo i tedeschi avrebbero avuto campo libero a est. Mentre i negoziati fra i sovietici e gli anglo- francesi si arenavano di fronte a problemi insolubili - per esempio, se la Germania avesse aggredito la Francia,

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l'Armata rossa avrebbe attraversato la Polonia per attaccare la Germania? - i contatti a vari livelli fra rappresentanti sovietici e tedeschi prendevano una piega diversa. Il 14 agosto Ribbentrop, ministro degli Esteri tedesco, chiese di potersi recare a Mosca per concludere un accordo politico di ampia portata con i dirigenti sovietici. Il giorno dopo Stalin accettò.

Il 19 agosto tra sovietici e tedeschi fu firmato un accordo commerciale la cui trattativa era cominciata alla fine del 1938, e che si annunciava molto vantaggioso per l'URSS. Quella stessa sera i sovietici accettarono la venuta di Ribbentrop a Mosca per firmare un patto di non aggressione che da parte sovietica era stato già elaborato e subito trasmesso a Berlino. Il ministro tedesco, investito di «pieni poteri straordinari», giunse a Mosca nel pomeriggio del 23 e il patto di non aggressione, firmato nella notte, fu reso pubblico il 24: entrava in vigore immediatamente e aveva una validità di dieci anni. Beninteso si continuava a tenere segreta la parte più importante dell'accordo, che delimitava le sfere d'influenza e le annessioni dei due paesi nell'Europa dell'Est. Fino al 1989 i dirigenti sovietici hanno negato, contro ogni evidenza, l'esistenza del «protocollo segreto», un vero e proprio «delitto contro la pace» commesso dalle due potenze firmatarie. In base al testo dell'accordo, la Lituania rientrava nella sfera di interessi della Germania, l'Estonia, la Lettonia, la Finlandia, la Bessarabia appartenevano alla sfera sovietica. Rimaneva da decidere se dovesse o no continuare a esistere uno Stato polacco, sia pure di dimensioni ridotte; in ogni caso, dopo l'intervento militare dei tedeschi e dei sovietici contro la Polonia, l'URSS doveva recuperare i territori bielorussi e ucraini ceduti con il trattato di Riga del 1920, oltre a una parte dei territori «polacchi per valori storici ed etnici» nelle province di Lublino e di Varsavia.

Otto giorni dopo la firma del patto le truppe naziste aggredirono la Polonia. Una settimana dopo, il 9 settembre, mentre la resistenza polacca crollava, e in seguito alle pressioni della Germania, il governo sovietico comunicò a Berlino di voler occupare in tempi brevissimi i territori che spettavano all'URSS in base al protocollo segreto del 23 agosto. Il 17 settembre l'Armata rossa penetrò in Polonia con il pretesto di «soccorrere i fratelli di sangue ucraini e bielorussi» minacciati dalla «disgregazione dello Stato polacco». In quel momento, con l'esercito polacco quasi del tutto annientato, l'intervento sovietico trovò poca resistenza: i sovietici catturarono 230 mila prigionieri di guerra, fra i quali 15 mila ufficiali.

L'idea di tenere in piedi una parte della Polonia come Stato cuscinetto, che tedeschi e sovietici avevano ventilato in un primo momento, fu ben presto abbandonata, e ciò rese più delicato il problema di determinare la frontiera fra Germania e Unione Sovietica. Il 22 settembre il confine era stato previsto a Varsavia, sulla Vistola, ma quando Ribbentrop si recò a Mosca il 28 settembre fu invece spostato a est, fino al corso del Bug. In cambio di tale «concessione» elargita dai sovietici rispetto ai termini del protocollo segreto del 23 agosto, la Germania spostava la Lituania nella sfera di interessi dell'Unione Sovietica. La spartizione della Polonia consentì all'URSS di annettere un territorio assai esteso, di 180 mila chilometri quadrati, popolato da 12 milioni di abitanti: bielorussi, ucraini, polacchi. Il primo e 2 novembre, dopo una parvenza di consultazione popolare, queste regioni entrarono a far parte delle repubbliche sovietiche di Ucraina e di Bielorussia. All'epoca l'operazione di «pulizia» compiuta dall'N.K.V.D. era già molto avanzata. Il primo bersaglio erano i polacchi, che furono arrestati e deportati in massa come «elementi ostili»; i più esposti erano i proprietari terrieri, gli industriali, i commercianti, i funzionari, i poliziotti e i «coloni militari» ("osadnicy wojskowi"), che avevano ricevuto dal governo polacco un lotto fondiario nelle zone di frontiera come ricompensa per il servizio militare prestato nella guerra del 1920 tra Polonia e URSS. Secondo le statistiche del dipartimento del gulag relativo ai coloni speciali, tra il febbraio del 1940 e il giugno del 1941 furono deportati come coloni speciali verso la Siberia, il Kazakistan, la regione di Arcangelo e altre zone remote dell'URSS 381 mila civili polacchi, provenienti soltanto dai territori incorporati nel settembre del 1939. Gli storici polacchi fanno riferimento a cifre assai più

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elevate, intorno al milione di persone. Purtroppo non disponiamo di dati precisi per quanto riguarda gli arresti e le deportazioni di civili compiuti fra il settembre del 1939 e il gennaio del 1940.

Per il periodo successivo, i documenti di archivio oggi resi accessibili agli studiosi parlano di tre grandi «retate-deportazioni», il 9 e 10 febbraio, il 12 e 13 aprile, il 28 e 29 giugno 1940.13 I convogli impiegavano due mesi per andare e tornare dalla frontiera polacca fino alla Siberia, al Kazakistan o all'estremo nord siberiano. Per quanto riguarda i prigionieri di guerra polacchi, su 230 mila soltanto 82 mila sopravvissero fino all'estate del 1941; altrettanto ingenti furono le perdite fra i coloni speciali polacchi. Infatti, nell'agosto del 1941 il potere sovietico, avendo sottoscritto un accordo con il governo polacco in esilio, concesse una «amnistia» ai polacchi deportati dal novembre del 1939 in poi: ma sebbene tra il febbraio del 1940 e il giugno del 1941 fossero stati deportati almeno 381 mila coloni speciali, ne restavano soltanto 243100. I beneficiari dell'amnistia furono in totale 388 mila polacchi fra prigionieri di guerra, profughi internati e deportati civili; nei due anni precedenti ne erano scomparse diverse centinaia di migliaia, in gran parte giustiziati con il pretesto che si trattava di «nemici accaniti e determinati del potere sovietico».

Fra questi ultimi si contavano in particolare i 25700 ufficiali e civili polacchi ai quali si riferisce Berija in una lettera a Stalin del 5 marzo 1940, proponendo di farli fucilare. Nell'aprile del 1943 i tedeschi scoprirono, nella foresta di Katyn', una parte dei luoghi in cui erano stati ammassati i cadaveri degli uccisi: in numerose fosse erano contenuti i resti di 4000 ufficiali polacchi. Le autorità sovietiche cercarono di incolpare del massacro i nazisti, e soltanto nel 1992, in occasione della visita a Varsavia di Boris El'cin, le autorità russe riconobbero che nell'eliminazione dell'élite polacca compiuta nel 1940 la responsabilità era imputabile direttamente a Stalin e ai membri dell'Ufficio politico.

Subito dopo aver annesso le regioni già appartenenti alla Polonia, e in conformità agli accordi sottoscritti con la Germania nazista, il governo sovietico convocò a Mosca i capi dei governi estone, lettone e lituano, costringendoli ad accettare «trattati di mutua assistenza» in virtù dei quali i loro paesi «concedevano» all'Unione Sovietica l'uso di basi militari. Subito dopo fu insediato in Estonia un contingente di 25 mila soldati sovietici, un secondo in Lettonia di 30 mila, un terzo in Lituania di 20 mila, per un totale di gran lunga superiore al numero di effettivi che componevano le forze armate dei tre paesi baltici, ancora ufficialmente in possesso della loro indipendenza. In realtà la fine di tale indipendenza fu segnata proprio dall'insediamento delle truppe sovietiche, avvenuto nell'ottobre del 1939: dal giorno 11 di quel mese Berija dette ordine di «estirpare [dall'Estonia, dalla Lituania e dalla Lettonia] tutti gli elementi antisovietici e antisociali», e da quel momento in poi la polizia militare sovietica si accanì ad arrestare in numero sempre maggiore gli ufficiali, funzionari e intellettuali considerati poco «fidati» in vista degli ulteriori obiettivi che l'URSS si proponeva.

___________________________________________________________ [Box: LETTERA A STALIN DI L. BERIJA, commissario del popolo per gli Affari interni, del 5 marzo 1940; segretissimo.

"Al compagno Stalin. E' attualmente detenuto nei campi per prigionieri di guerra, sotto custodia dell'N.K.V.D. dell'URSS, e in prigioni situate nelle regioni occidentali dell'Ucraina e della Bielorussia, un gran numero di ex ufficiali dell'esercito polacco, di ex funzionari di polizia e dei servizi di informazione polacchi, di membri dei partiti nazionalisti controrivoluzionari, di membri di organizzazioni controrivoluzionarie dell'opposizione, debitamente smascherati, di transfughi e di altri: tutti nemici giurati del potere sovietico e traboccanti di odio contro il sistema sovietico. Gli ufficiali dell'esercito e della polizia reclusi nei campi di concentramento cercano di proseguire

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le loro attività controrivoluzionarie e animano la propaganda antisovietica. Ciascuno di loro non aspetta che di essere liberato per intraprendere la vera e propria lotta contro il potere sovietico. Gli organi dell'N.K.V.D. nelle regioni occidentali dell'Ucraina e della Bielorussia hanno scoperto un numero considerevole di organizzazioni controrivoluzionarie ribelli: gli ex ufficiali dell'esercito e della polizia polacchi svolgono una funzione attiva a capo di tutte queste organizzazioni. Fra gli ex transfughi e coloro che hanno varcato illegalmente le frontiere dello Stato figura un notevole numero di persone che sono state identificate come affiliate a organismi controrivoluzionari di spionaggio e di resistenza. Nei campi di concentramento per prigionieri di guerra sono detenuti 14736 fra ufficiali, funzionari, proprietari terrieri, poliziotti, gendarmi, guardie carcerarie, coloni insediati nelle regioni di frontiera (osadnik) e agenti del servizio informazioni (polacchi per il 97 per cento). Da tale cifra sono esclusi sia i soldati semplici sia i sottufficiali. Nel dettaglio, vi sono compresi: - generali, colonnelli e tenenti colonnelli: 295 - comandanti e capitani: 2080 - tenenti, sottotenenti e aspiranti: 6049 - ufficiali e sottufficiali della polizia, delle guardie confinarie e della gendarmeria: 1030 - agenti di polizia, gendarmi, guardie carcerarie e agenti del servizio informazioni: 5138 - funzionari, proprietari terrieri, sacerdoti e coloni delle regioni di frontiera: 144

Inoltre, nelle prigioni delle regioni occidentali dell'Ucraina e della Bielorussia sono detenuti 18632 uomini (di cui 10685 polacchi). Nel dettaglio sono costituiti da: - ex ufficiali: 1207 - ex agenti del servizio informazioni, della polizia e della gendarmeria: 5141 - spie e sabotatori: 347 - ex proprietari terrieri, proprietari di impianti industriali e funzionari: 465 - membri di diverse organizzazioni controrivoluzionarie di resistenza ed elementi diversi: 5345 - transfughi: 6127

Dal momento che tutti costoro sono nemici accaniti e irriducibili del potere sovietico, l'N.K.V.D. dell'URSS stima necessario: 1. Disporre che l'N.K.V.D. dell'URSS deferisca al giudizio dei tribunali speciali: a. 14.700 detenuti nei campi di concentramento per prigionieri di guerra, popolati da ex ufficiali, funzionari, proprietari terrieri, agenti di polizia, agenti dei servizi informazioni, gendarmi, coloni delle regioni di frontiera e guardie carcerarie; b. e inoltre 11 mila individui affiliati alle diverse organizzazioni controrivoluzionarie di spie e sabotatori, ex proprietari terrieri e proprietari di impianti industriali, ex ufficiali dell'esercito polacco, funzionari e transfughi, che sono stati arrestati e sono detenuti nelle prigioni delle regioni occidentali dell'Ucraina e della Bielorussia,

per APPLICARE A TUTTI COSTORO IL CASTIGO SUPREMO: LA PENA DI MORTE PER FUCILAZIONE. 2. Che l'esame dei singoli incartamenti sia compiuto senza convocazione dei detenuti e senza atto di accusa; le conclusioni dell'istruttoria e la sentenza finale saranno presentate nei modi seguenti: a. per quanto riguarda gli individui detenuti nei campi di concentramento per prigionieri di guerra, sotto forma di certificati presentati dall'amministrazione preposta agli Affari dei prigionieri di guerra dell'N.K.V.D. dell'URSS; b. per quanto riguarda gli altri arrestati, sotto forma di certificati presentati dall'N.K.V.D. della R.S.S. di Ucraina e dall'N.K.V.D. della R.S.S. di Bielorussia.

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3. Che gli incartamenti siano esaminati, e le sentenze emanate, da un tribunale composto da tre persone, i compagni Merkulov, Kobulov e Bashtalov. Il commissario del popolo per gli Affari interni dell'URSS, L. Berija]

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Nel giugno del 1940, subito dopo la vittoriosa offensiva lampo sferrata in Francia dalle truppe tedesche, il governo sovietico decise di tradurre in atti concreti tutte le clausole del protocollo segreto concordato con Ribbentrop il 23 agosto 1939. Il 14 giugno, prendendo come pretesto alcuni «atti di provocazione contro le guarnigioni sovietiche», inviò un ultimatum ai dirigenti dei paesi baltici, intimando loro di costituire «un governo disposto a garantire l'onesta applicazione del trattato di assistenza e a mettere in condizioni di non nuocere gli avversari del suddetto trattato». Nei giorni che seguirono, varie centinaia di migliaia di soldati sovietici occuparono le repubbliche del Baltico. Stalin mandò i suoi rappresentanti nelle rispettive capitali, con l'incarico di avviare la sovietizzazione dei tre paesi: il procuratore Vyscinskij a Riga, Zdanov a Tallinn, e a Kaunas il dirigente della polizia politica Dekanozov, viceministro per gli Affari esteri dell'URSS. I parlamenti e le istituzioni locali furono sciolti, e quasi tutti i loro membri arrestati; il Partito comunista fu il solo autorizzato a presentare candidati alle «elezioni», che ebbero luogo il 14 e 15 luglio 1940.

Nelle settimane che precedettero queste elezioni farsa, l'N.K.V.D., diretto dal generale Serov, arrestò gli «elementi ostili» per un totale oscillante fra le 15 mila e le 20 mila unità. Nella sola Lettonia ai primi di luglio furono giustiziati senza processo 1480 oppositori. I parlamenti usciti dalle elezioni sollecitarono l'ammissione dei rispettivi paesi nella federazione dell'URSS; beninteso, la richiesta fu senz'altro «accolta» dal Soviet supremo, che ai primi di agosto proclamò la nascita di tre nuove repubbliche socialiste sovietiche. Mentre la «Pravda» dell'8 agosto pubblicava frasi come questa: «Il sole della grande Costituzione staliniana estende ormai i suoi benefici raggi su nuovi territori e nuovi popoli», per le popolazioni baltiche si apriva un'epoca di arresti, di deportazioni e di esecuzioni.

Negli archivi sono custoditi tutti i particolari di una grande operazione di deportazione degli elementi socialmente ostili dai paesi baltici, dalla Moldavia, dalla Bielorussia e dall'Ucraina occidentale, messa in atto nella notte fra il 13 e il 14 giugno 1941 da militari al comando del generale Serov. L'iniziativa era stata pianificata con alcune settimane di anticipo: il 16 maggio 1941 Berija aveva presentato a Stalin il suo ultimo progetto per una «operazione che ha il fine di ripulire le regioni di recente integrate nell'URSS dagli elementi antisovietici, estranei alla società e criminali». Nel giugno del 1941 avrebbero dovuto essere deportate 85716 persone in tutto, fra le quali 25711 provenienti dai paesi baltici. Merkulov, il numero due dell'N.K.V.D., stilò il bilancio dell'operazione per la parte riguardante le repubbliche baltiche in un rapporto datato 17 luglio 1941. Nella notte fra il 13 e il 14 giugno 1941 furono deportate 11038 persone appartenenti a famiglie di «nazionalisti borghesi», 3240 appartenenti a famiglie di ex gendarmi e poliziotti, 7124 appartenenti a famiglie di ex proprietari terrieri, di industriali o di funzionari, 1649 appartenenti a famiglie di ex ufficiali, e infine 2907 «vari»: in base a questo documento è del tutto palese che in via preliminare erano stati arrestati, e probabilmente giustiziati, i capifamiglia. Infatti l'operazione del 13 giugno mirava a colpire soltanto i «membri delle famiglie» giudicate «estranee alla società». Ciascun gruppo familiare aveva diritto a portare con sé cento chili di bagagli, in cui erano comprese riserve alimentari sufficienti per un mese, in quanto l'N.K.V.D. non si assumeva l'onere del vettovagliamento durante il viaggio! Soltanto alla fine di luglio del 1941 i convogli giunsero alla loro meta, che nella maggior parte dei casi si trovava nella provincia di Novosibirsk o nel Kazakistan; e quelli che erano destinati a essere deportati nella regione dell'Altaj non vi giunsero prima della metà di settembre. Quanti deportati morirono, nel corso di un viaggio durato tra le sei e le dodici settimane, compiuto in carri bestiame in cui erano stipati in cinquanta, con le poche cose,

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tra alimenti ed effetti personali, che avevano potuto prendere con sé la notte dell'arresto? Berija aveva progettato un'altra operazione su vasta scala per la notte tra il 27 e il 28 giugno 1941: la scelta della data conferma che i massimi dirigenti dello Stato sovietico non avevano il minimo sentore dell'attacco sferrato dai tedeschi il 22 giugno. A causa dell'Operazione Barbarossa l'N.K.V.D. dovette posticipare di alcuni anni il proseguimento della sua opera di «ripulitura» delle repubbliche baltiche.

Pochi giorni dopo aver occupato i paesi del Baltico, il governo sovietico con un ultimatum ingiunse alla Romania di «restituire» immediatamente la Bessarabia, a suo tempo facente parte dell'impero zarista e citata nel protocollo segreto sottoscritto da URSS e Germania il 23 agosto 1939. Inoltre l'ultimatum esigeva che fosse annessa all'URSS anche la Bucovina settentrionale, mai appartenuta all'impero zarista. I romeni, abbandonati dai tedeschi, dovettero assoggettarsi; l'Ucraina incorporò nel proprio territorio la Bucovina e parte della Bessarabia: quanto rimaneva del territorio di quest'ultima regione divenne la repubblica socialista sovietica di Moldavia, proclamata il 2 agosto 1940. Nello stesso giorno un assistente di Berija, Kobulov, firmava l'ordine di deportazione riguardante 31699 «elementi antisovietici» che vivevano nei territori della neonata R.S.S. di Moldavia e di altri 12191 «elementi antisovietici» provenienti dalle regioni romene annesse alla R.S.S. d'Ucraina. Tali «elementi» erano stati scrupolosamente schedati nel giro di pochi mesi grazie a una tecnica collaudatissima; e il giorno prima, il primo agosto del 1940, di fronte al Soviet supremo Molotov aveva tracciato un quadro trionfalistico delle acquisizioni scaturite dall'intesa fra tedeschi e sovietici: in un anno erano stati incorporati nell'URSS 23 milioni di abitanti.

Tuttavia, l'anno 1940 è memorabile anche per un altro motivo: perché segna un record nella cifra totale di prigionieri del gulag, di deportati, di detenuti nelle carceri sovietiche, di condannati per reati penali. Il primo gennaio del 1941 risultavano rinchiusi nei campi del gulag un milione 930 mila individui, con un aumento di 270 mila unità rispetto all'anno precedente; nei territori «sovietizzati» erano state deportate oltre 500 mila persone, che si sommavano a un milione 200 mila coloni speciali registrati alla fine del 1939; nelle prigioni sovietiche, in teoria destinate a contenere 234 mila persone, erano rinchiusi oltre 462 mila individui; infine, nel 1940 il totale di condanne pronunciate per reati penali risulta aver subito in un anno un'impennata eccezionale: da circa 700 mila a quasi 2 milioni 300 mila.

Un aumento così spettacolare nasceva dal fatto che i rapporti sociali erano soggetti a una criminalizzazione senza precedenti. Per il mondo del lavoro il 1940 era destinato a rimanere nella memoria collettiva come quello in cui era stato emanato il Decreto del 26 giugno «sull'adozione della giornata di otto ore, della settimana di sette giorni e sul divieto fatto ai lavoratori di abbandonare di propria iniziativa il luogo di lavoro». Ogni assenza ingiustificata, a partire dai ritardi che superassero i venti minuti, era punita in base al Codice penale: il contravventore poteva essere condannato a sei mesi di «lavoro correzionale» senza privazione della libertà e a una trattenuta del 25 per cento sul salario, pena che poteva essere aggravata dalla carcerazione per un periodo da due a quattro mesi. Il 10 agosto 1940 un nuovo decreto comminava la reclusione in campo di lavoro per un periodo da uno a tre anni per gli «atti di teppismo», la produzione di articoli di scarto e i piccoli furti sul lavoro: date le condizioni in cui operava l'industria sovietica, qualunque operaio poteva cadere sotto la mannaia di questa nuova «legge scellerata». Tali decreti, che sarebbero rimasti in vigore fino al 1956, segnavano un ulteriore passo avanti nel processo che accentuava l'ingerenza del Codice penale nel diritto del lavoro. Nei primi sei mesi dalla loro entrata in vigore si ebbe la condanna di oltre un milione e mezzo di persone, a circa 400 mila delle quali fu comminata una pena detentiva: ciò spiega il fortissimo aumento di reclusi nelle carceri dopo l'estate del 1940. Il numero di teppisti condannati a essere rinchiusi nei campi di lavoro passò da 108 mila nel 1939 a 200 mila nel 1940. Quindi alla fine del Grande terrore si ricollegò una nuova offensiva, come non se ne erano viste dal 1932, contro la gente comune, che rifiutava di piegarsi alla disciplina della

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fabbrica o del kolhoz. A giudicare dai rapporti presentati dagli informatori dell'N.K.V.D., per reazione alle leggi scellerate dell'estate 1940 un notevole numero di operai dette prova di «animo depravato», in particolare durante le prime settimane dell'invasione nazista. Gli operai descritti nei rapporti non esitavano ad auspicare «l'eliminazione di ebrei e comunisti» e, nel caso di un operaio moscovita le cui parole erano state riferite all'N.K.V.D., diffondevano «dicerie da provocatori»: «Quando Hitler prende le nostre città fa attaccare dei manifesti che dicono: io non farò come il vostro governo, che spedisce gli operai davanti al giudice quando arrivano sul lavoro con ventun minuti di ritardo». Affermazioni di questo genere ricevevano le sanzioni più severe, come appare da un rapporto del procuratore generale militare su «crimini e reati commessi sulle ferrovie tra il 22 giugno e il primo settembre 1941», in cui si elencano 2524 sentenze di condanna, fra cui 204 capitali; inoltre, ben 412 di queste condanne riguardano la «diffusione di voci dal contenuto controrivoluzionario»: per tale reato furono condannati a morte 110 ferrovieri.

Di recente è stata pubblicata a Mosca una raccolta di documenti che descrivono lo «stato d'animo del pubblico» di Mosca durante i primi mesi di guerra. vi si sottolinea lo smarrimento della «gente comune» di fronte all'avanzata tedesca dell'estate del 1941. Sembra che i moscoviti fossero stati divisi in tre gruppi: i «patrioti», una «palude» in cui tutte le voci nascevano e si diffondevano, e i «disfattisti», che si auguravano la vittoria dei tedeschi su «bolscevichi ed ebrei», assimilati e detestati. Nell'ottobre del 1941, quando le fabbriche furono smantellate per poter evacuare gli impianti industriali nelle regioni orientali, in alcune imprese tessili della regione di Ivanovo scoppiarono «disordini antisovietici». I discorsi disfattisti di certi operai la dicevano lunga sul senso di disperazione che aveva invaso una parte del mondo operaio, costretto dal 1940 ad assoggettarsi a una legislazione sempre più dura. Tuttavia la barbarie nazista, che non prospettava alcun futuro ai «sottouomini» sovietici, destinati dai nazisti allo sterminio, o nel migliore dei casi alla schiavitù, finì col riconciliare la gente comune con il regime, in un forte slancio di entusiasmo patriottico. Con grande abilità, Stalin seppe riaffermare con forza i valori russi, quelli della nazione e della patria. Nel celebre discorso trasmesso per radio il 3 luglio 1941 si era rivolto al popolo con l'antica invocazione che attraverso i secoli aveva cementato la comunità nazionale: «Fratelli e sorelle, un grave pericolo minaccia la nostra patria». I richiami alla «grande Nazione russa di Plehanov, Lenin, Pushkin, Tolstoj, Ciajkovskij, Cehov, Lermontov, Suvorov e Kutuzov» dovevano servire a sostenere la «guerra santa», la «grande guerra patriottica». Il 7 novembre 1941, nel passare in rassegna i battaglioni di volontari in partenza per il fronte, Stalin li esortò a battersi ispirandosi al «glorioso esempio dei nostri avi, Aleksandr Nevskij e Dmitrij Donskoj»: il primo aveva salvato la Russia del tredicesimo secolo dai cavalieri teutonici, mentre nel secolo successivo il secondo era riuscito a porre fine al giogo tataro.

12. L'ALTRA FACCIA DELLA VITTORIA Un segreto particolarmente ben custodito ha rappresentato a lungo uno dei molti «spazi bianchi» della storia sovietica: il fatto che durante la «Grande guerra patriottica» popoli interi siano stati deportati, in quanto la collettività alla quale appartenevano era sospettata di «atti di diversione, spionaggio e collaborazionismo» a favore degli occupanti nazisti. Prima che le autorità cominciassero ad ammettere che nell'accusa di «collaborazione collettiva» si erano verificati «eccessi» e «generalizzazioni» si dovette arrivare alla fine degli anni Cinquanta. Negli anni Sessanta fu ripristinato lo statuto giuridico di un certo numero di repubbliche autonome cancellate dalla carta geografica per aver collaborato con l'occupante. Tuttavia, soltanto nel 1972 gli appartenenti ai popoli deportati ricevettero finalmente una teorica autorizzazione a «scegliere liberamente il proprio domicilio», e soltanto nel 1989 i tatari di Crimea furono pienamente «riabilitati». Fino a metà degli anni Sessanta, la progressiva abrogazione delle sanzioni inflitte ai «popoli puniti» avvenne nella massima segretezza, e i decreti anteriori al 1964 non furono mai pubblicati. Perché finalmente lo Stato sovietico riconoscesse «la criminale illegalità delle barbarie

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commesse dal regime staliniano nei confronti dei popoli deportati in massa» si dovette attendere la dichiarazione del Soviet supremo del 14 novembre 1989.

Il primo gruppo etnico a subire la deportazione collettiva fu quello tedesco, poche settimane dopo l'invasione dell'URSS a opera della Germania nazista. Secondo il censimento del 1939, in URSS vivevano un milione 427 mila tedeschi, discendenti per la maggior parte dai coloni chiamati a popolare gli immensi territori disabitati della Russia meridionale da Caterina Seconda, originaria dell'Assia. Nel 1924 il governo sovietico aveva creato una Repubblica autonoma dei tedeschi del Volga, tuttavia questo gruppo etnico, composto da circa 370 mila persone, rappresentava soltanto un quarto della popolazione di origine tedesca, ripartita fra la Russia (nelle province di Saratov, Stalingrado, Voronez, Mosca, Leningrado eccetera), l'Ucraina (390 mila persone), il Caucaso settentrionale (nelle province di Krasnodar, Ordzonikidze, Stavropol'), e presente perfino in Crimea o in Georgia. Il 28 agosto 1941 il presidium del Soviet supremo approvò un decreto in base al quale tutta la popolazione tedesca della Repubblica autonoma del Volga, delle province di Saratov e di Stalingrado, doveva essere deportata in Kazakistan e in Siberia. Secondo il testo del decreto, si trattava di una misura preventiva ispirata da motivi umanitari!

___________________________________________________________ [Box: ESTRATTO del decreto emanato dal presidium del Soviet supremo il 28 agosto 1941, riguardante la deportazione collettiva dei tedeschi.

Da informazioni degne di fede raccolte dalle autorità militari risulta che la popolazione tedesca insediata nella regione del Volga ospita al suo interno migliaia e decine di migliaia di sabotatori e di spie, le quali al primo segnale proveniente dalla Germania dovranno organizzare attentati nelle zone di residenza dei tedeschi del Volga. Poiché nessuno ha notificato alle autorità sovietiche la presenza di una tale quantità di sabotatori e di spie fra i tedeschi del Volga, se ne deduce che la popolazione tedesca del Volga occulta nel proprio seno i nemici del popolo e del potere sovietico... Se nella Repubblica dei tedeschi del Volga o nei distretti limitrofi si verificheranno atti di sabotaggio compiuti su ordine della Germania da sabotatori e spie tedesche, scorrerà il sangue e il governo sovietico, in conformità alle leggi vigenti in tempo di guerra, sarà costretto a infliggere provvedimenti punitivi all'intera popolazione tedesca del Volga. Per evitare tale deplorevole situazione e gravi spargimenti di sangue, il presidium del Soviet supremo dell'URSS ha stimato necessario trasferire in altre zone tutta la popolazione tedesca residente nella regione del Volga, assegnandole dei terreni e un soccorso dello Stato per insediarla nelle nuove contrade. Si indicano come luoghi di destinazione di tale trasferimento i distretti delle regioni di Novosibirsk e di Omsk, del territorio dell'Altaj, del Kazakistan e di altre regioni limitrofe, dove le terre abbondano.]

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Mentre l'Armata rossa arretrava su tutti i fronti e le perdite quotidiane di combattenti, uccisi o fatti prigionieri, si contavano a decine di migliaia, per attuare la deportazione di questi gruppi Berija distaccò circa 14 mila uomini dalle truppe dell'N.K.V.D., assegnando il comando al vicecommissario del popolo per gli Affari interni, il generale Ivan Serov, che si era già distinto nella «ripulitura» dei paesi baltici. Considerando le circostanze e la disfatta senza precedenti dell'Armata rossa, le operazioni furono sbrigate con risolutezza. Fra il 3 e il 20 settembre 1941 furono deportati 446480 tedeschi, suddivisi in 230 convogli di 50 vagoni in media: circa 2000 persone per convoglio! Spostandosi a una velocità media di pochi chilometri orari, i convogli impiegavano fra le quattro e le otto settimane per arrivare a destinazione: nelle province di Omsk e Novosibirsk, in quella di Barnaul, nella Siberia meridionale, e nel territorio di Krasnojarsk, in Siberia orientale. Come era già

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accaduto nelle precedenti deportazioni dei popoli baltici, secondo le direttive ufficiali gli «sfollati» avevano avuto «un preciso lasso di tempo [sic] per prendere con sé provviste e vettovaglie sufficienti a un periodo di almeno un mese»!

Mentre si svolgeva l'«operazione principale» della deportazione, si succedevano le «operazioni secondarie» della stessa natura, determinate dalle contingenti necessità militari. Già il 29 agosto 1941 Molotov, Malenkov e Zdanov proposero a Stalin di «ripulire» la provincia e la città di Leningrado da 96 mila individui di origine tedesca e finlandese. Il 30 agosto le truppe tedesche giunsero alla Neva e interruppero le comunicazioni ferroviarie tra Leningrado e il resto del paese. Di giorno in giorno si faceva sempre più concreta la minaccia di un assedio della città, senza che le autorità competenti avessero provveduto a predisporre l'evacuazione della popolazione civile di Leningrado, né ad assicurare le riserve alimentari necessarie. Nondimeno, quello stesso 30 agosto Berija firmò una circolare che ordinava la deportazione di 132 mila persone della provincia leningradese, 96 mila in treno e 36 mila per via fluviale. L'N.K.V.D. fece in tempo ad arrestare e a deportare soltanto 11 mila cittadini sovietici di nazionalità tedesca.

Nelle settimane seguenti, analoghe operazioni si svolsero nelle province di Mosca (9640 tedeschi deportati il 15 settembre), Tula (2700 il 21 settembre), Gor'kij (3162 il 14 settembre), Rostov (38288 fra il 10 e il 20 settembre), Zaporoz'e (31320 dal 25 settembre al 10 ottobre), Krasnodar (38136 alla data del 15 settembre), Ordzonikidze (77570 al 20 settembre). Durante il mese di ottobre del 1941 la deportazione colpì ancora oltre 10 mila tedeschi residenti in Georgia, Armenia, Azerbaigian, nel Caucaso settentrionale e in Crimea. Da una valutazione in cifre dell'evacuazione dei tedeschi risulta che alla data del 25 dicembre 1941 erano state deportate 894600 persone, perlopiù nel Kazakistan e in Siberia; se si tiene conto dei tedeschi deportati nel 1942, il totale arriva a un milione 209430 unità, frutto di meno di un anno di operazioni, dall'agosto del 1941 al giugno del 1942. Ricordiamo che, secondo il censimento del 1939, la popolazione tedesca nell'URSS era costituita da un milione 427 mila persone. Fu quindi deportato oltre l'82 per cento dei tedeschi sparsi sul territorio sovietico, nello stesso momento in cui la situazione catastrofica del paese, sull'orlo dell'annientamento, avrebbe richiesto che i contingenti militari e di polizia concentrassero tutti gli sforzi nella lotta armata contro il nemico anziché essere impiegati nella deportazione di centinaia di migliaia di innocenti cittadini sovietici. In realtà la percentuale di cittadini sovietici di origine tedesca colpiti dal provvedimento era ancora più alta, se si tiene conto delle decine di migliaia di soldati e ufficiali di origine tedesca espulsi dai ranghi dell'Armata rossa e trasferiti nei battaglioni di disciplina dell'«Armata del lavoro», operante a Vorkuta, Kotlass, Kemerovo, Celjabinsk. In quest'ultima città, oltre 25 mila tedeschi lavoravano per costruire un complesso industriale metallurgico. Occorre precisare che nei battaglioni di disciplina le condizioni di vita e di lavoro erano del tutto analoghe a quelle del gulag.

Quanti deportati scomparvero durante il viaggio di trasferimento? Oggi non abbiamo ancora a disposizione la cifra complessiva, mentre la guerra e le violenze di quel periodo apocalittico impediscono di aggregare i dati sparsi relativi all'uno o all'altro convoglio. Ma nel caos dell'autunno del 1941, quanti dovettero essere i convogli che non giunsero mai a destinazione? Secondo il «piano», 29600 deportati tedeschi sarebbero dovuti giungere nella provincia di Karaganda verso la fine di novembre, ma nel conteggio stilato al primo gennaio 1942 si calcolano soltanto 8304 arrivi. Per la provincia di Novosibirsk il «piano» prevedeva 130998 individui, ma ne furono censiti soltanto 116612. Dov'erano finiti gli altri? Erano morti durante il viaggio? Erano stati mandati altrove? Nella regione dell'Altaj, in cui era stato «pianificato» di accogliere 11 mila deportati, ne arrivarono 94799! I rapporti dell'N.K.V.D. sull'insediamento dei deportati sono assai più eloquenti di questa sinistra aritmetica: sottolineano infatti all'unanimità quanto fossero «impreparate le regioni ad accoglierli».

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Per obbligo di segretezza l'arrivo imminente di decine di migliaia di deportati fu annunciato alle autorità locali soltanto all'ultimo momento. Poiché non si erano potuti allestire alloggi, nonostante l'inverno incipiente i deportati furono acquartierati dove capitava: in baracche, nelle stalle o all'aria aperta. Tuttavia, dal momento che la mobilitazione aveva mandato al fronte gran parte della manodopera di sesso maschile, e che le autorità, in dieci anni, avevano avuto modo di farsi una certa esperienza in materia, l'«assegnazione economica» dei nuovi arrivati fu attuata in tempi più rapidi rispetto a quanto era avvenuto con i kulak deportati nel 1930 e abbandonati in mezzo alla taiga. Nel giro di pochi mesi la maggior parte dei deportati fu sistemata come gli altri coloni speciali, ossia in situazioni abitative, di lavoro e di approvvigionamento caratterizzate da particolare precarietà e durezza, e di solito alle dipendenze di un comando dell'N.K.V.D., di un kolhoz, di un sovhoz o di un complesso industriale .

***

Fra il novembre del 1943 e il giugno del 1944, alla deportazione dei tedeschi seguì una seconda, massiccia ondata di deportazioni. Sei popoli - i ceceni, gli ingusci, i tatari di Crimea, i caraciai, i balcari e i calmucchi - furono deportati in Siberia, in Kazakistan, in Uzbekistan e in Kirghizistan, colpiti dall'accusa pretestuosa di «avere collaborato in massa con l'occupante nazista». Fra il luglio e il dicembre del 1944 questa ondata principale, che travolse oltre 900 mila persone, fu seguita da altre operazioni, destinate a «ripulire» la Crimea e il Caucaso da altri gruppi nazionali ritenuti «di dubbia lealtà»: i greci, i bulgari, gli armeni di Crimea, i turchi mescheti, i curdi e i chemscini del Caucaso.

Per quanto riguarda il «collaborazionismo» con i nazisti, di cui si sarebbero macchiati i popoli delle montagne del Caucaso, i calmucchi e i tatari di Crimea, gli archivi e i documenti resi da poco accessibili agli studiosi non hanno portato nessuna nuova certezza. Su questo punto, perciò, dobbiamo limitarci a ricordare un certo numero di fatti che permettono soltanto di presumere, per induzione, l'esistenza di ristretti nuclei di collaborazionisti (in Crimea, nella Repubblica autonoma dei calmucchi, nella provincia autonoma dei caraciai e circassi e nella Repubblica autonoma di Cabardino-Balcaria), ma non quella di una situazione generale di collaborazionismo configurabile in una vera e propria politica. Gli episodi di collaborazionismo più controversi si riferiscono al luglio del 1942, quando l'Armata rossa aveva perduto Rostov sul Don, e all'occupazione tedesca del Caucaso, dall'estate del 1942 alla primavera del 1943. Nell'intervallo fra la partenza dei sovietici e l'arrivo dei nazisti, per colmare il vuoto di potere alcuni personaggi locali costituirono dei «comitati nazionali»: così avvenne a Mikojan-Sahar, nella provincia autonoma dei caraciai e circassi, a Nal'cik, nella Repubblica autonoma di Cabardino-Balcaria, e a Elista, nella Repubblica autonoma dei calmucchi. L'esercito tedesco riconobbe l'autorità dei comitati locali, che per qualche mese poterono godere di una certa autonomia in materia di economia, politica e religione. E poiché l'esperienza del Caucaso aveva alimentato ancor più il «mito musulmano» vagheggiato dal potere di Berlino, a Simferopol' i tatari di Crimea furono autorizzati dai tedeschi a creare un proprio «Comitato centrale musulmano».

Tuttavia, nel timore di dover fronteggiare una rinascita del movimento panturanico, stroncato dal potere sovietico nei primi anni Venti, le autorità naziste non accordarono mai ai tatari di Crimea l'autonomia di cui per qualche mese beneficiarono i calmucchi, i caraciai e i balcari. In cambio di una dose di autonomia concessa col contagocce, le autorità locali dovettero radunare un certo contingente di truppe per combattere i partigiani rimasti fedeli al regime sovietico, che si erano dati alla macchia. Si trattò complessivamente di alcune migliaia di uomini che componevano unità dal ridotto numero di effettivi: sei battaglioni tatari in Crimea e un corpo di cavalleria calmucca. Per quanto riguarda la Repubblica autonoma di Ceceno-Inguscezia, i nazisti ne occuparono soltanto zone molto limitate e per una decina di settimane appena, fra i primi di settembre e la metà di

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novembre del 1942; qui non vi fu ombra di collaborazionismo, ma è pur sempre vero che il popolo ceceno, avendo resistito alla colonizzazione dell'impero russo fino al 1859, anno della capitolazione, era rimasto indomito anche sotto il potere sovietico. Nel marzo-aprile del 1930, e ancora nell'aprile-maggio del 1932, per sopraffare i «banditi» contro i quali combattevano, le truppe speciali dell'N.K.V.D. avevano dovuto ricorrere all'artiglieria e all'aviazione. Esisteva quindi un pesante contenzioso tra il potere centrale e questo popolo indipendente che aveva sempre respinto la tutela di Mosca.

Le cinque grandi retate-deportazioni, che si verificarono fra il novembre del 1943 e il maggio del 1944, si svolsero secondo un procedimento collaudatissimo e, a differenza delle prime deportazioni di kulak, «con notevole efficienza operativa», secondo l'espressione usata dallo stesso Berija. La fase di «preparazione logistica» fu organizzata con cura per varie settimane, sotto la personale supervisione di Berija e dei suoi assistenti Ivan Serov e Bogdan Kobulov, presenti sul posto con il loro treno speciale blindato. Il numero di convogli da allestire era impressionante: 46 convogli di 60 vagoni ciascuno per deportare 93139 calmucchi in quattro giorni, dal 27 al 30 dicembre 1943, e 194 convogli di 65 vagoni ciascuno per deportare 521247 ceceni e ingusci in sei giorni, dal 23 al 28 febbraio 1944. Per queste operazioni di carattere eccezionale l'N.K.V.D. non lesinò i mezzi. In un momento in cui la guerra era nella sua fase cruciale, per il rastrellamento di ceceni e ingusci furono impiegati non meno di 119 mila uomini appartenenti alle truppe speciali dell'N.K.V.D.!

Le operazioni, di cui erano stati «cronometrati» i tempi ora per ora, cominciavano con l'arresto degli «elementi potenzialmente pericolosi», ossia di una quota compresa fra l'1 e il 2 per cento della popolazione, composta in massima parte da vecchi, donne e bambini, poiché la maggioranza degli uomini validi era sotto le armi. Se vogliamo credere ai «rapporti operativi» spediti a Mosca, tutto si svolse con grande celerità. Per esempio, durante il rastrellamento dei tatari di Crimea, fra il 18 e il 20 maggio 1944, la sera del primo giorno Kobulov e Serov, responsabili dell'operazione, telegrafarono a Berija: «Alle 20 di oggi abbiamo effettuato il trasferimento di 90 mila individui alle stazioni. Sono già partiti 17 convogli che portano a destinazione 48 mila individui; per 25 convogli sono in corso le operazioni di carico. L'operazione non ha provocato alcun incidente. L'operazione prosegue». Il giorno dopo, 19 maggio, Berija informò Stalin che al termine della seconda giornata si trovavano radunati nelle stazioni 165515 individui, 136412 dei quali erano stati caricati sui convogli partiti verso «la destinazione specificata nelle direttive». Il terzo giorno, 20 maggio, Serov e Kobulov inviarono a Berija un telegramma per comunicargli che alle 16.30 l'operazione si era conclusa. In totale stavano per mettersi in viaggio 63 convogli con 173287 persone; quella sera stessa sarebbero partiti gli ultimi quattro convogli con le rimanenti 6727.

A giudicare dai rapporti stilati dai burocrati dell'N.K.V.D., le operazioni necessarie per riuscire a deportare centinaia di migliaia di persone non sarebbero state altro che pure formalità: tant'è vero che ognuna di esse appariva più «riuscita», più «efficiente», più «economica» della precedente. Dopo la deportazione di ceceni, ingusci e balcari, un certo Mil'shtejn, funzionario dell'N.K.V.D., compilò un lungo rapporto sulle... «economie di vagoni, tavole, secchi e badili ... ottenute nelle ultime deportazioni rispetto alle precedenti»:

"L'esperienza acquisita durante il trasporto dei caraciai e dei calmucchi ci ha dato la possibilità di dare disposizioni tali da ridurre le esigenze per quanto riguarda il numero di convogli e il numero di viaggi da compiere. In ogni vagone bestiame abbiamo collocato 45 persone invece delle 40 assegnate in precedenza, e avendo caricato insieme a loro i bagagli personali, abbiamo economizzato una notevole quantità di vagoni, ovvero, in totale, 37548 metri lineari di tavole, 11834 secchi e 3400 stufe".

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Ma qual era la spaventosa realtà di quel viaggio, dissimulato dalla visione burocratica di un'operazione perfettamente riuscita secondo i criteri dell'N.K.V.D.? Ecco alcune testimonianze di superstiti tatari raccolte alla fine degli anni Settanta:

"Il viaggio fino alla stazione di Zerabulak, nella regione di Samarcanda, durò 24 giorni. Di là ci portarono al kolhoz Pravda. Ci costrinsero a riparare delle carrette ... Noi lavoravamo e avevamo fame. Molti di noi non si reggevano in piedi. Dal nostro villaggio avevano deportato trenta famiglie. Sopravvissero una o due persone in cinque famiglie. Tutti gli altri morirono di fame o di malattia".

Un altro superstite ha raccontato:

"Dentro i vagoni, che erano ermeticamente chiusi, si moriva come mosche, per la fame e la mancanza d'aria; non ci davano niente, né da bere né da mangiare. Nei villaggi che attraversavamo la popolazione era stata aizzata contro di noi - avevano detto alla gente che sui treni erano rinchiusi dei traditori della patria - e le pareti dei vagoni rimbombavano per i sassi che ci tiravano contro. Quando si aprirono le porte, nel bel mezzo delle steppe del Kazakistan, ci dettero da mangiare delle razioni militari, ma nulla da bere, e ci ordinarono di gettare i nostri morti lungo i binari, senza seppellirli. Poi ripartimmo".

Arrivati «a destinazione», in Kazakistan, in Kirghizistan, in Uzbekistan o in Siberia, i deportati erano assegnati ai kolhoz o alle industrie, e ogni giorno si trovavano a dover affrontare problemi di alloggio, di lavoro, di sopravvivenza, come attestano tutti i rapporti inviati alle autorità centrali dai dirigenti periferici dell'N.K.V.D., conservati nel ricchissimo fondo d'archivio dedicato agli «insediamenti speciali» del gulag. Per esempio, in un rapporto del settembre del 1944 proveniente dal Kirghizistan si dice che avevano ricevuto un'abitazione soltanto 5000 famiglie sulle 31 mila deportate da poco. Oltretutto, il concetto di «abitazione» era molto elastico. Leggendo il testo con attenzione si scopre che nel distretto di Kameninskij le autorità locali avevano alloggiato 900 famiglie in... 18 appartamenti di un sovhoz, ossia 50 famiglie per ciascun appartamento! Da una simile cifra inconcepibile si deduce che nell'imminenza dell'inverno le famiglie deportate dal Caucaso, nelle quali era spesso presente un gran numero di bambini, dormivano a volte negli «appartamenti» e a volte all'aperto.

In una lettera a Mikojan del novembre del 1944, ossia quasi un anno dopo la deportazione dei calmucchi, Berija stesso riconosceva che questi ultimi «si trovavano in condizioni di vita e in una situazione sanitaria di straordinaria difficoltà: nella maggior parte dei casi non hanno né biancheria, né vestiti, né scarpe». Due anni dopo, due responsabili dell'N.K.V.D. riferivano: «Il 30 per cento dei calmucchi in condizione di lavorare non lavora perché non possiede scarpe. La totale assenza di adattamento al clima rigido, a situazioni inconsuete e l'ignoranza della lingua si fanno sentire e provocano ulteriori difficoltà». In genere i deportati erano pessimi lavoratori: privi di radici, affamati, si trovavano aggregati a fattorie collettive che non erano neppure in grado di assicurare la sopravvivenza al personale abitualmente in dotazione, oppure erano collocati dalla direzione dell'azienda a svolgere mansioni per le quali non avevano nessuna preparazione. Scriveva a Stalin D. P. Pjurveev, ex presidente della Repubblica autonoma dei calmucchi:

"La situazione dei calmucchi deportati in Siberia è tragica: hanno perduto il proprio bestiame; sono arrivati in Siberia privi di tutto ... Non si adattano alle nuove condizioni, in cui per vivere bisogna produrre ... I calmucchi assegnati ai kolhoz non ricevono nessun vettovagliamento, perché gli stessi colcosiani non hanno niente. Quanto a coloro che sono stati assegnati a imprese industriali, non sono riusciti a integrarsi nella nuova situazione di

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operai, e quindi si trovano in uno stato di indigenza che non permette loro di approvvigionarsi in modo adeguato".

Proviamo a tradurre il linguaggio cifrato del messaggio: i calmucchi, allevatori nomadi, di fronte alle macchine si smarrivano, e tutto il loro magro salario serviva a pagare le multe in cui incorrevano per le mancanze commesse sul lavoro!

Per avere un'idea dell'ecatombe che colpì i deportati consideriamo alcune cifre. Nel gennaio del 1946 l'amministrazione degli insediamenti speciali censì 70360 calmucchi rispetto ai 92 mila deportati due anni prima. Allo scadere del primo luglio 1944 erano arrivate in Uzbekistan 35750 famiglie tatare, per un totale di 151424 persone; sei mesi dopo le famiglie erano 818 di più, ma gli individui erano 16 mila in meno! Sulle 608749 persone deportate dal Caucaso, 146892 erano morte al primo ottobre 1948 (ossia quasi una su quattro) e nel frattempo si erano avuti soltanto 28120 nati. Sulle 228392 persone deportate dalla Crimea, quattro anni dopo ne erano morte 44887, mentre nello stesso periodo le nascite erano state solo 6564 . Il fenomeno dell'eccesso di mortalità appare con ancor maggiore evidenza se consideriamo che una quota fra il 40 e il 50 per cento dei deportati era costituita da bambini sotto i sedici anni; perciò tali decessi erano dovuti a «morte naturale» soltanto per una percentuale infima. E per quanto riguarda i giovani sopravvissuti, quale avvenire potevano aspettarsi? Su 89 mila bambini in età scolare deportati nel Kazakistan, meno di 12 mila ricevevano un'istruzione scolastica... e questo nel 1948, ossia quattro anni dopo la deportazione. Del resto, le disposizioni ufficiali stabilivano che ai figli dei «coloni speciali» dovesse essere assicurato l'insegnamento esclusivamente in lingua russa.

***

Durante la guerra le deportazioni collettive colpirono anche altri popoli. Pochi giorni dopo aver concluso la deportazione dei tatari di Crimea, il 29 maggio 1944 Berija scrisse a Stalin: «L'N.K.V.D. stima ragionevole [sic] espellere dalla Crimea tutti i bulgari, i greci e gli armeni». Ai primi si rimproverava di avere «attivamente prestato la propria opera per fabbricare pane e prodotti alimentari destinati all'esercito tedesco durante l'occupazione nazista», nonché di avere «collaborato con le autorità militari tedesche per cercare soldati dell'Armata rossa e partigiani». I greci, «dopo l'arrivo degli occupanti», avevano «creato piccole imprese industriali»: «le autorità tedesche li hanno aiutati a fare commercio, trasporto di merci eccetera». Gli armeni, infine, erano accusati di aver creato a Simferopol' un'organizzazione collaborazionista, detta «Dromedar», presieduta dal generale armeno Dro, la quale «si occupava, oltre che di questioni religiose e politiche, di sviluppare il piccolo commercio e l'industria». Secondo Berija, tale organizzazione aveva «raccolto fondi per le esigenze militari dei tedeschi e per contribuire alla creazione di una Legione armena».

Quattro giorni dopo, il 2 giugno 1944, Stalin firmò un decreto del Comitato statale per la difesa in cui si ordinava di «completare l'espulsione dei tatari di Crimea con l'espulsione di 37 mila bulgari, greci e armeni, complici dei tedeschi». Così come per gli altri contingenti di deportati, il decreto fissava arbitrariamente le quote per ciascuna «regione di accoglienza»: 7000 per la provincia di Gur'ev, nel Kazakistan, 10 mila per quella di Molotov, negli Urali, 6000 per la provincia di Kemerovo, 4000 per la Repubblica dei baschiri. Secondo la terminologia classica, «l'operazione si svolse con pieno successo» il 27 e 28 giugno 1944. In questi due giorni furono deportate 41854 persone, «ossia il 111 per cento del previsto», come si faceva notare nel rapporto.

Dopo aver «epurato» la Crimea dai tedeschi, dai tatari, dai bulgari, dai greci e dagli armeni, l'N.K.V.D. decise di «ripulire» le frontiere del Caucaso. Tali operazioni su vasta scala erano in effetti il naturale prolungamento, in forma più sistematica, delle operazioni «antispie» degli anni 1937-1938, e si ispiravano appunto alla stessa sacralizzazione ossessiva delle frontiere. Il 21 luglio

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1944 un nuovo decreto del Comitato statale per la difesa, con la firma di Stalin, ordinò di deportare 86 mila turchi mescheti, curdi e chemscini dalle regioni confinarie della Georgia. Questi popoli dell'ex Impero ottomano erano da secoli insediati in territori di montagna. Inoltre, poiché alcuni di essi conducevano vita nomade, avevano la consuetudine di attraversare liberamente la frontiera turco-sovietica nelle due direzioni, sicché i preparativi del rastrellamento furono particolarmente lunghi. L'operazione richiese una decina di giorni, dal 15 al 25 novembre 1944, e fu condotta da 14 mila uomini appartenenti ai corpi speciali dell'N.K.V.D. Per attuarla furono usati 900 camion Studebaker, inviati dagli americani in base alla legge sugli affitti e prestiti, che impegnava gli Stati Uniti a fornire materiale bellico a quasi tutte le potenze alleate!.

In un rapporto a Stalin del 28 novembre, Berija vantava l'impresa di essere riuscito a trasferire 91095 persone in dieci giorni «in condizioni di particolare difficoltà». Come spiegava lo stesso Berija, tutti questi individui, il 49 per cento dei quali era costituito da bambini sotto i sedici anni, erano potenziali spie turche: «Una frazione considerevole della popolazione di questa regione ha legami di famiglia con gli abitanti delle regioni confinarie della Turchia. Era gente che faceva del contrabbando, manifestava la tendenza a voler emigrare e forniva reclute ai servizi di informazione turchi oltre che ai gruppi di banditi operanti sulla linea di frontiera». Secondo le statistiche del Dipartimento insediamenti speciali del gulag, il totale delle persone deportate in Kazakistan e Kirghizistan durante tale operazione avrebbe raggiunto le 94955 unità. Fra il novembre del 1944 e il luglio del 1948 morirono 19540 fra mescheti, curdi e chemscini deportati, ossia il 21 per cento del contingente. Un simile tasso di mortalità, fra il 20 e il 25 per cento in quattro anni, risulta più o meno uguale in tutte le nazionalità «punite» dal regime.

Durante la guerra il contingente di coloni speciali si rinnovò e crebbe in misura considerevole, passando da circa un milione 200 mila persone a oltre 2 milioni 500 mila in conseguenza dell'arrivo in massa di centinaia di migliaia di persone deportate in base a criteri di appartenenza etnica. Mentre prima della guerra il grosso dei coloni speciali era costituito dai «dekulakizzati», il numero di questi ultimi crollò da circa 936 mila all'inizio del conflitto a 622 mila nel maggio del 1945. Infatti i «dekulakizzati» adulti di sesso maschile furono chiamati a decine di migliaia sotto le armi, con l'eccezione tuttavia dei capifamiglia deportati; le mogli e i figli degli arruolati ricuperavano la condizione di liberi cittadini ed erano cancellati dagli elenchi dei coloni speciali, ma a causa della guerra non potevano lasciare il luogo del domicilio coatto loro assegnato, tanto più che avevano subito la confisca di tutti i beni, compresa la casa di abitazione.

Senza dubbio le condizioni in cui erano costretti a sopravvivere i detenuti del gulag non furono mai tanto terribili come negli anni 1941-1944. Carestia, epidemie, sovraffollamento, sfruttamento disumano: ecco il destino che toccava a ogni "zek" (detenuto) sopravvissuto alla fame, alla malattia, all'obbligo di completare ogni giorno una quota di lavoro sempre più alta, alle denunce dello stuolo di informatori incaricati di smascherare le «organizzazioni controrivoluzionarie di detenuti», ai processi e alle esecuzioni sommarie.

Nei primi mesi della guerra l'avanzata tedesca costrinse l'N.K.V.D. a evacuare un gran numero di prigioni, di colonie di lavoro e di campi che erano sotto la sua giurisdizione e rischiavano di cadere in mano nemica. Fra il luglio e il dicembre del 1941 furono trasferiti a oriente 210 colonie, 135 prigioni e 27 campi, per un totale di circa 750 mila detenuti. Il capo del gulag, Nasedkin, nello stendere un bilancio dell'«attività del gulag durante la Grande guerra patriottica», affermava che «generalmente l'evacuazione dei campi fu compiuta in modo organizzato». Però Nasedkin aggiungeva: «A causa della mancanza di mezzi di trasporto i detenuti furono evacuati perlopiù a piedi, su percorsi che spesso superavano il migliaio di chilometri». Si può immaginare in quali condizioni arrivassero a destinazione! Quando non c'era il tempo di evacuare i campi, come spesso avvenne nelle prime settimane della guerra, i detenuti venivano sommariamente giustiziati. In

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particolare fu così nell'Ucraina occidentale, dove, alla fine del giugno del 1941, l'N.K.V.D. massacrò 10 mila prigionieri a Leopoli, 1200 nella prigione di Luck, 1500 a Stanyslaviv, 500 a Dubno eccetera. Quando arrivarono nelle regioni di Leopoli, Zitomir e Vinnica, i tedeschi scoprirono decine di fosse comuni. Adducendo il pretesto delle «atrocità giudaico-bolsceviche», i "Sonderkommando" nazisti si affrettarono a massacrare decine di migliaia di ebrei.

In tutti i rapporti stilati dall'amministrazione del gulag per gli anni 1941-1944 si riconosce che durante la guerra le condizioni di vita nei campi avevano subito uno spaventoso degrado. Nei campi sovraffollati la «superficie abitativa» che toccava a ciascun detenuto subì un crollo, da 1,5 a 0,7 metri quadrati per persona. In termini più espliciti, ciò significava che i detenuti dormivano su tavolacci facendo i turni, perché ormai le reti da letto erano un «lusso» da riservare ai «lavoratori delle squadre d'assalto». Nel 1942 la «razione calorica alimentare» precipitò al 65 per cento di quella fissata prima della guerra. I detenuti furono ridotti alla fame e nel 1942 tifo e colera fecero la loro ricomparsa nei campi. Secondo dati ufficiali, quell'anno morirono 90 mila prigionieri. Nel 1941 il tasso di mortalità annuo si era avvicinato all'8 per cento, con circa 101 mila decessi registrati soltanto nei campi di lavoro, senza contare le colonie.

___________________________________________________________ [Box: RAPPORTO del vicecapo del dipartimento operativo del gulag sulle condizioni dei campi del Siblag, 2 novembre 1941.

Le notizie ricevute dal dipartimento operativo dell'N.K.V.D. della regione di Novosibirsk segnalano un forte aumento della mortalità fra i detenuti dei dipartimenti del Siblag di Ahlursk, Kuzneck e Novosibirsk... Tale elevata mortalità, alla quale si accompagna una diffusione massiccia delle malattie fra i detenuti, è senza dubbio provocata dal generale dimagrimento dovuto alla sistematica carenza di alimentazione associata allo svolgimento di lavori pesanti; contemporaneamente si osserva l'insorgenza della pellagra e l'indebolimento dell'attività cardiaca. Il ritardo nel prestare cure mediche agli ammalati e la gravosità dei lavori compiuti dai detenuti, con orari prolungati e mancanza di razioni alimentari suppletive, costituiscono un altro complesso di cause che spiegano l'alto grado di morbilità e di mortalità... Fra i detenuti avviati ai campi dai vari centri di selezione si sono osservati numerosi casi di mortalità, di pronunciata magrezza e di epidemie. Per esempio, sui 539 detenuti avviati in convoglio al dipartimento Mariinskoe dal centro di selezione di Novosibirsk, l'8 ottobre 1 941, più del 30 per cento presentava caratteri di estrema magrezza di origine pellagrosa ed era gravemente infestato dai pidocchi. Oltre ai deportati, sono arrivati a destinazione sei cadaveri [1]. Nella notte dall'8 al 9 ottobre sono morte altre cinque persone dello stesso convoglio. Nel convoglio proveniente dallo stesso centro di selezione e giunto al dipartimento Mariinskoe il 20 settembre, il 100 per cento dei detenuti era coperto di pidocchi, e una percentuale notavole era priva di biancheria intima... Negli ultimi tempi nei campi del Siblag si sono accertati numerosi atti di sabotaggio compiuti dal personale medico costituito da detenuti. Per esempio, l'aiutante sanitario del campo di Ahzer (dipartimento di Tajginsk), condannato ai sensi dell'articolo 58-10 [2], ha organizzato un gruppo di quattro detenuti avente lo scopo di sabotare la produzione [3]. I membri del gruppo mandavano ai lavori più faticosi i detenuti ammalati e non li curavano in tempo, nella speranza di riuscire a impedire al campo di attuare le quote di produzione stabilite dal piano. Il vicecapo del dipartimento operativo del gulag, capitano delle forze di Sicurezza, Kogenman]

___________________________________________________________

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Nel 1942 l'amministrazione dei campi del gulag registrò 249 mila decessi, ossia un tasso di mortalità del 18 per cento; nel 1943 i decessi furono 167 mila, equivalenti a un tasso del 17 per cento. Considerando soltanto gli anni 1941-1943 e sommando le esecuzioni di detenuti ai decessi avvenuti in carcere e nei campi di lavoro forzato, possiamo stimare a circa 600 mila il numero di morti nel gulag. I superstiti erano peraltro in condizioni penose. Secondo dati forniti dall'amministrazione, alla fine del 1942 solo il 19 per cento dei detenuti era idoneo a svolgere lavori «pesanti», il 17 per cento lavori «mediamente faticosi», mentre il 64 per cento poteva svolgere «lavori leggeri», ovvero era invalido.

Il «forte degrado della situazione sanitaria del contingente», per usare un eufemismo coniato dall'amministrazione del gulag, a quanto pare non impedì alle autorità di esercitare una pressione costante sui detenuti, fino all'esaurimento. Il capo del gulag riferisce in un suo rapporto: «Dal 1941 al 1944 il valore medio di una giornata di lavoro è aumentato da 9,5 a 21 rubli». Diverse centinaia di migliaia di detenuti furono assegnati alle fabbriche di armi, in sostituzione della manodopera arruolata nelle forze armate. Il ruolo avuto dal gulag nell'economia bellica si dimostrò importantissimo. Secondo le stime dell'amministrazione carceraria, il lavoro compiuto dai detenuti avrebbe assicurato circa un quarto della produzione in alcuni settori chiave dell'industria degli armamenti, della metallurgia e dell'estrazione mineraria.

Nonostante la «compattezza patriottica» [sic] dimostrata dai detenuti, «impegnati al 95 per cento nella competizione socialista», la repressione non si allentava, soprattutto nei confronti dei «politici». Grazie a un decreto approvato il 22 giugno 1941 dal Comitato centrale, neppure uno dei «58» (i detenuti condannati in base all'articolo 58 del Codice penale, che sanzionava i «delitti controrivoluzionari»), poteva essere liberato prima della fine della guerra, anche se avesse terminato di scontare la pena.

L'amministrazione del gulag creò dei campi speciali, «a regime rafforzato», situati nelle regioni più inospitali (la Kolyma e l'Artico), in cui isolava una parte dei politici condannati per aver «militato in un'organizzazione trotzkista o destrorsa» o in un «partito controrivoluzionario», oppure per «spionaggio», «terrorismo», «tradimento». In questi campi il tasso di mortalità annuo arrivava al 30 per cento. Un decreto del 22 aprile 1943 istituiva i «bagni penali a regime rafforzato», veri e propri campi della morte nei quali i detenuti venivano sfruttati in condizioni tali da non lasciare possibilità di sopravvivenza: un lavoro massacrante di dodici ore al giorno nelle miniere d'oro, di carbone, di piombo, di radio, soprattutto nelle regioni della Kolyma e di Vorkuta.

In tre anni, dal luglio del 1941 al luglio del 1944, i tribunali speciali dei campi pronunciarono sentenze di ulteriore condanna a carico di 148 mila detenuti, 10858 dei quali furono giustiziati: 208 di essi per «spionaggio», 4307 per «atti di diversione terroristica», 6016 per «aver organizzato nel campo un'insurrezione o una sommossa». Secondo l'N.K.V.D., durante la guerra furono smantellate nei campi del gulag 603 «organizzazioni di detenuti». Una tale cifra doveva in primo luogo confermare la «vigilanza» di un corpo che a sua volta era stato in larga misura rinnovato (una parte delle truppe speciali che sorvegliavano i campi era stata infatti assegnata ad altri compiti, in particolare alle retate-deportazioni), ma è altresì vero che proprio durante gli anni del conflitto nei campi ebbero luogo le prime evasioni collettive e le prime insurrezioni di rilievo.

In realtà, durante la guerra la popolazione del gulag subì notevoli mutamenti. In seguito al Decreto del 12 luglio 1941 furono liberati, per essere subito arruolati nell'Armata rossa, oltre 577 mila detenuti che, secondo quanto riconoscevano le stesse autorità, erano stati condannati «per reati insignificanti, come assenze ingiustificate dal lavoro o piccoli furti». In totale, negli anni di guerra - calcolando anche i detenuti che terminavano di scontare le loro condanne - un milione 68800 persone furono trasferite direttamente dal gulag al fronte. I detenuti più deboli, quelli che non

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riuscirono a adeguarsi alle spietate condizioni di vita dei campi, entrarono nel novero delle quasi 600 mila persone morte nel gulag nel solo biennio 1941-1943. Mentre i campi e le colonie penali si svuotavano di una vera e propria folla di detenuti, costituita dai condannati a pene minori, rimasero e sopravvissero gli individui più solidi, e anche più duri, sia fra i politici sia fra i detenuti per reati comuni. La percentuale di quanti dovevano scontare pene prolungate (oltre gli otto anni) ai sensi dell'articolo 58 del Codice penale subì un forte aumento: dal 27 al 43 per cento del numero complessivo di internati. L'evoluzione della popolazione carceraria, che era cominciata nei primi tempi del conflitto, si sarebbe accentuata dal 1944-1945 in poi. Infatti, in questi due anni il gulag avrebbe visto un aumento notevolissimo di effettivi, con un picco del 45 per cento in più fra il gennaio del 1944 e il gennaio del 1946.

***

L'immagine dell'anno 1945 in Unione Sovietica, quale è apparsa in generale al mondo esterno, riflette esclusivamente la faccia dorata della medaglia, la glorificazione di un paese senza dubbio devastato, ma trionfante. Fran‡ois Furet afferma: «Nel 1945 l'URSS si presenta come il grande Stato vittorioso, in cui alla forza materiale si associa il messianismo dell'uomo nuovo». Nessuno vede - nessuno vuol vedere - i retroscena della situazione, peraltro occultati con la massima cura. Gli archivi del gulag mostrano invece come l'anno della vittoria abbia segnato al tempo stesso un nuovo apogeo del sistema concentrazionario sovietico. Il ritorno della pace sul fronte esterno non ebbe come conseguenza attenuazioni o pause nel controllo esercitato dallo Stato all'interno, su una società straziata da quattro anni di guerra. Al contrario, nel 1945 si assistette a un ricupero del controllo totale, sia sulle regioni incorporate dall'Unione Sovietica a mano a mano che l'Armata rossa avanzava verso ovest, sia sui milioni di cittadini sovietici che per un certo periodo si erano trovati «fuori dal sistema».

I territori annessi nel 1939-1940 (le repubbliche baltiche, la Bielorussia occidentale, la Moldavia, l'Ucraina occidentale), che per quasi tutta la durata del conflitto erano rimasti fuori dal sistema sovietico, subirono una seconda «sovietizzazione» dopo quella del 1939-1941. I movimenti nazionali che vi si erano costituiti, e che si opponevano all'incorporazione nell'Unione Sovietica, innescarono un meccanismo di azione e reazione fra resistenza armata, persecuzione e repressione. Il rifiuto dell'annessione fu particolarmente ostinato nell'Ucraina occidentale e nelle repubbliche baltiche.

Con la prima occupazione dell'Ucraina occidentale, dal settembre del 1939 al giugno del 1941, era nata un'organizzazione armata clandestina abbastanza potente, l'OUN ("Ob''edinen'e ukrainskih nacionalistov", Unione dei nazionalisti ucraini), alcuni membri della quale si aggregarono a unità delle S.S. per combattere ebrei e comunisti. Nel luglio del 1944, con il sopraggiungere dell'Armata rossa, l'OUN costituì un Consiglio supremo di liberazione dell'Ucraina. Roman Suhovic, capo dell'OUN, prese il comando dell'UPA ("Ukrainskaja partizanskaja armija", Armata ucraina partigiana), la quale, secondo fonti ucraine, nell'autunno del 1944 avrebbe avuto una consistenza di oltre 20 mila uomini. Il 31 marzo 1944 Berija firmò un decreto che prescriveva di arrestare e deportare nella regione di Krasnojarsk tutti i membri delle famiglie degli affiliati alle formazioni resistenziali dell'OUN e dell'UPA: dal febbraio all'ottobre del 1944 furono deportati con questa motivazione 100300 civili, vecchi, donne e bambini. I 37 mila combattenti catturati in questo periodo furono inviati nel gulag. Alla morte di monsignor Sceptickij, metropolita della Chiesa uniate di Ucraina, avvenuta nel novembre del 1944, le autorità sovietiche obbligarono questa Chiesa a fondersi con la Chiesa ortodossa.

Per troncare alla radice le resistenze alla sovietizzazione gli agenti dell'N.K.V.D. visitavano le scuole, dove esaminavano gli elenchi e le pagelle degli alunni che avevano studiato nel periodo

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prebellico, quando l'Ucraina occidentale era parte della Polonia «borghese». Dalle loro ricerche ricavavano liste di nomi degli individui da sottoporre ad arresto preventivo, in cui figuravano ai primi posti gli allievi più dotati, che a giudizio degli agenti erano considerati «potenzialmente ostili al regime sovietico». Secondo un rapporto di Kobulov, uno degli assistenti di Berija, nella Bielorussia occidentale fra il settembre del 1944 e il marzo del 1945 furono arrestati oltre 100 mila «disertori» e «collaborazionisti». Questa regione, così come l'Ucraina occidentale, era considerata «brulicante di elementi ostili al regime sovietico». Sulla base di statistiche molto parziali si calcola che nella sola Lituania, tra il primo gennaio e il 15 marzo 1945, siano state effettuate 2257 «operazioni di pulizia».

Il risultato di tali operazioni fu la morte di oltre 6000 «banditi» e l'arresto di oltre 75 mila fra «banditi, affiliati ai gruppi nazionalisti e disertori». Nel 1945 furono deportati dalla Lituania oltre 38 mila «membri delle famiglie di elementi estranei alla società, banditi e nazionalisti». E' significativo che negli anni 1944-1946 la percentuale di ucraini e di appartenenti alle popolazioni baltiche presente fra i detenuti del gulag abbia avuto una spettacolare impennata: rispettivamente il 140 e il 420 per cento in più. Alla fine del 1946 gli ucraini erano il 23 per cento degli internati nei campi, mentre i baltici arrivavano quasi al 6 per cento: una percentuale assai maggiore rispetto a quella che tali nazionalità rappresentavano sul totale della popolazione sovietica.

L'incremento della popolazione del gulag nel 1945 si deve anche al trasferimento nei campi di centinaia di migliaia di individui provenienti dai «campi di verifica e di filtraggio», istituiti alla fine del 1941 parallelamente ai campi di lavoro del gulag. In essi erano relegati i prigionieri di guerra sovietici liberati o sfuggiti alle mani del nemico, sui quali cadeva il sospetto pregiudiziale di essere spie potenziali, o almeno individui «contaminati» dall'aver trascorso un periodo al di fuori del «sistema». In tali campi erano inoltre internati gli uomini, in età tale da poter essere arruolati, provenienti dai territori già occupati dal nemico (che a loro volta avevano subito la contaminazione), oltre agli "starosta" (capigruppo) e alle altre persone che sotto il regime degli occupanti avevano svolto una qualche funzione di autorità, per quanto minima. Secondo dati ufficiali, dal gennaio del 1942 all'ottobre del 1944 nei campi di verifica e di filtraggio transitarono oltre 421 mila persone.

A mano a mano che l'Armata rossa avanzava verso ovest e si riappropriava dei territori rimasti sotto occupazione tedesca per due o tre anni, e mentre riottenevano la libertà milioni di prigionieri di guerra sovietici e di deportati nei campi di lavoro, la questione delle modalità di rimpatrio alla quale sottoporre i militari e civili sovietici acquistava una portata senza precedenti. Nell'ottobre del 1944 il governo sovietico istituì una Direzione per gli affari relativi al rimpatrio e ne affidò la responsabilità al generale Golikov. Quest'ultimo, in un'intervista pubblicata dalla stampa l'11 novembre 1944, rilasciò le seguenti significative dichiarazioni: «Il potere sovietico si preoccupa della sorte dei suoi figli caduti nella schiavitù nazista. Essi saranno degnamente ricevuti nella loro casa, come figli della patria. Secondo il governo sovietico, perfino i cittadini sovietici che sotto la minaccia del terrore nazista hanno commesso atti contrari agli interessi dell'URSS non saranno chiamati a rispondere delle loro azioni, purché ritornando in patria siano pronti a compiere con lealtà il proprio dovere di cittadini». Questo genere di dichiarazioni, che ricevette ampia diffusione, non mancò di trarre in inganno gli Alleati, altrimenti non si spiegherebbe lo zelo con cui questi ultimi applicarono una clausola degli accordi di Jalta riguardante il rimpatrio in URSS di tutti i cittadini sovietici «presenti fuori dai confini della loro patria». In base agli accordi, gli unici a essere costretti con la forza a rientrare dovevano essere coloro che avevano indossato l'uniforme tedesca o collaborato con il nemico. Invece, tutti i cittadini sovietici «fuori dai confini» vennero consegnati agli agenti dell'N.K.V.D. incaricati di sovrintendere all'inquadramento militare del loro rientro.

L'11 maggio 1945, tre giorni dopo la cessazione delle ostilità, il governo sovietico ordinò di allestire cento nuovi campi di verifica e di filtraggio, ciascuno della capacità di diecimila posti. I prigionieri

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di guerra sovietici rimpatriati dovevano tutti passare la «verifica» dell'organizzazione di controspionaggio, la Smers, mentre i civili erano filtrati dai servizi dell'N.K.V.D. costituiti ad hoc. Tra il maggio del 1945 e il febbraio del 1946, in nove mesi, furono rimpatriati oltre 4 milioni 200 mila sovietici: un milione 545 mila prigionieri di guerra superstiti, sui 5 milioni catturati dai nazisti, e 2 milioni 655 mila civili, fra deportati nei campi di lavoro e persone fuggite verso ovest durante i combattimenti. Dopo il passaggio obbligatorio in un campo di filtraggio e di verifica, il 57,8 per cento dei rimpatriati, perlopiù donne e bambini, fu autorizzato a rientrare nelle proprie case, il 19,1 per cento arruolato nell'esercito, spesso in battaglioni di disciplina, il 14,5 per cento assegnato, in genere per un periodo di due anni, ai «battaglioni della ricostruzione» e circa 360 mila persone, l'8,6 per cento del totale, vennero internate nei campi del gulag, perlopiù con l'accusa - che comportava dai dieci ai vent'anni di reclusione - di essere «traditori della patria», o inviate in una delle zone sotto la giurisdizione dell'N.K.V.D. con lo statuto di «coloni speciali».

Un destino particolare fu riservato ai "vlasovec", i soldati sovietici che avevano seguito il generale Andrej Vlasov, comandante della Seconda Armata caduto prigioniero dei tedeschi nel luglio del 1942. Vlasov, antistalinista convinto, aveva accettato di collaborare con i nazisti per liberare il proprio paese dalla tirannide bolscevica. Con l'approvazione delle autorità tedesche aveva costituito un «Comitato nazionale russo» e radunato due divisioni di una «Armata di liberazione russa». Dopo la sconfitta della Germania nazista, gli Alleati consegnarono ai sovietici il generale Vlasov e i suoi ufficiali, che furono giustiziati. I soldati che costituivano la sua armata, amnistiati da un decreto del novembre del 1945, furono deportati per sei anni in Siberia, nel Kazakistan e nell'estremo nord. Al principio del 1946 gli elenchi del Dipartimento degli esiliati e dei coloni speciali presso il ministero dell'Interno citavano 148079 "vlasovec"; inoltre, parecchie migliaia di "vlasovec", in massima parte sottufficiali, furono accusati di tradimento e mandati nei campi di lavoro del gulag.

Insomma, gli «insediamenti speciali», i campi e le colonie penali del gulag, i campi di verifica e filtraggio e i penitenziari sovietici non erano mai stati così affollati come nell'anno della vittoria: in totale ospitavano circa 5 milioni e mezzo di persone, senza distinzione fra le varie categorie. Tale record è rimasto a lungo eclissato dai festeggiamenti in onore della vittoria e dall'«effetto Stalingrado». Infatti, con la fine della seconda guerra mondiale si aprì un periodo, durato all'incirca un decennio, durante il quale il modello sovietico avrebbe esercitato un fascino particolare, mai più eguagliato, su decine di milioni di persone in un gran numero di paesi. Il fatto che l'URSS avesse pagato la vittoria sul nazismo con il tributo più pesante, in termini di vittime, mascherava il carattere stesso della dittatura staliniana, facendo svanire i sospetti che i processi di Mosca o il patto Hitler-Stalin avevano suscitato a suo tempo nei confronti del regime. D'altronde, quei tempi sembravano allora assai remoti.

13. APOGEO E CRISI DEL GULAG.

Negli ultimi anni dello stalinismo non vi furono grandi processi pubblici, né vi fu il Grande terrore. Ma nel clima pesante e conservatore del dopoguerra la criminalizzazione dei comportamenti sociali raggiunse il culmine. La società, straziata dalla guerra, sperava di assistere a una liberalizzazione del regime, ma fu delusa. «Il popolo aveva sofferto troppo, il passato non poteva ripetersi» aveva scritto Il'ja Erenburg nelle sue memorie il 9 maggio 1945; conosceva dall'interno gli ingranaggi e la natura del sistema, e quindi aveva subito aggiunto: «Tuttavia sono pieno di perplessità e di angoscia». Il suo presentimento si sarebbe rivelato giusto. «La popolazione è divisa fra la disperazione per le condizioni materiali molto difficili e la speranza che "cambi qualcosa"» affermano molti rapporti inviati a Mosca fra settembre e ottobre del 1945 dagli istruttori del Comitato centrale che giravano il paese per ispezionare le province. Secondo tali rapporti nel paese la situazione era sempre «caotica». La ripresa della produzione era ostacolata dall'immenso movimento migratorio spontaneo di migliaia di operai deportati a oriente durante l'evacuazione del

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1941-1942. L'industria metallurgica degli Urali era scossa da un'ondata di scioperi di vasta portata, come il regime non ne aveva mai conosciute. Ovunque regnava un'indicibile miseria. Nel paese c'erano 25 milioni di senzatetto, e le razioni di pane per i lavoratori manuali non superavano i 500 grammi al giorno. Alla fine di ottobre del 1945 i responsabili del Comitato regionale del Partito di Novosibirsk arrivarono a proporre di non far sfilare i «lavoratori» della città in occasione dell'anniversario della Rivoluzione d'Ottobre: «Infatti la popolazione è priva di abiti e di scarpe». Nella miseria e nell'indigenza generali si diffondevano le voci più incredibili, soprattutto quelle relative all'«imminente» liquidazione dei kolhoz, che ancora non riuscivano a compensare i contadini per la loro stagione di lavoro, nemmeno con qualche pud di grano.

La situazione rimaneva drammatica soprattutto sul «fronte agricolo». Le campagne erano devastate dalla guerra, colpite da una grave siccità, i macchinari e la manodopera scarseggiavano; di conseguenza, l'ammasso dell'autunno del 1946 fu catastrofico. Il governo dovette di nuovo rimandare la fine del razionamento promessa da Stalin nel discorso del 9 febbraio 1946. Il governo, che non voleva capire le ragioni del fallimento agricolo e imputava i problemi alla «speranza di lucrare sui lotti individuali», decise di «liquidare le violazioni allo statuto giuridico dei kolhoz» e di perseguitare gli «elementi ostili ed estranei sabotatori dell'ammasso, chi ruba e spreca il raccolto». Il 19 settembre 1946 creò la Commissione per gli affari dei kolhoz, presieduta da Andreev e incaricata di ricuperare le terre «occupate illegalmente» dai colcosiani durante la guerra. In due anni l'amministrazione ricuperò quasi 10 milioni di ettari «rosicchiati» dai contadini che per sopravvivere avevano cercato di estendere i propri piccoli lotti individuali.

Il 25 ottobre 1946 un decreto governativo dal titolo esplicito, "Sulla difesa dei cereali di Stato", intimava al ministero della Giustizia di istruire nel giro di dieci giorni tutti i processi per furto, applicando con severità la Legge del 7 agosto 1932, che era caduta in disuso. Fra novembre e dicembre del 1946 furono processati per aver rubato qualche spiga o un po' di pane oltre 53300 individui, in maggioranza colcosiani, e quasi tutti vennero condannati a pesanti pene di internamento nei campi. Migliaia di presidenti di kolhoz furono arrestati per «sabotaggio della campagna di ammasso». In quei due mesi la realizzazione del «piano di ammasso» passò dal 36 al 77 per cento. Ma a che prezzo! Molto spesso l'eufemismo «ritardo nella campagna di ammasso» nascondeva una realtà drammatica: la carestia.

La carestia dell'autunno-inverno del 1946-1947 interessò soprattutto le regioni più colpite dalla siccità dell'estate del 1946, le province di Kursk, Tambov, Voronez, Orel, e la regione di Rostov. Fece almeno 500 mila vittime. Come era accaduto per la carestia del 1932, anche su quella del 1946-1947 fu mantenuto un totale riserbo. Una delle cause determinanti che trasformarono una situazione di penuria alimentare in carestia vera e propria fu il rifiuto di ridurre i prelievi obbligatori su un raccolto che nelle regioni colpite dalla siccità aveva una resa di appena 2 quintali e mezzo per ettaro. Per sopravvivere, spesso i colcosiani affamati non avevano altra soluzione che quella di rubacchiare le magre riserve stivate qua e là. In un anno il numero dei furti aumentò del 44 per cento.

Il 5 giugno 1947 la stampa pubblicò il testo di due decreti emanati il giorno prima dal governo, assai vicini nello spirito alla lettera della famosa Legge del 7 agosto 1932: stabilivano infatti che qualsiasi «attentato alle proprietà dello Stato o di un kolhoz» era punibile con un periodo di internamento nei campi da cinque a venticinque anni, a seconda se il furto fosse stato commesso individualmente o in gruppo, per la prima volta o con recidiva. Chiunque fosse stato al corrente della preparazione di un furto o del furto stesso, e non l'avesse denunciato alla polizia, era punibile con due o tre anni di internamento nei campi. Del resto, una circolare riservata ricordava ai tribunali che i piccoli furti sul posto di lavoro, passibili fino ad allora della pena massima di un anno di reclusione, rientravano ormai nei casi previsti dai Decreti del 4 giugno 1947.

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Durante il secondo semestre del 1947 furono condannate in base alla nuova «legge scellerata» oltre 380 mila persone, fra cui 21 mila adolescenti minori di sedici anni. Di solito si beccavano da otto a dieci anni di campo per aver rubato qualche chilo di segale. Ecco un estratto della sentenza del tribunale popolare del distretto di Suzdal', nella provincia di Vladimir, datata 10 ottobre 1947: «I minorenni N. B. e B. S., di quindici e sedici anni, incaricati della sorveglianza notturna dei cavalli del kolhoz, sono stati sorpresi in flagranza di reato mentre rubavano tre cetrioli negli orti del kolhoz.... Condannare N. B. e B. S. a otto anni di reclusione in una colonia di lavoro a regime ordinario». In sei anni, ai sensi dei Decreti del 4 giugno 1947, furono condannate un milione 300 mila persone, il 75 per cento delle quali a oltre 5 anni; nel 1951 rappresentavano il 53 per cento dei detenuti comuni del gulag, e quasi il 40 per cento del numero totale dei detenuti. Alla fine degli anni Quaranta la rigida applicazione dei Decreti del 4 giugno 1947 aumentò considerevolmente la durata media delle condanne inflitte dai tribunali ordinari; le pene di oltre cinque anni passarono dal 2 per cento del 1940 al 29 per cento del 1949! In questo momento di apogeo dello stalinismo, la repressione «ordinaria», quella dei «tribunali popolari», si sostituì alla repressione «extragiudiziaria», quella dell'N.K.V.D., che aveva prosperato negli anni Trenta.

Fra le persone condannate per furto c'erano molte donne, vedove di guerra, madri di famiglia con bambini piccoli, ridotte a mendicare e a rubare. Alla fine del 1948 il gulag contava oltre 500 mila detenuti, cioè il doppio rispetto al 1945, e 22815 bambini con meno di quattro anni accuditi nelle «case del neonato» dipendenti dai campi femminili. All'inizio del 1953 questa cifra salì a oltre 35 mila. Per evitare che in conseguenza della legislazione ultrarepressiva instaurata nel 1947 il gulag si trasformasse in un gigantesco asilo d'infanzia, nell'aprile del 1949 il governo fu costretto a decretare un'amnistia parziale che permise di liberare quasi 84200 donne e bambini in tenera età. Tuttavia, fino al 1953 continuarono ad affluire nei campi centinaia di migliaia di persone condannate per piccoli furti, e la percentuale delle donne rimase alta, fra il 25 e il 30 per cento dei detenuti.

Fra il 1947 e il 1948 l'arsenale repressivo venne completato con molti altri testi giuridici che rivelavano il clima dell'epoca: un decreto che vietava i matrimoni fra sovietici e cittadini stranieri del 15 febbraio 1947, e un decreto sulla «responsabilità per la divulgazione di segreti di Stato o la perdita di documenti contenenti segreti di Stato» del 9 giugno 1947. Il più noto è il Decreto del 21 febbraio 1948, in base al quale «allo scadere del periodo di internamento nei campi, tutte le spie, i trotzkisti, i diversionisti, i destrorsi, i menscevichi, i socialisti rivoluzionari, gli anarchici, i nazionalisti, i Bianchi e altri elementi antisovietici» dovevano essere «esiliati nelle regioni della Kolyma, della provincia di Novosibirsk e di Krasnojarsk ... e in alcune regioni remote del Kazakistan». L'amministrazione penitenziaria, preferendo che questi «elementi antisovietici» fossero tenuti sotto stretta sorveglianza, assai spesso decise di prorogare di dieci anni, senza altra forma di processo, la pena inflitta a centinaia di migliaia di «58» condannati fra il 1937 e il 1938.

Sempre il 21 febbraio 1948, il presidium del Soviet supremo approvò un altro decreto che ordinava di deportare dalla Repubblica sovietica ucraina «tutti gli individui che rifiutassero di compiere il minimo di giornate lavorative previste nei kolhoz e che vivessero come parassiti». Il 2 giugno 1948 questo provvedimento fu esteso a tutto il paese. Dato lo sfacelo dei kolhoz, che nella maggior parte dei casi non riuscivano a garantire alcuna remunerazione ai lavoratori in cambio delle giornate di lavoro, molti colcosiani non eseguivano il numero minimo di giornate lavorative imposto nell'arco dell'anno dall'amministrazione. Perciò milioni di essi potevano incorrere nelle sanzioni previste dalla nuova legge. Le autorità locali, rendendosi conto che mettere in atto con rigore il «decreto sul parassitismo» avrebbe disorganizzato ancora di più la produzione, applicarono la legge con lassismo. Tuttavia, nel solo anno 1948 furono deportati e assegnati a domicilio coatto nei comandi dell'N.K.V.D. oltre 38 mila «parassiti». Tutti questi provvedimenti repressivi eclissarono l'abolizione simbolica ed effimera della pena di morte, stabilita per decreto il 26 maggio 1947. Il 12

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gennaio 1950 la pena capitale fu ripristinata, soprattutto per permettere di giustiziare gli imputati del «processo di Leningrado».

Negli anni Trenta la questione del «diritto al ritorno» dei deportati e dei coloni speciali aveva dato luogo a scelte politiche spesso incoerenti e contraddittorie. Alla fine degli anni Quaranta questo problema fu risolto in modo radicale: si decise che tutte le moltitudini deportate fra il 1941 e il 1945 sarebbero rimaste al confino «per sempre». Così il problema del destino dei figli dei deportati arrivati alla maggiore età non si poneva più. Loro e tutti i discendenti sarebbero stati per sempre coloni speciali!

Nel corso degli anni 1948-1953 il numero dei coloni speciali non cessò di aumentare, e passò da 2 milioni 342 mila all'inizio del 1946 a 2 milioni 753 mila nel gennaio del 1953. Questo incremento dipendeva da molte nuove ondate di deportazioni. Il 22 e il 23 marzo 1948, in Lituania, dove si continuava a resistere alla colonizzazione forzata della terra, l'N.K.V.D. lanciò un'immensa retata denominata Operazione Primavera. Nel giro di quarantott'ore furono arrestati e deportati su 32 convogli 36932 uomini, donne e bambini. Erano tutti classificati come «banditi, nazionalisti e familiari di queste due categorie». Dopo un viaggio di quattro o cinque settimane furono ripartiti in vari comandi della Siberia orientale e assegnati a complessi industriali di sfruttamento delle foreste, dove il lavoro era particolarmente duro. Una nota dell'N.K.V.D. riferiva:

"Le famiglie lituane inviate come forza lavoro nell'azienda di sfruttamento forestale di Igara (territorio di Krasnojarsk) sono alloggiate in locali inadatti all'abitazione: tetti che lasciano passare l'acqua, finestre senza vetri, nessun mobile, nemmeno il minimo necessario per dormire; i deportati si sistemano per terra, su uno strato di muschio o di fieno. Il sovraffollamento e l'inosservanza delle norme sanitarie hanno fatto insorgere fra i coloni speciali casi di tifo e di dissenteria, talvolta mortali".

Durante il solo 1948 furono deportati come coloni speciali 50 mila lituani, e 30 mila furono inviati nei campi del gulag. Inoltre, secondo i dati del ministero degli Interni, durante le «operazioni di pacificazione» furono uccisi 21259 abitanti della Repubblica lituana, che rifiutava ostinatamente la sovietizzazione e la collettivizzazione. Alla fine del 1948, nonostante le pressioni sempre più energiche delle autorità, nei paesi baltici era stato collettivizzato meno del 4 per cento delle terre.

All'inizio del 1949 il governo sovietico decise di accelerare il processo di sovietizzazione dei paesi baltici, e di «sradicare definitivamente il banditismo e il nazionalismo» nelle repubbliche appena annesse. Il 12 gennaio il Consiglio dei ministri approvò il Decreto «sull'espulsione e la deportazione dalle Repubbliche socialiste sovietiche di Lituania, Lettonia ed Estonia dei kulak e delle loro famiglie, delle famiglie dei banditi e dei nazionalisti che si trovano in una situazione illegale, delle famiglie dei banditi abbattuti durante scontri armati, condannati o amnistiati e che continuano a condurre un'attività ostile, e delle famiglie dei complici dei banditi». Le operazioni di deportazione si svolsero fra marzo e maggio del 1949 e colpirono quasi 95 mila persone deportate in Siberia dai paesi baltici. Secondo il rapporto inviato da Kruglov a Stalin il 18 maggio 1949, fra gli «elementi ostili e pericolosi per l'ordine sovietico» erano annoverati 27084 ragazzi minori di sedici anni, 1785 bambini in tenera età senza famiglia, 146 invalidi e 2850 «vecchi decrepiti»!. Nel settembre del 1951, in seguito a nuovi rastrellamenti furono inviati al confino quasi 17 mila «kulak baltici». Per gli anni 1940-1953 si valuta che il numero dei baltici deportati fosse superiore a 200 mila, di cui 120 mila lituani, 50 mila lettoni e un po' più di 30 mila estoni. A queste cifre vanno aggiunti i baltici nei campi del gulag, oltre 75 mila nel 1953, di cui 44 mila nei campi «speciali» riservati ai detenuti politici più incalliti; i baltici rappresentavano un quinto del contingente dei campi. In totale era stato deportato o internato nei campi il 10 per cento della popolazione adulta dei paesi baltici.

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Fra le altre nazionalità da poco forzatamente annesse all'URSS figuravano i moldavi, anch'essi contrari alla sovietizzazione e alla collettivizzazione. Alla fine del 1949 le autorità decisero di procedere a una vasta retata-deportazione degli «elementi ostili ed estranei alla società». L'operazione si svolse con la supervisione del primo segretario del Partito comunista moldavo, Leonid Il'ic Breznev, futuro segretario generale del Partito comunista dell'URSS. Un rapporto di Kruglov a Stalin datato 17 febbraio 1950 stabiliva che il numero dei moldavi deportati per sempre come «coloni speciali» era di 94742. Ammettendo che il tasso di mortalità durante il trasferimento fosse identico a quello degli altri deportati, si arriverebbe a una cifra nell'ordine dei 120 mila moldavi deportati, cioè circa il 7 per cento della popolazione globale. Fra le altre operazioni dello stesso tipo citiamo, sempre per il 1949, la deportazione nel mese di giugno di 57680 greci, armeni e turchi dalle coste del Mar Nero verso il Kazakistan e l'Altaj.

Per tutta la seconda metà degli anni Quaranta i partigiani dell'OUN e dell'UPA catturati in Ucraina continuarono a fornire nutriti contingenti di coloni speciali. Dal luglio del 1944 al dicembre del 1949 le autorità sovietiche chiesero per ben sette volte agli insorti di deporre le armi, promettendo loro un'amnistia, ma senza risultati concreti. Fra il 1945 e il 1947 le campagne dell'Ucraina occidentale, cioè le zone interne del paese, erano controllate in gran parte dagli insorti, spalleggiati dai contadini, che respingevano qualsiasi idea di collettivizzazione. Le forze ribelli operavano ai confini della Polonia e della Cecoslovacchia, passando da un paese all'altro per sfuggire alle persecuzioni. Si può valutare quanto fosse importante il movimento dall'accordo che il governo sovietico fu costretto a firmare con la Polonia e la Cecoslovacchia nel maggio del 1947 per coordinare la lotta contro le «bande» ucraine. In seguito a questo accordo, e per privare la ribellione delle sue basi naturali, il governo polacco trasferì la popolazione ucraina verso la parte nordoccidentale della Polonia.

La carestia del 1946-1947, che costrinse decine di migliaia di contadini dell'Ucraina orientale a rifugiarsi nell'Ucraina occidentale, meno colpita, fornì ancora per qualche tempo nuove reclute alla ribellione. A giudicare dalla seconda proposta d'amnistia firmata dal ministro ucraino degli Interni il 30 dicembre 1949, le «bande insorte» non erano reclutate esclusivamente tra i contadini. Tra le categorie di banditi il testo citava infatti «giovani fuggiti dalle fabbriche, dalle miniere del Donec e dalle scuole professionali». L'Ucraina occidentale fu pacificata definitivamente solo alla fine del 1950, dopo la collettivizzazione forzata delle terre, il trasferimento di interi villaggi, la deportazione o l'arresto di quasi 300 mila persone. Secondo le statistiche del ministero degli Interni, fra il 1945 e il 1952 furono deportati in Kazakistan e in Siberia come coloni speciali quasi 172 mila «membri dell'OUN e dell'UPA», spesso insieme ai loro familiari.

Le operazioni di deportazione di «contingenti vari», secondo la classificazione del ministero degli Interni, continuarono fino alla morte di Stalin. Nel periodo 1951-1952 furono deportati con operazioni circoscritte di piccola portata 11685 mingreli e 4707 iraniani della Georgia, 4365 testimoni di Geova, 4431 kulak della Bielorussia occidentale, 1445 kulak dell'Ucraina occidentale, 1415 kulak della regione di Pskov, 995 membri della setta dei «veri cristiani ortodossi», 2795 "basmac" del Tagikistan e 591 «vagabondi». L'unica differenza rispetto ai deportati appartenenti ai vari popoli «puniti» era che questi svariati contingenti non erano deportati «per sempre», ma per un periodo che andava da dieci a vent'anni.

***

Come testimoniano gli archivi del gulag aperti di recente, nei primi anni Cinquanta il sistema dei campi di concentramento conobbe un vero e proprio apogeo: nei campi di lavoro e nei «villaggi di colonizzazione» non c'erano mai stati tanti detenuti e tanti coloni speciali; ma gli stessi anni furono caratterizzati da una crisi senza precedenti di tale sistema.

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All'inizio del 1953 il gulag conteneva circa 2 milioni e 450 mila detenuti, suddivisi in tre tipi di insediamento:

"- circa 500 «colonie di lavoro» presenti in ogni regione, che contenevano in media da 1000 a 3000 detenuti ciascuna, il più delle volte condannati per reati comuni, la metà dei quali scontava pene inferiori a cinque anni; - una sessantina di grandi complessi penitenziari, i «campi di lavoro», situati principalmente nelle regioni settentrionali e orientali del paese, che ospitavano ciascuno molte decine di migliaia di detenuti condannati per la maggior parte a pene superiori a dieci anni per reati comuni o politici; - una quindicina di «campi a regime speciale» istituiti in base a una direttiva segreta del ministero degli Interni del 7 febbraio 1948, in cui erano detenuti esclusivamente prigionieri politici considerati «particolarmente pericolosi», ovvero circa 200 mila persone".

In questo immenso universo di campi ai detenuti si aggiungevano altri 2 milioni 750 mila coloni speciali, che dipendevano da un'altra direzione del gulag. La struttura aveva grossi problemi di organizzazione e di sorveglianza, ma anche di rendimento economico. Nel 1951 il generale Kruglov, ministro degli Interni, preoccupato per il calo costante della produttività dei condannati ai lavori forzati, lanciò una vasta campagna di verifica delle condizioni nel gulag. Le commissioni inviate in loco riferirono che la situazione era molto tesa.

Naturalmente lo era soprattutto nei «campi a regime speciale», dove i «politici» arrivati dal 1945 - «nazionalisti» ucraini e baltici esperti di lotta armata, «elementi estranei» delle regioni appena annesse, «collaborazionisti» reali o presunti e altri «traditori della patria» - dimostravano assai maggior decisione rispetto ai «nemici del popolo» degli anni Trenta, ex quadri del Partito convinti che il loro internamento fosse dovuto a qualche terribile equivoco. Questi detenuti erano condannati a pene da venti a venticinque anni, e non nutrivano alcuna speranza di essere liberati prima del tempo; insomma, non avevano più niente da perdere. Inoltre, il loro isolamento nei campi a regime speciale li aveva liberati dalla convivenza quotidiana con i detenuti per reati comuni. Come ha osservato Aleksandr Solzenicyn, proprio la promiscuità dei politici con i detenuti per reati comuni costituiva uno dei principali ostacoli all'instaurarsi di un clima di solidarietà. Una volta eliminato tale ostacolo, i campi speciali diventarono subito focolai di opposizione e di rivolta contro il regime. Erano particolarmente attive le reti ucraine e baltiche, intessute nella clandestinità della resistenza. Aumentarono le astensioni dal lavoro, gli scioperi della fame, le evasioni di gruppo, le sommosse. Secondo ricerche ancora incomplete, soltanto nel periodo 1950-1952 si verificarono sedici sommosse e rivolte di una certa portata, in ciascuna delle quali furono coinvolte centinaia di detenuti.

Le «ispezioni Kruglov» del 1951 rivelarono anche il degrado della situazione nei campi «ordinari», che si traduceva in un «allentamento generale della disciplina». Nel 1951 andò perduto un milione di giornate lavorative per il «rifiuto di lavorare» da parte dei detenuti. E all'interno dei campi aumentarono la criminalità e gli incidenti fra detenuti e sorveglianti, mentre la produttività dei condannati subì un brusco calo. Secondo l'amministrazione, questa situazione era in gran parte dovuta allo scontro fra bande rivali di detenuti: infatti i «ladri nella legalità», che rifiutavano di lavorare per rispettare la «regola della mala», si scontravano con le «cagne», che si sottomettevano al regolamento del campo. Il proliferare delle fazioni e delle risse minava la disciplina e generava «disordine». Ormai si moriva più spesso per una coltellata che per malattia o denutrizione. Lo ammise anche il Consiglio dei responsabili del gulag, tenutosi a Mosca nel gennaio del 1952: «L'amministrazione, che fino a ora ha saputo abilmente trarre vantaggio dai contrasti fra i diversi gruppi di detenuti, sta perdendo il controllo delle dinamiche interpersonali ... In certi campi, le fazioni stanno prendendo in pugno gli affari interni». Per dividere gruppi e fazioni l'amministrazione era costretta a ricorrere a incessanti trasferimenti di detenuti e a riorganizzare

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costantemente svariate sezioni di immensi complessi penitenziari, che spesso contenevano da 40 mila a 60 mila detenuti.

Tuttavia, a parte il problema delle fazioni che aveva una portata troppo vasta per passare inosservato, molti rapporti di ispezione stilati nel 1951-1952 si concludevano parlando della necessità di riorganizzare in modo radicale le strutture penitenziarie e produttive, e addirittura di ridurre nettamente gli effettivi. Per esempio, nel rapporto del gennaio del 1952 inviato al generale Dolgih, capo del gulag, il colonnello Zver'ev, responsabile del grande complesso di campi di Noril'sk in cui erano ospitati 69 mila detenuti, proponeva le seguenti misure:

1. isolare i membri delle fazioni. Zver'ev precisava: «Ma dato il grande numero di detenuti che sono parte attiva in una fazione o nell'altra ... riusciamo a isolarne soltanto i capi, e non sempre»; 2. liquidare le immense zone di produzione dove attualmente lavorano senza scorta decine di migliaia di detenuti appartenenti a fazioni rivali; 3. creare delle unità produttive più piccole per assicurare una miglior sorveglianza dei detenuti; 4. aumentare il personale di sorveglianza. Zver'ev aggiungeva: «Ma è impossibile organizzare questa sorveglianza come si deve, dato che la carenza degli organici raggiunge il 50 per cento»; 5. separare nei luoghi di produzione i detenuti dai lavoratori liberi. «Ma i rapporti tecnologici fra le diverse imprese del complesso di Noril'sk, la necessità di produrre a ritmo continuo e i gravi problemi di alloggio non permettono di isolare adeguatamente i detenuti dai lavoratori liberi ... In linea generale, il problema della produttività e della omogeneità del processo produttivo potrebbe essere risolto soltanto liberando anticipatamente 15 mila detenuti, che dovrebbero essere costretti a restare sul posto».

Quest'ultima proposta di Zver'ev era tutt'altro che incongrua nel contesto dell'epoca. Nel gennaio del 1951 il ministro degli Interni Kruglov aveva chiesto a Berija la liberazione anticipata di 6000 detenuti, che dovevano essere inviati come lavoratori liberi nell'immenso cantiere della centrale idroelettrica di Stalingrado, dove pativano oltre 25 mila internati, a quanto pare senza grandi risultati. La prassi di liberare anticipatamente i condannati, soprattutto se lavoratori qualificati, era assai frequente all'inizio degli anni Cinquanta. Essa mette in luce il problema fondamentale di assicurare il rendimento economico in un sistema di campi ipertrofico. Di fronte al rapido dilagare di effettivi meno facilmente malleabili di quanto non lo fossero in passato, a problemi di organizzazione e di sorveglianza - il gulag aveva quasi 208 mila dipendenti - l'enorme macchina amministrativa aveva difficoltà sempre crescenti a smascherare la "tufta" (i falsi bilanci) e a garantire un rendimento che era sempre stato incerto. Per risolvere questo eterno problema l'amministrazione poteva scegliere soltanto fra due soluzioni: o sfruttare al massimo la manodopera penitenziaria, senza tener conto delle perdite di vite umane, o utilizzarla in modo più razionale, prolungandone la sopravvivenza. La prima soluzione prevalse fin verso il 1948. Alla fine degli anni Quaranta il regime si rese conto dell'immensa carenza di manodopera nel paese dissanguato dalla guerra, e le autorità penitenziarie decisero di sfruttare i detenuti in maniera più «economica». Per tentare di stimolare la produttività furono introdotti premi e «salari», e vennero aumentate le razioni alimentari per chi riusciva a realizzare gli standard; il tasso annuo di mortalità crollò al 2-3 per cento. Questa «riforma» si scontrò immediatamente con la realtà dell'universo concentrazionario.

All'inizio degli anni Cinquanta le infrastrutture produttive erano in uso già da quasi un ventennio e in generale non avevano beneficiato di alcun investimento recente. Le immense unità penitenziarie, che raggruppavano decine di migliaia di detenuti, erano state istituite negli anni precedenti con la prospettiva di un utilizzo estensivo della manodopera: si trattava di strutture pesanti, difficilmente riformabili nonostante i numerosi tentativi fatti dal 1949 al 1952 per frammentarle in unità produttive più piccole. Poiché il salario corrisposto ai detenuti ammontava a qualche centinaio di rubli l'anno, cioè da quindici a venti volte meno del salario medio di un lavoratore libero, il suo

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valore di incentivo per garantire una produttività più alta era pressoché nullo, soprattutto in quel momento. Infatti, un numero sempre crescente di detenuti si rifiutava di lavorare, proliferavano le bande organizzate e cresceva il bisogno di sorveglianza. In fin dei conti il detenuto meglio pagato e meglio sorvegliato, sia che si assoggettasse alle regole dell'amministrazione, sia che preferisse obbedire alla «legge della mala», costava sempre più caro.

Tutti i dati parziali riferiti dai rapporti di ispezione degli anni 1951-1952 danno la stessa indicazione: il gulag era diventato una macchina sempre più difficile da gestire. Del resto, tutti gli ultimi grandi cantieri staliniani che avevano fatto largamente ricorso alla manodopera penitenziaria, quelli delle centrali idroelettriche di Kujbyscev e di Stalingrado, del canale del Turkmenistan e del canale Volga-Don, si trovarono in netto ritardo. Per accelerare i lavori le autorità dovettero trasferirvi numerosi lavoratori liberi o anticipare la liberazione dei detenuti più motivati.

La crisi del gulag getta nuova luce sull'amnistia che Berija concesse a un milione 200 mila detenuti il 27 marzo 1953, appena tre settimane dopo la morte di Stalin. A parte le considerazioni di carattere politico, non è possibile prescindere dalle ragioni economiche se si vogliono comprendere i motivi che portarono i candidati alla successione di Stalin a proclamare l'amnistia. Essi erano consapevoli delle immense difficoltà di gestione del gulag, sovrappopolato e sempre meno «redditizio». Tuttavia, proprio mentre l'amministrazione penitenziaria chiedeva un «alleggerimento» dei contingenti di detenuti, Stalin, che invecchiando era preda di una paranoia sempre più accentuata, preparava un'altra grande epurazione, un secondo Grande terrore. Nel clima pesante e inquieto della fine dello stalinismo, aumentavano le contraddizioni...

14. L'ULTIMO COMPLOTTO Il 13 gennaio 1953 la «Pravda» annunciò la scoperta di un complotto del «gruppo terrorista dei medici», costituito prima da nove e poi da quindici medici famosi, oltre la metà dei quali erano ebrei. L'accusa era di aver approfittato delle alte funzioni che ricoprivano al Cremlino per «accorciare la vita» ad Andrej Zdanov, membro dell'Ufficio politico morto nell'agosto del 1948, e ad Aleksandr Scerbakov, morto nel 1950, e di aver tentato di assassinare alcuni grandi capi militari sovietici per ordine dell'Intelligence Service e di un'organizzazione di assistenza ebraica, l'American Joint Distribution Committee. La donna che li aveva denunciati, la dottoressa Timaciuk, ricevette solennemente l'Ordine di Lenin, mentre gli imputati, sottoposti agli interrogatori di prassi, continuavano a «confessare». Com'era già accaduto fra il 1936 e il 1938, si tennero migliaia di comizi per invocare la punizione dei colpevoli, l'ampliamento delle inchieste e il ritorno a un'autentica «vigilanza bolscevica». Nelle settimane successive alla scoperta del «complotto dei camici bianchi» tornarono d'attualità i temi degli anni del Grande terrore, grazie a una vasta campagna di stampa che chiedeva «di far cessare l'incoscienza criminale diffusa tra le file del Partito e liquidare definitivamente il sabotaggio». Prendeva piede l'idea di una grande cospirazione in cui erano coinvolti intellettuali, ebrei, militari, alti funzionari del Partito e dell'economia, funzionari delle repubbliche non russe: sembravano i momenti peggiori della "ezovscina".

I documenti oggi accessibili confermano che il complotto dei camici bianchi fu un momento decisivo nello stalinismo del dopoguerra. Questo caso segnava il coronamento di una campagna «anticosmopolita», cioè antisemita, lanciata all'inizio del 1949 ma di cui si erano già gettate le basi fra il 1946 e il 1947, e allo stesso tempo il probabile inizio di un'altra epurazione generale, di un altro Grande terrore. Se non prese il via, fu soltanto a causa della morte di Stalin, avvenuta alcune settimane dopo l'annuncio pubblico del complotto. A queste due dimensioni se ne aggiungeva una terza: la lotta tra le diverse fazioni del ministero degli Interni e del ministero della Sicurezza di Stato, che dal 1946 erano divisi e sottoposti a costanti rimaneggiamenti . Questi scontri in seno alla polizia politica erano già di per sé il riflesso di una lotta fra i massimi esponenti degli apparati politici, tutti potenziali eredi di Stalin, che si muovevano ormai nella prospettiva della successione.

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Resta infine un'ultima dimensione inquietante: otto anni dopo la pubblica denuncia dei campi di sterminio nazisti, il «processo» faceva riaffiorare il vecchio fondo antisemita dello zarismo contro cui i bolscevichi si erano battuti, mettendo così in rilievo la deriva imboccata dallo stalinismo nella sua ultima fase.

Non è questa la sede per tentare di dipanare la matassa del processo, o meglio dei processi che confluirono verso questo momento finale. Ci limiteremo perciò a ricordare brevemente le tappe principali che portarono all'ultimo complotto. Nel 1942 il governo sovietico creò un Comitato antifascista ebraico sovietico presieduto da Solomon Mihoel's, direttore del famoso teatro jiddisch di Mosca. Nelle intenzioni del potere, il Comitato avrebbe dovuto premere sugli ebrei americani perché convincessero il governo statunitense ad aprire al più presto un «secondo fronte» in Europa contro la Germania nazista. Vi partecipavano attivamente centinaia di intellettuali ebrei: il romanziere Il'ja Erenburg, i poeti Samuil Marsciak e Perec Markish, il pianista Emil' Gilel's, lo scrittore Vasilij Grossman, il grande fisico P‰tr Kapica, padre della bomba atomica sovietica eccetera. Ben presto il Comitato sconfinò dal suo ruolo di organismo ufficioso di propaganda per proporsi come organo rappresentativo dell'ebraismo sovietico. Nel febbraio del 1944 i dirigenti del Comitato, Mihoel's, Fefer ed Epshtejn, giunsero persino a inviare a Stalin una lettera in cui proponevano di instaurare una repubblica autonoma ebraica in Crimea, che avrebbe potuto far dimenticare l'esperienza tentata negli anni Trenta di uno «Stato nazionale ebraico» nel Birobidzan, esperienza sfociata in un fiasco clamoroso. Infatti, in quella regione sperduta, paludosa e desertica dell'estremo oriente siberiano, ai confini con la Cina, in dieci anni si erano stabiliti meno di 40 mila ebrei.

Il Comitato si dedicò anche a raccogliere testimonianze sui massacri di ebrei da parte dei nazisti e sui «fenomeni anomali riguardanti gli ebrei», un eufemismo con cui si indicavano le manifestazioni di antisemitismo fra la popolazione. E queste ultime erano numerose. Forti tradizioni antisemite erano ancora vive in Ucraina e in certe zone occidentali della Russia, soprattutto nell'ex «zona di insediamento» dell'impero, dove il potere zarista aveva concesso agli ebrei di risiedere. Le prime sconfitte dell'Armata rossa rivelarono quanto fosse diffuso l'antisemitismo fra la popolazione. Alcuni rapporti dell'N.K.V.D. sullo «stato d'animo nelle retrovie» ammettevano che larghe fasce della popolazione erano sensibili alla propaganda nazista secondo cui i tedeschi facevano guerra soltanto agli ebrei e ai comunisti. Nelle regioni occupate dai tedeschi, soprattutto in Ucraina, i massacri degli ebrei, pur avvenendo sotto gli occhi di tutta la popolazione, a quanto pare suscitarono ben poca indignazione. I tedeschi reclutarono quasi 80 mila fiancheggiatori ucraini, alcuni dei quali parteciparono ai massacri. Per controbattere su questo punto la propaganda nazista, e mobilitare il fronte e le retrovie invocando la lotta dell'intero popolo sovietico per la sopravvivenza, gli ideologi bolscevichi rifiutarono nettamente di riconoscere la specificità dell'Olocausto. Fu proprio su questo terreno che si sviluppò l'antisionismo, e poi l'antisemitismo ufficiale, a quanto sembra particolarmente violento negli ambienti dell'Agit-prop (agitazione e propaganda) del Comitato centrale. Nell'agosto del 1942 questo dipartimento aveva stilato una nota interna sulla Posizione dominante degli ebrei negli ambienti artistici, letterari e giornalistici.

L'attivismo del Comitato finì ben presto per indisporre le autorità. All'inizio del 1945 fu decretata la censura delle opere del poeta ebreo Perec Markish e la pubblicazione del "Libro nero" sulle atrocità naziste contro gli ebrei fu annullata con questa scusa: «Il filo conduttore di tutto il libro è l'idea che i tedeschi abbiano fatto la guerra contro l'URSS all'unico scopo di annientare gli ebrei». Il 12 ottobre 1946 il ministro per la Sicurezza di Stato, Abakumov, inviò una nota al Comitato centrale intitolata "Sulle tendenze nazionalistiche del Comitato antifascista ebraico", Stalin, che per ragioni di strategia internazionale intendeva portare avanti una politica estera favorevole alla creazione dello Stato di Israele, non reagì immediatamente. Abakumov ebbe carta bianca per intraprendere la liquidazione del Comitato solo dopo il 29 novembre 1947, data in cui all'ONU l'URSS votò a favore

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del piano di spartizione della Palestina. Il 19 dicembre 1947 molti membri del Comitato furono arrestati. Alcune settimane dopo, il 13 gennaio 1948, Solomon Mihoel's fu trovato morto a Minsk. Secondo la versione ufficiale era stato vittima di un incidente automobilistico. Alcuni mesi dopo, il 21 novembre 1948, il Comitato antifascista ebraico fu sciolto con il pretesto che era diventato un «centro di propaganda antisovietica». Le varie pubblicazioni curate dal Comitato furono proibite, in particolare il giornale jiddisch «Einikait», cui collaborava la crema degli intellettuali ebrei sovietici. Nelle settimane successive tutti i membri del Comitato vennero arrestati. Nel febbraio del 1949 la stampa lanciò una vasta campagna «anticosmopolita». I critici teatrali ebrei furono denunciati per la loro «incapacità di capire il carattere nazionale russo»: «Che idea può avere un Gurvic o uno Juzovskij del carattere nazionale dell'uomo russo sovietico?» scriveva la «Pravda» il 2 febbraio 1949. Nei primi mesi del 1949 centinaia di intellettuali ebrei furono arrestati, specialmente a Leningrado e a Mosca. Di recente la rivista «Neva» ha pubblicato un documento esemplare di questo periodo: la sentenza emessa il 7 luglio 1949 dal collegio giudiziario del tribunale di Leningrado che condannava Akila Grigor'evic Leniton, Il'ja Zejlkovic Serman e Rul'f Aleksandrovna Zevina a dieci anni di internamento nei campi. Gli imputati furono riconosciuti colpevoli di avere «criticato» fra loro «la risoluzione del Comitato centrale sulle riviste "Zvezda" e "Leningrad" partendo da posizioni antisovietiche ... interpretato le opinioni internazionali di Marx in uno spirito controrivoluzionario, lodato gli scrittori cosmopoliti ... e calunniato la politica governativa sovietica sulla questione delle nazionalità». Dato che gli imputati avevano ricorso in appello, furono condannati a venticinque anni dal collegio giudiziario della Corte suprema, che giustificò così la sentenza: «La pena inflitta dal tribunale di Leningrado non ha tenuto conto della gravità del reato commesso ... Gli imputati hanno infatti condotto agitazione controrivoluzionaria basandosi su pregiudizi nazionalistici e affermando la superiorità di una nazione sulle altre nazioni dell'Unione Sovietica»!

Il siluramento degli ebrei fu eseguito in modo sistematico, soprattutto negli ambienti della cultura, dell'informazione, della stampa, dell'editoria, della medicina, insomma nelle professioni in cui occupavano posti di responsabilità. Gli arresti si moltiplicarono nei settori più svariati: da un certo gruppo di «ingegneri sabotatori», per la maggior parte ebrei, arrestati nel complesso industriale metallurgico di Stalino, condannati a morte e giustiziati il 12 agosto 1952, alla moglie ebrea di Molotov, Pavlina Zemciuzina, dirigente superiore nell'industria tessile, che fu arrestata il 21 gennaio 1949 per «smarrimento di documenti contenenti segreti di Stato», processata e internata nei campi per cinque anni, e ancora alla moglie, sempre ebrea, del segretario personale di Stalin, Aleksandr Poskrebyscev, accusata di spionaggio e fucilata nel luglio del 1952. Molotov e Poskrebyscev continuarono a servire Stalin come se nulla fosse accaduto.

Tuttavia, l'istruttoria sugli imputati del Comitato antifascista ebraico andava per le lunghe. Il processo, che si svolse a porte chiuse, incominciò soltanto nel maggio del 1952, cioè due anni e mezzo dopo gli arresti. Perché tanto ritardo? In base alla documentazione oggi accessibile, ancora lacunosa, la durata eccezionale dell'istruttoria può essere spiegata in due modi. Nello stesso periodo Stalin stava orchestrando, sempre nel massimo segreto, un altro processo, detto «di Leningrado», un tassello importante che, insieme al fascicolo istruttorio sul Comitato antifascista ebraico, doveva preparare la grande epurazione finale. Contemporaneamente stava mettendo in atto una profonda riorganizzazione dei servizi di Sicurezza. In quest'ambito l'episodio più importante fu nel luglio del 1951 l'arresto di Abakumov, che aveva per bersaglio principale l'onnipotente Berija, vicepresidente del Consiglio dei ministri e membro dell'Ufficio politico. Il processo al Comitato antifascista ebraico era basilare all'interno delle lotte per assicurarsi la successione e la supremazia, un elemento centrale del dispositivo che doveva sfociare nel processo ai camici bianchi e in un secondo Grande terrore.

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Ancora oggi il processo di Leningrado, che si concluse con l'esecuzione dei principali dirigenti della seconda organizzazione per importanza all'interno del P.C.U.S., è il più misterioso di questi eventi. Il 15 febbraio 1949 l'Ufficio politico adottò una risoluzione "Sulle azioni antipartito di Kuznecov, Rodionov e Popkov", tre alti dirigenti del Partito. Furono tutti destituiti dalle loro funzioni; lo stesso accadde a Voznesenskij, presidente del Gosplan (l'organo di pianificazione di Stato), e alla maggior parte dei membri dell'apparato di partito di Leningrado, una città che Stalin aveva sempre guardato con sospetto. Fra l'agosto e il settembre del 1949 tutti questi dirigenti furono arrestati con l'accusa di aver organizzato un gruppo «antipartito» legato... all'Intelligence Service! Abakumov sferrò allora una vera e propria caccia ai «veterani del partito di Leningrado», che ricoprivano cariche di responsabilità in altre città di altre repubbliche. Centinaia di comunisti di Leningrado furono arrestati e circa duemila espulsi dal Partito e cacciati dal posto di lavoro. La repressione assunse forme sconvolgenti, colpendo la città stessa in quanto entità storica. Per esempio, nell'agosto del 1949 le autorità chiusero il Museo della Difesa di Leningrado, dedicato alle gesta eroiche compiute nel periodo del blocco della città durante la «Grande guerra patriottica» (la seconda guerra mondiale). Alcuni mesi dopo Mihail Suslov, responsabile per l'ideologia, fu incaricato dal Comitato centrale di istituire una «commissione di liquidazione» del museo, che lavorò sino alla fine del febbraio del 1953.

I principali accusati del processo di Leningrado (Kuznecov, Rodionov, Popkov, Voznesenskij, Kapustin, Lazutin) furono giudicati a porte chiuse il 30 settembre 1950 e giustiziati l'indomani, un'ora dopo che era stata pronunciata la sentenza. Tutto il processo si svolse nella più totale segretezza. Nessuno ne fu informato, nemmeno la figlia di uno degli accusati più importanti, benché fosse la nuora di Anastas Mikojan, ministro e membro dell'Ufficio politico! Durante il mese di ottobre del 1950, in altri processi farsa furono condannati a morte decine di quadri dirigenti del Partito, tutti ex membri dell'organizzazione di Leningrado: Solov'ev, primo segretario del Comitato regionale di Leningrado; Badaev, secondo segretario del Comitato regionale di Leningrado; Verbickij, secondo segretario del Comitato regionale di Murmansk; Basov, primo vicepresidente del Consiglio dei ministri della Russia eccetera.

Non è chiaro se l'epurazione dei «leningradesi» fu un semplice regolamento di conti tra fazioni dell'apparato o un anello della catena di processi che andava dalla liquidazione del Comitato antifascista ebraico al complotto dei camici bianchi, passando per l'arresto di Abakumov e per il «complotto nazionalista mingrelo». La seconda ipotesi sembra la più probabile. Il processo di Leningrado fu senza dubbio una tappa decisiva nella preparazione di una grande epurazione, cui venne dato pubblicamente inizio il 13 gennaio 1953. E' indicativo che i crimini imputati ai dirigenti leningradesi decaduti collegassero tutto il processo ai sinistri anni 1936-1938.

Nell'ottobre del 1949, durante l'assemblea plenaria dei quadri di partito di Leningrado, il nuovo primo segretario Andrjanov annunciò all'uditorio sbalordito che gli ex dirigenti avevano pubblicato testi trotzkisti e zinovievisti: «Fra i documenti pubblicati per ordine di quegli individui venivano inseriti surrettiziamente e in modo mascherato alcuni articoli dei peggiori nemici del popolo: Zinov'ev, Kamenev, Trockij e altri». Per i quadri dell'apparato era chiaro il messaggio implicito nella grottesca accusa: tutti dovevano prepararsi a un altro 1937.

Dopo l'esecuzione dei principali imputati del processo di Leningrado, avvenuta nell'ottobre del 1950, all'interno dei servizi di Sicurezza e dei servizi del ministero degli Interni si susseguirono innumerevoli manovre e contromanovre. Stalin, che era diventato diffidente nei confronti di Berija, inventò un fantomatico complotto nazionalista mingrelo che aveva lo scopo di annettere alla Turchia la Mingrelia, la regione della Georgia di cui per l'appunto era originario Berija. Questi fu costretto a decimare i propri «compatrioti» e a dirigere l'epurazione del Partito comunista georgiano. Nell'ottobre del 1951 Stalin inferse un altro colpo a Berija, facendo arrestare un gruppo di vecchi

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quadri ebrei della Sicurezza e della Procura, fra cui il tenente colonnello Ejtingon, che nel 1940 aveva organizzato l'assassinio di Trockij su ordine di Berija, il generale Leonid Rajhman, che aveva partecipato alla montatura dei processi di Mosca, il colonnello Lev Shvarcman, che aveva torturato Babel' e Mejerhol'd, il giudice istruttore Lev Scenin, braccio destro del pubblico ministero dei grandi processi di Mosca del 1936-1938, Vyscinskij, e altri. Furono tutti accusati di avere organizzato un vasto «complotto nazionalista ebraico» diretto... da Abakumov, ministro della Sicurezza di Stato e intimo collaboratore di Berija.

Abakumov era stato arrestato e incarcerato alcuni mesi prima, il 12 luglio 1951. Fu accusato innanzi tutto di aver fatto sparire deliberatamente Jakob Etinger, famoso medico ebreo arrestato nel novembre del 1950 e morto in prigione poco tempo dopo. Secondo le accuse, «eliminando» Etinger - il quale nel corso della sua lunga carriera aveva curato fra gli altri Sergej Kirov, Sergo Ordzonikidze, il maresciallo Tuhacevskij, Palmiro Togliatti, Tito e Georgi Dimitrov - Abakumov aveva tentato di «impedire che fosse smascherato un gruppo criminale costituito da nazionalisti ebrei infiltrati al più alto livello del ministero della Sicurezza di Stato». Alcuni mesi dopo lo stesso Abakumov venne presentato come il «cervello» del complotto nazionalista ebraico! Insomma, l'arresto di Abakumov nel luglio del 1951 costituì una tappa decisiva nella montatura di un vasto «complotto giudeo-sionista»; garantì il collegamento fra la liquidazione, ancora segreta, del Comitato antifascista ebraico e il complotto dei camici bianchi, destinato a diventare il segnale pubblico dell'epurazione. Perciò, tutta la trama prese corpo non alla fine del 1952, ma nel corso del 1951.

Il processo ai membri del Comitato antifascista ebraico si svolse a porte chiuse e nella massima segretezza fra l'11 e il 18 febbraio 1952. Tredici imputati furono condannati a morte e giustiziati il 12 agosto 1952, contemporaneamente ad altri dieci «ingegneri sabotatori», tutti ebrei, della fabbrica automobilistica «Stalin». In totale il «processo» del Comitato antifascista ebraico si concluse con 125 condanne, di cui 25 alla pena capitale, tutte eseguite, e 100 condanne a pene da dieci a venticinque anni di internamento nei campi. Nel settembre del 1952 la sceneggiatura del complotto giudeo-sionista era pronta. La sua attuazione fu rimandata di alcune settimane, il tempo necessario per lo svolgimento del Diciannovesimo Congresso del P.C.U.S., che finalmente si riunì nell'ottobre del 1952, tredici anni e mezzo dopo il Diciottesimo. Alla fine del congresso furono arrestati, incarcerati e torturati moltissimi dei medici ebrei chiamati in causa in quello che per il pubblico doveva diventare il caso dei camici bianchi. Parallelamente agli arresti, per il momento tenuti segreti, il 22 novembre 1952 si aprì a Praga il processo a Rudolf Sl nsky, ex segretario generale del Partito comunista cecoslovacco, e a tredici altri dirigenti comunisti; undici di loro furono condannati a morte e impiccati. Questa parodia giudiziaria, montata da cima a fondo dai consulenti sovietici della polizia politica, aveva fra l'altro la peculiarità di essere apertamente antisemita: undici dei quattordici imputati erano ebrei, accusati di aver costituito un partito «trotzkista-titoista-sionista». La preparazione di questo processo fu l'occasione per una vera caccia agli ebrei negli apparati dei partiti comunisti dell'Europa orientale. Il giorno dopo l'esecuzione degli undici condannati a morte del processo Sl nsky, avvenuta il 4 dicembre 1952, Stalin fece votare al presidium del Comitato centrale una risoluzione intitolata "Sulla situazione nel ministero della Sicurezza di Stato", che ordinava agli organi di partito di «far cessare l'assoluta mancanza di controllo all'interno degli organismi della Sicurezza di Stato». La Sicurezza fu messa sul banco degli imputati: aveva dato prova di «lassismo», mancato di «vigilanza», permesso ai «medici sabotatori» di esercitare la loro funesta attività. Si era fatto un altro passo avanti. Stalin contava di utilizzare il caso dei camici bianchi contro la Sicurezza e contro Berija. Quest'ultimo, grande specialista di intrighi all'interno dell'apparato, non poteva ignorare il significato di ciò che si stava preparando.

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Si sa ancora assai poco su quanto accadde nelle settimane che precedettero la morte di Stalin. Dietro alla campagna «ufficiale» che chiedeva di «rinforzare la vigilanza bolscevica» e di «lottare contro qualsiasi forma di negligenza», dietro ai comizi e alle riunioni in cui si invocava una «punizione esemplare» per gli «assassini cosmopoliti», proseguivano le istruttorie e gli interrogatori dei medici arrestati. I nuovi arresti davano ogni giorno maggiore ampiezza al complotto.

Il 19 febbraio 1953 venne arrestato Ivan Majskij, sottosegretario agli Esteri, braccio destro di Molotov e già ambasciatore dell'URSS a Londra. Majskij, sottoposto a interrogatori continui, «confessò» di essere stato reclutato come spia britannica da Winston Churchill, insieme ad Aleksandra Kollontaj, figura eminente del bolscevismo. Nel 1921 la Kollontaj aveva dato vita all'«Opposizione operaia» insieme a Shljapnikov, giustiziato nel 1937, e poi era stata ambasciatrice dell'URSS a Stoccolma fino alla fine della seconda guerra mondiale.

Ciò nonostante, malgrado i «progressi» sensazionali nelle indagini sul complotto, non si può fare a meno di notare che, a differenza di quanto era accaduto nel 1936-1938, fra il 13 gennaio e il 5 marzo, giorno della morte di Stalin, nessuno dei grandi dignitari del regime si impegnò per denunciare pubblicamente il processo. Secondo la testimonianza di Bulganin, raccolta nel 1970, solo quattro dirigenti «erano della partita», a parte Stalin, principale ispiratore e organizzatore di tutta la manovra: Malenkov, Suslov, Rjumin e Ignat'ev. Di conseguenza, tutti gli altri potevano sentirsi minacciati. Sempre secondo Bulganin, il processo contro i medici ebrei doveva aprirsi a metà marzo e proseguire con le deportazioni in massa degli ebrei sovietici verso il Birobidzan. Allo stato attuale delle conoscenze, dato che gli archivi presidenziali dove vengono conservati gli incartamenti più segreti e più «delicati» sono per ora accessibili solo in misura assai limitata, è impossibile sapere se all'inizio del 1953 fosse allo studio tale piano di deportazione in massa degli ebrei. Una sola cosa è certa: la morte di Stalin capitò al momento giusto per interrompere finalmente la serie dei milioni di vittime della sua dittatura.

NOTE

1. Passo sottolineato a matita; in margine, a matita: «Viene da chiedersi a che serve "portarli a destinazione"?».

2. L'articolo 58 del Codice penale riguardava tutti i «crimini controrivoluzionari». Aveva ben quattordici commi. Nell'ambiente dei campi i detenuti politici erano indicati come «j 58». Il comma 58.10 riguardava «propaganda o agitazione che mira a distruggere o indebolire il potere sovietico». In caso di «propaganda di gruppo» - il reato generalmente imputato - le pene previste andavano da tre anni di internamento nei campi alla pena di morte.

3. Passo sottolineato a matita, con nota a margine: «Bisogna processarli di nuovo o farli passare davanti all'O.S.» (la Commissione speciale dell'N.K.V.D., organo extragiudiziario incaricato di reprimere i «crimini controrivoluzionari»).

15. L'USCITA DALLO STALINISMO La morte di Stalin, avvenuta quasi a metà dei settant'anni di vita dell'Unione Sovietica, segna un momento decisivo, la fine di un'epoca, se non la fine di un sistema. Come scrive Francois Furet, con la scomparsa della Guida suprema venne in luce «il paradosso di un sistema che sosteneva di essere iscritto nelle leggi dell'evoluzione sociale, ma in cui viceversa tutto dipendeva da un unico uomo, e anzi ne dipendeva cosa strettamente che alla sua morte il sistema aveva perso qualche cosa di essenziale». Una componente cruciale di questo «qualche cosa» era l'alto grado di repressione esercitata dallo Stato nei confronti della società sotto le forme più varie.

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Il problema politico posto dalla successione si proponeva con particolare complessità i principali collaboratori di Stalin: Malenkov, Molotov, Voroscilov, Mikojan, Kaganovic, Hruscí Bulganin, Berija. Essi dovevano contemporaneamente assicurare la continuità del sistema, spartirsi le responsabilità di governo, trovare un equilibrio fra la preminenza di uno solo, sia pure attenuata, e l'esercizio della collegialità tenendo conto delle ambizioni di ognuno e dei rapporti di forze, e introdurre entro breve tempo un certo numero di novità sulle quali esisteva un'ampia convergenza di opinioni.

La difficoltà di conciliare tali obiettivi spiega perché lo svolgimento delle vicende politiche nell'intervallo fra la morte di Stalin e l'eliminazione di Berija (arrestato il 26 giugno 1953) sia stato complesso e tortuoso. Oggi sono disponibili i resoconti stenografici delle assemblee plenarie del Comitato centrale che si tennero il 5 marzo 1953 (giorno della morte di Stalin) e dal 2 al 7 luglio 1953 (1) (dopo l'eliminazione di Berija): dai verbali appare chiaramente quali ragioni inducessero i dirigenti sovietici ad avviare quella sorta di «emersione dallo stalinismo» che Nikita Hruscí avrebbe trasformato in «destalinizzazione», e i cui momenti culminanti furono il Ventesimo Congresso del P.C.U.S., nel febbraio del 1956, e il Ventiduesimo Congresso, nell'ottobre del 1962.

La prima ragione era l'istinto di sopravvivenza, l'autodifesa. Negli ultimi mesi della vita di Stalin quasi tutti i dirigenti avevano avuto la percezione di quanto fossero diventati a loro volta vulnerabili; nessuno era al sicuro: nè¨ Voroscilov, apostrofato come «agente dell'Intelligence Service», nè¨ Molotov e Mikojan, che il dittatore aveva cacciato dal presidium del Comitato centrale, nè Berija, minacciato da torbidi intrighi, di cui lo stesso Stalin era l'ispiratore, all'interno dei servizi di Sicurezza. Anche ai livelli intermedi, le 鬩te della burocrazia che si erano ricostituite dopo la guerra temevano e rifiutavano gli aspetti terroristici del regime: l'onnipotenza della polizia politica era l'ultimo ostacolo che impediva loro di approfittare di una carriera stabile. Prima di tutto occorreva smantellare quello che Martin Malia ha giustamente definito «il meccanismo realizzato dal dittatore defunto a proprio uso e consumo», in modo che nessuno potesse più servirsene per affermare la propria preminenza a spese dei colleghi - e rivali - politici. A coalizzare gli «eredi di Stalin» contro Berija, che appariva allora come il più potente di tutti i dirigenti poiché aveva a sua disposizione l'immenso apparato della Sicurezza e degli Interni, non furono tanto le eventuali divergenze di fondo circa le riforme da introdurre, quanto la paura di veder tornare al potere un nuovo dittatore. Tutti avevano imparato una lezione ben precisa: occorreva che gli apparati repressivi non potessero mai più sfuggire al controllo del Partito» (fuori dal linguaggio cifrato: diventare l'arma di un solo individuo) e minacciare l'oligarchia politica.

La seconda e più sostanziale motivazione al cambiamento consisteva nel fatto che tutti i principali dirigenti, da Hruscí¡ Malenkov, erano ben consapevoli della necessità di introdurre riforme economiche e sociali. La gestione dell'economia su basi esclusivamente repressive, fondata sul prelievo forzoso di quasi tutta la produzione agricola, sulla criminalizzazione dei rapporti sociali e sull'ipertrofia del gulag, aveva prodotto una grave crisi economica e una serie di blocchi psicologici nella società che impedivano ogni progresso nella produttività del lavoro. Il modello economico attuato negli anni Trenta contro la volontà della stragrande maggioranza dei cittadini, e sfociato nei cicli di repressione sopra descritti, appariva sorpassato.

Infine, la terza motivazione a cambiare scaturiva dalla dinamica stessa delle lotte di successione, che alimentavano una spirale ascendente, un gioco al rialzo nella politica: colui che alla fine seppe spingersi più lontano di tutti i suoi colleghi sulla strada della destalinizzazione, moderata e parziale sul piano politico ma radicale sul piano della vita quotidiana della popolazione, fu Nikita Hruscí per tutta una serie di ragioni che non analizzeremo in questa sede: la personale idoneità ad accettare di fare i conti con il proprio passato di stalinista, un rimorso sincero, certe doti di abilità politica, un suo peculiare populismo, l'attaccamento a una certa forma di fede socialista nel «radioso

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avvenire», la volontà di tornare a quella che considerava la «legalità socialista» eccetera. Ci si può chiedere allora quali furono le fasi principali dello smantellamento del meccanismo repressivo, di quel movimento che in pochi anni contribuì a trasformare l'Unione Sovietica da sistema caratterizzato da un alto grado di repressione giudiziaria ed extra giudiziaria a regime autoritario e poliziesco, in cui per un'intera generazione ancora il ricordo del Terrore sarebbe stato uno dei garanti più efficaci dell'ordine post - staliniano. A meno di due settimane dalla morte di Stalin il gulag sub una riorganizzazione radicale, passando alle dipendenze del ministero della Giustizia; le sue infrastrutture economiche furono invece trasferite sotto la giurisdizione dei competenti ministeri civili. Ma ancor più spettacolare di queste novità in campo amministrativo, che rivelavano come l'onnipotente ministero degli Interni fosse stato nettamente ridimensionato, fu l'annuncio di un'ampia amnistia comparso sulla «Pravda» del 28 marzo 1953. Secondo i termini di un decreto promulgato il giorno precedente dal presidium del Soviet supremo dell'URSS e firmato dal suo presidente, il maresciallo Voroscilov, beneficiavano dell'amnistia:

1. tutti i condannati a pene inferiori ai cinque anni; 2. tutte le persone condannate per prevaricazione, reati economici e abusi di potere; 3. le donne incinte e le madri di bambini minori di dieci anni, i minorenni, gli uomini e le donne sopra i cinquant'anni.

Inoltre, il decreto di amnistia prevedeva che per tutti gli altri detenuti il residuo di pena da scontare alla data della promulgazione fosse dimezzato; erano esclusi dal provvedimento i condannati per crimini «controrivoluzionari», per furto su larga scala, per banditismo e per assassinio premeditato.

Entro poche settimane abbandonarono il gulag circa un milione 200 mila detenuti, ossia più o meno la metà della popolazione internata nei campi e nelle colonie penali. Nella maggior parte dei casi poteva trattarsi, per esempio, di piccoli delinquenti, condannati per furti di lieve entità ma anche, molto spesso, di semplici cittadini caduti sotto i colpi di una delle innumerevoli leggi repressive che regolavano ai sensi del Codice penale quasi ogni sfera di attività da quella sull'«abbandono del posto di lavoro» alle «infrazioni alla legge sui passaporti interni». Questa amnistia parziale, dalla quale erano appunto esclusi i prigionieri politici e i “rasferiti speciali” nellastessa ambiguità che la caratterizzava rispecchiava le evoluzioni ancora incerte e i percorsi tortuosi della primavera del 1953, periodo di accanite lotte per il potere, nel corso del quale Lavrentij Berija, primo vicepresidente del Consiglio dei ministri e ministro degli Interni, sembr trasfigurarsi nel personaggio del «grande riformatore».

Quali considerazioni avevano ispirato quest'ampia amnistia? Secondo Amy Knight, biografa di Berija, l'amnistia del 27 marzo 1953, decisa per iniziativa dello stesso ministro degli Interni, rientrava in una serie di provvedimenti politici che testimoniavano la «svolta liberale» di Berija. Alla morte di Stalin, quest'ultimo si trovò coinvolto nelle lotte per il potere, e nell'ambito delle sue strategie politiche fu preso in una spirale di gioco al rialzo. Per giustificare l'amnistia, il 24 marzo Berija aveva inviato al presidium del Comitato centrale un lungo memorandum in cui spiegava come, sui 2 milioni 256402 detenuti compresi nella giurisdizione del gulag, i «criminali di Stato di particolare pericolosità fossero soltanto 221435, perlopiù rinchiusi nei «campi speciali». Berija ammetteva (confessione stupefacente e assai significativa!) che nella stragrande maggioranza tali detenuti non rappresentavano una seria minaccia per lo Stato: un'amnistia su larga scala era auspicabile per decongestionare in fretta un sistema penitenziario troppo gravoso e poco redditizio sul piano economico.

Il problema della crescente complessità gestionale dell'immenso gulag veniva sollevato a intervalli regolari fin dai primi anni Cinquanta. La crisi del gulag, che quasi tutti i dirigenti ammettevano già da molto tempo prima che Stalin morisse, getta una luce diversa sull'amnistia del 27 marzo

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1953. Furono ragioni economiche, e non soltanto politiche, quelle che indussero i candidati alla successione staliniana, consapevoli delle enormi difficoltà di gestione di un gulag sovrappopolato e sempre meno «conveniente», a proclamare un'amnistia ampia, e nondimeno parziale. Anche in questo settore, come in molti altri, finché Stalin era in vita non era possibile prendere provvedimenti radicali; secondo la felice formula coniata dallo storico Moshe Lewin, negli ultimi anni di esistenza del dittatore tutto era «mummificato».

Ciò nonostante, anche dopo che Stalin morì non era ancora possibile fare tutto»: perciò furono esclusi dall'amnistia proprio coloro che erano stati le prime vittime dell'arbitrio vigente nel sistema, i «politici» condannati per attività controrivoluzionaria.

A causa dell'esclusione dei politici dall'amnistia del 27 marzo 1953, fra i detenuti nei campi a regime speciale del gulag, del Rechlag e dello Steplag scoppiarono alcune rivolte e sommosse. Il 4 aprile la «Pravda» annunciò che gli «assassini in camice bianco» erano stati vittime di una provocazione, e che le loro confessioni erano state estorte con «metodi istruttori illegali» (vale a dire sotto tortura). L'evento acquistò rilievo ancora maggiore pochi giorni dopo, quando il Comitato centrale approvò una risoluzione intitolata "Sulla violazione della legalità opera della Sicurezza di Stato": da tale documento appariva in termini espliciti come il caso dei medici assassini non fosse stato un incidente isolato, e come la Sicurezza di Stato si fosse arrogata poteri esorbitanti, compiendo un numero sempre crescente di atti illegali. Il Partito respingeva tali metodi e condannava il potere eccessivo della polizia politica. La speranza generata da queste dichiarazioni suscitò presto numerose reazioni: gli uffici della pubblica accusa furono inondati da centinaia di migliaia di domande di riabilitazione. Dal canto loro i detenuti, soprattutto quelli dei campi speciali, esasperati dal carattere limitato e selettivo dell'amnistia del 27 marzo, coscienti del fatto che i loro guardiani erano smarriti e il sistema repressivo in crisi, si rifiutarono in massa di lavorare e di obbedire alle ingiunzioni dei comandanti dei campi. Il 14 maggio 1953 più di 14 mila prigionieri, assegnati a vari settori del complesso penitenziario di Noril'sk, organizzarono uno sciopero e costituirono dei comitati composti da membri eletti dai diversi gruppi nazionali, in cui gli ucraini e i baltici avevano un ruolo cruciale. Le rivendicazioni principali dei detenuti erano: riduzione a nove ore della giornata di lavoro, soppressione del numero di matricola sugli abiti, abrogazione delle limitazioni alla corrispondenza con le famiglie, espulsione di tutti gli informatori, estensione ai politici dei benefici dell'amnistia. Il 10 luglio 1953, quando fu annunciato ufficialmente che Berija era stato arrestato con l'accusa di essere stato una spia al soldo degli inglesi e un «nemico accanito del popolo», i detenuti ebbero la conferma che a Mosca erano in corso importanti cambiamenti, e questo ne accentuò l'intransigenza nel rivendicare le proprie richieste. Il movimento di astensione dal lavoro si allargò al 14 luglio, oltre 12 mila detenuti del complesso penitenziario di Vorkuta entrarono a loro volta in sciopero. A sottolineare l'avvento di una nuova epoca, sia a Noril'sk sia a Vorkuta furono intrapresi dei negoziati e fu più volte ritardato l'assalto armato contro i ribelli.

Dall'estate del 1953 fino alla convocazione del Ventesimo Congresso, nel febbraio del 1956, nei campi a regime speciale continuò in forma endemica lo stato di agitazione. La rivolta più lunga e di maggiori dimensioni scoppiò nel maggio del 1954 nella terza sezione del complesso penitenziario dello Steplag, a Kengir, poco lontano da Karaganda (Kazakistan): si prolungò per quaranta giorni e fu soffocata soltanto quando le truppe speciali del ministero degli Interni ebbero invaso il campo con i carri armati. Circa 400 detenuti furono processati e colpiti da nuove condanne, e sei membri della commissione che aveva guidato la resistenza ed erano sopravvissuti all'assalto furono giustiziati.

Tuttavia alcune rivendicazioni avanzate nel 1953-1954 dai detenuti in rivolta furono soddisfatte, e questo è un chiaro sintomo del mutamento di clima politico intervenuto alla morte di Stalin. Per

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esempio, l'orario di lavoro quotidiano imposto ai forzati fu ridotto a nove ore, e nella vita quotidiana furono introdotti significativi miglioramenti.

Nel 1954-1955 il governo adottò una serie di provvedimenti per limitare l'onnipotenza della Sicurezza di Stato, che dopo l'eliminazione di Berija aveva subito un rimaneggiamento radicale. Furono soppresse le trojka, tribunali speciali che giudicavano i casi di pertinenza della polizia politica. Quest'ultima fu riorganizzata come organismo autonomo, con il nome di "Komitet Gosudarstvennoj Bezopasnosti", ossia Comitato della sicurezza di Stato, abbreviato con la sigla K.G.B.: la nuova struttura fu epurata del 20 per cento degli effettivi presenti prima del marzo del 1953 e posta sotto il comando del generale Serov, che aveva avuto il compito di sovrintendere a tutte le deportazioni di popoli in tempo di guerra. Serov era considerato vicino a Nikita Hrusc򶠥 incarnava tutte le ambiguità di un periodo di transizione in cui molti di coloro che portavano la responsabilità del passato avevano conservato una posizione chiave. Il governo emanò gli altri decreti di amnistia parziale: il più importante fu quello del settembre del 1955, che permise di liberare quanti erano stati condannati nel 1945 per «collaborazione con l'occupante», nonché alcuni prigionieri di guerra tedeschi ancora trattenuti in Unione Sovietica. Infine, fu adottato un certo numero di provvedimenti a favore dei «coloni speciali»: in particolare, questi ultimi furono autorizzati a spostarsi su un'area più vasta e a presentarsi con minor frequenza ai comandi da cui dipendevano. In seguito a trattative condotte al massimo livello tra i governi tedesco e sovietico, dal settembre del 1955 in poi i tedeschi deportati, che costituivano il 40 per cento sul totale dei coloni speciali (poco più di un milione su circa 2 milioni 750 mila), furono i primi a essere liberati dalle restrizioni imposte a questa categoria di proscritti. Tuttavia, negli articoli di legge era precisato che l'abrogazione delle restrizioni giuridiche, professionali, di statuto civile e di residenza non implicava «né la restituzione dei beni confiscati, né il diritto di tornare nei luoghi dai quali i coloni speciali erano stati trasferiti».

Tali restrizioni rappresentano molto bene la globalità di quella che è stata definita «destalinizzazione», un processo parziale e graduale, guidato peraltro da uno staliniano, Nikita Hruscíªší¾ Come tutti i dirigenti della sua generazione, Hrusc򶠡veva avuto una diretta responsabilità nell'attuazione di provvedimenti repressivi: dekulakizzazione, epurazioni, deportazioni, esecuzioni capitali. Dunque, destalinizzare poteva significare soltanto denunciare taluni eccessi del «periodo del culto della personalità . Il Rapporto segreto che nel corso della serata del 24 febbraio 1956 lo stesso Hrusc򶠬esse ai delegati sovietici riuniti nel Ventesimo Congresso era pur sempre molto selettivo nel condannare lo stalinismo, evitando di mettere in discussione in alcun modo le grandi scelte compiute dal Partito dal 1917 in poi. La selettività era evidente sia nella cronologia della «deviazione» stalinista (collocandone l'inizio nel 1934 si escludevano dal capitolo dei crimini la collettivizzazione e la carestia del 1932-1933) sia nella scelta delle vittime citate: si trattava sempre di comunisti, e in generale di stretta obbedienza staliniana, mai di semplici cittadini. Nel momento in cui circoscriveva l'ambito delle repressioni ai comunisti, proclamati uniche vittime della dittatura personale di Stalin, e lo individuava in specifici episodi di una storia cominciata soltanto dopo l'assassinio di Sergej Kirov, il Rapporto segreto eludeva l'interrogativo centrale: quale fosse la responsabilità del Partito nel suo complesso, e nei confronti della società dal 1917 in poi. Al Rapporto segreto seguì un certo numero di provvedimenti concreti che completarono le disposizioni limitate adottate fino a quel momento. Nel marzo-aprile del 1956 tutti i coloni speciali appartenenti ai popoli «puniti» per la loro pretesa collaborazione con la Germania nazista, e deportati nel 1943-1945, furono «sottratti alla sorveglianza amministrativa degli organi del ministero dell'Interno», sebbene continuassero a non poter esigere di fare ritorno nei luoghi di origine, né che i beni confiscati fossero loro restituiti. Si trattava di mezze misure che suscitarono l'indignazione dei deportati: in molti casi questi ultimi si rifiutarono di firmare la dichiarazione richiesta dalle autorità amministrative, con cui dovevano impegnarsi a non esigere la restituzione dei beni e a non cercare di tornare nei luoghi di origine. Di

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fronte a posizioni simili, che attestavano il significativo mutamento avvenuto nel clima politico e nella mentalità generale, il governo sovietico fece alcune ulteriori concessioni. Il 9 gennaio 1957 furono ricostituite le antiche repubbliche e le regioni autonome di cui erano originari i popoli deportati, e che subito dopo la guerra erano state cancellate; l'unica a non essere restaurata fu la Repubblica autonoma dei tatari di Crimea.

Nel corso del trentennio successivo i tatari di Crimea si batterono per ottenere il riconoscimento del loro diritto a rientrare nel territorio originario; dal 1957 in poi, decine di migliaia di caraciai, calmucchi, balcari, ceceni e ingusci intrapresero la via del ritorno. Le autorità non li facilitarono in nessun modo. Numerosi incidenti si verificarono fra i deportati intenzionati a rientrare in possesso di quelle che un tempo erano le loro abitazioni e i coloni russi, i quali nel 1945 erano stati chiamati dalle regioni limitrofe a occuparle e ormai vi si erano installati. Gli ex deportati tornati a casa propria, non essendo in possesso della "propiska", la registrazione presso la sede locale della polizia, unico documento che attribuisse ai cittadini il diritto legale di risiedere in una determinata località furono costretti ancora una volta a sistemarsi in baraccamenti improvvisati, nelle bidonville, nelle tendopoli, sempre sotto la costante minaccia di poter essere in qualsiasi momento arrestati per aver contravvenuto al regime dei passaporti (reato punibile con due anni di carcere). Nel luglio del 1958 nella capitale cecena, Groznyj, si verificarono scontri sanguinosi fra russi e ceceni: fu ristabilita una precaria parvenza di tranquillità soltanto quando le autorità ebbero sbloccato i fondi destinati alla costruzione di alloggi per gli ex deportati.

In via ufficiale la categoria dei coloni speciali cessò di esistere soltanto nel gennaio del 1960; gli ultimi deportati sollevati dalla condizione di paria furono i nazionalisti ucraini e quelli originari delle repubbliche baltiche. Per stanchezza, di fronte alla prospettiva di doversi scontrare ancora una volta con gli ostacoli amministrativi che le autorità continuavano a opporre al loro rientro, queste ultime categorie di deportati tornarono nelle regioni di origine soltanto in una percentuale inferiore alla metà degli altri superstiti avevano ormai «messo radici» nei luoghi della deportazione.

La grande maggioranza di quanti erano stati condannati per crimini controrivoluzionari fu liberata soltanto dopo il Ventesimo Congresso: nel 1954-1955 avevano goduto dell'amnistia meno di 90 mila detenuti per questi reati, mentre nel 1956-1957 lasciarono il gulag circa 310 mila controrivoluzionari. Alla data del primo gennaio 1959 rimanevano nei campi 11 mila detenuti per reati politici. Per accelerare le procedure furono inviate nei campi oltre duecento commissioni speciali incaricate della revisione, e decretate numerose amnistie. Tuttavia, la liberazione non equivaleva ancora alla riabilitazione: in due anni, nel 1956-1957, le persone riabilitate in piena regola furono meno di 60 mila; la stragrande maggioranza dovette aspettare anni, e talvolta decenni, prima di ottenere il prezioso certificato. Nonostante questo, il 1956 rimase comunque nella memoria collettiva come l'anno del «ritorno», descritto mirabilmente da Vasilij Grossman in "Tutto scorre"... Questo grande ritorno, che si svolgeva nel più rigoroso silenzio delle autorità ufficiali, serviva anche a ricordare che milioni di persone non sarebbero mai più tornate, e non poteva non generare nell'animo della popolazione un profondo smarrimento, la sensazione diffusa di un trauma sociale e morale, una tragica contrapposizione in una società in cui, come scriveva Lidija Ciukovskaja, «ormai due Russie si guardano negli occhi: quella che ha imprigionato e quella che stata imprigionata». In una simile situazione la prima preoccupazione delle autorità fu di non cedere a quanti, singolarmente o in gruppo, chiedevano di avviare procedimenti giudiziari nei confronti dei funzionari che nel periodo del culto della personalità avevano violato la legalità socialista o usato metodi istruttori contrari alla legge. La sola via per il ricorso erano le commissioni di controllo del Partito. Sull'argomento delle riabilitazioni gli uffici della pubblica accusa ricevettero dalle autorità politiche un certo numero di circolari in cui erano stabilite le priorità da membri del Partito e militari. Non vi furono epurazioni. Con la liberazione dei politici, il gulag del dopo Stalin ebbe in un primo tempo un drastico calo di presenze, finché nel periodo tra gli ultimi anni

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Cinquanta e i primi anni Sessanta, si stabilizzò un totale di effettivi intorno alle 900 mila unità uno zoccolo duro di 300 mila colpevoli di reati comuni, compresi i recidivi, che dovevano scontare lunghe condanne, oltre a 600 mila autori di piccoli atti di delinquenza. Spesso questi ultimi, a causa delle leggi repressive ancora in vigore, erano condannati a pene sproporzionate per eccesso rispetto al reato commesso. A poco a poco il gulag decadde dal ruolo di pioniere della colonizzazione e dello sfruttamento delle ricchezze naturali racchiuse nei territori sovietici dell'estremo nord e dell'estremo oriente. Gli enormi complessi penitenziari dell'epoca staliniana furono suddivisi in piccole unità cambiò anche la geografia del gulag, perché la maggior parte dei campi furono trasferiti nelle regioni europee dell'URSS. A poco a poco in Unione Sovietica la reclusione riprese la funzione regolatrice che tutte le società che attribuiscono, sia pure conservando ancora, dopo Stalin, peculiarità specifiche di un sistema che non corrispondeva a quello di uno Stato di diritto. Infatti, in seguito a sporadiche campagne, che di volta in volta mettevano al bando l'uno o l'altro comportamento sociale all'improvviso giudicato intollerabile (alcolismo, teppismo, «parassitismo»), ai veri e propri criminali si aggiungeva un certo numero di cittadini comuni, oltre a una minoranza di soggetti (alcune centinaia ogni anno) condannati perlopiù aisensi degli articoli 70 e 190 del nuovo Codice penale, promulgato nel 1960.

A completare i vari provvedimenti di liberazione e le amnistie intervennero alcune radicali modifiche del diritto penale. Fra le prime misure di riforma della legislazione staliniana figura il Decreto del 25 aprile 1956, con il quale si aboliva la legge antioperaia del 1940 che vietava ai lavoratori di abbandonare il posto di lavoro. Questo primo passo verso la depenalizzazione dei rapporti di lavoro fu seguito da numerose altre disposizioni, e i vari provvedimenti parziali trovarono infine una sistematizzazione il 25 dicembre 1958, quando furono approvati i nuovi "Principi fondamentali del diritto penale". Con queste norme erano cancellate certe disposizioni fondamentali della legislazione penale configurata nei codici precedenti, in particolare i concetti di «nemico del popolo» e di «reato controrivoluzionario». D'altra parte, l'età a partire dalla quale il soggetto era ritenuto penalmente responsabile fu elevata da quattordici anni a sedici, mentre violenza e torture non avrebbero più potuto essere utilizzate per ottenere una confessione. Inoltre si prescriveva che l'imputato fosse presente all'udienza processuale e difeso da un avvocato informato sulle prove raccolte in istruttoria; salvo casi eccezionali, i dibattimenti giudiziari dovevano essere pubblici. Tuttavia il Codice penale del 1960 aveva ancora un certo numero di articoli che permettevano di punire ogni forma di devianza politica o ideologica: in base all'articolo 70, ogni individuo «che svolge una propaganda tendente a indebolire il potere sovietico ... per mezzo di asserzioni calunniose denigranti lo Stato e la società era passibile di una condanna da sei mesi a sette anni di campo di lavoro, seguita dal confino, o esilio interno, per un periodo da due a cinque anni. L'articolo 190 condannava ogni «mancata denuncia» del reato di antisovietismo con una pena da uno a tre anni di campo di lavoro o a un periodo equivalente di lavoro di interesse collettivo. Negli anni Sessanta e Settanta questi due articoli trovarono ampia applicazione contro le forme di «dissenso» politico o ideologico: il 90 per cento delle persone accusate di «antisovietismo» era condannato appunto in base a essi, per un totale di alcune centinaia ogni anno. Durante questi anni di «disgelo» politico e di generale miglioramento del tenore di vita, nei quali per cui restava assai vivo il ricordo della repressione, le forme attive di dissenso o contestazione furono estremamente limitate: per la prima metà degli anni Sessanta, i rapporti del K.G.B. riconobbero 1300 «oppositori» nel 1961, 2500 nel 1962, 4500 nel 1964, 1300 nel 1965. Negli anni Sessanta e Settanta furono tre le categorie di cittadini sottoposte dai servizi del K.G.B. a una sorveglianza «ravvicinata»: le minoranze religiose (cattolici, battisti, pentecostali, avventisti), le minoranze nazionali più colpite dalla repressione durante l'epoca staliniana (baltici, tatari di Crimea, tedeschi, ucraini delle zone occidentali, dove era stata particolarmente forte la resistenza alla sovietizzazione), l'intellighenzia creativa che costituiva il movimento dei «dissidenti», apparso nei primi anni Sessanta.

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Dopo l'ultima campagna anticlericale del 1957, che si era limitata perlopiù a chiudere un certo numero di chiese riaperte dopo la guerra, il contrasto fra lo Stato e la Chiesa ortodossa divenne coabitazione. L'attenzione dei servizi speciali del K.G.B. era ormai rivolta più specificamente alle minoranze religiose, sospettate non tanto a causa delle convinzioni religiose professate, quanto per il sostegno che si presumeva ricevessero dall'estero. Alcuni dati sparsi attestano come tale fenomeno fosse marginale: nel 1973-1975 furono arrestati 116 battisti, mentre nel 1984 erano 200 i membri di questa Chiesa detenuti in carcere o in un campo di lavoro per scontare condanne che in media arrivavano a un anno.

Nell'Ucraina occidentale, rimasta a lungo una delle regioni più recalcitranti alla sovietizzazione, fra il 1961 e il 1973 fu smantellata una decina di «gruppuscoli nazionalisti», eredi dell'OUN, operanti a Ternopol', Zaporoz'e, Ivano-Frankovsk, Leopoli. Le pene inflitte ai membri di questi gruppuscoli variavano in genere da cinque a dieci anni di campo. Negli anni Sessanta e Settanta, in Lituania, regione anch'essa assoggettata con metodi brutali negli anni Quaranta, le fonti locali citano un numero di arresti molto ridotto. Nel 1981 l'assassinio in circostanze sospette di tre preti cattolici, di cui erano probabilmente responsabili i servizi del K.G.B., fu sentito come un'intollerabile provocazione.

Il problema dei tatari di Crimea, che nel 1944 erano stati deportati e la cui repubblica autonoma non era stata ricostituita, continuò ad essere una gravosa eredità dell'epoca staliniana fino alla scomparsa dell'URSS. Dalla fine degli anni Cinquanta i tatari, che si erano insediati in maggioranza nell'Asia centrale, avviarono una campagna di petizioni per ottenere di essere collettivamente riabilitati e autorizzati a ritornare a casa propria: segno che i tempi erano davvero cambiati. Nel 1966 una delegazione di tatari depositò presso il Ventitreesimo Congresso del Partito una petizione con 130 mila firme; nel settembre del 1967 il presidium del Soviet supremo approvò il decreto che annullava l'accusa di «tradimento collettivo». Tre mesi dopo, un secondo decreto autorizzò i tatari a insediarsi in una località di loro scelta, a condizione che rispettassero la legislazione sui passaporti, ciò che fossero in possesso di un contratto di lavoro perfettamente valido e regolare. Tra il 1967 e il 1978 le persone che riuscirono a mettersi in regola rispetto alla legge sui passaporti furono meno di 15 mila, ossia il 2 per cento della popolazione tatara. Il movimento dei tatari di Crimea fu favorito dal sostegno del generale Grigor'enko, che nel maggio del 1969 fu arrestato a Taskent e internato in un ospedale psichiatrico. Negli anni Settanta tale forma di detenzione fu applicata ad alcune decine di persone ogni anno.

Gli storici fanno coincidere l'inizio del dissenso con il primo processo politico pubblico celebrato nell'epoca del post-stalinismo: quello del febbraio del 1966, in cui gli scrittori Andrej Sinjavskij e Jurij Daniel' furono condannati rispettivamente a sette e cinque anni di campo. Il 5 dicembre 1965, poco dopo il loro arresto, una cinquantina di persone si raccolse nella piazza Pushkin a Mosca per manifestare a favore dei due accusati. I dissidenti (qualche centinaio di intellettuali a metà degli anni Sessanta, fra mille e duemila persone un decennio più tardi, nel momento culminante del movimento) inaugurarono una modalità di contestazione radicalmente diversa. Anziché negare la legittimità del regime, esigevano il rispetto rigoroso delle leggi sovietiche, della Costituzione e degli accordi internazionali sottoscritti dall'URSS. L'azione dei dissidenti si conformava a questo nuovo principio: rifiuto della clandestinità , trasparenza del movimento, vasta pubblicità alle proprie iniziative, assicurata ricorrendo il più spesso possibile alle conferenze stampa, alle quali erano invitati anche i corrispondenti della stampa estera. Nell'impari confronto che opponeva allo Stato sovietico alcune centinaia di dissidenti divenne decisivo il peso dell'opinione pubblica internazionale, soprattutto dopo la pubblicazione in Occidente di "Arcipelago Gulag" di Aleksandr Solzenicyn, avvenuta alla fine del 1973 e che costò all'autore l'espulsione dall'URSS. In pochi anni, grazie all'opera di una ridottissima minoranza, la questione dei diritti dell'uomo in Unione Sovietica acquistò rilevanza internazionale e costituì un argomento cruciale nella Conferenza sulla sicurezza e

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la cooperazione in Europa, riunita per la prima volta a Helsinki nel 1973. Il documento finale della Conferenza, sottoscritta anche dall'URSS, rafforzò la posizione dei dissidenti i quali, nelle poche città in cui avevano un certo seguito (Mosca, Leningrado, Kiev, Vilnius eccetera), costituirono i «Comitati di vigilanza sugli accordi di Helsinki», incaricati di diffondere tutte le notizie di avvenute violazioni dei diritti umani. Quest'opera di informazione era cominciata fin dal 1968, quando la situazione era assai più difficile, con un bollettino d'informazioni redatto clandestinamente, la «Cronaca degli avvenimenti correnti», che usciva ogni due o tre mesi per segnalare gli attentati alle libertà fondamentali compiuti nelle più diverse forme. Nel momento in cui la questione dei diritti umani in URSS saliva alla ribalta internazionale si creava un contesto nuovo, che in parte inceppava i meccanismi polizieschi. Ormai gli oppositori erano persone conosciute, quindi il loro arresto non passava più inosservato, mentre le notizie sulla loro sorte si diffondevano rapidamente all'estero. Si assisteva a un fenomeno nuovo e significativo: i cicli della repressione poliziesca seguivano ormai gli alti e bassi attraversati dalla politica di «distensione». Vi fu un numero di arresti più alto nei periodi dal 1968 al 1972 e dal 1979 al 1982 rispetto al 1973-1976. Allo stato attuale della documentazione è impossibile calcolare con precisione quanti siano stati gli arrestati per motivi politici fra il 1960 e il 1985: le fonti del dissenso parlano di alcune centinaia di arresti negli anni più duri. Nel 1970 la «Cronaca degli avvenimenti correnti» citava 106 condanne, 20 delle quali riguardavano la «reclusione preventiva» in un ospedale psichiatrico. Per il 1971 le cifre fornite dalla Cronaca erano rispettivamente di 85 e 24. Nel 1979-1981, anni di dura contrapposizione sul piano internazionale, furono arrestate all'incirca cinquecento persone.

In un paese in cui il potere era sempre rimasto estraneo alla libera espressione di opinioni non conformiste e alle dichiarazioni di dissenso circa la natura stessa del potere, il fenomeno dei dissidenti, espressione di opposizione radicale, di una concezione politica diversa, che difendeva i diritti dell'individuo contrapposti a quelli della collettività non poteva avere presa diretta sul corpo sociale. Il mutamento vero si produceva altrove: nelle molteplici sfere di autonomia sociale e culturale che si erano sviluppate a partire dagli anni Sessanta e Settanta, e più ancora, a metà degli anni Ottanta, quando una parte della dirigenza politica si rese conto che era necessario un mutamento radicale quanto quello avvenuto nel 1953.

IN CONCLUSIONE Con questa sintesi non ho preteso di rivelare cose nuove sull'esercizio della violenza di Stato nell'URSS e sulle forme di repressione applicate dal regime sovietico nel periodo corrispondente alla prima metà della sua esistenza. Gli storici hanno già da tempo studiato queste peculiarità senza attendere l'apertura degli archivi per ricostruire le sequenze principali degli eventi e la portata del terrore. D'altra parte l'accesso alle fonti permette di tracciare un primo bilancio dal punto di vista della cronologia, dell'aspetto quantitativo, delle forme in cui il fenomeno si è manifestato. Questo schema iniziale costituisce la prima tappa nel tentativo di stilare un inventario delle questioni relative alle pratiche di violenza, al loro verificarsi e al loro significato nei diversi contesti.

Tale approccio si inserisce nell'ambito di una vasta operazione di ricerca in atto da una decina d'anni sia in Occidente sia in Russia. Da quando sono stati aperti, almeno parzialmente, gli archivi, gli storici hanno cercato prima di tutto di confrontare la storiografia costituitasi nella «anormalità con le fonti divenute finalmente disponibili. Dopo alcuni anni, un certo numero di studiosi, soprattutto russi, hanno reso pubblici materiali oggi fondamentali, che sono alla base di tutti gli studi recenti e attualmente in corso. Sono numerosi gli argomenti che hanno ricevuto particolare attenzione. Innanzi tutto l'universo concentrazionario, lo scontro fra il potere e il mondo contadino, i meccanismi attraverso i quali il vertice arrivava a prendere le sue decisioni. Storici come V. N. Zemskov o N. Bugaj, per esempio, sono arrivati a una prima conclusione circa l'entità numerica delle deportazioni compiute nel complesso dell'epoca staliniana. V. P. Danilov in

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Russia e A. Graziosi in Italia hanno messo in risalto sia la continuità , sia la centralità delle contrapposizioni fra il nuovo regime e il ceto contadino. Attingendo agli archivi del Comitato centrale, O. Hlevnjuk ha potuto chiarire alcune questioni riguardo al funzionamento del «primo cerchio del Cremlino».

Partendo da questi studi ho tentato di ricostruire lo svolgimento di questi cicli di violenza, che dal 1917 in poi sono al centro della storia sociale dell'URSS, in gran parte ancora da scrivere. Mentre ho ripreso una trama in larga misura esplorata dai «pionieri», che hanno ricreato "ex nihilo" le tragiche inquadrature di questa storia, ho fatto una cernita delle fonti che a mio parere meglio esemplificavano le varie forme di violenza e di repressione, le pratiche e i gruppi sottoposti a persecuzione, le discontinuità e le contraddizioni: l'estrema violenza delle parole di Lenin verso gli oppositori menscevichi, che sarebbero stati da «fucilare tutti», ma che nei fatti sono stati il più delle volte incarcerati; la ferocia delle squadre di requisizione, che alla fine del 1922 continuavano a terrorizzare le campagne, mentre il governo centrale aveva già decretato da oltre un anno l'instaurazione della NEP; la contraddittoria alternanza di fasi per cui negli anni Trenta si avevano prima spettacolari arresti in massa e poi scarcerazioni inserite in una campagna di «sfollamento delle prigionia». L'intenzione sottostante la molteplicità dei casi considerati era quella di presentare un inventario delle forme di violenza e di repressione in grado di allargare il campo degli interrogativi riguardanti i meccanismi, l'estensione e il senso del terrore di massa.

Il fatto che tali pratiche siano rimaste in uso fino alla scomparsa di Stalin e abbiano avuto un peso determinante nella storia sociale dell'URSS giustifica, a mio parere, lo spostamento in secondo piano della storia politica, almeno in una prima fase. A questo sforzo di ricostruzione si aggiunge un tentativo di sintesi, la volontà di fare il punto sulle conoscenze già acquisite da tempo, su quelle di epoca recente e su quei documenti che suscitano nuovi interrogativi: si tratta perlopiù di rapporti sul campo (corrispondenze di funzionari locali relative alla carestia, rapporti della Ceka locale sugli scioperi operai a Tula, resoconti dell'amministrazione concentrazionaria sulle condizioni dei detenuti) che aprono squarci sulle concrete realtà e sulle situazioni limite esistenti in questo universo di violenza estrema.

Per cogliere le svariate problematiche contenute in questo studio occorre in primo luogo ricordare i diversi cicli di violenza e di repressione.

Il primo, dalla fine del 1917 alla fine del 1922, si apre con la conquista del potere, che secondo Lenin deve necessariamente passare attraverso una guerra civile. Dopo una brevissima fase di strumentalizzazione delle violenze spontanee espresse dalla società che avevano operato come forze dissolutrici del «vecchio ordine», dalla primavera del 1918 si assiste a un'offensiva deliberata contro il ceto contadino, destinata per molti decenni a servire da modello per le pratiche del terrore (al di là degli scontri militari fra Rossi e Bianchi) e a condizionare l'impopolarità assunta dal potere politico. Ciò che colpisce, nonostante i rischi connessi con la precarietà del potere, è il rifiuto di ogni genere di negoziato, la fuga in avanti di fronte agli ostacoli, ben esemplificata dalle azioni repressive intraprese contro «l'alleato naturale» dei bolscevichi, il ceto operaio, tanto che sotto questo riguardo la rivolta di Kronstadt è soltanto un punto di arrivo. Questo primo ciclo non termina né con la sconfitta dei Bianchi, né con l'introduzione della NEP, ma prosegue nel processo dinamico alimentato da una base educata alla violenza, e si esaurisce soltanto con la carestia del 1922, in cui sono annientate le ultime resistenze dei contadini.

Che significato si può dare al breve intervallo fra due cicli di violenze, gli anni 1923-1927? Numerosi elementi fanno pensare alla progressiva emersione da una cultura di guerra civile. Si assiste a un forte calo negli effettivi della polizia politica, a una tregua con i contadini, al primo delinearsi di una regolamentazione giuridica. Tuttavia, non solo la polizia politica non scompare,

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ma conserva le sue funzioni di controllo, di sorveglianza e di schedatura. Già il semplice fatto che questo periodo di tregua sia tanto breve basta a far capire come in fondo esso sia significativo solo fino a un certo punto.

Mentre il primo ciclo di repressione appare iscritto in un contesto di scontri diretti e generalizzati, il secondo si apre con un'offensiva scatenata contro i contadini dal gruppo degli staliniani, nell'ambito della lotta politica per la conquista del potere assoluto. Da entrambe le parti la ripresa della violenza estrema è sentita come un nuovo inizio: il potere politico ricorre alle pratiche già sperimentate alcuni anni prima. I meccanismi connessi all'imbarbarimento dei rapporti sociali avvenuto durante il primo ciclo avviano una nuova dinamica del terrore, ma anche di regressione, che perdura nei successivi venticinque anni. La seconda guerra dichiarata al ceto contadino è un fattore decisivo nel processo tendente a istituzionalizzare il terrore come strumento di governo. E lo è in molte forme: si basa almeno in parte sulla strumentalizzazione delle tensioni sociali, risvegliando l'antico fondo di violenza «arcaica» presente nel mondo rurale, inaugura il sistema delle deportazioni di massa e costituisce il terreno di coltura in cui si formano i quadri politici del regime. Infine, il sistema di «sfruttamento feudal- militare» imposto ai contadini, per usare la formula di Buharin, sfociava in una nuova forma di servitù perché sottoponeva la produzione agricola a un prelievo di rapina che sconvolgeva l'intero ciclo produttivo e apriva la strada all'esperienza estrema dello stalinismo: la carestia del 1933, che forma da sola il contributo più pesante al bilancio delle vittime del periodo staliniano. Dopo questa situazione limite - più nessuno che si occupasse della semina, neppure un posto libero nelle prigioni - si ha una breve tregua, di soli due anni: per la prima volta avvengono scarcerazioni in massa. Ma i rari provvedimenti di pacificazione generano nuove tensioni. I figli dei kulak deportati sono reintegrati nei diritti civili, ma non autorizzati a ritornare a casa propria.

Cerchiamo adesso di chiarire quali sono i meccanismi con cui le varie sequenze di terrore si susseguono e si articolano dalla guerra contadina in poi nel corso degli anni Trenta e del decennio successivo. Per individuarli si possono usare diversi criteri di riferimento, per esempio il grado di intensità e di radicalità delle operazioni repressive. Il periodo del Grande terrore concentra in meno di due anni (dalla fine del 1936 alla fine del 1938) più dell'85 per cento delle condanne a morte pronunciate da tribunali straordinari nell'intero arco dell'epoca staliniana. In questi anni l'identificazione sociologica delle vittime appare poco chiara. La quota considerevole di quadri di partito giustiziati o arrestati non basta a dissimulare la disparatissima estrazione sociale delle vittime, liquidate a «caso» per l'impellente necessità di completare le quote prescritte. Forse in questa repressione «a trecentosessanta gradi», cieca e barbarica, nell'apogeo parossistico del terrore, si può leggere l'incapacità del potere di superare una serie di ostacoli e di risolvere i conflitti in modi diversi dall'eliminazione fisica. Un altro criterio per valutare il susseguirsi delle azioni repressive è la tipologia dei gruppi oggetto di persecuzione. In un clima in cui i rapporti sociali erano sempre più spesso interpretati in termini di sanzionabilità penale, nel corso del decennio vengono scatenate numerose offensive mirate, l'ultima delle quali, dal 1938 in poi, con l'inasprimento della legislazione antioperaia, colpisce la «gente comune» delle città .

Dal 1940, nel contesto della sovietizzazione dei nuovi territori annessi e della «Grande guerra patriottica», si scatena una nuova ondata repressiva, segnata sia dall'individuazione di nuovi gruppi oggetto di repressione (i «nazionalisti» e i «popoli ostili»), sia dall'adozione sistematica delle deportazioni in massa. Le premesse della nuova ondata si possono osservare fin dal 1936-1937, in particolare con la deportazione dei coreani, in un clima di irrigidimento della politica delle frontiere.

Dal 1939 in poi, con l'annessione dei territori della Polonia orientale e quindi delle repubbliche baltiche, si avvia l'eliminazione dei rappresentanti della cosiddetta borghesia nazionalista e contemporaneamente la deportazione di determinate minoranze, per esempio i polacchi della

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Galizia orientale. Nel pieno infuriare del conflitto questa pratica si estende, mettendo a rischio la vitale necessità della difesa in un paese minacciato di annientamento. Le successive deportazioni di interi gruppi nazionali (tedeschi, ceceni, tatari, calmucchi eccetera) rivelano, fra l'altro, l'alto grado di abilità tecnica acquisita dai primi anni Trenta in poi nello svolgimento di simili operazioni. Non si tratta di pratiche circoscritte al periodo bellico. In forma selettiva proseguono per tutto il decennio 1940-1950, all'interno di un lungo processo di pacificazione e sovietizzazione delle nuove aree incorporate nell'impero. D'altronde, in questo periodo la configurazione dell'universo concentrazionario è profondamente modificata dall'afflusso di massicci contingenti di gruppi nazionali. Ormai nel gulag i detenuti appartenenti ai «popoli puniti» e alle organizzazioni partigiane delle varie nazionalità costituiscono una presenza preponderante.

In parallelo, al termine del conflitto si accentua un'interpretazione in chiave criminalizzante dei comportamenti sociali, da cui deriva il costante aumento dei detenuti nel gulag. Nel dopoguerra si ha l'apogeo del gulag in termini di consistenza numerica degli internati, ma si osservano anche i primi sintomi di crisi dell'universo concentrazionario, ipertrofico, percorso da molteplici tensioni e sempre più problematico dal punto di vista della convenienza economica.

Gli ultimi anni del grande ciclo staliniano, di cui sappiamo ancora molto poco, sono caratterizzati da deviazioni specifiche del periodo. Il fatto che, mentre andava riemergendo l'antisemitismo latente, il potere ricorresse ancora una volta all'immagine del complotto mette in luce la rivalità di forze non chiaramente identificate, i clan che si erano costituiti nell'ambito della polizia politica o delle organizzazioni periferiche del Partito. Gli storici, quindi, sono indotti a chiedersi se non fosse in programma un'ultima campagna, un nuovo Grande terrore, diretto specificamente contro la popolazione ebraica dell'URSS.

Il costante ricorso alle pratiche di violenza estrema, adottate come una forma di gestione politica della società appare manifesto da questa breve sintesi dei primi trentacinque anni di storia dell'Unione Sovietica.

Forse a questo punto occorre riaprire la classica questione della continuità tra il primo ciclo «leninista» e il secondo ciclo «stalinista», dovendo intendersi il primo come prefigurazione del secondo. Il contesto storico delle due situazioni non permette di istituire un confronto. Il «Terrore rosso» dell'autunno del 1918 ha origine in un ambito di scontri generalizzati e il carattere estremo delle azioni repressive intraprese si spiega in parte con l'eccezionale violenza del momento. Invece la ripresa della guerra contro i contadini, che costituisce il fondamento del secondo ciclo di violenze, avviene in un paese pacificato, ponendo la questione di un'offensiva durevole scatenata contro la stragrande maggioranza della società. A parte l'irriducibile differenza di contesto fra i due eventi considerati, l'esercizio del terrore come strumento basilare al servizio del progetto politico leninista viene enunciato ancor prima che si scateni la guerra civile e assunto come programma di azione, anche se considerato, per la verità transitorio. Da questo punto di vista, la breve tregua della NEP e i complessi dibattiti fra i dirigenti bolscevichi circa le possibili vie verso lo sviluppo continuano a porre la questione di una possibile normalizzazione e del superamento delle forme repressive come unico modo per risolvere le tensioni sociali ed economiche. In realtà in questi brevi anni il mondo rurale vive appartato e il rapporto fra il potere e la società , caratterizzato in larga misura dalla reciproca ignoranza.

La guerra contadina che collega due cicli di violenza si rivela fondamentale in quanto sembra risvegliare le pratiche sperimentate e sviluppate nel 1918-1922: campagne di requisizioni forzate, strumentalizzazione delle tensioni sociali interne al mondo contadino, scontri diretti e incoraggiamento delle forme di brutalità arcaica che riemergono con sempre maggiore virulenza. Da una parte e dall'altra, carnefici e vittime avevano la convinzione di rivivere un copione ben noto.

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Anche se, per una serie di ragioni evidenti che riguardano la pregnanza del terrore come elemento costitutivo di un modo di governare e amministrare la società l'epoca staliniana ci fa piombare nel pieno di un universo peculiare, dobbiamo interrogarci sulle filiazioni che i vari aspetti della repressione suggeriscono. A tale riguardo si può considerare la questione della deportazione partendo da un primo caso emblematico: la «decosacchizzazione» del 1919-1920. Nell'ambito della riconquista dei territori cosacchi, il governo intraprende un'operazione di deportazione che riguarda l'insieme della popolazione autoctona. Tale operazione segue una prima offensiva che aveva preso di mira i cosacchi più benestanti, ma aveva provocato uno «sterminio fisico in massa» a causa dello zelo dimostrato dagli agenti locali nell'adempimento del dovere. Per molti motivi questo evento prefigura pratiche e meccanismi che dieci anni dopo si realizzeranno su scala del tutto diversa e in un diverso contesto: stigmatizzazione di un gruppo sociale, esecuzione degli ordini sul piano locale in misura assai superiore alle direttive, quindi via libera allo sradicamento tramite la deportazione. In tutti questi elementi vi sono analogie con la pratica della «dekulakizzazione» che fanno riflettere. Viceversa, se estendiamo l'analisi al fenomeno più generale dell'esclusione collettiva seguita dall'isolamento dei gruppi ostili, avente per corollario la creazione di un vero e proprio sistema di campi d'internamento nel corso della guerra civile, siamo indotti a sottolineare le forti differenze fra i due cicli repressivi.

L'allestimento dei campi durante la guerra civile e, negli anni Venti, la pratica dell'internamento non sono paragonabili con l'universo concentrazionario quale si sarebbe sviluppato negli anni Trenta nè per entità nè per i fini perseguiti, nè per la realtà che rappresentano. In effetti la grande riforma del 1929 non porta soltanto all'abbandono delle forme ordinarie di detenzione, ma pone le basi di un nuovo sistema, caratterizzato fra l'altro dal lavoro forzato. La comparsa e lo sviluppo del fenomeno del gulag ci riportano alla questione centrale, ciò che esista o meno un progetto tendente a escludere certi elementi del corpo sociale e a strumentalizzare l'esclusione in modo durevole, in un vero e proprio progetto di metamorfosi economica e sociale. Gli elementi a favore di questa tesi sono numerosi e hanno costituito l'argomento di importanti ricerche. In primo luogo, un'espressione di tale progetto può essere considerata la pianificazione del terrore, quale si manifesta nella politica delle quote a partire dalla dekulakizzazione e fino al Grande terrore. Consultando gli archivi si ha la conferma di questa ossessione contabile che assilla i vari livelli dell'amministrazione, dal vertice alla base. Bilanci stilati in cifre e a scadenze regolari sembrano attestare come i dirigenti dominassero perfettamente il processo della repressione, ma servono anche allo storico per ricostruire nella loro complessità i vari gradi di intensità del fenomeno, sia pure evitando di dare un peso eccessivo all'aspetto contabile. La cronologia delle varie ondate repressive, che oggi conosciamo meglio, in certa misura sembra confermare l'impressione di una serie coordinata di operazioni. Tuttavia, ricostruendo l'insieme del processo repressivo, la catena di trasmissione degli ordini, il modo in cui venivano eseguiti e lo svolgimento delle operazioni, si trovano molti elementi che smentiscono l'ipotesi di un disegno predeterminato e concepito per durare nel tempo. In particolare, se si affronta il problema della pianificazione della repressione, si constatano le numerose incertezze, le crepe ricorrenti nelle varie fasi operative. Da questo punto di vista uno degli esempi più significativi è quello della deportazione dei kulak in mancanza di una destinazione definita, in altre parole di una deportazione - abbandono, che permette di misurare il grado di improvvisazione e di caos generale in cui si svolgevano le operazioni. Analogamente, le «campagne di sfollamento» dei luoghi di detenzione sottolineano l'evidente mancanza di direttive adeguate. Se oggi esaminiamo il processo di trasmissione e di esecuzione degli ordini, non possiamo non constatare il peso dei fenomeni di anticipazione, di «eccesso di zelo» e di «deformazione della linea» che si manifestano sul campo.

Tornando alla questione del gulag, l'interesse e gli obiettivi di quel che ha costituito il sistema sono molto più complessi e difficili da distinguere a mano a mano che la ricerca progredisce. Nella visione di un ordine stalinista di cui il gulag sarebbe il lato oscuro ma compiuto, i documenti oggi

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disponibili suggeriscono piuttosto le numerose contraddizioni che percorrono l'universo concentrazionario: gli incessanti arrivi di gruppi soggetti a repressione sembrano spesso contribuire a disorganizzare il sistema produttivo anziché di migliorarne l'efficacia; nonostante una classificazione molto elaborata dello status delle persone oggetto di repressione, i confini tra i rispettivi mondi sembrano labili, anzi inesistenti. Infine, resta tutta da chiarire la questione della reale convenienza economica di tale sistema di sfruttamento.

Nel riconoscere queste contraddizioni, improvvisazioni, automatismi, si sono formulate svariate ipotesi rispetto alle ragioni che hanno indotto il vertice del Partito a riattivare periodicamente le dinamiche di repressione di massa, e alle logiche indotte dal circuito stesso della violenza e del terrore.

Nel tentativo di individuare i moventi che hanno scatenato il grande ciclo repressivo staliniano, gli storici hanno sottolineato un elemento di improvvisazione e di fuga in avanti nella gestione della «grande svolta» della modernizzazione. Questa dinamica di rottura si trasforma improvvisamente in un'offensiva di tale estensione che il potere può illudersi di controllarla soltanto radicalizzando sempre più le pratiche del terrore. Da quel momento in poi ci troviamo presi da un ingranaggio di estrema violenza che con i suoi meccanismi ed effetti a catena, e le sue dimensioni incalcolabili, sfugge in larga parte ai contemporanei e tuttora resta oscuro agli storici. Lo stesso processo di repressione, unica risposta ai conflitti e agli ostacoli incontrati, genera a sua volta movimenti incontrollati che alimentano la spirale di violenza.

Il fenomeno centrale del terrore nella storia politica e sociale dell'Unione Sovietica pone oggi questioni sempre più complesse. Le ricerche attuali smontano almeno in parte le tesi che hanno a lungo prevalso nell'ambito della sovietologia. Pur senza avere la presunzione di voler dare una spiegazione globale e definitiva di questo fenomeno cosa - difficile da comprendere per la sua immensa portata, esse si orientano piuttosto verso l'analisi dei meccanismi e delle dinamiche della violenza.

In questa prospettiva permangono numerose zone d'ombra. La più importante riguarda i comportamenti sociali che entrano in gioco nell'esercizio della violenza. Sul punto meno indagato nel lavoro di ricostruzione (chi erano gli esecutori?) bisognerà interrogare continuamente la società nel suo insieme, vittima ma anche parte attiva di ciò che è avvenuto.

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