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Roma – 20 marzo Dipartimento di Scienze Politiche La sovranità condivisa in materia di bilancio tra Stati membri e Unione tra già e non ancora Una moneta (in19 dei 28 Paesi), governata da un’unica banca centrale. Un mercato unico (28 su 28), (presto 27) affidato alle cure di autorità di controllo capaci di impedire che si erigano ostacoli alla libera circolazione di merci, capitali, persone e che la competizione tra le imprese sia turbata da aiuti di Stato. Politiche di bilancio, coordinate tra di loro attraverso un sistema di regole, di vincoli e di obiettivi che sostanzialmente ignorano il tema del coordinamento tra politica monetaria e politica fiscale. Non c’è da stupirsi se non funziona.

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Roma – 20 marzo Dipartimento di Scienze Politiche

La sovranità condivisa in materia di bilancio tra Stati membri e

Unione tra già e non ancora

Una moneta (in19 dei 28 Paesi), governata da un’unica banca centrale.

Un mercato unico (28 su 28), (presto 27) affidato alle cure di autorità di

controllo capaci di impedire che si erigano ostacoli alla libera circolazione

di merci, capitali, persone e che la competizione tra le imprese sia turbata

da aiuti di Stato.

Politiche di bilancio, coordinate tra di loro attraverso un sistema di regole,

di vincoli e di obiettivi che sostanzialmente ignorano il tema del

coordinamento tra politica monetaria e politica fiscale.

Non c’è da stupirsi se non funziona.

In particolare, non c’è da stupirsi se il sistema non funziona quando si

manifestano gravi squilibri interni all’Area, che – per essere affrontati e

risolti – reclamano un elevato grado di coerenza tra politica economica e

fiscale da un lato e politica monetaria dall’altro.

Quando la seconda guerra mondiale volgeva al termine, nel luglio 1944, i

governi alleati si riunirono a Bretton Woods, per cercare di definire quali

fossero le condizioni di contesto che si dovevano creare per dare stabilità

ad un sistema monetario, i cui disordini erano stati al centro della guerra

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commerciale e dei cambi che aveva preceduto – e almeno in parte causato

– la guerra vera e propria.

In quella Conferenza, tutti concordavano sul fatto che lo squilibrio che

generava disordine nel sistema monetario era prima di tutto quello creato

da un Paese – o insieme di Paesi – che presentasse un gravissimo deficit

nei conti con l’estero.

Ma non tutti concordavano sul rimedio da adottare: i Paesi creditori –

rappresentati dal capo delegazione degli USA Harry Dexter Wite –

sostenevano che l’onere della correzione dovesse essere messo tutto in

capo al Paese debitore. Era quello, infatti, il soggetto portatore della

malattia, giacché viveva al di sopra dei suoi mezzi; consumava, infatti, ben

più di quello che produceva.

Bastava tirasse un po’ la cinghia, e tutto sarebbe tornato in ordine.

Keines, rappresentante del Regno Unito, sosteneva che quella visione del

problema – fondata sull’approccio “micro”, che pretende di estendere alla

macroeconomia l’idea del “vizio” da correggere del singolo individuo in

una famiglia o, comunque, in una piccola comunità – era del tutto errata e

cattiva consigliera, perché ignorava l’esigenza di agire su entrambi i fattori

dello squilibrio: dal lato dei Paesi in deficit, che devono stringere la

cinghia; e dal lato dei Paesi in surplus, che devono contemporaneamente

allargarla. Fulminante, l’argomento di Keines contro il “Vizio” e la

“Virtù” di debitori e creditori: che colpa hanno i primi, se sono più

competitivi e esportano di più, sosteneva Wite. Il problema non è il loro

export, rispondeva Keines. Ma il loro import – tenuto troppo basso, per

ragioni politiche, interne e esterne. Keines, quindi proponeva di mettere in

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atto sanzioni sia nei confronti di Paesi in deficit che rifiutassero di adottare

politiche sia monetarie, sia fiscali restrittive; sia nei confronti di Paesi in

surplus che rifiutassero di adottare politiche espansive.

“Cosa c’entra, tutto questo, con la sovranità condivisa in materia di

bilancio in Europa e nell’Area Euro? Non siamo forse andati ben oltre la

creazione di un sistema di cambi stabili, almeno in Europa, costruendo la

moneta unica, governata da un’unica banca centrale, padrona a pieno titolo

– e in regime di totale autonomia dai governi – di quella politica

monetaria, che costituiva per Keines una delle due leve da usare per

correggere gli squilibri, l’altra essendo la politica fiscale?”

La mia opinione è che proprio la vicenda degli ultimi dieci anni dell’Area

Euro possa essere letta alla luce delle opposte posizioni di Wite e di

Keines a Bretton Woods.

Nella prima fase della moneta unica – dal Trattato di Maastricht al 2007 –

il ritmo di crescita e il processo di convergenza economica sono stati più

forti di quello dell’insorgere di squilibri macroeconomici, fino a

nascondere sotto il tappeto comportamenti opportunistici dei singoli

governi.

Per rendercene conto, basterà uno sguardo al reciproco sostegno, in quella

fase, tra il crescente disavanzo greco e il crescente avanzo tedesco. Per i

greci, denaro a poco prezzo, col quale comperare macchine tedesche. Per i

tedeschi, rendimenti doppi e tripli per i loro risparmi investiti in titoli

greci, e tante macchine da produrre ed esportare in Grecia. Quando la crisi

originata dall’esplosione della bolla immobiliare in USA determina

incertezza sul mercato globale, inducendo i capitali a cercare sicurezza,

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invece di rendimenti elevati, il castello del reciproco sostegno crolla.

Messi di fronte alle conseguenze – socialmente, politicamente ed

economicamente devastanti -, degli squilibri, gli organismi europei

indugiano, per lungo tempo, sulla posizione di Wite: “correggano i

viziosi”. I fatti di cronaca – compresi i trucchi contabili dei governi greci –

sembravano dar loro ragione.

Questa posizione, in Europa, poteva del resto giovarsi di un insieme assai

robusto di idee, analisi, esperienze storiche, che poteva ben considerarsi un

vero e proprio corpus dottrinario – l’ordoliberalesimo. La teoria

dell’ordine collettivo come somma degli “ordini” individuali – ciascuno

faccia bene i compiti e metta ordine in casa propria: ne scaturirà il

benessere dell’Unione nel suo complesso -, domina per lungo tempo il

confronto sulle politiche da adottare in Europa per far fronte alla Grande

Recessione.

“Poco male – si dirà – visto che non c’era e non c’è una politica fiscale

europea, ma 19 politiche fiscali”.

Non mi sembra un giudizio fondato:

a- In primo luogo, perché questo orientamento rallenta l’adozione di

politiche espansive anche da parte dell’unico soggetto davvero

“federale” esistente nell’Area Euro: la BCE, che esita a lungo –

troppo a lungo – prima di seguire le orme della FED americana;

b- In secondo luogo, perché questo orientamento ispira sia le politiche

di intervento sulle crisi aperte nei Paesi in deficit - Grecia in primis -,

sia le politiche fiscali dei Paesi in surplus.

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È una fase nella quale prevalgono – nei due campi – i sostenitori più

radicali delle due tesi contrapposte: i Paesi in deficit abbandonino

unilateralmente ogni politica di rientro, sostengano la crescita con politiche

fiscali ultraespansive, in deficit; e al diavolo le regole e gli obiettivi di

consolidamento fiscale (Varoufakis); oppure, dall’altro lato: “Prima i

Paesi in deficit facciano ordine in casa propria e solo dopo vedremo come

aiutarli, ma senza cambiare il corso delle cose a casa nostra, perché non è

certo una colpa se siamo più competitivi ed esportiamo di più”. In

particolare, in Germania, la posizione degli ordoliberali estremisti cercherà

di trovare alimento nella constatazione delle modeste interrelazioni

commerciali con la Grecia, specie nel caso delle spese per investimenti

infrastrutturali.

Così fingendo di ignorare che, in un mercato aperto, i successivi turni di

spesa alimentano la domanda – e le importazioni – ben al di là dei confini

dei settori in cui la spesa viene effettuata in primo tempo.

La Grande Recessione farà molto vittime – nell’intera Area dell’Euro –

prima che ci si renda conto della necessità di cambiare strada, sotto la

spinta e la durezza dei fatti.

La politica monetaria – sotto la guida di Mario Draghi – cambia

progressivamente di segno, senza violare le regole fissate nello Statuto

della BCE. Anzi. Poiché il combinarsi di diversi fattori – recessione,

disoccupazione, innovazione, competizione globale, insufficienza della

domanda – spinge i prezzi molto al di sotto dell’obiettivo fissato, Draghi è

in grado di convincere anche i più riottosi sull’esigenza e sull’urgenza di

politiche monetarie espansive. Fino al Q.E., tutt’ora in corso.

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È sbagliato, secondo me, sostenere che queste scelte della BCE non

abbiano trovato alcun coerente riscontro negli orientamenti di politica

fiscale e di bilancio di quegli organismi europei che svolgono una funzione

di sorveglianza e coordinamento delle politiche fiscali degli Stati membri.

Si può certamente sostenere, invece, che questo mutamento sia intervenuto

troppo tardi, e che non abbia trovato attuazione pronta e coerente.

In ogni caso, nell’autunno del 2011 – esplosa la crisi del debito sovrano –

l’Unione adotta un complesso insieme di regole, obiettivi, vincoli e

meccanismi che va sotto il nome di “Procedura per gli squilibri

macroeconomici”, che segna – almeno sul piano teorico -, una netta

affermazione di Keines su Wite.

Sullo squilibrio dei conti con l’estero dei singoli Paesi membri, infatti,

viene previsto un meccanismo di correzione assolutamente simmetrico: il

deficit non deve essere superiore al 6% del PIL, esattamente come il

surplus non deve essere superiore al 6%. Se questo limite simmetrico viene

superato, così come il Paese in deficit deve adottare scelte di politica

economica e fiscale che accrescano la sua competitività e riducano le

importazioni, così il Paese in surplus deve espandere la domanda fino a far

rientrare sotto il 6% il suo attivo. Keines non avrebbe potuto chiedere di

più.

Malgrado i surplus di alcuni Paesi siano sistematicamente rimasti al di

sopra del limite fissato, la regola non viene però fatta rispettare; a

differenza di quelle che vennero fissate nella stessa occasione, e sono

inserite nel Six Pack, nel Fiscal Compact, nelle procedure per disavanzi

eccessivi… La non compiuta applicazione del nuovo sistema di regole non

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deve tuttavia indurci a buttare via il bambino con l’acqua sporca. Questo è

infatti il pericolo che corrono coloro che reclamano l’abbandono e il

superamento di Six Pack, Fiscal Compact e dell’intera batteria di regole

fissate nel 2011. Peraltro dimenticando che ciò che conta ed ha validità

permanente, in quel sistema, è il carattere anticiclico delle politiche fiscali,

che ha trovato espressione nel nuovo art. 81 della Costituzione.

E dimenticando che – sia pure con grande ritardo – la Comunicazione della

Commissione del gennaio 2015 sui criteri per l’esercizio dell’attività di

sorveglianza sui bilanci degli Stati membri, introdurrà importanti, nuove

clausole di flessibilità (riforme strutturali e investimenti), figlie legittime di

quella innovazione di sistema introdotta nel 2011.

Resta tuttavia una evidente asimmetria di scelte e comportamenti nella

interpretazione e attuazione delle nuove regole 2011, cui si può reagire

lungo tre linee, tra di loro radicalmente alternative:

a- La prima, è quella dei nemici dell’Europa e dell’Euro: dopo Brexit,

che aveva tutt’altre motivazioni, ora Frexit e Italexit. È la strada del

populismo nazionalista, che fa della piena riacquisizione della

sovranità nazionale sull’intera politica di bilancio al tempo stesso la

premessa e l’obiettivo della programmata disgregazione dell’Unione.

È la strada proposta da Le Pen; che ha una sua versione di sinistra,

del tutto analoga negli esiti, anche se apparentemente diversa nei

presupposti: “sarebbe preferibile lo Stato federale vero e proprio, con

piena cessione di sovranità al Governo e al Parlamento Europeo.

Parlamento e Governo europei che dovrebbero mettere in comune il

debito sovrano e adottare una politica fiscale ultraespansiva, che,

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sposandosi con la politica monetaria della BCE, ci farebbe uscire

dalla crisi. Ma, poiché non è possibile che tutto ciò si avveri, allora…

referendum sull’Euro, ristrutturazione dei debiti pubblici, violazione

delle regole, ecc.

b- La seconda, è quella che propone ed opera per un rapido rientro dalle

politiche ultraespansive della BCE e, per la politica fiscale, propone

di costruire organismi burocratici cui attribuire poteri di intervento –

non mediati dalla politica – sui Paesi che non vogliano o non

riescano a rispettare pienamente regole e obiettivi, fissati in sede di

Unione. È curioso che questa soluzione abbia tante proseliti nel

Paese la cui Corte Costituzionale ha sempre ribadito: “cessione di

sovranità in materia di bilancio? Sì, a condizione che avvenga verso

un’istituzione di governo almeno altrettanto democratica del

Bundestag. Non mi sembra proprio che l’organismo tecnico-

burocratico proposta da Schauble per la sorveglianza sui bilanci

pubblici dei Paesi membri abbia le caratteristiche necessarie per

soddisfare questo criterio.

c- La terza, è quella che colloca il tema della cessione di sovranità sulla

politica di bilancio nel contesto di una riforma dell’assetto politico-

istituzionale dell’Unione. Le linee di fondo di questa proposta sono

state tracciate, più di recente, dal prof. Fabbrini: individuare le

politiche da condividere in una vera e propria Unione federale,

governata da istituzioni influenzabili dalla democrazia, separando

nettamente queste politiche da quelle che dovranno rimanere, o

tornare, a livello nazionale. Una di queste aree affidate alla gestione

“diretta” dell’Unione federale, è quella economica, includendovi la

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gestione della moneta comune e la decisione e la gestione del

Bilancio dell’Unione stessa, a sua volta basato su fiscalità autonoma

e utilizzabile per sostenere politiche anticicliche, anche di tipo

sociale (es. uno strumento europeo di tutela dalla disoccupazione non

strutturale). Questo stesso bilancio europeo dovrebbe essere

sufficientemente grande da finanziare politiche di investimenti nei

settori della ricerca e delle infrastrutture materiali e immateriali.

In questo contesto, politiche oggi prevalentemente affidate alle cura

dell’Unione – es. l’agricoltura – dovrebbero tornare sotto i dominio

nazionale, con il conseguente spostamento verso i bilanci nazionali delle

risorse pubbliche dedicate.

È inutile che dica che considero la terza come quella utile a portarci fuori

dalla difficoltà in cui versiamo. Nella transizione, più e prima degli

Eurobond, possono avere un peso crescente i project bond, cioè strumenti

di debito europei emessi da organismi europei sul merito di credito

dell’Unione federale, per finanziare progetti infrastrutturali, connessi a

politiche (es. difesa e sicurezza) affidate all’Unione Federale che si sta

costruendo. Occasione per fare prendere corpo a questa svolta: il 60° dei

Trattati.