Web viewPaolo Zatti Aiutare a morire: note brevi sui limiti del diritto.-Dignità del morire...
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Paolo Zatti Aiutare a morire: note brevi sui limiti del diritto.
-Dignità del morire significa poter vivere la propria morte, secondo le parole di Rilke: “O Signore
concedi a ciascuno la sua morte: frutto di quella vita in cui trovò amore, senso e pena”…. Perché
ciò che ci rende estraneo e greve il morire è che la morte non è nostra….”
-Lasciarsi morire, in condizioni che solo la persona - cui si garantisce ogni cura appropriata e
ogni possibile assistenza e conforto - può per sé determinare, significa sottrarsi volontariamente a
forze e inclinazioni che sono skandalon a riconoscere la propria ora e accettare la morte.
-Lasciar morire è un dovere quando non farlo significa andare oltre la misura che la sapienza
terapeutica addita o che la persona indica come la propria misura: non lasciar morire è violenza e
offesa alla dignità.
-Tutto ciò significa recuperare il rispetto della morte e quindi rispettare la vita che la include.
- Il diritto può e deve dare certezze corrispondenti a questo valore, attraverso una chiara
affermazione del diritto al rifiuto di cure, del divieto di cure non proporzionate, di non punibilità
dei medici che agiscono in ossequio a quel diritto e a quel dovere.
-Esiste un crinale, sottile ma limpido, tra cessare la lotta contro la morte e procurarsela o
procurarla.
-Da un punto di vista morale, anche la decisione di darsi la morte può, nella singolarità delle storie
di vita, rappresentare una scelta tragica ma degna.
-Quanto a dare la “buona morte” , dichiaro qui la mia personale posizione morale: credo che
nella singolarità del caso, anche l'aiuto compassionevole al suicidio e in situazioni-limite anche
l’uccisione compassionevole – l’antica “misericordia” – siano scelte che un’etica narrativa può
giustificare.
-Questa convinzione non mi porta a pensare che sia senz'altro opportuna e sostenibile la scelta
per una disciplina legale dell'eutanasia.
-L'ostacolo che avverto riguarda la misura che il diritto deve riconoscere a sé stesso per non
cadere nella tentazione della dynamis. Non si fa buon diritto se non si riconosce misura il suo lato
d’ombra, il suo rapporto con la forza (Simone Weil), che impone di valutare con estrema
attenzione ogni regola che abbia riguardo alla vita e al corpo dell’uomo.
E occorre con altrettanta lucidità valutare l’adeguatezza dei mezzi, di cui il diritto dispone,
rispetto a situazioni in cui essi possono essere inesorabilmente “ fuori misura”.
-Il diritto - soprattutto il diritto di fonte legislativa- ha sostanzialmente due possibilità di
legittimare una condotta.
Una è quella di descriverla lavorando con la costruzione di immagini standardizzate di vicende
umane, le cosiddette fattispecie: definire connotati, condizioni, modalità, circostanze, sussistendo
le quali una condotta (e una scelta) è lecita o invece illecita. Questa modalità, che garantisce
l'uniformità del trattamento tra casi simili e quindi riconducibili a una stessa classe, rende lo
strumento legislativo inesorabilmente rozzo, quando si tratta di regolare decisioni e condotte che
trovano solo nella loro singolarità le ragioni di una sofferta eticità.
-Una regolazione legislativa di procedure eutanasiche cade inevitabilmente in questa dismisura.
Le leggi sulla eutanasia esistenti hanno questo comune difetto, che è quello di cercare di
assorbire e depotenziare il problema della decisione etica avvolgendolo di condizioni e di
procedure: la scelta morale è "processata", come si usa dire, attraverso una pesante
burocratizzazione che la frammenta in fasi successive nessuna delle quali la contiene interamente.
-Mi sgomenta in modo particolare l’idea che questo modello sia inserito in una realtà come quella
italiana, in cui ogni coinvolgimento di competenze pubbliche in scelte personalissime – dai
colloqui di riflessione sull’interruzione di gravidanza, alle valutazioni di idoneità dei genitori da
parte dell’assistenza sociale, ai colloqui pre-trapianto nella donazione d’organo tra viventi – tende
inesorabilmente al ribasso di senso, pregnanza e assunzione di responsabilità dove non si inserisca
una qualità personale non facilmente reperibile nel mondo sanitario e assistenziale.
-I progetti di legge sull’eutanasia che circolano in Italia tendono ad essere più semplici rispetto ai
modelli europei; ma questo non è sempre un pregio quando la tecnica legislativa modalità resta
sempre quella della fattispecie e della proceduralizzazione. Anzi, la semplificazione di condizioni,
processo e modalità di decisione rischia di impattare malamente in un contesto di fragilità e
insufficienza di risorse e di cultura dell’assistenza come quello italiano: un ambiente in cui sta
diventando impossibile avere a casa la visita di un medico di base o gli strumenti per praticare
terapia del dolore, e in cui la disponibilità di hospices è una grandezza enormemente variante su
base regionale quando non locale, non è il più adatto a ricevere una disciplina che "normalizzi" le
decisioni eutanasiche.
-Una diversa modalità di disciplinare il problema di scelte eutanasiche è quella di stabilire
espressamente non più che un principio o criterio che consenta di scriminare il caso rispetto a
ipotesi comuni di istigazione/aiuto al suicidio o di omicidio.
-Per l’aiuto al suicidio è pensabile che la norma possa essere formulata in modo da dare a chi
assiste la persona sofferente che vuole mettere fine alla propria vita sufficiente certezza a priori di
non subire sanzioni.
-Per i casi di uccisione compassionevole, la mia personale posizione è quella di non offrire
certezza a priori di legittimità, ma consentire una valutazione a posteriori, necessariamente caso
per caso sulla base di valori/guida indicati dalla norma. Un rischio di responsabilità deve
accompagnare accompagna la scelta compassionevole, che rimane scelta tragica. Questa
modalità rispetta i limiti del diritto, ma, va detto, esige una reazione giudiziale efficace, quindi
pronta e poco incline a "variazioni" su base locale o ideologica.