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Lezioni di Storia delle dottrine politiche-
Prof. P. Armellini-A.A. 2019/20
1. Il pensiero politico dell’antichità fra Grecia e Roma
Di Paolo armellini
SOCRATE (469 a.C. – 399 a.C.): virtù e potere
Socrate non lasciò nulla di scritto (egli stesso preferiva trasmettere direttamente a voce i suoi
insegnamenti), tutto quello che si sa di lui lo si deve al lavoro di uno dei suoi più affezionati
discepoli, Platone, che scrisse abbondantemente sulla figura del maestro e ne fece il
protagonista di molti dei suoi dialoghi.
Socrate era considerato un conservatore delle tradizioni della polis e delle sue leggi,
ponendo ,queste ultime, al di sopra di tutto. Il filosofo riteneva che le leggi scaturissero dal
sapere,ovvero, dall’applicazione della scienza della misura (ricerca dell’equilibrio) che si fonda
sulla verità.
L’obbedienza alle leggi è fondamentale per Socrate ma questo deve avvenire in modo razionale e
tuttavia, esse possono sempre essere perfezionate su iniziativa dei cittadini.
La tesi chiave della morale di Socrate è la virtù intesa come ricerca e scienza. Per il filosofo la
virtù non è la bellezza del corpo o la ricchezza, bensì l’insieme dei valori dell’anima, che si
riscontrano e ritrovano nella conoscenza;
il filosofo sostiene che la virtù sia legata alla conoscenza e che questa debba essere
un’indispensabile qualità del cittadino che intenda fare politica, contrariamente alla tendenza
dell’epoca che basava la politica sulla retorica, ovvero sull’arte di incantare le folle derivante
dai sofisti.
Quindi per Socrate la virtù è conoscenza e si compie il male per ignoranza di questa.
Caratteristica fondamentale di Socrate è l’ironia consisteva cioè nel fingersi ignoranti rispetto
all’interlocutore onde confutare meglio le sue certezze (rappresenta il metodo usato da Socrate
per svelare agli uomini la loro ignoranza e per gettarli in una situazione di dubbio)
Dopo la sottile arte dell’ironia, il filosofo, utilizzava quella della maieutica che consisteva
nell’aspetto positivo – ricostruttivo, il quale così facendo aiutava il prossimo, tramite domande,
a “partorire” la verità che quest’ultimo custodiva.
La politica, secondo il filosofo, non era un’arte e quindi non poteva essere insegnata come
invece sostenevano i sofisti, egli ne criticava la conoscenza superficiale da loro impartita,
mentre promuove il sapere specifico e competente.
Socrate pensava che la politica doveva essere esercitata dai competenti, ovvero da uomini
virtuosi in grado di saper resistere all’allettamento del piacere.
Quindi per il filosofo il potere era legittimato dal sapere mentre per il sofista Gorgia il potere lo
si acquistava con la retorica e l’usa della parola che ammaliava le folle.
Socrate si oppose sempre ai sofisti perchè essi pronunciavano discorsi raffinati ed eleganti, ma
totalmente privi di verità: per loro l'importante era parlar bene, avere un buon effetto sugli
ascoltatori, essi erano veri sostenitori della scienza della parola, la retorica. Per Socrate invece
quel che più contava è la verità: lui si proclama incapace di controbattere a discorsi così
eleganti e ben formulati (ma falsi). Socrate, pur non tenendo un'orazione raffinata, diceva il
vero: la critica ai sofisti verrà poi ripresa da Platone stesso. I sofisti puntavano a stupire
l'ascoltatore, dal momento che erano convinti che la verità non esistesse (soprattutto Gorgia).
Socrate per difendersi in tribunale non pronuncia un discorso (come i sofisti), ma imposta un
dialogo botta e risposta, poiché è solo dal discorso che viene fuori la verità (Platone dirà che il
discorso tra due o più individui è come lo scontro tra due pietre dal quale nasce la fiamma della
conoscenza).
PLATONE (427 a.C. – 347 a.C.): giustizia e forme di stato
L’ insegnamento di Socrate sta sicuramente alla base della filosofia e del pensiero politico di
Platone; come per il maestro anche Platone riteneva essenziale la ricerca morale della verità e
diviene in lui fondamentale il rapporto che intercorre fra la filosofia e la politica.
Lo studio del rapporto fra queste due materie scaturisce dal dramma e dalla lezione del suo
maestro Socrate, il quale come ogni buon filosofo ha rispettato le leggi della polis ed ha
accettato la sua sorte, anche se dettata da una politica ingiusta.
La filosofia infatti ha il dovere di andare oltre gli avvenimenti, le guerre, i cambiamenti di
governo, l’esperienze personali perchè essa ha il solo ed esclusivo compito di individuare
l’essenza ultima della realtà.
Platone continua con la polemica socratica nei confronti della retorica sofista e la rende
radicale ponendo in contrapposizione la figura del buon politico con il sofista retore perché,
secondo l’autore, è proprio la retorica, la scienza della parola, che ha condannato a morte
Socrate visto come il vero politico e rinnovatore della politica ateniese.
Dopo aver assistito al logorarsi delle forme di governo dell’Atene degli ultimi anni, la
democrazia e l’oligarchia, verso il 390, nove anni dopo la morte di Socrate, Platone pose mano
alla Politeía, forse la massima opera del filosofo delle Idee. L’oggetto del dialogo, cui prendono
parte Socrate, Glaucone, Polemarco, Adimanto, Cefalo e Trasimaco, è la perfetta comunità
politica e sociale a cui una polis deve tendere. Il concetto fondamentale, che l’autore intende
espletare, è la necessità che a governare siano i filosofi. Governare, precisa Platone, non è,
ovviamente, facile: si tratta di comprendere il bene collettivo e tradurlo in leggi e atti politici
opportuni. Inoltre, non si spiega, argomenta Platone, come scienze e discipline meno complesse,
come la medicina, siano praticate da pochi, mentre la politica è così spesso affidata alla massa
o a pochi incompetenti. È chiaro, dunque, che né la democrazia, né l’oligarchia (tanto meno la
tirannide) possono essere guardate come modello politico in grado di garantire la giustizia.
Fondamento della polis è la giustizia, opposta da Platone al diritto del più forte sostenuto dai
sofisti.
Su queste basi, Platone descrive il suo modello ideale di stato. La comunità dovrà essere divisa
in tre classi:
1 GOVERNANTI: caratterizzati da un’anima razionale e dalla saggezza, ai quali affidare il
governo della polis;
2 GUERRIERI: caratterizzati da un’anima irascibile e dalla forza, ai quali affidare la difesa
della polis;
3 CITTADINI-LAVORATORI: caratterizzati da un’anima concupiscibile e dotati di temperanza
ai quali affidare il sostentamento economico-lavorativo della polis.
Sarà unito e giusto lo stato nel quale ogni individuo rispetterà il proprio ruolo e abbia quel che
gli spetta, in proporzione. I compiti in una comunità sono tanti: l’importante è che ognuno
scelga il più adatto alla propria costituzione caratteriale e vi si dedichi. L’appartenenza ad una
o ad un’altra classe è dettata, nello stato platonico dalla prevalenza nella psyché del singolo,
della parte razionale (governanti), concupiscibile (lavoratori) o irascibile (guerrieri), ovvero
dalle qualità individuali. Ecco perché in Platone non si può parlare di caste, ma si deve parlare
di classi: una certa mobilità sociale è ammessa. Nel caso che il figlio di un governante non
somigli al padre, sarà retrocesso in un’altra classe.
Uno degli aspetti più interessanti dello stato ideale delineato da Platone è l’eliminazione della
proprietà privata, in seno, però, solo alla classe superiore dei governanti-filosofi. I governanti
avranno in comune anche le donne, completamente eguagliate agli uomini; unioni matrimoniali
saranno temporanee e i figli saranno tolti ai loro genitori sin dalla nascita «e così saranno di
tutti anche i figli». L’essenza del “comunismo” platonico risiede in definitiva nella tesi
economica dell’eliminazione della proprietà privata e nella tesi sessuale dell’eliminazione della
famiglia e della parificazione uomo-donna. Tutto ciò finalizzato alla più completa dedizione al
bene comune e statale.
Due domande si presentano ora improrogabili: “I guardiani sono felici?” e “Chi custodirà i
custodi?”. Alla prima Platone risponde che la felicità risiede nella giustizia, ovvero
nell’assolvere completamente alle proprie mansioni, in vista dell’armonia complessiva dello
stato. Alla seconda il filosofo risponde che, in virtù della loro formazione, i custodi saranno già
in grado di custodire se stessi.
Per Platone anche la polis che si forma secondo la costituzione ideale, non può sottrarsi alla
decadenza e questa decadenza segue il seguente schema:
1 ARISTOCRAZIA ovvero il governo dei reggitori-filosofi;
2 TIMOCRAZIA, ovvero il governo degli animosi, dei guerrieri che allontanano i saggi dal
potere;
3 OLIGARCHIA, ovvero il governo dei solo ricchi che allontanano dal potere i guerrieri ed i
poveri;
4 DEMOCRAZIA,ovvero il governo dei non abbienti, del popolo che allontana i ricchi dal potere
5 TIRANNIDE, ovvero la più corrotta delle forme di governo e che rappresenta il governo
dispotico di un solo individuo.
Per Platone la politica si compone di due parti:
1 POLITICA PRATICA: ovvero l’attività di governo svolta dal re filosofo;
2 POLITICA TEORICA: ovvero l’organizzazione della polis.
L’autore riteneva che l’arte regia, purchè praticata da un re filosofo, legittimi un governo che
sia al di sopra delle leggi; in tal modo il re filosofo essendo al di sopra di esse è in grado di
modificarle e di adattarle a nuove situazioni senza il vincolo della tradizione, che se pur
fondamentale per la polis a volte ne potrebbe frenare l’evoluzione.
ARISTOTELE (348 a.C. – 322 a.C.): etica, politica e le forme di governo
Secondo Aristotele, la politica è una delle quattro scienze in cui si articola la scienza dell’uomo
(le altre sono: psicologia, etica e retorica).
“Politica” è una delle opere fondamentali di Aristotele, e comprendeva la descrizione delle 148
costituzioni greche, anche se oggi ci è pervenuta solamente quella riguardante la costituzione di
Atene. In quest’ opera il filosofo afferma che la polis è il luogo adatto alla realizzazione dei
desideri e dei bisogni dell’uomo, egli è lo zoo politicòn e solo all’interno di essa può esprimere
la sua umanità mediante la politica.
La polis è compiuta in sé stessa in quanto contiene tutte le altre forme di aggregazione :la
famiglia, il gruppo parentale, la tribù ed il villaggi).
Secondo l’autore, esistono tre tipi di comando ed obbedienza, tre tipi di autorità sulle quali si
fonda la costituzione della polis:
1. padre-figlio;
2. marito –moglie;
3. padrone schiavo.
A questi tipi corrispondono tre gerarchie delle intelligenze:
1. il figlio ha intelligenza potenziale;
2. la moglie ha intelligenza attenuata;
3. lo schiavo ha intelligenza appena per il lavoro che svolge.
A queste corrispondono tre tipi di autorità:
1. autorità del re coi sudditi;
2. autorità del magistrato coi cittadini;
3. autorità del despota.
Aristotele critica il comunismo platonico in quanto contrario alla natura dell’uomo: la famiglia
e la proprietà privata sono infatti gli istituti sui quali si articola tutta la comunità politica;
abolire la proprietà privata significherebbe privarsi dell’unico criterio per fissare la giusta
ricompensa per il lavoro svolto da ciascuno.
Aristotele aggiunge che uno Stato collettivista non è in grado di raggiungere l’unità, in quanto la
società si scinderebbe in due classi: i guerrieri che detengono il potere e i lavoratori a loro
sottomessi.
Secondo l’autore, la costituzione migliore è quella in cui ogni cittadino possa meglio provvedere
alla sua proprietà materiale ed alla sua felicità; la polis deve garantire la compartecipazione di
diritti e di beni a tutti, a meno che non vi sia qualcuno che emerge per virtù al quale è giusto
obbedire (Aristotele, essendo precettore di Alessandro Magno, cerca di legittimarne così il
dominio sui popoli).
Aristotele critica però la politica espansionistica militare, afferma infatti che la guerra và fatta
solo se ha come fine la pace.
L’autore divide la società in sei classi, in base ai compiti di ciascuno di essa per la società:
1. agricoltori (alimentazione);
2. artigiani (arti, mezzi necessari);
3. guerrieri (difesa);
4. benestanti (finanza pubblica);
5. sacerdoti (culto divino);
6. magistrati (decisioni sugli interessi generali e sui diritti).
Su queste classi si fonda tutto l’ordinamento politico della polis.
Aristotele sostiene che ogni popolo ha il governo che si merita, ovvero ogni governo riflette il
modo di vivere di un popolo. Egli divide l’umanità in tre razze:
1. nord: popolo vivace ma poco intelligente, non hanno una vera comunità politica che
consenta loro di dominare i popoli vicini;
2. centro (mediterraneo): popolo intelligente e con forza morale, ha ordinamenti politici
liberi e sarebbe in grado di dominare gli altri popoli (giustifica Alessandro Magno);
3. sud (Asia ed Africa): popolo intelligente ed abile, ma privo di forza morale e perciò
propenso alla schiavitù.
Aristotele ritiene che ogni popolo si governa mediante la ragione, perciò lo Stato deve prima di
tutto adoperarsi per educare l’uomo alla ragione e al bene comune.
Individua diversi tipi di costituzioni:
Costituzioni perfette (nel rispetto della pubblica utilità):
1. Monarchia;
2. Aristocrazia;
3. Politia (o democrazia dei liberi).
Costituzioni imperfette (nel proprio personale interesse):
1. Tirannide;
2. Oligarchia;
3. Demagogia (democrazia dei molti).
Secondo Aristotele, la costituzione per antonomasia è la Politia, basata sull’eguaglianza di tutti.
In questo caso, la cittadinanza è riconosciuta solo a chi, per condizioni sociali, è libero e può
perseguire le virtù del cittadino. Il potere non è fondato sulla gerarchia, ma sul consenso,
tuttavia le categorie lavoratrici sono escluse dalla vita politica, in quanto privi di virtù politica.
Secondo l’autore, la Politia deve essere il modello al quale deve ispirarsi la politica
democratica.
Aristotele, al contrario di Platone, pensa che le leggi debbano essere sovrane e che si possa
raggiungere l’armonia dello Stato solo se al governo vi sono persone selezionate per tradizione
ed educazione che operino nel rispetto delle leggi. Senza la sovranità delle leggi, la maggioranza
avrebbe un potere più assoluto di quello di un tiranno. Il principio della sovranità delle leggi,
trova la sua attuazione solo in una costituzione basata sulla classe media che è veramente libera
moralmente, intellettualmente ed economicamente. Questa è in grado di mantenere l’equilibrio
tra ricchi e poveri.
Aristotele pensa che l’ordine sia il fine ultimo della politica. Analizza inoltre il fenomeno della
congiura contro il tiranno; l’autore giustifica tale pratica in quanto è l’unico modo per sottrarre
i cittadini alla volontà spregiudicata di un uomo che li ha ridotti in schiavitù.
L’ESPERIENZA POLITICA ROMANA
La civitas romana era costituita da:
la gens: gruppo di famiglie che riconosce un progenitore comune;
i patres familiarum: capi delle gens;
Il rex: capo tra i patres familiarum;
Il populum: insieme degli armati forniti dai gentilizi.
Il rex deteneva un potere assoluto, era comandante militare, sacerdote e giudice. Nella sua
attività di governo, il rex era assistito da un consiglio di anziani (i patres, il senato). La plebe,
costituita dai piccoli proprietari, dai contadini e dagli artigiani, era esclusa dalla civitas e
dominata dalle gens.
Intorno al 509 a.C. con la fine del dominio etrusco su Roma, l’oligarchia gentilizia sostituì al rex
due consoli di uguali poteri che avevano un potere limitato rispetto a quello del rex, sia per la
brevità del mandato sia per la collegialità delle dicisioni.
Dopo l’instaurazione della repubblica e la formazione di un esercito cittadino, l’esclusione dalla
vita politica della plebe non poteva continuare ad essere mantenuta, fu così istituita la carica dei
tribuni della plebe che giunse fino al numero di 10, dichiarati inviolabili e con la facoltà di
esercitare lo jus auxilii e lo jus intercessionis per salvaguardare la plebe dalle ingiustizie
arbitrarie che potevano venire dalle classi dominanti.
Il diritto è alla base della vita politica romana, è la vera forza della civitas, ciò che permette ad
essa di concentrare le energie della collettività per conseguire i suoi fini.
Nella civiltà romana si pone la distinzione tra ius civile, che riguarda i rapporti tra i cittadini, e
lo ius pubblicum, che riguarda l’organizzazione della civitas in quanto res pubblica. Il diritto
romano era comunque strettamente legato alla morale ed alle più generali norme di carattere
sacrale e religioso e per un lungo periodo rimase prerogativa del collegio dei pontefici.
Infine individuiamo tre posizioni tipiche del comando nell’antica Roma:
Potestas: postere di realizzare una cosa per se o per gli altri;
Auctoritas: attività di chi assiste, per il raggiungimento di un risultato, la volontà di un
agente incapace di farlo,
Imperium:potere originario non derivante dall’ordinamento giuridico, illimitato a meno
che non venga espressamente illimitato da una legge.
POLIBIO
La potenza romana sembrava destinata, dopo la vittoria su cartagine, a dare attuazione al
programma di Alessandro Magno di unificare il mondo civilizzato; di questo ne era
sicuramente convinto Polibio.
Era uno storiografo greco che viveva a Roma, nella sua opera fece un attento studio delle
costituzioni e della loro evoluzione / degenerazione.
Polibio si accorge del fatto che ogni costituzione ha in sé stessa i principi della sua
decadenza,dettata dalla evoluzione-involuzione naturale della società politica. Secondo
l’autore, nelle costituzioni rette ( monarchia, aristocrazia e democrazia) il potere si fonda sul
consenso dei governati, mentre in quelle degenerate (tirannide, oligarchia ed oclocrazia) è
fondato sulla forza e sulla paura.
Questo lo schema evolutivo delle forme di governo.
MONARCHIA TIRANNIDE ARISTOCRAZIA OLIGARCHIA DEMOCRAZIA
OCLOCRAZIA(dominio della moltitudine).
All’ultima fase, la più degenerata, segue un periodo di vere e proprie lotte di fazioni che
sfociano in sanguinose guerre civili , alle quali pone termine solo la monarchia. Si compie
così il ciclo delle costituzioni , che inizia di nuovo con la prima forma di governo.
Secondo Polibio,fra tutte le costituzioni, la costituzione mista, adottata dai Romani (che fu
realizzata per la prima volta dal re Licurgo di Sparta) è la migliore, in quanto racchiude in
sé le tre costituzione perfette: monarchia (potere dei consoli), aristocrazia (potere del
senato), democrazia (comizi della plebe). Ai consoli spettava il governo della civitas ed il
comando militare, al senato il potere amministrativo e la politica estera, ai comizi il potere
legislativo in date materie.
CICERONE
Giurista, oratore, filosofo e uomo politico romano. Si richiama all’insegnamento di Platone,
di Aristotele, degli stoici, in particolare di Panezio, in contrapposizione con la teorizzazione
epicurea del disimpegno politico. Secondo lui, l’uomo politico ideale doveva unire alle
capacità d’azione un interesse vivo per la filosofia e la teoria politica (qualità che lui
attribuiva a Scipione l’Africano). Per Cicerone, la dottrina politica deve tenere sempre di
mira l’esperienza politica, alla quale vanno riferite le conclusioni cui perveniamo in sede
teorica.
Cicerone usa il termine “res pubblica” per indicare l’organizzazione politica in quanto tale;
lo Stato è la “cosa pubblica”, la cosa che appartiene al popolo. Il popolo come unità è una
creazione del diritto, al di fuori di questo il popolo è solo una massa di individui,
fondamentale quindi per cicerone il ruolo del diritto come perno della società politica.
Per Cicerone, la libertà è repubblicana ed il popolo è il titolare della summa potestas, se
questa non dovesse più appartenere al popolo, la costituzione si trasformerebbe in un
governo tirannico. A tal proposito, Cicerone giustifica il tirannicidio.
L’autore è, comunque, un convinto sostenitore dell’importanza della classe aristocratica, in
cui è viva la tradizione e che si fa garante del mantenimento della morale pubblica, solo
questa è infatti in grado di soddisfare il popolo e di contenere le richieste provenienti dai
suoi rappresentanti. A loro volta, i tribuni della plebe sono essenziali per contenere il potere
dei consoli e del senato e garantire la libertà del popolo.
Cicerone fu il teorico della libertà repubblicana proprio negli anni della sua crisi profonda
che la stava avviando alla sua drammatica fine.
Per questo egli sperava in una ricompattazione dalla società romana intorno alla figura di
un principes, che godesse di ampi poteri e ristabilisse l’ordine repubblicano, come teorizzato
nel suo De re pubblica.
2. S. Agostino, le due città
Di P. Armellini
CIVITAS DEI: questa opera ha un dichiarato fine apologetico, vuole dimostrare
l’infondatezza dell’accusa rivolta ai cristiani dagli ambienti politici fedeli al culto dei romani di
essere la causa della decadenza della politica militare dell’Impero con la diffusione degli ideali
avversi all’etica civica romana Roma, avendo abbandonato i suoi dei, era punita con le sconfitte
(Sacco di Roma da parte dei Visigoti 410).
Agostino intende i rapporti fra Cristiani e Impero con una spiegazione della dinamica della
storia universale, per cui la storia romana non poteva essere scissa dalle cause che spiegano il
sorgere, l’affermazione e il dissolversi degli stati e Imperi. La fede mostra nuova luce sui rapporti
fra i fini ultimi e la storia politica. Acquista nuova luce il problema del male (povertà, miseria,
oppressione e morte): può l’uomo esservi redento per sempre? Nella speculazione cristiano dei
tre secoli il Regno di Dio avrebbe liberato l’uomo dal male, avrebbe realizzato una società di
uguali e di liberi, cioè giusta.
Due interpretazioni di questa speranza. Per Eusebio di Cesarea l’unione della Chiesa con
l’Impero, realizzando nell’ambito terreno il governo diviso sul mondo garantiva la diffusione dei
beni spirituali e il tranquillo possesso di quelli temporali, legittimando e sacralizzando l’autorità
politica Pelagio invece sostiene la tesi che il Regno di Dio coincide con la comunità di uguali,
che aveva realizzato il precetto evangelico del rifiuto delle ricchezze: il cristiano come uomo può
liberarsi dal male con le sue forze. Queste due soluzioni per Agostino finiscono per privare di
significato teologico il problema del male, negando che esso sia un irreparabile corruzione della
natura umana e negando valore alla grazia divina per la salvezza umana.
Al centro della Civitas Dei è il tema della provvidenza divina, per cui è Dio a far nascere e
perire gli imperi. Il prete spagnolo Orosio nel 417 dedica ad Agostino la Storia dei pagani in cui è
rivendicato il ruolo provvidenziale dell’impero anche per la diffusione del cristianesimo.
Verso il 400 Agostino pareva convinto che il potere politico fosse al servizio del cristiano:
Dio ha sottomesso e convertito a sé l’Impero. Dopo il 410 è solo speranza: gli imperi di
Occidente si mostrano sempre più incapaci di difendere i cristiani dai barbari.
Tra la fine del IV e l’inizio del V secolo il mito di Roma è sotto processo negli ambienti
cristiani. Agostino ritiene che la vicenda della vera Chiesa non sia e non possa essere considerata
dalle vicende umane e travolta con essa in un solo destino. Per dimostrarlo egli elabora una
Teologia della storia. Questa non deve essere confusa con una filosofia della storia, che tenti di
individuare un significato immanente ai fatti storici. Il significato di essi è piuttosto dato dalla
struttura teologico sottesa al loro avvicendarsi. Tale struttura è ritmata dai momenti salienti
della creazione del mondo, del peccato originale, dell’incarnazione di Cristo e del giudizio
finale. All’interno di tale ordinamento anche il negativo può trasformarsi in positivo. In tal modo
l’intero corso della storia può essere concepito carico di significato che il credente può cogliere
solo parzialmente, perché il significato globale è noto solo a Dio. Passato, presente e futuro
sono per l’uomo in gran parte opachi. Tuttavia è possibile individuare il filo che percorre l’intera
storia universale nei suoi momenti decisivi.
Contro il parere prevalente degli antichi, Agostino ritiene che la storia abbia una durata
limitata e che la sua epoca, in cui il mondo è già vecchio, sia vicina la fine. Egli rifiuta la dottrina
ciclica dell’eterno ritorno propria degli stoici; se così fosse non sarebbe possibile essere felici in
modo stabile e duraturo.
La vicenda storica ha invece un andamento lineare, il quale sfocia in un evento finale
ultraterreno; questo dà senso a quanto precede. È la prospettiva escatologica. Ma avendo egli
abbandonato la credenza in possibilità umane autonome e riconosciuto il peso determinante
della grazia divina nella salvezza, egli non ammettere la concezione di un progresso lineare
ininterrotto verso la beatitudine. Il filo rosso della storia è dato invece dalla lotta tra il bene e il
male che si costituiscono in due regni, di cui Agostino indaga origine, durata e fine.
Per Agostino “Il mondo è un torchio che spreme”: è intrinseca la connessione male-storia.
La storia è il destino in cui si compie il dramma della salvezza, è il problema della presenza
di Dio nell’ordine temporale, di Dio inteso come provvidenza, che cioè pone i fini ultimi degli
avvenimenti umani. Questi non si collegano fra loro solo in base a interessi politici
(consolidamento degli stati).
Ma anche per realizzare fini non previsti dagli autori: c’è nella storia così un ordine
provvidenziale ultimo.
Agostino distingue fra due città: la città di Dio ossia, la città celeste, retta dall’amore di Dio
e la città terrena, dominata dall’amore di sé.
La prima è costituita dagli uomini giusti, che vivono secondo lo spirito, dai santi che sono
predestinati alla salvezza dalla grazia divina. essa è certamente rappresentata nell’ordine
temporale della Chiesa, che è per gli uomini la testimonianza del messaggio evangelico, ma non
si identifica con essa.
La seconda è costituita da coloro che hanno come fine della loro vita il conseguimento dei
beni terreni. La lotta tra le due città ritma il corso della storia e prende il sopravvento sullo
schema della successione delle età del mondo. Sin dalla caduta di Adamo la razza umana è stata
divisa in due città.
L’appartenenza a ciascuna delle due dipende solo dalla grazia. Già prima di Cristo infatti,
alcuni uomini facevano parte della città di Dio.
Il termine civitas indica la comunità dei cittadini, il corpo al quale essi appartengono e in cui
trovano identità. Coniando la nozione di città celeste, Agostino dava ai suoi fedeli il senso e la
certezza di essere popolo di Dio, rafforzandone i legami di solidità di fronte ad un mondo civile.
Un popolo infatti si definisce in relazione a ciò che ama: sulla base di ciò che ama, esso fonda la
propria unità e costruisce rapporti di subordinazione e obbedienza.
Nell’amore di sé si celano un desiderio e una corrispondente volontà di pace, che ispirano i
componenti. Chi vuole stare in pace con sé, deve cercare di essere in pace con gli altri. La pace
attiene alle aspirazioni più profonde dell’uomo: vi è la pace dell’individuo con sé, per la parte sia
irrazionale che razionale dell’animo, vi è la pace del corpo con l’anima razionale, vi è la pace
dell’uomo cogli altri, vi è infine la pace dell’uomo con Dio. La pace è allora anche il fine della
politica per cui potere politico e Stato sono giustificati sulla base del fatto che essi stabiliscono e
mantengono la pace fra gli associati: la pace terrena è il fondamento dello Stato. La guerra non ha
che il fine di conseguire la pace e assicurarle alla maggior parte di persone. Due sono le paci,
quella della Città Celeste e quella della Città Terrena. La prima è eterna e ha a suo fondamento
Dio, la seconda è temporanea, provvisoria, perché tali i beni che ne sono la premessa.
1.2.1 - S. Agostino – De Civitate Dei
De Civitate Dei ha fine apologetico per dimostrare l’infondatezza dell’accusa rivolta ai
cristiani dagli ambienti politici romani di essere la causa della decadenza della potenza militare
di Roma, avendo diffuso ideali avversi all’etica civile romana: Roma era punita da rovinose
sconfitte per aver abbandonato gli dei che sempre l’avevano protetta nelle sue imprese militari.
Agostino pone il problema dei rapporti fra cristiani e Impero in una prospettiva di storia
universale, per cui la storia romana andava spiegata attraverso le cause che danno conto del
sorgere, affermarsi e dissolversi degli Stati e Imperi.
La fede cristiana getta nuova luce sui rapporti fra i fini ultimi e l’uomo nella storia. Qui
acquista importanza il problema del male, che nella speculazione cristiana può essere vinta sola
nel Regno dei cieli.
Eusebio di Cesarea diceva che l’unione della Chiesa coll’Impero realizzando sul terreno
politico il governo divino nel mondo, garantiva la diffusione dei beni spirituali e il tranquillo
possesso di quelli terreni, e così sacralizzava l’autorità politica; Pelagio, per il quale il regno di
Dio coincideva con la comunità degli uguali, per il rifiuto evangelico delle ricchezze afferma che
il cristianesimo in virtù delle sue capacità naturali poteva riscattarsi dal male. Per s. Agostino le
due soluzioni finiscono per privare di qualsiasi significato teologico-religioso il problema del
male, negare il peccato che ha corrotto irreparabilmente l’uomo e non riconosce infine alcun
valore all’aiuto della grazia divina nella salvezza umana.
Per s. Agostino il mondo è un torchio che spreme, come la morchia con l’olio, che però dopo
la pressione è depurato e risplende.
La storia è il tempo in cui si compie il destino dell’uomo, il dramma della salvezza; è il
problema della presenza del Dio provvidenziale nell’ordine temporale, che permette di
connettere i fatti storici-politici non solo mediante interessi, ma in modo da realizzare fini non
previsti dagli autori ordine metastorico.
Il Vangelo ci parla del Regno terreno e del Regno di Dio, che nel linguaggio politico di s.
Agostino diventano Civitas Dei e Civitas terrena diaboli. Civitas Dei indica l’unione di coloro
che perseguono come unico fine l’amore di Dio, la Civitas terrena quello dell’amore di sé:
«l’amore di sé fino al disprezzo di Dio fece la città terrena, l’amore di Dio fino al disprezzo di sé
fece la città di Dio». La storia è la dialettica fra queste due città, la cui coesistenza non vuol dire
che esse non esistono su piani nettamente distinti: l’una non si risolve nell’altra perché quella
terrena esaurisce i propri fini nella Storia, mentre quella celeste ci richiama al piano
provvidenziale che è nascosto nella storia.
La città di Dio è formata dai santi, dai giusti, dai predestinati alla salvezza ed è rappresentata
nella storia dalla Chiesa senza però identificarsi con essa perché essa subisce condizioni dalla
realtà mondana. La città terrena è costituita da coloro che intendono conseguire i beni terreni.
Nell’amor di sé si cela il desiderio di pace, sia con sé che cogli altri. La pace è il fine più
profondo dell’uomo: 1) con sé fra le parti dell’animo (razionale, vitale, irrazionale); 2) cogli altri;
3) con Dio.
Anche il potere politico deve conseguire la pace che è il fondamento dello Stato. Due sono
le paci, quella della Città celeste che è eterna avendo Dio a suo fondamento; la seconda è
temporale e quindi provvisoria legata com’è ai beni terreni.
Ma la Città celeste con la sua pace non si può realizzare nella storia. Il concetto di pace
politica si precisa in relazione a quello di ordine, che è la disposizione delle cose e dei beni
temporali e delle relazioni umane indirizzate al loro bene. Ora l’uomo si relazione agli altri per
stabilire rapporti pacifici.
La “tranquillitas ordinis” è appunto la disposizione delle cose e delle relazioni umane che
rende possibile la pace.
L’ordine è finalizzazione alla garanzia e al mantenimento della pace.
L’ordine politico è il risultato dell’attività dei consociati per il conseguimento della pace con
sé e gli altri.
Lo Stato non è più una realtà in se e per se, microcosmo organizzato secondo un ordine
oggettivo della natura in cui l’uomo ritrova la perfezione di sé e la sua felicità, ma è una realtà
umana, che sussiste sino a che l’individuo attua l’ordine.
Lo Stato non è più una realtà in se e per se. Un microcosmo organizzato secondo un ordine
oggettivo della natura in cui l’uomo ritrova la perfezione di sé e la sua felicità, ma è una realtà
umana, che sussiste sino a che l’individuo attua l’ordine. L’ordine della città terrena si esprime
nella società stessa.
Per lo Stato s. Agostino si richiama a Cicerone, è Respubblica, ovvero moltitudine unificata
dalla comune utilità grazie al vincolo giuridico. Lo Stato è il titolare della giustizia da cui deriva
il diritto. L’ordine spirituale è salvo solo se si riduce l’ordine temporale ad organizzazione in
tutto umana, che non può rivendicare valore oggettivo ma può conseguire solo una pace
temporale. La Responsabilità non si fonda sulla vera giustizia quale valore assoluto, ma su
quella terrena. La definizione ciceroniana di Stato va ridefinita come unione di individui fondata
sulla concorde comunione delle cose che si amano.
Lo Stato ha il suo fondamento nella comune aspirazione verso determinate cose; c’è in ogni
società politica una volontà collettiva e come unità nasce da una fusione delle aspirazioni e
volontà individuale e dalla compartecipazione ad essa. È una realtà dinamica che vede la
realizzazione di una pluralità di posizioni e desideri e quindi l’ordine politico deve essere
continuamente voluto come fine concreto cui adeguare il nostro comportamento.
L’ordine è stabile se l’oggetto amato corrisponde alla virtù, è instabile se le cose che si
amano sii allontanano dalla virtù, o la contrastano. L’ordine si identifica con la ragione che
come (? p. 21) riferimento la virtù, la giustizia il sommo bene che è Dio; ma la ragione da sola
non è in grado di convertire i valori in concreta compartecipazione fra ragione e volontà c’è uno
iato.
Se l’uomo armonizzasse spontaneamente ragione e volontà, l’ordine politico si
identificherebbe con quello concepito dalla ragione, la Città terrena si trasformerebbe in Celeste,
il peccato verrebbe risolto nell’impegno umano solamente. Ma sperimentiamo invece
l’impossibilità per l’uomo la sua interna e radicale contraddizione di volere la pace, ma realizza
fini che la contraddicono. Vuole l’ordine ma provoca il disordine e la guerra. Proprio per
realizzare la sua giustizia, compie l’ingiustizia.
Ora l’ordine politico ha una durata limitata; l’aspirazione ai beni particolari scaturisce in
ognuno da un sentimento indefinito del bene assoluto-Dio. L’uomo che vive nella città terrena
senza pensare per quella celeste non può riconoscere il vero oggetto di questo desiderio
indefinito e finisce per perseguire una serie di beni terreni che non riescono mai a soddisfare la
sua originale aspirazione.
Mancando l’accordo sulle cose che dovrebbero costituire il comune oggetto dell’amore del
popolo, si apre il campo delle divisioni faziose fra i partiti in lotta che mettono in crisi l’ordine
politico della Città terrena.
Il bene ricercato dalla società politica è la potenza, il dominio necessario per il
conseguimento del bene che ci libera dalla divisione e ci permette di godere degli altri beni ---> si
spiega così la divinizzazione di Imperi e Imperatori. Ma così l’ordine politico corre i rischi più
grandi. Occorre distinguere fra potere e dominio. Il potere come coazione (forza che costringe
l’uomo ad un comportamento determinato). Trova la sua giustificazione nel peccato (Dio ha fatto
l’uomo a sua immagine e disposto che dominasse solo sule creature irrazionali, non quelle
razionali).
La schiavitù è frutto del peccato (è la giusta sanzione propinata a chi ha fatto guerre
conquiste ma non sono uccisi).
Il potere è la forza che rispetta i diritti dei soggetti mentre il dominio assoggetta in tutto e
per tutto i soggetti ai fini di chi lo detiene. Per il cristiano il potere non è più il dominio
dell’uomo sull’uomo ma il rapporto comando e ubbidienza. Il potere è una dura forma di
disciplina, e si traduce nell’impegno costante di mantenere l’ordine e la pace e si fonda sul
consenso degli associati: il popolo allora è l’associazione di una moltitudine non di bestie ma di
creature razionali nella comunione concorde delle cose che ama.
Lo Stato come organismo politico positivo è costituito da: 1) un’associazione di individui; 2)
un capo che comanda; 3) un patto sociale; 4) una serie di convenzioni precedentemente
concordate -> il potere di governare è fondamentale sul consenso dei soggetti espresso dal patto
sociale e le leggi sono il risultato di un accordo fra consociati.
Ma perché lo Stato diventa strumento di dominio e di conquista? Perché in questi casi
misconosce qualsiasi critica di giustizia e perciò il diritto cade diventando simile alle bande di
ladroni e pirati. Se lo Stato si riduce a meccanismo che usa la forza per il dominio le cose amate
non sono che la violenza e la sopraffazione perché si vuole conseguire la pace con l’oppressione
e la guerra. Esso è destinato all’autodistruzione.
L’esempio di Roma è istruttivo perché il popolo romano amò sempre ogni cosa la gloria che
segue all’imprese grandiose in cui si esaltano le virtù civili. Così Roma conseguì grazia alla
riconosciuta superiorità una organizzazione politica che garantiva ordine -> pax romana. In
virtù del rispetto di singoli e popoli con la giustizia -> il cittadino anteponeva al bene pubblico
quello privato.
L’amore per la gloria si preoccupa sempre di non dispiacere a coloro che giudicano
rettamente le sua azioni -> timore di dispiacere è un limite della potenza promossa dal desiderio
di gloria; quando il desiderio dei governanti si rivolge al dominio il potere diventa fine a se
stesso e la forza non ha alcuna legittimazione morale e umana. Queste virtù declinarono con la
fine della repubblica e l’inizio dell’Impero fino a subentrare il desiderio di dominio che fece
degenerare il costume civile. Non più parsimonia e frugalità, riservatezza e disciplina civile,
amore del bene pubblico, ma desiderio di ricchezza, per il fasto, il lusso, l’ambizione, il
servilismo, l’egoismo, gli interessi delle fasi. Per cause interne l’ordine politico romano si
disarticolò fino alla mancanza del presupposto della forza militare che potesse resistere ai nemici.
3. S. Tommaso, Etica e politica
di P. Armellini
Nel 1260 Guglielmo di Moerbeke tradusse la Politica di Aristotele, ignota anche ai filosofi
arabi. Riprende nella seconda metà del XIII secolo l’eredità aristotelica ripensandola alla luce
della Tradizione cristiana è S. Tommaso, che riprende la filosofia aristotelica della natura
rendendola corrispondente alle esigenza cristiana: nella sua concezione della natura il peccato
originale non è una negazione radicale della possibilità di operare il bene, ma solo una
profonda diminuzione della originaria capacità di attuarlo che lascia tuttavia all’uomo una sfera
autonoma di azione positiva. La grazia perfezione l’opera umana, la quale senza l’aiuto
soprannaturale non raggiungerebbe la perfezione. La dimensione naturale dell’uomo ha un valore
positivo che si deve inserire nei valori propri del Cristiano. Il problema è quello dei rapporti di
ragione e fede: riconosciuta la autonomia della ragione, la fede, la perfezione e la
completazione.
La verità individuale della ragione in filosofia non può che armonizzarsi con la verità
rivelata, studiata dal teologo; hanno entrambi fondamento in Dio.
La predicazione francescana proponeva l’ideale di povertà evangelica, di un cristiano
spiritualmente realizzato con una ascesa evangelica che portava alla semplicità, la serenità, la
gioia di riscoprire la fratellanza con il creato. Gioacchino da Fiore interpretava l’opera di S.
Francesco come l’inaugurazione del Regno dello Spirito, dopo quelli del Padre e del Figlio
(Antico e Nuovo Testamento).
In esso non c’era ragion d’essere per una comunità politica organizzata, né l’istituzione
ecclesiastica ha “renovatio” secondo i frati minori si doveva attuare non solo nella Chiesa ma
anche nella società, con l’esaltazione della perfetta vita cristiana informato all’umiltà e alla
povertà. Questa avrebbe finito però per negare la comune umanità degli uomini, dividendo gli
uomini reali dalla setta degli spirituali cristiani. S. Tommaso vuole invece recuperare allo spirito
cristiano l’umanità dell’uomo, di mostrare che la razionalità, comune a tutti, è il presupposto
degli stessi valori spirituali. La razionalità è però contro il naturalismo avveroista, un principio
metafisico costituito dalla sua umanità individuale. D’altronde Federico II nell’Italia meridionale
costituiva il primo tentativo di fondare in Italia il primo Stato moderno con una sua struttura
burocratica-amministrativa. Però la lotta dei comuni del Nord contro Federico II e la sua
centralizzazione, l’insorgere di movimenti popolari sostenuti dagli ordini mendicanti furono il
presupposto storico per la teoria del diritto di resistenza al sovrano, risolti nella
costituzionalizzazione del potere politico (potere nei limiti fissati dalle leggi).
Nel Commento alla Politica di Aristotele S. Tommaso considera la politica una scienza
autonoma. La filosofia si estende a tutto ciò che può essere conoscenza con la ragione e fra i
suoi oggetti c’è la polis. La polis studia la città come un tutto ed è scienza autonoma perché si
svolge con metodo proprio.
La politica non appartiene alla scienza speculativa ma a quella delle scienze pratiche che si
riferiscono all’operare e non al solo comprendere. L’attività studiata è l’azione umana che ha per
oggetto i comandi, le disposizioni, gli ordini: è la scienza dell’agire che considera sistematiche le
azioni umane nell’ambito delle città convergenti verso un unico fine. La scienza politica è una
scienza architettonica, che presiede al coordinamento di tutte le altre discipline che si svolgono in
società. La città è realizzata dagli uomini mediante la ragione. La politica è da considerare nella
prospettiva cristiana dell’ordine quale insieme di rapporti istituzionali della ragione: per questa
la società politica non è vista come una disposizione gerarchica degli individui e delle istituzioni,
seconda una gerarchia, fissata per sempre dalla natura, ma secondo la natura dell’ordine
provvidenziale dell’universo, è considerato come l’ordine voluto dalla ragione per raggiungere i
fini propri dell’uomo, mentre quello naturale è indipendente dalla volontà umana.
L’uomo è l’autore della comunità politica soprattutto per conseguire non solo i beni per
sopravvivere ma quei beni morali che solo la società può dargli e che gli sono necessari per
realizzare compiutamente la sua naturale umanità; per vivere bene. Rispetto ad Aristotele però
la vita beata è data del possesso dei beni spirituali propri della fede cristiana e conseguibili solo
nell’ambito di una vita condotta secondo i dettami della Chiesa.
La perfetta sufficienza della vita è un valore positivo, un bene morale che si può conseguire
nella città ma non è la ferità che è data solo dalla partecipazione al bene assoluto che è Dio ,
possibile solo sul piano dei valori spirituali, distinti da quelli della civitas.
S. Tommaso definisce l’uomo un animale sociale, anziché un animale politico, per
sottolineare che il problema della felicità e del sommo bene riguarda solo l’individuo come tale
senza riferimento allo Stato, mentre per Aristotele la perfezione consiste nella partecipazione
come libero alla vita della polis. La civitas non ha semplicemente valore strumentare, è fata per
realizzare la natura umana (la civitas ha fondamento nei principi e valori della sua umanità). La
naturalità della civitas non significa che sussiste come unità organica; è si un tutto, ma non è
una unità assoluta (unità di composizione, connessione e contin.fis. dei corpi (?p.35), ma è una
unità d’ordine. Nell’unità assoluta il movimento del tutto è anche quello delle parti, nell’unità di
ordine le parti hanno una sfera d’azione distinta dal tutto. Per questa non è organica l’unità fra
individuo e società, ma una connessione d’ordine fondata sulla natura sociale dell’uomo. Il
movimento dell’uomo non è determinato dalla società me è vero il contrario: il movimento della
società è prodotto da quello degli individui. La libertà è caratteristica essenziale dell’uomo
(autodeterminazione razionale): l’uomo ritrova in sé, nella sua libertà la sua origine (liber est
causa sui): tutto promana da lui, anche la comunità politica.
La civitas ha un suo specifico fine, il bene comune, distinto dai beni particolari dei singoli
sono (Ib. p.36 equivalenti in S. Tommaso) civitas, respubblica e communitas. Il bene comune è
l’ordine della pace, a cui devono riferirsi i provvedimenti del governo. La pace si può conseguire
se sussistono nella comunità più persone che dirigono i propri comportamenti verso il bene
comune, altrimenti la società si disarticola in fazioni contrapposte.
Come il corpo è guidato da una forza che dirige verso unicofine le funzioni dei singoli
organi, così nella società ci deve essere una forza politica che coordina le attività dei singoli per
il bene comune. Nella comunità tale forza deve sussistere come nel corpo individuale.
Il potere è quindi connaturato alla comunità ed è finalizzato al bene comune, che detta i
criteri con cui deve essere amministrato, i principi che lo delimitano o limitano perché il potere
non è superiore ala comunità, ma ne dipende.
Volontà – ragione. S. Tommaso riconosce alla ragione una preminenza sulla volontà; la
obbligatorietà scaturisce dalla sua razionalità, non risiede nella volontà e nel comando del
principe, che conferiscono alla norma il carattere formale di positività e non solo quello
sostanziale di giuridicità. Se i comandi del principe non fossero conformi ai principi della
ragione sarebbero manifestazione dell’arbitrio del principe (il potere ha un limite nella ragione).
Legge: “ordinamento della ragione in vista del bene comune, promulgata da colui cui spetta il
governo della comunità”. Poiché questo bene comune riguarda l’intera comunità, la legge deve
essere emanata o dalla comunità o dal legittimo rappresentante. La prassi costitutiva dei regni
medioevali prevedeva che tutti devono approvare ciò che riguarda tutti.
La legge positiva ha come presupposto l’ordine che regna nella natura e nella creazione.
Precedono la legge umana dapprima la legge eterna che si identifica con la ragione di Dio e
sovrintende il creato; la legge divina, manifestata agli uomini con la Rivelazione. La legge
naturale, che si manifesta nella spontanea inclinazione dell’uomo ai fini razionali. Con la legge
naturale l’uomo distingue male e bene, ha il sentimento della giustizia e può definire i precetti
del giusto naturale. Essa è la prima mediazione tra Dio e l’uomo; ad essa partecipano tutti e su
essa si fonda la loro umanità, l’autonomia e la libertà. La legge naturale sancisce i diritti della
personalità, il diritto alla conservazione, alla propagazione della specie, alla formazione della
famiglia e all’educazione dei figli, a ricercare la verità, a vivere in società uguale per tutti ed
immutabile, trova diverse formulazioni e applicazioni giustificate dal fatto che la legge divina ha
in alcune (?disp. modif.e perfez.p.38) la legge naturale; gli uomini vi hanno aggiunto norme di
particolare utilità; a volte la ragione interpreta non correttamente la legge naturale (la
modificazione della legge naturale si riferisce solo ai precetti secondari, alle disposizioni con cui
si applicano ai casi particolari principi e norme del diritto naturale. La legge umana si distingue
in diritto delle genti e diritto civile, derivante dal diritto naturale: il primo riguarda la
convivenza in generale, il secondo comprende disposizioni necessaria per la vita comune nella
singola società politica.
La legge umana è mutabile per rispondere ai problemi particolari (ma un continuo
mutamento non giova al conseguimento del bene comune, poiché l’efficacia della legge è legata
all’abitudine dei cittadini ad obbedirle e alla consuetudine che l’avvalora). Essa è altresì
generale, deve rivolgersi a determinate categorie di personale avendo sempre di mira il bene
comune; deve poi essere conforme alle condizioni in cui si trovano gli uomini cui è destinata. La
legge umana è necessaria perché gli uomini non si adeguano spontaneamente ai precetti
razionali della legge naturale, potendo l’uomo essere distolto da vizi e passioni. La legge ha
perciò la funzione, mediante la sanzione di richiamare e anche costringere l’uomo a seguire le
norme che hanno per fine il bene comune.
La legge umana non può contraddire la legge naturale e leggi che contrastano col diritto
naturale non obbligano più la coscienza all’obbedienza anche se l’individui, per il disordine che
può derivare dalla mancata osservanza, però rinunciare a questa direzione e obbedire alla legge
iniqua. Rimane fermo però che il cristiano può disobbedire alle leggi contrarie a quella divina.
La teoria costituzionale a forma di governo che consenta di far valere nei confronti dei
governanti (? P. 40, prec. lim, giur.), affinché il potere non violi le leggi, non diventi oppressivo
per il popolo e non si trasformi in tirannide (Tiranno è non solo chi governa anteponendo il suo
interesse a quello generale, ma anche chi ha conquistato il potere con la violenza, diventanto
titolare della “summa potestas” contro le leggi che regolano la nomina della suprema
magistratura).
Come già per Giovanni di Solisbury, la tirannide è la pessima fra forme di governo (trionfo
della passione sulla ragione). La rivolta nei confronti del tiranno è più che un diritto un fatto per
l’intollerabilità dell’oppresso che determina una invitabile reazione dei sudditi. Ma la rivolta
rimane sempre grave per il turbamento dell’ordine e della pace; il risultato di essa è poi dubbio.
Il diritto di resistenza deve essere però sottoposto ad una procedura giuridica-
costituzionale, trasformando in un legittimo intervento degli organismi che rappresentano le
comunità. La forma di governo che assolve queste esigenze è la costituzione mista (?p. 40
armon…).
La costituzione mista è la costituzione politica per eccellenza caratterizzate dal principio che
il potere è coartato, disciplinato da leggi della comunità, a differenza di quella regola che
conferisce al monarca “plenaria potestas”. Questa disciplina è fatta valere dagli organismi che
rappresentano la comunità e in ultima istanza dal popolo. Le comunità minori possono rivolgersi
a quelle superiori affinché rimuovano il governatore tiranno (diritto di rimostranza). Il diritto di
deporre il principe è giustificato sulla del patto intercorso fra popolo e principe in occasione
delle sua elezione: violando il patto il principe scioglie contemporaneamente i sudditi dal vincolo
di fedeltà.
Il problema del controllo del potere politico ha un preciso rilievo costituzionale: la
superiorità, la sovranità delle leggi nei confronti di chi detiene il potere; il diritto della comunità
di eleggere i suoi governanti; la volontà e il consenso della comunità e del popolo come vera
fonte delle leggi positive; la libertà e indipendenza degli individui e delle comunità, fondate sulla
legge di natura sono le tesi fondamentali della concezione tomista dell’ordine politico.
4. Dante, politica e religione fra Chiesa e Impero
Di P. Armellini
1.4 - DANTE (De Monarchia 1311)
Sin dall’inizio Dante indico i tre punti principali che saranno oggetto dei tre libri: se
l’Impero universale sia necessario per il benessere del mondo; se il popolo romano se ne sia
attribuito con diritto l’ufficio; se l’autorità imperiale derivi direttamente da Dio o invece dal suo
ministro o vicario, il Papa.
Pur rappresentando, con la sua difesa della indipendenza imperiale di fronte al controllo
papale, il punto di vista opposto a quello di S. Tommaso e di Giovanni di Salisbury, per quanto
riguardo i principi generali l’accordo è totale, con essi concepisce l’Europa come un’unica
comunità cristiana governata da due autorità volute da Dio, il sacerdotium e l’imperium,
rappresentate dalle due grandi istituzioni medioevali, la Chiesa e l’Impero.
La filosofia politica di Dante è stata messa in relazione tanto col suo esilio da Firenze quanto
con le dispute faziose e l’interminabile dissenso nell’Italia del tempo tra i partiti del papa e
dell’imperatore, che non gli hanno vedere speranza di pace se non nell’unità dell’Impero, sotto
l’autorità universale dell’Imperatore. Non imperialista per educazione, Dante lo è per il suo ideale
di pace universale. Per lui la politica papale, con la politica francescana sempre pronta a
mediare fra una fazione e l’altra, era fonte di una discordia infinita. Così scrive il suo trattato per
dimostrare che il potere imperiale deriva da Dio ed è quindi indipendente da quello
ecclesiastico. Il potere spirituale è ammesso ma come tutti gli imperialisti si ricollega a Gelasio
secondo cui i due poteri sono riuniti in Dio solamente; per cui sulla terra l’imperatore non ha
nessuno a lui superiore.
Negli studi rinnovati sulla legge romana si trova poi l’idea che l’impero medioevale
continuatore di quello romano, è l’erede delle autorità universale di Roma.
Come Tommaso, egli inquadra la sua teoria della comunità universale entro i principi
aristotelici. ari ha mostrato che ogni associazione umana esiste per un fine e che ogni città-stato
è superiore alle famiglie e ai villaggi.
Nell’ideale politico Dante si stacca nettamente dalla concezione albertino-tomista assunta in
generale per risolvere il problema della realtà. Dante, come cristiano, sa che il fine
soprannaturale e del tutto eminente su quello naturale; ma affascinato dall’Etica nicomachea ha
voluto tenere distinti i due ordini e, trasportato dalla sua passione politica, ha voluto dare un
senso alla vita storica dell’uomo, giustificando l’ideale di una unità imperiale in cui tutti gli
uomini si trovino uniti in un mondo di pace. L’uomo deve vivere nel tempo e nello spazio, e
questa sua vita storica ha un senso e un valore che il cristianesimo non ha annullato:
perfezionare la natura umana in tutta la sua capacità; natura che la soprannatura non ha né
eliminato né diminuito. Il regno dei cieli non ha annullato il regno sulla terra; entrambi
ciascuno nel suo ambito sono assoluti, e l’uomo vive in sé queste due realtà senza dover
annientare l’una per conquistare l’altra.
Così Dante distingue due fini ultimi dell’uomo, cioè due fini ciascuno dei quali sia ultimo
nel proprio ordine. Questa dualità dei fini si spiega con la dualità inerente alla natura umana :
«Come tra tutti gli esseri, solo l’uomo partecipa dell’incorruttibilità e della corruttibilità, così,
unico tra tutti gli essere, egli è ordinato a due fini ultimi, di cui uno è il suo fine in quanto egli è
corruttibile, l’altro, invece, in quanto egli è incorruttibile» (III ).
In quanto corruttibile, l’uomo tende, come a suo ultimo fine, alla felicità raggiungibile con
la vita attiva nel quadro politico della città; in quanto incorruttibile, cioè immortale, egli
tende,come suo ultimo fine, alla beatitudine contemplativa della vita eterna. Per conseguire
questi due fini essenzialmente distinti, l'uomo dispone di due mezzi essenzialmente distinti:
«Arriviamo alla prima con gli insegnamenti della filosofia se la seguiamo regolando i nostri atti
secondo le virtù morali ed intellettuali; quanto alla seconda, vi arriviamo con gli insegnamenti
spirituali che trascendono la ragione umana, se li seguiamo regolando i nostri atti secondo le
virtù teologiche, cioè la fede, la speranza e la carità».
Così, da una parte, la felicità in questa vita, quale la possiamo ottenere per mezzo della
ragione naturale, rivelata nell’opera dei filosofi; dall’altra, la felicità della vita futura quale
possiamo ottenere seguendo gli insegnamenti di Gesù Cristo. L'uomo, per essere condotto a
questi due fini distinti con questi due mezzi distinti, ha bisogno, infine, di due distinti maestri: il
Sommo Pontefice per condurre il genere umano alla vita eterna con l’aiuto della rivelazione, e
l’Imperatore per dirigere il genere umano verso la felicità temporale secondo gli insegnamenti
della filosofia.
Allo stesso modo, quindi, che questi due fini e questi due mezzi sono ultimi, ciascuno nel
suo ordine, questi due poteri sono ultimi e supremi, ciascuno nel suo. Al di sopra dell’uno e
dell’altro non c’è che Dio, il quale solo sceglie l’Imperatore, lo conferma e solo può giudicarlo.
È vero che il Papa è il padre spirituale di tutti i fedeli, ivi compreso l’Imperatore. Questi deve
dunque al Papa il rispetto che un figlio deve al padre, ma è da Dio, non dal Papa che
l’Imperatore riceve direttamente la sua autorità.
(I) Il libro primo, riprendendo l’Etica nicomachea di Aristotele, afferma che
l’essenza specica dell’uomo secondo natura sta nella razionalità e in ciò sta
l’esplicazione della sua natura. Il fine del genere umano consiste nella
realizzazione di una vita razionale, e il suo fine è dunque lo sviluppo delle facoltà
intellettuali dell’uomo. Ciò è però possibile solo nella pace universale, che è il
colmo della felicità umana. Questo avviene solo in un mondo organizzato a
monarchia. Ogni associazione umana esiste per un fine, la felicità che ha bisogno
di un mezzo necessario per raggiungere il fine ultimo dell’umanità. Ogni impresa
collettiva esige una guida ed ogni comunità deve avere un reggitore. Così Dante
dimostra che il genere umano forma nel suo complesso una comunità unica sotto
un unico capo. Il governo di questo Capo sugli uomini è simile a quello di Dio
sulla natura. Come questo è perfetto per la sua unità, così quello per essere
perfetto deve abbracciare nella sua unità tutti gli uomini. Ciò che ha la maggiore
realtà ha la maggiore unità, e ciò che ha la maggiore unità è migliore. Perciò il
genere umano deve di necessità essere retto da un unico reggitore, il monarca
universale, l’imperatore, perché esso, imperando su tutti, è scevro da cupidigie e
può quindi mantenere la perfetta giustizia fra gli uomini, dalla quale derivano la
pace e la libertà. L’impero è dunque quale Roma ha creato e codificato nel diritto
giustinianeo: monarchia, perché solo nell’unità del comando è possibile
l’ordinato sviluppo dei rapporti umani; universale, perché solo nell’universalità è
possibile una pace senza contrasti, non essendovi più nemici. Tutto ciò
rappresenta la condizione essenziale perché gli uomini possano pienamente attuare
le capacità intellettuali.
II Il problema è «se sarebbe giustificata l’assunzione della dignità imperiale da parte del
popolo romano». Dante tende a dimostrare che il popolo romano, non ha usurpato l’ufficio della
monarchia e dell’Impero, ma lo ha ottenuto invece a pieno titolo ed è stato chiamato al governo
del mondo dalla Provvidenza, che ha visto in esso il più nobile e il più generoso dei popoli.
La volontà di Dio si manifesta nella storia e la storia di Roma mostra i segni della volontà
divina nella sua elevazione a una posizione di potere supremo. Dante prova la predilezione
divina per Roma ricordando gli interventi miracolosi della Provvidenza nella protezione dello
stato romano e la nobiltà del carattere romano. I romani aspiravano all’Impero non per avidità
di conquista, ma per il bene comune dei vinti come dei vincitori: «Deponendo ogni desiderio
ambizioso, che è sempre contrario al pubblico interesse, e scegliendo la pace universale e la
libertà, questo popolo grande e pio trascura il bene suo proprio per dedicarsi alla salvezza del
genere umano» (II, 5). Il volere di Dio si manifesta infine nelle lotte e nelle battaglie.
L’Impero romano è stato il quinto tentativo storico di impero mondiale ed è stato l’unico
che sia riuscito, dimostrando di essere destinato dalla Provvidenza divina al governo del mondo.
esso è stato infatti aiutato nei particolarmente momenti pericoli, per distanziarsi dai suoi
competitori e sottomettere tutti i suoi rivali.
Riguardo al cristianesimo Dante trae le medesime conclusioni. Gesù ha voluto nascere sotto
l’autorità romana ed essere giudicato da un giudice romano. Se la sua morte non fosse stata
decretata da un’autorità legittima, Cristo non sarebbe stato punito veramente per i peccati degli
uomini e non avrebbe redento il genere umano. Le autorità di Pilato e di Augusto devono essere
state quindi giuste e legali. Con ciò Gesù Cristo ha riconosciuto la giurisdizione universale di
Roma.
III L’intenzione dell’ultimo libro è quella di dimostrare che l’autorità imperiale deriva
direttamente da Dio e quella di confutare gli argomenti dei papisti secondo i quali deriva
mediatamente dal papa. La polemica di Dante è diretta contro la corrente teocratica della
pubblicistica del diritto canonico contemporaneo e contro la loro tendenza a far entrare le
decretali pontificie nei principi di fede.
Dante fa parte della corrente antiteocratica a carattere imperiale (e non nazionalista come
quella della scuola francese facente capo a Filippo il Bello) e tende a stabilire il concetto della
separazione dei due poteri, negando la subordinazione dell’Impero alla Chiesa; e prosegue
inoltre la tesi che l’autorità dell’imperatore deriva direttamente e immediatamente da Dio. Solo
le Scritture hanno autorità suprema sulla Chiesa; hanno quindi valore gli atti dei concili ma le
decretali appartengono semplicemente alla tradizione che la Chiesa può mutare a suo arbitrio. A
questo punto Dante esamina i luoghi della Scrittura citati come prova del potere della Chiesa
sopra i reggitori temporali e i due precedenti storici della questione, la Donazione di Costantino
e il passaggio dell’Impero a Carlo Magno. Cadono pertanto le prove portate dagli avversari a
sostegno della loro tesi; quella biblica dell’analogia sole (=Chiesa) e della luna (=Impero) la
quale non ha luce propria e la riceve dal Sole; Dante risponde che, se il sole illumina la luna,
non le dà però l’essenza, così come la Chiesa irradia sull’Impero il lume della sua grazia
spirituale ma non ne emana affatto l’autorità temporale che è l’essenza dell’Impero. Nel caso
della donazione di Costantino, Dante dice che si tratta di illegalità perché l’imperatore non può
alienare l’impero (ciò è noto ai giuristi prima dell’autenticità storica del documento). Nel caso
del passaggio dell’impero a Carlo Magno Dante dice che è illegale perché, se il papa non può
avere legalmente il potere imperiale, non può, neppure conferirlo ad altri. Poiché l’uomo
partecipa della corruttibilità a causa del corpo e dell’incorruttibilità a causa dell’anima, egli
tende a due fini: alla felicità in questa vita e alla beatitudine nella vita eterna. Dio ha ordinati e
distinti i due poteri, perché l’uno con la parola di Cristo e con i dettami evangelici guidasse
l’uomo verso la beatitudine della vita futura, e perché l’altro fosse mezzo necessario mediante
ammaestramenti filosofici, al conseguimento della felicità terrena e allo sviluppo delle facoltà
intellettuali nell’uomo ai fini del progresso. Il cristianesimo ha rivelato anche il mondo della
grazia, il regno di Dio, per lo sviluppo e il raggiungimento del quale è in terra il vicario di
Cristo, il Papa. Il Pontefice ha la giurisdizione su tutto quanto è soprannaturale, e la sua potestà è
essa pure monarchia e universale, cioè cattolica, i cui limiti sono segnati dalla finalità stessa del
suo potere esercitato in vista di un fine ultraterreno. E come il papa, in quanto teologo, subordina
a sé l’imperatore quale uomo fra gli uomini, redenti dal sangue di Cristo; così l’imperatore, in
quanto filosofo, subordina a sé il papa quale uomo razionale, naturale, membro fra i membri
dell’impero universale. L’indipendenza dei propri limiti è assoluta, e nessuna autorità, nel proprio
ambito, soffre alcunché sopra di sé.
Nella conclusione dell’opera Dante dice: «Così dunque è chiaro che l’autorità del monarca
temporale, senza alcun intermediario, discende a lui dalla fonte dell’autorità universale: la quale,
unica com’è nella rocca della sua semplicità, fluisce in molteplici alvei per l’abbondanza della
sua eccellenza» (III, 16). Impero e Chiesa, distinti per i loro fini, sono due autonomi e non
subordinati l’uno all’altro che traggono la loro autorità direttamente da Dio e sono quindi come
due soli. Il fine della Chiesa è spirituale (rinuncia perciò al potere terreno e a ricchezze) essa non
può subordinare a sé il potere imperiale (perciò è Dante condannato nel 1329 dal papa Giovanni
XXII). Lo Stato è un’istituzione necessaria per porre rimedio alla corruzione prodotto dal peccato
originale: il suo fine è assicurare la pace e la felicità in Terra.
5. Marsilio da Padova, impero, pace e regimi politici
di P. Armellini
MARSILIO MAINARDINI detto MARSILIO DA PADOVA (1280 – 1342) Studia e insegna a
Parigi (rettore nel 1313); scrive nel 1324 il Defensor pacis dedicato a Ludovico il Bavaro. Nello
scontro fra questi e Giovanni XXII Marsilio deve fuggire da Parigi insieme a Jandun e si mette al
seguito dell’imperatore Ludovico il Bavaro. Poi compone il Defensor minor.
Alla maniera di Aristotele, Marsilio concepisce lo Stato come una istituzione naturale che
ha lo scopo di consentire all’uomo di vivere e vivere bene, ossia di raggiungere la felicità. Lo
Stato è come Aristotele una comunità autarchica che sa soddisfare tanto i suoi bisogni fisici
quanto quelli morali. Ma Marsilio intende integrare quella parte della Politica di Aristotele che
discute le cause di rivoluzione e di discordie civili, attraverso l’esame di una causa di discordia
necessariamente ignota ad Aristotele, cioè le pretese del papato ad erigersi a sovrano dei
governanti. Ciò ha prodotto in Europa o soprattutto in Italia una serie di lotte. Per conseguire la
felicità, diventa essenziale la salvaguardia della pace e lo strumento di cui si serva le legge.
Influenzato dall’averroismo latino (di Giovanni di Jandun), che vuol dire assolutismo
naturalistico e razionalismo, Marsilio ammette, si, la assoluta verità della rivelazione cristiana,
ma la stacca completamente dalla filosofia e sostiene con S. Tommaso che le conclusioni della
filosofia possono essere contrarie alla verità di fede -> dottrina della doppia verità, con la
separazione tra ragione e fede irrazionale. Ciò in materia etica ha condotto a tesi secolaristiche
come: a) la teologia non contribuisce per nulla alla conoscenza razionale; b) la felicità si
raggiunge in questa vita senza l’aiuto di Dio; c) le società umane dal punto di vista razionale
sono autonome pienamente; d) la religione ha conseguenze sociali che prescindono dalla sua
verità e può e deve perciò essere regolata dalla società e dallo Stato.
Lo Stato è una specie di “essere vivente” composto di parti con ciascuna funzioni vitali. La
sua salute o pace sta nella partecipazione e nella opera di ciascuna parte . Il contrasto nasce
quando una di esse compie male la sua funzione o interferisce con quella di un’altra parte.
Come anche Aristotele, Marsilio fa derivare la città dalla famiglia e considera la città una
“comunità perfetta”, cioè che può offrire tutto quanto è necessario ad una vita buona. Vita buona
ha doppio significato: in questo mondo il bene consiste nello studio proprio della filosofia per
mezzo della ragione; il bene nel mondo futuro dipende dalla rivelazione e deriva solo dalla fede.
La ragione mostra il governo civile è necessario come mezzo di pace e di ordine; ma c’è bisogno
della religione anche in questa vita.
Le classi o parti che cooperano alla formazione della società sono i contadini e gli artigiani
che procurano i beni materiali; e i funzionari ed i sacerdoti che costituiscono in un senso più
stretto e preciso lo Stato.
La classe del clero è particolarmente difficile da definire; ma tutti gli uomini (cristiani e
pagani) hanno convenuto che deve esistere una classe particolare che si dedichi al culto di Dio.
La differenza fra sacerdozio cristiano e pagano è che in materia di fede il primo è vero,
l’altro non lo è.
“Funzione del clero è di conoscere e di insegnare quelle cose che secondo la Scrittura si
devono credere, fare, o evitare per ottenere salute eterna e sfuggire al male” (I, 18).
Netto è il contrasto con S. Tommaso che tende ad armonizzare ragione e fede; forte è la
tendenza a limitare poteri e doveri spirituali anche rispetto a Giovanni di Jandun.
La fede, che è necessario mezzo di salvezza eterna, dal punto di vista secolare ha perso ogni
valere, perché, essendo irrazionale, non può essere presa in considerazione come i mezzi ed i fini
razionali. Essendo allora il clero una classe accanto ad altre classi, che insegna una verità che è
alogica (la vita futura), ne deriva che il controllo del clero da parte dello Stato è simile al
controllo dell’agricoltura o del commercio. La religione è un fenomeno sociale e come tutti gli
altri interessi umani è soggetta alle stesse norme sociali.
La legge. Nello Stato, autosufficiente e particolare, il potere decisivo, per evidente influsso
delle contemporanee costituzioni cittadine, spetta alla comunità, la quale, in veste di umano
legislatore, lo esercita legiferando e deliberando nel senso indicato dalla sua parte prevalente
per quantità e qualità. Ora per Marsilio la legge divina è un comando di Dio indipendente dalle
deliberazioni umane in vista del fine migliore nel mondo futuro.
“La legge umana è un comandamento della totalità dei cittadini, o della loro parte
prevalente, che deriva dalle deliberazioni di coloro che hanno il compito di fare la legge, circa gli
atti volontari di esseri umani da farsi o da evitarsi in questo mondo per ottenere il fine migliore o
certe considerazioni desiderabili per l’uomo in questo stesso mondo.
intendo un comandamento ciò, la cui trasgressione viene colpita in questo mondo da una
penalità o da una punizione imposta al trasgressore” (I, 4). Ora nella tradizione del pensiero
politico e giuridico, confluita nel diritto romano e poi nel Medio Evo nel diritto canonico,
concetto cardine era quello di legge naturale, ricondotta ad un origine divina. Per Tommaso la
legge naturale è la stessa legge divina che regala con perfetta razionalità l’ordine e il corso del
mondo e ad essa devono ispirarsi sia le leggi civili sia la legge religiosa che indirizza l’uomo al
suo fine soprannaturale. La legge naturale è al tempo stesso istituto e ragione perché comprende
sia le inclinazioni che l’uomo ha in comune con gli altri esseri naturali sia in quella razionale,
specifica dell’uomo. Questa interpretazione non viene mai messa in discussione nel Medio Evo.
La discussione verte invece sull’autorità che incarna meglio o più direttamente o
eminentemente la legge naturale, cioè sul problema se questa autorità sia quella del Papa o
quella dell’Imperatore.
Da ciò la grande lotta fra il papato e l’impero.
Dalla teoria delle «due spade» della quale, verso la fine del V secolo, il papa Gelasio I si
serviva per rivendicare l’autonomia della sfera religiosa nei confronti dell’autorità politica, il
papato era passato gradualmente a sostenere la tesi della superiorità assoluta dal potere papale
su quello politico e della dipendenza di ogni autorità mondana da quella ecclesiastica
direttamente ispirata da Dio (vedi Innocenzo III – 1189 – 1216) -> Egidio Colonna in De
ecclesiastica protestate (1302): non solo l’autorità politica, ma ogni possesso e ogni bene deriva
dalla Chiesa e attraverso di essa; e la Chiesa s’identifica col Papa, che diventa perciò la causa
unica e assoluta di tutti i poteri e beni. Giovanni di Parigi (1269 -1306) in De protestate regia et
papali negava la plenitudo potestas al Papa e rivendicava agli uomini il diritto della proprietà,
attribuendo al Papa solo la funzione di un amministratore responsabile dei beni ecclesiastici.
L’originalità di Marsilio sta nel carattere positivo del concetto di legge come «scienza o
dottrina o giudizio universale di quanto è giusto e civilmente vantaggioso e del suo opposto» (I,
10, 3); ed è «un precetto coattivo legato ad una punizioni o ad una ricompensa da attribuire in
questo mondo» (I, 10, 4). Perciò:
a. Ciò che è giusto o ingiusto, vantaggioso o nocivo per la comunità umana non è suggerito
da un istituto infallibile posto nell’uomo da Dio né dalla stessa ragione divina, ma giudicato
dalla ragione umana, creatrice del diritto; -> passaggio del vecchio al nuovo giusnaturalismo,
per cui è attribuita alla stessa ragione umana il giudizio su ciò che è vantaggioso o nocivo.
b. la limitazione di concetto di legge è data non dal semplice giudizio della ragione (che è
solo scienza) ma dal quel giudizio che è diventato precetto coattivo perché è stato collegato ad
una sanzione -> positivismo giuridico. Per questo motivo il compito di Marsilio viene
autonomamente limitato alla considerazione «di quelle sole leggi e governi che derivano
immediatamente dall’arbitrio della mente umana» e alla loro istituzione (I, 12, 1).
Da questo punto di vista il solo legislatore è il popolo. Esso deve essere considerato come
«l’intero corpo dei cittadini oppure la parte prevalente di essi che comanda e decide per sua
scelta o per suo volere, in un’assemblea generale, in termini precisi, che certi atti umani devono
compiersi ed altri no, sotto pena di penalità o di punizione temporale» (I, 12, 3).
Marsilio definisce legge un precetto coattivo, legato ad una punizione o a una ricompensa
da attribuire in questa terra, ossia ad una sanzione, negando la nozione di legge a quella sanzione
e alla sua applicabilità immediata, Marsilio la restringe all’ambito umano.
La legge divina è anch’essa sanzionata, ma da premi e castighi fuori dal tempo, in una vita
ultraterrena e si traduce in un mero dovere di coscienza e non in un obbligo giuridico. Perciò le
pretese del papato e della Chiesa romana appaiono solo come fonte di disordine e minaccia per
la tranquillità della politica civile. Una legge è tale in quanto la emana una volontà che ha il
potere di farla rispettare, comminando pene, quando la legge è violata. Il compito di istituire le
leggi spetta al popolo, nel suo intero o nella sua parte prevalente.
Con il termine “parte prevalente” Marsilio intende riferirsi non solo alla quantità ma anche
alla qualità delle persone che costituiscono la comunità che istituisce la legge; nel senso che la
funzione legislativa può essere conferita ad una o più persone, per quanto mai in senso assoluto
ma solo relativamente, e fatta salva l’autorità del legislatore primo che è il popolo. La parte
qualitativamente migliore di esso riguarda i detentori delle qualità migliori, i quali hanno
maggior peso. Marsilio non pensa quindi che ciascuno debba contare per uno. La parte del
potere è il popolo che può decidere di affidare il compito di governare ad un principe dotato
della forza capace di assicurare la pace, fondata sul rispetto delle leggi. La parte esecutiva e
giudiziaria (principatus) è quindi eletta e nominata dal corpo dei cittadini (legislator).
La elezione avviene secondo le consuetudini di ciascun stato; l’autorità dell’organo
esecutivo deve essere esercitata in conformità alla legge e i suoi doveri e poteri sono determinati
dal popolo, che deve controllare che ogni parte dello Stato compia le sue funzioni per il bene del
tutto e se non ci riesce è destituito.
Marsilio è a favore di una monarchia elettiva ma qui egli pensa più ai comuni che
all’impero. Inoltre l’esecutivo deve essere unificato e supremo di modo che il suo potere sia
superiore a quello di ogni fazione; deve infine procedere unitariamente nel fine di amministrare
la legge. Senza ciò ogni contrasto e disordine sarebbe inevitabile. La migliore forma di governo è
fondata sull’elezione; al di fuori di essa non c’è potere legislativo autorizzato a usare la forza.
3 Secondo Dietro: il conciliarismo.
Alla legge stabilita dal popolo devono essere tutti sottoposti, anche i chierici; pertanto la
pretesa del papato di assumere la funzione legislativa non è che un tentativo di usurpazione che
non produce e non può produrre altro che scissioni e conflitti. La funzione della Chiesa e dei
sacerdoti è puramente spirituale e consiste nel «conoscere ed insegnare ciò che si deve credere,
fare, evitare per ottenere la salute eterna».
In casi di contrasti su queste materie di fede l’autorità suprema è non il Papa ma il Concilio
che rappresenta la comunità dei cristiani e deve essere convocato nelle debite forme, cioè in
modo che sia in esso presente o direttamente o per delega «la parte prevalente della cristianità»
(II, 20, 2 sgg). I cittadini vi figurano in genere come membri di due corporazioni dei loro
rispettivi stati e della chiesa universale.
Nulla in Marsilio giustifica questa doppia cittadinanza. Per lui ogni provincia cristiana deve
scegliere, con la guida dei governanti, (p. 64 c…) in proporzione al numero e alla qualità della
sua popolazione. Essi sono sia laici che religiosi, di vita moralmente provata e dotti nella legge
divina. Essi si radunano in un luogo adatto e decidono di tutti i capi lasciati dubbi dalla Sacra
Scrittura e di ogni argomento di fede e di prassi religiosa. I loro decreti vincolano tutti i credenti
e in particolare i sacerdoti. Ma il concilio generale dipende dal governo secolare perché è
convocato con la sua cooperazione e le sue decisioni devono poggiare sulla forza fornita dagli
Stati. Le tesi di Marsilio saranno condannate dalla Chiesa nel 1327.
Il risultato è inutilità del papato e del suo vescovato universale.
Marsilio così nella seconda «dictis» dell’opera conduce una interminabile polemica contro
gli scrittori curialiti al fine di scardinare il tradizionale sistema politico ecclesiastico dell’età di
mezzo con una triplice operazione: a) separando la gerarchia sacerdotale dall’«ecclesia fidelium»;
b) identificando quest’ultima nella stessa società civile in quanto comunità di credenti, ed
affidando ad un democratico “legislator fidelis” l’amministrazione degli affari religiosi;
c) riducendo infine il sacerdozio al rango di una semplice funzione tecnica al servizio dei
singoli Stati. Il risultato ultimo di questo disservizio spietato è la dimostrazione dell’inutilità del
papato e del «universalis episcopatus».
4) Defensor minor.
Il radicalismo innovatore di Marsilio ha il limite di non ammettere il definitivo frantumarsi
della repubblica cristiana in un pluralismo di chiese nazionali, e cerca nell’istituto del concilio
ecumenico l’espediente atto ad assicurare all’universalità dei credenti l’omogeneità almeno della
suprema amministrazione ecclesiastica. Questo indirizzo si accentua nella sua opera più tarda
Defensor minor (1341-42) ove la preoccupazione di risolvere anche il problema tecnico
dell’autorità competente a convocare il concilio, evitando sempre il ricorso al pontefice, spinge
Marsilio a riesumare l’ideale dell’Impero romano-germanico e a limitare quindi il particolarismo
politico sostenuto nel trattato maggiore.
Opere politiche dopo il 1330:
- Opus
- Dialogus inter magistrum et dixepolum
- De imperatorum et pontificium potestate
6. Nicolò Machiavelli fra principato e repubblicadi Paolo Armellini
Il secolo XVI inaugura la storia del pensiero politico moderno attraverso autori che prendono in
considerazione alcuni fondamentali fondamenti storici, come la formazione dello Stato moderno,
nella forma prevalente dello Stato assoluto. Le monarchie assolute francese, spagnola ed inglese
sono legate al processo di accentramento e potenziamento del potere statale direttamente
proporzionali al livellamento dei ceti feudali, che costituivano nel medioevo e nell’antico regime
centri autonomi di potere sempre più esautorati anche grazie alla formazione di una burocrazia
direttamente dipendente dal sovrano. Scompaiono progressivamente le immunità delle classi
privilegiate, la indipendenza dei Parlamenti, gli Statuti corporativi di arti e mestieri, che
costituivano limitazioni del potere centrale del sovrano. Questo tende ad identificarsi sul proprio
territorio con la Nazione e con lo Stato, sempre più emancipato da matrici ecclesiastiche. La
Riforma Protestante aveva spezzato l’unità religiosa dell’Europa, dando altresì luogo a lotte e
guerre di religione.
Comincia una riflessione sulla politica intesa come campo d’azione pratica sempre più sganciata
dalla morale e dalla religione.
Espressione di una nozione di politica come spazio autonomo della vita associata è
N.Machiavelli (1469-1527), partecipe attivo della vita politica fiorentina, prima come segretario
della Signoria incaricato di presiedere alla seconda Cancelleria e poi come incaricato di missioni
diplomatiche presso il Papa, l’imperatore e Cesare Borgia. Cacciato Piero dei Medici, fu
proclamata la Repubblica fiorentina che venne sconfitta dalla Lega Santa guidata da Giulio II
contro Luigi II re di Francia. Fu restaurata la Signoria medicea a Firenze e nel 1513 Machiavelli
scrisse “Il Principe” per Lorenzo duca d’Urbino.
Nel 1519 terminò i “Discorsi sopra la prima decade di Tito Livio”, nel 1520 “Dell’arte della
guerra” e infine la “Istorie fiorentine”.
L’Italia di allora era divisa in cinque principali Stati ( Ducato di Milano, Repubblica di Venezia,
Signoria di Firenze, lo Stato Pontificio, Regno di Napoli), che subivano continue invasioni
straniere ma risentivano del processo di formazione dello Stato moderno, accentrato e laico,
anche se in base regionale e non nazionale. Esempio maggiormente ammirato da Machiavelli è
quello di Cesare Borgia, che risultò essere la più ambiziosa tirannide locale orientata ad una più
vasta unificazione territoriale dell’Italia centrale. Esso si contraddistinse anche per un’ardita
iniziativa individuale.
La divisione e l’equilibrio degli Stati italiani occupati dagli stranieri impedirono quella
unificazione tanto agognata con sentimento sinceramente patriottico da Machiavelli, che lamenta
le discordie intestine, la devastazione operata da condottieri e truppe mercenarie nei confronti di
una Italia ormai preda di invasori stranieri.
Il rinnovamento civile di essa è visto da Machiavelli in un umanistico ritorno ai principi, inteso
da lui come una comunità storica determinata, dalle cui origini storiche si possa trarre la forza
necessaria per superare il presente desolante. Unità politica del popolo italiano e attività
storiografica sono in lui così strettamente connesse, poiché il rinnovamento della vita associata è
possibile solo sulla base della conoscenza storica del modello antico di Roma per altro mai
imitata. Lettore attento di Polibio, riprende da lui la teoria pessimista del ciclo eterno delle forme
di governo, fatalmente destinate a succedersi nella storia, in cui non esiste affatto il progresso.
Anche per Machiavelli il governo misto può solo ritardare per un certo tempo lo svolgimento
ineluttabile della storia. Male e bene hanno nel mondo eguale quantità, che non può cambiare, per
quanto si possa far prevalere il bene come nel caso di Roma che era riuscita per prudenza
intrinseca a riunire in sé tutte le virtù necessarie al mantenimento della propria potenza contro
quelle della natura e della storia. Nei “discorsi” Machiavelli loda spesso la capacità che ebbe
Roma di richiamare i cittadini alla loro virtù originaria con la creazione di apposite istituzioni,
come quella dei tribuni della plebe e dei censori.
Amante della libertà repubblicana di Roma e di altri governi dell’antichità, egli mostra la
necessità di due istituzioni, quella del legislatore e quella del dittatore . Una repubblica può
essere ben organizzata sin dall’inizio o riformata poi solo se ci si rivolge ad un solo uomo, il
Legislatore, che ha il compito di modellare lo Stato secondo una forma adatta al suo popolo. In
oltre la Dittatura praticata a Roma (non quella di Cesare) fu a Roma una magistratura legale e
limitata nel tempo al fine di risolvere conflitti e guerre civili determinatesi in circostanze
straordinarie ma senza poter modificare la forma di governo, togliere autorità al Senato o al
popolo, ne’ abrogare antiche leggi ne’ farne di nuove. Roma ha altresì mostrato che in ogni città
agiscono due “umori”, quello dei popolari e quello dei grandi: gli ordini e leggi adatte alla libertà
sono frutto di una contesa e di un contrasto inevitabile, come nel caso delle lotte fra patrizi e
plebei all’inizio dell’età repubblicana, da cui nacque non la fine della repubblica romana ma il
suo potenziamento. In momenti sani i contrasti producono libertà e potenza, ma quando il corpo
sociale è corrotto si incrementa piuttosto il processo di decadenza dello Stato. Nel caso di Roma
il tribunato della plebe aveva risolto in termini di predietà e di mistione la struttura aristocratica
(il Senato) e monarchica (I consoli) dello Stato. Col governo misto repubblicano, i romani
aumentarono il proprio prestigio e la propria potenza. Dal contrasto sociale era scaturito l’istituto
denominato “Tribunato della plebe” che rendeva i plebei partecipi della repubblica con la
funzione di guardia della libertà. Dalle “Storie” di Polibio, Machiavelli aveva appreso che la
“costituzione” è la fonte autentica della grandezza e della miseria degli stati e all’eccellenza di
quella romana erano da attribuirsi i suoi successi nel mondo. Così commenta G.Sasso: <<In
Polibio, il primum è individuato nella costruzione intellettuale degli ordini, e di questa
intellettuale perfezione la storia non è che la conseguenza. In Machiavelli il primum è individuato
nelle cose e nella loro incessabile mutevolezza;[….] nella plastica capacità che la costituzione
deve darsi di controllare all’origine il movimento della realtà e di fare delle novità>>. Ciò si
traduce nel nesso fra costituzione e conquista. Uno Stato decade quando si spezza questa unità
dinamica fra costituzione e realtà sociale, quando gli ordini si chiudono in sé, corrompono le
leggi, non leggono il movimento della realtà.
La storia vista oggettivamente ci fa vedere la sostanza immutabile della natura umana, che
insaziabile e senza scrupoli, avida e interessata, piena di gelosie e mal contento. Gli uomini sono
paurosi, vili, creduloni, inetti e ignoranti, si lasciano sedurre dalle apparenze e dalle impressioni
momentanee, si dimostrano maligni e mediocri tanto nel bene quanto nel male. Da uomo del
Rinascimento egli ritiene che questa condizione non sia frutta del peccato originale e quindi
redimibile, ma sia piuttosto immutabile. Questa condizione priva di valori e dilagante nella
Francia e nell’Italia del Cinquecento e Machiavelli ne prende realisticamente atto, analizzando il
mondo storico in una prospettiva di rigorosa immanenza. Le dinamiche dei fenomeni politici
vanno studiati attenendosi alla “verità effettuale della cosa”, qual è e non quale dovrebbe essere.
Nel XV capitolo del “Principe” egli dice espressamente che non bisogna disperdersi nel ricercare
come la cosa dovrebbe essere:<< Elli è tanto discosto da come si vive a come si dovrebbe vivere,
che colui che lascia quello che si fa per quello che si dovrebbe fare, impara più tosto la rovina che
la preservazione sua.[…..] Onde è necessario a uno principe, volendosi mantenere, imparare a
poter essere non buono, et restarlo e non usare seconda la necessità>>. È qui dichiarata la
scissione fra essere e dover essere come condizione per affrontare la politica che va analizzata
con gli interessi e le asprezze che la dominano. La storia ci insegna in fondo proprio questo
realismo, che il naturalismo politico di Machiavelli accetta sancendo il distacco della politica
dall’etica. L’uomo non è ne’ buono ne’ cattivo, ma di fatto tende al male. Il politico non potendo
fare affidamento sull’aspetto positivo dell’uomo, deve prendere atto del prevalente aspetto
negativo e quando il sovrano si trova in condizione di dover applicare metodi crudeli e disumani
per creare, conservare e accrescere il potere li deve adottare necessariamente evitando inutili
compromessi. Le vicende storiche insegnano costanti e ricorrenze legate alla natura immutabile
dell’uomo, al mondo storico che è sempre “ad un medesimo modo”.
L’iniziativa di chi sa questo va giudicata in relazione al successo che consegue, all’efficacia che
esplicata, alla forza con cui incidono nel mondo dei fatti. Nel “Principe”, il sovrano che vuole
mantenere il potere <<Non si curi d’incorrere nell’infamia di quelli vizi, senza i quali può
difficilmente salvare lo Stato>>, non deve esitare a essere temuto e a prendere le misure per
essere temibile. L’ideale rimane quello di essere amato e temuto insieme, ma, essendo qualità
difficilmente conciliabili, il principe deve scegliere i mezzi più funzionali all’efficace governo
dello Stato: <<Un principe non può osservare tutte quelle cose per le quali li uomini sono tenuti
buoni, sendo spesso necessitato, per mantenere lo Stato, operare contro alla fede, contro alla
carità, contro all’umanità, contro alla religione>>. Sarà però importante che egli <<paia, a
vederlo et udirlo tutto pietà, tutto fede, tutto integrità, tutto religione>>, per conseguire più
facilmente i propri scopi.
Dovere del principe è:<<vincere e mantenere lo Stato, i mezzi saranno giudicati onorevoli e da
ciascuno laudati>>. Astuzia, fermezza, destrezza, coraggio sono le virtù del principe
simbolicamente rappresentate dalla volpe e dal leone. Prudenza e giustizia, fortezza e
temperanza, magnanimità e liberalità varranno se conformi allo scopo della politica e non più
come virtù in se stesse, e andranno praticate se non ledono l’immagine di forza, di potenza, di
determinazione incontrollabile del principe. Ad esso converrà essere temuto che amato, farsi
dissimulatore, poiché egli non è tenuto ad essere giusto, grande o magnanimo ma piuttosto
conservare il potere per la convivenza pacifica dei sudditi.
Nel terzo capitolo egli discute, accanto ai principati ereditari, anche quelli misti in cui consistono
le vere difficoltà. I principati nuovi o sono parzialmente tali, come quando parti nuove si
aggiungono al corpo politico e amministrativo dello Stato che li ha conquistati e di cui vanno a
far parte, o sono del tutto nuovi tali cioè da dipendere solo dal principe, a sua volta non
dipendente da altro e in sé completamente sovrano. Inoltre il principato è civile, non nel senso
della genesi, che può essere anche violenta, ma perché come corpo politico richiede un esercizio
del potere non tirannico, essendo per lui la tirannide un potere esercitato senza il consenso di una
parte o di un’altra del corpo sociale (nobile e popolo) e dunque contro ogni sua parte. La
tirannide nella sua pretesa assolutezza nell’esercizio del potere, conduce al supremo dissidio
intero e infine a consumarsi, come nel caso del tiranno Gualtieri di Brienne, duca d’Atene,
descritto nelle “Istorie fiorentine” . Ora per Machiavelli, quanto alla forma politica i principati
possono essere, aristocratici se prevale l’elemento degli ottimati, oppure popolare se prevale
l’elemento del popolo. In questo ultimo caso si distingue il principato in cui il comando del
principe si attua attraverso i magistrati, da quello in cui esso si attua direttamente per sé, che è la
forma suprema del principato. Quindi Machiavelli individua il fattore determinante della politica
nella personalità di chi regge lo Stato.
Ma le istituzioni umane sono precarie come l’instabilità di ogni cosa umana. Il mondo della
natura e della storia sono il campo decisamente rischioso in cui si trova operare il politico, che
deve frequentemente sacrificare la moralità al fine di sconfiggere tale insicurezza. Machiavelli
vede così continuamente intrecciarsi libertà e necessità, volontà soggettiva e determinazione
oggettiva: l’agire libero di un uomo o di una associazione o di uno Stato è limitata dalle
circostanze e dall’azione altrui. Ciò che è la volontà non può prevedere ne determinare è la
fortuna, che non può essere appunto dominata dalla consapevole e libera azione umana che è la
virtù. L’uomo non è ne interamente libero e ne interamente necessitato dalle circostanze ma può
continuamente sfidare la fortuna intesa classicamente come il corso necessario degli eventi, che,
scorrono come un fiume in piena. Questa necessità può essere addomesticata costruendo argini
volti a limitarne la forza distruttiva. Occorre cogliere e modellare le occasioni per questo scopo,
piegando le circostanze attivamente a nostro favore. La virtù vuol dire assecondare con successo
il corso delle cose facendo ricorso alla capacità di interpretare le situazioni esercitando il proprio
ingegno creativo e la razionalità affrontando infine, gli eventi con prontezza e coraggio. Chi è
irresoluto soccombe invece ad essi. Per metà dunque le cose dipendono dalla sorte per l’altra
dalla virtù o libertà: <<Non di manco perché il nostro libero arbitrio non sia spento, indico potere
essere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci
governare l’altra metà, a presso, a noi>>. Questa virtù consiste nel saper prendere decisioni
tempestive, unitare rotta e atteggiamento non appena ciò venga richiesto dalle circostanze, quali
devono essere conosciute secondo il ciclo necessario che regola gli eventi storici, che è la
condizione per dominarli efficacemente. Se non ci facciamo ingannare da raffigurazioni ideali
della natura degli uomini, ma li conosciamo per quello che sono, possiamo agire con maggiore
accortezza. Osservando gli uomini nella realtà quotidiana, li scopriamo egoisti, volubili, cupidi,
simulatori, infidi e mediocri. Per districarsi nella selva degli egoismi sono però più utili i
suggerimenti della religione pagana che quelli di ispirazione cristiana: <<La nostra religione ha
posto il sommo bene nella umiltà, abiezione, nello dispregio delle cose umane; la religione
pagana lo poneva nella grandezza dell’animo, nella fortezza del corpo, e in tutte le altre cose atte
a fare gli uomini fortissimi>>. Il Cristianesimo ha reso così il mondo debole e lo ha dato in mano
a uomini scellerati, volti ad insinuare la rassegnazione e a scoraggiare lo spirito attivo a favore
della vita contemplativa e all’umiltà.
Machiavelli non si pone il problema della legittimità del potere sovrano, poiché per lui unico
titolo per la sua legittimazione è il possesso di fatto. Lo Stato è prima di tutto autorità, titolarità
dell’imperio e del governo, monopolio del comando e della forza coercitiva necessaria per
esercitarlo. Ma col tempo la pura forza rischia di poggiare su un terreno argilloso poiché essa può
essere rovesciata continuamente se non ottiene il consenso. Forza e consenso svolgono ruoli
complementari, poiché senza la forza le occasioni storiche si vanificano e la virtù resta
inoperante; senza il consenso la forza può essere sopraffatta da una forza armata più potente.
Il prudente relativismo storico di Machiavelli, non offre una ricetta assoluta per la forma
istituzionale più stabile, limitandosi a constatare che la forma normalmente più duratura è lo Stato
misto a base popolare e a struttura sociale gerarchica, fortemente centralizzata ella funzione della
decisione politica e assai disciplinato nel sistema di accesso ale cariche governative. Sparta e
Roma sono gli esempi storici addotti per la felice soluzione della mediazione equilibratrice in
esse attuata, con i loro sistemi istituzionali volti ad equilibrare, mediante opportuni pesi e
contrappesi, le opposte spinte dei gruppi sociali, in particolare quelle dell’aristocrazia e dei ceti
popolari urbani. Senza questo sapiente equilibrio, vincono le lotte di fazione che disgregano i
sentimenti collettivi alimentati dalle virtù civili, conducendo alla catastrofe la vita dello stato. Le
virtù civili nella vita civile però possono essere meglio conservate se è viva e operante
l’istituzione religiosa, che per Machiavelli è una forza completamente secolarizzata che <<scende
dall’alto, saviamente ammaestrando gli animi e raffermandoli nell’adempimento dei loro doveri
civili>> (Chabod).
Altamente conflittuale è la visione delle relazioni interstatali in Machiavelli, per il quale la
condizione naturale della convivenza tra gli Stati è l’ostilità della loro competizione. La guerra
c’è ed è ineluttabile. Senza deprecarla, che è cosa inutile, occorre combatterla se necessario
attraverso la conoscenza delle sue specifiche leggi. La forza militare assicura così, sia il
mantenimento del potere all’interno sia l’esistenza e la grandezza all’esterno. Buone leggi e
buone armi sono il fondamento del potere interno ed esterno. La debolezza politica e civile non
può essere mai surrogato dalla forza delle armi, ma senza forti eserciti le istituzioni non sono
solide.
La crisi italiana è da addebitare anche alla debolezza delle armi, che è dovuta per un verso al
declino dell’esercito e dell’arte della guerra feudali, e per l’altro all’utilizzazione di truppe
mercenarie. Queste ultime, insieme alle forze di carattere universalistico come la Chiesa e
l’Impero, e quelle di carattere particolaristico, come il clero e l’aristocrazia, sono di ostacolo alla
creazione di uno Stato efficiente, dinamico, espansivo, accentrato e assoluto. Nell’avversione a
tali forze Machiavelli rappresenta esemplarmente gli interessi della nascente borghesia cittadina,
che proprio nella monarchia può trovare il più efficace strumento di affrancamento e di
emancipazione.
7. J. Bodin (Angers 1529/30 – Laon 1596/7): sovranità
e assolutismo moderno
di P. Armellini
J. Bodin Fu giurista e avvocato a Parigi, dove si trasferì nel 1567 entrando al servizio del re
Enrico III e di suo fratello il duca di Alençan. Fra i suoi scritti vanno ricordati:
1) “Methodus ad facilem historiarum cognitionem” (1566), in cui giudica la storia come la
migliore preparazione alla politica;
2) “Risposta al paradosso del signor Malestroict circa il rincaro d’ogni cosa e il modo di porvi
rimedio” (1568), in cui osservando i fenomeni economici e monetari del suo tempo e
anticipando le tesi del mercantilismo, esamina il fenomeno dell’inflazione che turbava il
commercio di quei tempi indicandone la origine nell’abbondanza dell’oro e dell’argento in
circolazione (miniere di Potosi in America) e dichiarandosi a favore della libertà di
Commercio;
3) “I sei libri della Repubblica” (1576) dove emerge la tesi della sovranità assoluta e dello Stato
di Diritto, affermando che il sovrano non è padrone dei beni dei suoi sudditi e che non può
stabilire imposte senza il consenso degli Stati generali: la sovranità, anche se assoluta, deve
sempre rispettare i diritti di natura e le leggi divine;
4) “Colloquium Heptaplomeres ad abolitis rerum subtilium arcanis”, pubblicato in edizione
completa solo nel 1857, dove emerge il suo antimachiavellismo e la tesi di un teismo che
polemizza contro gli intolleranti estremisti religiosi
“I sei libri della Repubblica” vengono scritti nel 1576, quattro anni dopo il massacro di San
Bartolomeo, subito dopo il quale Fr. Hotman, giurista mezzotedesco, da Ginevra scrive la
“Franco – Gallia”, pamphlet sulle origini dell’istituto monarchico in Francia. La tesi ivi sostenuta
era gli antichi re di Francia dovevano la loro corona alla elezione e diventavano re secondo leggi
e condizioni stabilite; essi non dovevano essere tiranni detentori di un potere assoluto, eccessivo e
infinito. Il popolo poteva dunque togliere la corona a quei re che non rispettavano tali condizioni.
Una sovranità revocabile non era assoluta ma era un governo misto, che associa i tre tipi di
elementi: regio, aristocrazia e popolare, fungendo l'aristocrazia per diritto di nascita da
intermediario tra l’autorità reale e quella popolare (considerate naturalmente nemiche). Si
costituiva così una diretta polemica contro la preponderanza del potere reale.
La sfida fu raccolta dal partito dei Politiques, un gruppo di intellettuali che, prendendo le distanze
tanto dal partito dei cattolici quanto da quello dei protestanti, sosteneva che il re doveva porsi al
di sopra dei conflitti religiosi, acquisendo il ruolo di arbitro imparziale che protegge tutti i culti.
Ciò non era indifferente al significato e al valore della sovranità in sé considerata. In re deve
prima di tutto rifiutarsi di farsi il capo di un partito e perciò deve tenere vigorosamente nelle sue
mani l’autorità senza farsi condizionare dai fantasmi in lotta.
Nel “Methodus” del 1566 emergono già alcuni caratteri della riflessione bodiniana, legati alla
storia, dove si deve cercare lo spirito delle leggi <<raccogliere le leggi degli antichi… per
operarne la sintesi>> perché <<il meglio del diritto universale si nasconde… nella storia>>. Ed è
proprio attraverso una lunga serie di esempi nutriti di erudizione storica, che Bodin intende
definire il potere sovrano conformemente ai principi dell’assolutismo. Il carattere ipotetico –
deduttivo che sarà usato da Hobbes è estraneo all’impianto argomentativo di Bodin, che fonda
esso invece sulla esperienza fornita dalla storia politica.
Nei “Sei libri della Repubblica” (1576) egli si propone di chiarire la definizione dello Stato, che
pone al principio della sua opera: <<La Repubblica è un retto governo di più famiglie, e di ciò
che ad esse è comune, con potenza sovrana>>. Ma la validità propria dello Stato risiede
nell’ultima determinazione: nella sovranità che, occorre dirlo subito viene intesa da Bodin come
priva di limite, salvo il caso di quelli che derivano dalla legge di Dio o della natura.
Gli elementi dello Stato sono la famiglia, le cose comuni, il retto governo e la sovranità.
E’ la famiglia e non l’individuo il fondamento dello Stato (si prevedono così le distanze dal
contrattualismo, che vede nei diritti individuali il presupposto del diritto di resistenza). Individuo
e società vanno insieme, poiché esso va sempre considerato nel gruppo sociale primario (la
famiglia). Il suo tipo di rapporto di comando e di disobbedienza è quello su cui si fonda il sistema
di potere della società politica.
Prima distinzione tra tipi diversi di potere è quella fra il potere pubblico e il potere privato (il
primo si esercita da parte del sovrano con la legge). Ora per Bodin il potere non riconosce al di
sopra di sé alcun superiore se non Dio. Ciò significa che per l’uomo non esiste altra autorità che
la ragione, che è sempre conforme alla volontà divina. La ragione, che esercita il suo dominio
sulle passioni, è la prima forma di potere, quella esercitata dall’individuo su di sé disciplinando i
propri sentimenti. Ma l’individuo è inserito organicamente in un gruppo, la famiglia dove è il
padre che esercita il suo potere sui figli = potere come comando. In questo senso, come istituto in
cui si ha la prima forma di comando, la famiglia precede lo Stato.
Secondo elemento dello Stato è ciò che è comune alla famiglia e quanti vivono nello Stato. Esso
consta dei beni, dei servizi e delle disposizioni senza le quali non è possibile organizzare
alcunché di pubblico (patrimonio comune, tesoro pubblico, territorio, leggi, consuetudini,
giustizia). Essa ha bisogno della sfera privata per definirsi (B. critico del collettivismo).
Terzo elemento è la sovranità, come ciò che unifica le persone e le cose e la fa sussistere in una
reale unità che si esprime nell’organizzazione dello Stato. La sovranità è il cardine fondamentale
di esso, dipendendo da esso magistrati, leggi e ordinanze e facendo delle famiglie, dei corpi, dei
collegi un unico corpo politico.
Il governo retto è il quarto elemento dello Stato. Sovranità e governo retto, per quanto in Bodin
sono distinti, sono intimamente connessi fra loro, poiché il governo giusto presuppone il potere
sovrano e questo non si può concepire senza il governo giusto. Infatti l’essenza dello Stato non è
nel monopolio e nell’esercizio della forza su determinati individui di un territorio: questo è un
fine esercitato anche da altre efficienti organizzazioni come bande di ladri e pirati, che non
formano affatto uno Stato, che in quanto ente sovrano invece fa valere il principio della giustizia.
Ma vediamo da vicino il concetto di sovranità, definita come potere assoluto che non riconosce al
di sopra di sé alcun altro potere, tranne quello divino. In questo senso il potere sovrano ha in se le
ragioni della propria determinazione, di cui risponde solo a Dio. La sovranità è allora concepita in
analogia con la volontà divina, cioè è libera nell’atto di determinarsi e ciò coincide con la sua
ragione. Ma così intesa essa tende confondersi, come potere assoluto, con la forza che attua il
comando formulato dal diritto, cioè per il tramite dileggi. In Bodin così, Stato, potere sovrano e
forza s’identificano e questo significa che la forza trova in sé il principio che la limita e perciò
non sconfina nella violenza, nell’arbitrio, nella licenza: il diritto è allora regola con cui si
disciplina da se la forza, per realizzare l’ordine della coesistenza armonica degli individui
nell’unità statuale.
Lo Stato così ha un’origine storica, in quanto si fonda sul processo storico di depurazione della
violenza sino a che non si esprime la forza che afferma la giustizia, che regola i rapporti tra
vincitori e vinti.
La forza nell’ambito politico è assunta come potere di cui esistono te tipi: sovranità, dominato,
tirannia. Essi sono tutti assoluti, ma solo i primi due sono giusti; il terzo è ingiusto e legittima la
resistenza attiva. Il potere sovrano è la forza che si esprime col diritto; il dominato, caratteristico
delle origini della società politica, trova nella morale e nella religione il suo limite; la tirannia è
il potere senza regole o valori che la limitano, si fonda non sulla forza ma sulla violenza da cui si
genera, e non stabilisce alcun rapporto perché non esistono per essa posizioni autonome ma solo
dei sottoposti all’arbitrio del potere. Il dominio invece nasce per correggere la anarchica
cupidigia innata dell’uomo per le cose degli altri che gli fanno odiare la tranquillità, lo spinge alla
rapina e alla guerra ingiusta.
La sovranità è per Bodin un potere assoluto, perpetuo, indivisibile, intrasferibile, e
imprescrittibile.
Premesso che per Repubblica non si intende una forma di governo opposta alla monarchia, ma la
intera comunità politica, chi si dota di un governo giusto (non solo perché conforme a certi
principi morali ma anche perché tende a realizzarli pienamente), ad essa è inerente il potere
sovrano: <<La Repubblica senza potere sovrano che ne unisca tutte le membra, e le parti, e tutti i
nuclei familiari e i collegi in un solo corpo, non è più Repubblica>>. La sovranità è dunque la
forza coesiva che assicura il rapporto naturale di comando e di obbedienza, sul modello della
cellula familiare, essenziale alla vita sociale.
Il suo potere è:
1) ASSOLUTO (superiorem non recognoscens), sicché il principe è sciolto dall’autorità della
legge: per quanto la potenza assoluta e sovrana dello Stato non sia un arbitrio incondizionato
(avendo la sua norma nella legge divina e naturale), non v’è potenza sovrana dove non c’è
indipendenza del potere statale da tutte le leggi, e capacità di fare e disfare le leggi. Ma
l’essere dispensato dalle leggi è un attributo solo negativo, che non basta a definire la
sovranità, come mostra il caso romano di Pompeo il Grande. Essa consiste invece nel positivo
potere di dare ai sudditi le leggi, e di abolire quelle inutili e farne di altre. Ciò non può essere
compiuto da chi è soggetto alle leggi oppure da chi ha ricevuto da altri tale potere. Questo
mostra come in Bodin la sovranità sia intesa non tanto nell’attività esecutiva o giudiziale
quanto nella funzione legislativa. <<Il primo attributo del principe sovrano è il potere di dare
leggi a tutti in generale e a ciascuno in particolare, senza il consenso né dei suoi superiori, né
di pari, né di inferiori: perché se il principe è obbligato a non fare leggi senza il consenso di
un superiore, non è altro che un suddito; se di un pari, avrà dei pari grado; se dei sudditi,
siano essi il Senato o il popolo, non è più sovrano>>. Il limite intrinseco del potere sovrano,
la legge naturale e divina, consente di stabilire la regola che il principe sovrano è tenuto ad
osservare i contratti da lui fatti sia coi propri sudditi sia con lo straniero. Egli è garante ai
sudditi delle convenzioni e delle obbligazioni mutue ed è obbligato a rispettare la giustizia in
tutte le sue azioni. Inoltre un principe non può essere spergiuro.
2) PERPETUO: il potere sovrano non può essere limitato nel tempo (in questo caso la sovranità
risiede in chi ha posto tale limite di tempo): <<non potrebbe darsi sovranità di un funzionario
o di un corpo legislativo per un periodo determinato>>. Non può essere limitata nel tempo,
come nel caso delle deleghe di potere, che si possono ritirare dal delegante.
3) INTRASFERIBILE in quanto delegare ad altri l’esercizio della sovranità significa
spogliarsene in modo definitivo.
4) e 5) INDIVISIBILE e IMPRESCRITTIBILE, in quanto attiene all’unità dello Stato, alla
sua esistenza; non può essere perduta per il mancato esercizio di alcune prerogative per un
certo periodo di tempo. Imprescrittibile: non può essere soggetto a prescrizione.
Alla attività legislativa del potere sovrano si connettono gli altri poteri dello Stato:
a) dichiarare la guerra e concludere la pace;
b) esaminare in appello i giudizi della magistratura;
c) nominare e destinare gli ufficiali più alti dello Stato;
d) concedere grazie e dispense dalla legge;
e) imporre tributi e togliere tributi;
f) fissare il valore legale della moneta;
g) imporre ai sudditi il giuramento di fedeltà.
La sovranità rivendica il monopolio della produzione delle leggi, di cui si afferma la superiorità
rispetto alle altre norme giuridiche, come quella della consuetudine, che, per quanto aventi valore
giuridico, devono rimanere nei limiti che il potere sovrano fissa con l’emanazione delle leggi
statali. Da questo p.d.v. le autonomie della società aristocratico – feudale devono essere
coordinate ora nell’ambito della legislazione emanata dal sovrano che è sottratta ai
condizionamenti di essa.
I rapporti fra monarchia e gli stati generali: i monarconachi affermavano il diritto degli Stati
generali di deliberare leggi e di eleggere lo stesso re; la teoria della sovranità di Bodin dimostra
che gli Stati generali non possono rivendicare nessun potere autonomo nei confronti della
monarchia. Gli Stati generali possono informare il re sulla situazione del paese e devono essere
informati dal re sui provvedimenti richiesti dalle esigenze del paese; possono e devono poi
avanzare proposte. Essi sono il necessario movimento istruttorio per definire i provvedimenti
legislativi. Per esempio, per quanto riguarda i tributi, questi non possono essere posti ad arbitrio
senza il parere favorevole degli Stati generali (solo la necessità richiede ciò per la salvezza dello
Stato).
I limiti dello Stato.
Il fatto che la sovranità deve riconoscere come invalicabili i principi e i valori del diritto divino e
di quello naturale pone il potere sovrano non come fonte autonoma di principi e di regole i
valori metaempirici di carattere etico – religioso il vero criterio di legittimazione dello Stato.
Stato sovrano come stato costituzionale poiché la gestione del potere politico è sottoposto a dei
limiti. Innanzitutto ci sono le leggi fondamentali, relative all’organizzazione politica dello Stato
francese definitesi nella storia e non modificabili dal re. Altro limite è la proprietà, che è per
Bodin un diritto assoluto per quanto sottoposto alle leggi (quali esso non deriva da una
successione del potere sovrano) si fonda sul diritto divino e naturale. Sulla proprietà si fondano
le reali garanzie di libertà. Perciò la prima forma di garanzia costituzionale è la distinzione fra
pubblico e privato: sul piano pubblico il monarca è sovrano, potendo derogare dalle leggi per
quanto ciò debba avvenire attraverso la procedura stabilita dalle leggi del regno; sul piano privato
re e suddito sono uguali di fronte alla legge.
Bodin afferma l’indivisibilità del potere sovrano, per la quale esso non può appartenere
contemporaneamente ad uno, a pochi o a tutti (egli accetta l’antica classificazione delle forme di
governo in monarchia, aristocrazia, democrazia). In questo senso egli non accoglie la concezione
dello Stato misto, inattuabile perché la sovranità non può che essere o di uno, o di pochi o di tutti.
Lo Stato sussiste solo nel caso che venga assicurata l’unità della decisione e del comando. Per
Bodin è irrealizzabile ciò che pensano alcuni scrittori calvinisti e cattolici per cui il popolo può
eleggere magistrati, disporre delle finanze e concedere grazia, l’aristocrazia può fare le leggi,
dichiarare la guerra e stabilire la pace, fissare i tributi, ed infine un supremo magistrato può
giudicare in ultima istanza. Da ciò si sarebbe determinato un conflitto insanabile tra diversi centri
di potere da cui deriva la guerra civile.
Se si distingue fra costituzione (status civitatis) e governo, il principio della costituzione mista
può essere attuato solo nell’attività di governo, che deve fornire criteri per la determinazione
positiva politica. Essa attua il principio della giustizia ispirandosi a tre criteri, l’aritmetica, il
geometrico e l’armonico. Del governo aristocratico è propria la giustizia distributiva o geometrica
che distribuisce i beni secondo i meriti di ciascuno, del governo popolare, la giustizia
commutativa o aritmetica che tende all’uguaglianza. La costituzione aristocratica si fonda su un
ordine sociale e civile molto differente con una rigida gerarchia; la costituzione democratica
finisce per misconoscere la diversità delle posizioni sociali e promuove una politica
eccessivamente livellatrice che esplode in lotte civili. Massima stabilità allo Stato per Bodin è
assicurata dalla costituzione armonica, che tempera il governo aristocratico con quello popolare,
riconoscendo ad ogni individuo quanto gli spetta per il suo status sociale, per i suoi meriti e non
eliminando le differenze ma facendo coesistere le tensioni (elimina cioè le contrapposizioni).
Solo la monarchia è la forma di governo che si avvicina di più all’ordine naturale per attuare la
giustizia, essendo capace di fare da arbitro fra i contrasti delle forze sociali: aristocrazia e popolo.
Per Bodin la sovranità non riconosce sopra di sé alcun altro se non Dio. Lo Stato si pone così
come ente sovrano, sopra tutti e anche sopra i conflitti religiosi garantendo una giustizia che deve
rendere conto solo a Dio. Se il monarca deve preoccuparsi solo di questioni che riguardano la
maiestas (l’esistenza dello Stato), egli non deve parteggiare per nessuno. Ciò non significa che lo
Stato sia indifferente in materia di religione che è invece il fondamento dello Stato. Compito del
monarca è mantenerla incorrotta e di evitarne la frattura della sua unità in pluralità di confessioni
(ne andrebbe la sua credibilità).
Il timore di Dio è il primo freno della società politica, l’ateismo è invece il sovvertitore dello
Stato. Rappresentando il cattolicesimo la confessione religiosa che ha permesso l’unificazione
della Francia intorno alla monarchia, essa non può che difenderlo ma senza trasformarsi in un
capo partito per annientare il calvinismo. L’unità di fede può ricostruirsi solo da parte della
sincera professione della vera religione da parte del monarca. Il monarca, con l’esempio, il
prestigio e l’ascendente deve portare i sudditi, senza lotte, all’unità e alla pace religiosa. La fede
non può essere imposta, è un atto spontaneo della coscienza (v. la figura di Teodosio che non
persegue gli ariani ma si limita a manifestare la sua adesione al cristianesimo).
Bodin ritiene proprio di una comunità razionalmente organizzata il principio della tolleranza
religiosa. Alla sua difesa è dedicato il “Colloquium Heptaplomeres ” , in cui sette persone
dialogano rappresentando sette diverse religioni (cattolica, luterana, calvinista, ebraica,
maomettana, pagana, rel. Naturali). Essi stanno a Venezia (considerata prima dell’Olanda sede
della libera religione). Toralbo sostenitore della rel. Naturale, sostiene la tesi che, dato il conflitto
fra la religione positiva, la pace sia possibile solo attraverso un fondamento puramente razionale
di ogni religione. Ciò non elimina la persistenza delle religioni positive, le quali valgono per le
plebi a muoverne l’assenso attraverso i riti e le cerimonie. Ricondotte alla loro sostanza comune
naturale, le religioni positive si riconoscono solidali ed eliminano i contrasti. L’ideale della pace
è lo scopo prevalentemente politico di Bodin che scrive questa opera nell’epoca delle guerre di
religione. Il principio di tolleranza religiosa è il fondamento dell’ordine politico.
Sabine (pp. 311 – 313) ha notato tre tipi di confusioni in Bodin:
1. La sovranità come potere perpetuo, illimitato e incondizionato di fare ed eliminare leggi è
però limitata dal diritto naturale che impone il mantenimento dei patti e il rispetto della
proprietà (conflitto fra volere sovrano e giustizia eterna);
2. La fedeltà alla legge costituzionale francese e alle antiche usanze, contrasta con il senso pieno
di sovranità del re francese che la esercita attraverso le leges imperii immutabili;
3. La proprietà, considerata diritto sacro naturale appartiene solo alla famiglia, ciò contrasta con
l’assolutezza del potere sovrano, che impone tasse.
Lo Stato sovrano rivendica la sua autonomia nei confronti dei due ordinamenti di carattere
universale con cui si era organizzato politicamente il Medioevo: Impero e Chiesa. La società
politica trova solo nella sovranità il suo principio legittimante. L’Impero cui tutti gli altri principi
non devono sottomettersi, perde la sua caratteristica di ordine politico universale per ricevere da
Bodin la forma di Stato aristocratico a struttura federale depotenziato rispetto agli Stati a
costituzione monarchica. La sovranità assicura autonomia anche dalla Chiesa, di cui però Bodin
riconosce la giurisdizione nell’ambito spirituale,(culto e costume morale informato alla
religione), per quanto vigilata dallo Stato che argina la tendenza del papato a far valere la sua
supremazia spirituale su quella temporale ideale di una Chiesa lontana da interessi mondani e
politici.
I rapporti sociali vengono modificati: il rapporto feudale signore – vassallo (proprio della
stratificazione a compartimenti medievali) viene risolto nell’unico rapporto suddito – sovrano. Le
articolazioni autonome della società feudale, che si vedevano garantite situazioni di privilegio,
non hanno più ragione di esistere. Unica fonte di organizzazione sociale è lo Stato. Tre sono le
associazioni: il collegio (due o tre persone); la corporazione (unione di più collegi); l’universitas
(unione di famiglie, collegi, e corporazioni di una medesima comunità). Bodin difende la libertà
di associazione, per quanto essa crea problemi fra confessioni religiose. L’istituzionalizzazione
dei corpi e delle universitas avviene attraverso gli Stati generali. Il fatto che il re incarni la
sovranità e detenga il potere assoluto di emanare leggi, non elimina il fatto che egli debba
ascoltare le indicazioni degli Stati generali che esprimono gli interessi e le opinioni del regno.
8. Thomas Hobbes: stato di natura e contratto; lo
Stato assoluto(Westpart, Malmesbury 1588 - Hardwich Hall, Derbyshire, 1679)
di Paolo Armellini
Studiò ad Oxford e si impiegò come precettore presso i Cavendish. A Parigi ebbe rapporti con
Merseme e Gassendi, in Italia fece visita in carcere a Galilei. Pubblicò il "De Cive" ('42) e il
"Levitano" ('51) giudicati composti in favore di Cromwell. Nel 67 la Camera dei Comuni, in un
bill contro il “Levitano” reclamò misure contro gli atei. Re Carlo II difese Hobbes e lo prese sotto
la sua protezione. Nel '70 pubblica "Behemoth", storia dei precedenti della guerra civile in
Inghilterra; un "Autobiografia" ('72). Altre opere sono il "De Corpore" ('55) e il "De Homine"
('58). Negli "Elementi di legge naturale e politica" ('40) anticipa le sue tesi.
Fra le prime opere pubblicate da Hobbes c'è la traduzione della "Storia della guerra del
Peloponneso" di Tucidide. Si era nel 1628, anno in cui il Parlamento strappava a re Carlo I la
Petizione dei diritti, espressione di un antagonismo fra i partiti in lotta già con Giacomo I e
pronunciatosi con il figlio trascinato in rovinose e improduttive spese militari: il risentimento per
l'eccessivo carico fiscale convogliava le crescenti simpatie della classe media in favore del
parlamento, sempre più opposto al governo. Nell'Introduzione, Hobbes attribuisce un forte risalto
alla funzione educativa della storia; infatti nella sua opera emerge una esemplare tendenza
antidemocratica se non filomonarchica. La storia viene ad occupare il posto tradizionalmente
riservato alla filosofia morale, che viene contrapposta alla concreta efficacia narrazione storica
(istruisca segretamente, non esplicativamente) per le aperte comunicazioni di precetti. La storia
insegna a distinguere onore e disonore (retto o scorretto comportamento) a comportarsi con
prudenza con la conoscenza dei fatti passati. In ciò è presente una profonda avversione per la
retorica; ad Hobbes interessa la scientificità della storia. Egli non ama Dioligi d'Alicarnasso, per
il quale lo scopo della storia è il piacere dell'ascoltare non lo scrivere la verità, egli evita di
raccontare calamità e miserie per magnificare solo i fatti splendidi e gloriosi, narrare
l'attaccamento dello storico alla patria, nascondendo ciò che la disonora. Tucidide è invece
ruvidamente obiettivo con la sua spassionata ricerca della verità storica che segue metodicamente
l'ordine temporale. Fra i temi che colpiscono Hobbes ci sono l'equazione tra democrazia e
demagogia, la preoccupazione per il potere dei retori, basato sull'emotività popolare, la
contrapposizione tra retorica e razionalità in ogni campo.
Fra le letture degli anni '27 - '32 alla Biblioteca Bodleiana ci sono una gran quantità di libri sul
metodo della scienza, la grammatica e le lingue, l'astronomia, la matematica, la geometria, tutte
discipline che denotano la difficoltà della scienza moderna a districarsi dal peso della tradizione.
Il suo ideale di scienza rigorosa interamente deduttiva si nutre della convinzione che i principi
primi, esplicativi del reale si riducano a due, il moto e il corpo. Ciò emerge fin dall'opera del '31
attribuita dal Tönnies a lui, lo “Short Tract on First Principles”, manifesta adesione all’ideale
dimostrativo euclideo (principi, deduzioni, conclusioni, corollari). La trattazione si conclude con
l’abbozzo di una etica: il bene viene identificato con ciò che possiede il potere attivo di attrarre
localmente qualsiasi cosa, per cui è bene tutto ciò che è desiderabile relativizzazione del
concetto di bene (ciò che è desiderabile per uno, non lo è per l’altro). Un legame necessario di
causa ed effetto determina l’appetito (contro il monilismo che sostiene la tesi che il libero agente,
posti tutti i requisiti, può operare o non operare, che è per Hobbes contraddittorio). Nello “Short
Tract” c’è la riduzione materialista sia del meccanismo della sensazione e della formazione delle
idee sia nel processo di volizione, con conseguenze sul piano teologico, morale e politico.
Hobbes fra il ’34 e il ’37, come accompagnatore dei Covendish, va a trovare Galilei, Marsenne e
Gassendi e concepisce il progetto di scrivere un’opera complessiva, gli “Elementa philosophiae”,
che si articolerà nelle tre successive trattazioni “De Corpore”, “De Homine”, “De Cive”. Tutti
gli aspetti della realtà si riducono a movimenti di corpi e in base ad essi vanno spiegati in una
prospettiva meccanicistico – materialistica unitaria non solo la scienza naturale ma anche la
morale e la politica.
Nel ’40 Hobbes scrive gli “Elementi di diritto naturale e politica”. Per Hobbes esistono solo
sostanze materiali e tutti i fenomeni si riducono a movimenti di corpi legati dal nesso causale
(materialismo meccanicistico). L’anima è anch’essa un ente corporeo. Tutte le conoscenze
derivano dalle sensazioni, che sono modif. prodotte dall’oggetto corporeo sui nostri sensi. I
concetti, sono solo segni o nomi (nominalismo) usati per padroneggiare più agevolmente i dati
sensibili. Il ragionamento è una combinazione o calcolo di tali segni. Bene e male si identificano
con piacevole e spiacevole.
La tesi centrale è questa: bene è ciò che piace, male ciò che dispiace, i una considerazione
puramente fisica di questi termini viene ribadita negli “Elements” la relativizzazione del
concetto di bene. Così Hobbes introduce il concetto di potere: per tutelare la propria
autoconservazione, l’organismo umano deve continuamente ricercare il piacere e la sua causa, il
bene, evitando in pari tempo il dolore e il male, ma ciò implica la possibilità o la capacità di farlo,
appunto il potere. La coscienza della propria potenza o della propria debolezza, o anche la sola
illusione della prima e il timore della seconda, provocano turbamenti emotivi, passioni. Hobbes
tratta anche dell’onore che è il riconoscimento del potere (superiorità).
Tenendo conto che l’uomo agisce condizionato dalle forze materiali che convergono su di lui e
non è più libero di un sasso, Hobbes offre la sua opinione sulla res cogitas, l’anima, la mente, che
è un complesso di concetti, e queste sono traduzioni di movimento. L’intelletto è la facoltà che
collega i concetti ai nomi, mentre la ragione è un meccanismo puramente formale di connessione
di nomi. In nessun caso la ragione è dotata di quel potere normativo assoluto che le deriva da
un’impostazione metafisica del problema. Hobbes passa così a costruire la sua scienza della
politica che occupa la seconda parte degli “Elements” e viene ripresa ed arricchita nel “De Cive”
del 1642. Esso risponde alla necessità di combattere le teorie che sostenevano che l’azione
eversiva delle forze parlamentari in conflitto con Carlo I. Ma esso appare primo delle prime due
parti degli “Elementa philosophiae”. Nella prefazione Hobbes giustifica ciò dicendo che non
aveva bisogno delle precedenti, fondata com’è sull’esperienza, ciò che contrasta con lo
svolgimento apodittico della scienza da lui auspicata. Fatto è che egli si sentiva ancora
insoddisfatto della prima parte del suo lavoro e riprende l’intera seconda parte della sua opera
precedente.
Stato di natura. Il “De Cive” prende le mosse dalla concezione naturalistica dell’uomo per
consolidare la sua antropologia individualistica che farà da sfondo alla teoria contrattualistica
dello Stato. Non è vero che l’uomo sia quell’animale politico, incline per natura alla società
con i suoi simili, di cui parla Aristotele: basta osservare il comportamento degli uomini e le
loro motivazioni quando si riuniscono insieme il loro movente è l’utilità (interessi comuni
determinano amicizie; nelle relazioni mondane emerge sempre l’esibizione della propria
superiorità e del proprio potere). Conclusione generale: l’unico legame che tiene uniti gli
uomini è l’utile individuale, che è il perseguimento dell’autoconservazione, fine di ogni
organismo meccanicisticamente inteso. Corollario: l’origine delle grandi e durevoli società
deve essere stata non già la mutua simpatia degli uomini ma il reciproco timore. Nella dedica
al “De Cive” Hobbes esclude che l’uomo sia animale naturalmente politico a partire da due
postulati certissimi:
1) La bramosia naturale per la quale ognuno pretende di godere da solo dei beni comuni;
2) La ragione naturale per la quale ognuno rifugge dalla morte violenta come dal peggiore dei
mali naturali.
Con ciò Hobbes non nega che gli uomini non abbiano bisogno gli uni degli altri, nega solo che
abbiamo dalla natura un istinto di benevolenza e concordia reciproche. Qui Hobbes polemizza
con Grozio secondo cui gli uomini anche se traessero alcuna utilità dal vivere comune,
dovrebbero comunque accettarlo per un’esigenza della loro ragione naturale. Hobbes invece nega
l’esistenza di un amore naturale dell’uomo verso il simile, perché ogni associazione spontanea
nasce o dal bisogno reciproco o dall’ambizione, mai dall’amore o dalla benevolenza (Cfr. “De
Cive”, I, 2). Gli uomini sono quindi tutti diffidenti naturalmente l’uno verso l’altro e disposti a
nuocersi reciprocamente. Ma ognuno ha paura di morire e di morire in modo violento.
Di qui Hobbes passa a descrivere i rapporti tra gli uomini della condizione naturale (stato
naturale), che precede la costituzione dello Stato. Essa è intrisecamente contraddittoria, in cui
l’uomo non può vivere. Hobbes descrive questa condizione come “bellum omnium contra
omnes” dove ognuno è “homo homini lupus”. Ora, lo stato di natura è descritto come assurdo
perché risulti il contrasto con la ragionevolezza dello Stato civile. La passione più caratteristica
nell’uomo è forse la vanità, cioè il piacere di essere stimati e di ricevere onori dagli altri più che
quello di trarne vantaggio, essendo che la vanità è il piacere dell’anima, l’interesse dei sensi.
Entrambe sono due aspetti dell’amor proprio e quindi testimonianza della natura egoistica
dell’uomo: la vanità è l’amore delle proprie capacità naturali, l’interesse è l’amore del proprio
benessere materiale; ma entrambe queste passioni dominanti fanno dell’uomo un essere
naturalmente non socievole, un essere che cerca la compagnia degli altri non per tendenza
naturale e spontanea, ma per soddisfare la brama di onori e il desiderio di beni naturali. Solo una
passione nell’uomo è più forte dell’amor proprio: ed è la paura di morire. Vanitoso ed egoista,
l’uomo è anche vile. La causa del timore reciproco è l’uguaglianza di natura fra gli uomini per la
quale tutti desiderano la stessa cosa, cioè l’uso esclusivo dei beni comuni. In tale condizione di
uguaglianza il più forte non può mai essere interamente sicuro di non venire ucciso dal più
debole. Inoltre la causa di esso è la volontà di danneggiarsi a vicenda o anche l’antagonismo che
deriva dal contrasto delle opinioni e dall’insufficienza del bene. Il diritto di tutti su tutto e
l’ugualmente naturale volontà di nuocersi a vicenda fanno si che lo stato di natura sia uno stato di
guerra incessante di tutti contro tutti. In questo stato non c’è nulla di giusto: la nozione del diritto
e del torto (giustizia ed ingiustizia), nasce dove c’è una legge, e la legge nasce dove c’è un potere
comune. Ognuno ha diritto su tutto, compresa la vita degli altri (“De Cive”, I, 14; “Lev”.13).
Questo “diritto” non ha nulla a che fare con la legge di natura, che è invece l’eliminazione o la
radicale limitazione di esso. Esso è piuttosto un istinto naturale insopprimibile giacché
<<ciascuno è portato desiderare ciò che per lui è bene, e a fuggire ciò che per lui è male
soprattutto a fuggire il maggiore di tutti i mali naturali che è la morte; e ciò con una necessità di
natura non minore di quella con cui la pietra è portata verso il basso>> “De Cive”, I, 7). Ma
questo istinto naturale non è, date le circostanze, contrario alla ragione perché non è contrario alla
ragione di far di tutto per sopravvivere. E poiché il diritto in generale è appunto <<la libertà che
ciascuno ha di usare delle facoltà naturali secondo la retta ragione>>(lb., I, 7), così l’istinto che
porta ciascun uomo a far tutto ciò che è in suo potere per difendersi e prevalere sugli altri, può
ben chiamarsi un diritto, finché l’uomo, obbedendo alla stessa ragione, non abbia trovato altro
strumento più efficace e più comodo per la propria sopravvivenza. Tuttavia è proprio
dall’esercizio inevitabile di questo diritto che scaturisce la condizione di guerra di tutti contro
tutti. Questa condizione non può realizzarsi e stabilirsi in un modo tale, perché coinciderebbe
ovviamente con la distruzione totale del genere umano. La semplice minaccia potenziale dello
stato di guerra impedisce ogni attività industriale o commerciale, agricola, navale, la costruzione
di case e in generale l’arte e la scienza e pone l’uomo al livello di un animale solitario abbruttito
dal timore e incapace di disporre del suo tempo (“Lev”. 13; “De Cive”, I, 13). Ciò ci deve indurre
a pensare che lo stato di natura è la stessa condizione naturale dell’uomo, quando non vi siano
vincoli artificiali a determinarne altrimenti l comportamento, e in questo senso perdura anche
dopo la costituzione dello Stato, manifestandosi in tutti i campi riguardo ai quali lo Stato non ha
legiferato, nell’ambito della società civile. La tesi della naturale uguaglianza degli uomini in
Hobbes non ha così alcuna radice di tipo religioso o metafisico.
Se l’uomo fosse privo di ragione, la condizione di guerra totale sarebbe insormontabile e
l’abbrutimento o la distruzione della sua specie sarebbero il principio e la fine della sua storia.
Ma la ragione umana è la capacità di prevedere e di provvedere, mediante u calcolo accorto, ai
bisogni e alle esigenze dell’uomo. E’ la ragione naturale che suggerisce all’uomo la norma o il
principio generale da cui discendono le leggi naturali del vivere civile, proibendo a ciascuno di
fare ciò che reca la distruzione della vita o gli toglie i mezzi di evitarla e di omettere ciò che serve
a conservarla meglio (“Lev”., 14). Questo principio è il fondamento della legge naturale.
La legge naturale di Hobbes non ha niente a che fare con l’ordine divino e universale stoico e
medievale. Per Hobbes come per Grozio e il giusnaturalismo moderno, la legge naturale è un
prodotto della ragione umana. Ma la ragione per Grozio è ancora un’attività speculativa o
teoretica, capace di determinare in modo assolutamente autonomo, cioè indipendente da ogni
condizione e circostanza e dalla stessa natura umana, ciò che è bene e ciò che è male in se stesso;
per Hobbes la ragione è un’attività finita o condizionata dalle circostanze in cui opera, è una
tecnica calcolatrice capace di prevedere le circostanze future e di operare in vista di esse le scelte
più convenienti. La “naturalità” del diritto significa la “razionalità” di esso. Ora le norme
fondamentali del diritto sono dirette a sottrarre l’uomo al gioco spontaneo e autodistruttivo degli
istinti e a imporgli una disciplina che gli procuri una sicurezza almeno relativa e la possibilità di
dedicarsi alle attività che rendono agevole la sua vita.
La fondamentale norma è: <<Cercare e conseguire la pace in quanto si ha la speranza e la
capacità di ottenerla; e quando non si può ottenerla, cercare e usare tutti gli ausili e i vantaggi
della guerra>> (“Lev”. 14; “De Cive”, II,2). Da questa legge principale derivano le altre, di cui la
prima è:
1. <<L’uomo è spontaneo quando anche gli altri lo facciano e per quanto lo giudicherà
necessario alla pace e alla sua difesa, deve rinunciare al suo diritto su tutto e accontentarsi di
avere tanta libertà rispetto agli altri quanto egli stesso ne riconosce agli altri rispetto a sé>>
(“De Cive”, II, 3; “Lev”. 14). Ciò corrisponde al precetto evangelico di non fare agli altri ciò
che non vorresti fosse fatto a te. Esso significa l’abbandono o il trasferimento del diritto
illimitato su tutto e perciò consente di uscire dallo stato di natura cioè dalla guerra continua di
tutti contro tutti e implica che gli uomini stringano tra loro patti con i quali rinunciano al loro
diritto originario o lo trasferiscono a persone determinate. Ma ovviamente i patti per essere
tali devono essere mantenuti: sicché la seconda legge naturale è che
2. <<bisogna stare ai patti, cioè osservare la parola data>> (“Lev”. 15; “De Cive”, III, 1). Dopo
queste Hobbes enuncia altre 18 leggi naturali:
3. è proibita l’ingratitudine;
4. bisogna rendersi utili agli altri;
5. misericordia;
6. limitare le pene al futuro;
7. non bisogna ingiuriare;
8. non essere superbi;
9. essere moderati;
10. non essere parziali;
11. le proprietà comuni;
12. le cose da dividersi a sorte;
13. la primogenitura e il diritto del primo occupante;
14. l’incolumità dei mediatori di pace;
15. l’istituzione di arbitri;
16. nessuno è giudice della propria causa;
17. è vietato agli arbitri accettare doni dai giudicandi;
18. bisogna avvalersi dei testimoni per la prova dei fatti;
19. non stringere patti con l’arbitro;
20. condannare tutto ciò che impedisce l’uso della ragione, (“De Cive”, III; “Lev”. 15).
Queste leggi sono anche morali, sono il compendio di filosofia morale. Sono leggi in quanto sono
prescrizioni della ragione: lo sono anche come formule espresse in parole in quanto si trovano nelle
Sacre Scritture come precetti di vita promulgati da Dio. Ma le leggi più importanti sono quella
relativa all’associazione degli individui, a scopo di pace o di difesa, e quella relativa all’osservanza
dei patti. Le regole enunciate hanno lo scopo di rendere possibile una coesistenza pacifica.
Stato civile. L’atto fondamentale che segna il passaggio dallo stato di natura allo stato civile è
quello compiuto in conformità della seconda legge naturale, cioè la stipulazione di un contratto
con il quale gli uomini rinunziano al diritto illimitato dello stato di natura e lo trasferiscono ad
altri. Questo trasferimento è indispensabile affinché il contratto possa costituire una valida
difesa per tutti. Solo se ciascun uomo sottomette la sua volontà ad un unico uomo o a una
assemblea e si obbliga a non fare resistenza all’individuo o all’assemblea cui si è sottomesso, si
ha una stabile difesa della pace e dei patti di reciprocità in cui essa consiste. Quando questo
trasferimento sia effettuato, si ha lo Stato o società civile, detto anche persona civile, perché ,
conglobando la volontà di tutti, si può considerare una sola persona. Si può dire dunque che lo
Stato è <<l’unica persona la cui volontà, in virtù dei patti contratti reciprocamente da molti
individui, si deve ritenere la volontà di tutti questi individui: onde può servirsi delle forze e degli
averi dei singoli per la pace e per la comune difesa>> (“De Cive”, V, 9). Colui che rappresenta
questa persona (indiv. o assemblea) è il sovrano ed ha potere sovrano ed ogni altro è suddito. <<
Questa è l’origine di quel grande “Leviatano”, o per usare maggior rispetto, di quel Dio mortale
al quale, dopo il Dio immortale, dobbiamo pace e difesa: giacché per l’autorità conferitagli da
ogni singolo uomo della comunità, ha tanta forza e potere che può disciplinare, col terrore, la
volontà di tutti in vista della pace interna e dell’aiuto scambievole contro i nemici esterni>>
(“Lev.”, 17). Lo Stato civile è ragionevole perché risolve l’assurdità di quello di natura,
ostacolando o comunque raffrenando la inclinazione a nuocere, per liberare l’uomo dalla paura
della morte. Lo Stato, consistente in un potere superiore ai singoli individui, cioè dotato di forza
sufficiente per impedire l’uso individuale della forza, è l’istituzione destinata a sanare la
contraddizione dello Stato naturale è la sostituzione del regno della guerra con quello della
pace.
Ora, per Hobbes la filosofia civile è una scienza più della fisica e alla pari della geometria, è una
scienza dimostrabile, cioè le cui cause prime sono in nostro potere o più semplicemente prodotte da
noi (non dimostrabili sono invece quelle le cui cause prime non dipendono da noi ma dalla volontà
divina). Ma in che senso si può dire che noi produciamo l’oggetto della filosofia civile? Come
formiamo cioè noi lo Stato? Per Hobbes lo Stato non è per natura ma per convenzione; esso
soddisfa ad una esigenza elementare degli uomini che attraverso un accordo reciproco, spiegabile
solo coll’ipotesi contrattualistica, pongono base allo Stato. Il contratto che da origine allo Stato è un
accordo con cui un certo numero di individui stabiliscono dunque di rinunciare a quel diritto
illimitato e potenziale su tutte le cose che appartiene loro nello Stato di natura e di trasferirlo ad una
terza persona, col duplice scopo di togliersi di mano l’arma principale di offesa reciproca e di
affidarla a chi la possa adoperare in difesa di tutti. Ciò presuppone un terzo principio della natura
umana, cioè che gli uomini siano esseri ragionevoli, che siano in grado di rendersi conto, con un
calcolo di cui solo esseri raziocinanti sono capaci, che la guerra dipende dal diritto illimitato su tutto
e può essere evitata solo rinunciandovi. Il dettame della retta ragione è la pace: ciò è ricavabile da
quella facoltà raziocinante che permette all’uomo di ricavare certe conseguenze da certe premesse.
Con ciò Hobbes non si domanda come sia possibile storicamente che l’essere passionale e violento
che è l’uomo, istintivo ed egoista, abbia abbandonato l’inclinazione naturale per la ragione. Egli
parla ai suoi concittadini, cercando di convincerli che la guerra civile sta covando sotto il fuoco
dell’aperta lotta religiosa e politica della sua patria. Lo Stato è il prodotto allora degli uomini stessi,
o meglio della loro volontà razionale, che dimostra che l’elemento basilare della società politica è
l’obbedienza al sovrano.
Lo Stato di natura è a lungo intollerabile, perché non garantisce il conseguimento del primum
bonum, la vita. Sotto forma di leggi naturali la retta ragione suggerisce all’uomo una serie di regole,
subordinate a quella fondamentale di cercare la pace. Ora, accade che nella maggior parte dei casi,
il fine previsto dalla regola non venga osservato da tutti o per lo meno dalla maggior parte dei
membri del gruppo: io non sono tenuto ad osservare una regola se non la osservano anche gli altri.
Hobbes dice che le leggi naturali obbligano in foro interno, non in foro externo. Ma nello Stato di
natura, dove il fine supremo non è la pace ma la vittoria, chi mi assicura che se io agisco
razionalmente per cercare la pace, anche gli altri fanno così? Lo Stato di natura è quello in cui le
leggi naturali ci sono, sono valide, ma non sono efficaci. L’unica via per renderle efficaci (regole
osservate da tutti o dalla maggior parte) è l’istituzione di un potere tanto irresistibile da rendere
svantaggiosa ogni azione contraria lo Stato.
Patto e Sovranità. Condizione per ottenere la pace è l’accordo di tutti per uscire dallo Stato
naturale e per istituire uno Stato. Tale accordo o patto è un atto di volontà, lo Stato è un prodotto
della volontà umana: è l’uomo artificiale. L’accordo deve essere di molti e non di pochi,
permanente e non temporaneo; non deve limitarsi a costruire una semplice associazione di
persone che perseguono un fine comune. Lo Stato di natura è uno stato di insicurezza, allora lo
scopo principale dell’accordo è quello di rimuovere le cause di questa insicurezza. La causa
principale di questa insicurezza è la mancanza di un potere comune. L’unico modo per costituire
un potere comune è che tutti acconsentano a rinunciare al potere proprio e a trasferirlo a
un’unica persona, che da ora avrà tanto potere quanto basta per impedire al singolo di esercitare
il proprio potere a danno di altri. Occorre però che tutti si accordino nell’attribuire a una sola
persona tutti i loro beni, il loro diritto su ogni cosa, e tanta forza per sconfiggere chi viola
l’accordo. L’obbligo fondamentale è quello caratteristico del pactum subiectionis, ossia l’obbligo
di obbedire a tutto quello che il detentore del potere comanderà: <<Io autorizzo e cedo il mio
diritto di governare me stesso a quest’uomo o a quest’assemblea di uomini, a questa condizione:
che anche tu ceda il tuo diritto a lui e autorizzi tutte le sue azioni allo stesso modo>> (“Lev.”,
112).
A differenza del pactum societatis, il patto d’unione è per Hobbes di sottomissione; ma a differenza
del pactum subiectionis, i cui contraenti sono, da un lato, il popolus nel suo complesso e, dall’altro,
il sovrano, è, come il p.s., un patto i cui contraenti sono i singoli soci tra loro che si impegnano
reciprocamente a sottomettersi ad un terzo non contraente. Hobbes ha fatto cioè dell’unico patto di
unione un contratto di società rispetto ai soggetti e di sottomissione rispetto al contenuto. Il potere
sovrano comprende il supremo potere economico (o dominium) e il supremo potere coattivo (o
imperium). Il potere politico è la somma dei due poteri = “potestas superiorem non recognoscens”.
Hobbes da tre definizioni dello Stato:
1) <<una moltitudine di uomini uniti come una persona da un potere comune, per la loro comune
pace, difesa e vantagio>> (“Elements”, I, 19, 8);
2) <<una unica persona, la cui volontà, in virtù dei patti contratti reciprocamente da molti
individui, si deve ritenere la volontà di tutti questi individui, onde può servirsi della forza e degli
averi dei singoli per la pace e per la comune difesa>> (“De Cive”, V, 9), dove è da osservare
l’eliminazione del “vantaggio” dai fini dello Stato;
3) <<una persona, dei cui atti ciascun individuo di una gran moltitudine, con patti vicendevoli, si è
fatto autore, affinché possa usare la forza e i mezzi di tutti, secondo che, crederà opportuno, per
la pace e per la comune difesa>> ("Lev.” 112).
La sovranità ha tre attributi fondamentali: la irrevocabilità, l’assolutezza, l’indivisibilità. Noi
sappiamo che il patto di unione è: 1) un patto di sottomissione stipulato tra i singoli e non tra il
popolo e il sovrano; 2) consiste nell’attribuire a un terzo al di sopra delle parti tutto il potere che
ciascuno ha nello Stato di natura; 3) il terzo cui questo potere viene attribuito è una unica persona.
Dal 1° discende l’irrevocabilità, dal 2° l’assolutezza, dal 3° l’indivisibilità.
1) Il tradizionale patto di sottomissione, interpretato come un rapporto tra mandante e mandatario,
contiene il pericolo di essere revocato, perché il suo contenuto è il conferimento di un incarico
di governo affidato a certe condizioni ed entro certi limiti di tempo. Hobbes è invece a favore
della irrevocabilità per due motivi:
a) difficoltà di fatto: se uno dei due contraenti fosse il popolo (universitas e non moltitudo), per
rescindere il contratto basterebbe l’accordo della maggioranza; ma quando i contraenti cono
tutti indistintamente i membri della società civile, uti singoli, cioè come moltitudine e non
come popolo, la rescissione del contratto può avvenire solo se tutti sono d'accordo, cioè
richiede non la maggioranza ma l’unanimità;
b) impossibilità di diritto: essa deriva dall’aver concepito il patto di unione come un contratto a
favore di un terzo (obbligo non solo l’uno verso l’altro, ma anche in favore di un terzo);
perciò non può essere rescisso col solo consenso delle parti, ma occorre anche il consenso
del terzo al quale le parti si sono obbligate.
Dunque la irreversibilità dipende dal fatto che una volta costituito lo Stato, i cittadini non
possono dissolverlo negando ad esso il loro consenso: il diritto dello Stato difatti nasce dai
patti dei sudditi fra loro e con lo Stato, non da un patto tra i sudditi e lo Stato, che potrebbe
essere revocato (“Lev.” 18; “De Cive”, VI, 19). Nel “Leviatano” Hobbes dice che delle due
l’una: o si immagina questo patto come intercorrente tra il sovrano e i sudditi, come un’unica
persona, ma questo è impossibile, perché i sudditi prima di riunirsi in una assemblea non sono
una persona, e se lo fossero sarebbero già essi stessi lo Stato; o lo si immagina come
intercorrente tra il sovrano e ciascuno dei sudditi singolarmente presi, e allora, posto che sia di
fatto possibile, diventa, una volta concluso, nullo, perché <<qualsiasi atto del sovrano venga
incriminato da uno di loro come violazione del patto, è l’atto insieme sui e di tutti gli altri, in
quanto compiuto a nome e con l’autorizzazione di ciascuno di loro in particolare (“Lev.” );
anche se non fosse nullo, non ci sarebbe nessuno in grado di giudicare la controversia qualora il
suddito lo denunciasse.
2) La sovranità è assoluta, “legibus soluta”, contro le teorie affermanti questo o quel limite dello
Stato (=costituzionalismo). La sovranità sta in un potere esercitabile senza limiti esterni. In
natura ognuno è sovrano e suddito a secondo delle circostanze e della situazione; nella società
politica nata dopo il patto d’unione il sovrano è sovrano e il suddito è suddito. Ora solo il
sovrano ha il diritto su tutto. Ma contro l’assolutismo sono stati avanzati vari argomenti:
a) se il patto avviene tra il popolo (=universitas) e il sovrano, il trasferimento del potere
sovrano può essere condizionato all’adempimento da parte del sovrano di certi obblighi; qui
Hobbes nega il presupposto di questo p.d.v., cioè l’esistenza di un patto tra popolo e
sovrano. Prima della costituzione del potere sovrano non c’è un popolo ma una moltitudine
necessità che la moltitudine decida di uscire dallo Stato di natura, attribuire il potere non
ad una persona fisica ma ad un’assemblea (la quale lo rappresenti): qui però il sovrano è il
popolo stesso. Il patto tra popolo e sovrano, se c’è, è fra il titolare della sovranità e colui o
coloro cui è demandato l’esercizio del potere sovrano. Ma questo patto non ha niente a che
fare col patto d’unione originante la società politica.
b) il contenuto del patto: la maggiore o minore estensione del potere sovrano dipende anche
dalla quantità e dalla qualità dei diritti naturali che formano l’oggetto del trasferimento. I
fautori della sovranità limitata sostengono che il trasferimento è parziale. Per Hobbes invece
il trasferimento è quasi totale: per dar vita allo Stato civile ogni individuo deve rinunciare al
diritto illimitato a tutto (in omnia) e alla forza di farlo valere; entrato a far parte dello Stato,
non rimane loro che il diritto alla conservazione della vita. Il cap.XXI del “Leviatano”
contiene la carta dei diritti di libertà dei sudditi secondo Hobbes <<Se il sovrano comanda
ad un uomo di uccidere, ferire o mutilare se stesso, o di non resistere a quelli che lo
assalgono, o di astenersi dal prendere cibo, aria, medicina, o altra cosa, senza della quale
non potrebbe vivere, quell’uomo ha la libertà di disobbedire. La libertà nel “silentium legis”
è mera libertà di fatto, che possono essere accresciute, diminuite o soppresse secondo le
opportunità del sovrano. Esse non limitano il potere sovrano>>.
L’argomento classico in favore dei limiti del potere sovrano si fonda sul principio della
subordinazione del potere politico (chiunque lo detenga) al diritto , o più precisamente alla
legge (al diritto oggettivo). Hobbes liquida la tesi della subordinazione del sovrano al diritto
positivo (leggi civili)con la tesi antica che nessuno può obbligare se stesso, perché chi obbliga
se stesso si potrebbe liberare a proprio piacimento e arbitrio (“De Cive”, IV, 14, “Lev.” );
siccome le leggi civili sono fatte dal sovrano, se il sovrano fosse ad esse sottoposto imporrebbe
un obbligo a se stesso. Problema più grave è quello se non vi siano leggi oltre a quelle civili.
Chiunque difende l’illimitatezza del potere sovrano deve fare i conti con le leggi del paese (la
common law), tramandate per consuetudine ed applicate dai giudici ( e di cui i legisti
affermano la superiorità sulla norma emanata dal re e dal parlamento), e con le leggi naturali.
Hobbes è un nemico dichiarato dei fautori del diritto comune (Sir E. Coke), contro cui scrive in
tarda età il “Dialogo tra un filosofo e uno studioso del diritto in comune d’Inghilterra”, ove
sostiene che non vi è altro diritto che quello emanato dal re perché solo il re ha la forza
necessaria per sostenerlo e farlo valere. L’unica fonte del diritto è la legge derivata dalla
volontà espressa o tacita del sovrano, dice nel “De Cive” (XIV, 15) perché la consuetudine non
costituisce legge.
Ma cosa sono le leggi civili? Hobbes ripete spesso che il sovrano è sottoposto alle leggi di
natura, che però sono solo mere regole di prudenza o norme tecniche, la cui osservanza dipende
dal giudizio sulla possibilità di perseguire il fine nella situazione data. Nei rapporti con gli altri
sovrani e coi sudditi, il giudizio spetta solo al sovrano, che non è obbligato esternamente verso
nessuno ad osservare i dettami della ragione; questi perciò non costituiscono di fatto un limite
al potere sovrano. Spetta solo al sovrano dunque stabilire attraverso l’emanazione delle leggi
civili ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, dopo la costituzione dello Stato, per i sudditi giusto o
ingiusto lo stabiliscono le leggi civili. La morale di Hobbes è quindi un legalismo etico : teoria
che afferma che il sovrano (e anche Dio) non comanda ciò che è giusto, ma è giusto ciò che il
sovrano comanda. E’ quindi il sovrano a promulgare norme per stabilire il proprio e l’altrui
(“De Cive”, VI, 9) e dove non c’è un potere comune non c’è legge e quindi nemmeno giustizia
(“Lev.” ). Obiezione: le leggi civili stabiliscono ciò che è giusto e ciò che è ingiusto perché
non sono altro che l’esecuzione coattiva delle leggi naturali; <<Dopo la costituzione dello Stato
le leggi naturali entrano a far parte di quelle civili>> (“De Cive”, VIII, 9). Hobbes ribatte che
spetta al sovrano stabilire quale sia il contenuto delle leggi naturali (è cioè compito del sovrano
non solo rendere coattive le leggi naturali ma anche cosa prescrivono) (“De Cive”, VI, 16; XIV,
10; XVIII, 10) e anche se il sovrano viola le leggi naturali, il suddito ha il dovere di ubbidire al
comando del sovrano eccezion fatta per ciò che mette in pericolo la vita. (“De Cive”, VI,
13):<<al potere di cui non si può dare uno di maggiore, corrisponde un’obbedienza altrettanto
grande (obbedienza senza riserve da parte del suddito)>>. A questo punto l’unico limite
effettivo sembra essere la resistenza dei sudditi ad un comando del sovrano considerato
ingiusto. Ma sulla base della obbedienza obbligatoria dopo il patto, questo limite cade. Ma
anche in Hobbes una teoria dell’abuso di potere; ciò che può indurre i sudditi a sciogliersi dal
dovere di obbedire non è l’abuso ma il non uso, non l’eccesso ma il difetto di potere. La
ragione per cui gli uomini hanno investito di tanto potere un altro uomo è il bisogno di
sicurezza. Se il sovrano che essi hanno istituito non li protegge, essi hanno il diritto di cercarsi
un altro protettore (“Lev.” ).
3) La sovranità è indivisibile: il potere sovrano è indivisibile perché esso non può essere distribuito
tra poteri diversi che si limitino a vicenda. La sovranità deve essere attribuita ad un’unica
persona. Hobbes ha l’unico problema dell’unità del potere (Cfr. J.J.Rousseau, “Contratto
Sociale”, IV, 8), e perciò avverso la disgregazione dello Stato e l’anarchia. Le cause della
dissoluzione della unità statale sono soprattutto due:
a) la divisione dei poteri sovrani all’interno dello Stato.
Il potere sovrano non può essere distribuito tra poteri diversi che si limitano a vicenda, perché
questa divisione non garantirebbe neppure la libertà dei cittadini (se i poteri divisi agissero
d’accordo questa libertà ne soffrirebbe e, se fossero discordi, s’arriverebbe presto alla guerra
civile) (“De Cive”, VII, 4). E’ stata la teoria dei governi misti quella cui si sono appellati i
difensori delle prerogative del Parlamento contro la Corona. Ma per Hobbes essa non garantisce
una maggiore libertà dei cittadini: se i tre organi vanno d’accordo, il loro potere è assoluto
quanto quello di una sola persona; se sono in disaccordo lo Stato non è più Stato ma anarchia.
Fra i poteri del sovrano ci sono “la spada di giustizia” e la “spada della guerra” che devono
essere di una sola persona: il potere di punire presuppone il potere di giudicare la ragione e il
torto, chi ha la spada deve avere la bilancia. Sovrano poi è chi fa le leggi (potere esecutivo;
potere giudiziario e potere legislativo in uno). Il potere sovrano è quindi indivisibile, assoluto ed
irrevocabile. Ma questo non significa che la teoria politica di Hobbes non ponga alcun limite
all’azione dello Stato, che non può comandare, abbiamo visto, di uccidere o ferire se stessi o una
persona cara o di non difendersi o prendere cibo o altra cosa necessaria alla vita; né può
comandargli di confessare un delitto perché nessuno è costretto ad accusare se stesso (“De Cive”,
VI, 13; “Lev:”, 21).
b) la separazione tra potere statale temporale e potere spirituale della Chiesa.
Lo Stato è l’ ”Anima della Comunità” e congloba in sé anche l’autorità religiosa e non può
riconoscere una autorità religiosa indipendente: pertanto Chiesa e Stato coincidono. La diversità
tra Stato e Chiesa è puramente verbale: “La materia dello Stato e della Chiesa è la stessa, sono
cioè gli stessi uomini cristiani e la forma che consiste nel legittimo potere di convocarli è pure la
stessa, dato che i singoli cittadini sono obbligati a recarsi dove lo Statoli convoca. Però si
chiama Stato in quanto consta di uomini e Chiesa in quanto consta di cristiani” (“De Cive”,
XVII, 21). Il problema dei rapporti fra Stato e Chiesa, fra l’autorità civile (che ha la sovranità
sulla materia della pace e del benessere di questa vita) e le autorità spirituali (che hanno il potere
di regolare ciò che riguarda la salvezza dell’anima), si pone laddove i cittadini devono obbedire
ai precetti diversi dalle leggi civili, in base a cui possono addirittura essere indotti a
disobbedirvi, con lo spauracchio delle pene eterne (chi crede che pena e castigo eterni sono più
temibili del premio e castigo terreni può non obbedire alle leggi civili, considerando il potere di
un qualcuno di superiore allo Stato).
Hobbes basa il suo argomento sulle Sacre Scritture:
1. Interpretazione antidogmatica del cristianesimo: tutto ciò che serve per essere cristiani è che
bisogna credere che Gesù Cristo è figlio di Dio ( ciò elimina insidiosi dissensi teologici).
2. L’affermazione che il regno di Dio non è di questo mondo e che Cristo è venuto tra gli
uomini solo per insegnare e predicare non a comandare e ha lasciato all’autorità civile il
potere di comandare o emanare leggi (i precetti del Vangelo rimasero solo precetti fino a che
i potenti li imposero come leggi civili) (“De Cive”, XVII, 11 – 14; XV, 7).
9. John LOCKE fra Giusnaturalismo e costituzionalismo
di P. Armellini
Nel clima delle guerre di religione della Gran Bretagna del XVII secolo l’opera di Locke deve
confrontarsi con un attacco poderoso condotto contro il giusnaturalismo da chi come Filmer ha
rimproverato ad esso il principio dell’eguaglianza e della libertà naturale degli uomini per
riaffermare il diritto divino dei re. La storia costituzionale inglese deve per Locke
fondamentalmente liberarsi di una lettura distorta e forzata, che vede i tre poteri (legislativo,
esecutivo e giudiziariao) rimanere in mano al re, mentre il Parlamento perde le sue prerogative di
Alta corte di giustizia e riunendo le caratteristiche di iurisdictio (amministrazione della giustizia
pronunciata secondo la legge) e gubernaculum (potere regolato dalla consuetudine) distinte dal XV
secolo.
Nato a Wrington nel 1632 da famiglia puritana, J. Locke studia lingue classiche e filosofia
ad Oxford. Legge Cartesio ed è amico T. Sydenham (medico) e R. Boyle (chimico). In un viaggio al
seguito di Sir W.Vane incontra e conosce Schaftesbury (lord Ashley), di cui diventa nel 1667
segretario privato. Vive a lungo a Montpellier e Parigi e poi torna nel 1679 in Inghilterra, mentre il
suo protettore cospira contro Carlo II e la sua restaurazione cattolica. Morto Schaftesbury, emigra in
Olanda con Guglielmo d’Orange e ritorna in Inghilterra con lui diventato poi re d’Inghilterra.
Deluso dal nuovo indirizzo politico della monarchia, declina offerte di incarichi e si rifugia nel
castello di Oates, ospitato da Lady Marsham figlia del filosofo Cudworth. Quivi passa gli ultimi
suoi quattordici anni e muore nel 17041. Le sue opere principali sono Saggio sull’intelletto umano
1 Sulla vita e le opere di John Locke cfr. H.R.F. Bourne, The life of John Locke, 2 voll., London 1876; A. Carlini, La filosofia di G. Locke, Firenze 1928; N. Kemp Smith, John Locke, 1632-1704, Manchester 1933; R.I Aaraon, John Locke, Oxford 1937; M. Cranston, John Locke, a biography, London 1957; A. L. Leroy, Locke, sa vie, son ouvre, avec un exposé de sa philosophie, Paris 1964.
(1690)2, Due trattati sul governo (1690)3, Pensieri sull’educazione (1693), Ragionevolezza del
cristianesimo (1695), e le quattro Lettere sulla tolleranza (1689–1705, ultima incompiuta)4.
Dal punto di vista politico bisogna considerare il contenuto di due opere giovanili, gli Scritti sul
magistrato civile (1660–67) e i Saggi sul diritto di natura (1664), i quali mostrano che la sua
prospettiva liberale, di cui viene considerato padre, è stata la faticosa conquista conseguente ad una
riflessione impegnata su eventi politico–culturali contemporanei. I primi mostrano il suo esordio a
favore della restaurazione stuartiana. Nel 1660 il suo orientamento politico è consolidato in senso
antirivoluzionario e legittimistico. Nel settembre 1659 infatti intrattenendo un rapporto epistolario
con H. Stubbe, il quale difende la vecchia causa rivoluzionaria, identificata con la repubblica e la
politica condotta dall’esercito in nome del popolo e sostiene la tesi dello Stato repubblicano garante
delle libertà e della tolleranza5. Locke invece esprime l’esigenza di vedere come sia possibile ora ad
uomini di diversa professione religiosa vivere in pace sotto il medesimo governo, senza lotte ed
animosità tendere altresì al medesimo interesse civile e giungere infine verso il medesimo fine di
pace e soccorso reciproco6.
La tolleranza è un problema di convivenza civile ma Locke rifiuta la soluzione di un
rafforzamento della libertà religiosa, auspicando anzi l’intervento pacificatore dell’autorità politica
nelle questioni religiose. Ciò appare anche nella prefazione al primo libro Scritto sulla tolleranza.
Locke scrive il primo Scritto sul magistrato civile (’60) in risposta all’opera di E. Bagshaw
intitolata The Great Question concerning Thing Indifferent in Religious Worship, sostenitore della
tesi che nega al magistrato civile il diritto di intervenire in questioni religiose, non avendo esso
nessuna autorità sull’uomo interiore, che deve riconoscere l’unica autorità della parola divina nelle
Scritture. Alla domanda se il magistrato civile possa legittimamente imporre e determinare l’uso di
cose indifferenti in relazione al culto religioso Locke non esita a dare risposta affermativa, poiché la 2 Cfr. J. Locke, Saggio sull’intelletto umano, a cura di M. e N. Abbagnano, Utet, Torino 1971. Per un quadro generale sulla filosofia di Locke si veda: C.A. Viano, John Locke. Dal razionalismo all’illuminismo, Einaudi, Torino 19732; M. Sina, Introduzione a Locke, Laterza, Roma-Bari 1978; F. Pintacuda De Michelis, Locke, Isedi, Milano 1978; F. Fagiani, Nel crepuscolo della probabilità. Ragione ed esperienza nella filosofia sociale di John Locke , Bibliopolis, Napoli 1983; R. Pititto, John Locke, Athena, Napoli 1984; J. W. Yolton, John Locke, Il Mulino, Bologna 1989.3 Cfr. J. Locke, Two Teatises of Government, ed. crit. a cura di P. Laslett, Cambridge 1960, tr. it. Due trattati sul governo, introduzione e cura di L. Pareyson, Utet, Torino 1969. Sul pensiero politico di Locke si consultino le seguenti opere:J. W. Gough, John Locke’s Political philosophy, Oxford 1950; R. Polin, La politique morale de John Locke, Paris 1960; N. Bobbio, Locke e il diritto naturale, Giappichelli, Torino 1963; M. Seliger, The Liberal Politics of J. Locke, London 1968; W. Euchner, Naturrecht und Politik bei John Locke, Frankfurt a. M. 1969, tr.it. La filosofia politica di Locke, Laterza, Roma-Bari 1976; J. Dunn, The political Thought of John Locke, London 1969, tr.it. Il pensiero politico di J. Locke, Il Mulino, Bologna 1982; A. Sabetti, La filosofia politica di John Locke, Liguori, Napoli 1971; N. Matteucci, Introduzione a J. Locke, Antologia degli scritti politici, Il Mulino, Bologna 1980, pp. 7-40; W. Von Leyden, Hobbes e Locke. Libertà e obbligazione politica, Il Mulino, Bologna 1984; P. Farina, Pensare il mondo che cambia. Uno studio su economia e politica in John Locke, Guerini, Milano 1996; C. A. Viano, Il pensiero politico di Locke, Laterza, Bari 1997.4 Cfr. J. Locke, Scritti sulla tolleranza, a cura di D. Marconi, Utet, Torino 1977.5 Cfr. H. Stubbe, An Essay in Defense of Good Old Cause, London 1658.6 J.Locke,
competenza del magistrato civile in tale materia è dimostrata in base a note tesi contrattualistiche:
l’uomo può infatti per contratto trasferire la sua libertà ad altro e può obbedirgli. Nel secondo
Scritto (un trattato latino) Locke ribadisce tale tesi autoritaria del potere politico che, riecheggiando
l’interpretazione hobbesiana, si risolve in giustificazione ideologica della Restaurazione e del
ritorno di Carlo II sul trono degli Stuart. Locke teme essenzialmente le conseguenze del fanatismo
religioso e vede nella dinamica rivoluzionaria il non controllato affermarsi della tendenza centrifuga
delle sette e della mitologia democratico–egalitaria. Il magistrato civile ha perciò per Locke i poteri
idonei a reprimere ogni eventuale attentato di gruppi particolaristici alla saldezza della pace sociale.
Locke vede così nella Restaurazione una garanzia di legalità razionale per la vita associata oltre
l’utilitarismo di Hobbes7.
Rimane però la difficoltà della risoluzione senza residui della razionalità normativa della
prassi politica in esercizio autoritario della sovranità. Il tribunale della ragione respinge il postulato
del diritto divino dei re e al monarca rifiuta ogni aureola di metafisica sacralità. Locke così avverte
la esigenza di razionalizzare più rigorosamente l’esercizio del potere: tenendo conto di Hobbes,
bisogna dire che la teoria del contratto sociale quale fondamento della sovranità è suscettibile di
interpretazioni assolutistiche, democratiche o semplicemente giusnaturalistiche. Locke nei Saggi
sulla legge di natura (‘60-’64)8 sceglie una via moralistico–teologica, centrata sull’idea di un
contesto di leggi naturali razionalmente determinabili e fungenti da criterio assolutamente
normativo e legittimante dell’esercizio del potere. La legge di natura è quel codice universale della
condotta umana da cui trae giustificazione ogni nostra valutazione morale. La legge di natura non
viene conosciuta attraverso qualcosa che è iscritto in noi, o che ci viene tramandato dalla tradizione,
ma viene conosciuta dalla ragione per mezzo dell’esperienza sensoriale. Dalle apparenze della
percezione sensoriale la ragione e la facoltà di argomentare passano successivamente alla nozione
di un artefice della natura. Con l’idea di Dio sorge la nozione di legge naturale che lega
necessariamente tutti gli uomini. La ragione è qui un lume naturale che apprende con una inferenza
immediata, sulla base del materiale del senso, la legge di natura, che è un decreto di Dio. Il lume
della ragione (o della natura) non solo sa che vi è un Dio che è il legislatore supremo, ma conosce
anche le regole più particolari che si possono derivare dalla legge di natura. Ma c’è un sottinteso
politico di questi Saggi: l’idea che la legge naturale, per la sua derivazione divina e la sua universale
determinabilità in termini razionali, non tollera eccezioni nella sua funzione orientativa e normativa,
talché le scelte operative del sovrano ne risultano condizionate non meno delle iniziative private dei
semplici cittadini. Così nel 1664 Locke prende le distanze da ogni interpretazione utilitaristica di
7 A. Baldini, Il pensiero giovanile di J. Locke, Milano 1969.8 Cfr J. Locke, Saggi sulla legge naturale, introduzione di G. Bedeschi, a cura di M. Cristiani, Laterza, Roma-Bari 1973; W. Von Leyden, Introduction to J. Locke, Essays on the Law of Nature, Oxford 1954.
tipo hobbesiano della legge di natura e modera la sua fede assolutistica invocando un limite di
natura etico–teologica per l’esercizio della sovranità . Di qui il suo distacco da Carlo II e dalla
Restaurazione. Rimangono delle difficoltà irrisolte: chi potrebbe assicurare l’osservanza della legge
naturale da parte di un monarca, che non vuole lasciarsi condizionare da quel limite? Siamo in
presenza del problema del controllo del potere. Si tenga conto delle risorte contese tra il re ed il
Parlamento e delle tendenze filocattoliche degli Stuart, che mostrano l’utopismo della tesi sulla
capacità ordinatrice e pacificatrice di una monarchia assolutistica, sempre più estranea ala coscienza
politica di un paese in progresso. L’incontro avvenuto nel 1666 con lord Ashley (candidato al
cancellierato, futuro conte di Schaftesbury) pone Locke anche nella condizione di intuire i limiti e le
insufficienze dell’astratto moralismo dei Saggi del ’64. Ciò è già evidente nel Saggio concernente
la tolleranza del 1667 (uscita postuma), nel quale l’esplicita negazione del diritto divino dei re si
accompagna al riconoscimento della funzione strumentale del potere politico come garante della
pace, del benessere e dei privati interessi. L’autorità dello Stato trova dunque un limite concreto
nella preservazione dei cittadini (anche se mancano qui meccanismi costituzionali atti ad assicurare
un efficace controllo dell’uso di quella autorità). La sfera interiore della coscienza religiosa e quella
mondana della vita pubblica tendono a dissociarsi definitivamente: le opinioni religiose sfuggono
per loro natura alla competenza delle autorità civili e meritano una assoluta e universale tolleranza,
anche se ciò non vale per i papisti e i fanatici).
La finalità del potere politico si fa tutta laica e terrena, esaurendosi nelle pratiche esigenze
organizzative della vita associata. Le differenze tra i due poteri, quello civile e quello ecclesiale,
saranno giustificate dalle differenti e non coincidenti finalità: mondana e politica la finalità dello
Stato, trascendente e religiosa quella della Chiesa, cosìcome viene evidenziato nell’opera Sulla
differenza fra il potere civile e il potere ecclesiastico del 1673-74). Locke si sente libero dalla
necessità di scegliere tra l’illiberale materialismo hobbesiano e lo spiritualismo metafisico dei
Platonici di Cambridge. La indicazione della libertà e dell’interesse dei cittadini come limiti
immanenti dell’autorità dello Stato toglie fondamento ad ogni assolutismo leviatanico, ma dissacra
anche, laicizzandola, la ragione, non più candela del Signore ma semplice organo di orientamento
pragmatico tra le urgenze della vita. Stimolato anche dalle tesi antistuartiane rappresentate dal conte
di Schaftesbury per individuare nel concetto di libero consenso dei cittadini (e nelle tecniche atte ad
accettarlo legalmente) il fondamento della legge civile, Locke vuole liberare la ragione dai vincoli
dell’autorità e del privilegio sociale e apre un discorso politico potenzialmente rivoluzionario
d’ispirazione liberale che prende corpo con i Due Trattati sul Governo civile del 1690 (ma composti
sin dal 1681). Il primo di essi è scritto in polemica con Filmer che ha scritto il Patriarca (1642,
pubblicato postumo nell’82), testo che è divenuto per il suo intransigente assolutismo, motivato con
argomenti di apparente derivazione biblica, il manifesto teorico del risorto autoritarismo stuartiano
e della congiunta battaglia politica del partito tory. Locke ne combatte la tesi centrale di un
assolutismo monarchico di origine patriarcale e di diritto divino, rifacendosi al concetto di stato di
natura anteriore ad ogni strutturazione politica dei rapporti umani e condizionante anzi la
consensuale e contrattuale instaurazione di essi. Alla tesi paternalistica del potere, per cui il potere
sovrano era stato trasmesso da Adamo ai suoi discendenti e quindi ai padri delle famiglie, sicché
anche il potere del monarca non è che una forma del potere paterno, Locke obietta in primo luogo
che il potere paterno è il potere dei due genitori (potere duale) e in secondo luogo che il potere dei
genitori sui figli è un potere temporaneo; inoltre, tale potere, che non nasce ex generatione ma dalla
conservazione dei figli da parte dei genitori, è limitato dal non poterne violare la vita e i possessi.
Locke tenta così di compiere una puntuale confutazione di quelle tesi che tentano di conciliare il
diritto divino col diritto naturale eliminando ogni rinvio all’idea del consenso popolare avvenuto col
ricorso contrattualistico. Tali temi ritornano all’inizio del Secondo Trattato, che poi continua con la
parte positiva della dottrina politica. Nei Saggi sulla legge naturale abbiamo visto identificare la
legge di natura con la legge divina; corrispondentemente l’ordine e il fondamento dell’autorità e del
potere politico vengono riconosciuti nella volontà divina; al tempo stesso Locke già qui riserva agli
uomini la facoltà di scegliere mediante un contratto il depositario dell’investitura divina, che di per
sé è indiretta e impersonale, e affida alla ragione il compito di rivelare e interpretare la legge
divina9. Per Grozio ed Hobbes è la ragione, che indica ciò che è o non è d’accordo con la natura
razionale. Per il Locke dei Saggi è il comando di Dio che la ragione si limita a manifestare, essendo
il limite superiore ad essa (quello inferiore è invece il materiale su cui la ragione deve operare). Nei
Due Trattati questo limite superiore scompare e la legge di natura acquista la sua autonomia, pur
rimanendo il suo limite inferiore, che è il contenuto della esperienza della vita associata degli
uomini.
Successivamente si approfondisce la riflessione in Locke sullo stato di natura. La riflessione
morale e politica di Locke è solidale con la sua filosofia della conoscenza. Egli sostiene la
possibilità di una scienza certa della morale, avendo questa un carattere razionale o dimostrativo
sulla base del fatto che non si può proporre alcuna regola morale di cui non si debba dar ragione;
che la ragione di tali regole dovrebbe essere la loro utilità per la conservazione della società e della
felicità pubblica; che pertanto nella disparità delle regole morali, seguite nei differenti gruppi in cui
l’umanità si divide, occorrerebbe isolare e raccomandare quelle che si rivelano veramente efficienti
a questo scopo10. Inoltre secondo Locke, l’uomo può di fatto giudicare sulla rettitudine o meno delle
proprie azioni in funzione di tre tipi di regole: 1) la legge divina; 2) la legge civile; 3) la legge della 9 J. Locke, Saggi, cit., I.10 Cfr. J. Locke, Saggio sull’intelletto umano, I, 2.
opinione e della reputazione. La legge divina sarebbe la legge promulgata da Dio agli uomini nel
lume naturale o secondo la voce della rivelazione. La legge civile è stata istituita dall’uomo e
dipende dal potere legislativo di ogni Stato politico. La legge d’opinione fissa norme variabili della
virtù e del vizio, seguendo le disposizioni di spirito particolari degli individui che formano la
società11. D’altra parte un fatto primordiale caratterizza l’uomo: la coscienza del proprio potere, che
gli fornisce l’idea della propria libertà. Ora, noi sappiamo che in Locke l’uomo non può avere idee
se non in funzione dei dati della propria esperienza sensibile; perciò anche tutti i suoi principi
morali non possono esistere se non a partire dai dati della propria sensibilità. Locke dice anche che
l’uomo ha la possibilità però di ascoltare in sé e nella natura la voce della ragione, che si manifesta
nell’ordine dei fenomeni naturali. La valutazione del bene è così a un tempo empirica e universale.
Essa dipende infatti sia dai dati sensibili sia dalla libertà di giudizio che riconosce la legge di natura.
In funzione della nozione della esistenza di Dio viene spiegata in effetti la nozione di legge
promulgata da Dio alla ragione dell’uomo12: non si tratta affatto di un qualche principio innato
dell’intelletto, anteriore all’esperienza. Solo sulla base delle idee fornite dalla sensazione e dalla
riflessione l’uomo può darsi una condotta morale, in virtù della sua possibilità di intuizione
razionale e della sua libertà d’azione. L’uomo, così, facendo esperienza della propria libertà, può
scoprire nell’ordine razionale delle sue idee la regola universale del bene. La felicità esiste solo per
l’essere umano cosciente della sua libertà e perseguente nella sua azione il compimento di una legge
di natura, la quale si rivela alla riflessione sull’esperienza. In Locke quindi non c’è più una
giustificazione metafisica a priori della legge di natura; tutt’al più egli crede alla conformità della
esperienza morale alla rivelazione cristiana. Ora, nel Secondo Trattato, intitolato Saggio
concernente la vera origine, estensione e fine del governo civile, Locke definisce la condizione del
potere politico in conformità alla vera nozione dell’uomo come agente morale, e dunque come
essere libero. Esiste una legge di natura che è la ragione stessa in quanto ha per oggetto i rapporti tra
gli uomini e che prescrive la reciprocità perfetta di tali rapporti. Locke, come Hobbes, connette
strettamente questa regola di reciprocità con quella dell’uguaglianza originaria degli uomini; ma, a
differenza di Hobbes, ritiene che questa regola limiti il diritto naturale di ciascuno col pari diritto
degli altri13. Nell’ordine naturale la vita di ogni individuo è un bene proprio, che è importante
conservare; i rapporti tra gli uomini sono governati da un principio di autonomia (assenza di
subordinazione dell’uno rispetto all’altro): la punizione avviene al fine di salvaguardare il bene
fondamentale, la persona umana, o della riparazione dei danni subiti da essa. Lo stato di natura non
si concepisce se non governato da una legge di ragione: “Lo stato di natura è governato dalla legge
11 Cfr. Ib., II, 712Cfr. Ib., IV, 10.13 Cfr. Ib., II, 4.
di natura, che collega tutti; e la ragione, la quale è questa legge, insegna a tutti gli uomini, purché
vogliano consultarla, che, essendo tutti uguali e indipendenti, nessuno deve danneggiare l’altro nella
vita, nella salute, nella libertà e nella proprietà”14. Questa legge di natura vale per tutti gli uomini in
quanto tali (siano o meno cittadini). Locke cita il teologo anglicano R. Hooker con favore per
prendere le distanze da Hobbes quando nega ai rapporti originari umani ogni conflittualità e pone
alla base dell’umano consorzio la legge dell’amore: “Il mio desiderio di essere amato il più
possibile dai miei uguali in natura, mi impone un obbligo naturale di nutrire nei loro riguardi una
affezione del tutto simile”15. Questo appunto vuol dire che lo stato di natura non è svincolato da
ogni legge ma è soggetto alla legge di natura, che obbliga a non distruggere né se stessi né altra
creatura . Norma fondamentale è infatti l’autoconservazione e la conservazione degli altri16. Nello
stato di natura tale legge è la sola valida, sicché la libertà degli uomini consiste in esso nel non
sottostare ad alcuna volontà o autorità altrui ma nel rispettare solo la norma naturale. Neanche in
questo stato la libertà consiste per ciascuno “nel vivere come gli piace”17. Il diritto naturale
dell’uomo è limitato alla propria persona ed è quindi diritto alla vita, alla libertà, e alla proprietà in
quanto prodotta dal proprio lavoro.
Si pone ora il problema di sapere in che modo la legge di natura legittimi la proprietà
ricollegandola alla persona del possessore. Locke, a differenza di Hobbes, colloca la proprietà nello
stato di natura, come Grozio e Pufendorf. Questi però hanno attribuito ad essa un’origine
convenzionale. Locke parte invece dal presupposto ricavato dalle Sacre Scritture che Dio
originariamente ha dato la terra e tutte le cose in comune agli uomini18. È vero che Dio ha dato il
mondo agli uomini in comune, ma egli lo ha dato loro per la loro sussistenza e per il conforto della
loro esistenza. Ogni uomo è proprietario del suo corpo e del proprio lavoro e da ciò Locke deduce la
proprietà privata dei beni materiali; Locke dice che attraverso il lavoro c’è una differenza tra i frutti
comuni e i frutti dei quali si appropria in quanto vi aggiunge qualcosa di più di quel che ha fatto la
natura19. Non è stato necessario un consenso degli altri affinché qualcuno si appropriasse di
qualcosa, perché egli sarebbe morto di fame20. Oltre ai frutti del lavoro, l’uomo acquisisce la
proprietà della terra, recingendola, seminandola, bonificandola, coltivandola e usandone il
prodotto21. La legge dell’appropriazione naturale esclude lo spreco, per cui esistono limiti morali
all’acquisizione della proprietà privata. Infatti devono essere lasciate a disposizione degli altri cose
14 Ib., II, § 6.15 Ib., II, § 5.16 Cfr. Ib., II, 6.17 Ib., II,§ 22.18 Cfr. Ib., II, 25.19Cfr. Ib., II, 27-28.20 Cfr. Ib., II, 28.21Cfr. Ib., II, 32.
sufficienti e buone e nulla deve essere perduto o distrutto di quanto creato da Dio22. Il presupposto
di tale discorso è d’ispirazione cristiana, ma questi limiti sono resi inoperanti da Locke con la
osservazione che vi sarebbe terra sufficiente nel mondo da bastare al doppio d’abitanti “se
l’invenzione della moneta e il tacito accordo degli uomini a porvi valore non avessero introdotto per
consenso più ampi possessi, e il diritto ad averli”23. A partire dunque dal momento in cui il denaro
diviene l’equivalente dei beni consumabili la proprietà si modifica ed esce dai limiti previsti
dall’ordine naturale. L’invenzione e l’uso della moneta giustificano, cioè rendono non solo possibili
ma anche legittimi, possessi più ampi, che cioè vanno al di là di quei giusti limiti determinati dal
consumo necessario alla conservazione. In particolare oro e argento, che sono non deperibili,
possono essere tesaurizzati senza limiti, poiché così nulla si guasta e non si danneggia nessuno; gli
uomini possono così possedere terra e beni molto al di là della loro personale necessità24. Così gli
uomini hanno permesso un possesso della terra sproporzionato e ineguale senza violare la legge
naturale25. Da queste tesi è emersa l’interpretazione di Locke come ideologo della proprietà privata
borghese e dell’accumulazione illimitata di ricchezza. Occorre osservare che Locke si è limitato a
proiettare nello stato di natura un processo economico–sociale effettivo: il sorgere dell’economia
borghese moderna. Non bisogna dimenticare poi che il desiderio che ha portato gli uomini dalla
considerazione del valore d’uso a quello di scambio è spiegato da Locke con una spiegazione
psicologica, cioè con “il desiderio di possedere più di quanto si abbia bisogno” che ha alterato il
valore intrinseco delle cose26. Il denaro permette che questo desiderio sia soddisfatto. Prima del
denaro c’è stato il baratto. Ciò ha fatto dire a Locke che “l’eccedere i limiti della proprietà non sta
nell’estensione del possesso, ma nel fatto che qualcosa vada in rovina inutilizzato nel possesso di
alcuno”27. Ma occorre anche sottolineare la concezione ampia e polisensa della proprietà in Locke,
che non la intende solo in beni mobili ed immobili. Per lui gli uomini si riuniscono in società
politiche “per la mutua conservazione della loro vita, libertà e averi, cose che io nomino con
termine generale, proprietà”28. Non solo averi ma anche vita e libertà sono beni civili. Ora, la
società politica nasce per tutelare proprietà in tutta la vastità dei suoi significati.
Possiamo passare allo stato politico, partendo dal fatto che gli uomini edificano la società
rispettando nel modo più completo la norma fondamentale della legge di natura, quella della
conservazione di sé e degli altri. Gli uomini non sono sufficienti a se stessi e sono perciò spinti a
cercare la società e la comunità con gli altri. E la prima cosa necessaria per una vita conveniente
22 Cfr. Ib., II, 27 e 31.23 Ib., II, 36.24 Cfr. Ib., II, 46.25 Cfr. Ib., II, 50.26 Ib., II, 37.27 Ib., II, 46.28 Ib., II, 123.
alla natura umana è quella di evitare lo stato di guerra29 originato da quegli uomini che “non
sottostanno ai vincoli della comune legge di ragione, e non hanno altra forza che quella della forza e
della violenza”30. Proprio la necessità di evitare la contesa ed il dominio della forza induce gli
uomini a porsi in società abbandonando lo stato di natura. Così essi portano rimedio alle lacune
dello stato naturale, e principalmente all’insicurezza e alla soggettività nell’applicazione della legge
di natura. Lo stato naturale è diventato complesso con la nascita di istituzioni (famiglia, rapporto
padrone–servo) e con lo sviluppo dell’economia diventata mercantile. Lo stato di natura,
inizialmente pacifico, ad un certo punto si altera e degenera in stato di guerra perché in esso
mancano leggi positive ed un giudice che le faccia rispettare, sicché gli uomini devono farsi
giustizia da soli31. Così però la giustizia si trasforma facilmente in abuso e in vendetta. Invece “dove
c’è un’autorità, un potere sulla terra da cui per appello si può ottenere soccorso, li è esclusa la
permanenza dello stato di guerra”32. Gli individui, o la maggior parte di essi, stipulano il patto con
cui si costituisce un potere civile che non toglie agli uomini i diritti di cui godevano in natura tranne
quello di farsi giustizia da sé, giacché, anzi, la giustificazione del potere civile consiste nella sua
efficacia a garantire agli uomini, pacificamente, questi diritti. “Per potere politico intendo il diritto
di far leggi con penalità di morte, e per conseguenza con ogni penalità minore, per il regolamento e
la conservazione della proprietà”33. Il potere politico si distingue da quello dispotico, che è assoluto
e arbitrario e non è conferito dalla natura ma è la conseguenza del fatto che uno aggredisce un altro
mettendone a repentaglio la vita34. Esso non deriva da un contratto. Il patto sociale è così formulato
da Locke: “L’unico modo con cui uno si spoglia della sua libertà naturale e si investe dei vincoli
della società civile, consiste nell’accordarsi con altri uomini per congiungersi e riunirsi in una
comunità, per vivere gli uni con gli altri con comodità, sicurezza e pace, nel sicuro possesso della
proprietà privata, e con una garanzia maggiore contro chi non vi appartenga”35. Inoltre la libertà
dell’uomo nella società politica consiste “nel non sottostare ad altro potere legislativo che a quello
stabilito per consenso né al dominio di altra volontà o alla limitazione di altra legge da quella che
questo potere legislativo stabilirà conformemente alla fiducia riposta in lui”36. In altri termini il
consenso dei cittadini da cui si origina il potere civile fa di questo potere un potere scelto dagli
stessi cittadini e quindi nello stesso tempo un atto e una garanzia di libertà degli stessi cittadini. Ciò
esclude che il contratto, come in Hobbes, formi un potere assoluto od illimitato. In Hobbes tale
contratto viene stipulato fra i singoli (non ancora popolo) a favore del sovrano (non vincolato dal 29 Cfr. Ib., III.30 Ib., II, 16.31 Cfr. Ib., II, 19.32 Ib., II, 21.33 Ib., II, sez. III.34 Cfr. Ib., II, 23-24,172.35 Ib., II, 95.36 Ib., II, 22.
contratto, essendone solo beneficiario); col contratto i singoli cedono tutti i loro diritti, tranne la vita
(che deve essere appunto tutelata dal contratto); pactum unionis (generante lo Stato) e pactum
subjectionis (assoggettamento all’autorità politica) vengono in Hobbes a coincidere. In Locke il
discorso è diverso. L’uomo, che non possiede alcun potere sulla propria vita (che per legge di natura
ha il potere di conservare), non può, con un contratto, rendersi schiavo di un altro e porre se stesso
sotto un potere assoluto che disponga di lui come gli piace. Solo il consenso di coloro che
appartengono alla comunità stabilisce il diritto di quella comunità sui suoi membri; ma questo
consenso, come è un atto di libertà, così è diretto a mantenere o garantire questa libertà stessa e non
può convalidare l’assoggettamento dell’uomo all’incostante, incerta e arbitraria volontà di altri
uomini. Per questo il contratto in Locke è primo luogo un pactum unionis, distinto dal pactum
subjectionis, e i singoli col contratto conservano tutti i loro diritti tranne uno, che è quello di farsi
giustizia da soli. Gli uomini infatti entrano nella società politica per conservare e meglio tutelare,
attraverso giudici imparziali, tutto quello che già avevano nello stato di natura, che per Locke è
essenzialmente sociale e pacifico, e non uno stato di miseria e anarchia come in Hobbes. Inoltre per
Locke il sovrano non può essere legibus solutus, perché se non fosse sottoposto alle leggi, non
sarebbe sottoposto nemmeno al giudizio del giudice, la cui istituzione è il fine principale della
società civile, il sovrano in questo modo resterebbe nello stato di natura e tale fine sarebbe
vanificato completamente, poiché i cittadini non sarebbero tutelati da qualsiasi abuso, da qualunque
parte provenga (compreso il sovrano). Questo è uno dei motivi per cui si è detto che in Locke non
ha grande peso il concetto di sovranità, che invece sarebbe legata alla idea di un potere irresistibile e
incondizionato: in realtà anche Locke ritiene indispensabile la cessione di tutto il potere necessario
per la costituzione della società, il che equivale al potere di conservare e difendere la propria vita,
libertà e beni e quello di giudicare e punire i trasgressori37. Ciò significa che, dopo il patto, è la
comunità ad essere arbitra e, con la nascita del giudice comune, nessun giudizio parziale ci può
essere. Il passaggio alla società civile richiede che ognuno di noi rinunci al diritto di punire i
trasgressori della legge naturale e rimetta questo potere e questo diritto all’autorità civile. Con ciò
gli uomini non cessano di appartenere alla comunità umana: “Coloro che sono riuniti in un solo
corpo e hanno una legge comune stabilita e una magistratura cui appellarsi, insignita dell’autorità di
decidere le controversie che nascono fra di loro, si trovano gli uni con gli altri in società civile”38.
Come si avviene l’organizzazione del potere civile? Quando Locke parla del potere politico,
ricorrono i termini di consenso e di fiducia: “Il potere politico è quel potere che ciascuno,
possedendolo allo stato di natura, ha rimesso nelle mani della società, e, in questa, ai governanti che
la società ha stabilito sopra di sé, con la fiducia, espressa o tacita, che sia impiegato per il suo bene 37 Cfr. Ib., II, 87 e 99.38 Ib., II, 87.
e la conservazione della sua proprietà”. Perciò, una volta passato nelle mani del magistrato, il potere
“non può avere altro fine né altro criterio che quello di conservare i membri di quella società nelle
loro vite, libertà e possessi, e quindi non può avere un potere assoluto e arbitrario sulle loro vite ed
averi”, ma può essere solo il potere di fare leggi che mirino alla conservazione del tutto; “questo
potere trae origine unicamente dal contratto e dall’accordo e dal mutuo consenso di quelli che
costituiscono la comunità”39. È da escludere che il consenso possa essere di tutti, per cui, posto che
l’unanimità è un obiettivo impossibile da raggiungere, l’unico modo realistico per governare una
comunità sulla base del consenso è la “regola della maggioranza”: “la maggioranza ha il diritto di
deliberare e decidere per il resto”40; infatti “poiché ciò che una comunità delibera non è che il
consenso degli individui che la compongono, e poiché a ciò che è un solo corpo è necessario
muovere in un solo modo, è necessario che il corpo muova nel senso in cui lo porta la forza
maggiore, che è il consenso della maggioranza”41; il “consenso della maggioranza” è “l’azione della
totalità”42.
Il potere politico non può essere illimitato. Quattro sono i limiti fissati da Locke. In primo
luogo il potere politico non può avere più diritti di quelli che gli vengono trasmessi; poiché le
obbligazioni della legge di natura non cessano nella società (talvolta diventano anche più coattive);
il fatto che le leggi positive debbano modellarsi su quelle naturali giustifica la forma del
giusnaturalismo lockeano43 (Ib., II, 135). In secondo luogo il potere politico non può governare con
decreti estemporanei ed arbitrari, ma è tenuto a dispensare la giustizia e a decidere intorno ai diritti
dei sudditi con leggi promulgate e fisse e giudici autorizzati e conosciuti; certezza del diritto è
l’eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge (principio di legalità); quindi le leggi promulgate
non devono variare nei casi particolari ma essere uguali per tutti44. In terzo luogo il potere civile non
può togliere una parte anche minima della propria proprietà personale senza il suo consenso; e così
non possono essere imposte tasse senza il consenso del popolo stesso, poiché uno dei fini del potere
civile è la difesa della proprietà, che è diritto naturale dell’uomo; e senza questa limitazione del
potere il godimento della proprietà diventa illusorio45. In ultimo luogo il potere civile “non può
trasferire il potere di fare leggi in altre mani, perché, dal momento che non è un potere delegato dal
popolo, coloro che l’hanno non possono passarlo ad altri”46.
39 Ib., II, 171.40 Ib., II, 95. 41 Ib., II, 96.42 Ib., II, 98.43 Cfr. Ib., II, 135.44 Cfr. Ib., II, § 137.45 Cfr. Ib., II, 138.46 Ib., II, 141.
Vediamo ora quali sono in Locke le funzioni del potere. Il potere politico deve conseguire il
fine della comunità politica, che è quello di determinare come la forza della comunità debba essere
adoperata per conservare la comunità stessa e i suoi membri. Esso risponde alla funzione del potere
legislativo, che perciò incarna, a partire dalla costituzione politica fondamentale, la legge morale in
decisioni generali miranti al bene pubblico (pace, sicurezza e benessere del popolo). Esso è
“supremo” non perché illimitato ma perché è superiore al potere esecutivo. Il primo fa le leggi, il
secondo le esegue, applicando la legge secondo la regola dell’equità e conservando la prerogativa di
poter adottare decisioni particolari a seconda delle circostanze. Le loro funzioni sono nettamente
distinte47; il potere esecutivo è però subordinato al primo.
Il potere esecutivo diventa potere federativo quando è incaricato della salvaguardia della società
politica nei suoi rapporti con l’estero e ha il compito di rappresentare la comunità di fronte ad altre
comunità o ad individui estranei ad essa; perciò ad esso sono devolute le decisioni intorno alla
guerra e alla pace, alle alleanze, alle leghe48. Potere esecutivo e potere federativo sono nelle stesse
mani, perché sono inseparabili. I poteri fondamentali sono però il potere legislativo ed il potere
esecutivo. Se quest’ultimo, che è in possesso della forza della società politica, se ne serve contro il
legislativo, si pone in stato di guerra contro il popolo, che ha il diritto di ristabilire il suo potere
legislativo nell’esercizio del suo potere anche con l’uso della forza49. Ma il popolo conserva, dopo
la costituzione di una società politica, il potere supremo di rimuovere o alterare il potere legislativo.
Questo può essere rimosso quando legifera contro la fiducia del popolo, per esempio quando attenta
(per sconsideratezza, ambizione o corruzione) alla proprietà dei cittadini. La costituzione della
società civile non significa mai affidarsi ciecamente alla volontà assoluta e all’arbitrario dominio di
un altro uomo. Perciò ognuno conserva il diritto di difendersi contro gli stessi legislatori50. Locke ha
pienamente giustificato con ciò il diritto di resistenza contro la tirannide. Il ricorso alla resistenza
attiva e alla forza, contro ogni potere politico che ecceda i suoi limiti e ponga l’arbitrio al posto
della legge, non è ribellione, perché è piuttosto la resistenza contro la ribellione dei governanti alla
legge e alla natura della società, perché cioè non guardano più alle esigenze del bene pubblico 51. Lo
stesso diritto i cittadini conservano di fronte al potere esecutivo, il quale è già subordinato al potere
legislativo e deve rendere conto ad esso dei suoi provvedimenti52.
Contro il diritto di resistenza molti obiettano che esso pone il fondamento del governo nell’instabile
opinione e nell’umore incerto del popolo. Locke ritiene invece che gli uomini non cambiano le loro
47 Cfr. Ivi, §§ 132-150.48 Cfr. Ivi, §§ 145-148.49 Cfr. Ivi, § 155.50 Cfr. Ivi, §§ 149, 222.51 Cfr. Ivi, § 241.52 Cfr. Ivi, § 152.
antiche forme di governo così facilmente (Hobbes dice al contrario proprio che la natura degli
uomini è soggetta a desiderare novità) e difficilmente si convincono ad emendare i difetti della
Costituzione. Errori e leggi ingiuste sono spesso sopportati dal popolo, che si rivolta solo dopo una
lunga serie di abusi, prevaricazioni e inganni53. Con la rivoluzione legittima, il popolo, che possiede
il potere costituente (=capacità di creazione dello Stato ma differenziazione da esso, poiché può
modificarlo se non risponde più alla norma della legge di natura), ritrova il suo potere morale per
intero al fine di dare esecuzione alla legge di natura: “la legge nella sua accezione, non è tanto
costrizione quanto indicazione data a un agente libero e intelligente per il suo proprio interesse. essa
non prescrive nulla che vada oltre l’intenzione del Bene generale di coloro che si trovano ad essere
soggetti alla legge”54.
Desta sorpresa il fatto che Locke non menzioni nella sua teoria dei poteri, quello giudiziario, tanto
più che l’inconveniente più grave dello stato di natura è proprio la mancanza di natura che facciano
osservare le leggi e comminino le giuste pene per la loro infrazione. Non è in realtà
un’incongruenza grave, perché il potere giudiziario è concepito come parte essenziale di quello
legislativo, che ha così due diverse ma inscindibili attività, quella di emanare leggi e quella di farle
applicare: “l’autorità legislativa o suprema non può assumersi il potere di governare con poteri
estemporanei ed arbitrari, ma è tenuta a dispensare la giustizia e a decidere intorno ai diritti dei
sudditi, con leggi promulgate e fisse, e giudici autorizzati e conosciuti”55.
Alla visione di Locke è connaturata la riflessione sulla religione e sulla tolleranza56. Già nel Saggio
sulla tolleranza del 1667 viene chiaramente affermato che esistono sfere di pensiero e di azione in
cui l’individuo non deve subire alcuna limitazione da parte dello Stato, poiché esse non hanno alcun
effetto sulla vita politica e sociale della nazione. Tra queste Locke colloca le opinioni filosofiche e
il culto divino. L’ Epistola sulla tolleranza del 1689 viene pubblicata anonima,ma risulta assai
moderna per la tesi della netta separazione tra Stato e Chiesa per quanto riguarda le finalità, le
funzioni e i poteri che ad essi rispettivamente competono. Lo Stato è un’associazione di individui
che ha come scopo la tutela del diritto naturale alla vita, alla libertà e alla proprietà. La giurisdizione
del magistrato civile non può estendersi a ciò che concerne la salute delle anime, poiché,
consistendo il suo potere nella coercizione, non potrebbe esercitarsi in alcun modo sulla coscienza,
la quale è per se stessa incoercibile. Le questioni religiose non hanno alcuna attinenza con la difesa
di quei diritti, a meno che esse non comportino pratiche nocive per la salute sociale o l’integrità
dello Stato stesso. Perciò Locke esclude dal diritto alla tolleranza due categorie: a) i cattolici
53 Cfr. Ivi, §§ 225-232.54 Ivi, § 57.55 Ivi, § 136.56 Cfr. J. Locke, Lettera sulla tolleranza, La Nuova Italia, Firenze 1961.
(“papisti”) che, aderendo alla Chiesa cattolica, non possono essere tollerati dal magistrato civile in
quanto passano sotto il potere di un altro principe; nella Chiesa il Papa ha infatti sia la qualità di
Capo della Chiesa sia quella di sovrano di uno Stato; i papisti obbediscono ad una autorità politico–
religiosa che è per Locke a sua volta intollerante; b) gli atei, poiché non esistendo per essi alcunché
di sacro, non possono dare alcuna garanzia sui patti e sui giuramenti che assicurano la coesione
dello Stato e l’armonia della società. La Chiesa è invece un’associazione intesa a procurare ai propri
membri la salvezza dell’anima, che, dipendendo da condizioni interiori della coscienza del credente,
non può essere indotta con la forza. Il sacerdote non può richiedere l’intervento del magistrato per
realizzare con la coazione ciò che non riesce a ottenere con le armi della parola e della convinzione.
La Chiesa può legittimamente espellere dal proprio seno mediante scomunica coloro che non
condividono i dogmi e i riti che essa propone come mezzi di salvezza: ma lo scomunicato non deve
assolutamente perdere i diritti civili di cui gode come membro dello Stato.
La tolleranza nella Ragionevolezza del cristiano, scritto nel 169557, è considerata alla luce del più
vasto problema del rapporto tra religione e ragione. Ridotto alla sua struttura essenziale, il
cristianesimo si limita alla fede nell’esistenza di Dio, al riconoscimento della funzione salvifica del
Cristo come Messia e alla predicazione di alcuni insegnamenti morali fondamentali. Considerata
sotto questa luce, la religione cristiana non solo non appare contraria alla ragione, ma rivela la sua
intrinseca ragionevolezza poiché non fa che rivestire con la forza della Rivelazione contenuti etico–
religiosi cui tutti potrebbero accedere con il solo ausilio della ragione E’ la posizione di un deismo
moderato. Infatti Locke non rifiuta ogni forma di religione positiva (come i deisti posteriori) cui
viene generalmente ridotta una religione razionale o naturale. Nella religione cristiana ragione e
rivelazione camminano di pari passo. Per questo l’adesione ai singoli credi o ai singoli riti delle
varie sette cristiane (che interpretano la dottrina cristiana in dettagli che vanno al di là delle verità
fondamentali) non può essere viziata dal fanatismo di chi crede di essere egli solo nella verità, ma
deve essere animata dallo Spirito di tolleranza di chi si affida alla forza dell’argomentazione
razionale. La ragione serve non a raggiungere la verità, ma a togliere ostacoli per avvicinarsi ad
essa. Il fanatismo è così il maggiore ostacolo sia nelle questioni religiose che in quelle politiche.
10. G. B. Vico fra storia e diritto(Napoli 1668 – 1744)
57 J. Locke, Ragionevolezza del cristianesimo (1795), a cura di A. Sabetti, La Nuova Italia, Firenze 1979.
Di P. Armellini
La vita.
Figlio di un poverissimo libraio con altri 7 figli, ha avuto una infanzia funesta da un grave incidente
al cranio. Studi quasi da autodidatta lo condussero appena diciottenne a difendere il padre in una
causa forense, in cui però non si sente portato. Accetta con gioia di educare i figli del marchese
Rocca (1686 – 1695). Ha contatti col mondo culturale napoletano, con i nuovi eclettici, i rinnovatori
del cartesianesimo, gli scettici libertini, i gasseudiani, i pensatori del naturalismo rinascimentale, i
galileiani. Legge Lucrezio di cui è riflesso la canzone “Affetti di un disperato” (1693). Nel 1699
vince la cattedra di eloquenza nell’università di Napoli; si sposa ed ha otto figli. In una esistenza
tribolata porta avanti il colloquio con i “Quattro autori” (Platone, Tacito, Bacone e Grozio). Scrive
le “Orazioni inaugurali” tra cui “De nostri temporis studiorum ratione” (1708). Importante è “De
antiquissima italorum sapientia” (1710). Fra il 1717 e il 1732 si hanno gli anni più fecondi: la
prima “Scienza Nuova” (1725), l’ “Autobiografia” (1728), la seconda “Scienza Nuova”(1725).
Diventato storiografo regio muore nel 1744.
Le opere.
Le “Orazioni inaugurali”.
Le sei “Orazioni inaugurali” (1699 – 1706). Polemica antirazionalista, dove accanto a
riconoscimenti all’atonismo, e a Cartesio, si affaccia già la polemica contro la pretesa di una scienza
matematizzante della natura. La polemica si fa più forte con l’orazione “ De nostri temporis
studiorum ratione” (1708). Contro il razionalismo cartesiano Vico difende i diritti della fantasia e
della memoria, senza le quali non è possibile neanche la poesia; rivendica il valore della retorica e
dell’eloquenza; contesta l’idea di un’unicità del metodo e della ricerca degli studi; sostiene la
peculiarità ella scienza morale e politica, che, presupponendo il libero arbitrio dell’uomo, non è
suscettibile di certezza assoluta. Vico quindi ritiene impossibile la pretesa di ridurre ogni
conoscenza all’evidenza razionale poiché vi sono certezze umane che non si lasciano ricondurre ad
essa, cioè alla necessità della dimostrazione propria della ragione geometrica. Egli difende
l’autonomia del certo di fronte al vero.
Contro l’apriorismo Vico si richiama a F.Bacone il quale gli avrebbe dato l’idea della complessità e
ricchezza dell’universo culturale e dell’esigenza di scoprire le leggi di questo universo. Accanto a
lui, fra i suoi “autori”, occorre porre Platone, il filosofo dell’uomo quale deve essere, e Tacito, lo
storico dell’uomo qual è. Più tardi aggiungerà Grozio che l’avrebbe indirizzato a capire le leggi del
mondo degli uomini (v. “Autobiografia”). Questo periodo si conclude con l’opera “De
antiquissima Italorum sapientia” (1710) dove si propone di rintracciare, attraverso l’analisi
etimologica di alcune parole dotte della lingua latina, considerate come relitti di un’età tramontata,
la sapienza filosofica dei primi abitanti dell’Italia. In realtà egli finisce per attribuire a questi antichi
popoli le sue teorie, fra cui in particolare la dottrina dell'equivalenza del vero col fatto, in base al
quale criterio si sostiene che solo Dio ha conoscenza piena della realtà, perché si può conoscere con
verità soltanto ciò di cui si è autori. Questo criterio Vico lo applicherà originalmente alla storia
umana. Antitesi quindi tra conoscenza divina (conoscenza perfetta risultante dal possesso di tutti gli
elementi che costituiscono l’oggetto) e conoscenza umana (l’andare raccogliendo fuori di sé alcuni
degli elementi costitutivi dell’oggetto). Differenza quindi tra l’intendere (intelligere) e pensare
(cogitare). La ragione, che è l’organo dell’intendere, appartiene veramente a Dio, mentre l’uomo ne
partecipa soltanto. Dunque Dio e l’uomo possono conoscere in verità solo ciò che fanno: “verum et
factum convertuntur”. Ma il fare di Dio è creazione di un oggetto reale; il fare umano è creazione di
un oggetto fittizio, che l’uomo opera raccogliendo al di fuori di sé, per via di astrazione, gli
elementi del suo conoscere. In Dio le cose vivono, nell’uomo periscono (“De antiq.”,1,1). La
conoscenza umana nasce così da un difetto della mente umana cioè dal fatto che essa non contiene
in sé gli elementi da cui le cose risultano e non li contiene perché le cose sono fuori di essa. Questo
difetto tuttavia viene convertito in vantaggio giacché l’uomo si procura mediante l’astrazione gli
elementi delle cose che originariamente non possiede e dei quali poi si serve per ricostruire le cose
stesse in immagine.
Posto dunque il principio che si può conoscere solo quando si fa, l’uomo non può conoscere il
mondo della natura che, essendo creato da Dio, può essere oggetto solo della conoscenza divina.
Con verità si può conoscere il mondo della matematica che è un mondo di astrazioni create
dall’uomo.
L’uomo non può conoscere neppure il proprio essere la propria realtà metafisica. Il torto di Cartesio
è stato quello appunto di averlo creduto possibile. Il cogito è la conoscenza del proprio essere, non
la scienza di esso, del proprio pensare. La coscienza può essere propria anche dell’ignorante
(d’altronde nessuno scettico dubita della coscienza della propria esistenza); la scienza è la
conoscenza vera fondata sulle cause. Ora, l’uomo non conosce la causa del proprio essere perché
non è egli stesso questa causa: egli non si crea da sé. Il cogito cartesiano sarebbe principio di
scienza solo nel caso che il mio pensiero fosse causa della mia esistenza: il che non è, giacché io
sono composto di mente e di corpo e il pensiero non è causa del corpo. E non è neppure causa della
mente. Se fossi soltanto corpo, non penserei; se fossi soltanto mente, neppure penserei perché avrei,
come Dio, l’intelligenza: l’unione del corpo e della mente è dunque la causa del pensiero. E il
pensiero è solo un segno e non la causa del fatto che io sono mente (Ib.,1,3). Vico osserva che
Cartesio avrebbe dovuto dire non già <<io penso dunque sono>>, ma <<io penso dunque esisto>>.
L’esistenza è il modo d’essere proprio della creatura: significa esserci o esser sorto o star sopra e
suppone la sostanza, vale a dire ciò che la sostiene e ne racchiude l’essenza (“Prima risp. Al Giorn.
Dei Lett.”, § 3). Non si ha quindi scienza del proprio pensare perché si ignora in qual modo il
pensiero si produca.
Il criterio sul quale fondare la ragione deve invece dunque essere individuato sulla base della
distinzione fra il vero e il fatto e della successiva conversione dal vero col fatto. Ciò significa che si
può avere una vera scienza solo delle cose che facciamo ed essa deve preoccuparsi di individuare il
modo, la guisa onde le cose che intendiamo conoscere si generano. Solo Dio ha vera scienza della
natura poiché l’ha creata; l’uomo non ha fatto la natura e ne può avere conoscenza limitata, mentre
ha piena conoscenza della matematica e della geometria i cui principi e simboli sono fatti dalla
mente umana.
Ora si tratta di indicare come avviene la conversione del verum factum, se è una operazione mentale
oppure si realizza nel fare, nella pratica attività degli uomini. La scienza deve riferirsi alle cose
umane prodotte dall’attività dell’uomo. Vico riafferma spesso il fondamento metafisico del vero,
della giustizia, del diritto, dell’equità che derivano tutti da Dio e ritornano a lui, perché per lui è la
Provvidenza divina e costituisce il presupposto metafisico che consente agli uomini di fare la storia.
Ma da questo ordine ideale Vico non deduce classicamente i principi dell’ordine storico – politico.
Gli interessa invece il processo di formazione dove si converte vero e fatto. Fatto è tutto ciò che
testimonia l’attività degli uomini: la scienza dei fatti comprende tutto il campo delle discipline
umanistiche (filologia) contrapposto alla filosofia come scienza del vero. Il fatto certifica l’attività
dell’uomo. Ora si tratta di cogliere nel fatto ciò che contiene il vero e lo <<accerta>>. Quando
l’uomo non è in grado di conoscere il vero si attiene al certo, per essere sicuro di ciò che fa. E
dall’incertezza l’arbitrio umano ci si toglie grazie ai precetti del senso comune, espresso in un
popolo, un gruppo sociale, una nazione, che è la prima certificazione del vero. Solo dopo un lungo
periodo gli uomini considerano il vero con la ragione. Il certo è dunque l’autorità della Tradizione.
È sul verisimile infatti che si fondano le manifestazioni umane fondamentali come la retorica, la
poesia, la storia, la prudenza, non su verità geometriche.
Il verisimile è la verità problematica, ciò che sta in mezzo tra il vero e il falso e non implica una
garanzia infallibile di verità. Il verisimile è la verità umana per eccellenza. È il probabile
fondamento della metafisica poiché essa non è servita ad altro che a fare nazioni deste, acute,
riflessive e gli uomini ingegnosi, magnanimi, pronti. Ricondurre la filosofia alla verità dimostrativa
matematica è causa di dubbio e di disordine. Per questo alle ragioni cartesiane Vico oppone
l’ingegno, alla critica la topica.
Il certo discende dalla volontà sicura dei fini che vuole perseguire e si identifica coi modi che
rendono sicura la volontà. Essa è l’autorità. Ora, non sussiste contrapposizione tra vero e certo
(ragione che rende possibile la conoscenza del vero e autorità) poiché il certo è parte del vero,
precisamente quella che può essere appresa dall’uomo nelle condizioni i cui si trova. La ragione si
manifesta nell’uomo dopo un lungo periodo e inoltre non perviene ad una conoscenza esaustiva del
vero per cui deve sempre attenersi al certo.
“La Scienza Nuova” (1725 – 1730 – 1744)
L’opera consta di cinque libri, preceduta da una premessa illustrativa (“Idea dell’opera”).
Primo libro: “Dello stabilimento dei principi”.
Secondo libro: “Della sapienza poetica”.
Terzo libro: “Della discoverta del vero Omero”.
Quarto libro: “Del discorso che fanno le nazioni”.
Quinto libro: “Del discorso delle cose umane nel risurgere che fanno le nazioni”.
Abbiamo finora visto riconoscere alla conoscenza la capacità di investigare un certo ordine di realtà
(la matematica) ma non altri. Ora nella “S.N.” riconoscere come oggetto proprio della conoscenza
umana il mondo della storia, dove l’uomo non è sostanza fisica e metafisica, ma prodotto della sua
propria azione, i cui principi possono essere cercati nell’uomo stesso.
La scienza nuova intende instaurare un’indagine del mondo storico diretta a rintracciare l’ordine, le
leggi di questo mondo. Essa è nuova solo come riflessione sulla storia. Ma nello stesso tempo è
antichissima in quanto nata con l’uomo e la vita associata e cominciò con il pensiero umano e non
quando i filosofi cominciarono a riflettere sulle cose umane. In ciò si forma l’umanità e l’uomo nel
suo proprio essere d’uomo, poiché la riflessione accompagna tutta la storia umana e in essa si
verifica l’identità del vero e del fatto nel senso che l’uomo che pensa la storia è colui che la fa. La
storia non è un succedersi slegato di avvenimenti, ma ha in sé un ordine fondamentale, al quale lo
svolgersi degli avvenimenti tende o accenna come al suo significato finale. Può assurgere alla
dignità di scienza come unità di certo (filologia) e vero (filosofia) cioè è insieme inveramento del
certo (particolare) e accertamento del vero (universale). In questo senso la storia non è
insignificante erudizione né un riempirsi di anacronistici arbitrari significati. Occorre cioè
abbandonare il dualismo tradizionale tra filosofia e filologia, ossia tra la conoscenza del vero e di
ciò che è accertabile di fatto sul passato. I principi della nuova scienza si trovano nella natura della
nostra mente di uomini, comune a tutti. Nella mente umana ciò che è chiaro è che in essa la ragione
si sviluppa da ultimo, dopo lo sviluppo del senso e poi della fantasia. Vico così proietta questo
schema della psicologia individuale, sulla storia dell’umanità: gli uomini prima sentono senza
avvertire, poi avvertono con animo perturbato e commosso, poi infine riflettono con mente pura. Si
hanno così tre età, in cui passano tutte le nazioni: età degli dei (miti religiosi primitivi), l’età degli
eroi o del dominio signorile (i poemi omerici) e infine l’età degli uomini (pensiero filosofico e
codificazioni legislative).
Vico rompe così con la tradizione ermetica che interpretava i miti in chiave allegorica, mentre per
lui essi rappresentano la parte fondamentale di ogni cultura primitiva, manifestazione di una
fantasia che somiglia a quella dominante ancora nei bambini. Contro la comprensione di questa
sapienza poetica si è opposta la baria dei dotti e quella delle nazioni, i primi desiderosi di riportare il
più indietro possibile nel tempo le proprie dottrine, le seconde la propria civiltà. Occorre invece
riconoscere l’autonomia della sapienza poetica e rinunciare a giudicare antistoricamente le credenze
più antiche alla luce del pensiero razionale, sulla base della civiltà moderna. È quindi da evitare sia
l’illusione di ritrovare una sapienza riposta dietro la lettera delle antiche favole ma anche il
disprezzo razionalistico per le superstizioni arcaiche (le fonti delle tre età sono Terenzio e Platone).
Ora, se per gli antichi la successione delle età è un ordine di decadenza e di regresso (la perfezione è
all’inizio), per Vico la successione è un ordine progressivo. Se la storia delle umane idee, come
storia ideale eterna, è ciò su cui procede la metafisica della mente umana, essa è la determinazione
dello sviluppo umano dalle rozze origini fino alla ragione tutta dispiegata.
Il punto di partenza della storia e della meditazione storica di Vico è la situazione originaria
dell’uomo dopo il peccato originale, dopo il quale desidera il soccorso, che la natura non può dargli,
da una cosa superiore, Dio. L’uomo quindi tende ad uscire dal suo stato di caduta per muovere
verso un ordine divino e perciò compie uno sforzo o conato per sollevarsi dal disordine degli
impulsi primitivi. La filosofia lo aiuta in questo sforzo mostrandogli come egli deve essere (la rep.
Di Pl. Contro la feccia di Romolo, termine ed inizio della storia).
La scienza della storia è allora teologia civile e ragionata della Provvidenza divina, cioè la
dimostrazione di un ordine provvidenziale: l’uomo, nel suo tentativo di sollevarsi dalla caduta, si
muove nel tempo ma tende ad un ordine universale ed eterno, il quale si viene chiarendo come meta
finale, anche senza o contro il proponimento della comunità umana, come “gran città del genere
umano”, che è la comunità umana nel suo ideale, la vita associata come deve essere nella sua
realizzazione finale. È alla sua luce che la successione temporale acquista significato. Alla nuda
constatazione del fatto succede la valutazione (al “fu, è, sarà” il “dovette, deve, dovrà”), la necessità
ideale per la quale, tra le possibili direzioni che il corso storico poteva assumere, una solo doveva
assumere il corso cronologico per realizzare l’ordine della comunità ideale. Questa necessità ideale
non è però necessità di fatto che annulla le alternative. La storia ideale eterna non si identifica mai
con la storia nel tempo. Questa corre su quella, ed è la struttura che regge la storia temporanea e la
norma per giudicarla. È il dover essere della storia nel tempo, che non annulla la problematicità
della storia, che può anche non adeguarsi e non raggiungere il termine. La storia ideale eterna è
quindi trascendente rispetto alla storia particolare delle nazioni, che non esclude il rapporto ma anzi
lo implica.
Platone è così l’antecedente del suo pensiero in quanto la repubbl. Plat. È la norma per la
costituzione di uno Stato ideale. Ma Vico gli rimprovera di non aver considerato lo stato di caduta
originario (ha fissato lo sguardo sulla meta finale della storia non sul suo inizio). Occorre quindi
integrarne l’insegnamento con Tacito (l’uomo qual è) per poi considerare l’intero sviluppo della
storia come il progresso che va dall’umanità decaduta e dispersa all’umanità restituita all’ordine
della “ragione tutta spiegata”.
Vico ritiene indissolubilmente solidali Rivelazione e ragione e afferma che la “S.N.” dimostra la
verità della Bibbia poiché solo l’ipotesi dell’uomo ingiusto non per natura ma per natura caduta o
debole permette la comprensione della storia. Il suo “bestione” primitivo è diverso da quello di
Lucrezio, Hobbes, Grozio, Selden, Pufendorf, che, sulla base di una gnoseologia sensista o di una
metafisica materialistica, lo pervertono radicalmente. Solo l’ipotesi di un uomo inizialmente buono
poi per sua colpa corrotto, spiega la storia. Vico infatti nega il passaggio dal non-uomo all’uomo.
Anche l’umanità primitiva, di robustissimi sensi, possiede la ragione, anche se stordita e stupida. I
termini del problema non sono quelli del passaggio dal non- uomo all’uomo, ma quello di come
l’Adamo decaduto (gli uomini rozzi tutto senso e passione) possa aver potuto dare origine alla
società e alla civiltà, che neppure poi riesce a conservare.
Il rapporto tra storia nel tempo e quella ideale eterna è rapporto fra essa e la totalità della norma ed è
proprio per questo che ogni età ha la possibilità di muoversi e non morire e sfuggire la disperazione.
La storia ideale eterna in quanto eterna non ha parti e non si distribuisce nella successione
cronologica. È norma trascendente divina che sorregge l’uomo. Ciò che costituisce la differenza tra
le varie fasi della storia è nella modalità del rapporto, secondo il senso, la fantasia, la ragione.
Le tre età della storia.
La prima sapienza del genere umano è stata una sapienza poetica. Gli uomini che hanno fondato la
società erano stupidi insensati e orribili bestioni, privi di legge e di linguaggio articolato, senza
potere di riflessione, ma dotati di forti sensi e robusta fantasia. Le forze naturali che li minacciavano
erano per loro divinità terribili, per timore delle quali cominciarono a frenare gli impulsi bestiali,
creando la famiglia e i primi ordini civili. Si costituirono quelle che Vico chiama “repubbliche
monastiche” dominate dalla potestà paterna e fondate sul timore di Dio (età degli dei). L’uomo
primitivo non è giusnaturalisticamente uomo di ragione tutto dispiegato e non si distingue dalle
bestie. In lui la ragione è sprofondata nel corpo e nell’istinto. La genesi del movimento attivo (per
cui l’uomo non subisce con passività gli impulsi esterni, ciò che lo distingue dalle cose e dai bruti) è
connessa a due modi di avvertire, conoscere, la realtà, la religione e la fantasia. La prima esperienza
religiosa è il terrore religioso che l’uomo prova in occasione di un fenomeno naturale, il fulmine.
Da ciò egli si figura il cielo come un essere animato che tutto domina e che col fulmine comanda.
L’uomo cerca di interpretare queste manifestazioni del cielo per conformarsi alla sua volontà. Al
terrore religioso è connesso il pudore (che lo sottrae alla promiscuità e lo lega alla donna, da cui il
matrimonio). Un altro sentimento generato è la pietà per i defunti. Divinazioni, matrimoni e
sepoltura sono le esperienze originarie con cui l’uomo si umanizza. Si forma così la prima autorità
che è quella monastica dove l’uomo nello stato di natura vive solo con la compagna e i figli e non
ha sopra di sé che Dio.
Incominciata la vita delle città, le repubbliche si fondarono invece sulla classe aristocratica, che
coltivava le virtù eroiche della pietà, della prudenza, della temperanza, della fortezza, e della
magnanimità. Gli uomini facevano derivare ancora la propria nobiltà da Dio, ancora la fantasia
prevaleva sulla riflessione (età degli eroi). L’evoluzione è promossa dall’esigenza di procurarsi
mezzi di sussistenza più abbondanti di quelli offerti dalla natura per cui occorre coltivare la terra cui
si dedicano le genti maggiori. Vi si contrappongono le genti minori, che continuano la vita ferina.
Questi, affamati, invadono i campi coltivati, ma debellati dalle genti maggiori, alcuni mantengono
la vita se coltivano la terra (servo – padrone) e perciò vengono tutelati dalle genti maggiori. Il primo
nucleo politico è allora genitori, figli e famoli, non uniti quindi dal sangue ma dal dominio del pater
familias. Si ha la distinzione, naturalmente fondata, fra nobili (che hanno legittime nozze e auspici)
e plebei che ritengono i nobili nati da dei. Crescono in numero i plebei e perdono in austerità ed
onestà i nobili (grazie alla riflessione e alla malizia) e hanno inizio le contese, con il rapporto di
tutela che si rivela asservimento, in cui i famoli si persuadono della vanità della distinzione e
lottano perché siano loro partecipati auspici e nozze. I nobili si difendono stringendosi insieme
senati eroici e repubbliche aristocratiche, che sono le prime forme politiche di convivenza. In questo
periodo gli uomini si levano dallo stadio di mutismo e fondano la lingua articolata che come
espressione di mente sensitivo – fantastico dovette esser poetica. La poesia è divina (il trascendente,
visto dalla fantasia, fa vedere in ogni corpo la divinità) ed è creatrice (anche se solo di immagini
corpulente, che perturbano lo spirito e creano emozioni violente, non di cose reali). Il linguaggio
non è arbitrario ma nasce dalla esigenza degli uomini di intendersi. La poesia non è sapienza riposta
(verità intellettuali camuffate) ma un modo autonomo di intendere la verità e del trascendente.
Nell’opera di Omero Vico ha visto l’opera anonima e collettiva del popolo greco dell’età eroica
(miti e racconti favolosi di verità che la riflessione non era capace di chiarire). Ma la poesia si
spegne quando prevale la riflessione (gli uomini che si allontanano da ciò che è sensibile e
corpulento, si staccano dalla fantasia per esprimersi e formulare concetti universali).
Per quanto riguarda il diritto. Dopo il susseguirsi degli ammutinamenti dei servi della gleba contro i
nobili, questi si riuniscono in ordini e nominano un re le prime città sono aristocratiche. Esse
devono reperire i mozzi di sussistenza dal lavoro dei campi, affidato alle genti minori, a cui viene
concesso prima il dominio bonitario dei campi, sempre revocabile (1a legge agraria). Gli ordini
aristocratici sono chiusi e la plebe ottiene l’istituzione dei tribuni della plebe. Con le XII Tavole i
plebei ottengono il diritto quiritario la proprietà piena dei nobili (2a vittoria). Ma questa dopo la
morte del proprietario tornava all’originario concedente aristocratico, poiché, non partecipando agli
auspici (culto religioso) i plebei non potevano sposarsi e possedere prole. Con gli auspici essi
ottennero tutto ciò che riguardava la ragione privata e dopo conseguirono anche quella pubblica con
cui si conclude la parificazione tra plebe e nobiltà Nasce l’età degli uomini col passaggio dalla
metafisica fantastica e sentita a quella ragionata. Il rapporto con l’ordine provvidenziale della storia
eterna assume la forma della riflessione, che mira a rintracciare l’idea del bene sulla quale tutti gli
uomini debbono accordarsi. Nasce la filosofia platonica, intesa a trovare nel mondo delle idee la
conciliazione degli interessi privati e il criterio di una comune giustizia.
Con la nascita della repubblica democratica prende così inizio quella età degli uomini in cui la
ragione è tutta dispiegata. La forma di convivenza non è di natura sensitivo – fantastica ma di natura
riflessivo – razionale, poiché la vita si viene affinando con la penetrazione della ragione nel
significato di cerimonie, riti, leggi, prescrizioni. Cessa il formalismo giuridico poiché alla
giurisprudenza severa succeda quella benigna; le leggi si moltiplicano al fine di adeguarsi alla
varietà dei casi. Il dominio politico non è più in mano ai nobili, sulla base di una distinzione di
natura inaccessibile, ma è di tutti sulla base del merito e del censo, accessibile e stimolatrice delle
energie di tutti. Al senato compete la tutela del popolo. È la libertà il principio su cui si fonda tutta
la costituzione ed è il risultato di un lungo processo storico in cui la ragione storica delle classi
dominanti si venne a poco a poco umanizzando, sotto le richieste della plebe. La legge e il diritto
difendono tutti i cittadini. Si perviene ad una reale compartecipazione fra politica, leggi e ragione in
cui si esplica nella filosofia e nelle scienze. Con ciò si forma lo Stato come terza universitas iuris (la
prima è l’uomo, la seconda il pater familias). In esso l’individuo vive nella sua compiuta
dimensione ed esiste una reale comunione di vita fra gli individui che partecipano a tutte le forme di
vita associata. In esso ragione volontà e potere si convertono l’una nell’altra. La storia ideale eterna
è norma dello sviluppo delle comunità che si evolvono. Vico considera la storia temporale sempre
in rapporto ad essa.
La provvidenza.
Sono solo gli uomini a creare le nazioni. Ma questo mondo non si intende senza l’ordine
provvidenziale. Sono monastici o solitari i filosofi che rendono impossibile intendere il mondo della
storia. Epicuro Hobbes e Machiavelli sostengono che le azioni umane avvengono a caso; gli stoici e
Spinoza invece ammettono il fatto. Caso o fatto rendono impossibile la storia perché l’uno esclude
l’ordine, l’altro la libertà. L’ordine provvidenziale garantisce l’uno e l’altra. Il mondo delle nazioni
è uscito da una mente diversa, alle volte contraria, sempre superiore ai fini particolari degli uomini,
per conservarne la generazione. Per es. dalla libidine sono nati matrimoni e famiglie;
dall’ambizione dei capi le città; dall’abuso della libertà dei nobili sopra i plebei le leggi e la libertà
popolare. La provvidenza rivolge ai fini della conservazione e della giustizia della società umana le
azioni e gli impulsi apparentemente più rovinosi (eterogenesi dei fini).
La provvidenza non interviene dall’esterno, miracolosamente, per correggere gli smarrimenti
dell’uomo. Ma la storia ideale eterna non è immanente a quella temporale. Nell’uno e nell’altro
caso la protagonista della storia sarebbe la provvidenza che così sarebbe la necessità razionale
intrinseca agli avvenimenti storici. Il riprodursi delle storie delle nazioni sarebbe uniforme.
La trascendenza è il significato ultimo della storia, al di là degli eventi particolari, di cui sono autori
gli uomini. Essa è norma ideale cui il corso degli eventi non si adegua mai perfettamente. Ma la
provvidenza è presente all’uomo, che solo in rapporto ad essa può sollevarsi dalla caduta e fondare
il mondo della storia (come sapienza poetica, riflessa e filosofica). La sapienza umana è
essenzialmente religiosa perché si riferisce al divino. Vico difende la funzione civile della religione
e se la scienza nuova ha come oggetto la trascendenza, è teologia civile e ragionata della
provvidenza divina , se ha per oggetto la presenza della norma ideale della storia è storia delle
umane idee.
11. Il costituzionalismo di Montesquieu fra forme di
governo e separazione dei poteri di P. Armellini
(Montesquieu Nasce a Bordeaux 1689 – Muore a Parigi 1755)
Vita e opere:
Charles- Louis de Secondat, barone di Montesquieu nasce presso Bordeaux nel 1689 da una ricca
famiglia della nobiltà di toga. Dopo studi di diritto a Bordeaux e Parigi, diventa magistrato, ma
vende la carica nel 1725. Si occupa di divulgazione scientifica nella convinzione che la conoscenza
sconfigga il pregiudizio. Leggendo Montaigne, assume una forma di scetticismo antidogmatico
associato ad un relativismo culturale. Nel 1721 pubblica le “Lettere persiane” in cui, ispirandosi
alla moda della letteratura esotica, svolge un’acuta critica dell’organizzazione e dei costumi politici
francesi. Nel 1728 è ammesso all’Académia française e inizia a viaggiare. Se nel saggio “Sul
governo civile” si trova già la teoria del potere limitato dalle leggi fondamentali del bene pubblico e
della libertà privata, e la ripartizione delle funzioni del potere come garanzia della libertà,
dichiarandosi discepolo di Locke, in altri scritti si dedica alla osservazione dei costumi e delle
istituzioni europee che conosce attraverso numerosi viaggi. Studia anche le popolazioni antiche ed
offre un’ampia raccolta di resoconti di viaggi in Asia, Africa e America. L’Inghilterra rimane però
per lui la patria delle libertà individuali e politiche, dello stato di diritto della tolleranza e della
divisione dei poteri. Ad Amsterdam nel 1734 pubblica le “Considerazione sulle cause della
grandezza dei romani e della loro decadenza”, in cui rintraccia le cause dell’ascesa romana nelle
virtù civili e militari e quelle della loro decadenza nell’estensione eccessiva raggiunta dall’impero e
nella corruzione, cioè in cause naturali ed umane. Diventa cieco, non rallenta l’attività di studioso e
pubblica nel 1748 lo “Spirito delle leggi” che gli da rapida fama in Europa ed in America. Nel 1750
seguirà la “Difesa dello Spirito delle leggi” con gli “Eclaircissements”. È andato perduto il
“Trattato dei doveri” del 1725, di cui rimangono un riassunto e dei frammenti. Di rilievo è
l’insieme dei “Pensieri” lasciati manoscritti. Si ricorda anche il “Tempio di Cuido” del 1725.
Già nelle “Lettere persiane” è possibile rintracciare l’atteggiamento mentale presente nell’analisi
sociale di Montesquieu. Fondendo il romanzo epistolare e la letteratura di viaggio, egli inverte
originalmente l’osservatore e l’osservato: infatti a viaggiare è il ricco persiano Usbeck con il suo
accompagnatore Rica che narrano il loro viaggio in Europa vista come mondo esotico che desta
stupore. L’artificio filosofico – letterario di osservatori provenienti da un altro mondo culturale,
l’orientale Persia, relativizzando le culture, rende più oggettivo il punto di vista. Mostrando la
parzialità della mentalità eurocentrica che considerale consuetudini e le istituzioni europee come un
parametro indiscutibile, universale ed assoluto, Montesquieu fa la satira della civiltà occidentale del
suo tempo. Egli mette a ruolo i vizi e le contraddizioni del sistema socio – politico del tempo,
l’irrazionalità, l’incongruenza e la superficialità di istituzioni, usanze, costumi sociali, credenze
religiose. Può irridere la vanità dell’aristocrazia, il servilismo dei cortigiani, degli adulatori e degli
arrampicatori sociali. Contesta l’ignoranza dei magistrati, l’intolleranza religiosa, l’ipocrisia dei
cattolici, le frustrazioni sessuali del clero. Denuncia soprattutto l’involuzione autoritaria della
monarchia francese e combatte l’assolutismo religioso e politico della Reggenza di Luigi XIV. In
una cornice orientale fondata su una larga conoscenza dei costumi del luogo e con una curiosità
penetrante dei rapporti fisiopatologici, ci offre un quadro pieno di contraddizioni della società a lui
contemporanea, che non offre atteggiamenti d’indulgenza o compiacimento verso il dispotismo e le
forme di asservimento del mondo orientale, i cui costumi politici, religiosi, familiari e sessuali
hanno costi umani e sociali e demografici altissimi. Montesquieu si palesa in religione un deista con
la identificazione di Dio con la giustizia e in politica un avversario di ogni dispotismo, anche in
riferimento alla teoria hobbesiana del potere sovrano. Con una venatura scettica alla Montaigne,
Montesquieu si ricorda che nessuna critica è possibile se non investe anche noi stessi: ciò che
chiamiamo naturale spesso è solo una qualità di credenze ereditate non poste ancora in discussione.
Il metodo storico – critico ispirato al relativismo culturale che indaga le vicende storico – sociali
indipendentemente da ogni visione provvidenzialistica della storia, è presente anche nelle
“Considerazioni”. Qui le vicende storiche di Roma vengono indagate per scoprire le cause della
grandiosa parabola politica dell’urbe salita a potenza per la mirabile armonia tra istituzioni e virtù
civiche e poi decaduta quando, per il suo eccessivo allargamento, si ruppe necessariamente tale
fortunata armonia. L’esemplare fenomeno storico viene da M. studiato nelle sue cause sociali,
ambientali, storicamente mondane, riconducendole unitariamente all’impreciso concetto di “spirito
generale” del popolo romano. Le cause della grandezza dei romani viene riconosciuto dunque
nell’amore della libertà, del lavoro e della patria, in cui erano allevati fin dall’infanzia; e le cause
della loro decadenza nell’eccessivo ingrandimento dello Stato, nelle guerre lontane, nell’estensione
del diritto di cittadinanza, nella corruzione dovuta all’introduzione del lusso asiatico, nella perdita
della libertà sotto l’impero. Montesquieu non crede alla casualità dei destini di un popolo: ci sono
sempre cause che lo innalzano, mantengono o fanno precipitare e queste cause particolari sono
l’effetto di una causa generale da cui dipendono poi gli svolgimenti storici, che non sono racconti
senza capo né coda.
Lo Spirito della legge.
Nello “Spirito delle leggi” emerge una fiducia nelle scienze naturali, il cui metodo deve poter essere
applicato alla indagine degli eventi storici e sociali, allo studio della politica e del diritto. Lontano
dallo schematismo aprioristico del giusnaturalismo, M. ricava le leggi che governano le istituzioni
civili e sociali da nessi tra fenomeni storicamente accertati che occorre rintracciare estendendo il
metodo sperimentale allo studio dei fenomeni politici, manifestando ciò la sua fiducia nella
possibilità conoscitiva delle scienze. La scienza storico – sociale è attenta a descrivere i fenomeni
quali sono e non quali vorremmo che fossero, per cui non ha senso descrivere e cercare la società
perfetta e razionale ma è semmai necessario rendere perfettibili e razionalizzare quelli
effettivamente esistenti, lontano da ogni utopismo. Anche la sua critica del dispotismo si inscrive in
questa cornice metodologicamente realistica.
La Storia e le leggi.
Solo che la quantità e la diversità delle norme nate o dalla consuetudine o dal volere dei legislatori
non sono per M. frutto del capriccio, dell’arbitrio e della pura fantasia. Le norme provengono dalla
ragione umana e ubbidiscono a certi principi, che lo studioso deve mettere in luce. Nella
“Prefazione” M. pone il problema dell’ordine nella storia, che si manifesta in leggi costanti sotto la
capricciosa diversità degli eventi e pensa di aver trovato i principi cui si piegano i casi particolari, la
storia delle nazioni e il legame di ogni legge ad un’altra, o il suo dipendere da una legge più
generale. Così per lui si tratta di riflettere sulle leggi e le consuetudini di tutti i popoli per metterne
allo scoperto lo spirito. Il suo intento non è indagare sul “corpo” delle leggi, ma sulla loro “anima”
insegnando la maniera di insegnarle e proponendo un metodo per studiare la giurisprudenza. Questo
significa dar ragione alle leggi, che non sono il contingente risultato dell’immaginazione umana,
proprio come la storia dei popoli non è il frutto di una capricciosa successione di eventi senza
legami razionali. È vero che M. parte dai fatti particolari osservati uno dopo l’altro, ma per scoprire
sopra di essi la principale molla da cui dipendono. La moltitudine delle norme e delle consuetudini
vengono dalla ragione: <<La legge, in generale, è la ragione umana, in quanto governa tutti i popoli
della terra; e le leggi politiche e civili di ogni nazione non devono essere altro che i casi particolari
ai quali si applica tale ragione umana. Esse devono adattarsi così bene al popolo per cui sono fatte,
che solo in casi rarissimi quelle di una nazione potrebbero convenire ad un’altra …... hanno da
essere ….. relative alla geografia fisica del paese; al clima, glaciale torrido o temperato; alla
qualità, situazione e grandezza del paese, al genere di vita dei popoli, contadini, cacciatori o pastori;
devono essere in rapporto al grado di libertà che la Costituzione può tollerare; alla religione degli
abitanti, alle loro inclinazioni, alle loro ricchezze, al loro numero, al loro commercio, ai loro
costumi, alle loro usanze. Esse infine sono in rapporto fra loro e con la loro origine; con le finalità
del legislatore, con l’ordine delle cose sulle quali si fondano. È pertanto necessario studiarle sotto
tutti questi aspetti diversi. Questa è l’impresa che io ho tentato nella mia opera. Esaminerò tutti
questi rapporti: il loro insieme costituisce quello che chiamo lo spirito delle leggi>> ( ).
La legge è il rapporto necessario che deriva dalla natura delle cose ed ogni essere ha la sua legge,
per cui anche l’uomo obbedisce nella sua storia alle sue leggi. Ora però egli come corpo fisico, è
governato come tutti gli esseri naturali da leggi immutabili, ma come essere intelligente non
soggiace a nulla di necessitante, perché viola incessantemente le leggi che Dio ha stabilito e cambia
quelle che egli stesso stabilisce. Davanti a tutte le leggi (religiose, morali, politiche) stanno le “leggi
di natura”, che derivano unicamente dalla costituzione specifica del loro essere. Esse esistono a
partire dall’esistenza di una “ragione primitiva” di cui le leggi sono la mediazione verso gli esseri, a
partire da Dio, creatore e conservatore dell’universo. La legge naturale ci imprime l’idea di un
creatore e ci porta verso di lui. Esiste poi una legge del debole uomo naturale che ricerca la pace
con gli altri prima della costituzione della società politica: contro Hobbes si afferma così l’esistenza
di una giustizia prima della statuizione delle leggi positive. Esiste poi la legge che impone di cibarsi
e di generarsi. Infine c’è la legge che spinge gli uomini a vivere in una società, che esige la
formazione di “leggi positive”. Le leggi che presiedono ai vicendevoli rapporti fra i popoli si
rifanno al “diritto delle genti”. Gli uomini hanno anche leggi che regolano i rapporti fra governanti
e governati (“diritto politico”) e quelle che regolano i rapporti fra tutti i cittadini (“diritto civile”).
Occorre che l’uomo si diriga, ma è limitato. Egli è soggetto all’errore e all’ignoranza come
intelligenza finita; può perdere le deboli conoscenze che ha. Come creatura sensibile è soggetto a
molteplici passioni. Può in ogni istante dimenticare il suo creatore che lo ha richiamato a sé con le
leggi religiose. Può dimenticarsi continuamente di sé, ma i filosofi lo avvertono con le leggi morali.
Fatto per vivere nella società, può dimenticare gli altri, ma i legislatori lo hanno posto di fronte ai
suoi doveri con le leggi politiche e civili (I, II). L’ordine della storia non è allora mai un fatto né un
semplice ideale superiore estraneo ai fatti storici: è la legge di tali fatti, la loro normatività, il dover
essere cui essi possono più o meno avvicinarsi o adeguarsi. Le leggi dunque da un verso
corrispondono ad un criterio unitario che è la ragione umana <<in quanto governa tutti i popoli
della terra, dall’altro devono essere talmente specifiche del popolo per il quale sono stabilite che è
puramente fortuito che le leggi di una nazione possano andar bene anche per un’altra>> ( ).
Nel primo libro Montesquieu, riconosciuto il principio metafisico di un Dio creatore e ordinatore
dell’universo sia sul piano fisico che spirituale, ricerca quali siano le leggi naturali della vita
sociale. La legge naturale non è un principio razionale ideale da cui dedurre sistematicamente e
aprioristicamente, secondo uno schema giusnaturalistico, tutto un sistema di norme astratte, bensì è
il rapporto intercorrente fra i vari fenomeni empirici. In ogni nazione c’è <<un carattere generale, di
cui il carattere dell’individuo reca più o meno l’impronta; esso è costituito dalle cause fisiche che
dipendono dal clima e dalle cause morali che costituiscono la combinazione delle leggi; della
religione, dei costumi e delle maniere>> ( ); anzi <<le cause morali formano il carattere di una
nazione e decidono delle qualità del suo spirito, in misura maggiore delle cause fisiche>> ( ); e
quando una di queste cause agisce con maggior forza, le altre ne subiscono l’influsso. Così <<la
natura ed il clima dominano quasi da soli presso i popoli selvaggi, le maniere governano i cinesi, le
leggi tiranneggiano il Giappone, i costumi prevalevano un tempo a Sparta, le massime di governo e
i costumi prevalevano a Roma>> ( ). Spirito delle leggi indica l’impronta, il carattere che anima
e ispira i vari sistemi istituzionali e giuridici, analizzati da M., con metodo comparativo. La sola
regola generale che l’esame comparato delle leggi politiche e civili è il loro variare in relazione a
una molteplicità di variabili e di fattori non disposti da M. in una gerarchia d’importanza, anche se
le caratteristiche del territorio e del clima, i comportamenti demografici, le abitudini di vita, le
attività produttive, le arti, i costumi, le mentalità, le credenze religiose spiccano su ogni altro. Dal
mutevole intreccio di tali fattori emerge l’individualità, la personalità dei diversi popoli, la cui
varietà è tale da rendere inutile il ricorso alla vuota categoria di una “natura umana” universale ed
immutabile nello spazio e nel tempo. Ne consegue che le leggi <<debbono essere talmente adatte al
popolo per cui sono state fatte, che solo eccezionalmente possono convenire a un’altra>> ( ): i
popoli non debbono modellarsi sulle leggi, ma le leggi modellarsi sui popoli. Più che sbagliato, il
giusnaturalismo si rivela, in questa prospettiva, inutile sul piano teorico, poiché l’interesse si deve
concentrare non già sul diritto naturale, ma sulle leggi positive che reggono le società reali. Però
data la definizione di <<leggi, nel significato più ampio che sono i rapporti necessari che derivano
dalla natura delle cose>> (SL,I,I), già dal cap. II del libro I (“Della natura dei tre diversi governi”)
prevale la definizione dei governi, la determinazione della loro “natura” e dei “principi” che li
reggono. Osserviamo subito che per M. le forme prestatali di potere non sono precisamente oggetto
del suo studio, ma solo un’introduzione alla scienza politica (S.L., XVIII: “Delle leggi nel loro
rapporto con la natura del terreno”), perché non presentano un potere supremo e definito. pertanto
esamina le forme compiute di Stato, scartando i popoli barbari, selvaggi, dediti prevalentemente alla
cacciagione e alla pastorizia. Diamo un breve schema dell’opera (31 libri, con 15-20 capitoli
ciascuno). Libro II: Montesquieu qui procede alla distinzione tra i governi e ne studia la “natura”;
Libro III: ne studia i “principi”; Libro VIII: ne studia la “corruzione”. Libri IV – XIII: ne studiava le
“conseguenze” dell’esistenza delle varie forme di governo, relativamente all’ ”educazione” (IV),
alla “legislazione” (V), alla “semplicità delle leggi civili e criminali”, alla “forma dei giudizi”, alla
“decisione delle pene” (VI), alle “leggi suntuarie”, al “lusso” e alla “condizione delle donne” (VII),
alle ”forze difensive e offensive” (IX – X), alla “libertà politica” (XII), alle “imposte” (XIII).
Capitoli o frammenti prendono in considerazione poi i rapporti tra “governo e costumi” (XIX),
“governo e commercio” (XX), “governo e popolazione” (XXIV).
Tipologia delle forme di governo.
Dal libro II al libro XII M. cerca di determinare i diversi tipi di associazione politica, dei quali
individua non soltanto la struttura istituzionale, cioè la “natura” del governo (ciò che fa si che esso
sia ciò che è, cioè il meccanismo), ma anche lo “spirito”, cioè l’atteggiamento psicologico
corrispondente alle varie forme di governo in virtù delle loro diverse istituzioni, ovvero il
“principio” (ciò che fa agire il governo, la molla che mette in movimento i cittadini e forma lo
spirito generale). Dalla natura del governo derivano le leggi politiche, quelle che tendono
all’organizzazione governativa (oggi diremmo il diritto costituzionale). Dal principio del governo
dipendono le leggi civili e le leggi sociali, volte alla conservazione di un certo ambiente e alla scelta
di certi orientamenti (il diritto pubblico). La tipologia delle forme di governo (II – VIII) è affrontata
con metodo innovativo rispetto alle precedenti classificazioni delle varie forme di governo a lui
note, da Aristotele a Machiavelli, Bodin e Locke. Queste avevano generalmente assunto come
criterio l’aspetto quantitativo, il numero degli individui – uno, pochi, molti – che esercitano il
potere. Montesquieu invece antepone a questo criterio un principio qualitativo di legittimità, che ha
come discriminante l’esistenza o meno di un governo costituzionale. Egli fissa i tipi fondamentali di
governo nella “repubblica”, nella “monarchia” e nel “dispotismo”. La repubblica può essere però
democratica o aristocratica; essendo il governo repubblicano quella in cui il popolo <<tutto
insieme>> o una parte del popolo (<<certe famiglie>>) è in possesso del potere sovrano. Vediamo
ciascuna di esse:
1) Le repubbliche sono quei regimi che nell’antichità corrispondevano ai nomi di Roma, Atene e
Sparta e nel medioevo e nella modernità a Venezia e Genova.
a) La repubblica democratica è per “natura” quella in cui la sovranità appartiene all’intero
popolo, il quale da un certo punto di vista è sovrano e da un altro è suddito. Infatti in quanto
monarca obbedisce alle proprie volontà espresse col suffragio, ma in quanto suddito obbedisce
ai magistrati da lui nominati. M. distingue molto bene tra “democrazia diretta” e “democrazia
rappresentativa”. <<Il popolo che ha il potere sovrano deve fare da sé tutto quel che può. Il resto
deve farlo tramite i suoi ministri>> ( ). E in nuce presente la teoria della rappresentanza
politica, dicendo che il popolo è <<ammirevole nelle scelte>>, ma incapace <<di decidere da
solo i tempi e le circostanze>> ( ). Il principio della repubblica è la virtù: <<non si tratta di
virtù morale o di virtù cristiana, ma di virtù politica>> ( ).la virtù repubblicana è il civismo,
cioè amor di patria ed eguaglianza. I politici greci che sostenevano il civismo presupponevano
che in ogni cittadino ci fosse un costante spirito di rinuncia al proprio egoismo a vantaggio del
bene pubblico, in forza dell’amor di patria e delle leggi. Uno spirito di eguaglianza esclude ogni
privilegio e uno spirito di frugalità è ostile al lusso e all’eccesso dei piaceri privati. L’amore
dell’uguaglianza limita la ambizione al desiderio, all’onere di rendere alla patria servigi più
grandi degli altri cittadini: <<L’amore della frugalità limita il desiderio di avere alla
sollecitudine che chiede il necessario per la propria famiglia e anche il superfluo per la patria>>
( ). La virtù repubblicana allontana dunque l’amore delle ricchezze, che darebbero un potere
al cittadino molto più esteso rispetto all’uso personale di esse. Da ciò si ricavano i tratti
principali della legislazione di una repubblica: le leggi devono mantenervi la uguaglianza e
conservare la purezza dei costumi. Il regime comporta una condizione media della vita
riguardante sia il numero sia il comportamento degli abitanti. La repubblica è il regime adatto
solamente a Stati di piccole dimensioni (idea questa che potrà essere smentita solo dalla
Rivoluzione Americana): la repubblica democratica, per quanto ammirevole per virtù, è anche la
più fragile, poiché il popolo è troppo soggetto alle passioni per poter esercitare direttamente il
potere.
b) La repubblica aristocratica è quella che per natura risulta dall’appartenenza della sovranità a
pochi. Essendo solo una parte del popolo titolare del potere sovrano, il resto della
popolazione si trova nei confronti di chi governa come i sudditi di una monarchia.
L’elezione dei magistrati avviene attraverso una scelta e non a sorte; un senato regola gli
affari che il corpo dei nobili non riesce a trattare. Quanto al principio, esso è sempre la
virtù, che non si chiama più civismo ma moderazione, senza la quale la repubblica non
potrebbe durare. Infatti là dove le fortune umane sono diseguali, è raro che esista molta
virtù. Occorre allora che le leggi mirino ad infondere uno spirito di moderazione, avente lo
stesso posto che ha nello Stato l’uguaglianza. La moderazione da parte dei grandi lascerà al
popolo la possibilità di esercitare una certa influenza. I dittatori o gli inquisitori creati
devono, se è necessario, restituire lo Stato alla libertà con la violenza. La grandezza dei
magistrati deve essere controbilanciata dalla brevità della carica. Se le leggi non prevedono
un tribuno del popolo, occorre che esse ne tengano conto.
2) Le monarchie hanno una natura tale che il potere sovrano appartenga ad una sola persona che
governa con leggi fisse e stabilite. <<Il monarca è la fonte di ogni potere politico e civile ma
non compendia in sé tutto il potere perché rientra sempre nella monarchia l’esistenza di poteri
intermedi, subordinati e indipendenti che impediscono che prevalga la volontà momentanea e
capricciosa di un solo e assicurano la continuità e la stabilità delle leggi fondamentali>> ( ).
M. considera soprattutto i grandi Stati a lui contemporanei, e non la monarchia dell’antichità. Il
potere monarchico è la forma di governo preferibile secondo M., purché sia limitata attraverso i
corpi intermedi, quei <<canali mediani attraverso i quali scorre il potere>> ( ). Essi sono i
parlamenti, le magistrature e gli istituti rappresentativi di tre ordini. Il potere intermedio più
conveniente è quello del clero, quello della nobiltà è il più naturale. Un terzo potere è affidato
ad un corpo di magistrati, che è il depositario delle leggi per tenerle presenti ai prìncipi.
Il principio della monarchia consiste nell’onore o onori. Esso è un movente strano ma
onnipotente, per quanto risulti falso dal punto di vista filosofico. Si deve indicarlo con “punto di
onore” e lo si intende come <<il pregiudizio relativo ad ogni persona e ad ogni condizione>> (
). Si può spiegarlo tenendo conto che ognuno preso a sé, ogni organismo sociale, ogni categoria
sociale preferisce se stessa alle altre, anzi si oppone ad esse reclamando preferenze esclusive
dallo Stato o volendo essere tenuta in grado di preminenza, di distinzione attraverso privilegi.
Questo insieme di ambizioni private riuscirebbe letale per una repubblica, ma per la monarchia
risulta utile al suo funzionamento, perché vi constata che ognuno, credendo di agire per sé,
opera per il raggiungimento del bene pubblico: <<Può portare a realizzare il fine del governo
esattamente come la virtù. In ogni caso salvaguardia la dignità e l’obbedienza. L’onore, in
effetti, c’impone che il principe non ci deve mai ordinare un atto che ci disonori perché esso ci
renderebbe incapaci di servirlo>> ( ). Di conseguenza, la monarchia implica l’ineguaglianza
e i privilegi. La monarchia desta preoccupazioni quando il sovrano è tentato di stravolgere le
“leggi fondamentali” e di scavalcare o sopprimere i corpi intermedi: i diritti costituzionali e le
prerogative della nobiltà, del clero, del Terzo Stato e delle città sono indispensabili per
preservare una monarchia dalla degenerazione nell’assolutismo, risultando anzi l’essenza della
monarchia. Privilegi e disuguaglianze saranno in essa dunque garantiti dalle leggi, che debbono
assicurare al clero il tranquillo possesso dei beni e il libero esercizio della sua giurisdizione e
dare ai nobili il privilegio dei beni ma non la possibilità di esercitare il commercio. Titolare del
“deposito delle leggi” è una indipendente e permanente magistratura, che di fatto coincide con i
parlamenti, le corti di giustizia, cui M. affida il compito di rendere noto, custodire e richiamare
le leggi se non sono rispettate.
3) Col dispotismo Montesquieu completa la descrizione e l’analisi dei regimi politici. Egli ha
presente soprattutto quello turco, ma non dimentica i costumi persiani e russi. La natura di
questo regime consiste nel fatto che il monarca vi regna senza legge e seguendo solo la propria
capricciosa e arbitraria volontà. Spesso il sovrano non esercita personalmente il comando,
distraendosi nel “serraglio” (harem) e lasciando gli affari ad un ministro. Il principio del
dispotismo è la paura. L’onore, con le sue norme, vi sarebbe pericoloso e la virtù non è
richiesta. Davanti al despota tutti i sudditi sono uguali, ma in nulla perché di fatto non sono
“nulla”, contro la democrazia dove essi sono eguali perché sono “tutti”. Il despota è poi
obbligato a tenere sempre il braccio alzato per colpire o minacciare di farlo. I sudditi sono
avviliti da lui al livello di docili bestie, educate a comportarsi bene per timore di ricevere
frustate. di leggi non ce ne vogliono molte, poiché tutto deve funzionare in base a due o tre idee,
e soprattutto non si vogliono idee nuove: <<Quando addestrate un animale, state bene attenti a
non fargli mutare addestratore, insegnamento e trattamento; condizionate il suo cervello con due
o tre movimenti soltanto e non di più>> ( ).
Dopo questo quadro sui tipi fondamentali di governo e sui principi che li guidano, M. avverte:
<<Tali sono i principi dei tre governi; ciò non significa che in una repubblica si sia virtuosi, ma che
si deve esserlo. Ciò non prova neppure che in una certa monarchia si tenga in conto l’onore e che in
uno Stato dispotico particolare, domini il timore; ma solo che bisognerebbe che così fosse, senza di
che il governo sarà imperfetto>> (III, 11). Ogni principio è un dover essere, ricorrendo al quale in
modo incessante come un’esigenza intrinseca di tutte le forme storiche di Stato, esse se ne vedono
garantita la conservazione. Esso però può essere trascurato e obliato. M. mostra come ogni tipo di
governo si realizzi e si articoli in un insieme di leggi specifiche, considerando i più diversi aspetti
dell’attività umana, e anche la struttura del governo stesso. Queste leggi riguardano l’educazione,
l’amministrazione della giustizia, il lusso, il matrimonio e l’intero costume civile. Descrivono lo
“spirito” piuttosto che la struttura dei sistemi istituzionali, egli prende in considerazione le leggi nei
vari ambiti in cui si articolano la società e lo Stato: l’educazione, la legislazione civile e penale, le
libertà, l’apparato militare, il sistema commerciale, monetario e fiscale. Ogni sistema istituzionale si
regge su un “ethos” che permea la mentalità e i sentimenti del popolo: la democrazia sulla virtù
civile, l’aristocrazia sulla moderazione, la monarchia sull’onore, il dispotismo sulla paura. La
educazione, tramandando e radicando l’ethos pubblico, è decisiva per la sopravvivenza dello Stato,
salvo il caso dello Stato dispotico, che si regge sulla ignoranza.
Per M. ogni tipo di governo si corrompe quando viene meno il suo principio (VIII, 1) ed una volta
corrotto, le migliori leggi diventano cattive e si rivolgono contro lo Stato stesso (VIII, 11). A questo
riguardo, il governo dispotico fa caso a sé per la continua tendenza alla corruzione del suo principio
che è di per sé corrotto. Sin dal libro III M. aveva scritto che se la virtù o l’onore vengono meno e lo
Stato non è più amato per sé stesso, ma solo per i benefici che se ne possono trarre per i fini privati,
se si vuole essere liberi contro le leggi invece di essere liberi con le leggi, allora lo Stato è perduto,
la repubblica diventa un cadavere e la sua forza è data solo dal potere di alcuni e dalla <<licenza di
tutti>>. Per quanto riguarda la democrazia essa si guasta <<non solo quando si perde lo spirito di
eguaglianza, ma anche quando si diffonde uno spirito di estrema eguaglianza […..] allora il popolo
non potendo tollerare quello stesso potere che ha demandato ad altri, vuole fare tutto da solo
deliberare al posto del senato, eseguire al posto dei magistrati e svestire della toga i giudici […..].
Tutti giungeranno ad amare questo disordine: il peso del comando diverrà intollerabile quanto
quello dell’obbedienza [……]. I costumi, l’amore per l’ordine, scompariranno e con essi scomparirà
la virtù>> ( ). La vera distinzione fra i governi è data dalla modalità di esercizio del potere, che
può essere moderata o violenta. Per darci l’idea della corruzione del governo democratico, M. ce lo
mostra come quello che è in grado di cadere nel dispotismo di tutti: non si tratta più del potere di
uno solo <<senza legge e senza regola alcuna>> e dei suoi umori capricciosi, ma si tratta di tutti e
della volontà arbitraria di tutti.
La Costituzione inglese.
La grande svolta dell’opera è costituita dal capitolo VI del libro XI, in cui si tratta della
“Costituzione inglese” (scritto già nel 1734), ove vediamo Montesquieu prendere partito e diventare
da osservatore dottrinario con la comparsa del suo ideale politico. Alla prima classificazione, di tipo
descrittivo, ne segue un’altra in cui domina l’ideale madre della libertà, che nel paese in cui viveva
non esisteva. La sua opera è nata per questo senza madre: <<Probem sine matrem creatam>>
(Ovidio) è l’epigrafe dello “Spirito delle leggi”. La monarchia del periodo della reggenza non piace
perché lì <<l’arte di governare si è ridotta a quella di corrompere>> ( ). Rimane deluso di viaggi
a Genova e Venezia. Solo l’Inghilterra finisce per rappresentare ai suoi occhi il regime della libertà
per eccellenza. Essa ha un regime monarchico che ha per oggetto diretto la libertà politica,
congiunta ai governi moderati (contrapposti a quelli violenti del dispotismo). Tale libertà ha per
condizione fondamentale che a nessuno sia data la possibilità di abusare del potere (al singolare),
ciò implicando una certa distribuzione dei poteri (al plurale): confronta il capitolo intitolato “Della
Costituzione inglese” che è da mettere in relazione al libro XI intitolato “Dell’eccellenza del
governo monarchico”, che non corrisponde affatto ai regimi di Richelieu e di Luigi XIV, i quali con
la centralizzazione burocratica e ministeriale hanno portato la monarchia sulla china del dispotismo.
Come possono le monarchie evitare l’abisso del dispotismo? M. ci tiene a precisare che <<La
monarchia è perduta quando un principe mutando l’ordine delle cose, crede di mostrarsi più potente
che non rispettandolo; quando sottrae agli uni le loro funzioni naturali per affidarle arbitrariamente
ad altri, e quando è più preoccupato di seguire i propri capricci che non la propria volontà. La
monarchia è perduta quando un principe, riconducendo unicamente ogni cosa a se stesso, riduce lo
Stato alla capitale ( ), la capitale alla corte, la corte alla sua sola persona>>. La corruzione
avviene con l’obliterazione dei privilegi affidati ai corpi intermedi e alle città, come mostra citando
un autore cinese (“Della compilazione di opere composte sotto la dinastia dei Ming”). Con la
corruzione della natura c’è anche la corruzione del principio: <<Il principio della monarchia si
corrompe, quando le massime cariche sono l’indice della massima servitù, quando si toglie ai grandi
il rispetto del popolo e quando li si rende vili strumenti del potere arbitrario. E ancor più si
corrompe quando l’onore viene a trovarsi in contraddizione con gli onori, e quando si può essere
coperti di infamia e al tempo stesso di cariche>> ( ). Sono frasi fortemente allusive alla
monarchia francese, che pure inizialmente, per le sue origini germaniche e feudali, aveva un
<<governo gotico>>, misto di aristocrazia e di monarchia, che poi invece si è corrotto in dispotico
governo per l’abuso di potere, forzando le inclinazioni della gente e reggendola col ricorso alle
misure estreme. L’obiettivo che essa raggiunge con la paura non è la pace e la tranquillità: <<Non è
il caso di parlare di pace, si ha piuttosto il silenzio tipico di quelle città che il nemico sta per
occupare>> ( ). Il governo monarchico moderato invece offre vantaggi, confortato dal suo
principio che è l’onore e dalla sua natura che postula l’esistenza di poteri intermedi, delle contro -
forze resistenti ostinatamente alle indebite invasioni del sovrano. Esse agiscono con quello spirito di
corpo che ha le sue forme fisse, attraverso le quali sollevano obiezioni ed eccezioni, rallentano ed
impediscono tale invasione. Montesquieu non mette in discussione la indivisibilità della
sovranità,ma ritiene che tali corpi intermedi la debbano limitare da ogni parte facendo della
monarchia, giuridicamente assoluta un regime temperato ossia misto (“mêlèe”). La nobiltà è la
contro – forza per antonomasia <<Senza monarca non c’è nobiltà; ma senza nobiltà, non c’è un
monarca, c’è un despota>> ( ). È evidente qui il liberalismo nobiliare di M. che sottolinea anche
il ruolo del clero, dei parlamenti e della città. Le repubbliche sono incapaci di portare alla libertà,
perché sono in regime socialmente indifferenziato, ugualitario e di massa, cioè formato di parti fra
loro omogenee, in cui gli elementi sono giustapposti, non gerarchicamente ordinati. La repubblica
soddisfa l’uguaglianza, ma non la libertà. È la monarchia per M. ad avere per oggetto la libertà
perché la rende possibile con la divisione del lavoro sociale all’interno del suo regime. Essa può
tendere anche soltanto alla gloria dello Stato o del principe, ma così degenera nel dispotismo. Ma
quando la sua struttura sociale differenziata dalla molteplicità degli ordini, delle funzioni e delle
condizioni non viene alterata, verrà garantita la libertà politica. Questa potrà esistere perché tra il
vertice e la base della nazione si conserveranno dei <<ranghi intermedi>> e perché al vertice si
stabilirà una separazione dei poteri.
Lo spirito generale.
Prima di affrontare questo altro grande tema della filosofia politica di Montesquieu, dobbiamo
ancora affrontare alcuni temi monografici volti ad illustrare il significato della libertà.
Nel libro XII egli parla delle leggi penali, tanto essenziali per la sicurezza del cittadino e quindi per
la sua libertà. Quando l’innocenza dei cittadini non è garantita, non lo è la libertà. Per avere questa,
occorre che il governo sia tale <<che un cittadino non abbia ragione di dover temere un altro
cittadino>> ( ). Per quanto riguarda le pene, egli si dichiara a favore della loro mitezza e contro
il rigore dei supplizi praticati sotto l’antico regime.
Nel libro XIII M. ci ricorda l’esistenza di rapporti complessi tra l’imposizione di tributi, i problemi
delle entrate pubbliche e la libertà. C’è il capitolo ultimo che è dedicato agli esattori il quale inizia
così: <<Tutto è perduto quando la professione lucrativa degli esattori arriva ancora in forza delle
ricchezze che procura, ad essere una professione onorata>> ( ). Poi entrano alla rinfusa rapporti
molteplici di altro tipo, in cui si mostra che le leggi debbono tener conto della natura fisica del
paese, della influenza, delle circostanze orografiche e climatiche sul temperamento, sui costumi,
sulle leggi e sulla vita politica dei popoli. Le leggi poi devono essere il rapporto con la religione
degli abitanti, con le loro propensioni, con i loro costumi, con le loro maniere. Dal libro XIV a
quello XIII si parla dell’influenza del clima; nel XVIII del suolo; nel XIX dello spirito generale. Ma
M. non ha ceduto alla tentazione di spiegare <<lo spirito delle leggi con la materia>> (Hazard).
Descrive con cura l’effetto dell’aria sulle fibre del nostro corpo e afferma che nei climi freddi il
corpo ha maggiore forza, ma è poco sensibile ai piaceri, al dolore e all’amore. Famose sono le
proposizioni sullo spirito di servitù proprio dell’Asia, esposta al dispotismo perché non possiede
vere e proprie zone temperate e perché l’estensione delle sue pianure è enorme. In Europa invece le
cause fisiche avrebbero creato <<uno spirito di libertà che fa si che ogni paese assai difficilmente
possa essere assoggettato da una nazione straniera>> ( ). Col capitolo XIV ci troviamo però
davanti a questo titolo: “I cattivi legislatori sono coloro che hanno assecondato i vizi del clima e i
buoni sono quelli che vi hanno fatto opposizione”. Egli è lontano dal credere che nei confronti di
queste influenze l’uomo possa essere soltanto passivo: <<Quanto più le cause fisiche portano gli
uomini al riposo, tanto più le cause morali li devono allontanare da esso>> (XIV, 5). Quando il
clima porta gli uomini a fuggire, il lavoro della terra, la religione e le leggi devono spingerlo ad esso
(XIV, 6). Nei confronti degli stessi agenti della natura tende a configurarsi la libertà condizionata
degli uomini nella storia. E nel libro XIX M. dice che bisogna tenere in somma considerazione
un’idea destinata ad avere una grande eco: <<Parecchie cose governano gli uomini: il clima, la
religione, le leggi, le massime del governo, gli esempi delle cose passate, i costumi e le maniere. Da
tutto questo risulta uno spirito generale. A seconda che in ogni paese una di queste cause agisce con
maggiore forza, le altre fanno sentire in proporzione una forza minore. La natura e il clima
signoreggiano presso che incontrastati presso i selvaggi; le maniere governano i cinesi, le leggi
tirannizzano il Giappone; i costumi un tempo caratterizzavano la vita di Sparta; le massime del
governo e i costumi antichi caratterizzavano Roma>> (XIX, 4). Questo passo è il più importante del
capitolo quarto del XIX: “Che cosa è lo spirito generale?”, ove si comprende che tale spirito
generale è il risultato di sette cause diverse, di cui una sola è fisica, il clima. Delle sette cause, a
seconda della forma o del grado di civiltà, è ora questa è ora quella a tenere il primato.
La libertà politica e la separazione dei poteri.
Lo “Spirito delle leggi” si propone di mettere in luce e di giustificare storicamente le condizioni che
garantiscono la libertà politica del cittadino. Tale libertà non è inerente per natura a nessun tipo di
governo, neppure alla democrazia; essa è propria soltanto dei regimi moderati, cioè dei governi in
cui ogni potere trovi limiti che gli impediscono di prevaricare: <<occorre che per la disposizione
stessa delle cose il potere arresti il potere>> (XI, 4). Perché, pur avendo sperimentato il dispotismo,
accade che la natura non si rivolta contro tale flagello, amando la libertà ed odiando la violenza?
Così risponde M.: <<Per formare un governo moderato bisogna cambiare i poteri, dirigerli,
temperarli, farli agire; dare, per così dire, della zavorra all’uno per metterlo in grado di resistere
all’altro: un capolavoro di legislazione che il caso raramente produce e che raramente si lascia fare
alla prudenza. Un governo dispotico, al contrario, salta, per così dire, agli occhi; è uguale
dappertutto: poiché bastano le passioni per stabilirlo, tutto il mondo è adatto a riceverlo>> (v, 14).
La monarchia francese non è riuscita a realizzare tale tipo di legislazione, che egli trova nella
Costituzione inglese (XI, 6), la quale ha per oggetto diretto la libertà politica, la quale coincide con
la sicurezza della persona, del singolo individuo e dei propri beni. Per libertà si deve intendere <<il
diritto di fare tutto ciò che le leggi permettono>> ( ). Molti hanno considerato libero il regime
conforme alle proprie consuetudini o inclinazioni. Altri hanno chiamato libera una certa forma di
governo. Si è voluto per esempio che non ci fosse libertà nelle monarchie per attribuirla in guerra
alle repubbliche, dove sembra che abbiano più voce le leggi e meno voce quanti hanno il poter di
farle eseguire. E siccome si è facilmente portati a vedere nella libertà la semplice assenza di
impedimento ai nostri desideri e a credere che essa consista nel fare ciò che piace, si è attribuita la
libertà alla democrazia perché pare che in essa il popolo faccia ciò che gli piace. Ciò equivale però a
fare confusione tra il “potere del popolo” e la “libertà del popolo”. La libertà politica non consiste
affatto nel fare ciò che piace, bensì nel fare ciò che si deve volere e, per converso, nel non essere
mai costretti a fare ciò che non si deve voler fare. Ma chi è che stabilisce il dovere, ossia quello che
si deve fare? Le leggi. La libertà è il potere delle leggi, non già quello del popolo. Viceversa è il
potere delle leggi a costituire la libertà del popolo. Si comprende meglio allora la sua massima:
<<Occorre avere ben presente che cos’è l’indipendenza e che cosa è la libertà. La libertà è il diritto
di fare tutto ciò che le leggi permettono: infatti se un cittadino potesse fare ciò che esse proibiscono,
non avrebbe più libertà, poiché anche gli altri acquisterebbero un tale potere>> ( ). La libertà si
trova non nella democrazia e nella aristocrazia, ma solo nei regimi moderati indipendentemente
dalla loro forma, rispettando la condizione che in essi i governanti non facciano abuso della autorità
sovrana: <<Un’esperienza di secoli mostra come qualsiasi uomo che si trovi ad avere potere, sia
portato ad abusarne, finché non gli vengono posti dei limiti. Chi lo direbbe? Persino la virtù ha
bisogno di limiti. Perché non si possa abusare del potere bisogna che, per la disposizione delle cose,
il potere argini il potere. Una Costituzione può essere tale che nessuno sia costretto a fare le cose a
cui la legge non lo obbliga e a non fare quello che la legge permette>> ( ). La libertà politica
viene subordinata ad una certa <<disposizione delle cose>>, cioè ad una certa distribuzione dei
poteri e la loro separazione in potere legislativo, esecutivo e giudiziario, così come si è realizzata
nella Costituzione inglese. si deve ricordare che il Locke attribuiva al legislativo il compito passivo
di determinare il diritto naturale, che accanto al potere esecutivo egli poneva un potere federativo
per i rapporti dei cittadini coi membri estranei alla società civile, che ignorava il potere giudiziario
come potere autonomo, che invocava a garanzia della libertà politica il diritto di resistenza e di
rivoluzione da parte del popolo. Pur non discutendo il dogma della sovranità una e indivisibile, M.
proclama la tesi della pluralità dei poteri dello Stato, distinti non solo per la funzione esercitata, ma
anche per gli organi che la compiono, l’equilibrio dei quali deve avere luogo automaticamente e non
per il buon volere dei legislatori e dei governanti. La teoria della separazione dei poteri viene così
enunciata: <<Tutto sarebbe perduto se un’unica persona, o un unico corpo di notabili, di nobili o di
popolo, esercitasse questi tre poteri: quello di fare le leggi, quello di eseguire le esecuzioni
pubbliche e quello di punire i delitti o le controversie tra i privati>> ( ). La riunione di due di
questi poteri nelle stesse mani annulla la libertà del cittadino, perché rende possibile l’abuso dei
poteri stessi. L’originalità di M. è dovuta all’affermazione dell’autonomia del potere giudiziario.
Infatti la libertà del cittadino deve essere anche garantita dalla natura particolare delle leggi che
devono dargli la sicurezza nell’esercizio dei suoi diritti (XII, 1). Tuttavia M. si addentra nell’esame
della Costituzione inglese, ove osserva l’esistenza di una magistratura indipendente, di un sistema
di barriere contro la tirannide costruito non in modo astratto, ma a partire da istituti effettivamente
esistenti. L’indipendenza dalla magistratura, cui viene affidato il sistema giudiziario nel moderno
stato di diritto, deve essere protetta da interferenze esterne per poter esercitare la sua funzione
neutrale “super partes”. La legge, accanto alla sua tradizionale funzione costrittiva, ne assume una
garantista, come strumento di protezione e tutela delle libertà civili, pubbliche e private.
Tuttavia dopo l’affermazione del principio, il problema muta di prospettiva, perché nella tecnica
della separazione dei poteri viene introdotto un nuovo elemento, quello della divisione del solo
potere legislativo - <<quello che rappresenta la volontà generale dello Stato>> - fra le tre classi o gli
Stati (o ceti) medievali del Regno che sta indagando. Infatti il Parlamento inglese risulta composto
dal Re, dalla nobiltà temporale e spirituale, e dal popolo. M., per cogliere l’effettivo equilibrio tra i
diversi poteri, introduce nella sua costruzione l’ideale classico del governo misto, proveniente dal
pensiero politico inglese. Unendo i due temi della separazione dei poteri e del governo misto
(divisione del legislativo) Montesquieu giunge a questa conclusione: <<Essendo il corpo legislativo
diviso in due parti, l’una terrà a freno l’altra con la reciproca facoltà d’impedire. Entrambe saranno
vincolate dal potere esecutivo, che lo sarà a sua volta da quello legislativo>> ( ). Montesquieu,
più che a una netta divisione delle funzioni dello Stato, teorizza un governo bilanciato, in cui i
diversi organi, in un sistema di pesi e di contrappesi, realizzano un equilibrio costituzionale capace
di ostacolare l’affermarsi di un potere assoluto. Esaminando però questo equilibrio ci si accorge che
è un equilibrio sociale piuttosto che un equilibrio costituzionale. M. è vittima di una confusione tra
potere giuridico e potere sociale, finendo per identificare un organo dello Stato con una classe
sociale o ceto. Qui si rivela la forma generale della separazione dei poteri in Montesquieu, per il
quale essa non si applica solo agli organi statali ma ad ogni aspetto della società politica. Per questo
egli ritiene che sia la monarchia il tipo stesso del governo libero, perché è il regime delle
distinzioni, delle separazioni e degli equilibri. La monarchia costituzionale garantisce la libertà
perché tra il vertice e la base dello Stato nazionale si conservano dei corpi intermedi e al vertice si
stabilisce la separazione dei poteri. Fatta sparire la funzione federativa, introduce il potere
giudiziario accanto a quello esecutivo e quello legislativo. Questo viene suddiviso tra due Camere,
che fra di loro si vincolano. Ci troviamo di fronte al Parlamento inglese: Camera dei comuni,
Camera dei Lords, Re/Regina: <<questi tre poteri dovrebbero dar luogo ad una situazione di riposo
o inattività; ma siccome per il movimento necessario delle cose, saranno costretti ad andare,
dovranno andare di concerto>> ( ). Anche se fermo alla Costituzione, M. intravede già il ruolo
del gabinetto come organo che deve permettere ai poteri di <<andare di concerto>>. A dover
legiferare dovrebbe essere il popolo nella sua totalità, perché in uno Stato libero chiunque sia
stimato avere uno spirito libero, deve essere in grado di governarsi da solo. Nei grandi Stati ciò è
però impossibile e nei piccoli è pieno di inconvenienti, per cui occorre fare affidamento a dei
rappresentanti, scelti dal popolo per la loro abilità. Ad essi non spetta prendere decisioni operative,
ma votare le leggi e controllare la loro buona applicazione. Per questo il corpo scelto dal popolo
deve condividere il legislativo con il, corpo rappresentativo della nobiltà. I loro corpi devono essere
rappresentati in modo diviso poiché altrimenti la comune libertà<<sarebbe la loro schiavitù>>. Le
due branche del legislativo sono fra loro connesse strettamente, avendo la facoltà di ostacolarsi
vicendevolmente, che è funzione diversa dalla statuizione. Questa è <<il diritto di ordinare
direttamente o di correggere quanto sia stato ordinato da altri>> (XI, 9), mentre la facoltà di
impedire è <<il diritto di rendere nulla una risoluzione presa da altri>> (XI,9), senza sostituirvisi.
Così le manovre del popolo contro la nobiltà e quelle della nobiltà contro il popolo non possono
riuscire perché il potere blocca il potere. Inoltre le due branche del legislativo sono frenate
dall’esecutivo, affidato ad un sovrano, che dalla Costituzione riceve un sovrappeso col diritto di
veto e il privilegio della inviolabilità per difendere le prerogative sue proprie. Ma è condizionato dal
potere legislazione, che ha la forza necessaria per resistere al sovrano attraverso la convocazione
obbligatoria delle sessioni periodiche, il voto annuale di bilancio, il controllo sull’applicazione delle
leggi e l’eventuale incriminazione dei ministri. Se rischiano le tre forze l’inazione, in verità il
meccanismo politico del potere è reso possibile proprio dall’operare concertato delle istituzioni, che
è il mezzo con cui si evita l’abuso del potere. La vera unione non è quella dei <<cadaveri sepolti
l’uno accanto all’altro>> come nel dispotismo, ma è una <<unione armoniosa il cui effetto è che
tutte le parti, per quanto ci sembrano tra loro contrapposte, concorrono al bene generale della
società; alla stessa guisa che le dissonanze in musica concorrono a formare l’accordo generale […..]
può esserci un’armonia donde risulta la felicità (il benessere) che sola costituisce la vera pace>>
(XI, 9). I termini con cui Montesquieu descrive la natura di un siffatto regime sono armonia,
concertazione, freno reciproco, sovrappeso, reazione, combinazione dei poteri, separazione,
bilanciamento, collaborazione. Così egli condensa il suo pensiero Costituzionalista: <<Vorrei
ricercare in tutti i governi moderati che conosciamo quale sia la distribuzione dei tre poteri e, in
base a questo, calcolare il grado di libertà di cui ciascun governo può godere>>.
12. J. J. Rousseau, eguaglianza e democrazia(Ginevra 1712 – Ermenonville 1778)
di P. Armellini
Morta la madre di parto e lasciato dal padre, passa una infanzia difficile; riceve l’appoggio di
Madame De Warens, dama svizzera al servizio del re di Sardegna, che prima le fa da madre e poi da
amante. Esercita diversi mestieri e si forma filosoficamente; con essa compie molti viaggi. Si separa
da Madame De Warens, torna a Parigi ed entra in contatto con gli enciclopedisti; per le
“Enciclopedie” scrive articoli di carattere musicale. Nel 1750 partecipa ad un concorso indetto
dall’Accademia di Digione sul tema “Se il ristabilimento delle scienze e delle arti abbia contribuito
a migliorare i costumi” e lo vince con il “Discorso sulle scienze e sulle arti”, contenenti la tesi
controcorrente della negatività del processo di incivilimento. Su occasione di un nuovo concorso
pubblica il “Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza fra gli uomini” (1755). Rompe
con gli enciclopedisti e si ritira prima all’Ermitage poi a Montmorency dove scrive il “Contratto
sociale” (1762), e l’ “Emilio” (1762), condannati dalle autorità parigine e ginevrine. Ripara a
Neuchâtel, in territorio svizzero soggetto al re di Prussia e qui scrive “Le lettere scritte dalla
montagna” contro Ginevra e un “Progetto di costituzione per la Corsica”. Su invito di Hume si
trasferisce a Londra ma la sua instabilità nervosa sempre peggiorata gli fa rompere con lui. Torna in
Francia e dopo vario peregrinare si ritira ad Ermenonville dove scrive le “Considerazioni sul
governo di Polonia”, conclude l’autobiografia - le “Confessioni” – e muore nel 1778. Viene
considerato dai suoi critici sia illuminista che romantico, sia individualista che collettivista,
anticipatore di Kant e precursore di Marx. Per alcuni è il teorico del sentimento interiore come
unica guida della vita, per altri è il difensore dell’assorbimento totale dell’individuo nella vita
sociale. Figura ricca e contraddittoria, affascina per la sua complessità dei sentimenti che incarna e
descrive, denunciando i pericoli di un razionalismo esasperato: la ragione senza gli istinti è sterile,
le passioni senza la ragione portano all’anarchia.
“Discorso sulle scienze e sulle arti”. Nelle “Confessioni” emerge costantemente un tema, quello
della natura come succedaneo della divinità, l’archetipo di ogni bontà e felicità, il criterio di valore
supremo. Rousseau identifica il proprio “Io” singolare con la natura, relegando nella sfera del
antinatura i conflitti, le tensioni interiori. La netta antitesi gli si presenta soggettivamente dapprima
come frutto di traumi infantili, che lasciano traccia incancellabile nell’archeologia della memoria. A
molti degli eventi che hanno costituito un trauma nella crescita dell’io (punizioni ingiustamente
subite, il distacco dalla città – madre Ginevra) il Rousseau adulto assegna intensa carica simbolica,
tale da raffigurare sempre e definitivamente il salto da una condizione naturale originaria
d'innocenza e di inconsapevole felicità ad uno stato di caduta e di peccato. Peccato e caduta sono
l’acquisto della consapevolezza, la uscita dalla natura vista come paradiso terrestre. La sua forma
mentis dualista si fonda su una ipersensibilità al bene e al male; traumi giovanili, sentimenti di
colpevolezza, tendenza all’evasione e al narcisismo vanno ricondotti alla contraddittoria formazione
religiosa calvinista e cattolica. Su questo sfondo Rousseau interpreta il mito cristiano della caduta di
Adamo e intravede il riscatto di una dimensione secolare, coerente con una soluzione razionale
della teodicea. Ma l’ambiguità della natura di Rousseau è evidente se si nota che egli non è stato
affatto un asceta, perché ha avuto un senso vivo e quasi pagano della felicità (immagine di giovane
voluttuoso, compiacimenti erotici, concessioni ad un franco libertismo) . Anche qui emerge il
contrasto natura – antinatura: da una parte sono le circostanze irripetibili che fanno di qualche
momento del passato uno stato di grazia e dall’altra vi è l’urto con la società, la mania di
persecuzione, le malattie reali. Col passato Rousseau intrattiene un rapporto ambivalente di
esaltazione e di condanna e il male ha la faccia della società e la presenza di altri esseri umani.
Il singolo è buono ed incorrotto, per cui il male e la caduta sono sempre imputabili all’umanità
presa come un tutto, alle istituzioni civili e al processo irrazionale che ha portato alla formazione
della cultura e della società. Un illuminazione la coglie sulla via di Vincemes un giorno dell’ottobre
1749, come se una tempesta emotiva gli aprisse gli occhi obbligandolo a vedere un altro universo e
a diventare un altro uomo: l’antitesi in natura – antinatura, individuo – società, emozione – ragione,
libertà – oppressione, caduta – redenzione vengono descritti come se si presentassero con una tale
energia da dargli turbamento. Rousseau è sul punto di descrivere tutte le contraddizioni del sistema
sociale, tutti gli abusi delle istituzioni, proprio mentre cade sulla via verso il recluso Diderot e
mentre il quesito dell’Accademia di Digione che ha dato origine al suo primo scritto (sul “Mercure
de France”). Contraddizioni sociali e abusi istituzionali corrispondono a sue esperienze affettive
( traumi infantili, l’apprendistato ginevrino, l’esilio, la frustrazione da catecumeno, l’educazione
sentimentale di Madame de Warens: tutte esperienze da bassifondi; sono esperienze lentamente
accumulate che fanno dire al suo amico Diderot: <<Era un barile di polvere da cannone che sarebbe
rimasto inesploso senza la scintilla che partì da Digione e gli dette fuoco>>) (Cfr. “Lettera a
Malescherbes 12 – 1 – 1762; “Confessioni” VIII).
Nel periodo 1744 – 49, il mondo ostile alla sua natura è rappresentato dalla società parigina dei
salotti letterari da cui si sente escluso. Il conflitto esplode con il netto rifiuto di quel mondo, in
nome della natura. L’Accademia di Digione formula il suo quesito: <<Se il Rinascimento delle
scienze e delle arti abbia contribuito a migliorare i costumi>>. Dall’ambito circoscritto dei due
secoli recenti Rousseau generalizza a tutta la storia formulando una filosofia della decadenza storica
fondata su un’antitesi radicale che da soggettiva si obiettiva in conflitto universale catastrofico, il
quale mostra come le nostre anime si siamo corrette via via, che le scienze e le arti sono progredite
verso la perfezione. Egli sente che il suo destino politico è quello di dimostrare <<l’uomo è
naturalmente buono e che soltanto a causa delle istituzioni gli uomini diventano malvagi>>. Il
“Discorso” viene premiato ed espone l’oscuro autore al clamore e alle polemiche del successo
letterario. L’autodidatta provinciale ed impacciato, umile e povero, si scaglia contro la cultura e la
civiltà moderna con la violenza di un predicatore religioso o di un moralista antico. Per lui le idee
dei filosofi hanno spinto l’uomo lontano dal suo stato d’innocenza per conquistare il mondo e
giungere fino alle stelle. Nonostante il fascino di un età di scoperte, Rousseau trova che nelle
affermazioni dei filosofi non c’è saggezza ma declamazioni oziose e un destino di catastrofe
paradossale, poiché essi stanno minando il fondamento della vita comunitaria e distruggendo la
virtù. Nell’antico Egitto e nella Grecia e Roma arcaiche, Rousseau vede invece l’immagine della
virtù; in Socrate, Catone e Fabrizio vede i simboli della moralità che rifiuta le vane scienze; ad esse
contrappone i vizi da cui sono derivate le scienze; con le loro conseguenze: dissipazione,
parassitismo, lusso, frivolezze, decadenza delle virtù guerriere e patriottiche, ozio, mediocrità. In
Rousseau troviamo così l’incrocio tra una tematica umanistica – la vanità delle scienze – e la critica
illuministica della società; egli mette infatti in contrasto i motivi delle diverse correnti intellettuali,
criticando la cultura dei lumi in nome della virtù civile e della coscienza religiosa e imputando al
sapere i guasti che i philosophes dei lumi attribuiscono alla superstizione religiosa. Non è così né
illuminista né cristiano. In realtà Rousseau si rende conto che, attaccando le scienze e le arti, si
scaglia in verità contro le ideologie della classe dominante. La debolezza della civiltà risiede nel
solco sempre più profondo tra l’essere e l’apparire. L’uomo sembra avere raggiunto uno stadio in
cui l’urbanità dei costumi pare rendere semplici e fruttuosi i rapporti tra gli uomini. Ma l’urbanità è
una vernice brillante che cela una realtà diversa, mentre sarebbe piacevole se il contegno esteriore
fosse un riflesso della inclinazione del cuore. La civiltà si afferma attraverso rapporti di dominio e
di servitù che spesso l’unità sociale e introducono tra gli uomini il sospetto e la paura: <<non si osa
più apparire ciò che si è>>. L’affinarsi dei costumi si riduce per R. a una scuola di ipocrisia e di
conformismo, mentre le disposizioni del cuore e il contegno esteriore, tra essere e apparire, apre una
scissione all’ interno dello stesso individuo avilizzato. La convivenza sociale e divenuta un gioco di
maschere e di menzogne, mosso dagli egoismi privati, ai quali R. contrappone le virtù civili della
città – stato greche e della Roma repubblicana. L’inganno delle apparenze è stato moltiplicato dal
progresso delle arti, mentre prima i nostri costumi erano rustici e naturali. R. intende rimanere
sconosciuto e ascoltare la coscienza e gli imperativi del cuore. Il primo passo deve essere la
restaurazione della virtù, che è quella forza attiva del coltivatore, restio ad abbandonare la bellezza
e la sovrabbondanza della natura. La virtù è una forza dell’anima degli uomini felici di vivere a
contatto con la natura e che rifiutano le avventure del sapere ozioso. E’ virtù terrena e sociale, che
non vuole la felicità di un altro mondo, ma assicurare in questo le condizioni che rendano possibile
la vita comunitaria; essa fornisce coesione, unità e comprensione che, in uno stato sociale, permette
la possibilità di capire meglio i propri compiti. La perdita di essa è deplorevole per le sue
conseguenze sociali. E’ stato l’orgoglio ad allontanare l’uomo dal benefico contatto con la natura. I
beni che l’umanità crede di avere acquistati, i tesori del sapere, dell’arte e della vita raffinata non
hanno contribuito alla felicità, ma hanno estraniato l’uomo dalla virtù. Le scienze e le arti hanno
origine nei nostri vizi e hanno contribuito a rinforzarli: <<l’astronomia è nata dalla superstizione;
l’eloquenza dall’ambizione, dall’odio, dall’adulazione, dalla menzogna; la geometria dall’avarizia;
la fisica da una vana curiosità; tutte, e la morale stessa dall’orgoglio umano>> (“Discorso sulle
scienze e sulle arti”, II). Il lustro della civiltà è solo vanità. Il progresso delle scienze e delle arti non
è tanto la radice del male - così egli precisa ai suoi critici – quanto il perverso effetto di una distorta
società, tra i membri della quale sono scomparse la solidarietà e la trasparenza della comunicazione.
L’incentivo al sapere è infatti nell’orgoglio individuale, nel desiderio di apparire o di dominare. Per
sfuggire alla sua povertà interiore, l’uomo si rifugia nel mondo ma si illude di non essere con se
stesso e per questo ha paura del riposo. Egoismo, vanità e desiderio di dominio governano i rapporti
umani e la vita sociale si regge più sui vizi che sulla virtù. Il peggiore è il lusso che ci fa stabilire il
merito verso lo stato di un uomo sulla base della sua capacità di consumo. Chi ha responsabilità
politiche non parla più di virtù e di morale, ma di commercio e di ricchezza; gli esseri umani sono
ridotti a valori economici e vengono giudicati in base al loro peso finanziario. Le società politiche
moderne hanno fondato le proprie istituzioni su basi commerciali che hanno creato nuova schiavitù.
La crescita della cultura, come quella del lusso o delle ricchezze, ribadisce l’ingiustizia e la servitù:
<<le scienze, le lettere e le arti stendono ghirlande di fiori sulle catene di ferro di cui gli uomini
sono carichi>>.
“Discorso sull’origine e sui fondamenti della diseguaglianza fra gli uomini” (1755). La posizione
di R. è “scandalosa” perché ritiene responsabile dei mali sociali quelle lettere, arti e scienze in cui
gli enciclopedisti hanno riposto le cause del progresso. Ciò che per essi è progresso è ulteriore
corruzione: <<Tutti i progressi della specie umana l’allontanano continuamente dal suo stato
primitivo; più noi accumuliamo nuove conoscenze e più ci precludiamo di acquistare la più
importante di esse>> (Discorso sulle scienze, II). R. si mostra nostalgico di un modello di rapporti
sociali, improntato al recupero dei più profondi sentimenti umani e per questo egli avanza l’ipotesi
dell’uomo di natura, originariamente integro, biologicamente sano, e moralmente retto; dunque non
malvagio, non oppressore, giusto. L’uomo non era, ma è divenuto malvagio e ingiusto e il suo
squilibrio è di ordine sociale e quindi derivato. Questa situazione in cui l’uomo si trova non è, come
ha pensato Pascal sulla scorta della Bibbia, costitutiva di lui ne dovuta al peccato originale: <<La
perfettibilità, le virtù sociali, le altre facoltà che l’uomo naturale aveva ricevuto in potenza non si
sarebbero sviluppate di per se stesse, ma avevano bisogno perciò del concorso fortuito di più cause
estranee che potevano non nascere mai e senza le quali l'uomo sarebbe rimasto eternamente nella
sua condizione primitiva>> (“Discorso sull’origine della diseguaglianza, I ). Cause fortuite hanno
perfezionato la ragione umana deteriorando la specie, facendo l’uomo cattivo col farlo socievole e
conducendo l’uomo al degrado attuale. Dei vizi della società non sono responsabili né Dio né la
natura umana di per sé non corrotta. Il male è imputabile solo all’ordinamento sociale e alle
istituzioni cioè alla storia dei rapporti fra gli uomini. Quindi vediamo coesistere in R. un ottimismo
antropologico (l’uomo è buono per natura) e un pessimismo storico (il corso della civiltà è
deviazione) R. ama e odia gli uomini; li odia per ciò che sono diventati, li ama per ciò che sono in
profondità. La sanità morale, il senso della giustizia, l’amore fanno parte della natura umana mentre
la maschera, la menzogna, la fitta rete dei rapporti alienanti sono effetti di quella sovrastruttura che
si è andata formando lungo un crinale di estraniamento dai bisogni e dalle inclinazioni originarie.
La genesi del male è individuata nel passaggio dallo stato di natura allo stato sociale: <<Non è certo
una lieve impresa distinguere ciò che c’è di originale e ciò che c’è di artificiale nella natura attuale
dell’uomo, e individuare in tal modo uno stato che non esiste più, che forse non è mai esistito, che
probabilmente non esisterà mai – e di cui tuttavia è necessario possedere una nozione esatta, per
poter giudicare bene il nostro stato presente>> (Ibidem). E’ evidente che l’uomo può risalire allo
stato in cui si trova verso lo stato originario: di fatti la decadenza è dovuta a cause accidentali ed
estranee sulle quali la volontà umana può agire. R. intende il progresso come un ritorno alle origini,
cioè alla natura; e si ferma con compiacenza a delineare la meta e il termine ideale di questo ritorno:
la condizione naturale dell’uomo. Ma egli non intende questa condizione come uno stato di fatto.
Quella di “stato di natura” è un concetto limite, che non rimanda a fatti storici reali, ma ha la
funzione teorica di far emergere per contrasto i tratti distintivi dello stato di civiltà. Inoltre lo stato
di natura come concetto rappresenta un ideale normativo e un criterio di valutazione morale,
rispetto al quale commisurare lo scarto maggiore o minore delle diverse condizioni di civiltà. Lo
stato di natura o la natura originaria umana è dunque solo una norma di giudizio, un criterio
direttivo per sottrarre l’uomo al disordine e all’ingiustizia della sua condizione presente e riportarlo
all’ordine e alla giustizia che devono essergli propri. Lo stato naturale non è, ma deve essere, non
nel senso che l’uomo vi sia infallibilmente diretto, ma solo nel senso che ha la possibilità o
l’obbligo di tenere ad esso.
I philosophes vedono tra natura e cultura una sostanziale continuità. Lo scandalo di R. consiste
nell’opporre invece i due termini, nel concepire la civiltà come allontanamento dalla natura e come
progressiva aberrazione. I filosofi secondo R. hanno sempre proiettato sullo stato di natura i
caratteri dell’uomo civilizzato, presentando in questo modo come naturale ed eterno ciò che invece
è il prodotto contingente di un lungo processo storico che avrebbe anche potuto seguire vie
differenti. Realtà storiche come la diseguaglianza, la proprietà privata o le passioni egoistiche non
sono manifestazioni necessarie della natura umana. Per liberarci dei pregiudizi connessi alla nostra
particolare esperienza sociale dobbiamo guardare la nostra civiltà dall’esterno, dalla prospettiva di
altre forme di esistenza umana, reali o immaginarie. R. così mette a frutto la vasta letteratura sui
“selvaggi”, propria del ‘700. Per quanto nostalgico verso il passato R. si volge all’uomo presente,
corrotto e disumano, conoscendo i limiti dello stato di vita primitivo: <<Errando nella foresta, senza
industria, senza parola, senza domicilio, senza guerra e senza associazione, senza alcun bisogno dei
suoi simili come senza alcun bisogno di nuocer loro, forse anche senza mai riconoscere alcuno
individualmente, l’uomo selvaggio, soggetto a poche passioni, e bastando a se stesso, non aveva che
i sentimenti e le conoscenze adatte a tale stato. Se per caso faceva qualche scoperta, poteva tanto
meno commerciarla, in quanto non conosceva nemmeno i suoi figli. L’arte periva con l’inventore.
Non c’era né educazione né progresso; le generazioni si moltiplicavano invano e, partendo ciascuna
dallo stesso punto, i secoli scorrevano in tutta la rozzezza delle prime età; la specie era già vecchia e
l’uomo restava sempre fanciullo>> (Ibidem). Il mito del “buon selvaggio” risulta essere allora una
sorta di categoria filosofica, una norma di giudizio in base a cui condannare l’impianto storico –
sociale che ha mortificato la ricchezza passionale dell’uomo, come la spontaneità dei suoi
sentimenti più profondi. Con questo confronto tra l’uomo presente e quello del passato R. intende
stimolare gli uomini ad un salutare cambiamento. Contro i giusnaturalisti che dipingono un uomo
già in origine socievole, morale e razionale, R. spoglia l’uomo di natura di ogni carattere
storicamente acquisito. Al di qua della ragione, del linguaggio, delle relazioni sociali, della
conoscenza del bene e del male, lo stato di natura è una condizione assai prossima alla animalità,
proiettata in una immensa lontananza temporale. Ma come è iniziata questa storia di deviazione e
di ingiustizia? Gli uomini “naturali”, se si eccettuano incontri sessuali occasionali, vivono isolati e
dispersi; sono esseri dominati dai sensi, nei quali la ragione e l’immaginazione non si sono ancora
sviluppate. I desideri non oltrepassano i bisogni vitali, e questi trovano immediata soddisfazione.
Non si apre quindi uno spazio per le passioni, per i progetti, per le speranze o le paure legate al
futuro: l’anima, << da nulla turbata, si abbandona al solo sentimento della propria esistenza
presente, senza alcuna idea dell’avvenire>> (Ibidem ). Quella naturale è una condizione di unità e
di equilibrio, senza tempo e senza storia. Essa è anche una condizione premorale in quanto non vi è
coscienza del giusto o dell’ingiusto. Il comportamento è guidato dalla interazione tra due sentimenti
naturali: l’amore di sé, che tende all’autoconservazione; e la pietà che, comportando
l’identificazione con ogni altro vivente che soffre, tempera le tentazioni egoistiche dell’amore di sé.
A differenza della vita animale, tuttavia, la natura umana ha in sé un elemento di instabilità che può
spezzare l’equilibrio e dare origine a una storia. L’uomo è “agente libero”, non incatenato
all’istinto, ed è dotato di perfettibilità, cioè di un insieme di potenzialità che tendono a realizzarsi se
vengono provocate da circostanze esterne. R. individua nella perfettibilità la possibilità di
un’evoluzione quasi illimitata, ma anche <<la fonte di tutte le sventure>>. I primi ostacoli opposti
dall’ambiente naturale provocano la nascita delle prime relazioni sociali e delle prime forme di
riflessione. Con le tecniche della caccia, della pesca e della costruzione di capanne, gli uomini
cominciano ad addomesticarsi; i sentimenti si affinano e le unioni sessuali occasionali diventano
rapporti più duraturi. Nasce il linguaggio, il cui sviluppo è collegato all’instaurazione di una più
stabile vita familiare, all’influenza che i figli, bisognosi di aiuto, esercitano sui genitori nel tentativo
di esprimersi, così come agli ulteriori rapporti tra i gruppi familiari e alla necessità di un sistema di
comunicazione più articolato, per poter esprime l’accresciuto bisogno reciproco. Una comunità
dotata di linguaggio ha già una lunga storia alle spalle ed è entrata in una nuova fase di sviluppo
(Cfr. “Saggio sull’origine delle lingue”). Se da un lato infatti i bisogni fisici si possono esprimere a
segni, dall’altro le passioni, le esigenze morali, il risveglio della ragione devono necessariamente
originare le lingue, che si sviluppano con la complessità dei bisogni sociali. Si passa così dal
linguaggio segnico a quello della poesia e del canto. E’ questo il secondo stadio, quello della società
nascente, egualmente distante dalla stupidità dei bruti e dai lumi funesti degli uomini civili.
L’alfabeto è caratteristico di società ad organizzazione politica. Ma anche il nuovo e felice
equilibrio della nascente società viene travolto da ulteriori trasformazioni, che preparano il terzo
stadio, quello dell’uomo civile. Metallurgia e agricoltura sono le due rivoluzioni tecniche decisive,
da cui procedono la divisione del lavoro, la proprietà privata e la diseguaglianza. Agricoltura:
inizialmente gli uomini erano sparsi sulla faccia della terra, in cui la famiglia è l’unica società
secolo doro, perché ognuno si considera padrone di tutto e le sue necessità lo allontanano dai simili,
per cui la terra è in pace. In un mondo non competitivo si possono facilmente soddisfare i propri
bisogni, attraverso la mobilità, la caccia e l’allevamento nomade. Non esiste ancora l’agricoltura
stabile, che invece rappresenta una svolta decisiva. Essa porta la proprietà, il governo, le leggi, e per
gradi povertà e crimini. Senza l’intervento del clima instabile e dei fenomeni naturali lo sviluppo
della agricoltura sarebbe stato diverso: se fosse stato sempre primavera, l’uomo non avrebbe
rinunciato alla libertà primitiva, di per sé indolente, per autoimporsi fatica e miseria necessarie per
lo stato sociale. Ma sotto le querce non ebbe inizio solo l’amore, ma anche qualcosa di meno nobile,
come la coltivazione, e con essa la divisione delle terre e il diritto avanzato sul raccolto da chi lo
aveva prodotto. Lo stato di natura è completamente distrutto. E’ nata la proprietà. L’agricoltura e la
metallurgia produssero la grande rivoluzione che ha civilizzato l’uomo facendogli perdere l’umanità
con le sue conseguenze dettate e favorite dai processi di produzione e di scambio, quando le merci
sono prodotte in quantità diverse da uomini diversi e per fini diversi. L’equilibrio delle differenze
naturali legate alla libertà originaria si rompe in favore dell’asservimento dei membri più deboli. Si
tracciano i solchi della società civilizzata fra le varie gerarchie. Infatti la maggiore complessità
sociale genera passioni “fittizie” e bisogni artificiali, per soddisfare i quali l’individuo diviene
schiavo del lavoro e sempre più dipendente dagli altri. Il moltiplicarsi dei desideri inappagati
produce infelicità. Se le tecnologie portano alle gerarchie, queste hanno avuto origine dalla
proprietà <<Ma appena un uomo ebbe bisogno dell’aiuto di un altro, appena si accorse che era utile
per un singolo avere provviste per due, l’eguaglianza disparve, subentrò la proprietà, il lavoro
divenne necessario, e le vaste foreste si tramutarono in ridenti campagne, che bisognò irrigare col
sudore umano, e nelle quali si videro ben presto la schiavitù e la miseria germogliare e crescere
insieme con le messi. La metallurgia e la agricoltura furono le due arti la cui invenzione produsse
questa grande rivoluzione>>; <<alla coltivazione delle terre seguì necessariamente la loro
spartizione, e dal riconoscimento della proprietà derivarono le prime regole di giustizia>>; <<Non
mi fermerò a descrivere il resto, cioè l’uso e l’abuso delle ricchezze>>.
Le gerarchie portano a istituzioni che rappresentano l’atto finale di ratifica della diseguaglianza. Le
istituzioni, attraverso le leggi della giustizia civile, congelano un processo fluido e plasmano a loro
immagine le attività umane. Si costituisce il governo e l’uomo realizza il suo potenziale di socialità.
La differenza fra l’uomo selvaggio e l’uomo civilizzato è che il primo respira quiete e libertà e vive
per restare in ozio quando il cittadino suda sempre attivo e si tormenta per intraprendere
occupazioni più ardue per le quali lavora fino alla disperazione e alla morte, rinunciando alla vita
per l’immortalità. L’uomo è diventato schiavo degli altri: la diseguaglianza ha origine
nell’evoluzione e nel progresso storico, dove tutto si è ridotto a proprietà e competizione.
L’acquisizione di nuovi bisogni vincola l’uomo agli altri anche quando ne è il padrone. La società è
diventata coabitazione forzata di uomini dagli interessi contrastanti, mossi dal solo desiderio di
distruggersi. L’uomo sociale è malvagio, l’uomo pensante è depravato: tutti i mali sono opera
nostra, attraverso la forza motrice dell’avidità di guadagno che spinge l’uomo prima a cercare il
necessario, poi il superfluo e ancora inutili ricchezze conquistate a danno di altri. L’ipocrisia è la
caratteristica della vita civile.
Il governo non è, come per Locke, inteso come il trasferimento in un diritto costituzionale di un
diritto del tutto valido fondato sulla legge naturale. Governo vuol dire trasferimento in istituzioni
tiranniche e temporali di un sopruso compiuto da pochi contro i molti. Quanto i ricchi difendano,
sono acquisizioni fondate sulla forza e su titoli abusivi e precari. Essi sono così esposti agli attacchi
dei diseredati e alla vendetta dei poveri. Così essi hanno congegnato un progetto, quello di garantire
con l’istituzione, che mostra di seguire la legge dell’uguaglianza, dell’ordine, del godimento
pacifico dei beni individuali, quanto accumulato indebitamente. Legge e diritto di proprietà sono il
primo stadio; la magistratura è il secondo stadio; la trasformazione del potere legittimo in quello
arbitrario è il terzo. E’ la proprietà, e quindi la diseguaglianza, ciò che costituisce la svolta decisiva,
verso la degenerazione morale e sociale dell’umanità. E’ la proprietà privata a scatenare la guerra di
tutti contro tutti che Hobbes attribuisce allo stato di natura. La necessità del patto sociale scaturisce
dalla necessità di superare lo squilibrio drammatico di una condizione sociale già contro natura. Su
queste basi si può stabilire solo un iniquo patto, imposto con l’inganno e con forza dei ricchi a
danno dei forti. L’istituzione delle leggi e della società civile si risolve nella legittimazione della
proprietà e della diseguaglianza: una semplice usurpazione di fatto viene coperta con la maschera
rispettabile del diritto. Parallelamente alle rivoluzioni tecniche e scientifiche avvengono ad esse
intrecciate quelle morali e cognitive, con cui si va attuando la perfettibilità. Anche qui per R.
l’innocenza originaria si corrompe quando si apre la divaricazione fra essere e apparire. Nascono le
passioni dell’individuo, dell’orgoglio, del disprezzo e della vergogna. La passione naturale
dell’amore di se degenera in quella sociale e artificiale dell’amor proprio, che è una passione
egoistica prodotta dal confronto consapevole con l’altro, un desiderio di prevalere su tutti. L’amor
proprio è all’origine di ogni vizio morale: <<Il selvaggio vive in se stesso; l’uomo sociale, sempre
proiettato fuori di se, non sa vivere se non nell’opinione degli altri>>. Al punto finale di questo
processo ci dovrà essere una <<nuova rivoluzione>>, per il recupero della libertà umana perduta
con l’appropriazione privata di ciò che è comune. Contro le contraddizioni dell’uomo pensato come
risultato del conflitto d’interessi economici, bisogna ristabilire a livello morale quella libertà.
“Economia politica” (1755) Questo articolo scritto per l’”Enciclopedia” rappresenta
un’anticipazione, insieme al “Manoscritto di Ginevra” (’61), delle “Istituzioni politiche”, progettate
fin dal ’50 ma mai finite, perché R. poi pubblica il “Contratto Sociale” (1762). Ma è possibile
seguire la maturazione del pensiero di R. riguardo al concetto di volontà generale che è
l’espressione della sovranità. Qui il riferimento è a Diderot che per l’enciclopedia scrive la voce
“Diritto naturale”. Viene discussa la questione della proprietà, che nel “Discorso sulla
diseguaglianza” è un luogo dell’evoluzione umana e la fonte di sfruttamento in una comunità
imposta dai ricchi ai poveri. Nell’ “Economia politica” c’è una frase che dice: <<E’ necessario
ricordare che la base del patto sociale è la proprietà e che la sua prima condizione è che ognuno sia
mantenuto nel pacifico godimento di quanto gli appartiene>>. Sembra che R. derivi da Locke
queste parole. Ma si deve subito notare che per lui la proprietà non è un diritto naturale che la
società civile deve sanzionare. Egli non ripudia affatto le parole pronunciate precedentemente per
cui, quando le parole “mio” e “tuo” vennero pronunciate per la prima volta, fu un giorno infausto
per l’umanità. Il diritto di proprietà è delimitato dall’accento posto sul “pacifico godimento” che
ognuno trarrà dalla salvaguardia del proprio diritto, non competitivo e mantenuto su scala umana. Il
diritto di proprietà va protetto perché serve a scopi precisi. Il primo riguarda la preoccupazione per
lo istituto della famiglia (i beni di famiglia devono essere alienati il meno possibile e rimanere al
suo interno, non andare a finire in mano agli speculatori). Il secondo riguarda la stabilità sociale, per
cui la garanzia della proprietà deve essere accompagnata da leggi che la regolano, perché alla
morale e alla repubblica non giovano i continui cambiamenti di condizione dei cittadini. R. si
mostra ansioso di proteggere i diritti dei piccoli proprietari in una società democratica di cittadini
liberi e uguali. Sotto questo riguardo la proprietà diviene la base della società, poiché non possono
essere sottratti quei beni che la famiglia utilizza direttamente. Viene esclusa la possibilità
dell’accumulazione lockeana; R. raccomanda infatti una politica di confisca di tutto quanto eccede
un certo minimo necessario alla sopravvivenza. Su un altro passo R. riconosce come <<il più sacro
fra tutti i diritti dei cittadini>> quello di proprietà, ma poi precisa:<< o perché esso riguarda più da
vicino la conservazione della vita, o perché, essendo i beni materiali più facilmente asportabili e più
difficili da difendere della persona, si deve rispettare maggiormente ciò che può più facilmente
essere sottratto; oppure, finalmente, perché la proprietà è il vero fondamento della società civile e
l’autentica garanzia dell’impegno dei cittadini; perché se i beni materiali non garantissero per i loro
proprietari, niente sarebbe più facile che eludere i propri doveri ed evadere la legge>>. La proprietà
risulta quindi per R. un pegno della condotta onesta dei cittadini, e assicura l’adempimento dei
doveri di questi verso lo Stato. La proprietà, che nella condizione prepolitica sarebbe
un’usurpazione, acquista un nuovo ruolo quando i cittadini acconsentono a formare la comunità
politica. Essa garantisce ora tanto la libertà del cittadino quanto l’adempimento del suo dovere. E’
limitata nella sua estensione ed inestricabilmente legata allo Stato. E’ solo un mezzo per permettere
ai cittadini di compiere il proprio dovere. R. sa che difficilmente l’uomo, una volta corrotto, sarebbe
in grado di recuperare la propria grandezza del suo stato originario; ma nutre fiducia nel futuro e
rimprovera a Voltaire il suo pessimismo, ricordandogli che, tutto considerato, essere vivi è un bene.
R. vive nella convinzione che nell’uomo esista una grandezza latente che si può portare alla luce
ancora una volta, almeno in parte, perfezionando le istituzioni per un verso e la capacità di guardarsi
in un più ampio proposito comune per l’altro. Egli in alcune pagine autobiografiche dice che ha
cercato di guardare all’uomo in sé e di trovare nella sua costituzione il vero sistema; il suo sistema
si limita a togliere dall’uomo quanto egli vi aveva aggiunto (“Fragment biografique”). I suoi
avversari sono alcuni luoghi comuni scolastici. Ammira Diderot, ma nella discussione sulla
“Volontà generale” prende le distanze da lui. Egli dice che oltre la famiglia troviamo la comunità,
che è l’unico modo di unire gli uomini, non solo di aggregarli, sulla base del diritto. La famiglia è
naturale, la comunità politica è convenzionale, risultante da accordi specifici. Qui R. polemizza con
Filmer, quando dice che nella società politica non esistono i rapporti dedotti dall’autorità paterna,
con la sottomissione della madre e con l’obbedienza dei figli. Del pari inaccettabile è il concetto di
diritti maturati dai ricchi a causa del loro maggior potere economico, perché ciò può essere una
realtà non un diritto. Il semplice possesso non stabilisce il diritto di proprietà; la terra di per se non
dovrebbe essere occupata da nessuno; poi la superficie occupata non dovrebbe eccedere le esigenze
di sussistenza individuale, infine il possesso deve essere reso effettivo non con un gesto formale, ma
col lavoro e la coltivazione. Il resto è violenza. Tutto quanto si verifica nella comunità invece è
fondato sulla più piena aderenza al principio dell’equa distribuzione della terra secondo il bisogno
prevenendo l’accumulazione di ricchezza eccessiva, che è il compito del sovrano in uno stato civile.
L’usurpazione non ha giustificazione in natura e non può formare la base del diritto. In una società
retta dalla volontà generale si deve impedire il processo di accumulazione nel suo stesso sorgere.
Anche la guerra non è ragione efficace per il consolidamento di un legame sociale, perché essa, se è
un conflitto tra società, presuppone l’esistenza della comunità politica, se è conflitto fra privati non
è in relazione con quanto si discute. La sola spiegazione accettabile della fondazione della società
civile deve essere l’utile comune che ne trarranno i membri. Gli stati legittimi non sono masse
tenute insieme con la forza; la loro forma tende al bene comune, non alla soddisfazione dei suoi
capi. Per R. va combattuta però anche la tentazione di paragonare lo Stato ad un organismo, poiché
lo Stato è un’entità morale dotata di una volontà: lo Stato è mosso dalla volontà generale descritta
nell’ ”Economia politica” come una volontà che <<poiché mira sempre ala conservazione e al
benessere del tutto e delle parti ed è l’origine delle leggi, costituisce per tutti i membri dello Stato,
nei rapporti che intrattengono fra loro e con l’organismo politico, il criterio di ciò che è giusto e
ingiusto>>. La discussione sulla volontà generale è importante per il rapporto con il Diderot, il
quale ne ha parlato nel suo articolo ”Diritto naturale”, in cui l’autore suppone che il singolo sia stato
privato del diritto di decidere da sé ciò che è giusto e ciò che è ingiusto; questo diritto può essere
allora esercitato solo dal genere umano, essendo malfide le volontà particolari ed essendo sempre
buona la volontà generale. Il problema di Diderot è quello di determinare i diritti universali
dell’uomo che trascendono spazio e tempo e sono inalienabili. L’intera umanità diviene depositaria
di questi diritti, verificati dalla volontà generale. Ma come sappiamo in che modo procedere? Dove
possiamo consultare la volontà generale? La risposta è: ovunque, cioè in tutti i principi legislativi
scritti di tutte le società organizzate. Si tratta di una volontà generale comune all’umanità in tutte le
fasi del suo sviluppo, dai selvaggi già in qualche modo sociali alle società più avanzate con codici
legislativi più complessi. Sembra poi una volontà generale che fluttua sopra l’umanità e che gli
uomini possono trovare per proprio conto una volta messa a tacere tutte le passioni. La volontà
generale diviene la guida della condotta umana verso gli altri, verso la società in cui si è membri,
dalla società verso altre società. Ora, l’universalismo di Diderot non può essere la fonte dell’idea
rousseauniana di volontà generale, nonostante il riconoscimento formale di R. . Nella prima
versione del “Contratto Sociale” (I, cap.II) si dice che non esiste alcuna società universale del
genere umano, ma società naturali perché ciò che esiste è un’evoluzione graduale da cui è scaturita
la necessità di istituzioni politiche, perché, acquisendo l’uomo sempre più crescenti bisogni, si
rendono necessarie forme di aiuto reciproco. L’umanità ha lasciato lo stato di natura e imboccato
una fase di disordine senza pace e felicità. La miseria e l’incapacità di distinguere il bene dal male
sono il risultato della crescente socializzazione dell’uomo. Hobbes sbaglia nell’avere immaginato lo
stato di guerra come la condizione naturale dell’umanità e come la causa dei vizi di cui è invece
conseguenza. L’età dell’oro è rimasta estranea all’uomo o perché l’uomo non la riconobbe quando
avrebbe potuto goderne o perché, l tempo in cui poteva riconoscerla, essa era già perduta. Non è
accettabile parlare di società generale dell’umanità quando la nostra innocenza naturale è svanita.
Senza comunicazione, virtù e morale non si può dire che esista una società, che è appunto un’entità
morale. Ancor meno sostenibile è l’idea che si possa far funzionare un tribunale generale
dell’umanità. La sua esistenza presuppone una comprensione della ragione per cui gli interessi
personali dell’uomo richiedono che egli si sottometta alla volontà generale. Ciò presuppone una
capacità di astrazione che è un esercizio difficile. Per R. è solo dall’ordine sociale stabilito tra gli
uomini che si possono dedurre le idee di ordine. Concepiamo la società generale in base alle nostre
società particolari, perché una volontà generale stabilita sulla fiducia nella società generale
dell’umanità non ha consistenza. Il principio luminoso della volontà generale va ripensato in termini
di esperienza concretamente umana della società, particolari di cui per prima cosa l’uomo deve
essere cittadino. Il difetto del cosmopolitismo è che si vanta di amare il mondo intero così da avere
il diritto di non amare nessuno in particolare. Partendo dagli antipodi di Diderot, R. dice che la
volontà generale è fonte di doveri, non solo di diritti. Essa non riguarda rapporti tra nazioni: <<La
volontà di questa società particolare ha sempre un duplice valore: per i membri dell’associazione è
una volontà generale, per la grande società è una volontà particolare>>. Se il “Discorso
sull’uguaglianza” costituisce una diagnosi della degenerazione sociale dallo stato di natura al patto
iniquo, la voce “Economia politica” disegna la prognosi del buon governo, la teoria e la pratica
dello Stato giusto, prefigurando il “Contratto Sociale”. L’autore costantemente presente a R. per il
suo concetto di volontà generale è anche Pufendorf (Cfr. “I doveri dell’uomo e del cittadino” 1734),
che ha descritto l’entrata degli uomini nello stato sociale come un solenne impegno, assunto da
ciascuno, di rinunziare una volta per tutte alla propria volontà particolare, di costituire un corpo
sociale, e di sottomettersi alla “volontà positiva di tutti in generale”. Tale sottomissione è definitiva,
irrevocabile e si articola attraverso due convenzioni: un “pactum unionis” e un “pactum
subjectionis”. Ne risulta una volontà unica. Lo Stato è per Pufendorf <<una persona morale
composta, la cui volontà, formata dall’insieme delle volontà di molti riunite in virtù delle loro
convenzioni, è considerata volontà di tutti in generale, ed è autorizzata per questo motivo a servirsi
delle forze e delle facoltà di ciascun individuo privato per conseguire la pace e la sicurezza
comune>>. Pufendorf polemizza con Hobbes perché disegna un assetto gerarchico del potere nato
dalla spontanea sottomissione dei contraenti all’autorità da loro stessi prescelta. Il trapasso dallo
stato di natura allo stato sociale è privo di lotta, dominato dall’equità, dai giuramenti, dalla fedeltà
ai patti. La “legge naturale” si prolunga e si realizza senza frattura nelle leggi positive. I cittadini
educati al potere comprendono la necessità e l’utilità del governo civile. Diderot non fa che
riesporre nel suo articolo i principi di Pufendorf. Come questi, parla del malvagio antisociale che è
tale per ignoranza. Sembra che Diderot e Pufendorf parlino di Hobbes: rifiutando la volontà
generale di tutti, il malvagio sa comunque illustrare le sue ragioni a favore della sua politica ferina e
aggressiva, dicendo che il suo diritto di uccidere gli altri è reciproco. Diderot gli offre una scelta
netta: o la repressione o il ravvedimento attraverso la persuasione razionale (viene edificato). Il
ravvedimento del malvagio avviene con il rinvio ai supremi principi che regolano la volontà
generale, mostrandogli il fondamento stesso del diritto naturale, la fonte extrastorica della ragione
universale (la recta ratio dell’intero genere umano): <<la volontà generale è sempre buona – dice
Diderot – non ha mai ingannato e mai ingannerà>>. Nella voce “Economia politica” R. dice che la
volontà generale è un dato oggettivo della retta ragione (la differenza con Diderot è impalpabile),
precisando che è conoscibile da parte del soggetto mediante una precisa scelta etica: <<per seguirla
bisogna conoscerla, e soprattutto bisogna ben distinguerla dalla volontà particolare, cominciando da
se stessi>>. Qui è posto il nesso tra morale e politica, libertà e autorità, sovranità della legge e limiti
del potere esecutivo, diritti e doveri dei cittadini. Il punto d’incontro è dato dalla più sublime delle
istituzioni umane, la legge, che l’uomo deve ad una ispirazione celeste. Attraverso metafore R. si
domanda: <<Per quale arte imperscrutabile si è potuto trovare il mezzo di assoggettare gli uomini
per renderli liberi? D’impiegare al servizio dello Stato i beni, le braccia, la vita stessa di tutti i suoi
membri senza costringerli e senza consultarli? D’incatenare la loro volontà con il loro beneplacito?
Di far valere il loro consenso contro il loro rifiuto, e di forzarli a punirsi da sé quando fanno ciò che
non hanno voluto? Come può accadere che obbediscano senza che nessuno comandi? Che servono e
non abbiano padroni? Tanto più liberi di fatto, in quanto sotto una apparente soggezione, ciascuno
perde della propria libertà solo quel che può nuocere alla libertà altrui. Questi prodigi sono opera
della legge. Solo alla legge gli uomini debbono la giustizia e la libertà. E’ questo salutare organo
della volontà di tutti che ristabilisce nel diritto l’uguaglianza naturale tra gli uomini. E’ questa voce
celeste che detta a ciascun cittadino i precetti della ragione pubblica e gli insegna a modellare la
propria condotta sui principi dettati dal suo proprio giudizio e a non essere in contraddizione con sé
stesso>>. La volontà generale è la fonte del potere sovrano, la regola suprema e il limite
dell’autorità dei magistrati. Ma come si esprime in concreto? R. non ripete, come Pufendorf e
Diderot, che è incorporata una volta per tutte nei patti istitutivi o depositata nel diritto positivo,
continua a parlare delle condizioni educative, morali e politiche che rendono concretamente
possibile la crescita della volontà popolare retta: amor di patria, rettitudine dei governanti, onestà
dei costumi. Finisce l’articolo con la parte dedicata al buongoverno, all’equa ripartizione della
ricchezza, all’amministrazione della finanza pubblica, al fisco, agli argomenti economici. Il
concetto di volontà generale è chiarito in un capitolo tormentato del “Manoscritto di Ginevra” poi
escluso dal “Contratto Sociale”; in esso si confronta ulteriormente con Hobbes, Pufendorf, Diderot.
Il concetto di volontà generale diventa la chiave di volta della critica antigiusnaturalista. Che cosa è
la sociabilitas? Essa, che dovrebbe spiegare l’appello alla volontà di una società generale del genere
umano, intesa come suprema depositaria dei principi del diritto e della giustizia, è una chimera dei
filosofi, mentre la realtà storica ci presenta solo modelli di società antagoniste, competitive,
violente. Il preteso progresso non è che corruzione e la ragione, è un prodotto tardivo dello sviluppo
sociale. La natura non detta patti sociali. Non esiste un deposito extrastorico della volontà generale,
intesa da Diderot come un atto puro dell’intelletto che ragiona nel silenzio delle passioni. Essa è
accettabile per l’individuo già ragionevole, ma non ha alcun valore cogente. La volontà generale
intesa come voce edificante dell’intelletto è soverchiata dagli istinti egoistici e dalle passioni
aggressive; la volontà generale è inerme e non si impone al volgo, è pura proiezione della ragione
astratta. Ma <<sforziamoci di trarre dallo stesso male il rimedio che deve guarirlo. Mediante nuove
associazioni correggiamo se è possibile, la mancanza di un’associazione generale>>. Una volontà
generale legittima ed efficace non può essere altro che l’espressione vivente dell’assemblea
popolare: <<La volontà generale cui spetta la direzione dello Stato non appartiene al passato, ma al
presente, e il vero carattere della sovranità consiste in un accordo costante di tempo, luogo, effetto,
fra la direzione della volontà generale e l’impiego della forza pubblica>>. La scelta morale
consapevole dei singoli risolve dunque il conflitto tra senso ed intelletto, passioni e ragione, e le
singole scelte individuali si compongono in una volizione unitaria, in un “io comune”. La ragione
che parla nel silenzio delle passioni è impotente a modificare la decadenza umana. Non bisogna
sopprimere il momento hobbesiano, la ferinità e la forza associata con la astuzia, nella costruzione
della società giusta, esso è lo strumento più efficiente di autocoercizione e di coercizione sociale.
Inoltre la socializzazione del malvagio è garanzia di liberazione per tutti. Nella volontà generale R.
vede confondersi coscienza e natura, istinto e ragione, libertà e necessità.
Il “Contratto Sociale” (1762) inizia con una frase: <<L’uomo è nato libero e tuttavia è ovunque in
catene>>. Sciogliere l’uomo da esse e restituirlo alla libertà è l’obiettivo del nuovo contratto, come
finzione teorica di un passaggio netto ed istantaneo dallo stato di natura allo stato civile, che
coincide con la creazione di un puro ordine di diritto. Tra natura e costituzione politica legittima
non v’è continuità: R., contro Locke e con Hobbes, nega l’esistenza di diritti naturali. Morale,
diritto e proprietà privata sono istituzioni artificiali. Il Contratto non prospetta il ritorno alla natura
originaria, ma esige la costruzione di un modello sociale, non fondato sugli istinti né solo sulla
ragione, isolata e contrapposta al mondo prerazionale; è sulla voce della coscienza umana aperta
alla comunità. Col passaggio dallo stato di natura allo stato sociale, l’uomo sostituisce nella sua
condotta la giustizia all’istinto. Qual è il principio che renderà possibile tale palingenesi storica?
Non è la volontà astratta, ritenuta depositaria di tutti i diritti, o la ragione pura, estranea alle
passioni. Il principio che legittima il potere e garantisce la trasformazione sociale è costituito dalla
volontà generale amante del bene comune. Di cosa essa è il frutto e come riesce a modificare gli
uomini mettendo fine alla corsa dell’accumulazione dei beni? Delineando una comunità etico –
politica in cui ciascun individuo non obbedisce ad una volontà estranea, ma ad una volontà generale
che egli riconosce per propria e quindi in ultima analisi a se stesso, R. descrive un ordine sociale,
non naturale, che nasce tuttavia per una necessità quando gli individui non sono più in grado di
vincere le forze che si oppongono alla loro conservazione. A questo punto il genere umano
perirebbe se non mutasse la sua maniere di vivere. Il problema del “Contratto Sociale” è quello di
prospettare un passaggio allo stato civile che non sacrifichi la libertà e l’uguaglianza, cioè quello di
<<Trovare una forma di associazione capace di difendere e di proteggere con la forza comune la
persona e i beni di ogni associato, e in virtù della quale ognuno, unendosi a tutti gli altri, obbedisca
tuttavia soltanto a se stesso, e rimanga libero com’era prima>> (Ib., I, 6). Questo problema è risolto
col patto che è alla base della società politica. La clausola fondamentale di questo patto è
l’alienazione totale di ciascuno associato, con tutti i suoi diritti, a tutta la comunità. In cambio della
sua persona privata, ciascun contraente riceve la nuova qualità di membro o parte indivisibile del
tutto; e si genera così un corpo morale e collettivo, composto di tanti membri quanti voti ha
l’assemblea corpo che ha la sua unità, il suo “io comune”, la sua vita e la sua volontà(I,6). Ora, la
volontà generale non è il frutto di un pactum subjectionis a un terzo, che implicherebbe la rinunzia
alla propria responsabilità diretta e la delega dei propri diritti. Essa è frutto del solo pactum unionis
che ha lungo eguali, che restano sempre tali; essa non è la somma delle volontà di tutti i
componenti, ma una realtà che scaturisce dalla rinuncia di ognuno ai propri interessi a favore della
comunità, quel corpo morale e collettivo che trae dal medesimo atto a sua unità o “io comune”. È un
patto che gli uomini non stringono con Dio o con un capo ma tra loro, in piena libertà e
uguaglianza: <<Solo la volontà generale può dirigere le forze dello Stato secondo il fine della sua
istituzione, che è il bene comune; infatti è stato il contrasto degli interessi privati a rendere
necessaria la istituzione delle società civili, è stato l’accordo dei medesimi a renderla possibile. Il
legame sociale risulta da ciò che in questi interessi differenti c’è in comune… ora poiché la volontà
tende sempre al bene dell’essere che vuole, e la volontà particolare ha sempre per oggetto
l’interesse privato, mentre la volontà generale si propone l’interesse comune, ne consegue che solo
quest’ultima è, o deve essere, il vero motore del corpo sociale>>. Secondo questa impostazione
ogni cittadino non è niente e non può niente se non per mezzo di tutti gli altri; l’uomo con la volontà
generale per il bene comune deve pensare a sé solo pensando agli altri, solo tramite gli altri, non
come strumenti ma come fini in sé, come lo sono tutti i componenti. Nessuno deve ubbidire a
l’altro, ma tutti alla legge, sacra per tutti perché è frutto ed espressione della volontà generale. Col
passaggio dallo stato di natura allo stato civile, l’uomo sostituisce nella sua condotta la giustizia
all’istinto e dà alle sue azioni la moralità di cui prima mancavano:<<Allora solamente la voce del
dovere succede all’impulso fisico e il diritto succede all’appetito e l’uomo, che fino ad allora aveva
considerato solo sé stesso, si vede forzato ad agire su altri principi e a consultare la ragione prima di
ascoltare le sue tendenze>>(I,8). Il passaggio dallo stato di natura a quello civile non è dunque una
decadenza, se lo stato civile è, come deve essere, la continuazione e il perfezionamento dello stato
di natura. Tutti gli sforzi del nuovo patto sociale sono diretti a eliminare i germi dei contrasti tra
interessi privati e interessi comunitari, assorbendo i primi nei secondi (radicale socializzazione
dell’uomo); per far ciò occorre radicare a legge sociale nel profondo dei cuori umani, in modo che
gli uomini non siano in contraddizione con sé, che siano ciò che vogliono sembrare e appaiano ciò
che sono. Alla forza della costruzione sarà subentrata della volontà, alle fortune dei privati il tesoro
pubblico. Non c’è nulla di privato, tutto è politico o deve diventarlo. L’uomo è essenzialmente
sociale, un’animale politico. La volontà del corpo sociale sovrano è la volontà generale, che tende
sempre all’utilità generale e quindi non può sbagliare (II, 3). Di questa volontà sono emanazione le
leggi, che sono gli atti della volontà generale, esse non sono quindi gli ordini di un uomo o di più
uomini, ma le condizioni per la realizzazione del bene comune pubblico (II, 6). La sovranità non è
che la volontà generale del corpo politico e appartiene interamente al popolo, che riunito in
assemblea, esercita direttamente il potere legislativo. Ogni individuo è contemporaneamente
cittadino, in quanto partecipe del potere sovrano, e suddito in quanto come egli altri è soggetto alle
leggi della comunità. Con l’adesione al contratto sociale, l’individuo perde in modo illimitato la
libertà naturale, che è però compensata dalla libertà civile, che trova nel diritto un limite ma anche
un’assoluta garanzia. Il suddito obbedisce alla legge che egli stesso ha stabilito in quanto cittadino e
membro dell'autorità sovrana. La dipendenza totale di tutti dalla legge comune impedisce la
dipendenza personale di un individuo dal potere arbitrario di un altro. Mirando sempre al bene
comune, la volontà generale è sempre nel giusto. Con ciò deriva che la sovranità è, come in Hobbes,
assoluta, con la differenza che essa appartiene al popolo, ed è inalienabile, non essendo conferibile
ad alcun organo distinto dal popolo, o corpo politico collettivo. Contro il liberalismo R. non
ammette divisioni o limitazioni del potere: non essendovi diritti preesistenti al contratto sociale, non
c’è un ambito privato di libertà naturali da proteggere contro l’invadenza dello Stato; ogni diritto
nasce infatti dal patto. Del resto il potere sovrano, che risiede esclusivamente nella totalità degli
associati, <<non ha alcun bisogno di un garante nei confronti della collettività, poiché è impossibile
che il corpo voglia nuocere ai suoi membri>>. Il potere sovrano, inalienabile e indivisibile, coincide
con la sola funzione legislativa, esercitata da tutto il popolo nella forma della democrazia diretta. R.
quindi non accetta le istituzioni rappresentative e parlamentari, in quanto esse sono fondate sulla
delega, illegittima, della sovranità popolare. L’esecuzione delle leggi va affidata al governo che
tuttavia non detiene alcuna sovranità, ma è semplice emanazione della volontà generale, con la
funzione di rendersi intermediario tra i sudditi e il corpo politico sovrano (III, 1). I membri del
governo non sono rappresentanti del popolo, ma solo suoi funzionari, con un mandato provvisorio e
in ogni momento revocabile. I governi tendono a degenerare opponendosi alla sovranità del corpo
politico con una loro volontà particolare che si oppone a quella generale. Ma i depositari del potere
esecutivo non hanno nessuna autorità legittima verso il popolo, che è il vero sovrano: <<Essi non
sono i padroni del popolo, ma i suoi ufficiali e il popolo può stabilirli e destituirli quando gli piace.
Non è questione per essi di contrattare ma di obbedire; e incaricandosi delle funzioni che lo Stato
impone loro non fanno che compiere i loro doveri di cittadini senza avere in alcun modo il diritto di
disputare sulle condizioni>> (III, 18).
Un patto sociale stabilito a queste condizioni garantisce la libertà dei cittadini perché garantisce che
ciascuno dei suoi membri non obbedisca che a sé stesso. Nell’obbedire ala volontà generale
l’individuo per R. non subisce limitazioni. Per questo R. ha distinto la volontà generale dalle
decisioni che in linea di fatto prende il popolo e perfino dalla volontà di tutti (II, 3); dall’altro lato
egli esige la completa subordinazione dell’individuo alla volontà generale, perché fuori di essa egli
non può che avere interessi o moventi particolari e quindi ingiusti. L’istituzione dello stato civile
costituisce anche una trasformazione radicale dell’esistenza umana, per cui ora l’ordine fondato sul
diritto è il termine positivo, mentre dello stato di natura si enfatizza l’animalità, per il mancato
sviluppo delle facoltà propriamente umane. Alla schiavitù dell’istinto subentra la libera e razionale
obbedienza alla legge e alla coscienza morale. R. vorrebbe trovare nello stato civile l’unità perduta
dello stato naturale, e la scorge nella figura idealizzata del cittadino antico che si identificava
totalmente nei valori patri. Ma nell’epoca moderna, in cui l’individuo grazie alla sua coscienza
morale non si annulla nella coscienza politica, vi sarà sempre una contraddizione tra
cosmopolitismo e patriottismo. Nei “Frammenti politici” R. ammette la scissione non evitabile
neppure col contratto:<<Ciò che costituisce la miseria umana è la contraddizione tra l’uomo e il
cittadino; rendete l’uomo uno e lo renderete felice quanto può esserlo. Datelo tutto l’intero allo
Stato, o lasciatelo tutto intero a se stesso; se ne dividerete il cuore, questa lacerazione lo renderà
infelice>>.
Tale dilemma si ripresenta nelle pagine del “Contratto Sociale” dedicate ala religione. Vi è una
religione del cittadino, quella che nei popoli antichi promuoveva la coesione sociale con il culto,
anche esteriore e politico, degli dèi patri; ma l’unità interna poggia sull’intolleranza verso il barbaro
e lo straniero. All’estremo opposto vi è la religione dell’uomo, il cristianesimo autentico, inteso
come puro culto interiore senza riti ne dogmi, come il messaggio di fratellanza universale del
Vangelo; ma la religione dell’uomo allontana i cuori dallo Stato, perché la patria del cristiano non
appartiene a questo mondo. In effetti, non può esistere una repubblica cristiana, perché il
cristianesimo predica solo la servitù e la dipendenza. I veri cristiani sono fatti per essere schiavi. R.
tenta di superare questo dualismo proponendo per il suo Stato ideale una professione di fede civile
(IV), che associ nei suoi dogmi la credenza deista nell’esistenza di Dio e nell’immortalità
dell’anima alla santità del contratto sociale e delle leggi. Nel “Contratto Sociale” R. ammette che ci
sia <<una professione di fede puramente civile, di cui appartiene al sovrano fissare gli articoli, non
precisamente come dogmi di religione, ma come sentimenti di sociabilità senza i quali non è
possibile essere buon cittadino e suddito fedele>>(IV, 8). Lo Stato non può obbligare a credere
questi articoli, ma può bandire chiunque non li creda, non come empio ma come insocievole. Gli
articoli di questo credo civile sono gli stessi della religione naturale con in più la santità del
contratto e delle leggi e con l’aggiunta di u dogma negativo, l’intolleranza. Nel “Contratto” non c’è
per R. contrasto fra l’assoluta libertà religiosa presupposta nell’”Emilio” (1762) e l’obbligatorietà
del credo civile, perché egli nello stato civile suppone realizzato in tutte le sue conseguenze l’ordine
razionale della natura umana, il cui organo è la volontà generale. La religione civile non fa quindi
che rendere esplicite le condizioni di questa realizzazione che non possono non essere riconosciute
dai singoli. Difatti il venir meno al credo civile, comportandosi come se non lo si ammettesse, è per
R. il crimine più grave, perché significa aver mentito di fronte alle leggi (quindi a sé stesso) e va
punito con la morte (IV, 8).
Commenta S.Cotta: <<Il contratto sociale da origine ad uno Stato democratico – in quanto il potere
vi appartiene non più ad un principe o ad un oligarchia ma ala comunità – ma consacra altresì il
dispotismo della maggioranza, che si ammonta dei caratteri della totalità… Alla persona umana
viene così negata la sua libertà>> così da <<sacrificare integralmente la sua ragione alla volontà
collettiva con un vero e proprio atto di fede… La filosofia come rivoluzione di R. sfocia nello stato
etico e totalitario>>.
13. “Il Federalista” di (Hamilton, Jay e Madison): la
costituzione americana e la repubblica federaledi P. Armellini
Federalisti sono da considerarsi quegli intellettuali americani (Hamilton, Madison e Jay), che, ai
tempi del dibattito sulla Costituzione degli U.S.A., si schierarono per un rafforzamento degli organi
federali, pur nel rispetto dell’autonomia dei singoli Stati.
Vediamo ora brevemente la struttura di questa Costituzione. L’atto di nascita degli Stati Uniti
d’America può essere considerata la Dichiarazione di Indipendenza del 4 luglio del 1776 approvata
dal Congresso Continentale, su stesura di un giovane avvocato della Virginia, Thomas Gefferson. I
delegati delle tredici colonie, richiamandosi alle teorie illuministiche, rivendicarono per sé e per
tutti i coloni d’America il diritto naturale alla vita, alla libertà e alla felicità, per cui proclamarono di
voler essere liberi e indipendenti da ogni soggezione alla corona britannica. I governi devono
seguire questi scopi e diritti, in caso contrario possono essere sostituiti dal popolo, al cui consenso
sono legati. La sostituzione, mai affrettata, è però doverosa ove vi sia la minaccia della tirannide,
come è stato il caso della corona britannica, a cui giustificazione non si deve più obbedire. È qui
ancora presente la tradizione monarcomaca della attiva resistenza al tiranno. Tra il 1776 e il 1777
dieci dei tredici Stati fondatori si diedero una nuova Costituzione Statale, mentre il Massachusetts si
aggiunse nel 1778. Sei Stati (Virginia, Delaware, Pennsylvenia, Maryland, North Carolina,
Massachusetts) formularono le dichiarazioni dei diritti fondamentali. La libertà, intesa come
partecipazione politica, non venne assolutamente realizzata ovunque nella stessa misura; in cinque
Stati solo i protestanti potevano ricoprire gli uffici pubblici. Non venne mantenuta la sovranità
popolare in questi documenti e il principio di uguaglianza della Dichiarazione di Indipendenza era
rivolto contro l’Inghilterra, e non destinato a un illimitato uso interno, al punto che solo tre Stati lo
assunsero nelle dichiarazioni dei diritti fondamentali. L’America non era una società di uguali, ma
certamente una società di proprietari e infatti la garanzia della proprietà è assai più diffusa. Principi
fondamentali del nuovo ordinamento erano dunque la rappresentanza il più possibile paritaria nella
legislazione e la divisione dei poteri con controllo reciproco. I vincoli fra gli Stati rimanevano
ancora assai tenui.
Secondo gli Articoli della Confederazione, che erano una sorta di Costituzione provvisoria varata
nel 1777 e approvata nel 1781, erano riconosciuti come compiti comuni, per i quali si doveva agire
di concerto, solo i rapporti internazionali e la difesa. Per tutto il resto la libertà degli Stati singoli
rimaneva piena. Ma dopo la fine della guerra le voci favorevoli alla Costituzione di un governo
federale, con poteri più ampi su tutto il territorio delle colonie, si fecero sempre più numerose. Per
risolvere la questione del 1787 fu convocata a Filadelfia una Convenzione Costituzionale che lavorò
dal maggio all’ottobre, dando luogo, da parte dei 55 delegati, alla creazione di una architettura
Costituzionale nuova destinata a reggere nelle sue linee fondamentali ancora fino ai nostri giorni.
Essa, ispirandosi alla divisione dei poteri, al loro reciproco equilibrio, dava luogo a nuovi organi
federali, in grado di esercitare la propria autorità su tutti i cittadini della Confederazione, che si
trasformava in Unione, acquisendo la fisionomia di uno Stato vero e proprio. La Costituente riuscì a
creare una Costituzione che conciliava la sovranità dei singoli Stati con l’inderogabile esigenza di
un superiore potere federale. Essa prevedeva che un largo numero di materie rimanesse di
competenza dei singoli Stati, che avevano perciò i loro organi legislativi ed esecutivi e potevano
darsi all’interno propri ordinamenti.
Al governo federale spettavano le funzioni della difesa, della politica estera, delle finanze nazionali,
del commercio sia interstatale che estero, della posta. Il potere legislativo federale era affidato a un
Congresso, composto da una Camera dei Rappresentanti, con competenza finanziaria i cui seggi
erano distribuiti in proporzione alla popolazione di ciascuno Stato (un deputato ogni 30.000
abitanti),a da un Senato, nel quale indipendentemente dal numero di abitanti, ogni Stato aveva due
seggi, e che aveva il controllo della politica estera. Era la soluzione di compromesso fra gli Stati più
popolosi e le preoccupazioni degli Stati minori, che, dal p.d.v. rappresentativo, potevano risultare
sacrificati se ciò dipendeva dal numero della popolazione. Il potere esecutivo era affidato ad un
Presidente, eletto per la durata di quattro anni; esso assommava in sé sia l’ufficio di Capo dello
Stato sia di Capo del Governo; il voto indiretto era affidato ad una assemblea di “grandi elettori”
designati dagli Stati. Fra i suoi poteri amplissimi vi era tra l’altro, il comando delle forze armate, la
nomina dei giudici della Corte suprema e il blocco, tramite veto, delle leggi approvate dal
Congresso. Quest’ultimo poteva a sua volta mettere in stato di accusa il Presidente e destituirlo se
questo si fosse reso colpevole di violazioni della legge; al Presidente spettava a sua discrezione la
nomina dei segretari (ministri) per ogni dicastero federale. Esso era indipendente dal potere
legislativo (Congresso), la cui Camera dei Rappresentanti era eletta ogni due anni (col diritto di
voto e l’eleggibilità affidata al censo) e il cui Senato era eletto ogni sei anni Repubblica
Presidenziale elettorale. Il potere giudiziario – fermo restando l’autonomia in materia dei singoli
Stati – fu sottoposto al controllo della Corte suprema, composta da giudici vitalizi nominati dal
Presidente. Essa aveva la funzione di Tribunale di ultima istanza, cui si ricorreva contro le sentenze
dei Tribunali inferiori. Rimaneva il compito non facile di fare ratificare la Costituzione dei singoli
Stati. Per illustrare i vantaggi della Costituzione federale e facilitarne l’approvazione, fra l’ottobre
1787 e l’aprile 1788 alcuni esponenti delle posizioni moderate, A.Hamilton (1757 – 1804), John Jay
(1745 – 1829), James Madison (1751 – 1836) compilarono una serie di opuscoli, pubblicati su
periodici e giornali col nome “Publius”, poi nati più tardi col nome di “Federalist”. La Costituzione
fu ratificata dai singoli Stati nel corso del 1788 ed entrò in vigore il 4 marzo 1789 coll’elezione di
George Waschington come primo Presidente americano. La discussione fu condotta dal partito
federalista favorevole al rafforzamento del potere centrale, (legato al commercio e all’industria –
per il quale la stabilità politica era la necessaria premessa per lo sviluppo e la prosperità economica
- , ai grandi proprietari che vedevano in un esecutivo forte la migliore garanzia contro il disordine
sociale e le tendenze radicali) e dal partito antifederalista (che aveva maggiore ascolto fra i ceti
medi e bassi, fra i piccoli coltivatori indebitati che vedevano nel governo centralizzato un possibile
strumento delle oligarchie nazionali e degli affaristi delle città; essi temevano di non sentirsi
adeguatamente rappresentati da istituzioni lontane anche fisicamente). Le tesi federaliste furono
approvate da 11 Stati su 13; la Costituzione fu ratificata dal Congresso continentale nel settembre
1788. Nel febbraio 1789ci furono le prime elezioni presidenziali e G.Waschington divenne
Presidente un mese dopo. Le richieste degli antifederalisti ottennero una parziale soddisfazione con
l’approvazione fra il 1789 e il 1791 di Dieci emendamenti alla Costituzione (art. aggiuntivi) da
parte del Congresso. Il cosiddetto Bill of Rights stabiliva i diritti fondamentali di ogni cittadino
americano e le prerogative dei singoli Stati contro l’eventuale invadenza del potere federale.
Il governo federale fu organizzato in dipartimenti, ossia in ministeri, di cui furono titolari
A.Hamilton, federalista al Dipartimento del Tesoro e T.Gefferson, antifederalista al Dipartimento di
Stato (estero). Due questioni erano ancora aperte: dal p.d.v. dei diritti politici non c’era l’estensione
del diritto di votare a suffragio universale neppure tra i maschi. C’era poi ancora la schiavitù, che fu
abolita negli Stati settentrionali e centrali, ma non al sud dell’Unione. Nel 1787 fu approvata
l’Ordinanza del Nord – Ovest che permetteva l’espansione verso l’Ovest; le regioni colonizzate
diventavano territori, con governanti e giudici mandati dal Congresso; potevano darsi organi di
autogoverno; con 60.000 abitanti diventavano Stati dell’Unione. Gli interpreti sono d’accordo nel
considerare il “Federalista” una delle più complete teorie dello Stato federale, anche se in accordo
col carattere pragmatico della cultura anglosassone non , esiste in questa opera, una considerazione
sul senso globale di questo strumento istituzionale, perché fu presentato come mezzo per risolvere i
problemi politici degli americani, e non come il modello del governo della società delle nazioni.
Il debole assetto confederale sperimentato nel decennio 1777–‘87 fece venire alla luce la gravità dei
conflitti tra i nuovi Stati e tra loro e l’organo confederale. L’autogoverno ereditato dalla tradizione
britannica, il senso della democrazia, garanzia insieme di libertà individuale e di autonomia locale,
la lingua comune, la somiglianza degli ordinamenti, dei costumi, della cultura, non si dimostrarono
sufficienti ad assicurare l’armonia e i rapporti pacifici tra gli Stati, o preservarli dall’invelenirsi dei
conflitti anche sociali ed economici, e delle divisioni e quindi dello scoppio di insurrezioni e di
guerre. Liti commerciali e territoriali, diatribe sulla partecipazione agli oneri comuni non furono
arginati dal sostrato di razionalità illuministica e dalla religione protestante delle classi dirigenti, che
fecero si che le ex colonie si abbandonassero al gioco delle libere volontà sovrane. Le debolezze
emersero soprattutto nell’impossibilità di stabilire imposte federali, di avviare un rapporto diretto
con i cittadini, di intervenire con forze proprie nel dirimere i conflitti ed imporre soluzioni non
gradite al singolo Stato membro discorde.
Hamilton in particolare mostrò di aver assimilato la lezione di pessimismo e di realismo politico
machiavelliano e di ben conoscere, sulla scorta della teoria della Ragion di Stato e dell’analisi delle
guerre fra potenze europee, i pericoli incombenti sulla confederazione: dissoluzione, creazione di
eserciti permanenti, nuove tirannidi, rovina del sogno americano. Il modo di approccio al problema
politico non concedeva nulla alla declamazione retorica sui grandi principi, mostrava poca
erudizione storica, disattenzione nei confronti dei grandi miti politici di una cultura classica e
letteraria, manifestava un ragionamento fondato esclusivamente sul buon senso (= calcolo politico),
che parte sempre dai fatti e dalle situazioni esaminate freddamente, contraddistinto da un realismo
lontano da divagazioni utopiche. Basando la teoria di governo sull’analisi dell’uomo non come
dovrebbe essere ma come è soltanto, il “Federalista” tende ad eliminare le divagazioni idealistiche e
a commisurare i mezzi ai fini, a fondare la scienza politica moderna sull’esperienza, il cui campo
d’indagine è l’esame degli effetti delle azioni politiche. Nell’opera si nota una certa tensione fra i
primi articoli dominati dal problema del potere, l’antico gubernaculum, e gli ultimi dedicati al
potere giudiziario, l’antica iurisdictio: all’interno di queste tensioni vanno collocati gli argomenti
posti a difesa del governo bilanciato e della nuova struttura federale.
Occorre qui fare una premessa di tipo religioso: i coloni si considerano come una sorta di popolo
eletto, protagonista di un “sacro esperimento”, destinato e realizzare il vero cristianesimo.
Pluralismo e tolleranza erano valori condivisi dall’intera società coloniale (non applicati però agli
schiavi neri, considerati pura merce, e agli indiani) che si riflettevano nella larga autonomia di cui
godevano le comunità locali. Convinti di rappresentare una missione storica che spettava alle ex
colonie per la conquistata indipendenza, agli autori del Federalista fu facile mostrare che
quell’indipendenza poteva trasformarsi in anarchia proprio per il vuoto di potere che esisteva sulle
coste occidentali dell’Atlantico. L’America era disarmata di fronte all’influenza di potenze straniere
che avrebbero potuto agire dividendo i diversi Stati. Forte era la presenza di futuri, inevitabili
dissensi fra i diversi Stati. Pura espressione geografica poteva restare l’America se non si dava
strutture che istituzionalizzassero un potere centrale capace di evitare il disgregamento della
Confederazione e dare sostanza alla missione americana. Solo una matura riflessione sulla propria
esperienza avrebbe dato agli americani un buon governo. L’antropologia pessimistica
machiavelliana e hobbesiana che pervadono il Federalista coglie l’effettivo comportamento umano
in cui ragione e passioni coesistono. L’uomo è ambizioso, brama il potere, è fazioso, vendicativo,
rapace, vuole predominare sugli altri e invidia l’altrui potenza e ricchezza. A queste passioni si
abbandonano le classi dirigenti che abusano spesso della fiducia in loro riposta. Questo porterà in
America a conflitti fra Stati e a conflitti fra fazioni di uno stesso Stato. Ma ciò non giustifica
l’assolutismo, ma porta a fondare una unione accettando la natura pluralistica della società e
consentendo un primato della religione sulle passioni. La Federazione è il rimedio alla possibile
guerra fra gli Stati e rappresenta la vera barriera contro le fusioni interne. Qui Hamilton capovolge
un radicato luogo comune del pensiero politico del tempo, secondo cui la democrazia è possibile
solo in un piccolo Stato. Invece è vero che proprio nelle piccole repubbliche nascono quelle fazioni
che producono agitazioni e rivoluzioni, le quali spaccano in due la piccola comunità. Solo in un
grande Stato è possibile la repubblica, impedendo alle fazioni di condurre alla rovina il paese.
Infatti in un grande spazio le tensioni e i conflitti si allentano e si scaricano più facilmente proprio
perché rimangono localmente circoscritti; in una piccola repubblica c’è un solo conflitto, in una
grande ve ne è una pluralità, sicché tendono ad equilibrarsi e neutralizzarsi.
Sviluppando il discorso, Madison offre una definizione della fazione come una associazione che
persegue fini contrastanti con quelli degli altri cittadini o con l’interesse nazionale. Ciò però non
esclude che sia riconosciuta la positività del partito opposto alla fazione. In una democrazia le
decisioni non vengono prese in base a principi di giustizia, ma in virtù del potere delle fazioni, che
tendono a calpestare i diritti delle minoranze e a disattendere gli interessi permanenti della
comunità. Ma rimuovere il potere dalle fazioni vuol dire distruggere la libertà, che è invece
essenziale alla vita politica. Inoltre l’uomo non possiede una ragione infallibile che interpreta in
modo giusto il bene comune, ma è spinto dall’amor proprio, dall’educazione ricevuta, dalle
convinzioni maturate e soprattutto dai propri interessi. La causa più comune della faziosità è data
dall’ineguale distribuzione delle ricchezze e per questo nascono lotte fra proprietari e non
proprietari, creditori e debitori, agrari ed industriali. La società è talmente diversificata che si
autointerpreta in modo diverso. Occorre agire non sulle cause (non si possono distruggere le qualità
diverse degli individui), ma sugli effetti, controllandoli per salvare il pubblico interesse e i diritti dei
singoli dal pericolo delle fazioni, senza intaccare la prassi democratica. Valutiamo l’allargamento
dell’orbita di una società divisa in tante parti e in tanti interessi, cosicché è possibile una varietà di
opinioni e di interessi, una maggior varietà di gruppi e di partiti, il che impedisce il formarsi di
maggioranze tiranniche. Come la molteplicità di confessioni è garanzia di tolleranza fra fedi
religiose, così la molteplicità di partiti è garanzia di salvaguardia dei diritti civili. Libertà politica e
religiosa sono strettamente unite per la democrazia pluralistica, che è presidiata dall’ampiezza delle
strutture politiche. Una Federazione di Stati grandi determina un equilibrio fra i centri di potere, per
cui nessuna strategia sovversiva può conquistarli tutti. Essa appare come un consistente e duplice
processo di accentramento e decentramento. Il compromesso raggiunto fra la posizione unitaria,
tendente alla creazione di un potere forte centrale, e quella pluralista dei sostenitori della libertà
d’azione degli Stati, alla Convenzione di Filadelfia consentì la promulgazione di una Costituzione e
la creazione di uno Stato federale, in cui viene superato il dogma dell’assolutezza, dell’unicità e
della indivisibilità della sovranità statale. La sovranità è condivisa dagli Stati ex coloniali e dallo
Stato federale, il quale esercita il suo potere non sugli Stati ma direttamente sui cittadini, con i quali
instaura rapporti diretti di cittadinanza, nazionalità, partecipazione. La Federazione incarna il sentire
patriottico della nazione americana, che nasce direttamente dai cittadini. Il rapporto immediato con
essi consente altresì il ricorso ad una tassazione che mette al riparo la sopravvivenza degli Stati
apparati federali dall’incostanza che caratterizzava in precedenza il gettito dei singoli Stati per il
mantenimento della Confederazione. Qui si ha per la prima volta la distinzione tra confederazione e
federazione. La prima è solo un patto transitorio finalizzato al perseguimento di obiettivi limitati,
senza mettere in questione la sovranità dei soggetti statali. La seconda è la creazione, ottenuta con la
parziale cessione della sovranità degli Stati, di un livello statale superiore che li ricomprende
stabilmente ed ha una sua strategia politica indipendente dalle componenti, che pure è chiamata a
salvaguardare. L’Unione è una Repubblica Presidenziale di uno Stato grande con esigenze diverse
che trovano soluzione nella diversa articolazione degli organi costituzionali, nei loro poteri e nelle
loro competenze, nel loro bilanciamento e nel riconoscimento di un meccanismo di revisione
legislativa attraverso la legislazione (judicial review). Gli interessi di carattere generale vengono
con la Federazione delegati al Governo centrale, al cui vertice c’è il Presidente dell’Unione
personificazione dell’unità nazionale, che firma le leggi approvate dal Congresso, con le sue
raccomandazioni al Congresso partecipa alla iniziativa legislativa, detiene il diritto di veto su di
esse, nomina i nove giudici della Corte suprema, l’organo della tutela costituzionale da cui dipende
la magistratura federale. Questa è designata a decidere in merito a conflitti eventuali fra gli Stati
membri, fra questi e la Federazione e sulla legittimità delle leggi.
Hamilton polemizza col pensiero settecentesco che considerava la libertà il giusto mezzo tra due
eccessi, la tirannia e l’anarchia per cui, se si voleva aumentare la libertà, si doveva diminuire il
momento dell’autorità (e viceversa). Egli si proclama invece difensore di un forte potere centrale
esecutivo che deve avere i caratteri di unità, durata, autonomia degli appannaggi, poteri adeguati,
perché l’istanza esecutiva deve essere monocratica (mentre quella deliberativa ha bisogno del
confronto fra pluralità di opinioni). L’unità del comando consente non solo una costante ed
uniforme applicazione delle leggi, ma soprattutto garantisce una giusta sottomissione al volere del
popolo e un giusto senso di responsabilità, cosa che non accade nei governi collegiali, in cui è
impossibile l’identificazione della responsabilità, sono paralizzati i meccanismi di sanzione, risulta
inefficace il controllo dell’opinione pubblica. Il governo plurimo è la forma irresponsabile di
governo oligarchico. Invece di lottare contro l’autorità, diminuendo i suoi poteri, bisogna renderla
responsabile di fronte alla volontà del popolo, attraverso elezioni o per mezzo dell’impeachment,
che è la messa in stato di accusa del Presidente avanzata dal Congresso (i rami del legislativo uniti)
che può destituirlo se il Presidente si rende colpevole di violazioni della legge. In questo caso il
Senato si trasforma in Corte suprema di giustizia. Al governo federale spettano le competenze
relativa alla politica estera e militare che permettono di eliminare le frontiere fra gli Stati, che
perdono il carattere violento e acquistano un carattere giuridico (tutti i conflitti possono così essere
composti di fronte ad u Tribunale, le cui sentenze sono vincolanti). Anche il conferimento agli
organi federali di alcune competenze nel campo economico ha lo scopo di eliminare gli ostacoli di
natura doganale e monetaria, che impediscono la unificazione del mercato, e di attribuire al
governo federale un’autonoma capacità di decisione nel settore della politica economica. L’elezione
diretta del Presidente (Capo dello Stato e del Governo) conferisce stabilità e forza all’esecutivo, per
permettergli di svolgere efficacemente la funzione equilibratrice della vita sociale e attuare in modo
organico e coerente il programma di governo. Se il potere legislativo è affidato al Congresso coi
suoi rami della Camera e del Senato votati diversamente per contemperare le pretese degli Stati
grandi e piccoli ad avere una presenza equa negli organi federali, l’equilibrio tra la sovranità
federale e quella degli Stati, che godono di un completo autogoverno, è assicurato dalle Costituzioni
federali e proprie. Sia a livello statale sia a livello delle minori autonomie locali e sociali. Tale
equilibrio è conseguito anche tramite una ripartizione delle materie di competenza. Restando agli
Stati la cura degli affari interni (sicurezza) e la competenza dell’istruzione scolastica in generale
sono delegate alla federazione, le relazioni e i trattati internazionali, con rilievo speciale del
Presidente in fase esecutiva e del Senato per il dibattito e la ratifica. Alla federazione spettano
ancora le politiche di coordinamento finanziario, economico e sociale afferenti ai rapporti comuni
tra le singole realtà, con attribuzioni particolari (per es. sulle leggi fiscali) alla Camera dei
Rappresentanti nonché tutte le decisioni necessarie a evitare sovrapposizioni o contrapposizioni
esplosive e destinate a procurare un armonico sviluppo delle parti e del tutto nella libertà e nella
certezza del diritto. Donde il ruolo della giurisdizione della Corte suprema, definita da Hamilton la
“cittadella della giustizia e della sicurezza di tutti”. Con la tesi della separazione (non assoluta) dei
poteri, la tripartizione del legislativo (Stato misto), il principio della balance, il “Federalista” ha
superato la questione dogmatica della sovranità indivisibile ed affronta il problema costituzionale
della sua autonomia con la tecnica del governo rappresentativo, che distribuisce i poteri fra gli
organi dello Stato, creando un sistema di governo in cui si trovano garantiti insieme efficienza e
libertà. La sovranità non si dissolve nel governo ma anche il principio della sovranità popolare non
esercita un’influenza determinante nella costruzione del governo. Se uno Stato nazionale tende a
rendere omogenea tutta la vita delle comunità esistenti sul suo territorio, cercando di imporre a tutti
i cittadini la stessa lingua, gli stessi costumi, la stessa educazione ed istruzione, col governo federale
il potere centrale è fortemente limitato dalla disposizione degli Stati di un potere sufficiente per
reggersi autonomamente. Così le strutture federali sfuggono alla logica tendenzialmente totalitaria
dello Stato nazionale, il quale, con la coscrizione obbligatoria tende a trasformare i cittadini in
soldati. La conseguenza di questa distribuzione di competenze tra una pluralità di centri di potere
indipendenti e coordinati (questa è la formula di K.Wheare) è che ogni parte del territorio ed ogni
individuo sono sottoposti a due centri di potere: al governo federale e al governo di uno Stato
federato, senza che per ciò venga meno il principio della unicità di decisione su ogni problema.
Poiché il modello federale attua una vera e propria divisione del potere su base territoriale,
l’equilibrio costituzionale può mantenersi senza il primato della Costituzione su tutti i poteri. Ciò si
traduce in concreto nel fatto che, in caso di conflitto, il potere di decidere quali siano i limiti che i
due ordini di poteri sovrani non possono oltrepassare, non spetta né al potere centrale né agli Stati
federati, ma ad una autorità neutrale, cioè i Tribunali, ai quali è conferito il potere di revisione
costituzionale delle leggi. Nel potere giurisdizionale deve manifestarsi la maestà della autorità
nazionale. Esso per le sue funzioni è il meno pericoloso per i diritti politici sanciti dalla
Costituzione perché non ha né forza né volontà; può ledere infatti i diritti di un singolo, ma non di
un popolo. inoltre se la Costituzione è rigida, il potere legislativo è limitato e tali limitazioni
possono essere efficaci solo tramite le Corti di giustizia. Ciò non significa che il potere giudiziario è
superiore a quello legislativo, ma solo che il potere legislativo che ha un’autorità delegata, non può
agire in contrasto con l’atto di delega, dato che i rappresentanti del popolo non sono superiori al
popolo stesso. L’altro canto l’interpretazione e l’applicazione delle leggi è il compito speciale delle
Corti: nel caso di un insanabile contrasto fra legge costituzionale e una ordinanza, si dovrà dar
preferenza alla prima perché in essa si esprime la volontà popolare.
14. B. Constant e la libertà dei modernidi Paolo Armellini
Proprio mentre nel maggio del 1795 termina la insurrezione giacobina a Parigi giunge dalla
Svizzera, in compagnia di M. De Stael, un giovane che scrive libelli repubblicani e intende
diventare deputato: si chiama B. Constant (Losanna 1867-Parigi 1830) e al suo nome è legato
l’affermarsi del pensiero liberale dell’Ottocento. Dopo aver compiuto gli studi in Inghilterra, ottiene
la cittadinanza francese e nel 1796 scrive Sulla forza del governo attuale della Francia e sulla
necessità di aderirvi, dove auspica il non ritorno alla situazione precedente alla Rivoluzione di cui
vengono pure denunciati errori. Da eletto al Tribunato, si oppone a Napoleone, che lo costringe
all’esilio in Europa. La sua critica al militarismo napoleonico si evince dall’opera Sullo spirito di
conquista e di usurpazione del 1816, ma collabora con lui durante i cento giorni scrivendo una
costituzione sul modello inglese. Rientrato a Parigi nel 1817 dopo l’esilio impostogli da Luigi
XVIII, in parlamento si oppone sia ai reazionari che ai democratici. Nominato da Luigi Filippo
presidente del Consiglio di Stato muore nel 1831. Sostenitore della sovranità non illimitata del
popolo, sulle orme di Sieyès, egli scorge un errore nella visuale politica di Montesquieu e Rousseau,
quello di non aver visto che “vi è una parte dell’esistenza umana che resta necessariamente
individuale e indipendente, e che è di diritto fuori da ogni competenza sociale. La sovranità esiste
solo in modo limitato e relativo”58, per cui essa si arresta laddove comincia l’indipendenza
individuale. Fin dal periodo napoleonico in cui viene redatto il testo citato, egli sembra vicino a von
Humboldt nel ritenere la giustizia e la difesa le uniche funzioni irrinunciabili della legislazione
statale. Ma il grado di demarcazione dal costituzionalismo veniva segnato da questa pagina:
“Montesquieu, nella sua definizione della libertà, ha disconosciuto tutti i limiti dell’autorità sociale.
“la libertà, dice, è il diritto di fare tutto ciò che è permesso dalle leggi”. Certamente, non vi è alcuna
libertà quando i cittadini non possono fare quanto le leggi non vietano: ma leggi non potrebbero
vietare tante cose, che di nuovo non vi sarebbe alcuna libertà (…). La massima del signor
Montesquieu (…) significa che nessuno ha il diritto di impedire a un altro di fare ciò che le leggi
non vietano, ma non spiega che cosa le leggi abbiano o meno il diritto di vietare. Ora, è proprio in
questo che consiste la libertà. La libertà è solo ciò che gli individui hanno il diritto di fare, e che la
società non ha il diritto di impedire”59. Ci sarà sempre bisogno di uno Stato per proteggere gli
individui da tutti gli altri e ciò distingue Constant dall’anarchismo di un Godwin60, malgrado nel
contesto francese lo statalismo accomunasse per lui Luigi XIV, Robespierre e Napoleone. La libertà
veniva assunta da Constant nell’accezione di assenza di leggi, ma era anche rivendicata come sfera
intangibile di attività da difendere anche contro lo Stato. Nel suo L’esprit de conquete, prima che
nel Corso di politica costituzionale, già osservava che alla sovranità deve essere opposto dai popoli
qualcosa, indipendentemente dal fatto che il potere politico sia detenuto dalla monarchia o dal
58 B. Constant, Principes de politique applicables à tous les gouvernement (1890), postumo a cura di E.Hofmann, Droz, Genève 1980, p. 45. Su Constant cfr. A. Zanfarino, La libertà dei moderni nel costituzionalismo di Benjamin Constant, Giuffrè, Milano 1961; A. Zanfarino, Introduzione a B. Constant, Antologia degli scritti politici, Il Mulino, Bologna 1962; S. Holmes, Benjamin Constant et la Genèse du liberalisme moderne, PUF, Paris 1984; M. Barberis, Il liberalismo empirico di Benjamin Constant. Saggio di storiografia analitica, Ecig, Genova 1984; C. Violi, Benjamin Constant. Per una storia della riscoperta. Politica e religione, Gangemi, Roma 1984; L. Landi, Filosofia della storia, morale e politica nel pensiero di Benjamin Constant, Aurora, Pavia 1986; M. Barberis, Benjamin Constant. Rivoluzione, costituzione, progresso, Il Mulino, Bologna 1988; B. Fontana, Benjamin Comstant and the Post-Rivolutionary Mind, Yale University Press, New Haven-London 1991; AA. VV., Constant: philosophe, historien, romancier, homme d’Etat, Actes du colloque de l’Université du Maryland, octobre 1989, in “Annales Benjamin Constant”, n. 12, 1991; S. De Luca, Il pensiero politico di Constant, con antologia, Laterza, Roma-Bari 1993; T. Todorov, Benjamin Constant. La passion démocratique, Hachette Littératures, Paris 1997, trad. ital. di A. Merlino, Donzelli, Roma 2003; S. De Luca, Alle origini del liberalismo contemporaneo. Il pensiero di Benjamin Constant tra il Termidoro e l’Impero, Marco ed., Cosenza 2003. Sulla letteratura constantiana cfr. S. De Luca, La riscoperta di Benjamin Constant (1980-1993): tra liberalismo e democrazia, “La Cultura”, XXXV, n. 1-2, pp. 145-174, 295-324.59 Ibidem, p. 27.60 Cfr. B. Constant, De Godwin et de son ouvrage sur la justice politique (1817), in Idem, Mèlanges de letterature et de politique, Pichon et Didier, Paris 1829, pp. 211-224.
governo popolare o da un governo costituzionale, poiché per evitare il dispotismo non basta
l’esistenza di leggi più o meno conosciute e votate dai parlamentari, ma occorre che esse non
possano essere fatte in modo da ledere le scelte che l’individuo compie per raggiungere la felicità
personale. Anche la divisione dei poteri è una misura insufficiente per ciò che concerne la garanzia
di cui ha bisogno l’individuo. Per questo egli accentuava al massimo, in polemica con Rousseau e
con l’interpretazione giacobina della volontà generale, l’esigenza di tutelare sul piano costituzionale
i diritti fondamentali dell’individuo, cioè la libertà personale, la libertà di stampa, la libertà religiosa
e infine l’inviolabilità della proprietà privata. Era stato addirittura il Ginevrino a ridurre le clausole
del Contratto sociale ad una sola, quella dell’alienazione completa di ogni associato alla comunità,
il che comportava per esempio rispetto ad Hobbes, per il quale almeno gli individui conservavano il
diritto alla vita, la cessione totale dei diritti al corpo politico. Ciò costituiva il più pericoloso degli
errori, perché comportava la giustificazione di ogni dispotismo attraverso la disponibilità da parte
del sovrano di un potere illimitato. Di fronte poi alle tesi di Rousseau che la rinuncia ai diritti era
uguale per tutti e nessuno aveva interesse a renderla onerosa per gli altri e che gli individui
riprendevano in quanto cittadini ciò che perdevano in quanto privati non potendo il sovrano che era
il corpo politico nuocere a sé o a qualcuno, Constant obiettava che le garanzie offerte dal sovrano
erano astratte perché nell’esercizio pratico del suo potere egli avrebbe dovuto delegarlo lasciandolo
nelle mani dei pochi che avranno più potere degli altri. Ciò negava nei fatti l’intenzione egualitaria
che ispirava la teoria roussoiana della democrazia diretta volta al superamento della distinzione di
governati e governanti. Rousseau aveva in mente come modello la polis dell’antichità in una
versione idealizzata di comunità organica e armonicamente coesa e invece avvertiva come laceranti
e negative le distinzioni moderne di società civile e Stato, diritto privato e diritto pubblico,
individuo e cittadino. La libertà collettiva di prendere parte direttamente all’esercizio della sovranità
si contrapponeva invece per Constant alla libertà dei moderni, che coincideva con le garanzie
giudiziarie e con i diritti individuali di libertà: libertà di coscienza, libertà economica, libertà di
associazione che lo Stato non può mai ostacolare.
L’individuo è per Constant talmente autonomo dal potere politico dello Stato che la unica
finalità di questo si riduce alla garanzia estesa ad ogni cittadino della sua libertà e dei suoi diritti,
non solo attraverso la separazione dei poteri, ma anche con l’attribuzione di competenze anche ai
poteri municipali. Il contenuto del concetto di sovranità è così reinterpretato da Constant in modo
tale da essere adeguato ai moderni sistemi rappresentativi, in cui essa, pur appartenendo al popolo,
viene esercitata dai suoi deputati. E’ per questo motivo che nel suo Corso di politica costituzionale
(1818-1820), che raccoglie i suoi saggi più importanti dal punto di vista politico, troviamo una
definizione negativa del più alto potere dello Stato. La sovranità infatti non vuol dire che il Re o il
popolo possono legiferare a loro piacimento, ma che “nessuno individuo, nessuna fazione, nessuna
associazione particolare può arrogarsi la sovranità, se questa non le è delegata. Ma da ciò non deriva
che l’universalità dei cittadini, o coloro che sono investiti della sovranità possano disporre
sovranamente dell’esistenza degli individui”61. La mossa tipica del liberalismo constantiano è quella
di tracciare attorno all’individuo una sorta di cerchio magico, in cui né lo Stato né la legislazione
siano legittimati ad entrare, poiché sia alla monarchia sia al governo repubblicano si attribuisce una
finalità strumentale: “la libertà, l’ordine, la felicità dei popoli sono lo scopo delle associazioni
umane; le organizzazioni politiche sono solo degli strumenti”62. Per Constant il predominio della
volontà generale nei confronti di ogni volontà particolare non coincide in alcun modo con una
illimitata sovranità, perché essa trova due limiti insuperabili: l’assoluto rispetto degli inviolabili
diritti delle minoranze e la non interferenza con la sfera privata dei cittadini. Ogni governo che
infranga la regola della protezione dei diritti delle minoranze e dell’intangibilità della sfera
personale è automaticamente delegittimato, anche se ad operare tale illegittima interferenza è la
maggioranza. L’obiettivo polemico era chiaramente Rousseau, il quale aveva descritto le condizioni
di un patto di unione per la nascita dello Stato, in cui avviene l’alienazione totale di ciascun
associato, con ogni suo diritto, alla comunità. In essa la volontà generale s’identifica con la norma
oggettiva dell’interesse comune e per il sovrano, cioè il corpo sociale, non è possibile recar danno a
coloro che per farlo sorgere si sono associati. Ma per Constant l’errore fondamentale della
concezione democratica di Rousseau, legata all’assenza di una rappresentatività del potere sovrano,
risiede nel fatto che il detentore di esso, il popolo, non può applicare in prima persona il potere
acquisito. In pratica esso ne deve cedere l’esercizio ad una organizzazione di uomini delegati ad
agire in nome della volontà generale. Ciò smentisce il principio ideale secondo il quale il cittadino,
dandosi a tutti, rimane autonomo perché non si sottomette a nessuno; infatti egli si dà a coloro che
operano in nome di tutti: “dandosi interamente non si entra in una condizione eguale per tutti,
poiché alcuni traggono esclusivo profitto dal sacrificio degli altri (…). Non tutti guadagnano
l’equivalente di ciò che perdono, e il risultato di quel sacrificano è o può essere l’instaurazione di
una forza che toglie loro ciò che hanno”63. Anche i rappresentanti della volontà generale possono
diventare minacciosi per la sopravvivenza delle libertà civili e politiche se l’impiego del potere
coercitivo non venga limitato dalla suddivisione del potere e dal bilanciamento istituzionale. La
divisione dei poteri tuttavia risulta povera cosa per ciò che riguarda la garanzia di cui l’individuo ha
bisogno.
61 B. Constant, Cours de politique constitutionnelle, a cura di E.Laboulaye, Slatkine, Genève 1982, p. 68.62 Ibidem, II, p. 70.63 B. Constant, Principi di politica, a cura di U. Cerroni, Samonà e Savelli, Roma 1965, p. 69.
Questa prospettiva emerge nel famoso Discorso sulla libertà degli antichi paragonata a
quella dei moderni, che egli aveva tenuto a Parigi nel 1819, in cui, parlando di due tipi di libertà,
affermava come la Rivoluzione francese avesse prodotto molti mali attraverso una confusione di
essi. Il mondo antico non conobbe la libertà civile, ma solo quella politica, cioè la partecipazione di
una ristretta categoria di cittadini alle pubbliche decisioni ricoprendo le relative cariche. Per questo
la democrazia antica prevedeva la partecipazione dell’individuo all’assemblea della città, tenendo
conto che egli era qualcosa soltanto all’interno della comunità. Gia nell’opera Dello spirito di
conquista e di usurpazione ci offre un’immagine della libertà degli antichi: “Nelle repubbliche dei
tempi antichi, l’esiguità del territorio faceva sì che ogni cittadino avesse politicamente una grande
importanza personale. L’esercizio dei diritti di cittadinanza costituiva l’occupazione e, diciamo così,
il diletto di tutti. Il popolo intero contribuiva alla formazione delle leggi, pronunciava le sentenze,
decideva della guerra e della pace. La parte che l’individuo prendeva alla sovranità nazionale non
era, come adesso, una supposizione astratta; (…) gli antichi, per conservare la propria importanza
politica e la parte che avevano nell’amministrazione dello Stato, erano disposti a rinunciare alla
propria indipendenza privata”64. Nel Discorso sulla libertà egli precisava che la democrazia antica
non distingueva la polis dallo Stato e la libertà consisteva nell’esercizio del potere in modo diretto e
senza la presenza di rappresentanti, a differenza di quella moderna: “Il fine degli antichi era la
divisione del potere sociale fra tutti i cittadini di una stessa patria: era questo che essi chiamavano
libertà. Il fine dei moderni è la sicurezza dei beni privati; ed essi chiamano libertà le garanzie
accordate dalle istituzioni a questi godimenti”65. L’uomo moderno allora vuole lo Stato solo
affinché veda da esso assicurate le condizioni attraverso le quali possa poi occuparsi del problema
della propria felicità, che nessuno può mascherare col nome di virtù, come fece Robespierre. Chi
scambia l’autonomia colla obbedienza alla legge fa coincidere la libertà con l’autorità del corpo
sociale, come avevano fatto Rousseau e Mably (compilatore secondo lui del manuale del perfetto
dispotismo), e si trova influenzato dalla visione antica che non riconosce la libertà civile e teme la
pluralità delle opinioni. La democrazia moderna si afferma sulla base del riconoscimento della
diversità e apprezza le differenze a partire da una analisi storica della Riforma protestante, che è
stata all’origine della critica dell’assolutismo, della libertà di pensiero, del dissenso e della
tolleranza. Essa è poi fondata sulla istituzione della rappresentanza, perché l’uomo moderno trova
gratificazione più nel godimento dell’indipendenza privata che nella partecipazione alle decisione
pubbliche. Quest’uomo è il borghese interessato ai suoi traffici e ai suoi guadagni al punto tale che
trascurarli è un sacrificio mai sufficientemente compensato: “la libertà individuale, ecco la vera
64 B. Constant, Dello spirito di conquista e di usurpazione, Milano 1961, p. II, cap. VI, pp. 96-97.65 B. Constant, Discorso sulla libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, in Id., Principi di politica, a cura di U. Cerroni, Editori Riuniti, Roma 1970, p. 227.
libertà moderna. La libertà politica ne è la garanzia; la libertà politica è quindi indispensabile. Ma
chiedere ai popoli dei nostri giorni di sacrificare come quelli di altre epoche la totalità della loro
libertà individuale alla libertà politica è il mezzo più sicuro per distaccarli dall’una e quando vi si
sarà riusciti non si tarderà a strappar loro l’altra”66. La moderna democrazia è poi caratterizzata
dalla presenza di una pluralità di centri di potere che la differenziano totalmente dalla dimensione
monocratica della democrazia antica, tanto che il suo problema non risiede solo nel rivendicare il
potere dal basso, ma anche nel contestare la concentrazione del potere a favore della sua
distribuzione nelle parti periferiche di uno Stato. Ecco come Constant descrive la libertà dei
moderni: “Domandatevi anzitutto, signori: che cosa intendono, oggi, con la parola ‘libertà’, un
inglese, un francese, un abitante degli Stati Uniti? E’, per ognuno, il diritto di rispondere solo alle
leggi, di non essere né arrestato né detenuto Né messo a morte né maltrattato in alcun modo per
effetto della volontà arbitraria d’uno o di molti. E’, per ognuno, il diritto di esprimere la propria
opinione, di scegliere la propria attività produttiva e di esercitarla; di disporre della propria
proprietà e persino di abusarne; di andare e venire, senza bisogno di permessi e senza dover rendere
conto dei propri motivi o della modalità della propria condotta. E’, per ciascuno, il diritto di riunirsi
con altri sia per discutere i propri interessi, sia per professare il culto liberamente scelto insieme con
i propri associati, sia per passare la propria vita nel modo più conforme alle proprie inclinazioni o
alle proprie fantasie. Infine, è il diritto, per ciascuno, d’influire sull’amministrazione del governo,
sia nominando la totalità o parte dei funzionari, sia avanzando rimostranze, petizioni, domande che
l’autorità è più o meno obbligata a prendere in considerazione”67.
Un’attenta lettura dell’elenco delle libertà civili e politiche ci mostra un Constant dedito non
soltanto a difendere le libertà negative della modernità, ma volto anche positivamente a esaltare le
libertà politica, poiché ci può essere il pericolo che “assorbiti nel godimento della mostra
indipendenza privata (…) non rinunciamo troppo facilmente al nostro diritto di partecipare al potere
politico”68. Gli individui infatti hanno un mezzo per far valere la propria voce in contrapposizione a
quelli che detengono il potere pubblico: l’opinione pubblica. Col ragionamento si può allora sperare
di modificare l’altrui ragionamento e ciò può avvenire solamente colla stampa, che è l’unico mezzo
a disposizione della libertà civile, sia che esso si contrapponga ai facitori costituzionali della legge
sia a quelli non costituzionali. Per la concezione roussoiana della società, le leggi adottate dal corpo
sovrano sostituiscono totalmente le autodeterminazioni individuali, perché esistono soltanto libertà
collettive. Il corpo politico può allora occuparsi di tutto senza incontrare ostacoli, col rischio di
66 Ibidem, p. 234.67 B.Constant, De la liberté des anciens comparèe a celle des modernes, in Idem, Cours politique constitutionnelle, cit., II, p. 541.68 Ibidem, p. 558.
asservire completamente gli individui in quanto singoli. Ma tale libertà appariva anacronistica a
Constant, per il quale la libertà consiste in un’ampia sfera d’indipendenza individuale con la libertà
politica. Quest’ultima è la garanzia dell’esercizio della prima, per cui gli uomini non debbono farsi
assorbire totalmente nel godimento della nostra indipendenza e non rinunciare al diritto a
partecipare al potere politico. Constant “ha compreso che libertà civili e libertà politiche,
indipendenza e partecipazione, devono essere combinate,” dice S. De Luca “in quanto la totale
politicizzazione dell’esistenza, così come la sua privatizzazione integrale, costituiscono pericoli
opposti ma simmetrici al mantenimento della libertà dell’uomo”69. Per questo chi pone il problema
della legittimità del potere negli esclusivi termini della sua titolarità (chi comanda?), trascurando la
questione della sua estensione, perde di vista il problema della garanzia fondamentale della libertà,
che consiste per Constant nella limitazione materiale del potere, garantito dallo spirito pubblico e
dalla libertà di stampa.
Ma egli si pose anche il problema delle limitazioni formali dell’esercizio del potere. Nelle
diverse fasi del suo tragitto filosofico-politico, che vide un periodo repubblicano sino al 1803 e poi
un altro monarchico-costituzionale nel 1814-15, non mutarono i principi della sua architettura
costituzionale finalizzati alla conciliazione della stabilità con la libertà. Egli vede il potere sovrano
diviso in cinque poteri. Dapprima abbiamo il potere neutro e preservatore, attribuito nella fase
repubblicana ad un organo apposito e nella fase monarchica al re, colla funzione di intervenire
quando l’organismo costituzionale si veda minacciato dal conflitto tra i poteri, svolgendo la
funzione di giudice supremo degli altri poteri che così possono essere sciolti (legislativo) o destituiti
(esecutivo). Molto importante è il potere legislativo, affidato ad assemblee forti, numerose e
indipendenti; nella fase monarchica esso viene scisso tra il potere durevole della Camera alta, in cui
vi è la presenza dei Pari, i quali hanno una carica ereditaria, che offre loro una condizione di
effettiva indipendenza dal potere reale e consente ad essi l’espressione di ordine e continuità, e una
Camera bassa, di tipo elettivo che esprime le istanze di evoluzione e mutamento della civiltà. C’è
poi il potere esecutivo, detto anche ministeriale, che è nominato ed eventualmente revocato dal re
ed esercita le funzioni di governo; per esso vige il principio della responsabilità e, insieme ai
ministri minori, può essere accusato per atti illegali pregiudizievoli all’interesse pubblico (in questo
caso da cittadini comuni vengono giudicati dai tribunali ordinari) e per attentati contro la libertà (la
sede del giudizio diventa la Camera dei Pari); il principio della responsabilità deve essere steso a
tutti i gradi della pubblica amministrazione che sono chiamati ad eseguire le disposizioni
dell’esecutivo non in modo cieco. Il potere giudiziario inoltre viene nella fase monarchica nominato
dal re ed è indipendente in quanto il magistrato è inamovibile; pene severe esistono però per quei 69 S. De Luca, Benjamin Constant teorico della modernità politica, “Bollettino telematico di filosofia politica”, WWW.philosophica.org/bft/, 25-10-2002, p. 7.
giudici che si siano allontanati nell’esercizio delle loro funzioni dall’osservanza delle leggi; i
cittadini possono sempre opporsi in appello alle sentenze giudiziarie; esso si fonda sul sistema della
giuria, sui diritti dei condannati e il rispetto delle forme legali; il diritto di grazia rappresenta
l’ultima risorsa contro il carattere astratto delle leggi. Infine c’è il potere municipale, che consiste in
un’articolata rete di poteri locali, ai quali vengono riconosciute sfere di autonoma competenza,
alfine di scongiurare il pericolo della centralizzazione del potere e il relativo dispotismo.
15. Lo Stato di diritto secondo Kant
di P. Armellini
La prospettiva giuridico-politica di Kant rimane fondamentale per l’acquisizione dell’idea di uno
Stato di diritto nella modernità. Il diritto ha in lui la funzione di porre una relazione tra morale e
politica tenendo conto della distinzione tra l’uomo noumenico della libertà assoluta della morale e
l’uomo fenomenico della sensibilità che deve essere soggetta alle limitazioni. Il mondo della politica
non può essere, come in Machiavelli, ridotto al mondo della forza e delle inclinazioni naturali, che
devono piuttosto essere vincolate al mondo della obbligazione politica. Questa rispetta lo scopo per
il quale lo Stato sorge, cioè la trasformazione della politica da amorale regno autonomo del potere
ad ambito inteso come regno del diritto che rispetta la destinazione morale dell’uomo. Il potere deve
con ciò essere sottomesso al diritto, che si riferisce alla libertà esteriore degli individui, per
permettere la convivenza tra persone giuridiche attraverso la limitazione della loro libertà. Il mondo
della legge che è prodotto dalla macchina legislativa dello Stato è un ordinamento coercitivo che
comanda soltanto esternamente al fine di proteggere una sfera di indipendenza personale concreta
degli individui. In questo senso si può dire che Kant appartiene al pensiero liberale, perché il mondo
egoistico della ricerca di onori, potenza e ricchezza, che non può essere ridotto esclusivamente a
quello della concorrenza economica70, pone il problema della coesistenza delle singole volontà
attraverso la determinazione e la limitazione degli arbitri nella sicurezza del diritto.
E’ l’istituzione di un universo di norme positive che secondo lui fa sviluppare tutte le facoltà
umane: “A subire questo stato di coazione l’uomo, a cui pure la libertà senza limiti sarebbe così
cara, è costretto dalla necessità, quella di sottrarsi ai mali che gli uomini si recano a vicenda. Le loro
tendenze fanno sì che essi non possono durare a lungo assieme in selvaggia libertà”. Fuori della
società civile quella libertà sarebbe distruttiva e pericolosa e può diventare invece un meccanismo
altamente creativo che disciplina gli impulsi senza annullarne il contrasto se viene all’interno della
società sottoposto a regole ben precise: “Solo nel chiuso recinto della società civile anche siffatti
impulsi danno il migliore effetto, così come gli alberi in un bosco, per ciò che ognuno cerca di
togliere aria e sole all’altro, si costringono reciprocamente a cercare l’una e l’altro al di sopra di sé e
perciò crescono belli e diritti, mentre gli alberi che in libertà e lontani tra loro mettono rami a
piacere, crescono storpi, storti e tortuosi. Ogni cultura e arte, ornamento dell’umanità, il migliore
ordinamento sociale sono frutti dell’insocievolezza, la quale si costringe da se stessa a disciplinarsi
e a svolgere interamente i germi della natura con arte forzata”71.
La sua dottrina del diritto e dello Stato viene delineata in pieno illuminismo. Kant scrive in
quadro politico in cui i prìncipi esercitano una minuziosa e pedantesca regolamentazione
amministrativa di tutti gli aspetti della vita privata dei cittadini. Nato nella Koenisberg della Prussia
orientale nel 1724, dove dapprima insegna come precettore privato e poi dal 1770 come professore
di Logica e Metafisica, pubblica abbastanza tardi le sue fondamentali opere: la Critica della ragion
70 Cfr. V. Mathieu, Kant, in L. Firpo (a cura di), Storia delle idee politiche, economiche e sociali, Utet, Torino 1975, pp. 745-781; G. Solari, La formazione storica e filosofica dello Stato moderno, Guida, Napoli 1985, pp. 105-128; G. Bedeschi, Kant: lo Stato di diritto, in Idem, Storia del pensiero liberale, Laterza, Roma-Bari 1990, pp. 93-120; P. Hassner, Immanuel Kant 1724-1704, in L. Strauss-J. Cropsey (a cura di), Storia della filosofia politica, vol. II, il melangolo,, Genova 1995, pp. 385-435.71 I. Kant, Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico (1784), in Id., Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, introduzione di G. Solari, Torino 1956, p. 128.
pura (1781), la Fondazione della metafisica dei costumi (1785), la Critica della ragion pratica
(1788) e la Critica del giudizio (1790). Pochi fatti turbano la sua tranquilla e regolare vita di
studioso e di professore universitario. Da Rousseau, che legge attentamente al pari di Hume,
apprende che il valore dell’uomo è indipendente dalla sua posizione sociale o dal suo livello
culturale. Al periodo di Federico II il Grande, che ha permesso un certa diffusione dei lumi, nel
1786 succede poi quello di Guglielmo II, con il cui ministro dell’educazione Kant entra in conflitto
perché i suoi censori gli impediscono la pubblicazione di un articolo. Egli aggira l’ostacolo dandolo
alle stampe in forma di libro grazie al privilegio che le università hanno di sottrarre alla censura i
libri dei professori: così l’università di Jena gli pubblica La religione entro i limiti della sola
ragione (1793). Un nuovo saggio intitolato Sopra il detto comune: questo può essere giusto in
teoria, ma non vale per la pratica (1793), in cui egli sostiene la libertà di pensiero e di stampa,
scatena su di lui l’ammonizione del governo a non trattare più argomenti di carattere religioso. Pur
difendendosi dall’accusa di aver sostenuto tesi contrarie alla religione, si attiene all’ingiunzione
governativa, perché per lui l’autorità pubblica per quanto ingiusta merita sempre di essere obbedita
in quanto espressione oggettiva del diritto. Kant muore poi nel 1704 riverito da tutta l’Europa più
colta. Ma questi episodi vanno compresi nel contesto storico culturale del suo tempo in cui ha
dominato in campo giuridico e politico la giustificazione ideologica dello Stato paternalistico, per la
quale il sovrano deve far sì che tutti i cittadini siano pii, moderati e capaci di controllare le passioni
ed anche siano soddisfatti e tranquilli nell’animo disponendo dei mezzi necessari alla vita. Lo Stato
cioè deve non solo perseguire fini di educazione morale e confessione religiosa, ma anche quelli di
una capacità imprenditrice che assicura i mezzi economici necessari alla vita. Kant invece ribadisce
che i molteplici fini dell’uomo spettano soltanto all’individuo, dovendosi limitare lo Stato a
garantire le condizioni formali per la libera esplicazione delle energie personali72.
Questo è il senso dell’insegnamento dell’illuminismo e del suo frutto politico che è la
Rivoluzione francese. E’ nota l’interpretazione di esso offerta nella Risposta alla domanda: Che
cos’è l’illuminismo? (1784), ove Kant ha scritto: “L’illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di
minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto
senza la guida di un altro. Imputabile a se stesso è questa minorità, se la causa di essa non dipende
da difetto d’intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e di coraggio di far uso del proprio
intelletto senza essere guidati da un altro. Saper aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria
intelligenza! E’ questo il motto dell’Illuminismo”73. La definizione che Kant offre non è diretta alle 72 Cfr. E. Cassirer, Vita e dottrina di Kant (1918) , a cura di M. Dal Prà, La Nuova Italia, Firenze 1977; A. Guerra, Introduzione a Kant, Laterza, Roma-Bari 1980.73 I. Kant, Risposta alla domanda: Che cos’è l’Illuminismo?, in Id., Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, cit., p. 141. Sul pensiero politico-giuridico di Kant cfr. G. Sasso, Introduzione a I. Kant, Antologia degli scritti politici, Il Mulino, Bologna 1961; P. Burg, Kant und die Franzoesische Revolution, Bunker&Humboldt, Berlin 1974; G. Vlachos, La pensée politique de Kant, Puf, Paris 1962; N. Bobbio, Diritto e Stato nel pensiero di Kant, Giappichelli,
manifestazioni storiche del movimento, ma bada alla trasformazione dell’atteggiamento culturale
che l’illuminismo comporta nella coscienza degli individui. Divenire maggiorenni sul piano
razionale vuol dire imparare a pensare con la propria testa, per cui è l’autonomia intellettuale
dell’individuo il principio che può trasformare la società, nel momento stesso in cui i philosophes
francesi hanno creduto nella loro generalità che il miglioramento delle istituzioni possa produrre il
rischiaramento dei singoli. Per questo la libertà civile deve trovare il proprio perno nella libertà di
pensiero e di stampa, con cui l’educazione alla ragione può essere estesa a tutti i cittadini e forse
anche ai potenti che reggono le sorti del mondo: “Dunque la libertà della penna - tenuta nei limiti
del rispetto e dell’amore per la costituzione sotto la quale si vive dei sentimenti liberali che ispirano
i sudditi (le cui penne si limitano reciprocamente da sé per non perdere tale libertà) - è l’unico
palladio dei diritti del popolo”74. Con ciò sarebbe permessa al sovrano la conoscenza di ciò che
potrebbe modificare con il suo consenso la sua opinione, se viene cioè concesso al cittadino il
diritto di manifestare pubblicamente il proprio pensiero su quanto potrebbe arrecare ingiustizia alla
comunità, senza che però si possa resistere attivamente al sovrano. Alla lunga per lui la libertà del
pubblico colto finisce per incidere sullo spirito pubblico in modo da convincere chi governa a
scegliere ciò che è vantaggioso per l’uomo conformemente alla sua dignità.
Solo il genere umano può per Kant raggiungere pienamente la propria destinazione per il
fatto che il posto dell’uomo nell’universo non è predeterminato: il progresso del genere umano può
cioè raggiungere il proprio destino soltanto attraverso il progresso in una serie indefinita di
generazioni, che ha sempre davanti a sé il suo termine finale pur tra gli impedimenti. Nell’Idea di
una storia universale dal punto di vista cosmopolitico (1784), egli dice che l’uomo ha ricevuto
“disposizione dirette all’uso della ragione”, che attendono di essere esplicate in tutte le possibilità.
Infatti la tendenza naturale dell’uomo è quella di raggiungere la felicità o la perfezione attraverso
l’uso della ragione, cioè la libertà, che viene considerata perseguibile nella Critica della ragion
pratica del 1788 coll’imperativo categorico così espresso: “agisci soltanto secondo quella massima
che al tempo steso puoi far volere che divenga una legge universale”, ovvero “agisci in modo tale
da trattare l’umanità sia nella tua persona sia in quella di ogni altro sempre come fine e mai
semplicemente come mezzo”75. Rispetto alla domanda se il libero gioco delle azioni umane renda
possibile un piano determinato del corso storico che valga come scopo finale dello sviluppo di esso,
anche se non necessitante, Kant osserva che, posta la tendenza di ogni essere naturale a svilupparsi
in conformità al proprio scopo, quella umana di svilupparsi con la ragione presuppone una società
Torino 1969; P. Koslowski, Staat und Gesellschaft bei Kant, Mohr, Tubingen 1985; F. Gonnelli, La filosofia politica di Kant, Laterza, Roma-Bari 1995; L. Scuccimarra, Obbedienza resistenza ribellione. Kant e il problema dell’obbligo politico, Jouvance, Roma 1998; G. M. Chiodi-G. Marini-R. Gatti (a cura di), La filosofia politica di Kant, F. Angeli, Milano 2001.74 I. Kant, Sopra il detto comune…, cit., in Id., Scritti politici…, cit., p. 270.75 I.Kant, Critica della ragion pratica (1788), in Id., Scritti morali, a cura di P. Chiodi, Utet, Torino 1970, pp. 167 ss.
politica universale in cui ognuno non trovi altro limite che la libertà degli altri. Il raggiungimento di
una società politica universale che comprenda sotto una medesima legislazione i diversi Stati in
modo da garantire lo sviluppo completo di tutte le capacità umane risulta essere il piano naturale
della storia. Attraverso il succedersi delle generazioni la specie realizza progressivamente la cultura,
utilizzando come strumento l’antagonismo sociale, che contrappone gli uomini e li induce a
sviluppare i loro talenti in una competizione vicendevole. Tale antagonismo è presente in tutti gli
uomini ed è definibile come compresenza della tendenza alla socievolezza (per poter avere i beni di
cui si ha bisogno) e di quella all’isolamento (per poter primeggiare sugli altri). Esso porta gli
individui all’attività e al lavoro, anche se gli uomini non se lo propongono. Credendo così di
perseguire i propri interessi soggettivi, essi realizzano a poco a poco il disegno di una forza storica
impersonale, la Natura-Provvidenza76. Per essere storicamente fecondo, tuttavia, l’antagonismo
deve svilupparsi nel contesto di istituzioni politiche che impediscano una sua degenerazione in vera
e propria guerra e lo rendano compatibile con il diritto, inteso, come dice precisamente nella
Metafisica dei costumi del 1797, come complesso di condizioni con cui il diritto dell’uno può
accordarsi con l’arbitrio dell’altro secondo una legge universale di libertà. Diritto e cultura
procedono allora di pari passo nel corso della storia. Nella recensione del 1795 allo scritto di Herder
Idee sulla filosofia della storia dell’umanità Kant non ritiene che la storia degli uomini si sviluppi
secondo un piano preordinato, come la vita delle api. Se il filo conduttore che può e deve orientare
gli uomini attraverso le vicende storiche è l’idea razionale di una comunità pacifica di tutti i popoli
della terra, Kant nega che nella storia si possa scoprire un ordine armonico e progressivo di
carattere necessitante. Un piano della storia umana non è una realtà, ma piuttosto un ideale
orientativo al quale gli uomini si debbono ispirare nelle loro azioni, che il filosofo può solo
illustrare nelle sue possibilità, mostrandole conformi al destino umano. Così egli si esprime al
riguardo: “Se genere umano significa totalità di una serie procedente all’infinito (all’indefinito) di
generazioni (e questo ne è infatti il senso abituale), e si assume che questa serie si avvicini
incessantemente alla linea della sua destinazione, che le corre a lato, allora non c’è nessuna
contraddizione nel sostenere che tale serie sia in ogni sua parte asintotica rispetto a questa sua linea,
e tuttavia nel suo insieme si unisca ad essa; in altre parole, che nessun membro di tutte le
generazioni della stirpe umana, ma solo il genere umano raggiunga pienamente la sua
destinazione”77.
L’opera della Rivoluzione ha convertito una teoria in atto di emancipazione umana,
provocando, al di là di esecrabili aspetti come il Terrore, un notevole entusiasmo in Kant, poiché
76 Sulle aporie in questa posizione kantiana che ripropone in chiave moderna il provvidenzialismo stoico di Seneca cfr. il denso e approfondito saggio di D. Falcioni, Natura e libertà in Kant Un’interpretazione del progetto Per la pace perpetua (1795), Torino 2000, che rivede molti luoghi della storiografia kantiana sull’argomento. 77 I. Kant, Recensione a Herder, Idee per una filosofia della storia dell’umanità, in Id., Scritti politici, cit., p. 174.
con essa si schiude il regno della personalità che vince sulla natura, sull’egoismo e sulla tradizione
passiva, determinando la realizzazione della libertà come capacità del volere di determinarsi da sé
secondo la propria legge razionale. Nei Principi metafisici della Dottrina del diritto (1797), che è la
seconda parte della Metafisica dei costumi, Kant ha giustificato giuridicamente la Rivoluzione
francese sottolineando lo sbaglio di Luigi XVI il quale ha rimesso al popolo il suo potere sovrano di
fare le leggi. La sovranità, per sua essenza piena ed indivisibile, non può essere intesa come
capacità di una più equa distribuzione dei beni. Quindi la Rivoluzione francese viene da lui
accettata favorevolmente non per la sua legittimità, quanto per ragioni morali ed ideali che in essa
trionfano, senza ritenerla la realizzazione del diritto e dello Stato. Nella Rivoluzione egli ha visto
infatti la manifestazione delle spontanee forze naturali che agiscono nella storia, al di fuori di ogni
umano progetto, per far trionfare il vero e il giusto.
Sulla libertà Kant ha modellato la sua idea di organizzazione statale, così come viene
formulandola nella Metafisica dei costumi (1797). Ora, la sfera della morale è distinta da quella del
diritto, perché alla prima l’uomo partecipa come soggetto autonomo razionale e libero mentre al
secondo come sensibilità e oggetto passivo di una legge eteronoma. Come appartenente al mondo
intelligibile l’uomo compie il dovere per se stesso ma come appartenente al mondo sensibile egli
obbedisce alla legge per costrizione. Il diritto dunque prescinde dall’intenzione che è invece
essenziale alla morale. La sua filosofia pratica propone così una distinzione essenziale fra legalità,
che è intesa come dovere in osservanza alla legge senza riguardo ai suoi motivi, e la moralità che è
il dovere compiuto per se stesso perché è l’unico motivo dell’azione. Sulla legalità Kant fonda la
sua dottrina dello Stato. Egli si oppone infatti allo Stato etico d’impronta paternalistica che si
preoccupa della felicità dei propri sudditi e si fonda sulla benevolenza del sovrano verso il popolo.
Allo Stato invece appartiene la sfera della legalità, cioè delle azioni compiute nella conformità
esteriore alle leggi, e non quella della moralità, che si chiude nella coscienza dell’individuo ove
nessuna autorità può creare o giudicare l’interna moralità degli atti umani. La creazione dello Stato
si riduce al problema di trovare un ordinamento giuridico ben congegnato che permetta di
disciplinare esteriormente gli istituti e le passioni senza tentare di trasformare interiormente gli
uomini. Tale problema è risolvibile anche per uno “Stato di diavoli”. Come organizzazione
schiettamente giuridica che tutela la possibilità di un’ordinata coesistenza degli individui, lo Stato
impersona appunto quella legge giuridica universale intesa “come l’insieme delle condizioni per
mezzo delle quali l’arbitrio dell’uno può accordarsi con l’arbitrio di un altro secondo una legge
universale di libertà”78. Le singole individualità che coesistono mediante il diritto dello Stato però
non sono creature sue. Il pensiero di Kant si muove nell’orizzonte del giusnaturalismo quando
78 I. Kant., Principi metafisici…, in Id., Scritti politici, cit., p. 449.
afferma che gli individui hanno una ragion d’essere autonoma e la loro pretesa ad esistere forma
l’originario diritto che compete a ciascuno per il solo fatto che è uomo. Egli supera però l’orizzonte
lockeano perché non astrae dalle superiori esigenze etiche dell’individuo il quale è da non
abbandonare alla libera azione delle forze naturali; infatti Kant vuole subordinare sia l’etica che la
natura a quella legge del limite che concepisce la libertà non al di fuori dei rapporti coesistenziali
regolati dal diritto. Nel dominio etico l’individuo attua in sé la libertà, che è disassoggettamento
dalla sensibilità; nel dominio economico l’individuo la attua negativamente riconoscendo gli
ostacoli che si frappongono alla soddisfazione dei suoi bisogni; nel dominio giuridico egli attua la
propria libertà limitandosi in relazione agli altri. Proprio nel mondo giuridico si rafforza così il
principio che l’individuo è sempre fine e non mai mezzo, a cui lo Stato deve garantire le condizioni
esterne per la sua interna libertà. Sottomettersi a una costrizione esterna legale per uscire dalla
condizione naturale senza ostacoli e unirsi agli altri significa vivere in uno Stato di diritto, in cui il
suum sia legalmente determinato con l’assegnazione di esso da parte di un superiore potere esterno.
L’autonomia dello Stato è esterna perché non riguarda quella del volere, ma quella della sensibilità
e per essa ognuno obbedisce a leggi che si è dato.
Garantire le condizioni del diritto è compito dei governi, a cui è però precluso il compito di
dispensare benevolmente la felicità al popolo, poiché un tale governo sottrarrebbe ai cittadini il
diritto di determinare da sé la felicità, di distinguere “da adulti” ciò che è utile da ciò che è dannoso.
Così facendo esso infatti rischierebbe di trattare i sudditi come minorenni bisognosi che altri
decidano per loro: il paternalismo è “il peggior dispotismo che si possa immaginare”. Meno che mai
è compito dello Stato rendere l’uomo forzatamente buono. Ciò è, oltreché impossibile, un progetto
assolutamente condannabile, perché attenta alla libertà e così nega la ragione stessa per cui si
costituiscono la società civile e le sue leggi, che è quella di consentire agli uomini di vivere liberi.
L’avversione kantiana per ogni forma di dispotismo, sia del principe sia del popolo, è legata al fatto
che dal predominio del singolo o della collettività di massa non può scaturire un’oggettiva norma
impersonale ed universale. La validità oggettiva del diritto e dello Stato è data dal fatto che sono
concetti trascendentali costruiti a priori. Il dispotismo etico dello Stato vuole invece attuare la
felicità individuale o la morale collettiva con mezzi coattivi che sottraggono alla personalità
naturale e morale gli interessi riguardanti l’individuo. Lo Stato può soltanto limitare tali interessi e
valori regolandoli nei loro effetti esterni socio-politici, senza però potersi sostituire all’individuo. In
ciò consiste il liberalismo kantiano, che, come ha notato Solari, non è quello di Locke perché questo
è troppo prossimo ad una concezione liberista la quale lascia i rapporti esterni abbandonati al libero
gioco delle forze naturali. Kant, che ha una certa ammirazione per l’entusiasmo etico di Rousseau,
considera però il diritto la sintesi fra la natura e l’etica nella esigenza di rendere coesistenti le libertà
esterne. La legislazione lascia infatti sopravvivere interamente la libertà naturale e la libertà etica,
limitandosi a regolarle con una norma di ragione che esprime l’esigenza della vita di relazione.
Ma Kant si sforza di elevare lo Stato a organo di voleri sopraindividuali, cioè a cosa in sé,
perché è una persona morale. Lo Stato non è un mero aggregato di voleri singolari, ma è un tutto
unitario capace di un volere generale. Se in Rousseau esso presuppone il patto di costituzione della
società per organizzare la vita collettiva che si personifica nel popolo e nella legge della nazione,
Kant distingue nettamente fra società nata da patto di costituzione sociale (pactum sociale) e Stato
nato dal patto di costituzione civile (pactum unionis civilis). L’unione politica ha la particolarità di
essere fine in sé, un fine che cioè ognuno deve avere non solo per ragioni di giustizia distributiva e
di giurisdizione, bensì perché lo Stato è una realtà avente un valore assoluto, non scaturito
dall’arbitrio soggettivo degli individui. Alla base della società civile sta un contratto, che Kant
concepisce non come un fatto storico ed empiricamente documentabile, ma come un principio
pratico della ragione: “la prima cosa che si è obbligati ad ammettere, se non si vuole rinunciare ad
ogni concetto di diritto, è la proposizione fondamentale: l’uomo deve uscire dallo stato di natura,
nel quale ognuno segue i capricci della propria fantasia, e unirsi con tutti gli altri (coi i quali egli
non può evitare di trovarsi in relazione reciproca) sottomettendosi a una costrizione esterna
pubblicamente legale (…); vale a dire che ognuno deve, prima di ogni altra cosa, entrare in uno
stato civile”79. Ciò significa che il patto non sorge per superare uno stato di natura ferino. Infatti il
patto fra i cittadini per la costituzione di una comunità politica viene stipulato non perché è utile ad
essi, ma perché è doveroso: “il concetto di un diritto esterno in generale deriva interamente da
concetto della libertà nei rapporti esterni fra gli uomini e non ha nulla a che fare con il fine che tutti
gli uomini hanno naturalmente (la ricerca della felicità)”. Dall’idea della libertà consegue
necessariamente l’idea del patto, il quale pertanto è necessario anche quando si concepisce lo stato
di natura come condizione di felicità, alla maniera di Rousseau. Col contratto sociale gli uomini si
privano della loro libertà esteriore a favore della comunità, per riprenderla di nuovo convertita in
libertà civile, cioè nella loro qualità di membri di un organismo politico: “Questo contratto è una
semplice idea della ragione, ma che ha indubbiamente la sua realtà (pratica): cioè la sua realtà
consiste nell’obbligare ogni legislatore a far leggi come se esse dovessero derivare dalla volontà
comune di tutto un popolo, come se egli avesse dato il suo consenso a una tale volontà”80. Il
contratto non è un fatto storico ma un principio ideale sulla cui base deve essere misurata la
legittimità dello Stato, che è razionale se in esso il legislatore deve fare leggi come se esse
derivassero dalla volontà popolare, anche se rimane suo insindacabile giudizio la valutazione della
conformità delle leggi a quella volontà. Così l’uomo non sacrifica per Kant parte di sé a un fine che
79 I. Kant, Principi metafisici…, in Id., Scritti politici, cit., p. 498.80 I.Fant, Sopra il detto comune…, in Id., Scritti politici, cit., p. 262.
lo trascende, ma egli, rinunziando alla sua libertà selvaggia, ritrova tutta la sua libertà nella
dipendenza legale, cioè nello stato giuridico: “L’atto, col quale il popolo stesso si costituisce in uno
Stato, o piuttosto la semplice idea di questo atto, che sola permette di concepirne la legittimità, è il
contratto originario, secondo il quale tutti (omnes et singuli), nel popolo, depongono la loro libertà
esterna, per riprenderla di nuovo subito come membri di un corpo comune, vale a dire come membri
del popolo in quanto è uno Stato (universi). Non si può quindi dire che l’uomo nello Stato abbia
sacrificato ad un certo scopo una parte della sua libertà esterna innata in lui, bensì che egli ha
completamente abbandonata la libertà selvaggia e sfrenata per ritrovare nuovamente la sua libertà in
generale non diminuita, in una dipendenza legale, vale a dire in uno stato giuridico, perché questa
dipendenza scaturisce dalla sua propria volontà legislatrice”81.
L’unione politica ha la particolarità di essere un fine in sé che ognuno deve avere non
soltanto per ragioni di giustizia distributiva e di giurisdizione, bensì perché lo Stato è una realtà
avente un valore assoluto non scaturente dagli arbitri soggettivi. Lo scopo di Kant è pervenire ad
una giustificazione (deduzione) dello Stato come persona morale e legislatore supremo, che non
avviene se la sua razionalità risulta strumentale alla sola difesa dei diritti individuali; infatti la
deduzione dello Stato dal diritto è condizionata da una concezione del patto come risoluzione della
pluralità dei voleri in un unico volere generale. Per esso non basta l’unità distributiva ma quella
collettiva dei voleri uniti. Il patto che esprime la esigenza razionale del volere della totalità
collettiva è un principio non solo formale ma anche costitutivo dello Stato. Il popolo è sovrano
perché è espressione dell’unità razionale degli individui, la quale comanda alla moltitudine che
obbedisce. Così lo Stato può possedere quella autonomia propria degli esseri razionali. Nella
Critica del giudizio egli attribuisce allo Stato il significato di forte organizzazione inteso come
potere organico, assoluto e unitario, applicando ad esso l’idea di organismo, che, come un tutto,
prevede che ogni membro sia considerato non solo un suo mezzo ma anche suo scopo: “Trattandosi
dell’impresa di una totale trasformazione di un grande popolo in uno Stato, si è adoperata spesso e
molto opportunamente la parola organizzazione per designare (…) tutto il corpo dello stato. Perché
in un tutto come questo ogni membro deve essere non soltanto mezzo, ma anche scopo; e, mentre
concorre alla possibilità del tutto, è determinato a sua volta dall’idea del tutto, relativamente al suo
posto e alla sua funzione”82. Pur lottando contro lo Stato assoluto Kant non intende scuotere il
principio di autorità e di sovranità, perché vede nel liberalismo economico il costante pericolo di
volgersi in anarchia e in un regime di rivoluzione. La sovranità come già per Rousseau rimane una,
inalienabile e indivisibile, ma diversamente da questi trova un limite nella natura del diritto, che
81 I. Kant, Principi metafisici…, in Id., Scritti politici, cit., p. 502.82 I. Kant, Critica del giudizio, Laterza, Bari 1982, p. 243, nota.
svolge la funzione di regolare i rapporti esterni non perché è solo strumento di fini soggettivi etici
ed eudemonologici.
I principi fondamentali del diritto sono: 1) la libertà di ogni membro della società, che
coincide con la libertà di determinare e cercare la felicità nel modo che ciascuno uomo ritiene più
consono, purché non risulti lesivo del diritto altrui di perseguire il medesimo obiettivo; 2)
l’uguaglianza, in quanto sudditi, di fronte alla legge, derivando da ciò che ognuno può accedere alla
posizione sociale che è in grado di raggiungere con le proprie capacità, la laboriosità e la fortuna; 3)
l’indipendenza in quanto cittadino, in virtù della quale ognuno partecipa, nelle forme adeguate alle
proprie condizioni, al potere legislativo. Lo Stato deve prima di tutto impedire l’asservimento
dell’uomo da parte di altri per divenire strumento di fini non suoi. Ciò non impedisce a Kant di
riconoscere la possibilità di obbligarsi nei confronti di altri, sempre che tale obbligazione sia libera.
Lo Stato giuridico deve poi garantire ad ogni individuo come suddito l’uguaglianza di fronte alla
legge, senza implicare ciò l’uguaglianza politica né l’uguaglianza sociale ed economica, poiché lo
Stato non può impedire né disconoscere disuguaglianze di fatto non ereditarie basate sul frutto
dell’individualità che liberamente si esplica, cioè sul talento e l’operosità. Per questo egli dice che
in diritto gli uomini sono uguali. Sulla indipendenza del cittadino infine si basa l’uguaglianza
politica, che rende possibile la partecipazione al potere legislativo. L’indipendenza per Kant deve
essere non solo naturale ma anche economica. Lo Stato deve offrire a ogni individuo in quanto
cittadino l’opportunità di godere della propria indipendenza economica su cui si fonda la sua
uguaglianza politica. La proprietà ha la funzione così di assicurare all’individuo un ampio orizzonte
di libertà che però sia compatibile con quella degli altri. La proprietà non è né una creazione dello
Stato (Hobbes) né un frutto risultante dal lavoro (Locke), ma si fonda sul possesso e preesiste allo
Stato, essendo all’inizio un rapporto naturale e fisico con le cose. Essa però nello stato di natura ha
un carattere puramente provvisorio in quanto può essere preda della violenza altrui. Solo lo
strumento delle leggi civili permette che l’acquisizione della proprietà passi da provvisoria a
perentoria e stabile, nascendo lo Stato per tutelarla. I diritti dell’uomo sono sì originari, ma è
necessario l’atto del volere per far sorgere il rapporto giuridico: in questo caso, tenendo conto
dell’originario diritto al suolo dell’intera comunità umana, il mio e il tuo può essere stabilito
attraverso obbligazioni reciproche fra volontà personali, attraverso appunto norme che costringono
al reciproco rispetto: “Infatti la costituzione civile non è altro che uno stato giuridico in cui il suo
viene ad ognuno soltanto assicurato, ma non propriamente stabilito e determinato. Ogni garanzia
presuppone dunque che uno abbia già qualcosa come suo (visto che esso glielo assicura). Di
conseguenza bisogna ammettere che anteriormente alla costituzione civile (o astraendo da essa)
siano possibili un mio e un tuo esterni e nel contempo un diritto di costringere tutti quelli, con i
quali in qualsiasi modo possiamo entrare in rapporto, di entrare con noi in uno stato costituito nel
quale questo mio e tuo possano essere garantiti”83. Se lo Stato nasce per difendere la proprietà, solo
al proprietario però compete la posizione di cittadino che partecipa alla sovranità. Il diritto di
emanare le leggi cioè non appartiene a tutti in quanto liberi e uguali, ma solo a chi è indipendente,
perché questi è effettivamente padrone di sé (sui juris) disponendo di un reddito. Questo è un limite
storico di Kant, il quale pur considerando la volontà collettiva del popolo la fonte giuridica
illimitata della legislazione suprema, considera cittadini con diritti politici attivi soltanto le persone
che possiedono i mezzi per ricavare un reddito e i mezzi per vivere: i minori, le donne e i semplici
lavoratori non proprietari e non indipendenti non vengono da lui ammessi al voto: “Emerge così il
rigido limite classistico della distinzione kantiana, che esclude dai diritti politici i lavoratori
salariati, mentre li conferisce a fabbricanti, artigiani, fittavoli, commercianti, insegnanti, artisti,
ecc.”84.
La struttura dello Stato può assumere la forma di dominio monarchico (uno), aristocratico
(alcuni) e democratico (tutti), ma la vera distinzione per Kant riguarda invece le forme di governo,
che possono essere o repubblicana o dispotica. Lo Stato potrà realizzare pienamente il diritto
soltanto quando assumerà la forma di governo repubblicana, in cui il sovrano esercita il potere in
esclusivo ossequio della legge, ovvero in piena conformità con la volontà popolare da cui la legge
deve emanare. In sintonia con il pensiero di Montesquieu, Kant ritiene che i fondamentali diritti
della persona (libertà, espressione, critica, associazione, religione) possano essere garantiti mediante
la divisione dei poteri. Kant ritiene però che tale teoria debba essere meglio conciliata con la tesi
della unitaria sovranità dello Stato. Per questo egli chiama i tre poteri dignità politiche, che
significano delle funzioni dello Stato idealmente concepito, affermando al contempo con Rousseau
che la sovranità risiede principalmente nel potere legislativo il quale viene ad esprimere la
collettività come popolo. I tre poteri non sono in un puro rapporto meccanico di equilibrio, ma sono
intesi come rapporto inscindibile e gerarchico tra tre proposizioni di un sillogismo, di cui la
maggiore pone la norma (potere legislativo), a cui, attraverso la mediazione della minore (potere
esecutivo), deve ricondursi la sentenza del giudice che è la necessaria conclusione del
ragionamento. Il potere legislativo deve essere organizzato per esprimere non empiricamente la
sovranità del popolo come unità morale dello Stato, che viene definito una riunione di un certo
numero di uomini sotto leggi giuridiche. La legge è ingiusta se esprime soltanto la volontà di uno,
di pochi o di molti, ma se essa procede dalla volontà unitaria in cui ognuno entra come membro di
un regno dei fini razionali, allora è giusta. Il potere esecutivo si rende concreto nella persona del
reggitore che gestisce gli affari statali operando attraverso particolari decreti od ordinanze e non per
83 I. Kant, Principi metafisici…, in Id., Scritti politici, cit., p. 437.84 G. Bedeschi, Storia del pensiero liberale, cit., p. 105.
leggi di universale valore. Il reggitore risponde dei suoi atti verso il potere legislativo che può
sempre sostituirlo e deporlo. Il potere giudiziario non può spettare al sovrano né al reggitore, perché
se essi commettessero ingiustizia non si potrebbe ripararvi. Solo un giudice eletto dal popolo può
giudicare i cittadini. In virtù dei tre poteri lo Stato si costituisce in forma autonoma, consistendo la
sua salute nell’unità delle leggi con la libertà e non nella prosperità e nella felicità dello Stato stesso.
La salute pubblica consiste nella costituzione che ad ognuno assicura la facoltà di cercare la propria
felicità per la via che gli sembri migliore. Ma l’unità dei poteri non esclude la diversità delle
funzioni e la necessità di tenerle insieme separate. A ciascuna funzione corrisponde un’idea (legge,
potere e libertà), dal cui concorso e dalla cui organizzazione risulta lo Stato e la costituzione ideale.
Se un potere forte non sostiene sia la legge che la libertà è inevitabile il ritorno all’anarchia. Inoltre
se il potere rimane da solo o collegato alla sola legge senza libertà, esso degenera in dispotismo. La
costituzione ideale è quella che in cui il potere si associa e alla legge e alla libertà e in cui la
funzione legislativa e quella esecutiva sono separate85.
Inoltre un connotato politico della costituzione repubblicana risulta essere il suo carattere
rappresentativo. Repubblicana è da Kant designata una costituzione contrapposta non alla
monarchia, ma al dispotismo inteso come assenza di legalità, che deriva dalla esecuzione arbitraria
delle leggi e dall’uso da parte del governante della volontà pubblica come sua volontà privata. Una
forma di governo che non sia rappresentativa e non conosce la separazione dei poteri non può essere
repubblicana. Se per Rousseau il sistema rappresentativo è incompatibile con lo Stato repubblicano,
per Kant ne costituisce l’essenza. Nel primo il principio della rappresentanza politica relativamente
al potere legislativo costituisce la sua contraddizione perché ne nega l’essenza che è la volontà
generale (mentre relativamente al potere esecutivo si può pensare alla rappresentanza perché è una
forza che applica la legge e ciò non appartiene alla generalità). Nel secondo lo Stato ideale non può
non essere rappresentativo perché questo esclude il dispotismo assoluto che risulta dalla identità tra
legislativo ed esecutivo. Per questo la democrazia, vista nella Pace perpetua come massa confusa,
disordinata e irrazionale, viene considerata dispotica per il fatto che ognuno vuole essere signore,
rendendo ciò impossibile il sistema della rappresentanza, e per il fatto che l’attenzione è distolta
dalle cose generali e rivolta invece alle cose particolari. Poi però nella Metafisica dei costumi la
democrazia viene avvicinata ad una forma di governo repubblicana perché viene ritenuta
compatibile col sistema rappresentativo e non più vista come esercizio diretto della sovranità da
parte dei cittadini, cosa questa che pone invece una identità tra reggitore e legislatore dotata di una
volontà sovrana che intende valere immediatamente. La repubblica, sia essa storicamente una
monarchia una aristocrazia o una democrazia, è nello stesso tempo un sogno e un imperativo da
85 Cfr. I. Kant, Principi metafisici…, §§ 43-52, in Id., Scritti politici, cit., pp. 497-533.
realizzare. Nell’individualismo di Kant è presente l’ideale del diritto inteso come legalità, da
considerare non solo come freno al dispotismo paternalistico ma anche come correttivo della
rivoluzione, negando egli il diritto di resistenza che i rivoluzionari hanno preteso di inserire nella
Dichiarazione dei diritti dell’uomo. Infatti ammettere la rivolta significa sanzionarla con una legge,
con cui però paradossalmente il sovrano dovrebbe essere vincolato da una disposizione in virtù
della quale egli non sarebbe più tale e gli uomini tornerebbero alla libertà selvaggia della natura.
Ciò è apertamente assurdo per Kant, che rivendica il solo diritto di penna con cui i filosofi possono
mostrare le loro osservazioni critiche attraverso l’uso pubblico della ragione, auspicandosi con essa
un’azione di riforma da parte del sovrano: “Intendo per uso pubblico della propria ragione” precisa
Kant nella Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo? “l’uso che uno ne fa come studioso
davanti all’intero pubblico dei lettori. Chiamo invece uso privato della ragione quello che alcuno
può farne in un certo impiego o funzione civile a lui affidata”; se nel primo caso gli studiosi devono
godere della massima libertà, nel secondo devono ispirare però la propria condotta alla volontà del
governo perché “qui senza dubbio non è permesso ragionare, ma si deve ubbidire”86. Questa cautela
è un chiaro limite storico di Kant.
Una piena realizzazione del diritto comporta tuttavia una sua estensione dall’ambito statuale
a quello internazionale. Lo scritto kantiano più suggestivo e attuale rimane La pace perpetua87. La
meta e la misura del progresso consiste nella creazione di una società razionale, perché esso è
l’approssimazione della società esistente nella esperienza (respublica phaenomenon) alla comunità
ideale quale può essere stretta da esseri razionali puri (respublica noumenon). Tale è una comunità
cosmopolitica che sia cioè capace di abbracciare tutti i popoli nelle loro reciproche relazioni.
L’istanza di entrare in uno Stato regolato dal diritto non concerne solo i rapporti interni, ma anche
quelli esterni della comunità, che sul piano internazionale si trova rispetto alle altre in condizione di
illimitata libertà. I rapporti tra gli Stati non sono necessariamente pacifici. Se la guerra ha avuto
storicamente la funzione di disperdere ovunque il genere umano e di rendere abitato tutto il pianeta,
giocando così un ruolo progressivo, oggi è diventata un grande oltraggio e un mezzo barbarico che
distrugge e danneggia la cultura. La guerra è l’eterna nemica della pace, che non può essere
concepita solo come una tregua fra le guerre ma come la situazione in cui la ragione umana è
destinata a realizzarsi, attuando una idea di progresso che è anzitutto morale. Finora la razionalità
politica si è manifestata in una sovranità solo unilateralmente legittima, perché tendente ad
escludere i cittadini di altri Stati, nei cui confronti si è sempre pronti a far valere i propri valori ed 86 I. Kant, Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo?, in Id., Scritti politici, cit.,p. 143.87 Cfr. J. Habermas, L’idea kantiana della pace, due secoli dopo, in Id., L’inclusione dell’altro. Studi di teoria politica, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 177-215; G. Marini, Tre studi sul cosmopolitismo kantiano, Pisa-Roma 1998; D. Falcioni, Natura e libertà in Kant, cit.; L. Tundo, Kant. Utopia e senso della storia. Progresso cosmopoli, pace, Dedalo, Bari 2000; A. Taraborelli, Cosmopolitismo. Saggio su Kant, Asterios, Trieste 2004; P. Armellini, Elementi di storia del pensiero politico federalista, in Id. (a cura di), Introduzione al pensiero federalista, Aracne, Roma 2005, pp. 48-61.
interessi. Ma la situazione di reciproca conflittualità fra gli Stati è immorale ed irrazionale e chiede
una giustizia che possa valere su ogni parte della terra. Per il diritto internazionale non può valere
più lo jus ad bellum, ma deve valere il principio della volontaria sottomissione degli Stati ad un
imperativo della ragione che così comanda: “La ragione moralmente pratica pronuncia in noi il suo
veto irrevocabile: ‘Non ci deve essere nessuna guerra, né tra te e me nello stato di natura, né tra noi,
come Stati’”. Non ha senso per Kant chiedersi se la pace sia possibile, perché non è la conclusione
provvisoria di un conflitto ma è un compito che la ragione assegna all’uomo. Occorre agire così
come se essa fosse possibile in quanto questo è nostro dovere. La pace non va intesa non come
tregua fra due guerre e come la semplice conclusione di un conflitto armato, ma come il suo esatto
contrario cioè la fine di ogni guerra. Devono così sparire gli eserciti permanenti e si deve rispettare
il principio della buona fede nei trattati. La parte centrale è dedicata a “tre articoli definitivi”,
proposti come fondamentali della futura comunità internazionale. In essi Kant elenca le condizioni
positive della pace perpetua: 1) “la costituzione civile di ogni stato deve essere repubblicana”; 2) “il
diritto internazionale deve essere fondato su un federalismo di Stati liberi”; 3) “il diritto
cosmopolitico deve essere limitato alle condizioni dell’universale ospitalità”88. Il primo pretende
che gli Stati siano razionali, cioè di diritto, non dovendo essere i suoi cittadini sottomessi
all’arbitrio del dispotismo e dovendo essi essere informati e partecipi dell’attività politica. Il
secondo articolo costituisce il vero elemento fondativo della realtà federale futura, esprimendo la
rinuncia da parte degli Stati a farsi guerra fra loro e la volontà a entrare in una libera federazione
delle comunità. Kant la concepisce come una tappa intermedia verso la meta finale della lega tra i
popoli, che presuppone l’abbandono della dimensione statuale, dato che uno Stato di popoli vede
sul piano mondiale la realizzazione del più orribile dispotismo che annulla la libertà dei popoli.
Kant sa che la federazione implica l’alienazione di una parte di sovranità dei singoli Stati membri
verso lo Stato federale e la confederazione non pone tale condizione. Egli sa anche che la
confederazione è un surrogato negativo della corretta soluzione ai fini della pace perpetua, la civitas
gentium della federazione dei popoli, però mostra la riserva che essa possa trasformarsi nel
dispotismo di una monarchia universale, che non sa rispettare la storia e la diversità culturale dei
popoli e delle civiltà.
88 I. Kant, Per la pace perpetua, in Id., Scritti politici, cit., pp. 292, 297, 301.
16. Tocqueville: la democrazia fra libertà e
conformismo di massadi P. Armellini
Nel momento in cui le dottrine liberali dell’Ottocento rifiutano l’allargamento delle libertà politiche
al popolo intero, si affaccia in tutta Europa una nuova sensibilità sia in ambito cattolico sia in
ambito socialista in cui si abbandonano le tendenze classiche e conservatrici delle formule
monarchico – costituzionali e si avanzano richieste di ampliamento della base del potere in senso
democratico. Rispetto ad u vasto dibattito in cui si vedono contrapposti in Europa libertà e
democrazia si impone la solitaria riflessione di Alexis de Tocqueville (1805 – 1859), che vive
intensamente gli eventi che accompagnano il passaggio dalla monarchia legittimista a quella
orleanista e il suo progressivo disfacimento. La principale opera politica di T. è “La democrazia in
America” (1835 - 40), in cui per primo coglie le minacce e i pericoli alle libertà che operano in seno
alla società democratica moderna, con le sue tendenze alla uniformità, alla massificazione
egualitaria e all’accentramento burocratico. Anche la sua vita è contrassegnata da una inquietudine
di fondo che gli ha permesso di scandagliare nelle pieghe del discorso democratico moderno al fine
di comprenderne vantaggi e svantaggi. Discendente da nobile famiglia normanna, nacque a Parigi e
dopo aver studiato diritto, dopo un lungo viaggio in Italia venne nominato nel 1827 giudice molitore
a Versaille, dove strinse amicizia con il collega G. De Beaumont. Insieme seguirono le lezioni di
Guizot e Cousin. Dopo la rivoluzione del 1830, essendo ritenuto un aristocratico favorevole ai
Borboni, ottenne un congedo per studiare il sistema penitenziario nord-americano. Rientrò in
Francia nel 1832 e si dimise da magistrato per poter scrivere “La democrazia in America” la cui
prima parte fu pubblicata nel 1835, che ebbe un notevole successo. Usciva nel 1840 la seconda
parte dell’opera. Eletto deputato per il congresso di Valognes nella Mauche, fece parte
dell’opposizione costituzionale. Cadutala monarchia di Luigi Filippo e proclamata la Repubblica, fu
eletto deputato nell’Assemblea costituente 8aprile 1848) ed entrò a far parte della commissione per
preparare la nuova costituzione. Fu ministro degli esteri nel 1849 nel gabinetto di O.Barrot,
occupandosi della questione italica. Dopo l’avvento di Luigi Napoleone si pose contro la rielezione
del Presidente della Repubblica, e, dopo il colpo di Stato del 2 dicembre 1851, venne arrestato.
Dopo la scarcerazione si ritirò a Tours per studiare e nel 1856 pubblicò “L’Antico regime e la
Rivoluzione”, primo volume di un’opera sulla Rivoluzione Francese. Morì a Cannes il 16 aprile
1859. Nel 1852 erano già ultimati i “Ricordi”. Quando nel 1830 ci fu la rivoluzione di luglio, pensò
al viaggio in America sia per allontanarsi dalla situazione politica che non approvava sia dal nuovo
regime che non lo soddisfaceva. Dietro la monarchia orleanista c’era il dottrinarismo liberale che
pensava di risolvere il conflitto fra reazione e rivoluzione, tra aristocrazia e popolo con il consenso
Moderato, che tendeva a mediare il vecchio ordine con il nuovo. Invece per Tocqueville ormai era
illusorio cercare di conservare in sede politica delle differenziazioni e le gerarchie che non avevano
più basi nella società civile (Cfr. A.M.Battista, “Studi su Tocqueville”, Firenze 1989). La società
moderna, seppur con tempi e forme diverse da paese a paese, tende alla democrazia e
all’uguaglianza, il processo democratico appare inesorabile poiché esso è la nuova condizione della
vita associata. Quando nell’ “Introduzione alla prima parte della Democrazia” accusò le classi più
potenti, più intellettuali e più morali della nazione, cioè i governanti francesi, di non aver saputo
valutare l’importanza della democrazia e di non aver tentato di guidarla, egli osservò che <<La
rivoluzione democratica si è effettuata nell’assetto materiale della società, senza che si verificassero
nelle leggi, nelle idee, nelle abitudini e nei costumi quel cambiamento necessario per rendere utile e
positiva la rivoluzione>>(A. De Tocqueville, “La democrazia in America”, parte I, in Idem,
“Scritti politici”, a cura di N.Mattenni, Utet, Torino 1968, vol. II p. 20). Ad E. Stoffels egli
comunicava di essere un liberale di nuova natura, se è vero che ormai è certo il destino per il quale
<<la società si è messa in marcia e ogni giorno conduce gli uomini verso l’uguaglianza delle
condizioni>> (“Lettera a Stoffels”, 21 febbraio 1835). Col “Discorso sopra la libertà degli antichi
paragonata a quella dei moderni” (1819), Costant aveva criticato Rousseao e Mably che avevano
fatto l’elogio della repubblica democratica di Atene, Sparta e Roma nella speranza di realizzare
nella società moderna l’uguaglianza delle condizioni. Per Costant l’imitazione delle società antiche
era improponibile nei tempi moderni, ove quel tipo di democrazia e di uguaglianza erano
irrealizzabili. A questa posizione replicava Tocqueville nella “Introduzione” <<Tra le novità che
attirarono la mia attenzione durante la mia permanenza negli Stati Uniti, nessuna mi ha
maggiormente colpito dell’uguaglianza delle condizioni; senza fatica constatai la prodigiosa
influenza che essa esercitava nell’andamento della società, subito mi accorsi che l’uguaglianza delle
condizioni estende la sua influenza assai oltre la vita politica e le leggi, e che domina non meno la
società civile che il governo>> (Ib., p.15). la democrazia caratterizzava quindi la società americana
e con ciò T. dava ragione a coloro che nella seconda metà del seicento si erano battuti per
l’uguaglianza dei cittadini e a coloro che nella Riv. Americana avevano visto l’inizio di un processo
democratico. Le dissertazioni di T. si svolgevano quando la monarchia borghese sembrava
vincitrice sul partito dei nobili legittimisti, di cui egli era per nascita un membro col la sua famiglia
aristocratica. Alla borghesia trionfante egli ricordava che il successo era momentaneo perché
sarebbero state le classi popolari ad approfittare del contrasto tra élite aristocratica ed élite
borghese. Dopo che la aristocrazia aveva ceduto la direzione della nazione alla borghesia censitaria,
anche quest’ultima avrebbe dovuto cedere il posto agli altri ceti sociali, perché il riconoscimento
dell’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge non poteva poi riproporre una nuova
distinzione tra una minoranza privilegiata non per nascita ma questa volta su base censitaria e sul
possesso di proprietà ed una maggioranza di cittadini passivi. Credere ad un’immobile permanenza
al potere da parte della minoranza borghese era una illusione legata all’idea di realizzare la
democrazia secondo il criterio “legale” con un diritto di voto ristretto e non secondo i reali interessi
della nazione con l’estensione a tutti del diritto di voto, che avrebbe permesso la partecipazione del
popolo alla gestione degli affari pubblici, la libertà di opinione e di azione politica, il suffragio
universale e la decentralizzazione. Essendo il processo sociale ancora in atto, la vittoria della
borghesia non rappresentava ancora un punto di equilibrio poiché la storia della Francia non era la
storia del Terzo Stato ma della democrazia e dell’uguaglianza sociale, che però è una caratteristica
non solo della Francia (Cfr.ID, p.18). tale processo è per il cristiano Tocqueville un fatto
provvidenziale: <<sarebbe quindi saggio credere che un movimento sociale che ha così lontane
origini, potrà essere arrestato dagli sforzi di una generazione? C’è forse qualcuno che può pensare
che la democrazia, dopo aver distrutto il feudalesimo ed aver vinto i Re, indietreggerà poi davanti ai
borghesi ed ai ricchi? Dove ci stiamo dunque dirigendo? Tocqueville vedeva nel moto della
democrazia una “rivoluzione irresistibile”; lo sviluppo graduale e progressivo dell’uguaglianza
costituiva simultaneamente il passato e l’avvenire perché la società futura sarebbe stata
democratica. Il compito dei governanti era quello di adattare la democrazia ai contesti storici e alle
situazioni particolari e dirigere il movimento della democrazia. Per questo era necessaria una
scienza della politica nuova per un mondo rinnovato totalmente (Cfr. Ib.,20). La scienza politica
deve guardare le cose come sono e non come si vorrebbe che fossero, può solo prendere atto di tale
tendenza, per poi valutarne i pericoli non meno che le promesse per chi ha a cuore la libertà. Per De
Caprariis la novità di Tocqueville sta appunto nella conoscenza della <<positività del fattore
dinamico delle società politiche>> (Cfr. V.De Caprariis, “Introduzione” a A.De Tocqueville,
“Antologia degli scritti politici”, Bol. 1961). Così osserviamo T. affermare nell’ ”Introduzione”
alla prima parte della Democrazia: <<In qualsiasi direzione gettiamo i nostri sguardi, avvertiamola
stessa rivoluzione che si continua in tutto l’universo cristiano. Dovunque si sono visti i diversi
incidenti della vita dei popoli volgere in profitto della democrazia; tutti gli uomini l’hanno aiutato
con i loro sforzi: quelli che volevano concorrere ai suoi successi e quelli che non pensavano affatto
a servirla (.….). tutti hanno lavorato in comune gli uni loro malgrado gli altri a loro insaputa,
strumenti ciechi nelle mani di Dio. Lo sviluppo graduale dell’uguaglianza delle condizioni è dunque
un fatto provvidenziale, ne ha tutti i caratteri principi; è universale, è duraturo, sfugge
costantemente al potere umano; tutti gli avvenimenti, come tutti gli uomini, servono al suo
sviluppo>> (Ib., ). Dalle lettere a Kergolay (gennaio 1835) e a Stoffels (21 febbraio 1835 e 24
luglio 1835) si ricava la profonda convinzione di T. sulla irresistibile diffusione dell’uguaglianza
della condizione propria della democrazia, che per passare dal livello sociale a quello politico
necessita di condizioni come lumi, moralità private e credenze che in genere sono poco considerate.
Nella sua critica al costituzionalismo garantista qualcuno ha scorto l'’avvertenza T. che il pericolo
per la democrazia non è l’anarchia e il mutamento, ma la stagnazione e la immobilità(De Caprariis).
Se in Francia il pericolo della democrazia era visto nell’anarchia, per cui ci si è rivolti ai valori
tradizionali contro la democrazia, T. diceva che l’accettazione della democrazia come mera
uguaglianza della condizione sociale e giuridica costituisce un punto di partenza necessario ma non
sufficiente per una società attraversata da un nuovo tipo di dispotismo. T. aveva visto la democrazia
materiale di quei valori che in Francia erano rivendicati contro la democrazia. Ora, se l’uguaglianza
della condizione è un fatto, non più solo un valore, qual è la novità americana? <<Confesso che
nell’America ho visto qualcosa di più dell’America: vi ho cercato l’immagine della democrazia
stessa, della sua tendenza, del suo carattere, dei suoi pregiudizi, delle sue passioni, e ho voluto
studiarla per sapere almeno ciò che da essa dobbiamo sperare o temere>>. T. considerava per
esempio l’autogoverno locale americano la formula pratica per stabilire una società democratica
nella quale l’iniziativa individuale concordasse con le necessità collettive dello Stato. Riportando
all’autogoverno locale la democrazia americana, T. si differenzia da quegli europei che avevano
preso le masse dallo studio della Costituzione americana e dal “Federalista”; inoltre chiariva che la
democrazia non è un astratto complesso di principi traducibili in istituzioni, ma è pratica quotidiana
di vita. Quali sono allora i caratteri della uguaglianza americana? I pericoli che la transizione dalla
diseguaglianza della condizione all’eguaglianza non sono in America il rivoluzionarismo, l’anarchia
e la miseria, ma mali più insidiosi, a rivoluzionare l’America mostra il provincialismo negli scritti
politici francesi, tanto appassionati per le idee generali in materia politica. il problema è il rapporto
tra stato sociale e stato politico semplificato dalla democrazia, che è in fatto però di difficile
decifrazione. La dissoluzione dell’aristocrazia ha provocato nella società la disseminazione del
potere prima diviso tra la indivisibile aristocrazia. Tutti sono egualmente forti nelle attuali
condizioni che non significano scomparse delle differenze. Nonostante la disparità sociale in
America, dove la miseria assoluta convive con la concentrazione della ricchezza, persiste la
passione egualitaria che si riflette in tutti gli aspetti dell’esistenza individuale e collettiva,
nell’affermazione dei diritti civili e politici, ma soprattutto nell’assenso di diseguaglianze cetuali
ereditate e consolidate. In America tutti gli uomini liberi possono in teoria aspirare a tutto, nulla è
precluso per nascita o per censo. Le conseguenze possono essere positive e negative sul piano
politico. Innanzi tutto la difesa della propria indipendenza è difficile per la solitudine. Nella
democrazia accanto alla passione virile per l’uguaglianza, c’è un gusto depravato per essa che porta
i forti e i capaci ad essere degradati al livello dei deboli e degli incapaci. La Riv. Francese è portata
ad abrogare la tradizione per la sua natura insieme dispotica e libertaria. La nazione americana
invece è caratterizzata da una classe omogenea di individui, spinti non dalla brama di ricchezza ma
da una missione spirituale (pregare Dio in libertà) che li lega in società. Essa si è sbarazzata
dell’aristocrazia senza lotta. Invece in Francia la lotta contro le libertà aristocratiche porta la nuova
forma di dispotismo nella forma del cesarismo napoleonico che si fonda sulla debolezza di tutti. Gli
Stati Uniti sono un laboratorio perché nella sua democrazia la sovranità del popolo è un diritto
politico diffuso nello stato sociale. In America tutti gli uomini possono in teoria aspirare a tutto, ma
se da un lato si proclama l’assolutezza della sovranità popolare, essa si esplica nel “principio della
maggioranza”, sicché non sarà la totalità degli individui ad esercitare insieme il potere, ma solo la
maggioranza eletta. Il problema è che esso è esclusivo e tendenzialmente illimitato. È vero che la
sovranità popolare presuppone non solo l’uguaglianza ma la civilizzazione, l’esperienza e
l’educazione popolare dell’individuo, che è così abituato ad interessarsi alla res publica come sua
costituzione orizzonte di vita. L’unione politica democratica offre dei vantaggi che spingono ad
avere fiducia nelle istituzioni democratiche cui si deve obbedire. Infatti l’uomo rimane padrone di
sé e deve rendere conto soltanto a Dio. Come diritto politico la uguaglianza non è un problema, non
lo è la sovranità del popolo come diritto politico ma il pericolo consiste nel potere della
maggioranza. Il potere infatti tende a concentrarsi e con la centralizzazione amministrativa gli
uomini tendono negativamente a fare astrazione dalla loro volontà. Essa doma agli individui non
con la forza, ma con l’utilizzo delle loro abitudini, isolandoli uno per uno nella massa comune. La
libertà non è necessariamente iscritta nell’uguaglianza e nella democrazia, come è confermato lo
Stato accentrato, che se anche riceve dal suffragio l’investitura popolare, inibisce la partecipazione
è popolare e quel autogoverno con cui si tende a salvaguardare la peculiarità regionale e culturale
delle comunità locali. Lo svuotamento della gerarchia sociale ha posto il crescente peso sociale
della classe media e della burocrazia, che minaccia la sostanza delle libertà civili, riconduca
l’eguaglianza a spinta livellatrice, spegne l’individualità.
Il dominio burocratico inoltre innalza l’opinione comune a guida del mondo, conferendo alle
espressioni organizzatrici o spontanee dell’opinione pubblica un potere di sanzione e di controllo
del consenso – la tirannia della maggioranza, la tirannide democratica – che, esaltando il
conformismo e l’uniformità di sentimenti o di pensieri, reprime quelle virtù civili che spingono al
dissenso critico e alla creatività, offrendo la misura del grado di libertà di un paese. “Negli Stati
Uniti, quando un uomo o un partito soffre un ingiustizia, a chi volete che si appelli? All’opinione
pubblica? E’ essa che forma la maggioranza? Al corpo legislativo? Rappresenta la maggioranza e la
obbedisce ciecamente. Al potere esecutivo? Esso è nominato dalla maggioranza e le serve da
strumento passivo. Alla forza pubblica? La forza pubblica non è altro che la maggioranza sotto le
armi. Alla giuria? La giuria è la maggioranza investita del diritto di decretare gli arresti: i giudici
stessi, in certi Stati, sono eletti dalla maggioranza. Per questa iniqua o irrazionale sia la misura che
vi colpisce, bisogna che vi sottomettiate. “Questo” assolutismo di fatto della maggioranza va messo
in stretta connessione con gli effetti massificanti dell’estremo individualismo sia americano che
europeo segnati dall’egoismo borghese. Il “difetto” dell’aristocrazia era stato l’impedimento della
centralizzazione, il difetto della democrazia è la possibilità di indebolire l’individuo fino a
distruggere lo spirito di cittadinanza. Tre sono i fattori che in America lottano contro questo
pericolo:
1) la diffusione del benessere e dei lumi;
2) l’omogeneità socioculturale che elimina l’odio di classe;
3) la nobiltà sociale.
Ecco allora che il problema in democrazia non si tratta più di mettere in discussione la legittimità
del titolo della maggioranza a governare, ma come garantire i diritti della minoranza contro la
tendenza alla onnipotenza e alla tirannide della prima. Il principio della pari dignità di ogni cittadino
è ottimo se non è distorto dall’abbandono dell’individuo all’opinione della maggioranza,
snervandone lo spirito repubblicano. La violenza silenziosa che essa esercita viene stabilita dalla
concomitanza di assenza di uomini ragguardevoli e del tramutarsi dell’opinione pubblica in autorità
che circoscrivono il raggio d’azione del pensiero umano la vivacità americana si può comprendere a
partire dal nuovo modo di politicizzare la vita appropriandosi del proprio destino in una realtà in cui
la libertà non proveniva ne dalla concessione costituzionale di un monarca ne poteva essere elargita
dai governanti; essa era concessa con la realtà sociale di una democrazia che nata senza la
preoccupazione della differenza ereditaria, permetteva ad ogni cittadino di aspirare ad una qualsiasi
funzione pubblica. Alla fine della prima parte della “Democrazia in America” concludeva che
soltanto le piccole nazioni, come le città antiche, erano rimaste a lungo repubbliche democratiche;
col decentramento federale, e per merito dello zelo dei cittadini, gli Stati Uniti costituivano una
“unione libera e felice come una piccola nazione rispettata come una grande”. Venivano così
assicurati il benessere individuale poiché la sovranità non era pericolosa per la libertà, le cose
circolavano liberamente e nulla si frapponeva allo spirito d’iniziativa (IB,I,pp.189-203). Da
J.C.Lamberti (Tocqueville etbe deux démocraties, Paris 1983) ad altri studiosi, si è insistito sulla
differenza fra le due parti della “Democrazia in America”, ponendo in evidenza che nella prima T.
è preoccupato più che altro di un parlamento troppo potente e nella seconda egli insiste nella
seconda parte pubblica nel ’40 sul pericolo che l’uguaglianza possa prevalere sulla libertà e si possa
avere nel governo una concentrazione di poteri. Nella prima parte sarebbe preoccupato tanto dai
rischi commessi alla sovranità del popolo quanto nella seconda parte sottolineerebbe l’aspetto per il
quale, come vedremo, il popolo è il livello atomizzato e apatico verso uno Stato tutore, per cui solo
l’effettivo sovranità del popolo può costituire la possibile salvezza del dispotismo proprio della
democrazia (questa è la tesi di A.M.Battista nei suoi “Studi su Tocqueville”, cit.). Questa tesi porta
però all’affermazione che il vero T. democratico sarebbe il secondo F.M De Sanctis tende invece a
evidenziare la differenza fra la prima e la seconda parte nel fatto che la prima si occupa quasi
esclusivamente del sistema politico americano e la seconda del mutamento provocato dalla
rivoluzione democratica nel campo intellettuale, nei sentimenti e nei costumi. Il sistema politico ci
offre dati certi ed osservabili facilmente mentre le idee costituiscono un campo d’indagine quasi
impalpabile che devono essere analizzate non più con la scienza politica ma con una sociologia
della conoscenza. T. ci ricorda che oggetto della sua indagine non è tanto la democrazia politica
quanto le conseguenze della uguaglianza sui sentimenti e sulle convinzioni, prognosticando un
futuro. <<Si apre a questo punto – osserva Matteucci – un difficile problema interpretativo: il
rapporto fra questa “tirannia della maggioranza” è il “dispotismo paterno” che domina tutto il
quarto libro della seconda “Democratie” (N.Matteucci, Alexis De Tocqueville. Tre esercizi di
lettura, il Mulino, Bo 90,p.93). una possibile lettura la troviamo in De Santis, il quale dapprima
sottolinea che l’alienazione nella sovranità della cittadinanza di singoli isolati nello Stato non è per
T. un salto di qualità a livello etico per l’individuo perché egli contro Rousseau ritiene che
l’individuo no risulta potenziato nella comunità politica. la civiltà democratica è livellatrice e il
progresso è sempre parziale (e qui è presente una polemica con l’ottimismo continuistico di
Guizot). Ciò è già chiaro in una lettera a Stoffels del 21 aprile del 1830: non si può dire che l’uomo
si perfezione civilizzandosi, ma la civilizzazione trasforma i vizi e le virtù dell’uomo, che
qualitativamente diviene altro rispetto al passato. Il versante negativo della condizione semi
civilizzata è l’imperfezione dello stato sociale e la disorganizzazione del potere pubblico che pone
gli individui nella condizione di approfittarne, mostrando però così il proprio vigore. Il popolo
civilizzato vive invece sotto il “potere tutelare” della società, che provvede a tutto, che la protegge
durante la vita; egli divenuta dolce, socievole, privo di passioni in quel regno dell’egoismo che è il
moderno individualismo. Innanzi tutto “il pubblico gode presso i popoli democratici di un singolo
potere, di cui i paesi aristocratici non potevano neppure farsi un’idea; non fa valere la propria
opinione attraverso la persuasione, ma la impone e la fa penetrare negli animi attraverso una
gigantesca pressione dello spirito di tutti sulla intelligenza di ciascuno”. È il pericolo del cesarismo
di Napoleone III, è la dipendenza della vita sociale e civile del potere egemonico ed accentratore
dello Stato che egli riusciva a intravedere come quello del socialismo in cui analogamente “Lo Stato
è tutto e l’individuo è nulla”, minaccia la libertà in modo irreparabile. La democrazia americana ha
offerto alcune chances ancora sconosciute. Su essa vede fondarsi spirito di religione, spirito di
cittadinanza e spirito d’impresa, che danno luogo a un dinamismo volto a migliorare la società
senza demandare ad altri la questione. Tutto sembra segnato dalla politica nella sfera pubblica
vivifica la sfera privata dall’economia. Per T. non è la prosperità economica a creare la libertà
politica ma è vero il contrario. Il principale conservatore della repubblica democratica moderna è
l’educazione politica pratica, legata ai beni che sono essenziali all’esercizio dei diritti politici. Il
cittadino o è attivo o è un suddito. Il pericolo è piuttosto un altro: <<L’individualismo è un
sentimento ponderato e pacifico che dispone ogni cittadino a isolarsi dalla massa dei suoi simili, a
ritirarsi in disparte con la sua famiglia e i suoi amici, così che dopo essersi creato una piccola
società e a proprio uso, abbandona la grande società a se stessa>>. Nella società aristocratica questo
atomismo esasperato era impedito dai legami organici che univano gli individui ai corpi intermedi
dei ceti, che stavano tra l’individuo e lo Stato. Il sistema democratico tutto questo è spazzato via
perché lo Stato si confronta immediatamente con la moltitudine frammentata degli uomini dispersi
nella vita privata. Come profeta della società di massa egli ravvisa una spinta sociale di fondo che a
unificare la realtà dei diversi paesi. Esso secondo Matteucci corrisponde al processo di
socializzazione che ha investito l’Europa ed ha raggiunto la massima estensione nell’ottocento nella
società democratica dell’America del Nord, dove però incontra resistenze secondo lui nello spirito
religioso. Quattro sono gli aspetti fondamentali di esso. La tendenza verso una maggiore
eguaglianza, non solo di fronte alla legge ma nello stato sociale, nei sentimenti, nei costumi e nelle
idee. Poi la vittoria necessita in essa della filosofia immanentista legata al soggettivismo razionale
di Lutero, Descartes, Bacone e Voltaire volto a smantellare l’impero della tradizione; esso però da
metodo filosofico proprio solo degli intellettuali, è divenuta una inconscia filosofia di massa per cui
ciascuno l’affida solo alla propria ragione e contesta radicalmente tutto. Inoltre si ha la crisi del
principio di autorità fondato o sulla tradizione o sulla trascendenza dei valori o su uomini
superficiali e rappresentativi o su idee e principi condivisi: <<Le opinioni umane non formano più
una specie di polveri intellettuali che si agita in tutti i sensi senza potersi raccogliere e posare>> (II,
I, 1) ed è “sempre più l’opinione comune a governare il mondo”, per cui il pubblico fa penetrare la
propria opinione con una gigantesca pressione dello spirito di tutti sull’intelletto di ciascuno.
L’immanentismo si conclude con totalitarismo secolare. Infine occorre considerare l’amore per il
benessere materiale nella ricerca dei godimenti permessi, una sorta di materialismo onesto
concentrato sull’immediato e non sul futuro, che il potere deve saper garantire, mentre diminuisce la
partecipazione politica e si fa amare solo l’ordine. (II, II, 14). Diminuiscono le rivoluzioni che
ringiovaniscono ma la società sarà sempre più pervasa da un diffuso ed endemico disordine e da
continue turbolenze perché gli uomini sono bramosi ed inquieti (II, III, 21). Allora il problema in T.
è il rapporto fra la prima Democrazia (I,II,7) e il capitolo sulla tirannide della maggioranza dove il
referente è la società americana e la sovranità popolare e la seconda Democrazia (II, IV,6) col
capitolo sul “Dispotismo paterno” presente nel compromesso francese fra dispotismo
amministrativo e sovranità popolare. La moderna tirannia della maggioranza è diversa dall’antica
perché agisce sullo spirito e non sul corpo, non usa la forza ma l’emarginazione: <<La maggioranza
traccia un cerchio formidabile intorno al pensiero. Nell’ambito di questi limiti ciascuno è libero; ma
guai se osa uscirne… Il padrone non dice più: tu penserai come me o morirai; dice: sei libero di non
pensare come me; la tua vita, i tuoi beni, tutto ti resta; ma da quel giorno sei uno straniero tra noi>>
(I, II, 7). Con la crisi del principio di autorità e con la secolarizzazione la società si trasforma in
massa, con precisi meccanismi di esclusione e con una tolleranza meramente repressiva. Questa
società rischia l’appiattimento unidimensionale dove domina il calcolo del denaro. La ragione deve
dimostrarsi utile praticamente per legittimarsi e l’immaginazione è costretta dalla mentalità
calcolatrice e utilizzatrice a volare basso (II, III, 11). La cultura si perverte con la mentalità
industrializzata. L’individuo perde la propria individualità perché si sente sicuro solo nella massa.
Importante è allora descrivere i caratteri di questa logica commerciale in contrapposizione alla
aristocrazia. Questa è quel tipo di società in cui vige il principio della diseguaglianza nella
distribuzione sociale del potere, affidato essenzialmente alla nascita. La democrazia è quel tipo di
società in cui vige il principio dell’uguaglianza potenziale nella distribuzione “erga omnes” di tale
potere, per cui la nascita non funziona più come criterio per la sua distribuzione. Ma in democrazia
le differenze si riproducono incuranti del principio di uguaglianza. Nell’aristocrazia stato sociale e
stato politico non sono facilmente distinguibili, perché il suo dominio sulla terra è immediatamente
imperio sui suoi abitanti. La democrazia invece si profila come forma di vita naturalmente sociale in
cui il rapporto fra governati e governanti deve essere istituito “artificialmente”: il potere,
disperdendosi tra gli individui isolati per l’uguaglianza tende a concentrarsi e a centralizzarsi come
potere rappresentativo di tutta la società tomizzata. La sovranità popolare è la riaggregazione nella
sfera politica del potere polverizzato nella sfera sociale. In democrazia se l’uguaglianza da a tutti
delle risorse, c’è però l’impedimento che qualcuno abbia risorse molto ampie. La logica
commerciale ed industriale ha come simbolo di ricchezza il denaro e non la terra. La ricchezza non
garantisce ai suoi possessori ne sicurezza ne prerogative politiche. Alla mobilità spaziale
corrisponde una temporalità centrata sul presente e non c’è più interesse per il futuro. Le idee
religiose, i principi morali e la storia sono considerate nocive e così anche la conoscenza delle cose
ultime. T. allora rivaluta il concetto di autorità, intesa come incremento all’azione, mentre la
modernità l’ha posta in antitesi alle libertà. Ora, l’agire politico tende a distinguere due maniere: la
resistenza – particolare al potere sociale che decide le regole e il governo effettivo degli uomini. il
secondo tende in democrazia a concentrarsi a la prima ad estinguersi in proporzione alla
atomizzazione e al livellamento della società. Lo Stato, che si confronta immediatamente con la
moltitudine frammentaria degli uomini dispersi subito nella sfera privata una volta che gli hanno
dato vita, riconduce incessantemente l’uomo solo a se, facendogli demacramente dimenticare i suoi
antenati, nascondendogli i suoi discendenti e separandosi dai suoi contemporanei. L’allontanamento
dall’interesse pubblico può generare un opaco conformismo che distrugge le energie creative di un
popolo e fonda le premesse dell’instaurazione di nuove forme di dispotismo, quelle moderne che
avviliscono l’uomo senza tormentarlo: <<Voglio immaginare sotto quali tratti inediti il dispotismo
potrà prodursi nel mondo; vedo una folla innumerevole di uomini simili ed eguali, che
incessantemente si ripiegano su se stessi per procurarsi piccoli e volgari piaceri, di cui riempiono la
loro anima. Ognuno di essi, ritirato in disparte, è come estraneo al destino di tutti gli altri; i suoi
figli e i suoi amici personali formano per lui tutta la specie umana (…) . Al di sopra di costoro si
eleva un potere immenso e tutelare che, da solo si incarica di assicurare loro i piaceri e di vegliare
sulla loro sorte. È assolutamente capillare, regolare, previdente e dolce. Assomiglierebbe al potere
paterno se, come quello, avesse per fine di preparare gli uomini all’età virile; ma al contrario, non
cerca che di fissarli irrevocabilmente all’infanzia; gli piace che i cittadini siano contenti, a
condizione che pensino solo ad essere contenti. Lavora volentieri alla loro felicità, ma vuole essere
l’unico agente e il solo arbitro; provvede alla loro sicurezza, prevede e assicura la soddisfazione dei
loro bisogni, facilita i loro piaceri, conduca i loro affari principali, dirige la loro attività, regola la
loro successione, divide la loro autorità: perché mai non può togliere loro interamente la fatica di
pensare e la pena di vivere? “(II, IV, 6). Se è ormai vero che la democrazia politica è la legge della
storia col popolo entrato ormai a gestire la cosa pubblica, le conseguenze illiberali della democrazia
sono viste nella 2concentrazione dei poteri”. Il possibil3e esito fosco di una mera affermazione di
uguaglianza nel benessere materiale privo di conflitti danno un quadro immobile della democrazia,
in cui Stato amministrativo, creato dall’assolutismo, e sovranità si sono spostate(e potrebbero essere
congiunti anche nel socialismo) senza poter cancellare il peccato originale dell’ ”individualismo”.
<<Esso è un sentimento fondamentale e tranquillo, che spinge ogni singolo cittadino ad apportarsi
dalla massa e a tenersi in disparte>> e “fa dimenticare i suoi avi, gli nasconde le future generazioni,
lo separa dai contemporanei e lo conduce solo a se. L’individuo è regressivo, fondato sul
presupposto della rigida contrapposizione tra sfera pubblica e sfera privata dell’età assolutistica, che
imponeva l’apatia ai propri cittadini. Esso è deleterio per una nazione che passa alla democrazia
perché ostacola la partecipazione reale alla politica e società dei cittadini. Nel futuro T. vede solo
<<Una folla innumerevole di uomini simili ed uguali che non fanno che ruotare su se stessi….. Egli
vive al loro fianco ma non li sente; non esiste che in se stesso e per se stesso, e se ancora ha una
famiglia, si può dire per lo meno che non ha più patria>> (II, IV, 6). La massificazione
amministrativa ha prodotto “una folla solitaria”, un isolamento sociale e un solitarismo dovuto ad
emarginazione da una società che non esiste. L’individuo difeso dal pensiero liberale si può
pervertire nel suo contrario quando a mediare l’individuo con lo Stato c’è la società civile.
L’esempio americano, nella sua dinamicità fornisce oltre alla previsione dei rischi anche quella dei
rimedi. La democrazia è più un modo di organizzare la società politica che un valore come lo è la
libertà e non può realizzarsi nello Stato misto centralizzato, come è la monarchia costituzionale. Il
primo antidoto al nuovo dispotismo statale viene visto nella Costituzione federale e nella
promozione di salde autonomie locali, municipali con cui si può esercitare una palestra di
partecipazioni politiche democratiche. Nel V capitolo del primo libro della Democrazia afferma che
<<è nel comune che risiede la forza dei popoli liberi. Le istituzioni comunali sono per la libertà
quello che le scuole primarie sono per la scienza; esse la mettono alla portata del popolo, glie ne
fanno gustare l’uso pacifico e l’abituano a servirsene. Senza istituzioni comunali una nazione può
darsi un governo liberale, ma non possiede lo spirito della libertà. Rossiani ritiene che sono
passaggi interni momentanei, circostanze fortuite possono darle le forme esterne dell’indipendenza;
ma il dispotismo, ricacciato all’interno del corpo sociale, riappare presto o tardi alla superficie>> (I,
V). contro la tirannide della maggioranza esistono rimedi, contro il dispotismo potente ci si deve
appellare alla fede, alla passione o all’istituto delle libertà. Ma tutti i controveleni presuppongono
l’esistenza di un articolo sociale civile e l’assenza dell’accentramento amministrativo. La vera
medicina è lo spirito di associazione per cui egli ci offre una definizione di società pluralistica:
<<Dovunque, dove alla testa di un’iniziativa vedrete, in Francia il governo e in Inghilterra un gran
signore, state sicuri di vedere negli Stati Uniti un’associazione>> (II, II, 5). L’associazione è ciò che
rompe la grettezza dell’individuo privato e da forza e potere agli individui associati, sia contro la
tirannide della maggioranza sia contro il dispotismo paterno: l’individuo da solo perde sempre.
Quando parla di associazione T. non intende solo i partiti politici, ma anche le associazioni civili
con le più variegate attività sociali. Fra queste emergono per importanza le Chiese che col loro
messaggio ultraterreno possono essere solo contrastate dall’edonismo del benessere. Oltre il
pluripartitismo il suo pluralismo ha il suo spazio nella società ove possono contribuire alla vita di
una vita democratica ricca ed articolata. Le associazioni, esponenti di interessi comunitari di equi
tipo, assomigliano al corrispettivo, moderno e democratico dei corpi intermedi e questo ha fatto
pensare a T. come ad un pensiero in cui esiste la compresenza di aristocrazia e democrazia. Esse
hanno il potere di materializzare la volontà per risolvere dal basso i problemi di un quartiere, di una
professione ecc. L’arte dell’associazione deve crescere in modo proporzionale all’aumento
dell’uguaglianza delle condizioni. In particolare la religione, separata dalla sfera statale, se tratta
alla strumentalizzazione politica in un contesto pluralistico, ha la funzione di cura dei valori morali
spirituali che trascendono gli interni immediati. Con ciò egli pone la pacificazione tra liberalismo e
religione. Ma egli si rende conto anche dell’emergere della divaricazione sociale fra le grandi classi,
la nuova aristocrazia (o oligarchia) del capitolo e l’enorme massa degli operai, tra i quali si
reintroducono la disuguaglianza permanente delle condizioni. Anche questa tendenza presenta un
rischio di involo democratico. Ma egli non ha simpatie socialiste limitandosi o all’ammettere
l’eventualità dei conflitti e concependo l’iniziativa volta a migliorare le condizioni operaie con il
metodo del gradualismo che prevede la prevenzione del pauperismo.
Tornando al problema dei rapporti tra prima e seconda democrazia, possiamo dire che la prima
rappresenta un momento di particolare disponibilità verso l’uomo civilizzato, mentre nella seconda
l’associazione politica ridivenuta l’unica scuola pratica della libertà e il luogo della restaurazione,
conservazione e potenziamento della destinazione politica dell’uomo contro gli istinti cellulari
dell’epoca democratica, col la sua tendenza narcisistica dei signori che si consegnano allo Stato
tutore, che dispensa ordine e benessere.
La Rivoluzione. L’alienazione di ogni diritto – potere individuale e sociale nello Stato – tutore si
manifesta in Francia per la crisi dell’aristocrazia che, trasformatasi in casta si è separata dal popolo;
la borghesia poi non è capace di passare dalla società civile a quella politica. Le cause remote della
Rivoluzione Francese sono:
1) La crisi della mobilità francese e sua divisione interna;
2) Incapacità di affermarsi di un’aristocrazia vera ed incapacità della borghesia ricca e colta di
emanciparsi dalla tutela dello Stato e di assumere responsabilità di governo;
3) Clero diviso tra alto e basso;
4) Popolo benestante ma atomizzato e diviso in se stesso;
5) Il vero protagonista è il potere centrale – amministrativo che divenuto l’unico punto di
riferimento della società divisa, ma anche un potere solo che esclude la società civile dalla
partecipazione politica.
La patologia è:
1) L’alienazione della società dalla politica (la società politica è il potere centrale –
burocratico);
2) La lotta di classe;
3) Il dispotismo amministrativo.
Le cause prossime e l’illuminismo filosofico che è una sorta di narcisismo della ragione, crescita
distorta della libertà perché è priva di pratica politica. Gli economisti invece non parlano
dell’uguaglianza astratta dei filosofi, che è omogeneità di particelle tutte simili ma separate, pronte
a formare la massa, ma criticano il potere solo per il disordine, per la disorganizzazione. Per uscire
dalla polarità della condanna o dell’entusiasmo per la Riv. Francese, T. dice che la Riv. Non è
estinzione di ogni potere e non è equiparabile all’anarchia (il vero suo spirito è il dispotismo) non è
estensione della fede (non è equiparabile a irreligione) ma è una nuova religione, imperfetta, senza
Dio, ma che fa molti proseliti.
Cap. VII: Constant, Guizot e Tocqueville: il problema dei diritti.
Felicità e sicurezza individuali riposano su determinati principi positivi ed immutabili. La
Costituzione è garanzia di questi principi: così dice Constant. Essi costituiscono il limite della
sovranità. La legittimità del potere politico risiede nel rispetto di essi. Esso proviene da una elesione
libera e dall’eredità. Condizione minimale per Costant di ogni associazione politica è un certo grado
di lumi e un interesse comune con gli altri, condizione soddisfatta dalla proprietà, che rende gli
uomini capaci di esercitare i diritti politici. Ma Constant considera la proprietà non un diritto
originario ma derivato, una “convenzione sociale” (come Kant). Pur considerando la libertà di
pensiero l’essenza della modernità, è sospettoso verso la ragione astratta delle cose come verso
l’enfatizzazione del lavoro.
Guizot e il principio della sovranità del popolo: contro Hobbes il potere politico non poggia sul
principio dell’uguaglianza ma su quello dell’ineguaglianza naturale degli uomini. Il potere politico
sanziona ciò che tramite la natura, la provvidenza ha voluto e il governo e le istituzioni
distribuiscono il potere secondo meriti e virtù, capacità. Principio della formazione del potere
politico e della legittimità del governo è la ricerca della verità come norma per la decisione politica.
Per questo devono essere selezionati i migliori. La critica al privilegio dell’aristocrazia tradotta in
pura forza avviene proprio perché essa ha abbandonato il suo etimo (aristostos = migliore).
L’ineguaglianza non è però Guizot ineguaglianza di diritti. Ci sono diritti eguali e diritti ineguali per
la capacità di ognuno. Il principio della sovranità del popolo è illegittimo perché conduce al
dispotismo del numero; la sovranità spetta alla maggioranza dei capaci.
Tocqueville pensa che sia invece conclusa l’epoca dell’aristocrazia. Guizot pensa al governo misto,
dove c’è il reciproco riconoscimento delle forze sociali. Ciò è guidato dalla mobilità sociale. La
“Democrazia in America” di Tocqueville sdrammatizza il problema della sovranità del popolo.
Avendo tutti dei diritti, tra le classi c’è una maschia fiducia. Diritti = virtù. Non essendoci
l’America il proletariato, tutti hanno un bene da difendere, il diritto di proprietà. L’americano si
sottomette volentieri al potere, non ha paura di vedere violati i suoi diritti. In ciò è distante dal
liberalismo tradizionale, legato all’agire economico ed individuale vero patrimonio di civiltà di un
grande popolo è che ogni singolo sia posto in condizione di acquisire intelligenza pratica che non lo
faccia sentire estraneo agli affari comuni. Non lo preoccupa il proletariato sociale ma quello
politico. Su T. il problema dei diritti non è posto sul piano formale della comunicazione ma è quello
della loro garanzia legato dal dispotismo amministrativo e dall’utilità sociale. Il pauperismo deve
essere prevenuto.
17. Politica e religione in A. Rosmini
di P. Armellini
All’inizio della sua carriera di scrittore di cose religiose e politico-sociali Antonio Rosmini tentò
una risposta alle sfide portate dalla Rivoluzione francese e dall’età napoleonica alle tradizionali
forme dell’organizzazione politica e sociale. Dapprima a Rovereto tra il 1822 e il 1826 e poi a
Milano negli anni 1826-1827 egli si immerse con passione in tale ricerca producendo e abozzando
quei materiali che, abbandonati per un decennio, avrebbe poi ripreso per pubblicarli in opere della
seconda metà degli anni Trenta dell’Ottocento, come la Filosofia della Politica (Milano 1837-39) e
Filosofia del diritto (Napoli 1841-43)89. Più tardi la rivoluzione europea e italiana del 1848 vedrà
Rosmini impegnato non solo nella delicata e poi fallita missione diplomatica affidatagli dal governo
sabaudo presso Pio IX (agosto-ottobre 1848) ma anche in una vasta opera di ripensamento sui
fondamenti dell’ordinamento giuridico e politico e sull’orientamento dell’opinione pubblica
riguardanti i temi di carattere costituzionale posti all’ordine del giorno dagli eventi di quell’anno. Il
biennio 1848-49 si chiuderà per Rosmini con la condanna all’Indice non solo della sua maggiore
opera di carattere ecclesiologico, non estranea a considerazioni di teologia della storia e di laicità
della politica, come le Cinque piaghe della Santa Chiesa (Lugano 1848, ma 1832), ma anche del
suo lavoro più importante dal punto di vista costituzionale che è La Costituzione secondo la
giustizia sociale (Lugano 1848). Nonostante le incomprensioni e i sospetti sorti dal 1848 sui suoi
libri, non rinuncerà ad intervenire nel dibattito politico, conducendo sull’ “Armonia” di Torino dalla
primavera del 1850 fino al gennaio 1855 numerosi contributi critici sulla politica ecclesiastica del
governo piemontese relativamente alla disciplina degli ordini religiosi, la legislazione matrimoniale,
la legislazione scolastica90.
89 Cfr. A. ROSMINI, Filosofia della politica, a cura di M. d’Addio, Città Nuova, Roma 1997; IDEM, Filosofia del diritto, a cura di M. Nicoletti, 4 voll., Città Nuova, Roma 2013-16.90 Sulle vicende biografiche di A. Rosmini Cfr. G. LORIZIO, Antonio Rosmini Serbati 1787-1855, San Paolo, Cinisello Balsamo 1997; F. DE GIORGI, Rosmini e il suo tempo. L’educazione dell’uomo moderno fra riforma della filosofia e rinnovamento della Chiesa (1787-1833), Morcelliana, Brescia 2003; M. DOSSI, Il Santo proibito. La vita e il pensiero di Antonio Rosmini, Il Margine, Trento 2007. Sulla filosofia di R. cfr. M.F. SCIACCA, La filosofia morale di Antonio Rosmini, Loffredo, Napoli 1938; D. MORANDO, Rosmini, La Scuola, Brescia 1945; C. RIVA, L’attualità di Rosmini, Studium, Roma 1970; F. PERCIVALE, L’ascesa naturale a Dio nella filosofia di Rosmini, Città Nuova, Roma 1977; M. DOSSI, Profilo filosofico di Antonio Rosmini, Morcelliana, Brescia 1999; M.F. TADINI, Il Platone di Rosmini. L’essenzialità del platonismo rosminiano, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008; V. F. ERN, Rosmini e la sua teoria della conoscenza (Mosca 1914), a cura di R. Azzaro Pulvirenti, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2011; K.-H. MENKE, Ragione e rivelazione in Rosmini. Il progetto apologetico di un’enciclopedia cristiana, Morcelliana, Brescia 1997; M. KRIENKE, Wahrheit und Liebe bei Rosmini, Kohlhammer, Stuttgart 2004; U. MURATORE (a cura di), Antonio Rosmini: Verità, Ragione, Fede. Attualità di un pensatore, Ed. Rosminiane, Stresa 2009, pp. 13-47.
Fondamentale per comprendere la spiritualità rosminiana che ispira la sua visione giuridico-
politica e il modo di intendere i rapporti fra Chiesa e Stato è dato dal fatto che intende rendere
comprensibile il messaggio tradizionale del cristianesimo custodito dalla Chiesa, vista paolinamente
come il corpo di Cristo che si estende a tutte le generazioni attraverso le molteplici fasi della storia,
adeguato ad essere inteso dai popoli di ogni epoca in modo peculiare. In particolare egli sa che la
Rivoluzione francese ha manifestato nella storia una mentalità e un costume sociale sempre più
distante dai dettami della dottrina sociale cristiana e dalle filosofia che la sostiene, ritenendo ciò non
solo un motivo di reazione, come pensava fino al 1826 anno in cui approda a Milano per conoscere
Manzoni e Tommaseo, con in mano gli inediti della Politica Prima in cui si sente vicino al
tradizionalismo di Von Haller e De Maistre nel difendere una forma di monarchia assoluta che si
basa su una visione pressoché statica della società, in cui sempre esistono delle classi di governanti
provenienti dagli strati della società dotati di grandi patrimoni immobiliari. Dopo la frequentazione
però dei circoli letterari e filosofici dell’ambiente milanese, aperti alle moderne istanze del
costituzionalismo europeo e anche alle tendenze più democratiche che intendono affrontare i temi
più attuali del pauperismo prodotto dallo sviluppo delle coeve società industrializzate, Rosmini
comincia a ritenere necessario politicamente considerare il popolo il vero soggetto morale della
sovranità, abbandonando la visuale per cui solo un sovrano assoluto si può occupare
paternalisticamente della felicità pubblica del suo popolo, visto più come oggetto delle sue
attenzioni, dato che non ha patrimoni e proprietà tali che lo possano indurre a dedicarsi con profitto
alle cure del bene comune, come invece può fare una classe di proprietari terrieri di grandi
proporzioni. Dal 1827 in poi il popolo viene visto sempre più come il vero soggetto delle decisioni
politiche, dato che la società si è ormai aperta allo sviluppo di ricchezze che non dipendono solo dai
patrimoni ereditari di tipo terriero, ma anche al lavoro e alle capacità imprenditoriali che richiedono
un apertura a nuovi e più dinamici ceti sociali. E’ intervenuta la lettura di A. Smith e D. Hume che
gli hanno insegnato a considerare le opinioni di’ interesse come fondamentali per la costituzione
della società. In questo frangente della sua vita egli comincia a elaborare la teoria del Tribunale
politico, che sarà il tema con cui egli entra in comunicazione con le principali correnti del
costituzionalismo europeo di tendenza liberale. L’opera Della Naturale costituzione della società
civile però non vedrà in vita la sua luce, nonostante ne fosse preparata una edizione aggiornata per il
1848 come secondo volume della Filosofia della politica91.
Fin dagli scritti giovanili per Rosmini esiste una stretta correlazione fra errori filosofici e
erramenti storico-politici. Nella “Prefazione al piano generale delle scienze”, egli rinviene nelle
teorie dei philosophes il seme di molti errori e di tutte le calamità che accompagnarono la
91 Cfr. G. SOLARI, Scritti rosminiani, a cura di P. Piovani, Giuffrè, Milano 1957;
Rivoluzione francese, auspicando una restaurazione della filosofia capace di edificare dottrine
sicure a fronte di ‘costumi disumani’ e ‘atrocissime scellerataggini’ come era accaduto per certe
teorie moderne. Nella Filosofia del diritto (1841-43) di alcuni anni dopo si pone la domanda sulle
ragioni per cui la scienza della legislazione, così impegnata a sostenere i caratteri di utilità, certezza,
unicità, universalità delle leggi, non parla mai della loro giustizia. Lo spostamento dell’attenzione
dalla giustizia delle leggi alla loro utilità corrisponde all’oblio filosofico dell’idea e della
esaltazione unilaterale della sensazione come fondamento del conoscere. Concepire la giustizia in
termini di mera utilità non è altro che la conseguenza della riduzione - sul piano del diritto e della
politica - dell’intelligenza alla sensibilità. Quindi in Rosmini ritroviamo sin dalle origini una istanza
di connessione tra metafisica e prassi, fra intelligenza e politica, dato che, come spiega nei Principi
della Scienza morale, l’essere è originariamente attività: “questa parola essere non significa in fine
altro che la prima attività, ogni attività: il dire ciò che è. È un dire ciò che agisce, ché nessuna cosa
è, se non agisce; dovendo agire per essere, anzi essendo un agire quel porre, quel mantenere se
stessa che fa la cosa, essendo”92.
Gli scritti politici rosminiani degli anni 1826-27 vengono abbandonati quindi sia perché
ascoltò Manzoni, il quale rilevava che i suoi studi mancavano di coerenza non evitando di
sottolineare il suo stile concettoso e poco lineare, sia perché meditò sulle osservazioni di Tommaseo
che riteneva immaturo il suo libro di politica senza una adeguata preparazione filosofica. Così egli
rispose all’amico “Voi dite bene dicendo che non è il tempo di pubblicare il mio libro di politica e
che sospendendolo io muterei in gran parte il modo della trattazione”93. Occorreva infatti
individuare in sede filosofica il fondamento del concetto di unità per superare la concezione
analitica e sostanzialmente meccanico-materialistica dell’empirisimo illuministico e prospettare una
vera enciclopedia delle scienze umane, filosoficamente fondata, in cui la politica ritrovasse la sua
idonea collocazione, precisando le distinzioni fra religione, morale, diritto e politica e i reciprochi
nessi. Egli si mise allora alla ricerca di un quadro epistemologico nuovo che gli permettesse di
uscire dall’impasse in cui era caduto.
Nella sua tormentata vita Antonio Rosmini ci ha lasciato molte opere94 in cui ha cercato di
difendere la libertà politica dei cittadini da ogni forma di potere dispotico, a partire dalla difesa
della libertà della Chiesa dalle ingerenze indebite del potere politico, ma anche dalla tentazione di
92 A. ROSMINI, Principi della Scienza morale, a cura di U. Muratore, Città Nuova, Roma 1987, p. 55.93 N. TOMMASEO-A. ROSMINI, Carteggio edito e inedito, 3 voll., a cura di V. Missori, Marzorati, Milano 1967-69, I, p. 21.94 Cfr. U. MURATORE, Conoscere Rosmini. Vita, pensiero, spiritualità, Ed. Rosminiane, Stresa 2002; P. PRINI, Introduzione a Rosmini, Laterza, Roma-Bari 1997; sul pensiero politico: G. CAMPANINI, Politica e società in Antonio Rosmini, Ave, Roma 1997; M. D’ADDIO, Libertà e appagamento. Politica e dinamica sociale in Rosmini, Studium, Roma 2000; R. PEZZIMENTI, Persona, Società, Stato. Rosmini e i cattolici liberali, Città Nuova, Roma 2012.
scendere a compromessi con esso accettando protezione e vantaggi, come promesso dal
giuseppinismo e giurisdizionalismo austroungarico sulla natia provincia lombarda e anche poi dalle
politiche ecclesistiche della patria ritrovata nel Piemonte sabaudo. Alla base della filosofia politica
di Rosmini c’è una dottrina generale della società, una riflessione su concrete istituzioni giuridiche
fino alle redazione di progetti di costituzione, una dottrina sociale della Chiesa colla previsione di
una sua necessaria riforma ed infine una ecclesiologia che è il presupposto della sua dottrina della
laicità della politica. Sono aspetti connessi ad una comune ispirazione filosofica, che è
l’ontologismo depurato dalla tendenza a coniugarsi con posizioni razionalistiche, per cui si ha la
possibilità di andare oltre le apparenze sensibili e di cogliere una sorta di zona pura che è l’essenza
della realtà espressa dall’idea dell’essere, che la coscienza percepisce dotata di necessità e
universalità senza che abbia i caratteri transeunti della particolarità e contingenza propri della
dimensione reale dell’essere95. Rosmini spiega ciò nella sua maggiore opera che rimane a distanza
di quasi due secoli Il Nuovo saggio sulla origine delle idee (Roma 1830)96. L’essere ideale che ogni
intelletto intuisce, al di là della consapevolezza critica che può anche mancare all’uomo comune, è
sempre attivo nel processo della conoscenza della molteplicità delle cose del mondo, il quale, così
come si offre all’affezione della sensibilità umana nel processo in cui agisce il processo di
percezione sensibile e poi intellettiva a partire dal sentimento fondamentale corporeo, ne permette la
determinazione, alimentando nella razionalità umana la tendenza amativa a conoscere l’universo
delle cose in modo sempre nuovo nella sua immensa varietà.
Esso è quindi il principio di comprensibilità dell’universo. L’azione morale quindi fonda ed
accompagna la conoscenza, facendo sì che ogni cosa sia desiderata come qualcosa da conoscere,
perché ne viene riconosciuto un ordine di amabilità diversificato e plurale secondo un grado di
diversa appartenenza all’essere creato da Dio come fondamentalmente buono (Principi della
Scienza morale, Milano 1837)97. Il suo principi sta nel desiderare l’essere nell’ordine compreso
dall’intelletto. Così la morale non si mostra come un astratto e formale rispetto di regole imposte
alla volontà dalla ragione, ma come fedeltà all’essere nel suo ordine ontoassiologico, che impone di
amarlo e rispettarlo secondo l’ordine conosciuto dall’intelletto, senza che ciò necessiti
infallibilmente la volontà, perché anzi all’uomo viene riconosciuto un proprio ambito di azione.
Alla stima speculativa deve cioè succedere la stima pratica dell’essere, che non procede a
conformarsi alla prima in modo meccanico, ma attende dall’uomo il movimento libero della sua
volontà. Egli può avviarsi infatti anche nella direzione del male, perché in quanto è immagine di
95 Cfr. A. DEL NOCE, Il problema dell’ateismo (1964), introduzione di N. Matteucci, postfazione di M. Cacciari, Il Mulino, Bologna 20115.96 Cfr. A. ROSMINI, Nuovo Saggio sulla origine delle idee, a cura di G. Messina, Città Nuova 1998.97 Cfr. A. ROSMINI, Principi della Scienza morale, a cura di U. Muratore, Città Nuova, Roma 1990.
Dio ha la possibilità di deviare dall’ordine dell’essere, dato che è dotato di una libertà per quanto
non infinita ma condizionata dalla natura e dalle passioni (Antropologia in servizio della Scienza
morale; Teodicea). Da qui nasce la concezione antiperfettistica della visione etico-politica di
Rosmini. Nella sua concezione antropologica l’uomo appare sia nelle sue luci, dato che la sua
dignità proviene dall’idea dell’essere che è il divino in lui, sia nelle sue ombre e opacità, che
trovano origine nella sua dimensione creaturale e morale legata al peccato originale (Il
razionalismo che si insinua nelle scuole teologiche). Così egli dice nei Principi della Scienza
morale: “nell’uomo si ammira una singolare contrarietà di natura, per la quale ora egli ci si mostra
manifestamente in un essere limitato, ed ora ci si ingrandisce e ci appare come infinito: egli è
veramente un essere misto di finito ed infinito”98. Alla radice dell’antiperfettismo rosminiano
occorre considerare allora “il gran principio della limitazione delle cose”, che viene rifiutato invece
dalle ideologie perfettistiche, le quali, a partire da alcune utopie politiche antiche e rinascimentali
fino al socialismo utopistico conosciuto e criticato dal Roveretano, fanno sognare Stati e governi
ideali che pianificano strutture sociopolitiche ed economiche assolutamente perfette. Esse si
dichiarano cioè capaci di garantire l’annullamento di tutti i mali sociali e la più equa distribuzione
del benessere e della prosperità della pubblica felicità ad ogni membro della società. Tale
concezione non tiene conto della fallibilità della natura umana e si fonda su un “baldanzoso
pregiudizio, pel quale si giudica dell’umana natura troppo favorevolmente, se ne giudica sopra una
pura ipotesi (…) con mancanza assoluta di riflessione ai naturali limiti delle cose”99.
Così il Roveretano, dopo aver risolto il problema del fondamento teoretico del giudizio, al
fine di assicurare l’oggettività e l’universalità della conoscenza con il Nuovo Saggio, e dopo aver
affrontato il problema del fondamento della morale nei Principi della Scienza morale, non senza un
dettagliata analisi del problema dei rapporti inerenti fra la natura umana, con le sue potenze,
passioni e facoltà, e il principio della morale nell’Antropologia in servigio della Scienza morale
(1838), poté tornare ad occuparsi dei suoi primi interessi politici, riprendendo le considerazioni
svolte fra il 1821 e il 1827 secondo un’ottica nuova. Il problema fondamentale è stato aver
guadagnato una più matura concezione dei rapporti fra politica e religione al riparo sia dal
cortocircuito teocratico in cui il religioso tende ad assorbire totalmente il civile ed il politico, sia
dalle forme più o meno esplicite di subordinazione del religioso al politico come le teorie
dell’instrumentum regni, sia infine dalle forme di esaltazione religiosa della politica come nel
fenomeno di divinizzazione della politica. Le opere di Rosmini dedicate alla politica, al diritto e alla
storia intendono anche evitare una radicale scissione fra storia sacra e storia profana. Il mero
conservatorismo dell’orientamento giovanile aderente agli ideali della Restaurazione veniva 98 A. ROSMINI, Principi della Scienza morale, cit, p. 82.99 Ivi, p. 111
completamente abbandonato per la sua incapacità a risolvere le esigenze di un vero rinnovamento
civile e spirituale. Esso era risultato riduttivo soprattutto, perché si limitava a ricercare le regole
mediante cui valutare i mezzi politici che conservano le società, cioè il legittimo potere dei
monarchi, e che mantengono tranquilli i popoli affinché non si rivoltino.
La Restaurazione aveva assunto il principio della religione come sostegno del trono e dei
governi e ciò contrastava cogli ideali di un rinnovamento religioso e spirituale espresso invece già
dalle Cinque piaghe, ove il tema principale è quello della libertà della Chiesa in materia di nomina
dei vescovi, che deve essere autonomo dal potere politico, fosse anche quello che promuove e
difende i vantaggi della Chiesa. Anche il tema della destinazione della ricchezza che è destinata ai
poveri e al semplice sostentamento del clero, vede la necessità di un rinnovamento del clero, il
quale si deve affidare tra l’altro ad un linguaggio comprensibile al popolo dei fedeli, ad una cultura
non di tipo scolastico come quella presente nei manuali ma capace di attingere la sua saggezza alle
fonti dei primi padri, con un linguaggio vivo e immaginifico che non muove solo le menti ma anche
i cuori dei fedeli. Non corrispondeva più alle sue convinzioni la tesi per cui “il governo cristiano
deve aver per fine ultimo la felicità soprannaturale”100. Era così messa in questione la tesi della
tutela così penetrante del potere politico sulla vita della Chiesa, che appunto deve reclamare
autonomia e indipendenza dal potere dello Stato. Il problema della politica andava organicamente
riformulato superando la visuale della Restaurazione in un momento critico della storia europea,
attraversata dai moti del 1830 in Francia, in Belgio e in Inghilterra. Non gli sfuggivano i problemi
che in tale contesto poi assumevano i crescenti problemi economici posti dello sviluppo industriale
e della connessa questione sociale. Una certa visuale che faceva del medioevo, organicamente
organizzato con ceti e corporazioni, l’età della perfetta coincidenza degli ideali cristiani con le
istituzioni feudali durate fino all’antico regime, veniva da lui rifiutata, perché era l’espressione di un
particolarismo giuridico che contrastava con l’universalismo della Chiesa.
Nel I Trattato della Filosofia della politica intitolato Della Sommaria cagione per la quale
stanno o si rovinano le umane società egli osserva che tutte le società per loro natura sono soggette
ad un movimento che le fa tendere o verso la conservazione oppure verso la loro rovina. La politica
come arte di dirigere la società, non potrà esimersi dal domandarsi quali siano i fattori decisivi, il
complesso delle cause (la “sommaria cagione”) che determina lo stare oppure il rovinare di una
società. Indovinare la sommaria cagione significa cogliere ciò che è essenziale all’esistenza di una
società ovvero trovare quale sia la “forza prevalente” in grado di garantirne la conservazione, forza
che non è sempre identica, mutando di luogo ovvero secondo i contesti storico-sociali. È così
100 A. ROSMINI, Opere inedite di politica, in Frammenti della Filosofia della Politica, ora in ID., Politica Prima, cit., p. 1.
possibile individuare tre modelli di società, ove la forza prevalente avrà una sua peculiare
collocazione. Nelle società rozze e primitive la forza prevalente è costituita dalla supremazia fisica
attraverso la prevalenza degli uomini robusti e in armi. Questa fase dominata dalla forza fisica deve
essere superata da quella guidata dalla sottile prudenza o astuzia, ove alla materialità della forza
fisica succede la spiritualità dell’ingegno umano. In essa però gli uomini sono deboli perché nulla è
più sicuro in un mondo dove dominano solo gli astuti, potendo ogni uomo in qualsiasi momento
essere defraudato. Dalla prudenza sottile come forza prevalente è necessario passare alla prudenza
vera, in cui comandano uomini saggi e giusti; in questo modo le società diventano stabili e solide,
perché chi fa le leggi si ispira ai sacri princìpi della giustizia e della verità. La storia delle civiltà ha
mostrato che sempre ci si muove da una realtà meno solida ad una più solida. Il quarto grado della
serie da Rosmini viene individuato nel passaggio da un diritto esterno perfetto a uno che preveda
una tale convergenza fra diritto e morale, per cui la suprema forza sociale possa diventare la sola
virtù costantemente praticata. Se nelle precedenti società la vita virtuosa poteva sembrare
accidentale, ora essa sembra ai suoi occhi la condizione storica decisiva per la conservazione della
società.
Non si tratta più dopo la Rivoluzione francese di immaginare come riconquistare
cristianamente la società, ma di rendere più puro e più profondo l’insegnamento cristiano nelle
menti e nei cuori delle persone di ogni rango. Egli si dice infatti convinto che la suprema forza
sociale della virtù praticata senza limitazione, così come è e dovrebbe essere insegnata dalla
religione cattolica, può “rendere lo stesso cattolicesimo più e più puro nelle menti, più e più
profondo nei cuori, più e più effettivo nella pratica. Ecco a che si ridurrà la più consumata
politica”101. Sono proprio le forme sociali le quali riducono la religione a instrumentum regni quelle
che producono invece necessariamente a lungo andare l’eliminazione di qualsiasi effetto benefico
della religione sulla compagine sociale: “E’ un errore quanto comune altrettanto micidiale, il
considerare la religione o solamente o principalmente come politico mezzo di aiutare i materiali
vantaggi della umana società. Considerandosi la cristiana fede sotto questo punto di vista, ella cessa
di essere cosa divina, e diviene umana: da quell’ora poi è sfuggita dalle mani del legislatore e del
governo la sua benefica azione”102.
La politica è poi platonicamente connessa con la filosofia, dato che essa, come arte di
governo, non può essere separata dalla conoscenza del fine ultimo cui si deve indirizzare il governo
della cosa pubblica. Se la filosofia indaga le ragioni ultime delle cose, la filosofia della politica
come scienza indaga allora le ragioni ultime del governo della repubblica. Le scienze politiche
101 A. ROSMINI, Della sommaria cagione, cit., in Id., Filosofia della politica, cap. XVI, cit., p 351.102 Ibidem.
speciali devono servire da mezzi di quella. Ciò di cui occorre tenere presente è che l’indagine è
relativa sempre alle azioni che muovono gli animi umani e ad essi ritornano: “perciocché a che
tendono naturalmente tutti i prodotti dell’attività se non ad appagare l’umano desiderio?”103. Se la
società politica è l’uomo in grande come per Platone, questo va inteso però non in senso
organicistico e naturalistico, ma nella prospettiva cristiana della individualità e della spiritualità
dell’uomo, la cui attività si spiega solo con la sua libertà, che ne permette di realizzare nella società
la personalità. Solo tenendo conto della persona nella sua integralità si può edificare una società
umana buona. È nello spirito umano che si debbono trovare le leggi per cui le società si avvicinano
o si allontanano dal loro fine, che è il perfezionamento sociale.
Le società infatti non stanno mai ferme, muovendosi sempre tra due limiti. Quello superiore
corrisponde all’ideale loro perfezionamento che non si riesce però mai a raggiungere. Quello
inferiore è invece dominato dalla loro decadenza e dal loro eventuale dissolvimento, come ci ha
testimoniato più volete la storia. Per questo il primo essenziale criterio politico cui devono mirare i
governanti, che sono stati capaci di conoscere le leggi psicologiche delle azioni umane, è quello di
perseguire ciò che costituisce la sostanza della società, anche a costo di trascurare ciò che la
perfeziona, senza mai commettere l’errore di perdere di vista questo fine ultimo. Lo studio dei
processi di crisi e decadenza delle società porta Rosmini a individuare le cause per cui le società
non prestano più attenzione alla sostanza della società, ma solo ai suoi accidenti. In questo senso
egli distingue la storia delle società in quattro età. La prima è quella dei fondatori e dei legislatori,
in cui il criterio della sostanza ispira il comportamento in tutti gli associati e ad esso sono informate
le istituzioni. La seconda è caratterizzata dalla potenza militare, ove ancora si ha di mira la sostanza
della società, però preoccupandosi soprattutto di sviluppare una tale forza da poter conquistare le
altre nazioni e di sviluppare la propria destrezza militare. La terza età è caratterizzata dalla
ricchezza, rispetto alla quale la sostanza non ha più un primato, provocando un indebolimento delle
istituzioni. La quarta età è infine quella in cui ci si abbandona ai beni materiali, ai piaceri e ai lussi,
al fine di condurre solo una vita ispirata alle raffinatezze di cose futili e accidentali, che ci
allontanano irreparabilmente dalla sostanza della società, provocando una crisi profonda che la
conduce al dissolvimento e a essere preda di altre società più coraggiose e forti104. Il problema è
dunque quello del rapporto fra il vecchio e il nuovo, ovvero fra tradizione e innovazione della
compagine sociale. Da una parte stanno cioè le disposizioni governative che assicurano la continuità
e la identità della società politica, mirando alla sua sostanza, e dall’altra le riforme necessarie che
perfezionano la società, accogliendo ciò che la può anche abbellire con aspetti accidentali che però
le sono utili.103 A. ROSMINI, Prefazione alle opere politiche, in Id., Filosofia della politica, cit., p. 47.104 cfr. A. ROSMINI, Della Sommaria cagione, in Id., Filosofia della politica, cit., cap. VII, pp. 83-85.
Occorre comprendere il motivo per cui si preferisce l’accidentale al sostanziale e non si
avverte più l’importanza della distinzione fra i due ambiti e la loro necessaria connessione. Due
infatti sono le forze che Rosmini individua nella determinazione del movimento della società: la
ragione pratica delle masse da una parte e la ragione speculativa degli individui dall’altra. Il
destino delle società è stato determinato dall’intreccio di dinamiche di massa per un verso e di
impegno individuale per l’altro. La ragione pratica delle masse è la forza prevalente delle società,
che si muovono ispirate da una sorta di istinto sociale il quale non è affatto cieco e, non muovendosi
sulla base di calcoli complessi e di previsioni lontane, mira comunque al vantaggio presente ed
immediato delle masse. Essa è stata per certi aspetti determinante al punto tale che, come nelle
società antiche, è diventata prevalente. La sua forza sociale straordinaria ha permesso la nascita e lo
sviluppo di repubbliche e regni, i quali talvolta o spesso, per essersi allontanati dal perseguimento
del bene sociale principale, sono precipitati nella rovina. La capacità di costruzione della ragion
pratica delle masse si è resa evidente soprattutto nelle fasi storiche di costruzione, in cui il bene
sociale viene percepito immediatamente come desiderabile dalle masse e in cui ciascuno facilmente
lo identifica col suo. Poi è accaduto storicamente che il vero bene sociale non è stato più
immediatamente percepito come tale dalle masse, che non sono state più capaci di interpretare cosa
era bene per loro. Gli individui avevano dovuto rinunciare ai loro particolari interessi per il bene
sociale, senza potersene spiegare il motivo. Addirittura nelle fasi di opulenza delle società,
consolidati i loro fondamenti costituzionali, che li ha fatti sopravvivere sani fino ad allora, e
debellati i loro nemici esterni, le moltitudini si sono presentate talmente sicure di sé da ostentare
non solo gloria e potenza, ma anche e soprattutto lusso e ricchezza. La ragione speculativa degli
individui invece rappresenta la capacità dei migliori uomini di essa a guidare un popolo; essi,
conoscendo le leggi generali secondo cui si muovono le società, sanno prevedere gli effetti lontani
delle scelte presenti; per questo essi sono i più esercitati a pensare a lungo termine. Essa è diventata
prevalente nelle società cristiane, perché nel mondo fuoriuscito dal paganesimo si sono imposti
uomini capaci di guidare o contrastare con successo la ragione pratica delle masse, illuminandola
con la rigenerazione della coscienza critica che appartiene agli individui. Essa consiste cioè nella
capacità che hanno alcune personalità eminenti di una società di prendere decisioni efficaci in
determinati momenti storici.
Infatti nella società sono presenti due ordini di beni, quelli immediati e prossimi, come i beni
materiali che accrescono il godimento dell’anima e sono raggiungibili a breve e medio termine, e
quelli remoti, come i beni morali che favoriscono la perfezione morale dell’uomo e sono
raggiungibili a lungo termine. I politici migliori sono coloro che sanno condurre le nazioni verso un
futuro di progresso e di civiltà, solo se sanno guardare alle esigenze sostanziali o primarie di essa,
avendo cura di subordinare a tali esigenze ciò che è accidentale o secondario. Chi invece antepone
la sfera degli accidenti alla sostanza è un politico ‘astratto’, che non sa prima di tutto leggere le
vicende del proprio popolo nel quadro universale delle vicende umane e vede poi solo alcune parti
dell’uomo trascurandone la dimensione integrale. Per Rosmini bisogna realisticamente considerare
che ogni persona, prima di essere un cittadino, è un uomo dotato di dignità infinita grazie alla
presenza in lui del divino, che è l’idea dell’essere presente nella sua mente: in lui la ragione divina e
la ragione umana non coincidono affatto, dato che Dio ha infuso in ogni anima umana una
dimensione divina che ha i soli caratteri della universalità e della necessità ideale, ma non la
sussistenza reale che sta nelle cose create e contingenti. Essa però è il lume della ragione. La forza
amativa della conoscenza quindi sta nel volersi universalmente congiungersi con ogni cosa
desiderando di conoscerla, procurando in questo impegno la sintesi della percezione intellettiva in
cui avviene l’unione fra l’universalità dell’idea dell’essere con la concretezza della sensazione
offerta dal sentimento fondamentale corporeo. La persona non esaurisce le sue funzioni
nell’appartenere allo Stato (come vorrebbero Hegel e Marx) proprio in ragione di tale infinita
nobiltà che lo Stato deve riconoscere e rispettare. Considerare poi i cittadini solo in funzione della
utilità che essi possono arrecare allo Stato, significa abbassarli dalla condizione di fini o persone
alla condizione di cose o strumenti, che valgono come un branco di pecore e non di uomini.
Proprio perché l’uomo desidera insieme sia i beni eudemonologici e sia i beni etici, la
ragione pratica delle masse è da sempre intrecciata con la ragione speculativa degli individui. Ora,
nel corso delle vicende umane il cristianesimo è stato l’unico fattore storico in grado di generare
personalità individuali capaci di opporre resistenza non velleitaria ma efficace al seppur non
completamente cieco movimento delle masse verso la rovina delle società. Esso infatti è stato
capace di staccare il personale destino di ogni singolo dai dinamismi predeterminati della natura e
della storia, per percepire concretamente di essere parte di un destino sovrannaturale e
sopramondano che esige da esso un’obbedienza a Dio che viene prima di ogni obbedienza agli
uomini, siano pure i pochi potenti o le numerose masse o maggioranze. Il cristianesimo ha reso cioè
la persona cosciente del suo coraggio di svincolarsi dalle impersonali dinamiche della ciclicità delle
forme di governo accettate passivamente dalle masse, per far fronte ad esse anche in solitudine.
L’immissione degli uomini in una relazione con la trascendenza ha rigenerato dopo il paganesimo la
vita personale e sociale di una quantità indefinita di uomini delle diverse generazioni, coscienti che
staccando il proprio destino dal mondo, essa li ha resi indirettamente capaci di prendersi cura di
esso e anzi di giovargli.
Rispetto ai programmi di rinnovamento sociale e democratico di Tommaseo, che lo invitava
in tal senso, egli ricordava quanto segue: “chi non ha collocato il punto fermo nell’altra vita, questi
non potrà essere atto a dar nuovo movimento agli uomini, ma solo a secondarne debolmente il
corso”105. Di fronte all’amico che auspicava il recupero della dimensione sociale del cristianesimo
che fosse capace di dispensare agli uomini anche i beni terreni, per smentire le calunnie rivolte alla
religione cristiana di essersi fatta nemica della felicità terrena e facendo sostanzialmente del
cattolicesimo un elemento di rigenerazione sociale, Rosmini rispondeva che il cristiano sa che
Buona Novella è ancora sconosciuta a molti popoli e che nessuno può pensare di potenziare da sé
gli effetti di essa, cercando tra l’atro di disperdere con le sole forze umane il male. Questo sarebbe
un peccato di superbia. Nel momento in cui dialogava con Tommaseo, aveva scritto le Cinque
Piaghe, ove spiegava come nel passaggio dall’età antica a quella medievale, con la crisi dell’Impero
romano e le invasioni barbariche, la Chiesa dovette venire in soccorso di un mondo disperato e
prendere in mano una società che rischiava la rovina. I principi del Vangelo entrarono quindi nelle
leggi dell’ordine civile grazie alla grande influenza che essa ebbe sui ‘politici reggimenti’ di regni e
società violente e tiranniche quant’altre mai. Esse erano fondate sull’arbitrio e la schiavitù, ma a
poco a poco furono convertite ad una forma di convivenza più giusta e fraterna conformemente al
modello stabilito da Cristo per il governo della sua Chiesa. Ma il tempo della conversione delle
società è terminato ed è pronta una nuova era per la Chiesa. Per il Roveretano era necessario
prendere coscienza della differenza fra la ‘fedeltà evangelica’, che nasce dalla coscienza e ha per
fondamento la rettitudine della giustizia, e la ‘fedeltà politica’ che nasce da vincoli di umano
interesse e ha per fondamento l’utilità. Se i vescovi vogliono essere uomini di giustizia devono
poterlo essere liberamente. La missione sociale del cristianesimo non viene così negata, ma non
deve potere essere più affidata alla gestione del potere in supplenza. Essa richiede una rigenerazione
interiore e una testimonianza della verità del Vangelo attraverso una fedeltà che mostri il vero volto
della giustizia nell’essere politicamente inerme: “La Chiesa è inerme (intendo di armi materiali)”106.
Il tema quindi che la vita futura sia un punto fuori del mondo, sul quale punta la religione quando si
esprime nei termini autentici della escatologia e del trascendente, per operare paradossalmente a
vantaggio della società staccando gli uomini dai soli interessi materiali, torna ancora nella Filosofia
della politica quando Rosmini afferma: “La cristiana religione non può migliorare la condizione
temporale degli uomini se non a questa condizione, che ella divenga professata sinceramente, come
istituzione al tutto soprannaturale, la quale non si cura delle cose istantanee e limitate di questo
mondo, ma mira alle eterne ed infinite”107.
105 N. TOMMASEO, A. ROSMINI, Carteggio edito e inedito, a cura di V. Missori, 3 voll., Marzorati, Milano 1967-69, cit., II, p. 206.106 A. ROSMINI, Cinque piaghe della Santa Chiesa, a cura di A. Valle, Città Nuova, Roma 1999, p. 126, ma vedi anche le pp. 69 e 83-84 sul processo di costituzionalizzazione del violento potere dispotico delle monarchie pagane grazie al potere inerme della Chiesa che non è che un ministero di servizio; esso ha aiutato a far sentire tutti dei figli dello stesso Dio di uguale dignità, eliminando a poco a poco che vi fossero pochi uomini a cui i molti fossero dei puri mezzi.107 A. ROSMINI, La Società e il suo fine, in ID., Filosofia della politica, cit., 447.
Sul senso della origine della società, cui dedica il secondo libro che s’intitola La società e il
suo fine, egli offre una serie di fini osservazioni. Affinché ci sia una società civile non basta la sola
coesistenza, che è tale anche per le pietre; perché la comunità politica si formi occorre che più
persone libere ed uguali convengano tra loro sulle modalità di esercizio dei loro diritti,
organizzandosi colla creazione di governi. Le scelte politiche e i provvedimenti governativi devono
garantire l’esistenza e il perfezionamento della società, tenendo conto del limite ontologico inerente
a qualsiasi attività. Le concezioni politiche che prescindono dalla considerazione di tale limite da
Rosmini vengono chiamate appunto con il termine di perfettismo, che rappresenta in particolare una
tendenza della politica moderna e contemporanea. Egli così lo definisce: “il sistema che crede
possibile il perfetto nelle cose umane, e che sacrifica i beni presenti alla immaginata futura
perfezione, è il sistema dell’ignoranza”, in quanto “si giudica dell’umana natura troppo
favorevolmente, se ne giudica sopra una pura ipotesi (…) e con mancanza assoluta ai naturali limiti
delle cose”; la conseguenza è che “il popolo e gli autori delle dottrine popolari credono che con i
mezzi del governo si possono ottenere qualsiasi quantità di beni, di guisa che tutti, niuno escluso, ne
abbia d’avanzo”108. La esistenza di un bene impedisce talora quello di un altro maggiore e spesso
l’esistenza di un bene ha connessa con sé quella di alcuni mali. La politica deve mirare a creare il
‘maggiore effetto buono ultimo’ ossia totale, cioè sommata la ragione al contempo e dei beni e dei
mali. L’esperienza giacobina per lui invece ha prodotto l’illusione che si possa attuare un
ordinamento in vista del bene dell’umanità riducendo ad eventi del tutto trascurabili i mali necessari
per conseguirlo; essa però scaturisce dalla mancanza della consapevolezza del limite oggettivo
inerente all’azione di ogni governo.
Nella seconda parte quindi della Filosofia della politica Rosmini intende cercare i criteri che
si riferiscono al movimento della società verso il suo limite superiore ovvero la sua ideale
perfezione. Dato ciò, si può valutare correttamente i mezzi di governo. La società è l’insieme dei
rapporti che ci sono fra gli individui e dei vincoli fra questi e le cose. La società sussiste in virtù
della ragione, ma questa può esprimersi e svilupparsi solo se esiste la condizione della esistenza di
una società. Il rapporto giuridico tende a dividere le persone contrapponendone i diritti e i doveri. Il
rapporto politico della società si comprende se distinguiamo la società dalla proprietà da una parte e
dalla signoria dall’altra. Con il vincolo di proprietà l’uomo realizza un rapporto di utilizzazione con
le cose in cui l’uomo le usa come mezzi per raggiungere dei fini. Il vincolo di società con le persone
non va confuso con il vincolo di amicizia o di beneficenza, in cui la relazione è ispirata alla pura
gratuità. L’uomo si relaziona agli altri sempre per procacciarsi qualche bene. Ma il bene sociale non
consiste nell’utilizzare l’altro come cosa, perché si tratta invece di raggiungere un bene che deve 108 A. ROSMINI, Della sommaria cagione, cap. XIV, in ID., Filosofia della politica, cit., p. 104; La società e il suo fine, l. IV, cap. X, ivi, p. 401.
essere condiviso cogli altri soci. Perché si realizzi la più alta delle condivisioni che la società
prevede, ci deve essere un comune volere pienamente consapevole di mirare insieme ad uno stesso
bene, il quale preveda la messa in comune dei mezzi necessari per raggiungerlo. Fare società (anche
per i briganti) è sempre una conseguenza della volontà degli associati di ricevere del bene, ottenere
cioè dei vantaggi. Ma se questa volontà rimanesse puramente egoistica, essa non potrebbe mai
condurre alla istituzione della società; nessuno si avvincolerebbe con chi persegue unicamente il
proprio interesse. Ecco allora il paradosso della politica: ci si associa per ricevere dei vantaggi, ma
si scopre che ciò è possibile solo se tutti i soci vogliono per tutti ciò che ciascuno vuole per sé.
L’associarsi funziona solo se ciascuno degli associati è disposto a dare o comunque a condividere il
suo bene con tutti: “Più persone fanno società insieme a intendimento di procacciarsi qualche bene,
che è il fine della società. Questo bene dee essere procacciato a vantaggio di tutte le persone che
compongono la società, altramente quelle persone non si potrebbero dir sozie. (…) Dunque
ciascuna delle persone associate, per natura stessa della società, desidera il bene di tutte”109. Nella
società esiste quindi un essenziale elemento morale, che il rispetto o giustizia fra i soci, che ognuno
deve volere per se e per gli altri. Nella società deve cioè essere di per sé superato l’uso strumentale
delle persone, ma si deve anzi riconoscere in ogni altro l’uguale titolo di fine dell’intero agire
sociale. Senza questo vincolo morale, che impone il volere il bene dell’altro, la società si rompe.
Nessuna società può mai prescindere dal rispetto della dignità di ogni persona. Il vincolo
sociale è diverso anche da quello di signoria, in virtù del quale un uomo come il ‘signore’ considera
in certo modo ‘suo’ un altro che è il suo ‘servo’. I due sono nettamente separati. Egli condanna in
mmodo assoluto il vincolo signorile, anche se sa che la vicenda umana risulta da un complesso
intreccio di elemento sociale (ove la relazionalità è libera e paritaria tra i soci) ed elemento signorile
(ove esistono rapporti di subordinazione fra servo e padrone). Rosmini ammette, sì, una servitù
temperata, ma la relazione non prevede la proprietà del servo, ma solo sull’opera del servo, ossia sul
suo lavoro, mai sulla sua persona. L’opposizione rosminiana fra signoria e società impone di
considerare società solo quella in cui non esistono rapporti di servitù: “la società suppone la libertà
(…) fra servo e padrone non vi ha uguaglianza, perocché il servo come servo non è che un mezzo,
di cui il padrone è il fine”110. Dalle dinamiche sociali e pubbliche di dominio è stato per lui il
Cristianesimo a riscattare definitivamente l’umanità; la secolare lotta fra papato e impero esprime il
conflitto infatti fra elemento sociale seminato dai pontefici ed elemento signorile proprio dei regni
terreni.
109 A. ROSMINI, La Società e il suo fine, in ID., Filosofia della politica, cit., pp. 168-169.110 A. ROSMINI, La società e il suo fine, in ID., Filosofia della politica, cit., p. 197-201).
Qual è il fine ultimo della società? Il vero bene umano è la virtù morale e tutti i beni che
possono stare con essa. La virtù è l’atto personale con cui ognuno aderisce all’essere nel suo ordine
proprio. Ciò dà luogo ad effetti eudemonologici, a stati di piacere. Ciò a cui deve mirare la società è
l’accrescimento della natura morale delle persone. Il fine ultimo della società risiede quindi
nell’appagamento dell’animo umano, che è uno ‘star bene virtuoso’. Esso si differenzia
evidentemente sia dalla beatitudine che si prova nella vita ultraterrena sia dal puro piacere materiale
dei sensi, che non richiede l’uso della riflessione per cercare la virtù. Rosmini insiste molto sulla
necessità che devono avere i politici di conoscere le leggi psicologiche (una vera teoria dei
sentimenti o delle emozioni!) al fine di evitare lo stato di insoddisfazione in cui si trovano i popoli
quando si sentono inappagati. Nessuna società umana è legittima, se si propone di raggiungere uno
scopo che non sia l’appagamento degli animi dei propri cittadini, che si ha quando esercitano la
virtù. Nessuna legge ha valore se impedisce ai soci di pervenire alla virtù: “gl’individui sono
necessariamente il fine delle società; (…) l’individuo adunque non serve ad alcuna cosa; ma tutto
serve a lui, cioè a far sì che egli ottenga il suo fine”111.
Però già al tempo di Rosmini si erano formate delle società che avevano preteso di assorbire
indebitamente in sé il fine ultimo, impossessandosene in modo esclusivo. Talune forme dispotiche
moderne, pur ammantandosi dei più alti titoli di eticità, realizzano invece la forma più sottile e
distruttiva di violenza, pretendendo che l’animo umano trovi appunto appagamento solo in esse o
per mezzo di esse. Questa concezione totalizzante della politica va per lui respinta, anche quando a
realizzarla ci sono le maggioranze democratiche, che non sono esenti da forme di dispotismo.
L’appagamento dell’animo non è opera degli Stati o dei governi. Il principio costitutivo della
società è l’uomo in quanto persona, cioè un “individuo sostanziale, intelligente, in quanto contiene
in sé un principio attivo, superiore incomunicabile (…) in una parola l’elemento personale che si
trova nell’uomo è la sua volontà intelligente, per la quale egli diventa autore delle sue
operazioni”112. Le vere trasformazioni sociali avvengono nella società invisibile degli spiriti, che
riportano ad unità la dispersa molteplicità dei beni materiali; poi esse appaiono nella società
visibile, in cui gli individui si scambiano con reciproco vantaggio le cose. Infatti, concepire la
società come semplice aggregazione di beni materiali può essere definita coabitazione, ma non
società. Il vero bene umano non può essere che l’appagamento, che si ha fra coloro che mettono
insieme un bene di cui tutti godono senza che esso diminuisca col contemporaneo godimento di
tutti. Gli uomini desiderano aver grande copia di beni sensibili e perseguire tanti piaceri. Sperano
inoltre di trovare in essi il loro appagamento. Se non lo trovano dipende solamente da un loro
errore, perché l’hanno cercato dove non poteva essere oppure scegliendo mezzi inidonei a 111 A. ROSMINI, Filosofia della politica, cit., p. 263, 296.112 A. ROSMINI, La società e il suo fine, in Id., Filosofia della politica, cit., l. III, cap. III, p. 137.
procurarselo. Ancora perché ignorano quali siano le condizioni del vero appagamento. Ad esso non
portano né i soli beni materiali come pensavano gli epicurei, né la sola volontà come pensavano gli
stoici: esso risulta dalla unione di beni reali, che sussistono indipendentemente dalla volontà umana,
e dal giudizio, che promana dalla volontà con cui l’uomo si ritiene soddisfatto. Senza la conoscenza
della topografia del cuore umano la ricerca di esso sarebbe vana. L’appagamento deve essere
considerato il fine ultimo o remoto delle società, mentre i mezzi il fine prossimo, cioè la concreta
disponibilità dei beni reali. Il fine remoto dell’appagamento appartiene agli individui e rientra
nell’ambito della società invisibile, mentre il fine prossimo costituito da beni materiali e piaceri
sensibili si riferisce alla società esterna che ce li fornisce. Il governo non può disinteressarsi del
tutto dell’appagamento dei cittadini, perché ciò non è un’opera aliena alla società. Il suo ruolo è
quello non solo di non porre alcuno ostacolo agli individui nel conseguimento del loro vero bene
umano come l’appagamento, ma anche quello di avere il dovere di operare positivamente coi soli
mezzi propri per far sì che gli individui siano avviati e mossi all’acquisto di tale bene. Il governo in
ciò ha precisi limiti. Infatti gli individui, nel costituire la società, si sono riservati il diritto di
conseguire in piena autonomia il proprio appagamento, scegliendo mezzi e attività che ritengono
più adatti a tale fine. L’amministrazione pubblica deve per Rosmini riflettere sul fatto che la felicità
individuale non è opera sua. La felicità dipende dal sentirsi appagati coi soli mezzi a disposizione.
Esso dipende quindi da un giudizio dell’intelligenza, che stabilisce quali siano i beni reali che sono
necessari al raggiungimento della propria perfezione morale, che è la vera condizione della felicità
personale.
Seguendo la suggestiva interpretazione di P. Piovani nella sua opera su La Teodicea sociale
di Rosmini (Padova 1957), si può osservare dunque che qui ha origine la polemica di Rosmini nei
confronti del mito perfettistico tipico di alcune dottrine politiche moderne. Le limitazioni della
persona umana sono in primo luogo dovute alla sua contingenza creaturale, per cui anche l’uomo è
ontologicamente limitato dalla legge universale cui è sottoposta tutta la creazione: “La limitazione
(…) entra nella natura di tutte le cose fuori di Dio”113. Ogni cosa che non è da sé, come dice già la
tradizione della Scolastica, implica una originaria limitazione, essendo le creature altro dal
Creatore; sarebbe quindi una contradictio in terminis pensare le cose create senza questa
limitazione, perché è un assurdo pensarle creature senza essere create. Dal punto della conoscenza
questo risulta evidente dal fatto che, pur essendo egli capace di conoscere la verità e di raggiungere
certezze, deve riconoscere i limiti e le condizioni in cui ciò può avvenire, per cui questo dimostra
sia la sia verace grandezza della nostra mente sia la nostra verace piccolezza. Da qui la posizione di
un sempre instabile equilibrio che evita sia il dogmatismo della ragione sia lo ‘spaventevole
113 A. ROSMINI, Teodicea, a cura di U. Muratore, Città Nuova, Roma 1977, n. 189.
scetticismo’. I mali fisici e morali hanno la loro base nella limitata esistenza dell’uomo che possiede
solo una libertà condizionata. Ma all’uomo compete pure per la sua infinita dignità la “signoria
delle proprie azioni”114. che è un’arma a doppio taglio purtroppo, dato che la libertà della creatura
umana è “soggetta a difetto”115 e di fronte alla scelta fra il bene e il male essa è imprevedibile. Può
sia realizzare se stessa portando a compimento l’opera del suo perfezionamento morale oppure fare
il contrario cioè mancare nell’opera di perfezionarsi. Nell’uomo le potenze sono legate e
subordinate le une alle altre come anelli di una catena. L’ultimo anello è la libertà con la quale egli
domina sulle altre potenze di cui egli è composto e su cui fa sentire il suo dominio. In linea di
principio tale subordinazione è armonica, ma tale gerarchia spesso non viene rispettata, perché la
libertà non sempre è dominatrice assoluta sulle altre potenze che operano comunicando di mano in
mano nella vita quotidiana. Infatti le varie facoltà soggettive inferiori possono agire in modo
indipendente sottraendosi all’egemonia della libertà, che così si trova ad essere confinata ad agire
entro determinati limiti. E’ qui che per Rosmini si pare il varco alla possibilità di compiere il male.
Ora la tradizione biblica, insieme ad altre del genere umano, ha sempre sottolineato questo
limite pesante posto alla libertà dell’uomo, chiamandolo ‘peccato originale’, dato che non se ne può
dare ne una spiegazione razionale né indicarne una origine empirica, se non attraverso la
mediazione del mito del Genesi. La condizione storica dell’umanità è così da sempre condizionata
dallo status naturae lapsae della caduta iniziale, che spiega molte delle limitazioni che
circoscrivono l’umana libertà. Dalla natura pare che l’uomo abbia tratto allora un disordine morale
illustrato da miti e simboli delle vetuste tradizioni, per cui giace nel profondo della natura umana un
‘guasto morale’, che la esperienza giornaliera ci attesta come un istinto infedele che trascina il cuore
umano verso l’abisso del male. Seguendo la tesi tommasiana per cui il peccato si trasmette secondo
la modalità della traduzione, che consegue quella naturale, le leggi della generazione prevedono che
la volontà deteriorata dei progenitori a causa del peccato sia ereditata dai generati. Tale disordine
morale originale ha intaccato la umana volontà rendendola così mal disposta verso la legge morale e
verso Dio116. I risvolti politici e sociali di questo guasto originale si possono vedere proprio nel
pedaggio pagato alla libertà delle persone e dei popoli. Piovani dice : “il peccato originale, relitto di
culture lontane dalla moderna, non solo non si è inabissato nel mare magnum della storia, ma
ancora, in un modo o nell’altro, ne domina l’orizzonte”117. Solo che occorre ricordare sempre con
Piovani che “anche sulla strada della libertà politica dei popoli, quel pedaggio va pagato senza
pretendere che l’errore dei governanti e di governati possa essere definitivamente vinto da una
114 A. ROSMINI, Teodicea, cit., n. 193.115 Ibidem.116 Cfr. A. Rosmini, Antropologia in servizio della scienza morale, a cura di C. Riva, Roma-Milano 1954, nn. 689, 750-757; Id., Teodicea, cit, n. 2012. 117 P. PIOVANI, La Teodicea sociale di Rosmini, cit., p. 382.
perfetta costituzione della società civile”118. Invece in ciò sta proprio l’errore dei sistemi perfettistici
che presumono di programmare tutta la vita della comunità socio-politica in ogni particolare
escludendo anche che nel futuro programmato qualcuno possa compiere dei passi falsi,
allontanandosi dalle scelte progettate per raggiungere infallibilmente gli scopi prefissati. La società
perfetta è quella che risulta caratterizzata, infatti da un assoluto ottimismo verso la propria
impostazione, che non può mettere nel suo conto l’imprevisto, l’errore o semplicemente la critica.
Per questo, come osserva Piovani, il suo governo deve essere necessariamente autoritario, dato che
non può tollerare nessuna impurità storica119. Ciò esige l’elaborazione di quel particolare impianto
pedagogico legato alla nuova precisa visione antropologica, che impone di educare l’uomo nuovo
ad adeguarsi alle regole e agli ideali della struttura socio-politica inventata solo attraverso le
articolazioni esclusive dello Stato, affinché gli uomini siano indotti a non deviare da questa
necessaria uniforme omogeneità di una grigia cultura della pianificazione. Rosmini lo spiega
osservando nel Saggio sul comunismo e socialismo che “i riformatori sociali” giungono ad “una
inaudita intolleranza” contro tutti coloro che non si uniformano alle “loro massime”, che ritengono
il toccasana per eliminare tutti i mali della società. Ma la società che non tollera la libertà dei suoi
soci non è una vera società, la quale per essere tale “suppone la libertà”, anzi esiste per promuoverla
ed accrescerla120. Per lui quindi l’utopia perfettistica nasconde la grave insidia del più puro
dispotismo totalitario, che da lì a poco si espliciterà nelle ideologie comuniste, fasciste e naziste.
Tale dispotismo si maschera abilmente con la presentazione delle riposte politico-statali come
l’uniche capaci di dispensare felicità e benessere per tutti i cittadini della polis perfetta. Questi
vagheggiati sistemi politici poi si trasformano in una sorta di religione secolare che pretende di
costruire il paradiso in terra. Rosmini criticando in particolare i saintsimoniani indicati come nuovi
apostoli di questa religione, mette in guardia dalle subdole illusioni che essi spacciano alla gente.
Infatti le loro ideologie portano a divinizzare l’uomo non considerando affatto i suoi limiti. Essi in
particolare “tanto hanno desiderio di adulare la umana natura, che non esitano a fingerla costituita
con sì possente legge di perfettibilità, cui nessuna altra forza può sospendere, nessun accidente
trattenere da quel corso e da quel termine di fatale felicità e indefinibile perfezione, a cui ne la
portano i suoi stupendi ciechi destini”121. Eccoci così giunti a comprendere meglio la definizione
che Rosmini offre del perfettismo come quel “sistema che crede possibile il perfetto nelle cose
umane”122.
118 Ivi, p. 347.119 Cfr. Ivi, p. 372.120 Cfr. A. ROSMINI, Saggio sul comunismo e socialismo, a cura di C. Riva, Pescara 1964, p. 41.121 A. ROSMINI, Frammenti di una storia della empietà, a cura di A. Cattabiani, Borla, Torino 1968, p. 145.122A. ROSMINI, Filosofia della politica, cit., p. 104.
Tornano di attualità le prospettive della migliore tradizione del risorgimentalismo italiano.
Rosmini, quando è entrato in vigore lo Statuto albertino nel 1848, ha avuto il coraggio di
denunziarne le ambiguità relativamente ai rapporti tra Stato e Chiesa nell’opera Le principali
questioni politico-religiose della giornata apparsa sulla rivista “Armonia” nel 1853. La funzione
della Chiesa è di tramandare la verità che salva la morale e la vita associata. Per questo la religione
cattolica non può essere religione di Stato, perché esige libertà di pensiero e di espressione. La
libertà di coscienza è inviolabile per gli appartenenti di ogni culto, per cui non si può non concedere
a tutti la possibilità di esercitare le leggi della propria religione. La religione cattolica non ha
bisogno di protezioni politiche ma di libertà nelle sue decisioni morali e disciplinari. Questa visione
si è affermata nel Concordato rinnovato nel 1984. Occorre ricordare che Rosmini evita di
considerare valide due prospettive per i rapporti fra Stato e Chiesa. Respinge il sistema
dell’immistione, che ammette che ci siano materie comuni a Stato e Chiesa e che l’uno entra nella
sfera dell’altro (è il caso della scuola e della nomina dei vescovi). Respinge anche il sistema
dell’alleanza, perché eventuali vantaggi politici per la Chiesa vengono pagati al caro prezzo della
libertà: la Chiesa che è di origine divina, è la rappresentazione visibile della società di ogni uomo
con Dio e ha i suoi diritti connaturali di esistenza, riconoscimento, libertà, propagazione e proprietà.
Questo è stato il modello seguito dalla formula “libera Chiesa in libero Stato”, che ha ispirato il
principio della religione di Stato dello Statuto albertino, in cui si prevedeva che era lo Stato e solo
esso a riconoscere la religione cattolica. Il vero sistema da accogliere è quello dell’organismo, che
elimina per Rosmini la separazione e mantiene la distinzione e i rapporti di buon vicinato fra
religione e politica, fra Stato e Chiesa. La natura del potere della Chiesa istituita da Gesù Cristo in
mezzo agli uomini e la natura dello Stato istituita dagli stessi uomini che si aggregano nella società
civile, hanno in comune il potere di unire gli uomini in due società contemporanee e su uno stesso
territorio. La Chiesa unisce gli uomini in una grande famiglia, affinché in armonia cooperino alla
propria perfezione morale, mentre lo Stato li unisce senza ergersi a detentore della moralità per un
fine come la coesistenza sicura, pacifica e prospera nell’ambito temporale senza impedire il fine
della Chiesa. Le molteplici finalità degli Stati non coincidono con l’esclusivo fine universale della
Chiesa, che nel suo seno tutti li abbraccia costituendendo l’ideale dover essere per i singoli Stati
stessi. Queste istituzioni, garantendo il bene comune, promuovono la pace religiosa verso la
diffusione della verità custodita dalla Chiesa, che esplica senza limitazioni e vincoli la sua missione.
Far causa comune coi governi da parte della Chiesa fa sì invece che poi venga combattuta anch’essa
come un partito politico o come strumento di potere.
I beni umani possono essere o reali o ideologici. Il problema politico fondamentale è allora
ricavare la somma totale dei beni della società, al fine di poter valutare l’entità della ricchezza
sociale e di poter garantire un equa partecipazione degli associati ai benefici che da quella derivano.
I meri dati quantitativi non bastano per esprimere una valutazione, dato che non tengono conto del
modo in cui si distribuisce la quantità dei beni e dei mali. Qui egli critica l’utilitarismo di Bentham
ripreso in Italia da Gioia. La massimizzazione degli utili non tiene conto che le ricchezze potrebbero
concentrarsi in determinate categorie sociali, anche se venissero distribuiti fra il maggior numero di
cittadini: potrebbe accadere sempre che le maggioranze potrebbero opprimere o sacrificare le
minoranze. Anche le concezioni collettivistiche e socialistiche, come dice nel Saggio sul
comunismo e socialismo, finiscono per mortificare e misconoscere il principio della libertà di scelta.
Il compito del governo è solo quello di operare affinché la società consegua la maggior quantità
possibile di bene netto, alla cui fruizione debbono poter partecipare il maggior numero possibile di
persone.
Per concludere possiamo citare una pagina quasi sconosciuta di Augusto Del Noce, che così
ha scritto nel settembre del 1982 in una sua conferenza sull’attualità della Dottrina sociale cristiana:
“Giovedì della scorsa settimana parlavo a Stresa, in un convegno del “Centro Internazionale di
Studi Rosminiani” sulla “riscoperta del Rosmini politico. Se anche questo non fosse l’argomento
centrale del mio discorso, non potevo mettere da parte la sua critica del perfettismo, definito da me
quel sistema che crede possibile la perfezione nelle cose umane, e che sacrifica i beni presenti alla
immaginata futura perfezione, dimenticando che non si ha nelle cose umane miglioramento di
qualsiasi genere che non avvolga con sé qualche nuovo male, per una legge profonda, ontologica,
ineliminabile. Il che non vuole affatto autorizzare un pessimismo quietistico, ma l’opposto, fondare
l’idea di perfettibilità, nel senso che la lotta contro il male e la realizzazione di un sempre relativo
perfezionamento – osserva Del Noce – è compito dell’individuo ed è quindi lotta che può, sì,
minimizzare il male, vincibile in questo preciso momento, ma non estinguerlo nella sua radice. Quel
che più importa è che l’origine dell’errore perfettistico deve essere ricercata nella prevalenza
accordata alla facoltà di ordinare che presenta allo spirito le qualità separate delle cose rispetto alla
facoltà di pensare che concepisce le cose nel loro essere intero. L’uso legittimo della facoltà di
ordinare è, per Rosmini, di rimuovere dal perfezionamento sostanziale dell’umana società i difetti
accidentali, e in questo senso la sua funzione di grande utilità per il progresso sociale. Se però la si
assolutizza nascono forme di perfettismo, ognuna fondata sull’isolamento di una qualità: sul
particolare uso politico della libertà e della giustizia. Ora, per Rosmini, i secoli dell’età moderna, a
differenza del Medioevo sono stati appunto caratterizzati dalla prevalenza della facoltà di ordinare e
dal conseguente perfettismo. Seguendo il suo pensiero, potremmo dire – conclude Del Noce – che
le forme essenziali del perfettismo sono il liberalismo (astrazione del momento della libertà) nella
conseguenza che gli è essenziale, il liberismo economico nelle varie forme in cui si presenta e che
caratterizzano oggi l’occidentalismo e il comunismo (astrazione del momento della giustizia)»123.
18. J.S.Mill: democrazia e differenze
di Paolo Armellini
Proprio mentre uscivano i volumi “Democrazia in America”, J.S. Mill (Londra 1806 – Avignone
1873) ne scriveva due recensioni sulla “London and Westuinster Review” del 1835 e del 1840
(Cfr.J.S.Mill, sulla “Democrazia in America” di Tocqueville, a cura di D.Cofrancesco, Guida,
Napoli 1971), mostrando notevole interesse per la tesi fondamentale in essa contenuta: la
democrazia ha avuto grandi pregi ma presenta pericoli specifici che la minacciano, come la
tirannide delle maggioranze sulle minoranze, l’egualitarismo livellatore, il conformismo di massa.
Ma una disamina del suo pensiero non può tener conto della sua critica all’utilitarismo2
individualistico di J. Bentham e al socialismo statalistico1 . per quanto riguarda il secondo egli nell’
“Utilitarismo” (1861 – 63) dice di accettare il principio secondo cui la vita individuale è orientata
alla realizzazione della massima felicità possibile, ma non è convinto come il padre J. Mill e J.
Bentham che l’autorealizzazione consista nel conseguimento del proprio interesse individuale,
poiché per lui la felicità è da intendersi come soddisfacimento della libera tendenza alla formazione
del proprio io intesa come maturazione spirituale e culturale. Qui la massimizzazione del piacere è
posposta alla qualità dello sviluppo personale, che, quanto più risulta differenziato per le scelte e gli
stili di vita, tanto più promuove la felicità dei singoli che è condizione per quella di tutti. Il carattere
sarà tanto più nobilitato e fortificato quanto più l’autodeterminazione è legata alla benevolenza e il
rispetto per il prossimo, che permettono di godere in modo duraturo le opportunità della vita e
provare meno dolore per le inevitabili avversità.
Una delle questioni che il commercio internazionale ha lasciato aperta è quella della distribuzione
dei profitti, essendo lo squilibrio nel godimento delle risorse un impedimento alla massimizzazione
della felicità. I “Principi di economia politica” (Londra 1848, trad. it. a cura di A.Campolongo,
123 A. Del Noce, Il pensiero cattolico di fronte ai nodi della crisi culturale moderna, in AA.VV., L’impegno sociale dei cattolici nell’ora presente, Atti del convegno Diocesano del 4-5 settembre 1982, Lodi 1982, p. 25.
Utet, Torino 1962) si chiedono appunto come sia possibile distribuire equamente le ricchezze e se lo
stesso diritto di proprietà possa variare nelle sue forme. Fermo restando che le leggi di produzione
sono naturali e immodificabili, la distribuzione della ricchezza può essere modificata dalla volontà
politico – legislativa. In questo quadro Mill pone una critica ale dottrine socialiste, poiché in esse lo
Stato è lo strumento con cui la società opprime gli individui: solo la difesa dei diritti individuali
autorizza l’intervento dell’autorità statuale nella condotta degli individui in particolare. Se nel
sistema della proprietà privata il prodotto del lavoro è distribuito in maniera inversa alla quantità di
lavoro, occorre correggere un’ingiustizia sociale. Non potendo nessun sistema sociale promettere ed
attuare una giustizia e una libertà assoluta, interviene l’esperienza a suggerire che una
sperimentazione è consentita nell’ambito del vigente sistema di proprietà o mediante libere forme di
proprietà cooperativistiche o attraverso riforme come l’istruzione universale, il controllo
demografico e politiche salariali perequative. Solo con l’equa partecipazione ai benefici del lavoro
collettivo e alle risorse naturali si può così massimizzare la libertà di ogni individuo,
indipendentemente dalla condizione, razza e sesso.
È stato osservato che il <<liberalismo milliano ha [………] un’evidente inflessione aristocratica>>
(F.Valentini, “Il pensiero politico contemporaneo”, Roma – Bari, Laterza 19852 , p. 259), dovuta
all’influenza di Carlyle, di cui è stato attento lettore. Ma la sua critica all’appiattimento dei valori
nella società di massa e al conformismo, non è condotta dal p.d.v. di un isolato uomo di genio
creatore della storia, ma da un uomo politico che introduce nuovi valori fra quelli conservati, per
indicare agli altri la via da seguire. Il suo individualismo manifesta il sentimento del problema della
tutela dell’individuo entro il complesso organismo autoritario dello Stato, inserendosi Mill con il
suo saggio sulla libertà (Cfr. J.S.Mill, “Saggio sulla libertà” 1959, a cura di G.Gioriello, “Il
Saggiatore”, Milano 1971) nel solco del liberalismo ottocentesco, da Costant a Tocqueville.
Classiche risultano infatti alcune tesi milliane sulle ragioni che possono giustificare l’intervento
della collettività nei confronti dell’individuo: <<L’umanità è giustificata, individualmente e
collettivamente, a interferire sulla libertà d’azione di chiunque soltanto al fine di proteggersi: il solo
scopo per cui si può legittimamente esercitare un potere su qualunque membro di una comunità
civilizzata, contro la sua volontà, è per evitare danno agli altri. Il bene dell’individuo, sia esso fisico
o morale, non è giustificazione sufficiente. Non lo si può costringere a fare o non fare qualcosa
perché è meglio per lui, perché lo renderà più felice, o perché, nell’opinione altrui, è opportuno o
perfino giusto: questi sono buoni motivi per discutere, protestare, persuaderlo o supplicarlo, ma non
per costringerlo o per punirlo in alcun modo nel caso si comporti diversamente […..] . Il solo
aspetto della propria condotta di cui ciascuno deve render conto alla società è quello riguardante gli
altri: per l’aspetto che riguarda solo lui, la sua indipendenza è, di diritto, assoluta. Su se stesso, sulla
sua mente e sul suo corpo, l’individuo è sovrano>> (Ibidem, I). Nel “Saggio sulla libertà” però si
aggiunge una riflessione che manifesta la problematica nuova del liberalismo nel suo specificarsi
rispetto al garantismo costituzionalistico, ed è quella relativa agli ostacoli che la mentalità corrente
oppone all’affermazione delle libertà civili politiche e sociali. Se il liberalismo classico leggeva il
conflitto fra libertà ed autorità come contrasto tra società e Stato, determinando i limiti del potere
che lo Stato può esercitare sulla società, i regimi costituzionali, che riconoscono i diritti civili e
politici e considerano la responsabilità dei governanti davanti al corpo sociale, si trovano di fronte
alla nuova minaccia proveniente dal profondo della stessa società. Anche qui l’ottimismo
utilitaristico è reso problematico dalla chiara visione che c’è nel mondo moderno, una sempre
maggiore <<inclinazione a estendere indebitamente i poteri della società sull’individuo sia con
forza dell’opinione che con quella della legislazione; e poiché la tendenza di tutti i mutamenti in
corso nel mondo è di rafforzare la società e diminuire il potere dell’individuo, questo abuso non è
un male che tende a scomparire spontaneamente, ma, al contrario diventa sempre più formidabile>>
(J.S.Mill, “Saggio sulla libertà”, cit., I).
Il problema non è solo quello di evitare il dispotismo come forma di governo perché la libertà può
essere messa in pericolo anche dalla democrazia. Mill continua a definire le sfere di competenza,
per cui secondo il principio del danno, la libertà può essere limitata solo nella sfera degli atti
dannosi che riguardano altre persone, ma non per quanto riguarda se stesso. Il vincolo in quanto tale
è un male e in via di principio sarebbe preferibile l’assenza di leggi alla garanzia sulla loro base. Ma
nei “Principi di economia politica” abbiamo visto Mill elencare almeno cinque casi in cui lo Stato
potrebbe intervenire legittimamente. Nel “Saggio sulla libertà” egli si sofferma sul controllo delle
persone che hanno un potere esercitato su altre. La moderna democrazia di massa ha ormai aperto le
istituzioni alla sovrana volontà popolare, ma ciò non comporta necessariamente il pieno
raggiungimento della libertà. Infatti la società è un’entità collettiva che esercita un potere sui singoli
individui che la compongono non in un modo immediatamente tangibile, ma con una capillarità
diffusa così impalpabilmente e sottilmente che la tirannia della maggioranza risulta forte e
disarmante. Proprio il regime plebiscitario di Napoleone III ha mostrato di non aver bisogno di
apparati repressivi visibili e di essere compatibile col consenso del popolo. L’esercizio formale
delle libertà politiche rischia continuamente di diventare un vuoto involucro all’interno del quale
viene ratificato sostanzialmente un potere invisibile che colpisce le libertà civili in senso lato.
Infatti, in una società di massa in cui ogni interferenza del potere politico, dell’opinione collettiva o
di altri individui nella sfera privata di una cittadino è illegittima, per il fatto che ciascuno deve
essere lasciato vivere come meglio crede, <<La natura umana non è una macchina …..>> dice
Mill in una pagina di sapore humbeldtiano <<ma un albero che ha bisogno di crescere e svilupparsi
in ogni direzione …... Non è stemperando nell’uniformità tutte le caratteristiche individuali, ma
coltivandole e facendo appello ad esse entro i limiti imposti dai diritti e dagli interessi altrui, che gli
uomini diventano nobili e magnifici esempi di vita>> (J.S.Mill, “Saggio sulla libertà”, cit., p.92).
l’autorità statale non potrà mai costringere l’individuo a fare o non fare qualcosa sulla base del fatto
che ciò sarebbe più opportuno o più giusto o per la sua felicità o per il suo benessere.
Ma accanto al dispotismo dello Stato esiste una nuova forma di oppressione, quella della
maggioranza, detta anche conformismo di massa:<<Una volta strati sociali, comunità locali,
mestieri e professioni diversi vivevano in quelli che potevano essere definiti mondi diversi, oggi il
mondo è in buona misura lo stesso per tutti>> (Ib.,p.104). Relativamente a ciò che vedono,
ascoltano, leggono gli uomini di oggi che hanno le stesse libertà e gli stessi diritti. I mutamenti
sociali hanno abbassato chi stava in alto e innalzato chi stava in basso, producendo quell’uniformità
equalitaria e conformistica, che è stata favorita dall’istruzione estesa a tutti, dal miglioramento delle
comunicazioni e dall’espansione del commercio e dell’industria manifatturiera, cose le quali hanno
diffuso un benessere verso cui tutti corrono. È sorta così una opinione pubblica con gli stessi gusti,
desideri, sentimenti. Lo stile si appiattisce su aspirazioni ed esigenze sempre meno differenziate,
verso cui gli uomini politici devono adeguarsi per non perdere il consenso sociale ed il sostegno
elettorale. Chi lede l’altrui diritto deve essere punito, ma non chi ha un comportamento antisociale
che comunque non danneggia nessuno. La libertà personale esige incondizionato rispetto e una sua
sia pur parziale violazione, seppure dannosa per pochi o per uno, lede l’intero corpo sociale. Le
libertà delle minoranze sono da salvaguardare rispetto alla pressione delle maggioranze, poiché
grazie alla difesa dei loro diritti è possibile la circolazione di un gran numero di opinioni che
arricchiscono la società e la sua libertà che si nutre della divergenza delle opinioni. Per questo
occorre difendere la libertà di coscienza, la quale implica libertà di pensiero, sentimento di ricerca e
comunicazione attraverso la stampa; la libertà di gusti e inclinazioni, facendo si che vengano
tollerati l’estrinsecazione di modi di vita originali ed eccentrici e l’espressione personale del proprio
piacere; la libertà di associazione partitica, sindacale, ecc… .
Chi detiene la maggioranza tende sempre a manipolare il consenso per far si che non si producano
alternative al suo potere. Ciò viola la libertà dei singoli e delle minoranze, che col loro dissenso e lo
spirito problematico sono l’antidoto per il dogmatismo e l’unanimità delle maggioranze. Convinto
che una tesi risulta più evidente col confronto delle tesi contrarie, Mill osserva che nelle materie
morali e civili il momento del contraddittorio valorizza gli interessi trascurati o messi in ombra
portati utilmente alla luce dalle minoranze eterodosse e anticonformiste. Esse permettono di
contestare la parzialità delle posizioni unilaterali, che sono da sostituire con le multilaterali opinioni
in contrasto, da mediare continuamente sia nella vita quotidiana che in quella civile e politica. Nel
mondo moderno ha un ruolo decisivo l’opinione pubblica, che ha preso il posto del principio
carismatico della Chiesa, quello dell’autorità ormai ridotta a concezione dominante.
Nasce così il dogmatismo conformistico profondamente dannoso perché genera quello spirito
gregario ottenuto non attraverso la minaccia fisica ma con una non meno intollerante pressione
psicologica illiberalmente prodotta dalla manipolazione del consenso da parte delle maggioranze.
Di fronte al grigiore di stili di vita e di convinzioni sempre più uniformi diventano sempre più rare
le grandi ed originali personalità, che potrebbero costituire il contrappeso alle mediocrità e al
moderatismo delle masse con il loro gusto di scoprire nuove verità. Le minoranze formate da queste
personalità vanno difese, perché la disponibilità di un ampio potere di critica e di verifica attraverso
controlli incrociati e trasparenti sull’operato dei governanti, produce un pluralismo di opinioni e di
stili, che permette a sua volta l’individuazione di strategie più efficaci per il benessere di tutti.
Se il processo di civilizzazione aveva inibito individualità troppo marcate e frenato gli impulsi
esuberanti che minacciavano la sicurezza e la stabilità della vita sociale, ora che a tutti una relativa
sicurezza è garantita, il rischio è rappresentato dalla dispersione gregaria nella folla. Ecco allora la
necessità del contributo di personalità fornite di impulsi marcati, di desideri vivaci, di sentire
appassionati di volontà incontrollabili. Non l’eccesso ma la carenza di personalità è il vero pericolo,
inteso come appiattimento generale nella mediocrità. L’Europa si è sviluppata grazie alla varietà
delle culture che sono però viste minacciate insieme alle libertà dal destino, di progresso
dell’Occidente. La libertà favorisce questo progresso facendo dell’individuo il centro propulsore del
progresso storico, ma se esso viene imposto in modo autoritario può contrastare la libertà e vi
subentra il dispotismo della consuetudine. Questo è legato al fenomeno sociale per cui un popolo
rimane senza individualità originali e forti, i singoli risolvono interamente la loro identità nella
comunità, intesa come etnia, stato, religione, tradizioni culturali, di cui si sentono solo una parte.
L’antidoto a tutto ciò è visto nella libertà che la sensibilità di una civiltà democratica dovrebbe
lasciare agli intellettuali e alle grandi personalità che risultino capaci di indicare la via per
abbandonare il prudente conformismo delle masse. La loro opera di educazione e di persuasione, in
quanto coscienza critica di una società complessa e differenziata, dovrebbe essere finalizzata al
potenziamento degli sforzi disinteressati in favore del bene altrui intesi come parte costitutiva del
bene di ciascuno.
I casi concreti di questa teoria sono visti da J.Stuart Mill in due forme di dispotismo, quello della
dominazione sessuale e quello della dominazione coloniale. L’inammissibilità di principio è dovuta
alla presunta superiorità del proprio sesso, delle proprie convinzioni e istituzioni, della propria
cultura. Arcaico per esempio è il rapporto di soggezione della donna e dei figli nei confronti del
potere maschile nella famiglia e nella società, dovuto ad un anacronistico paternalismo.
Per ciò che riguarda il colonialismo poi, nessun progresso, civilizzazione, tutela paternalistica o
altro fine superiore autorizzano una comunità o uno Stato a violare il diritto di autodeterminazione
di un popolo, comunità o Stato. Inammissibili sono anche molti abusi di autorità, come il
proibizionismo rispetto al consumo di alcolici. L’autoritarismo statale risulta poi un inedito pericolo
con la crescita smisurata di ranghi e ruoli burocratici alla diretta dipendenza del governo.
L’intervento indiscriminato dello Stato nella vita economica e sociale, la centralizzazione
amministrativa, e la gestione pubblica dei servizi e dell’assistenza consentirebbe all’apparato
burocratico, tendenzialmente conservatore e filogovernatore, di far valere nei confronti dell’autorità
politica e del resto della società un potere di negoziazione al fine di proteggere i suoi intermedi
corporativi. Con questi il governo disporrebbe poi di un canale privilegiato per drenare e controllare
il consenso nella società, rendendo problematico l'alternarsi al potere di opposti schieramenti
politici. Di qui il suo impegno per esempio per l’indipendenza irlandese e l’emancipazione
femminile.
Significative sono anche le “Considerazioni sul governo rappresentativo”, in cui viene innanzitutto
criticata qualsiasi concezione statica e metafisica del potere politico, le cui forme pubbliche
debbono sempre mutare in relazione ai mutamenti delle esigenze della comunità umana.
Nell’età presente il governo parlamentare e rappresentativo risulta essere il più adeguato perché
l’individuo può non soltanto esercitare un certo controllo sull’attività dello Stato, ma può anche
essere chiamato <<ad assumere una parte effettiva di governo, tramite il personale assolvimento di
qualche funzione pubblica, locale o generale>>. È necessario altresì che le strutture parlamentari
vengono perfezionate e controllate attraverso l’allargamento del suffragio, l’estensione del voto alle
donne, la tutela delle minoranze. Vigorosa è appunto la difesa di queste ultime tanto da sottolineare
la necessità che <<gli interessi, le opinioni, le aspirazioni delle minoranze siano comunque
ascoltate>>. Occorre insomma che sia impedito ad una classe, sia pure la più consistente
numericamente, di essere posta <<in condizione di costringere le altre a vivere ai margini della vita
politica, e di controllare il cammino della legislazione e dell’amministrazione secondo il suo
esclusivo interesse>>.
19. Il pensiero politico della rivoluzione: Mazzini, Proudhon e Marxdi Paolo Armellini
G. MAZZINI (1805 – 1872): nazione, popolo e democrazia
L’idea di nazione ebbe nell’Ottocento come massimo interprete Giuseppe Mazzini, per
l’entusiasmo e la passione con cui la professò.
Secondo l’autore l’idea di nazione non può essere scissa dalla democrazia repubblicana e dalla
concezione di Dio e popolo, nel senso che la volontà divina , fondamento legittimante della legge,
si manifesta per il tramite del popolo.
Mazzini propone una religiosità laica, non mediata dalle istituzioni ecclesiastiche; il popolo,
pertanto, è il vero interprete della volontà divine.
L’autore critica il liberalismo, il socialismo ed il comunismo: il primo fonda la società sull’individuo
e finisce col dissolvere ogni vincolo sociale nel suo arbitrio, i secondi promuovono
un’organizzazione sociale che nega l’individuo e le sue libertà. Il mazzinianesimo intende, invece,
sottolineare la socialità dell’individuo, cioè il suo necessario compimento nell’ambito delle
specifiche articolazioni della società umana: la famiglia, il comune, il popolo – nazione, l’umanità.
Dio e umanità sono i valori etico – spirituali che caratterizzano la nuova età sociale che subentra a
quella individuale, ormai spenta con la Rivoluzione francese.
La nuova società si deve basare sulla collaborazione dei singoli, che si realizza solo se ispirata al
nuovo principio dell’umanità; in questa ha un valore etico – religioso, in quanto rivela la volontà di
Dio e rende possibile il progresso.
La politica, secondo l’autore, è perfettamente autonoma nei confronti della religione, le Chiese,
inoltre, adempiuta la loro missione di proclamare l’eguaglianza, hanno esaurita la loro funzione.
Egli però non intende che la politica debba lasciarsi vincere dalla tentazione giacobina di sostituirsi
alla Chiesa, essa deve invece rispettarla per quella parte di verità che ha saputo trasmettere nei
secoli.
La nazione124 deve avere un fondamento etico – spirituale (non materiale) che conferisce ai
principi, e al diritto una stabilità e una continuità.
L’interpretazione della legge non può essere affidata né alla Chiesa né alla monarchia, bensì al
popolo, alla nazione.
Mazzini sostiene che la vera rivoluzione deve essere popolare e nazionale, suscitata dalle esigenze
di umanità del popolo (al contrario di Marx che la vedeva come lotta di classe).
La democrazia repubblicana è l’unica forma di governo che consente di attuare i principi
costituzionali della nazione; in questa, infatti, gli individui, in quanto cittadini, sono liberi ed eguali,
possono pertanto partecipare liberamente al governo della società. Questo si fonda sulla
rappresentanza nazionale, eletta a suffragio universale da tutti i cittadini: Mazzini accoglie
l’ordinamento costituzionale fondato sulle fondamentali libertà politiche, sulla tripartizione dei
poteri e sul principio elettivo delle cariche più importanti dello Stato.
124 La nazione, secondo Mazzini, è l’unità di una moltitudine di individui come unità di principi, di intenti, di diritti.
La repubblica, per Mazzini, è uno Stato unitario che riflette l’unità nazionale del popolo: gli
ordinamenti federali e confederali finiscono per disarticolare la nazione, per far prevalere le parti
sul tutto, introducendo divisioni e contrapposizioni di interessi. Mazzini rifiuta tuttavia il
centralismo amministrativo come uno dei più efficaci strumenti del dispotismo ministeriale.
Lo Stato italiano deve essere organizzato, dal punto di vista politico – amministrativo, su dodici
regioni, ciascuna comprendete circa cento comuni, con almeno ventimila abitanti. Tale ampio
decentramento, articolato su larghe autonomie locali, consente il libero svolgimento di tutte le
forze sociali.
Lo Stato determina, come compito primario:
L’educazione nazionale;
Il sistema giudiziario e tributario;
La politica estera;
L’organizzazione militare;
La formazione di un capitale nazionale per le iniziative sociali e pubbliche.
La questione sociale, ossia il rapporto tra datore di lavoro e lavoratore, tra capitale e lavoro, deve
essere risolta nell’ambito della democrazia repubblicana mediante l’associazione, che consente
agli individui di moltiplicare le loro capacità ed energie in modo da conseguire il miglioramento
delle loro condizioni naturali ed il loro progresso intellettuale e morale. Al sistema produttivo
fondato sul capitale, sulle capacità, sul lavoro, cioè sul monopolio dei mezzi di produzione da parte
dei capitalisti, occorre sostituire gradualmente il nuovo sistema in cui il produttore è anche
proprietario dei capitali per una giusta ripartizione delle ricchezze prodotte.
Mazzini critica ogni forma di economia programmata, diretta dallo Stato, unico detentore dei
mezzi di produzione: ciò frena infatti lo spirito d’iniziativa ed ogni incentivo per migliorare le
condizioni della classe lavoratrice.
La proprietà privata, in quanto insita nell’uomo, non si può abolire; l’autore è invece favorevole ad
una proprietà privata “associata”, che consenta alla maggioranza dei lavoratori di divenire
proprietari.
Lo Stato deve infine costituire un fondo nazionale per far fronte alle esigenze delle associazioni,
demanializzando le proprietà ecclesiastiche e altre terre incolte.
P.-J. PROUDHON (1809 – 1865) fra anarchia e federazione
Nel Socialismo dell’Ottocento Proudhon ha una posizione di particolare rilievo per aver
interpretato con originalità le istanze di libertà, di uguaglianza e di giustizia.
Il suo pensiero politico si sofferma sui rapporti tra economia e politica nella prospettiva delle
contraddizioni ed antinomie che caratterizzano il sistema economico capitalistico e le
corrispondenti istituzioni.
È il teorico della società senza Stato, dell’anarchia positiva, intesa come federalismo mutualistico,
fondata sull’autogoverno delle forze produttrici, l’autore fu uno strenuo sostenitore
dell’autonomia della classe operaia, della sua capacità di divenire la classe protagonista e di
rinnovare la società.
L’autore sostiene che non c’è differenza tra la vecchia sovranità dell’Antico regime e quella nuova
della borghesia , infatti si tratta pur sempre di sovranità; l’autorità dell’uomo sull’uomo è giusta
solo in quanto sia l’espressione dell’autorità della legge, che deve essere “giustizia e verità”.
Sulla base di tale premessa, la proprietà privata non può essere giustificata: non è un diritto
naturale in quanto pone differenze tra chi ha e chi non ha, contrario al diritto assoluto
dell’uguaglianza; la proprietà non può avere ad oggetto la terra, in quanto indispensabile alla
sopravvivenza e, pertanto, bene comune. Chi lavora ha infatti la proprietà di ciò che produce, non
dei mezzi di produzione. L’autore considera la proprietà come un furto, in quanto costituita dalla
ricchezza sociale tolta ai produttori ed ingiustamente attribuita ai titolari del diritto di proprietà,
pertanto, rappresentando la negazione della giustizia e dell’eguaglianza, va abolita.
Proudhon critica la società teorizzata dai socialisti e dai comunisti dell’epoca; la società diventa
infatti proprietaria dei mezzi di produzione, attua un ordinamento che, in sostanza, ricostituisce i
rapporti di dominio e di sfruttamento insiti nella proprietà privata, per cui l’individuo diventa un
mero strumento della società, senza libertà né indipendenza. Occorre invece dar vita ad una libera
associazione, il cui scopo è quello di mantenere l’uguaglianza nei mezzi di produzione e
l’equivalenza negli scambi, eliminando il governo dell’uomo sull’uomo e instaurando l’anarchia,
intesa come assenza di signoria e sovranità.
Il lavoro esprime e realizza l’umanità dell’uomo, esso è l’energia mediante cui l’uomo crea il suo
mondo umano nei suoi valori, principi ed istituzioni.
Grazie alla divisione del lavoro, gli uomini perfezionano il loro lavoro; la società si articola però in
classi sociali che istituzionalizzano le divisioni sociali, negano il fondamentale diritto di uguaglianza
degli associati e la loro indipendenza.
L’introduzione delle macchine nel processo lavorativo ha aumentato le capacità produttive del
sistema economico, abbassando nel contempo i costi di produzione; tuttavia ha provocato anche
grande disoccupazione, riduzione dei salari, eccessiva produzione, falsificazioni dei prodotti,
malattie ed incidenti.
La libera concorrenza è necessaria per determinare il valore dei beni: più industrie, infatti,
controllandosi fra di loro, migliorando le tecniche di produzione e riducendo i costi, operano sulla
base di prezzi che riflettono il valore reale. La disciplina della libera concorrenza è rappresentata
dal monopolio, che regola prezzi e produzione: l’esperienza economica dimostra tuttavia che il
monopolio finisce per moltiplicare le precedenti contraddizioni.
Lo Stato ha come fine istituzionale il riequilibrio delle condizioni sociali, la garanzia della sicurezza
e della difesa dei deboli nei confronti dei potenti mediante leggi e provvedimenti che aiutino e
sostengano le classi lavoratrici. Ma nello stesso tempo il potere si trova legato agli interessi della
proprietà e del capitale, finisce quindi per diventare il braccio armato del monopolio. È necessario
che i lavoratori dirigano ed amministrino il sistema produttivo in piena autonomia ed
indipendenza. Tale autogestione delle forze produttive si realizza mediante una serie di
associazioni operaie, ognuna delle quali si forma in vista di una determinata attività che richiede la
formazione di una forza collettiva che consenta di ottenere un risultato economico. Nell’ambito di
ciascuna associazione ogni lavoratore svolge e dirige l’attività che egli stesso ha scelto ed è
proprietario pro quota dei mezzi di produzione: in tal modo capitale e lavoro si identificano.
L’autore sostiene inoltre la necessità di istituire una Banca del popolo nella quale devono confluire
le banche locali e private per la concessione di credito ad interessi molto bassi, messo a
disposizione delle associazioni operaie.
Inoltre i rapporti che intercorrono fra i singoli ed il resto della società, sono regolati da una serie di
contratti.
L’autore tiene, però, a distinguere la serie dei suoi contratti dal contratto sociale di Rousseau:
Per Rousseau il contratto esprime la volontà generale e fonda di conseguenza il corpo politico,
dal quale l’uomo ritrae la sua nuova personalità di cittadino, che si risolve nella comunità che
rappresenta il tutto dell’uomo. Sulla base di questo principio si fonda l’illusione che la democrazia
diretta risolva tutti i problemi della società.
Per Proudhon, invece, il contratto esprime l’accordo di due o più individui i quali, liberamente,
ritenendo che le reciproche prestazioni si equivalgano, regolano nel modo più conveniente i loro
rapporti. Mediante la serie dei contratti, che finiscono per disciplinare tutti i rapporti della vita
sociale, gli individui realizzano in modo diretto e concreto la loro sovranità.
Lo Stato, con la sua organizzazione burocratico – amministrativa e con il suo apparato coercitivo,
deve scomparire e deve essere sostituito dalla corrispondente organizzazione delle forze
produttrici. Innanzitutto l’organizzazione amministrativa dello Stato deve essere riformata al fine
di favorire ampie autonomie locali ed eliminare ogni forma di centralizzazione.
I poteri pubblici non devono avere alcuna ingerenza negli affari di religione, che rientrano nella
sfera dei privati; l’amministrazione della giustizia non è più funzione dello Stato e la
corrispondente organizzazione delle giurisdizioni, dei tribunali e delle corti è sostituita da
commissioni di arbitri e di esperti.
Anche l’istruzione non deve più essere centralizzata: la scuola deve essere considerato il legame
fra le corporazioni industriali e le famiglie.
Dell’amministrazione centrale, invece, l’autore salva la Corte dei conti, ridotta però ad un ufficio
generale di statistica.
Una corretta applicazione di questi principi, ha come ultima conseguenza che anche la politica
estera e quella militare non abbiano più ragione d’essere.
In un’ottica internazionale di questa rivoluzione sociale, neanche i domini coloniali esisteranno più,
ma sussisteranno come autonome comunità.
La federazione è il termine ultimo del processo di spontanea organizzazione dei gruppi, sancita da
una serie di contratti che culminano in quello federativo. Per certi aspetti Proudhon riprende gli
ideali della città – Stato, nel senso di un ordinamento che ha una forma ed una struttura propri e
quindi delimitati dalla loro funzione. Un gruppo sociale può crescere sino ad un certo limite che
corrisponde al massimo della forza di coesione della collettività e che si attua nella città, nella
quale tutti gli elementi che la costituiscono sono proporzionati ed armonizzati tra loro, sì che solo
nella città l’individuo può esprimere compiutamente la sua personalità in piena autonomia e
libertà.
Anche se Proudhon era convinto che la borghesia avesse esaurito la sua funzione storica e non
avesse più alcuna effettiva capacità di governo, egli richiama l’attenzione degli operai sul fatto che
una vera riforma della società era possibile solo mediante un’alleanza fra la media borghesia, che
avrebbe dovuto fornire le capacità direzionale ed imprenditoriali, e il proletariato.
K. MARX E F. ENGELS: l’utopia della rivoluzione e la società comunista
Il rapporto economia-società, trova un ulteriore approfondimento in Marx ed Engels.
La loro speculazione è indissolubilmente connessa alla concezione materialistica della storia, per
cui il processo di sviluppo storico ha il suo fondamento nella dinamica economico – sociale delle
forme e delle forze produttrici e delle lotte fra le classi sociali.
La politica è intesa, da entrabi gli autori, come una scienza della storia che studia le tensioni, i
contrasti, le lotte tra le classi, che ci permette di intendere gli avvenimenti ed i cambiamenti nei
singoli stati.
Entrambi gli autori criticano Hegel: la sua concezione di Stato è infatti una mistificazione, nel senso
che egli indica uno Stato che in sostanza ha molto poco di razionale e che non corrisponde alle
esigenze di profondo rinnovamento quali si sono affermate con la rivoluzione francese, come il
compimento dello Stato costituzionale moderno.
Le caratteristiche della società contemporanea, post rivoluzionaria, si basano sulla trasformazione
dei vecchi ordini in vere e proprie classi sociali, fondate sulla differenza della vita privata dei
singoli.
L’individualismo che caratterizza la borghesia finalizza ogni attività alla sfera privata del singolo.
I due autori continuano a criticare Hegel perché, a loro avviso, il filosofo cercava di conciliare i
vecchi ordini medievali con un potere legislativo su base rappresentativa.
Tale contraddizione fra Stato e società civile viene risolta mediante un nuovo ordinamento della
società che consenta ad ogni individuo di esprimere la sua compiuta umanità.
Solo mediante il suffragio universale, attivo e passivo, la società civile perviene ad una reale
esistenza politica, attuando la vera democrazia, sì che lo Stato politico si risolva nella società civile.
Engels sottolinea il fatto che la nuova organizzazione economica capitalistico-industriale, scaturita
dalla Rivoluzione industriale, ha permesso la formazione di una nuova classe sociale, il
proletariato, che rappresenta la nuova forza sociale, alla quale spetta il compito di rinnovare e
riorganizzare la società e che risolva le contraddizioni dell’organizzazione produttiva capitalistica.
La classe del proletariato, costituitasi in seguito all’irrompente processo di industrializzazione,
accoglie su di sé tutte le ingiustizie della società. Il proletariato vive la negazione dell’umanità
dell’uomo, solo questa classe è in grado quindi di realizzare quella rivoluzione completa che
realizza l’emancipazione generale della società.
La Rivoluzione industriale, secondo Engels, ha svuotato di qualsiasi contenuto lo Stato e la sua
organizzazione politica, creando tutta una serie di contraddizioni che hanno causato le ingiustizie.
Engels svolge una critica radicale nei confronti della costituzione inglese, per dimostrare come le
libertà politiche e civili siano del tutto apparenti e servano a nascondere il potere reale dei tre
grandi partiti in cui si suddivide la società inglese:l’aristocrazia terriera, quella del denaro e la
democrazia lavoratrice. Quest’ultima esprime sostanzialmente la lotta delle classi lavoratrici
contro quelle possidenti, al fine di liberare il lavoro dal dominio che su di esso esercita la proprietà
privata.
Per quanto riguarda la religione, questa è considerata come il risultato dell’alienazione dell’uomo,
pertanto questi deve riappropriarsene.
Marx precisa che le leggi economiche non sono categorie assolute, ma relative alla forma di
produzione capitalistica, fondata sulla proprietà privata: esse sanciscono, in effetti, il dominio del
capitale sul lavoro.
La ricchezza e la stessa organizzazione economica non sono altro che il risultato dell’alienazione
del lavoratore, cioè del trasferimento della sua energia, della sua attività, del suo lavoro, nei beni
prodotti; tali beni assumono nell’ambito dell’economia una loro indipendenza che si contrappone
al lavoratore stesso che li ha prodotti. tale processo crea infelicità nell’operaio, in quanto il suo
lavoro è ridotto a mero strumento (alienazione).
La contraddizione tra Stato politico, espressione del lavoro alienato, e società reale, quale risulta
dalle condizioni nelle quali vivono gli operai, deve essere risolta nel comunismo, che si instaura
allorché il lavoratore potrà riappropriarsi del suo lavoro, della sua umanità e potrà liberarsi dalle
costrizioni del capitale e della proprietà privata. Marx individua tre forme di comunismo:
1. comunismo rozzo: fondato sulla mera soppressione della proprietà privata;
2. comunismo politico democratico e dispotico: pur avendo abolito lo Stato, non riesce a
risolvere il problema dell’alienazione;