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Lezioni di Storia delle dottrine politiche- Prof. P. Armellini-A.A. 2019/20 1. Il pensiero politico dell’antichità fra Grecia e Roma Di Paolo armellini SOCRATE (469 a.C. – 399 a.C.): virtù e potere Socrate non lasciò nulla di scritto (egli stesso preferiva trasmettere direttamente a voce i suoi insegnamenti), tutto quello che si sa di lui lo si deve al lavoro di uno dei suoi più affezionati discepoli, Platone, che scrisse abbondantemente sulla figura del maestro e ne fece il protagonista di molti dei suoi dialoghi. Socrate era considerato un conservatore delle tradizioni della polis e delle sue leggi, ponendo ,queste ultime, al di sopra di tutto. Il filosofo riteneva che le leggi scaturissero dal sapere,ovvero, dall’applicazione della scienza della misura (ricerca dell’equilibrio) che si fonda sulla verità.

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Lezioni di Storia delle dottrine politiche-

Prof. P. Armellini-A.A. 2019/20

1. Il pensiero politico dell’antichità fra Grecia e Roma

Di Paolo armellini

SOCRATE (469 a.C. – 399 a.C.): virtù e potere

Socrate non lasciò nulla di scritto (egli stesso preferiva trasmettere direttamente a voce i suoi

insegnamenti), tutto quello che si sa di lui lo si deve al lavoro di uno dei suoi più affezionati

discepoli, Platone, che scrisse abbondantemente sulla figura del maestro e ne fece il

protagonista di molti dei suoi dialoghi.

Socrate era considerato un conservatore delle tradizioni della polis e delle sue leggi,

ponendo ,queste ultime, al di sopra di tutto. Il filosofo riteneva che le leggi scaturissero dal

sapere,ovvero, dall’applicazione della scienza della misura (ricerca dell’equilibrio) che si fonda

sulla verità.

L’obbedienza alle leggi è fondamentale per Socrate ma questo deve avvenire in modo razionale e

tuttavia, esse possono sempre essere perfezionate su iniziativa dei cittadini.

La tesi chiave della morale di Socrate è la virtù intesa come ricerca e scienza. Per il filosofo la

virtù non è la bellezza del corpo o la ricchezza, bensì l’insieme dei valori dell’anima, che si

riscontrano e ritrovano nella conoscenza;

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il filosofo sostiene che la virtù sia legata alla conoscenza e che questa debba essere

un’indispensabile qualità del cittadino che intenda fare politica, contrariamente alla tendenza

dell’epoca che basava la politica sulla retorica, ovvero sull’arte di incantare le folle derivante

dai sofisti.

Quindi per Socrate la virtù è conoscenza e si compie il male per ignoranza di questa.

Caratteristica fondamentale di Socrate è l’ironia consisteva cioè nel fingersi ignoranti rispetto

all’interlocutore onde confutare meglio le sue certezze (rappresenta il metodo usato da Socrate

per svelare agli uomini la loro ignoranza e per gettarli in una situazione di dubbio)

Dopo la sottile arte dell’ironia, il filosofo, utilizzava quella della maieutica che consisteva

nell’aspetto positivo – ricostruttivo, il quale così facendo aiutava il prossimo, tramite domande,

a “partorire” la verità che quest’ultimo custodiva.

La politica, secondo il filosofo, non era un’arte e quindi non poteva essere insegnata come

invece sostenevano i sofisti, egli ne criticava la conoscenza superficiale da loro impartita,

mentre promuove il sapere specifico e competente.

Socrate pensava che la politica doveva essere esercitata dai competenti, ovvero da uomini

virtuosi in grado di saper resistere all’allettamento del piacere.

Quindi per il filosofo il potere era legittimato dal sapere mentre per il sofista Gorgia il potere lo

si acquistava con la retorica e l’usa della parola che ammaliava le folle.

Socrate si oppose sempre ai sofisti perchè essi pronunciavano discorsi raffinati ed eleganti, ma

totalmente privi di verità: per loro l'importante era parlar bene, avere un buon effetto sugli

ascoltatori, essi erano veri sostenitori della scienza della parola, la retorica. Per Socrate invece

quel che più contava è la verità: lui si proclama incapace di controbattere a discorsi così

eleganti e ben formulati (ma falsi). Socrate, pur non tenendo un'orazione raffinata, diceva il

vero: la critica ai sofisti verrà poi ripresa da Platone stesso. I sofisti puntavano a stupire

l'ascoltatore, dal momento che erano convinti che la verità non esistesse (soprattutto Gorgia).

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Socrate per difendersi in tribunale non pronuncia un discorso (come i sofisti), ma imposta un

dialogo botta e risposta, poiché è solo dal discorso che viene fuori la verità (Platone dirà che il

discorso tra due o più individui è come lo scontro tra due pietre dal quale nasce la fiamma della

conoscenza).

PLATONE (427 a.C. – 347 a.C.): giustizia e forme di stato

L’ insegnamento di Socrate sta sicuramente alla base della filosofia e del pensiero politico di

Platone; come per il maestro anche Platone riteneva essenziale la ricerca morale della verità e

diviene in lui fondamentale il rapporto che intercorre fra la filosofia e la politica.

Lo studio del rapporto fra queste due materie scaturisce dal dramma e dalla lezione del suo

maestro Socrate, il quale come ogni buon filosofo ha rispettato le leggi della polis ed ha

accettato la sua sorte, anche se dettata da una politica ingiusta.

La filosofia infatti ha il dovere di andare oltre gli avvenimenti, le guerre, i cambiamenti di

governo, l’esperienze personali perchè essa ha il solo ed esclusivo compito di individuare

l’essenza ultima della realtà.

Platone continua con la polemica socratica nei confronti della retorica sofista e la rende

radicale ponendo in contrapposizione la figura del buon politico con il sofista retore perché,

secondo l’autore, è proprio la retorica, la scienza della parola, che ha condannato a morte

Socrate visto come il vero politico e rinnovatore della politica ateniese.

Dopo aver assistito al logorarsi delle forme di governo dell’Atene degli ultimi anni, la

democrazia e l’oligarchia, verso il 390, nove anni dopo la morte di Socrate, Platone pose mano

alla Politeía, forse la massima opera del filosofo delle Idee. L’oggetto del dialogo, cui prendono

parte Socrate, Glaucone, Polemarco, Adimanto, Cefalo e Trasimaco, è la perfetta comunità

politica e sociale a cui una polis deve tendere. Il concetto fondamentale, che l’autore intende

espletare, è la necessità che a governare siano i filosofi. Governare, precisa Platone, non è,

ovviamente, facile: si tratta di comprendere il bene collettivo e tradurlo in leggi e atti politici

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opportuni. Inoltre, non si spiega, argomenta Platone, come scienze e discipline meno complesse,

come la medicina, siano praticate da pochi, mentre la politica è così spesso affidata alla massa

o a pochi incompetenti. È chiaro, dunque, che né la democrazia, né l’oligarchia (tanto meno la

tirannide) possono essere guardate come modello politico in grado di garantire la giustizia.

Fondamento della polis è la giustizia, opposta da Platone al diritto del più forte sostenuto dai

sofisti.

Su queste basi, Platone descrive il suo modello ideale di stato. La comunità dovrà essere divisa

in tre classi:

1 GOVERNANTI: caratterizzati da un’anima razionale e dalla saggezza, ai quali affidare il

governo della polis;

2 GUERRIERI: caratterizzati da un’anima irascibile e dalla forza, ai quali affidare la difesa

della polis;

3 CITTADINI-LAVORATORI: caratterizzati da un’anima concupiscibile e dotati di temperanza

ai quali affidare il sostentamento economico-lavorativo della polis.

Sarà unito e giusto lo stato nel quale ogni individuo rispetterà il proprio ruolo e abbia quel che

gli spetta, in proporzione. I compiti in una comunità sono tanti: l’importante è che ognuno

scelga il più adatto alla propria costituzione caratteriale e vi si dedichi. L’appartenenza ad una

o ad un’altra classe è dettata, nello stato platonico dalla prevalenza nella psyché del singolo,

della parte razionale (governanti), concupiscibile (lavoratori) o irascibile (guerrieri), ovvero

dalle qualità individuali. Ecco perché in Platone non si può parlare di caste, ma si deve parlare

di classi: una certa mobilità sociale è ammessa. Nel caso che il figlio di un governante non

somigli al padre, sarà retrocesso in un’altra classe.

Uno degli aspetti più interessanti dello stato ideale delineato da Platone è l’eliminazione della

proprietà privata, in seno, però, solo alla classe superiore dei governanti-filosofi. I governanti

avranno in comune anche le donne, completamente eguagliate agli uomini; unioni matrimoniali

saranno temporanee e i figli saranno tolti ai loro genitori sin dalla nascita  «e così saranno di

tutti anche i figli». L’essenza del “comunismo” platonico risiede in definitiva nella tesi

economica dell’eliminazione della proprietà privata e nella tesi sessuale dell’eliminazione della

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famiglia e della parificazione uomo-donna. Tutto ciò finalizzato alla più completa dedizione al

bene comune e statale.

Due domande si presentano ora improrogabili: “I guardiani sono felici?” e “Chi custodirà i

custodi?”. Alla prima Platone risponde che la felicità risiede nella giustizia, ovvero

nell’assolvere completamente alle proprie mansioni, in vista dell’armonia complessiva dello

stato. Alla seconda il filosofo risponde che, in virtù della loro formazione, i custodi saranno già

in grado di custodire se stessi.

Per Platone anche la polis che si forma secondo la costituzione ideale, non può sottrarsi alla

decadenza e questa decadenza segue il seguente schema:

1 ARISTOCRAZIA ovvero il governo dei reggitori-filosofi;

2 TIMOCRAZIA, ovvero il governo degli animosi, dei guerrieri che allontanano i saggi dal

potere;

3 OLIGARCHIA, ovvero il governo dei solo ricchi che allontanano dal potere i guerrieri ed i

poveri;

4 DEMOCRAZIA,ovvero il governo dei non abbienti, del popolo che allontana i ricchi dal potere

5 TIRANNIDE, ovvero la più corrotta delle forme di governo e che rappresenta il governo

dispotico di un solo individuo.

Per Platone la politica si compone di due parti:

1 POLITICA PRATICA: ovvero l’attività di governo svolta dal re filosofo;

2 POLITICA TEORICA: ovvero l’organizzazione della polis.

L’autore riteneva che l’arte regia, purchè praticata da un re filosofo, legittimi un governo che

sia al di sopra delle leggi; in tal modo il re filosofo essendo al di sopra di esse è in grado di

modificarle e di adattarle a nuove situazioni senza il vincolo della tradizione, che se pur

fondamentale per la polis a volte ne potrebbe frenare l’evoluzione.

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ARISTOTELE (348 a.C. – 322 a.C.): etica, politica e le forme di governo

Secondo Aristotele, la politica è una delle quattro scienze in cui si articola la scienza dell’uomo

(le altre sono: psicologia, etica e retorica).

“Politica” è una delle opere fondamentali di Aristotele, e comprendeva la descrizione delle 148

costituzioni greche, anche se oggi ci è pervenuta solamente quella riguardante la costituzione di

Atene. In quest’ opera il filosofo afferma che la polis è il luogo adatto alla realizzazione dei

desideri e dei bisogni dell’uomo, egli è lo zoo politicòn e solo all’interno di essa può esprimere

la sua umanità mediante la politica.

La polis è compiuta in sé stessa in quanto contiene tutte le altre forme di aggregazione :la

famiglia, il gruppo parentale, la tribù ed il villaggi).

Secondo l’autore, esistono tre tipi di comando ed obbedienza, tre tipi di autorità sulle quali si

fonda la costituzione della polis:

1. padre-figlio;

2. marito –moglie;

3. padrone schiavo.

A questi tipi corrispondono tre gerarchie delle intelligenze:

1. il figlio ha intelligenza potenziale;

2. la moglie ha intelligenza attenuata;

3. lo schiavo ha intelligenza appena per il lavoro che svolge.

A queste corrispondono tre tipi di autorità:

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1. autorità del re coi sudditi;

2. autorità del magistrato coi cittadini;

3. autorità del despota.

Aristotele critica il comunismo platonico in quanto contrario alla natura dell’uomo: la famiglia

e la proprietà privata sono infatti gli istituti sui quali si articola tutta la comunità politica;

abolire la proprietà privata significherebbe privarsi dell’unico criterio per fissare la giusta

ricompensa per il lavoro svolto da ciascuno.

Aristotele aggiunge che uno Stato collettivista non è in grado di raggiungere l’unità, in quanto la

società si scinderebbe in due classi: i guerrieri che detengono il potere e i lavoratori a loro

sottomessi.

Secondo l’autore, la costituzione migliore è quella in cui ogni cittadino possa meglio provvedere

alla sua proprietà materiale ed alla sua felicità; la polis deve garantire la compartecipazione di

diritti e di beni a tutti, a meno che non vi sia qualcuno che emerge per virtù al quale è giusto

obbedire (Aristotele, essendo precettore di Alessandro Magno, cerca di legittimarne così il

dominio sui popoli).

Aristotele critica però la politica espansionistica militare, afferma infatti che la guerra và fatta

solo se ha come fine la pace.

L’autore divide la società in sei classi, in base ai compiti di ciascuno di essa per la società:

1. agricoltori (alimentazione);

2. artigiani (arti, mezzi necessari);

3. guerrieri (difesa);

4. benestanti (finanza pubblica);

5. sacerdoti (culto divino);

6. magistrati (decisioni sugli interessi generali e sui diritti).

Su queste classi si fonda tutto l’ordinamento politico della polis.

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Aristotele sostiene che ogni popolo ha il governo che si merita, ovvero ogni governo riflette il

modo di vivere di un popolo. Egli divide l’umanità in tre razze:

1. nord: popolo vivace ma poco intelligente, non hanno una vera comunità politica che

consenta loro di dominare i popoli vicini;

2. centro (mediterraneo): popolo intelligente e con forza morale, ha ordinamenti politici

liberi e sarebbe in grado di dominare gli altri popoli (giustifica Alessandro Magno);

3. sud (Asia ed Africa): popolo intelligente ed abile, ma privo di forza morale e perciò

propenso alla schiavitù.

Aristotele ritiene che ogni popolo si governa mediante la ragione, perciò lo Stato deve prima di

tutto adoperarsi per educare l’uomo alla ragione e al bene comune.

Individua diversi tipi di costituzioni:

Costituzioni perfette (nel rispetto della pubblica utilità):

1. Monarchia;

2. Aristocrazia;

3. Politia (o democrazia dei liberi).

Costituzioni imperfette (nel proprio personale interesse):

1. Tirannide;

2. Oligarchia;

3. Demagogia (democrazia dei molti).

Secondo Aristotele, la costituzione per antonomasia è la Politia, basata sull’eguaglianza di tutti.

In questo caso, la cittadinanza è riconosciuta solo a chi, per condizioni sociali, è libero e può

perseguire le virtù del cittadino. Il potere non è fondato sulla gerarchia, ma sul consenso,

tuttavia le categorie lavoratrici sono escluse dalla vita politica, in quanto privi di virtù politica.

Secondo l’autore, la Politia deve essere il modello al quale deve ispirarsi la politica

democratica.

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Aristotele, al contrario di Platone, pensa che le leggi debbano essere sovrane e che si possa

raggiungere l’armonia dello Stato solo se al governo vi sono persone selezionate per tradizione

ed educazione che operino nel rispetto delle leggi. Senza la sovranità delle leggi, la maggioranza

avrebbe un potere più assoluto di quello di un tiranno. Il principio della sovranità delle leggi,

trova la sua attuazione solo in una costituzione basata sulla classe media che è veramente libera

moralmente, intellettualmente ed economicamente. Questa è in grado di mantenere l’equilibrio

tra ricchi e poveri.

Aristotele pensa che l’ordine sia il fine ultimo della politica. Analizza inoltre il fenomeno della

congiura contro il tiranno; l’autore giustifica tale pratica in quanto è l’unico modo per sottrarre

i cittadini alla volontà spregiudicata di un uomo che li ha ridotti in schiavitù.

L’ESPERIENZA POLITICA ROMANA

La civitas romana era costituita da:

la gens: gruppo di famiglie che riconosce un progenitore comune;

i patres familiarum: capi delle gens;

Il rex: capo tra i patres familiarum;

Il populum: insieme degli armati forniti dai gentilizi.

Il rex deteneva un potere assoluto, era comandante militare, sacerdote e giudice. Nella sua

attività di governo, il rex era assistito da un consiglio di anziani (i patres, il senato). La plebe,

costituita dai piccoli proprietari, dai contadini e dagli artigiani, era esclusa dalla civitas e

dominata dalle gens.

Intorno al 509 a.C. con la fine del dominio etrusco su Roma, l’oligarchia gentilizia sostituì al rex

due consoli di uguali poteri che avevano un potere limitato rispetto a quello del rex, sia per la

brevità del mandato sia per la collegialità delle dicisioni.

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Dopo l’instaurazione della repubblica e la formazione di un esercito cittadino, l’esclusione dalla

vita politica della plebe non poteva continuare ad essere mantenuta, fu così istituita la carica dei

tribuni della plebe che giunse fino al numero di 10, dichiarati inviolabili e con la facoltà di

esercitare lo jus auxilii e lo jus intercessionis per salvaguardare la plebe dalle ingiustizie

arbitrarie che potevano venire dalle classi dominanti.

Il diritto è alla base della vita politica romana, è la vera forza della civitas, ciò che permette ad

essa di concentrare le energie della collettività per conseguire i suoi fini.

Nella civiltà romana si pone la distinzione tra ius civile, che riguarda i rapporti tra i cittadini, e

lo ius pubblicum, che riguarda l’organizzazione della civitas in quanto res pubblica. Il diritto

romano era comunque strettamente legato alla morale ed alle più generali norme di carattere

sacrale e religioso e per un lungo periodo rimase prerogativa del collegio dei pontefici.

Infine individuiamo tre posizioni tipiche del comando nell’antica Roma:

Potestas: postere di realizzare una cosa per se o per gli altri;

Auctoritas: attività di chi assiste, per il raggiungimento di un risultato, la volontà di un

agente incapace di farlo,

Imperium:potere originario non derivante dall’ordinamento giuridico, illimitato a meno

che non venga espressamente illimitato da una legge.

POLIBIO

La potenza romana sembrava destinata, dopo la vittoria su cartagine, a dare attuazione al

programma di Alessandro Magno di unificare il mondo civilizzato; di questo ne era

sicuramente convinto Polibio.

Era uno storiografo greco che viveva a Roma, nella sua opera fece un attento studio delle

costituzioni e della loro evoluzione / degenerazione.

Polibio si accorge del fatto che ogni costituzione ha in sé stessa i principi della sua

decadenza,dettata dalla evoluzione-involuzione naturale della società politica. Secondo

l’autore, nelle costituzioni rette ( monarchia, aristocrazia e democrazia) il potere si fonda sul

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consenso dei governati, mentre in quelle degenerate (tirannide, oligarchia ed oclocrazia) è

fondato sulla forza e sulla paura.

Questo lo schema evolutivo delle forme di governo.

MONARCHIA TIRANNIDE ARISTOCRAZIA OLIGARCHIA DEMOCRAZIA

OCLOCRAZIA(dominio della moltitudine).

All’ultima fase, la più degenerata, segue un periodo di vere e proprie lotte di fazioni che

sfociano in sanguinose guerre civili , alle quali pone termine solo la monarchia. Si compie

così il ciclo delle costituzioni , che inizia di nuovo con la prima forma di governo.

Secondo Polibio,fra tutte le costituzioni, la costituzione mista, adottata dai Romani (che fu

realizzata per la prima volta dal re Licurgo di Sparta) è la migliore, in quanto racchiude in

sé le tre costituzione perfette: monarchia (potere dei consoli), aristocrazia (potere del

senato), democrazia (comizi della plebe). Ai consoli spettava il governo della civitas ed il

comando militare, al senato il potere amministrativo e la politica estera, ai comizi il potere

legislativo in date materie.

CICERONE

Giurista, oratore, filosofo e uomo politico romano. Si richiama all’insegnamento di Platone,

di Aristotele, degli stoici, in particolare di Panezio, in contrapposizione con la teorizzazione

epicurea del disimpegno politico. Secondo lui, l’uomo politico ideale doveva unire alle

capacità d’azione un interesse vivo per la filosofia e la teoria politica (qualità che lui

attribuiva a Scipione l’Africano). Per Cicerone, la dottrina politica deve tenere sempre di

mira l’esperienza politica, alla quale vanno riferite le conclusioni cui perveniamo in sede

teorica.

Cicerone usa il termine “res pubblica” per indicare l’organizzazione politica in quanto tale;

lo Stato è la “cosa pubblica”, la cosa che appartiene al popolo. Il popolo come unità è una

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creazione del diritto, al di fuori di questo il popolo è solo una massa di individui,

fondamentale quindi per cicerone il ruolo del diritto come perno della società politica.

Per Cicerone, la libertà è repubblicana ed il popolo è il titolare della summa potestas, se

questa non dovesse più appartenere al popolo, la costituzione si trasformerebbe in un

governo tirannico. A tal proposito, Cicerone giustifica il tirannicidio.

L’autore è, comunque, un convinto sostenitore dell’importanza della classe aristocratica, in

cui è viva la tradizione e che si fa garante del mantenimento della morale pubblica, solo

questa è infatti in grado di soddisfare il popolo e di contenere le richieste provenienti dai

suoi rappresentanti. A loro volta, i tribuni della plebe sono essenziali per contenere il potere

dei consoli e del senato e garantire la libertà del popolo.

Cicerone fu il teorico della libertà repubblicana proprio negli anni della sua crisi profonda

che la stava avviando alla sua drammatica fine.

Per questo egli sperava in una ricompattazione dalla società romana intorno alla figura di

un principes, che godesse di ampi poteri e ristabilisse l’ordine repubblicano, come teorizzato

nel suo De re pubblica.

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2. S. Agostino, le due città

Di P. Armellini

CIVITAS DEI: questa opera ha un dichiarato fine apologetico, vuole dimostrare

l’infondatezza dell’accusa rivolta ai cristiani dagli ambienti politici fedeli al culto dei romani di

essere la causa della decadenza della politica militare dell’Impero con la diffusione degli ideali

avversi all’etica civica romana Roma, avendo abbandonato i suoi dei, era punita con le sconfitte

(Sacco di Roma da parte dei Visigoti 410).

Agostino intende i rapporti fra Cristiani e Impero con una spiegazione della dinamica della

storia universale, per cui la storia romana non poteva essere scissa dalle cause che spiegano il

sorgere, l’affermazione e il dissolversi degli stati e Imperi. La fede mostra nuova luce sui rapporti

fra i fini ultimi e la storia politica. Acquista nuova luce il problema del male (povertà, miseria,

oppressione e morte): può l’uomo esservi redento per sempre? Nella speculazione cristiano dei

tre secoli il Regno di Dio avrebbe liberato l’uomo dal male, avrebbe realizzato una società di

uguali e di liberi, cioè giusta.

Due interpretazioni di questa speranza. Per Eusebio di Cesarea l’unione della Chiesa con

l’Impero, realizzando nell’ambito terreno il governo diviso sul mondo garantiva la diffusione dei

beni spirituali e il tranquillo possesso di quelli temporali, legittimando e sacralizzando l’autorità

politica Pelagio invece sostiene la tesi che il Regno di Dio coincide con la comunità di uguali,

che aveva realizzato il precetto evangelico del rifiuto delle ricchezze: il cristiano come uomo può

liberarsi dal male con le sue forze. Queste due soluzioni per Agostino finiscono per privare di

significato teologico il problema del male, negando che esso sia un irreparabile corruzione della

natura umana e negando valore alla grazia divina per la salvezza umana.

Al centro della Civitas Dei è il tema della provvidenza divina, per cui è Dio a far nascere e

perire gli imperi. Il prete spagnolo Orosio nel 417 dedica ad Agostino la Storia dei pagani in cui è

rivendicato il ruolo provvidenziale dell’impero anche per la diffusione del cristianesimo.

Verso il 400 Agostino pareva convinto che il potere politico fosse al servizio del cristiano:

Dio ha sottomesso e convertito a sé l’Impero. Dopo il 410 è solo speranza: gli imperi di

Occidente si mostrano sempre più incapaci di difendere i cristiani dai barbari.

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Tra la fine del IV e l’inizio del V secolo il mito di Roma è sotto processo negli ambienti

cristiani. Agostino ritiene che la vicenda della vera Chiesa non sia e non possa essere considerata

dalle vicende umane e travolta con essa in un solo destino. Per dimostrarlo egli elabora una

Teologia della storia. Questa non deve essere confusa con una filosofia della storia, che tenti di

individuare un significato immanente ai fatti storici. Il significato di essi è piuttosto dato dalla

struttura teologico sottesa al loro avvicendarsi. Tale struttura è ritmata dai momenti salienti

della creazione del mondo, del peccato originale, dell’incarnazione di Cristo e del giudizio

finale. All’interno di tale ordinamento anche il negativo può trasformarsi in positivo. In tal modo

l’intero corso della storia può essere concepito carico di significato che il credente può cogliere

solo parzialmente, perché il significato globale è noto solo a Dio. Passato, presente e futuro

sono per l’uomo in gran parte opachi. Tuttavia è possibile individuare il filo che percorre l’intera

storia universale nei suoi momenti decisivi.

Contro il parere prevalente degli antichi, Agostino ritiene che la storia abbia una durata

limitata e che la sua epoca, in cui il mondo è già vecchio, sia vicina la fine. Egli rifiuta la dottrina

ciclica dell’eterno ritorno propria degli stoici; se così fosse non sarebbe possibile essere felici in

modo stabile e duraturo.

La vicenda storica ha invece un andamento lineare, il quale sfocia in un evento finale

ultraterreno; questo dà senso a quanto precede. È la prospettiva escatologica. Ma avendo egli

abbandonato la credenza in possibilità umane autonome e riconosciuto il peso determinante

della grazia divina nella salvezza, egli non ammettere la concezione di un progresso lineare

ininterrotto verso la beatitudine. Il filo rosso della storia è dato invece dalla lotta tra il bene e il

male che si costituiscono in due regni, di cui Agostino indaga origine, durata e fine.

Per Agostino “Il mondo è un torchio che spreme”: è intrinseca la connessione male-storia.

La storia è il destino in cui si compie il dramma della salvezza, è il problema della presenza

di Dio nell’ordine temporale, di Dio inteso come provvidenza, che cioè pone i fini ultimi degli

avvenimenti umani. Questi non si collegano fra loro solo in base a interessi politici

(consolidamento degli stati).

Ma anche per realizzare fini non previsti dagli autori: c’è nella storia così un ordine

provvidenziale ultimo.

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Agostino distingue fra due città: la città di Dio ossia, la città celeste, retta dall’amore di Dio

e la città terrena, dominata dall’amore di sé.

La prima è costituita dagli uomini giusti, che vivono secondo lo spirito, dai santi che sono

predestinati alla salvezza dalla grazia divina. essa è certamente rappresentata nell’ordine

temporale della Chiesa, che è per gli uomini la testimonianza del messaggio evangelico, ma non

si identifica con essa.

La seconda è costituita da coloro che hanno come fine della loro vita il conseguimento dei

beni terreni. La lotta tra le due città ritma il corso della storia e prende il sopravvento sullo

schema della successione delle età del mondo. Sin dalla caduta di Adamo la razza umana è stata

divisa in due città.

L’appartenenza a ciascuna delle due dipende solo dalla grazia. Già prima di Cristo infatti,

alcuni uomini facevano parte della città di Dio.

Il termine civitas indica la comunità dei cittadini, il corpo al quale essi appartengono e in cui

trovano identità. Coniando la nozione di città celeste, Agostino dava ai suoi fedeli il senso e la

certezza di essere popolo di Dio, rafforzandone i legami di solidità di fronte ad un mondo civile.

Un popolo infatti si definisce in relazione a ciò che ama: sulla base di ciò che ama, esso fonda la

propria unità e costruisce rapporti di subordinazione e obbedienza.

Nell’amore di sé si celano un desiderio e una corrispondente volontà di pace, che ispirano i

componenti. Chi vuole stare in pace con sé, deve cercare di essere in pace con gli altri. La pace

attiene alle aspirazioni più profonde dell’uomo: vi è la pace dell’individuo con sé, per la parte sia

irrazionale che razionale dell’animo, vi è la pace del corpo con l’anima razionale, vi è la pace

dell’uomo cogli altri, vi è infine la pace dell’uomo con Dio. La pace è allora anche il fine della

politica per cui potere politico e Stato sono giustificati sulla base del fatto che essi stabiliscono e

mantengono la pace fra gli associati: la pace terrena è il fondamento dello Stato. La guerra non ha

che il fine di conseguire la pace e assicurarle alla maggior parte di persone. Due sono le paci,

quella della Città Celeste e quella della Città Terrena. La prima è eterna e ha a suo fondamento

Dio, la seconda è temporanea, provvisoria, perché tali i beni che ne sono la premessa.

1.2.1 - S. Agostino – De Civitate Dei

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De Civitate Dei ha fine apologetico per dimostrare l’infondatezza dell’accusa rivolta ai

cristiani dagli ambienti politici romani di essere la causa della decadenza della potenza militare

di Roma, avendo diffuso ideali avversi all’etica civile romana: Roma era punita da rovinose

sconfitte per aver abbandonato gli dei che sempre l’avevano protetta nelle sue imprese militari.

Agostino pone il problema dei rapporti fra cristiani e Impero in una prospettiva di storia

universale, per cui la storia romana andava spiegata attraverso le cause che danno conto del

sorgere, affermarsi e dissolversi degli Stati e Imperi.

La fede cristiana getta nuova luce sui rapporti fra i fini ultimi e l’uomo nella storia. Qui

acquista importanza il problema del male, che nella speculazione cristiana può essere vinta sola

nel Regno dei cieli.

Eusebio di Cesarea diceva che l’unione della Chiesa coll’Impero realizzando sul terreno

politico il governo divino nel mondo, garantiva la diffusione dei beni spirituali e il tranquillo

possesso di quelli terreni, e così sacralizzava l’autorità politica; Pelagio, per il quale il regno di

Dio coincideva con la comunità degli uguali, per il rifiuto evangelico delle ricchezze afferma che

il cristianesimo in virtù delle sue capacità naturali poteva riscattarsi dal male. Per s. Agostino le

due soluzioni finiscono per privare di qualsiasi significato teologico-religioso il problema del

male, negare il peccato che ha corrotto irreparabilmente l’uomo e non riconosce infine alcun

valore all’aiuto della grazia divina nella salvezza umana.

Per s. Agostino il mondo è un torchio che spreme, come la morchia con l’olio, che però dopo

la pressione è depurato e risplende.

La storia è il tempo in cui si compie il destino dell’uomo, il dramma della salvezza; è il

problema della presenza del Dio provvidenziale nell’ordine temporale, che permette di

connettere i fatti storici-politici non solo mediante interessi, ma in modo da realizzare fini non

previsti dagli autori ordine metastorico.

Il Vangelo ci parla del Regno terreno e del Regno di Dio, che nel linguaggio politico di s.

Agostino diventano Civitas Dei e Civitas terrena diaboli. Civitas Dei indica l’unione di coloro

che perseguono come unico fine l’amore di Dio, la Civitas terrena quello dell’amore di sé:

«l’amore di sé fino al disprezzo di Dio fece la città terrena, l’amore di Dio fino al disprezzo di sé

fece la città di Dio». La storia è la dialettica fra queste due città, la cui coesistenza non vuol dire

che esse non esistono su piani nettamente distinti: l’una non si risolve nell’altra perché quella

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terrena esaurisce i propri fini nella Storia, mentre quella celeste ci richiama al piano

provvidenziale che è nascosto nella storia.

La città di Dio è formata dai santi, dai giusti, dai predestinati alla salvezza ed è rappresentata

nella storia dalla Chiesa senza però identificarsi con essa perché essa subisce condizioni dalla

realtà mondana. La città terrena è costituita da coloro che intendono conseguire i beni terreni.

Nell’amor di sé si cela il desiderio di pace, sia con sé che cogli altri. La pace è il fine più

profondo dell’uomo: 1) con sé fra le parti dell’animo (razionale, vitale, irrazionale); 2) cogli altri;

3) con Dio.

Anche il potere politico deve conseguire la pace che è il fondamento dello Stato. Due sono

le paci, quella della Città celeste che è eterna avendo Dio a suo fondamento; la seconda è

temporale e quindi provvisoria legata com’è ai beni terreni.

Ma la Città celeste con la sua pace non si può realizzare nella storia. Il concetto di pace

politica si precisa in relazione a quello di ordine, che è la disposizione delle cose e dei beni

temporali e delle relazioni umane indirizzate al loro bene. Ora l’uomo si relazione agli altri per

stabilire rapporti pacifici.

La “tranquillitas ordinis” è appunto la disposizione delle cose e delle relazioni umane che

rende possibile la pace.

L’ordine è finalizzazione alla garanzia e al mantenimento della pace.

L’ordine politico è il risultato dell’attività dei consociati per il conseguimento della pace con

sé e gli altri.

Lo Stato non è più una realtà in se e per se, microcosmo organizzato secondo un ordine

oggettivo della natura in cui l’uomo ritrova la perfezione di sé e la sua felicità, ma è una realtà

umana, che sussiste sino a che l’individuo attua l’ordine.

Lo Stato non è più una realtà in se e per se. Un microcosmo organizzato secondo un ordine

oggettivo della natura in cui l’uomo ritrova la perfezione di sé e la sua felicità, ma è una realtà

umana, che sussiste sino a che l’individuo attua l’ordine. L’ordine della città terrena si esprime

nella società stessa.

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Per lo Stato s. Agostino si richiama a Cicerone, è Respubblica, ovvero moltitudine unificata

dalla comune utilità grazie al vincolo giuridico. Lo Stato è il titolare della giustizia da cui deriva

il diritto. L’ordine spirituale è salvo solo se si riduce l’ordine temporale ad organizzazione in

tutto umana, che non può rivendicare valore oggettivo ma può conseguire solo una pace

temporale. La Responsabilità non si fonda sulla vera giustizia quale valore assoluto, ma su

quella terrena. La definizione ciceroniana di Stato va ridefinita come unione di individui fondata

sulla concorde comunione delle cose che si amano.

Lo Stato ha il suo fondamento nella comune aspirazione verso determinate cose; c’è in ogni

società politica una volontà collettiva e come unità nasce da una fusione delle aspirazioni e

volontà individuale e dalla compartecipazione ad essa. È una realtà dinamica che vede la

realizzazione di una pluralità di posizioni e desideri e quindi l’ordine politico deve essere

continuamente voluto come fine concreto cui adeguare il nostro comportamento.

L’ordine è stabile se l’oggetto amato corrisponde alla virtù, è instabile se le cose che si

amano sii allontanano dalla virtù, o la contrastano. L’ordine si identifica con la ragione che

come (? p. 21) riferimento la virtù, la giustizia il sommo bene che è Dio; ma la ragione da sola

non è in grado di convertire i valori in concreta compartecipazione fra ragione e volontà c’è uno

iato.

Se l’uomo armonizzasse spontaneamente ragione e volontà, l’ordine politico si

identificherebbe con quello concepito dalla ragione, la Città terrena si trasformerebbe in Celeste,

il peccato verrebbe risolto nell’impegno umano solamente. Ma sperimentiamo invece

l’impossibilità per l’uomo la sua interna e radicale contraddizione di volere la pace, ma realizza

fini che la contraddicono. Vuole l’ordine ma provoca il disordine e la guerra. Proprio per

realizzare la sua giustizia, compie l’ingiustizia.

Ora l’ordine politico ha una durata limitata; l’aspirazione ai beni particolari scaturisce in

ognuno da un sentimento indefinito del bene assoluto-Dio. L’uomo che vive nella città terrena

senza pensare per quella celeste non può riconoscere il vero oggetto di questo desiderio

indefinito e finisce per perseguire una serie di beni terreni che non riescono mai a soddisfare la

sua originale aspirazione.

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Mancando l’accordo sulle cose che dovrebbero costituire il comune oggetto dell’amore del

popolo, si apre il campo delle divisioni faziose fra i partiti in lotta che mettono in crisi l’ordine

politico della Città terrena.

Il bene ricercato dalla società politica è la potenza, il dominio necessario per il

conseguimento del bene che ci libera dalla divisione e ci permette di godere degli altri beni ---> si

spiega così la divinizzazione di Imperi e Imperatori. Ma così l’ordine politico corre i rischi più

grandi. Occorre distinguere fra potere e dominio. Il potere come coazione (forza che costringe

l’uomo ad un comportamento determinato). Trova la sua giustificazione nel peccato (Dio ha fatto

l’uomo a sua immagine e disposto che dominasse solo sule creature irrazionali, non quelle

razionali).

La schiavitù è frutto del peccato (è la giusta sanzione propinata a chi ha fatto guerre

conquiste ma non sono uccisi).

Il potere è la forza che rispetta i diritti dei soggetti mentre il dominio assoggetta in tutto e

per tutto i soggetti ai fini di chi lo detiene. Per il cristiano il potere non è più il dominio

dell’uomo sull’uomo ma il rapporto comando e ubbidienza. Il potere è una dura forma di

disciplina, e si traduce nell’impegno costante di mantenere l’ordine e la pace e si fonda sul

consenso degli associati: il popolo allora è l’associazione di una moltitudine non di bestie ma di

creature razionali nella comunione concorde delle cose che ama.

Lo Stato come organismo politico positivo è costituito da: 1) un’associazione di individui; 2)

un capo che comanda; 3) un patto sociale; 4) una serie di convenzioni precedentemente

concordate -> il potere di governare è fondamentale sul consenso dei soggetti espresso dal patto

sociale e le leggi sono il risultato di un accordo fra consociati.

Ma perché lo Stato diventa strumento di dominio e di conquista? Perché in questi casi

misconosce qualsiasi critica di giustizia e perciò il diritto cade diventando simile alle bande di

ladroni e pirati. Se lo Stato si riduce a meccanismo che usa la forza per il dominio le cose amate

non sono che la violenza e la sopraffazione perché si vuole conseguire la pace con l’oppressione

e la guerra. Esso è destinato all’autodistruzione.

L’esempio di Roma è istruttivo perché il popolo romano amò sempre ogni cosa la gloria che

segue all’imprese grandiose in cui si esaltano le virtù civili. Così Roma conseguì grazia alla

riconosciuta superiorità una organizzazione politica che garantiva ordine -> pax romana. In

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virtù del rispetto di singoli e popoli con la giustizia -> il cittadino anteponeva al bene pubblico

quello privato.

L’amore per la gloria si preoccupa sempre di non dispiacere a coloro che giudicano

rettamente le sua azioni -> timore di dispiacere è un limite della potenza promossa dal desiderio

di gloria; quando il desiderio dei governanti si rivolge al dominio il potere diventa fine a se

stesso e la forza non ha alcuna legittimazione morale e umana. Queste virtù declinarono con la

fine della repubblica e l’inizio dell’Impero fino a subentrare il desiderio di dominio che fece

degenerare il costume civile. Non più parsimonia e frugalità, riservatezza e disciplina civile,

amore del bene pubblico, ma desiderio di ricchezza, per il fasto, il lusso, l’ambizione, il

servilismo, l’egoismo, gli interessi delle fasi. Per cause interne l’ordine politico romano si

disarticolò fino alla mancanza del presupposto della forza militare che potesse resistere ai nemici.

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3. S. Tommaso, Etica e politica

di P. Armellini

Nel 1260 Guglielmo di Moerbeke tradusse la Politica di Aristotele, ignota anche ai filosofi

arabi. Riprende nella seconda metà del XIII secolo l’eredità aristotelica ripensandola alla luce

della Tradizione cristiana è S. Tommaso, che riprende la filosofia aristotelica della natura

rendendola corrispondente alle esigenza cristiana: nella sua concezione della natura il peccato

originale non è una negazione radicale della possibilità di operare il bene, ma solo una

profonda diminuzione della originaria capacità di attuarlo che lascia tuttavia all’uomo una sfera

autonoma di azione positiva. La grazia perfezione l’opera umana, la quale senza l’aiuto

soprannaturale non raggiungerebbe la perfezione. La dimensione naturale dell’uomo ha un valore

positivo che si deve inserire nei valori propri del Cristiano. Il problema è quello dei rapporti di

ragione e fede: riconosciuta la autonomia della ragione, la fede, la perfezione e la

completazione.

La verità individuale della ragione in filosofia non può che armonizzarsi con la verità

rivelata, studiata dal teologo; hanno entrambi fondamento in Dio.

La predicazione francescana proponeva l’ideale di povertà evangelica, di un cristiano

spiritualmente realizzato con una ascesa evangelica che portava alla semplicità, la serenità, la

gioia di riscoprire la fratellanza con il creato. Gioacchino da Fiore interpretava l’opera di S.

Francesco come l’inaugurazione del Regno dello Spirito, dopo quelli del Padre e del Figlio

(Antico e Nuovo Testamento).

In esso non c’era ragion d’essere per una comunità politica organizzata, né l’istituzione

ecclesiastica ha “renovatio” secondo i frati minori si doveva attuare non solo nella Chiesa ma

anche nella società, con l’esaltazione della perfetta vita cristiana informato all’umiltà e alla

povertà. Questa avrebbe finito però per negare la comune umanità degli uomini, dividendo gli

uomini reali dalla setta degli spirituali cristiani. S. Tommaso vuole invece recuperare allo spirito

cristiano l’umanità dell’uomo, di mostrare che la razionalità, comune a tutti, è il presupposto

degli stessi valori spirituali. La razionalità è però contro il naturalismo avveroista, un principio

metafisico costituito dalla sua umanità individuale. D’altronde Federico II nell’Italia meridionale

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costituiva il primo tentativo di fondare in Italia il primo Stato moderno con una sua struttura

burocratica-amministrativa. Però la lotta dei comuni del Nord contro Federico II e la sua

centralizzazione, l’insorgere di movimenti popolari sostenuti dagli ordini mendicanti furono il

presupposto storico per la teoria del diritto di resistenza al sovrano, risolti nella

costituzionalizzazione del potere politico (potere nei limiti fissati dalle leggi).

Nel Commento alla Politica di Aristotele S. Tommaso considera la politica una scienza

autonoma. La filosofia si estende a tutto ciò che può essere conoscenza con la ragione e fra i

suoi oggetti c’è la polis. La polis studia la città come un tutto ed è scienza autonoma perché si

svolge con metodo proprio.

La politica non appartiene alla scienza speculativa ma a quella delle scienze pratiche che si

riferiscono all’operare e non al solo comprendere. L’attività studiata è l’azione umana che ha per

oggetto i comandi, le disposizioni, gli ordini: è la scienza dell’agire che considera sistematiche le

azioni umane nell’ambito delle città convergenti verso un unico fine. La scienza politica è una

scienza architettonica, che presiede al coordinamento di tutte le altre discipline che si svolgono in

società. La città è realizzata dagli uomini mediante la ragione. La politica è da considerare nella

prospettiva cristiana dell’ordine quale insieme di rapporti istituzionali della ragione: per questa

la società politica non è vista come una disposizione gerarchica degli individui e delle istituzioni,

seconda una gerarchia, fissata per sempre dalla natura, ma secondo la natura dell’ordine

provvidenziale dell’universo, è considerato come l’ordine voluto dalla ragione per raggiungere i

fini propri dell’uomo, mentre quello naturale è indipendente dalla volontà umana.

L’uomo è l’autore della comunità politica soprattutto per conseguire non solo i beni per

sopravvivere ma quei beni morali che solo la società può dargli e che gli sono necessari per

realizzare compiutamente la sua naturale umanità; per vivere bene. Rispetto ad Aristotele però

la vita beata è data del possesso dei beni spirituali propri della fede cristiana e conseguibili solo

nell’ambito di una vita condotta secondo i dettami della Chiesa.

La perfetta sufficienza della vita è un valore positivo, un bene morale che si può conseguire

nella città ma non è la ferità che è data solo dalla partecipazione al bene assoluto che è Dio ,

possibile solo sul piano dei valori spirituali, distinti da quelli della civitas.

S. Tommaso definisce l’uomo un animale sociale, anziché un animale politico, per

sottolineare che il problema della felicità e del sommo bene riguarda solo l’individuo come tale

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senza riferimento allo Stato, mentre per Aristotele la perfezione consiste nella partecipazione

come libero alla vita della polis. La civitas non ha semplicemente valore strumentare, è fata per

realizzare la natura umana (la civitas ha fondamento nei principi e valori della sua umanità). La

naturalità della civitas non significa che sussiste come unità organica; è si un tutto, ma non è

una unità assoluta (unità di composizione, connessione e contin.fis. dei corpi (?p.35), ma è una

unità d’ordine. Nell’unità assoluta il movimento del tutto è anche quello delle parti, nell’unità di

ordine le parti hanno una sfera d’azione distinta dal tutto. Per questa non è organica l’unità fra

individuo e società, ma una connessione d’ordine fondata sulla natura sociale dell’uomo. Il

movimento dell’uomo non è determinato dalla società me è vero il contrario: il movimento della

società è prodotto da quello degli individui. La libertà è caratteristica essenziale dell’uomo

(autodeterminazione razionale): l’uomo ritrova in sé, nella sua libertà la sua origine (liber est

causa sui): tutto promana da lui, anche la comunità politica.

La civitas ha un suo specifico fine, il bene comune, distinto dai beni particolari dei singoli

sono (Ib. p.36 equivalenti in S. Tommaso) civitas, respubblica e communitas. Il bene comune è

l’ordine della pace, a cui devono riferirsi i provvedimenti del governo. La pace si può conseguire

se sussistono nella comunità più persone che dirigono i propri comportamenti verso il bene

comune, altrimenti la società si disarticola in fazioni contrapposte.

Come il corpo è guidato da una forza che dirige verso unicofine le funzioni dei singoli

organi, così nella società ci deve essere una forza politica che coordina le attività dei singoli per

il bene comune. Nella comunità tale forza deve sussistere come nel corpo individuale.

Il potere è quindi connaturato alla comunità ed è finalizzato al bene comune, che detta i

criteri con cui deve essere amministrato, i principi che lo delimitano o limitano perché il potere

non è superiore ala comunità, ma ne dipende.

Volontà – ragione. S. Tommaso riconosce alla ragione una preminenza sulla volontà; la

obbligatorietà scaturisce dalla sua razionalità, non risiede nella volontà e nel comando del

principe, che conferiscono alla norma il carattere formale di positività e non solo quello

sostanziale di giuridicità. Se i comandi del principe non fossero conformi ai principi della

ragione sarebbero manifestazione dell’arbitrio del principe (il potere ha un limite nella ragione).

Legge: “ordinamento della ragione in vista del bene comune, promulgata da colui cui spetta il

governo della comunità”. Poiché questo bene comune riguarda l’intera comunità, la legge deve

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essere emanata o dalla comunità o dal legittimo rappresentante. La prassi costitutiva dei regni

medioevali prevedeva che tutti devono approvare ciò che riguarda tutti.

La legge positiva ha come presupposto l’ordine che regna nella natura e nella creazione.

Precedono la legge umana dapprima la legge eterna che si identifica con la ragione di Dio e

sovrintende il creato; la legge divina, manifestata agli uomini con la Rivelazione. La legge

naturale, che si manifesta nella spontanea inclinazione dell’uomo ai fini razionali. Con la legge

naturale l’uomo distingue male e bene, ha il sentimento della giustizia e può definire i precetti

del giusto naturale. Essa è la prima mediazione tra Dio e l’uomo; ad essa partecipano tutti e su

essa si fonda la loro umanità, l’autonomia e la libertà. La legge naturale sancisce i diritti della

personalità, il diritto alla conservazione, alla propagazione della specie, alla formazione della

famiglia e all’educazione dei figli, a ricercare la verità, a vivere in società uguale per tutti ed

immutabile, trova diverse formulazioni e applicazioni giustificate dal fatto che la legge divina ha

in alcune (?disp. modif.e perfez.p.38) la legge naturale; gli uomini vi hanno aggiunto norme di

particolare utilità; a volte la ragione interpreta non correttamente la legge naturale (la

modificazione della legge naturale si riferisce solo ai precetti secondari, alle disposizioni con cui

si applicano ai casi particolari principi e norme del diritto naturale. La legge umana si distingue

in diritto delle genti e diritto civile, derivante dal diritto naturale: il primo riguarda la

convivenza in generale, il secondo comprende disposizioni necessaria per la vita comune nella

singola società politica.

La legge umana è mutabile per rispondere ai problemi particolari (ma un continuo

mutamento non giova al conseguimento del bene comune, poiché l’efficacia della legge è legata

all’abitudine dei cittadini ad obbedirle e alla consuetudine che l’avvalora). Essa è altresì

generale, deve rivolgersi a determinate categorie di personale avendo sempre di mira il bene

comune; deve poi essere conforme alle condizioni in cui si trovano gli uomini cui è destinata. La

legge umana è necessaria perché gli uomini non si adeguano spontaneamente ai precetti

razionali della legge naturale, potendo l’uomo essere distolto da vizi e passioni. La legge ha

perciò la funzione, mediante la sanzione di richiamare e anche costringere l’uomo a seguire le

norme che hanno per fine il bene comune.

La legge umana non può contraddire la legge naturale e leggi che contrastano col diritto

naturale non obbligano più la coscienza all’obbedienza anche se l’individui, per il disordine che

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può derivare dalla mancata osservanza, però rinunciare a questa direzione e obbedire alla legge

iniqua. Rimane fermo però che il cristiano può disobbedire alle leggi contrarie a quella divina.

La teoria costituzionale a forma di governo che consenta di far valere nei confronti dei

governanti (? P. 40, prec. lim, giur.), affinché il potere non violi le leggi, non diventi oppressivo

per il popolo e non si trasformi in tirannide (Tiranno è non solo chi governa anteponendo il suo

interesse a quello generale, ma anche chi ha conquistato il potere con la violenza, diventanto

titolare della “summa potestas” contro le leggi che regolano la nomina della suprema

magistratura).

Come già per Giovanni di Solisbury, la tirannide è la pessima fra forme di governo (trionfo

della passione sulla ragione). La rivolta nei confronti del tiranno è più che un diritto un fatto per

l’intollerabilità dell’oppresso che determina una invitabile reazione dei sudditi. Ma la rivolta

rimane sempre grave per il turbamento dell’ordine e della pace; il risultato di essa è poi dubbio.

Il diritto di resistenza deve essere però sottoposto ad una procedura giuridica-

costituzionale, trasformando in un legittimo intervento degli organismi che rappresentano le

comunità. La forma di governo che assolve queste esigenze è la costituzione mista (?p. 40

armon…).

La costituzione mista è la costituzione politica per eccellenza caratterizzate dal principio che

il potere è coartato, disciplinato da leggi della comunità, a differenza di quella regola che

conferisce al monarca “plenaria potestas”. Questa disciplina è fatta valere dagli organismi che

rappresentano la comunità e in ultima istanza dal popolo. Le comunità minori possono rivolgersi

a quelle superiori affinché rimuovano il governatore tiranno (diritto di rimostranza). Il diritto di

deporre il principe è giustificato sulla del patto intercorso fra popolo e principe in occasione

delle sua elezione: violando il patto il principe scioglie contemporaneamente i sudditi dal vincolo

di fedeltà.

Il problema del controllo del potere politico ha un preciso rilievo costituzionale: la

superiorità, la sovranità delle leggi nei confronti di chi detiene il potere; il diritto della comunità

di eleggere i suoi governanti; la volontà e il consenso della comunità e del popolo come vera

fonte delle leggi positive; la libertà e indipendenza degli individui e delle comunità, fondate sulla

legge di natura sono le tesi fondamentali della concezione tomista dell’ordine politico.

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4. Dante, politica e religione fra Chiesa e Impero

Di P. Armellini

1.4 - DANTE (De Monarchia 1311)

Sin dall’inizio Dante indico i tre punti principali che saranno oggetto dei tre libri: se

l’Impero universale sia necessario per il benessere del mondo; se il popolo romano se ne sia

attribuito con diritto l’ufficio; se l’autorità imperiale derivi direttamente da Dio o invece dal suo

ministro o vicario, il Papa.

Pur rappresentando, con la sua difesa della indipendenza imperiale di fronte al controllo

papale, il punto di vista opposto a quello di S. Tommaso e di Giovanni di Salisbury, per quanto

riguardo i principi generali l’accordo è totale, con essi concepisce l’Europa come un’unica

comunità cristiana governata da due autorità volute da Dio, il sacerdotium e l’imperium,

rappresentate dalle due grandi istituzioni medioevali, la Chiesa e l’Impero.

La filosofia politica di Dante è stata messa in relazione tanto col suo esilio da Firenze quanto

con le dispute faziose e l’interminabile dissenso nell’Italia del tempo tra i partiti del papa e

dell’imperatore, che non gli hanno vedere speranza di pace se non nell’unità dell’Impero, sotto

l’autorità universale dell’Imperatore. Non imperialista per educazione, Dante lo è per il suo ideale

di pace universale. Per lui la politica papale, con la politica francescana sempre pronta a

mediare fra una fazione e l’altra, era fonte di una discordia infinita. Così scrive il suo trattato per

dimostrare che il potere imperiale deriva da Dio ed è quindi indipendente da quello

ecclesiastico. Il potere spirituale è ammesso ma come tutti gli imperialisti si ricollega a Gelasio

secondo cui i due poteri sono riuniti in Dio solamente; per cui sulla terra l’imperatore non ha

nessuno a lui superiore.

Negli studi rinnovati sulla legge romana si trova poi l’idea che l’impero medioevale

continuatore di quello romano, è l’erede delle autorità universale di Roma.

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Come Tommaso, egli inquadra la sua teoria della comunità universale entro i principi

aristotelici. ari ha mostrato che ogni associazione umana esiste per un fine e che ogni città-stato

è superiore alle famiglie e ai villaggi.

Nell’ideale politico Dante si stacca nettamente dalla concezione albertino-tomista assunta in

generale per risolvere il problema della realtà. Dante, come cristiano, sa che il fine

soprannaturale e del tutto eminente su quello naturale; ma affascinato dall’Etica nicomachea ha

voluto tenere distinti i due ordini e, trasportato dalla sua passione politica, ha voluto dare un

senso alla vita storica dell’uomo, giustificando l’ideale di una unità imperiale in cui tutti gli

uomini si trovino uniti in un mondo di pace. L’uomo deve vivere nel tempo e nello spazio, e

questa sua vita storica ha un senso e un valore che il cristianesimo non ha annullato:

perfezionare la natura umana in tutta la sua capacità; natura che la soprannatura non ha né

eliminato né diminuito. Il regno dei cieli non ha annullato il regno sulla terra; entrambi

ciascuno nel suo ambito sono assoluti, e l’uomo vive in sé queste due realtà senza dover

annientare l’una per conquistare l’altra.

Così Dante distingue due fini ultimi dell’uomo, cioè due fini ciascuno dei quali sia ultimo

nel proprio ordine. Questa dualità dei fini si spiega con la dualità inerente alla natura umana :

«Come tra tutti gli esseri, solo l’uomo partecipa dell’incorruttibilità e della corruttibilità, così,

unico tra tutti gli essere, egli è ordinato a due fini ultimi, di cui uno è il suo fine in quanto egli è

corruttibile, l’altro, invece, in quanto egli è incorruttibile» (III ).

In quanto corruttibile, l’uomo tende, come a suo ultimo fine, alla felicità raggiungibile con

la vita attiva nel quadro politico della città; in quanto incorruttibile, cioè immortale, egli

tende,come suo ultimo fine, alla beatitudine contemplativa della vita eterna. Per conseguire

questi due fini essenzialmente distinti, l'uomo dispone di due mezzi essenzialmente distinti:

«Arriviamo alla prima con gli insegnamenti della filosofia se la seguiamo regolando i nostri atti

secondo le virtù morali ed intellettuali; quanto alla seconda, vi arriviamo con gli insegnamenti

spirituali che trascendono la ragione umana, se li seguiamo regolando i nostri atti secondo le

virtù teologiche, cioè la fede, la speranza e la carità».

Così, da una parte, la felicità in questa vita, quale la possiamo ottenere per mezzo della

ragione naturale, rivelata nell’opera dei filosofi; dall’altra, la felicità della vita futura quale

possiamo ottenere seguendo gli insegnamenti di Gesù Cristo. L'uomo, per essere condotto a

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questi due fini distinti con questi due mezzi distinti, ha bisogno, infine, di due distinti maestri: il

Sommo Pontefice per condurre il genere umano alla vita eterna con l’aiuto della rivelazione, e

l’Imperatore per dirigere il genere umano verso la felicità temporale secondo gli insegnamenti

della filosofia.

Allo stesso modo, quindi, che questi due fini e questi due mezzi sono ultimi, ciascuno nel

suo ordine, questi due poteri sono ultimi e supremi, ciascuno nel suo. Al di sopra dell’uno e

dell’altro non c’è che Dio, il quale solo sceglie l’Imperatore, lo conferma e solo può giudicarlo.

È vero che il Papa è il padre spirituale di tutti i fedeli, ivi compreso l’Imperatore. Questi deve

dunque al Papa il rispetto che un figlio deve al padre, ma è da Dio, non dal Papa che

l’Imperatore riceve direttamente la sua autorità.

(I) Il libro primo, riprendendo l’Etica nicomachea di Aristotele, afferma che

l’essenza specica dell’uomo secondo natura sta nella razionalità e in ciò sta

l’esplicazione della sua natura. Il fine del genere umano consiste nella

realizzazione di una vita razionale, e il suo fine è dunque lo sviluppo delle facoltà

intellettuali dell’uomo. Ciò è però possibile solo nella pace universale, che è il

colmo della felicità umana. Questo avviene solo in un mondo organizzato a

monarchia. Ogni associazione umana esiste per un fine, la felicità che ha bisogno

di un mezzo necessario per raggiungere il fine ultimo dell’umanità. Ogni impresa

collettiva esige una guida ed ogni comunità deve avere un reggitore. Così Dante

dimostra che il genere umano forma nel suo complesso una comunità unica sotto

un unico capo. Il governo di questo Capo sugli uomini è simile a quello di Dio

sulla natura. Come questo è perfetto per la sua unità, così quello per essere

perfetto deve abbracciare nella sua unità tutti gli uomini. Ciò che ha la maggiore

realtà ha la maggiore unità, e ciò che ha la maggiore unità è migliore. Perciò il

genere umano deve di necessità essere retto da un unico reggitore, il monarca

universale, l’imperatore, perché esso, imperando su tutti, è scevro da cupidigie e

può quindi mantenere la perfetta giustizia fra gli uomini, dalla quale derivano la

pace e la libertà. L’impero è dunque quale Roma ha creato e codificato nel diritto

giustinianeo: monarchia, perché solo nell’unità del comando è possibile

l’ordinato sviluppo dei rapporti umani; universale, perché solo nell’universalità è

possibile una pace senza contrasti, non essendovi più nemici. Tutto ciò

Page 30:  · Web viewRimane fermo però che il cristiano può disobbedire alle leggi contrarie a quella divina. La teoria costituzionale a forma di governo che consenta di far valere nei confronti

rappresenta la condizione essenziale perché gli uomini possano pienamente attuare

le capacità intellettuali.

II Il problema è «se sarebbe giustificata l’assunzione della dignità imperiale da parte del

popolo romano». Dante tende a dimostrare che il popolo romano, non ha usurpato l’ufficio della

monarchia e dell’Impero, ma lo ha ottenuto invece a pieno titolo ed è stato chiamato al governo

del mondo dalla Provvidenza, che ha visto in esso il più nobile e il più generoso dei popoli.

La volontà di Dio si manifesta nella storia e la storia di Roma mostra i segni della volontà

divina nella sua elevazione a una posizione di potere supremo. Dante prova la predilezione

divina per Roma ricordando gli interventi miracolosi della Provvidenza nella protezione dello

stato romano e la nobiltà del carattere romano. I romani aspiravano all’Impero non per avidità

di conquista, ma per il bene comune dei vinti come dei vincitori: «Deponendo ogni desiderio

ambizioso, che è sempre contrario al pubblico interesse, e scegliendo la pace universale e la

libertà, questo popolo grande e pio trascura il bene suo proprio per dedicarsi alla salvezza del

genere umano» (II, 5). Il volere di Dio si manifesta infine nelle lotte e nelle battaglie.

L’Impero romano è stato il quinto tentativo storico di impero mondiale ed è stato l’unico

che sia riuscito, dimostrando di essere destinato dalla Provvidenza divina al governo del mondo.

esso è stato infatti aiutato nei particolarmente momenti pericoli, per distanziarsi dai suoi

competitori e sottomettere tutti i suoi rivali.

Riguardo al cristianesimo Dante trae le medesime conclusioni. Gesù ha voluto nascere sotto

l’autorità romana ed essere giudicato da un giudice romano. Se la sua morte non fosse stata

decretata da un’autorità legittima, Cristo non sarebbe stato punito veramente per i peccati degli

uomini e non avrebbe redento il genere umano. Le autorità di Pilato e di Augusto devono essere

state quindi giuste e legali. Con ciò Gesù Cristo ha riconosciuto la giurisdizione universale di

Roma.

III L’intenzione dell’ultimo libro è quella di dimostrare che l’autorità imperiale deriva

direttamente da Dio e quella di confutare gli argomenti dei papisti secondo i quali deriva

mediatamente dal papa. La polemica di Dante è diretta contro la corrente teocratica della

pubblicistica del diritto canonico contemporaneo e contro la loro tendenza a far entrare le

decretali pontificie nei principi di fede.

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Dante fa parte della corrente antiteocratica a carattere imperiale (e non nazionalista come

quella della scuola francese facente capo a Filippo il Bello) e tende a stabilire il concetto della

separazione dei due poteri, negando la subordinazione dell’Impero alla Chiesa; e prosegue

inoltre la tesi che l’autorità dell’imperatore deriva direttamente e immediatamente da Dio. Solo

le Scritture hanno autorità suprema sulla Chiesa; hanno quindi valore gli atti dei concili ma le

decretali appartengono semplicemente alla tradizione che la Chiesa può mutare a suo arbitrio. A

questo punto Dante esamina i luoghi della Scrittura citati come prova del potere della Chiesa

sopra i reggitori temporali e i due precedenti storici della questione, la Donazione di Costantino

e il passaggio dell’Impero a Carlo Magno. Cadono pertanto le prove portate dagli avversari a

sostegno della loro tesi; quella biblica dell’analogia sole (=Chiesa) e della luna (=Impero) la

quale non ha luce propria e la riceve dal Sole; Dante risponde che, se il sole illumina la luna,

non le dà però l’essenza, così come la Chiesa irradia sull’Impero il lume della sua grazia

spirituale ma non ne emana affatto l’autorità temporale che è l’essenza dell’Impero. Nel caso

della donazione di Costantino, Dante dice che si tratta di illegalità perché l’imperatore non può

alienare l’impero (ciò è noto ai giuristi prima dell’autenticità storica del documento). Nel caso

del passaggio dell’impero a Carlo Magno Dante dice che è illegale perché, se il papa non può

avere legalmente il potere imperiale, non può, neppure conferirlo ad altri. Poiché l’uomo

partecipa della corruttibilità a causa del corpo e dell’incorruttibilità a causa dell’anima, egli

tende a due fini: alla felicità in questa vita e alla beatitudine nella vita eterna. Dio ha ordinati e

distinti i due poteri, perché l’uno con la parola di Cristo e con i dettami evangelici guidasse

l’uomo verso la beatitudine della vita futura, e perché l’altro fosse mezzo necessario mediante

ammaestramenti filosofici, al conseguimento della felicità terrena e allo sviluppo delle facoltà

intellettuali nell’uomo ai fini del progresso. Il cristianesimo ha rivelato anche il mondo della

grazia, il regno di Dio, per lo sviluppo e il raggiungimento del quale è in terra il vicario di

Cristo, il Papa. Il Pontefice ha la giurisdizione su tutto quanto è soprannaturale, e la sua potestà è

essa pure monarchia e universale, cioè cattolica, i cui limiti sono segnati dalla finalità stessa del

suo potere esercitato in vista di un fine ultraterreno. E come il papa, in quanto teologo, subordina

a sé l’imperatore quale uomo fra gli uomini, redenti dal sangue di Cristo; così l’imperatore, in

quanto filosofo, subordina a sé il papa quale uomo razionale, naturale, membro fra i membri

dell’impero universale. L’indipendenza dei propri limiti è assoluta, e nessuna autorità, nel proprio

ambito, soffre alcunché sopra di sé.

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Nella conclusione dell’opera Dante dice: «Così dunque è chiaro che l’autorità del monarca

temporale, senza alcun intermediario, discende a lui dalla fonte dell’autorità universale: la quale,

unica com’è nella rocca della sua semplicità, fluisce in molteplici alvei per l’abbondanza della

sua eccellenza» (III, 16). Impero e Chiesa, distinti per i loro fini, sono due autonomi e non

subordinati l’uno all’altro che traggono la loro autorità direttamente da Dio e sono quindi come

due soli. Il fine della Chiesa è spirituale (rinuncia perciò al potere terreno e a ricchezze) essa non

può subordinare a sé il potere imperiale (perciò è Dante condannato nel 1329 dal papa Giovanni

XXII). Lo Stato è un’istituzione necessaria per porre rimedio alla corruzione prodotto dal peccato

originale: il suo fine è assicurare la pace e la felicità in Terra.

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5. Marsilio da Padova, impero, pace e regimi politici

di P. Armellini

MARSILIO MAINARDINI detto MARSILIO DA PADOVA (1280 – 1342) Studia e insegna a

Parigi (rettore nel 1313); scrive nel 1324 il Defensor pacis dedicato a Ludovico il Bavaro. Nello

scontro fra questi e Giovanni XXII Marsilio deve fuggire da Parigi insieme a Jandun e si mette al

seguito dell’imperatore Ludovico il Bavaro. Poi compone il Defensor minor.

Alla maniera di Aristotele, Marsilio concepisce lo Stato come una istituzione naturale che

ha lo scopo di consentire all’uomo di vivere e vivere bene, ossia di raggiungere la felicità. Lo

Stato è come Aristotele una comunità autarchica che sa soddisfare tanto i suoi bisogni fisici

quanto quelli morali. Ma Marsilio intende integrare quella parte della Politica di Aristotele che

discute le cause di rivoluzione e di discordie civili, attraverso l’esame di una causa di discordia

necessariamente ignota ad Aristotele, cioè le pretese del papato ad erigersi a sovrano dei

governanti. Ciò ha prodotto in Europa o soprattutto in Italia una serie di lotte. Per conseguire la

felicità, diventa essenziale la salvaguardia della pace e lo strumento di cui si serva le legge.

Influenzato dall’averroismo latino (di Giovanni di Jandun), che vuol dire assolutismo

naturalistico e razionalismo, Marsilio ammette, si, la assoluta verità della rivelazione cristiana,

ma la stacca completamente dalla filosofia e sostiene con S. Tommaso che le conclusioni della

filosofia possono essere contrarie alla verità di fede -> dottrina della doppia verità, con la

separazione tra ragione e fede irrazionale. Ciò in materia etica ha condotto a tesi secolaristiche

come: a) la teologia non contribuisce per nulla alla conoscenza razionale; b) la felicità si

raggiunge in questa vita senza l’aiuto di Dio; c) le società umane dal punto di vista razionale

sono autonome pienamente; d) la religione ha conseguenze sociali che prescindono dalla sua

verità e può e deve perciò essere regolata dalla società e dallo Stato.

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Lo Stato è una specie di “essere vivente” composto di parti con ciascuna funzioni vitali. La

sua salute o pace sta nella partecipazione e nella opera di ciascuna parte . Il contrasto nasce

quando una di esse compie male la sua funzione o interferisce con quella di un’altra parte.

Come anche Aristotele, Marsilio fa derivare la città dalla famiglia e considera la città una

“comunità perfetta”, cioè che può offrire tutto quanto è necessario ad una vita buona. Vita buona

ha doppio significato: in questo mondo il bene consiste nello studio proprio della filosofia per

mezzo della ragione; il bene nel mondo futuro dipende dalla rivelazione e deriva solo dalla fede.

La ragione mostra il governo civile è necessario come mezzo di pace e di ordine; ma c’è bisogno

della religione anche in questa vita.

Le classi o parti che cooperano alla formazione della società sono i contadini e gli artigiani

che procurano i beni materiali; e i funzionari ed i sacerdoti che costituiscono in un senso più

stretto e preciso lo Stato.

La classe del clero è particolarmente difficile da definire; ma tutti gli uomini (cristiani e

pagani) hanno convenuto che deve esistere una classe particolare che si dedichi al culto di Dio.

La differenza fra sacerdozio cristiano e pagano è che in materia di fede il primo è vero,

l’altro non lo è.

“Funzione del clero è di conoscere e di insegnare quelle cose che secondo la Scrittura si

devono credere, fare, o evitare per ottenere salute eterna e sfuggire al male” (I, 18).

Netto è il contrasto con S. Tommaso che tende ad armonizzare ragione e fede; forte è la

tendenza a limitare poteri e doveri spirituali anche rispetto a Giovanni di Jandun.

La fede, che è necessario mezzo di salvezza eterna, dal punto di vista secolare ha perso ogni

valere, perché, essendo irrazionale, non può essere presa in considerazione come i mezzi ed i fini

razionali. Essendo allora il clero una classe accanto ad altre classi, che insegna una verità che è

alogica (la vita futura), ne deriva che il controllo del clero da parte dello Stato è simile al

controllo dell’agricoltura o del commercio. La religione è un fenomeno sociale e come tutti gli

altri interessi umani è soggetta alle stesse norme sociali.

La legge. Nello Stato, autosufficiente e particolare, il potere decisivo, per evidente influsso

delle contemporanee costituzioni cittadine, spetta alla comunità, la quale, in veste di umano

legislatore, lo esercita legiferando e deliberando nel senso indicato dalla sua parte prevalente

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per quantità e qualità. Ora per Marsilio la legge divina è un comando di Dio indipendente dalle

deliberazioni umane in vista del fine migliore nel mondo futuro.

“La legge umana è un comandamento della totalità dei cittadini, o della loro parte

prevalente, che deriva dalle deliberazioni di coloro che hanno il compito di fare la legge, circa gli

atti volontari di esseri umani da farsi o da evitarsi in questo mondo per ottenere il fine migliore o

certe considerazioni desiderabili per l’uomo in questo stesso mondo.

intendo un comandamento ciò, la cui trasgressione viene colpita in questo mondo da una

penalità o da una punizione imposta al trasgressore” (I, 4). Ora nella tradizione del pensiero

politico e giuridico, confluita nel diritto romano e poi nel Medio Evo nel diritto canonico,

concetto cardine era quello di legge naturale, ricondotta ad un origine divina. Per Tommaso la

legge naturale è la stessa legge divina che regala con perfetta razionalità l’ordine e il corso del

mondo e ad essa devono ispirarsi sia le leggi civili sia la legge religiosa che indirizza l’uomo al

suo fine soprannaturale. La legge naturale è al tempo stesso istituto e ragione perché comprende

sia le inclinazioni che l’uomo ha in comune con gli altri esseri naturali sia in quella razionale,

specifica dell’uomo. Questa interpretazione non viene mai messa in discussione nel Medio Evo.

La discussione verte invece sull’autorità che incarna meglio o più direttamente o

eminentemente la legge naturale, cioè sul problema se questa autorità sia quella del Papa o

quella dell’Imperatore.

Da ciò la grande lotta fra il papato e l’impero.

Dalla teoria delle «due spade» della quale, verso la fine del V secolo, il papa Gelasio I si

serviva per rivendicare l’autonomia della sfera religiosa nei confronti dell’autorità politica, il

papato era passato gradualmente a sostenere la tesi della superiorità assoluta dal potere papale

su quello politico e della dipendenza di ogni autorità mondana da quella ecclesiastica

direttamente ispirata da Dio (vedi Innocenzo III – 1189 – 1216) -> Egidio Colonna in De

ecclesiastica protestate (1302): non solo l’autorità politica, ma ogni possesso e ogni bene deriva

dalla Chiesa e attraverso di essa; e la Chiesa s’identifica col Papa, che diventa perciò la causa

unica e assoluta di tutti i poteri e beni. Giovanni di Parigi (1269 -1306) in De protestate regia et

papali negava la plenitudo potestas al Papa e rivendicava agli uomini il diritto della proprietà,

attribuendo al Papa solo la funzione di un amministratore responsabile dei beni ecclesiastici.

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L’originalità di Marsilio sta nel carattere positivo del concetto di legge come «scienza o

dottrina o giudizio universale di quanto è giusto e civilmente vantaggioso e del suo opposto» (I,

10, 3); ed è «un precetto coattivo legato ad una punizioni o ad una ricompensa da attribuire in

questo mondo» (I, 10, 4). Perciò:

a. Ciò che è giusto o ingiusto, vantaggioso o nocivo per la comunità umana non è suggerito

da un istituto infallibile posto nell’uomo da Dio né dalla stessa ragione divina, ma giudicato

dalla ragione umana, creatrice del diritto; -> passaggio del vecchio al nuovo giusnaturalismo,

per cui è attribuita alla stessa ragione umana il giudizio su ciò che è vantaggioso o nocivo.

b. la limitazione di concetto di legge è data non dal semplice giudizio della ragione (che è

solo scienza) ma dal quel giudizio che è diventato precetto coattivo perché è stato collegato ad

una sanzione -> positivismo giuridico. Per questo motivo il compito di Marsilio viene

autonomamente limitato alla considerazione «di quelle sole leggi e governi che derivano

immediatamente dall’arbitrio della mente umana» e alla loro istituzione (I, 12, 1).

Da questo punto di vista il solo legislatore è il popolo. Esso deve essere considerato come

«l’intero corpo dei cittadini oppure la parte prevalente di essi che comanda e decide per sua

scelta o per suo volere, in un’assemblea generale, in termini precisi, che certi atti umani devono

compiersi ed altri no, sotto pena di penalità o di punizione temporale» (I, 12, 3).

Marsilio definisce legge un precetto coattivo, legato ad una punizione o a una ricompensa

da attribuire in questa terra, ossia ad una sanzione, negando la nozione di legge a quella sanzione

e alla sua applicabilità immediata, Marsilio la restringe all’ambito umano.

La legge divina è anch’essa sanzionata, ma da premi e castighi fuori dal tempo, in una vita

ultraterrena e si traduce in un mero dovere di coscienza e non in un obbligo giuridico. Perciò le

pretese del papato e della Chiesa romana appaiono solo come fonte di disordine e minaccia per

la tranquillità della politica civile. Una legge è tale in quanto la emana una volontà che ha il

potere di farla rispettare, comminando pene, quando la legge è violata. Il compito di istituire le

leggi spetta al popolo, nel suo intero o nella sua parte prevalente.

Con il termine “parte prevalente” Marsilio intende riferirsi non solo alla quantità ma anche

alla qualità delle persone che costituiscono la comunità che istituisce la legge; nel senso che la

funzione legislativa può essere conferita ad una o più persone, per quanto mai in senso assoluto

ma solo relativamente, e fatta salva l’autorità del legislatore primo che è il popolo. La parte

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qualitativamente migliore di esso riguarda i detentori delle qualità migliori, i quali hanno

maggior peso. Marsilio non pensa quindi che ciascuno debba contare per uno. La parte del

potere è il popolo che può decidere di affidare il compito di governare ad un principe dotato

della forza capace di assicurare la pace, fondata sul rispetto delle leggi. La parte esecutiva e

giudiziaria (principatus) è quindi eletta e nominata dal corpo dei cittadini (legislator).

La elezione avviene secondo le consuetudini di ciascun stato; l’autorità dell’organo

esecutivo deve essere esercitata in conformità alla legge e i suoi doveri e poteri sono determinati

dal popolo, che deve controllare che ogni parte dello Stato compia le sue funzioni per il bene del

tutto e se non ci riesce è destituito.

Marsilio è a favore di una monarchia elettiva ma qui egli pensa più ai comuni che

all’impero. Inoltre l’esecutivo deve essere unificato e supremo di modo che il suo potere sia

superiore a quello di ogni fazione; deve infine procedere unitariamente nel fine di amministrare

la legge. Senza ciò ogni contrasto e disordine sarebbe inevitabile. La migliore forma di governo è

fondata sull’elezione; al di fuori di essa non c’è potere legislativo autorizzato a usare la forza.

3 Secondo Dietro: il conciliarismo.

Alla legge stabilita dal popolo devono essere tutti sottoposti, anche i chierici; pertanto la

pretesa del papato di assumere la funzione legislativa non è che un tentativo di usurpazione che

non produce e non può produrre altro che scissioni e conflitti. La funzione della Chiesa e dei

sacerdoti è puramente spirituale e consiste nel «conoscere ed insegnare ciò che si deve credere,

fare, evitare per ottenere la salute eterna».

In casi di contrasti su queste materie di fede l’autorità suprema è non il Papa ma il Concilio

che rappresenta la comunità dei cristiani e deve essere convocato nelle debite forme, cioè in

modo che sia in esso presente o direttamente o per delega «la parte prevalente della cristianità»

(II, 20, 2 sgg). I cittadini vi figurano in genere come membri di due corporazioni dei loro

rispettivi stati e della chiesa universale.

Nulla in Marsilio giustifica questa doppia cittadinanza. Per lui ogni provincia cristiana deve

scegliere, con la guida dei governanti, (p. 64 c…) in proporzione al numero e alla qualità della

sua popolazione. Essi sono sia laici che religiosi, di vita moralmente provata e dotti nella legge

divina. Essi si radunano in un luogo adatto e decidono di tutti i capi lasciati dubbi dalla Sacra

Scrittura e di ogni argomento di fede e di prassi religiosa. I loro decreti vincolano tutti i credenti

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e in particolare i sacerdoti. Ma il concilio generale dipende dal governo secolare perché è

convocato con la sua cooperazione e le sue decisioni devono poggiare sulla forza fornita dagli

Stati. Le tesi di Marsilio saranno condannate dalla Chiesa nel 1327.

Il risultato è inutilità del papato e del suo vescovato universale.

Marsilio così nella seconda «dictis» dell’opera conduce una interminabile polemica contro

gli scrittori curialiti al fine di scardinare il tradizionale sistema politico ecclesiastico dell’età di

mezzo con una triplice operazione: a) separando la gerarchia sacerdotale dall’«ecclesia fidelium»;

b) identificando quest’ultima nella stessa società civile in quanto comunità di credenti, ed

affidando ad un democratico “legislator fidelis” l’amministrazione degli affari religiosi;

c) riducendo infine il sacerdozio al rango di una semplice funzione tecnica al servizio dei

singoli Stati. Il risultato ultimo di questo disservizio spietato è la dimostrazione dell’inutilità del

papato e del «universalis episcopatus».

4) Defensor minor.

Il radicalismo innovatore di Marsilio ha il limite di non ammettere il definitivo frantumarsi

della repubblica cristiana in un pluralismo di chiese nazionali, e cerca nell’istituto del concilio

ecumenico l’espediente atto ad assicurare all’universalità dei credenti l’omogeneità almeno della

suprema amministrazione ecclesiastica. Questo indirizzo si accentua nella sua opera più tarda

Defensor minor (1341-42) ove la preoccupazione di risolvere anche il problema tecnico

dell’autorità competente a convocare il concilio, evitando sempre il ricorso al pontefice, spinge

Marsilio a riesumare l’ideale dell’Impero romano-germanico e a limitare quindi il particolarismo

politico sostenuto nel trattato maggiore.

Opere politiche dopo il 1330:

- Opus

- Dialogus inter magistrum et dixepolum

- De imperatorum et pontificium potestate

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6. Nicolò Machiavelli fra principato e repubblicadi Paolo Armellini

Il secolo XVI inaugura la storia del pensiero politico moderno attraverso autori che prendono in

considerazione alcuni fondamentali fondamenti storici, come la formazione dello Stato moderno,

nella forma prevalente dello Stato assoluto. Le monarchie assolute francese, spagnola ed inglese

sono legate al processo di accentramento e potenziamento del potere statale direttamente

proporzionali al livellamento dei ceti feudali, che costituivano nel medioevo e nell’antico regime

centri autonomi di potere sempre più esautorati anche grazie alla formazione di una burocrazia

direttamente dipendente dal sovrano. Scompaiono progressivamente le immunità delle classi

privilegiate, la indipendenza dei Parlamenti, gli Statuti corporativi di arti e mestieri, che

costituivano limitazioni del potere centrale del sovrano. Questo tende ad identificarsi sul proprio

territorio con la Nazione e con lo Stato, sempre più emancipato da matrici ecclesiastiche. La

Riforma Protestante aveva spezzato l’unità religiosa dell’Europa, dando altresì luogo a lotte e

guerre di religione.

Comincia una riflessione sulla politica intesa come campo d’azione pratica sempre più sganciata

dalla morale e dalla religione.

Espressione di una nozione di politica come spazio autonomo della vita associata è

N.Machiavelli (1469-1527), partecipe attivo della vita politica fiorentina, prima come segretario

della Signoria incaricato di presiedere alla seconda Cancelleria e poi come incaricato di missioni

diplomatiche presso il Papa, l’imperatore e Cesare Borgia. Cacciato Piero dei Medici, fu

proclamata la Repubblica fiorentina che venne sconfitta dalla Lega Santa guidata da Giulio II

contro Luigi II re di Francia. Fu restaurata la Signoria medicea a Firenze e nel 1513 Machiavelli

scrisse “Il Principe” per Lorenzo duca d’Urbino.

Nel 1519 terminò i “Discorsi sopra la prima decade di Tito Livio”, nel 1520 “Dell’arte della

guerra” e infine la “Istorie fiorentine”.

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L’Italia di allora era divisa in cinque principali Stati ( Ducato di Milano, Repubblica di Venezia,

Signoria di Firenze, lo Stato Pontificio, Regno di Napoli), che subivano continue invasioni

straniere ma risentivano del processo di formazione dello Stato moderno, accentrato e laico,

anche se in base regionale e non nazionale. Esempio maggiormente ammirato da Machiavelli è

quello di Cesare Borgia, che risultò essere la più ambiziosa tirannide locale orientata ad una più

vasta unificazione territoriale dell’Italia centrale. Esso si contraddistinse anche per un’ardita

iniziativa individuale.

La divisione e l’equilibrio degli Stati italiani occupati dagli stranieri impedirono quella

unificazione tanto agognata con sentimento sinceramente patriottico da Machiavelli, che lamenta

le discordie intestine, la devastazione operata da condottieri e truppe mercenarie nei confronti di

una Italia ormai preda di invasori stranieri.

Il rinnovamento civile di essa è visto da Machiavelli in un umanistico ritorno ai principi, inteso

da lui come una comunità storica determinata, dalle cui origini storiche si possa trarre la forza

necessaria per superare il presente desolante. Unità politica del popolo italiano e attività

storiografica sono in lui così strettamente connesse, poiché il rinnovamento della vita associata è

possibile solo sulla base della conoscenza storica del modello antico di Roma per altro mai

imitata. Lettore attento di Polibio, riprende da lui la teoria pessimista del ciclo eterno delle forme

di governo, fatalmente destinate a succedersi nella storia, in cui non esiste affatto il progresso.

Anche per Machiavelli il governo misto può solo ritardare per un certo tempo lo svolgimento

ineluttabile della storia. Male e bene hanno nel mondo eguale quantità, che non può cambiare, per

quanto si possa far prevalere il bene come nel caso di Roma che era riuscita per prudenza

intrinseca a riunire in sé tutte le virtù necessarie al mantenimento della propria potenza contro

quelle della natura e della storia. Nei “discorsi” Machiavelli loda spesso la capacità che ebbe

Roma di richiamare i cittadini alla loro virtù originaria con la creazione di apposite istituzioni,

come quella dei tribuni della plebe e dei censori.

Amante della libertà repubblicana di Roma e di altri governi dell’antichità, egli mostra la

necessità di due istituzioni, quella del legislatore e quella del dittatore . Una repubblica può

essere ben organizzata sin dall’inizio o riformata poi solo se ci si rivolge ad un solo uomo, il

Legislatore, che ha il compito di modellare lo Stato secondo una forma adatta al suo popolo. In

oltre la Dittatura praticata a Roma (non quella di Cesare) fu a Roma una magistratura legale e

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limitata nel tempo al fine di risolvere conflitti e guerre civili determinatesi in circostanze

straordinarie ma senza poter modificare la forma di governo, togliere autorità al Senato o al

popolo, ne’ abrogare antiche leggi ne’ farne di nuove. Roma ha altresì mostrato che in ogni città

agiscono due “umori”, quello dei popolari e quello dei grandi: gli ordini e leggi adatte alla libertà

sono frutto di una contesa e di un contrasto inevitabile, come nel caso delle lotte fra patrizi e

plebei all’inizio dell’età repubblicana, da cui nacque non la fine della repubblica romana ma il

suo potenziamento. In momenti sani i contrasti producono libertà e potenza, ma quando il corpo

sociale è corrotto si incrementa piuttosto il processo di decadenza dello Stato. Nel caso di Roma

il tribunato della plebe aveva risolto in termini di predietà e di mistione la struttura aristocratica

(il Senato) e monarchica (I consoli) dello Stato. Col governo misto repubblicano, i romani

aumentarono il proprio prestigio e la propria potenza. Dal contrasto sociale era scaturito l’istituto

denominato “Tribunato della plebe” che rendeva i plebei partecipi della repubblica con la

funzione di guardia della libertà. Dalle “Storie” di Polibio, Machiavelli aveva appreso che la

“costituzione” è la fonte autentica della grandezza e della miseria degli stati e all’eccellenza di

quella romana erano da attribuirsi i suoi successi nel mondo. Così commenta G.Sasso: <<In

Polibio, il primum è individuato nella costruzione intellettuale degli ordini, e di questa

intellettuale perfezione la storia non è che la conseguenza. In Machiavelli il primum è individuato

nelle cose e nella loro incessabile mutevolezza;[….] nella plastica capacità che la costituzione

deve darsi di controllare all’origine il movimento della realtà e di fare delle novità>>. Ciò si

traduce nel nesso fra costituzione e conquista. Uno Stato decade quando si spezza questa unità

dinamica fra costituzione e realtà sociale, quando gli ordini si chiudono in sé, corrompono le

leggi, non leggono il movimento della realtà.

La storia vista oggettivamente ci fa vedere la sostanza immutabile della natura umana, che

insaziabile e senza scrupoli, avida e interessata, piena di gelosie e mal contento. Gli uomini sono

paurosi, vili, creduloni, inetti e ignoranti, si lasciano sedurre dalle apparenze e dalle impressioni

momentanee, si dimostrano maligni e mediocri tanto nel bene quanto nel male. Da uomo del

Rinascimento egli ritiene che questa condizione non sia frutta del peccato originale e quindi

redimibile, ma sia piuttosto immutabile. Questa condizione priva di valori e dilagante nella

Francia e nell’Italia del Cinquecento e Machiavelli ne prende realisticamente atto, analizzando il

mondo storico in una prospettiva di rigorosa immanenza. Le dinamiche dei fenomeni politici

vanno studiati attenendosi alla “verità effettuale della cosa”, qual è e non quale dovrebbe essere.

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Nel XV capitolo del “Principe” egli dice espressamente che non bisogna disperdersi nel ricercare

come la cosa dovrebbe essere:<< Elli è tanto discosto da come si vive a come si dovrebbe vivere,

che colui che lascia quello che si fa per quello che si dovrebbe fare, impara più tosto la rovina che

la preservazione sua.[…..] Onde è necessario a uno principe, volendosi mantenere, imparare a

poter essere non buono, et restarlo e non usare seconda la necessità>>. È qui dichiarata la

scissione fra essere e dover essere come condizione per affrontare la politica che va analizzata

con gli interessi e le asprezze che la dominano. La storia ci insegna in fondo proprio questo

realismo, che il naturalismo politico di Machiavelli accetta sancendo il distacco della politica

dall’etica. L’uomo non è ne’ buono ne’ cattivo, ma di fatto tende al male. Il politico non potendo

fare affidamento sull’aspetto positivo dell’uomo, deve prendere atto del prevalente aspetto

negativo e quando il sovrano si trova in condizione di dover applicare metodi crudeli e disumani

per creare, conservare e accrescere il potere li deve adottare necessariamente evitando inutili

compromessi. Le vicende storiche insegnano costanti e ricorrenze legate alla natura immutabile

dell’uomo, al mondo storico che è sempre “ad un medesimo modo”.

L’iniziativa di chi sa questo va giudicata in relazione al successo che consegue, all’efficacia che

esplicata, alla forza con cui incidono nel mondo dei fatti. Nel “Principe”, il sovrano che vuole

mantenere il potere <<Non si curi d’incorrere nell’infamia di quelli vizi, senza i quali può

difficilmente salvare lo Stato>>, non deve esitare a essere temuto e a prendere le misure per

essere temibile. L’ideale rimane quello di essere amato e temuto insieme, ma, essendo qualità

difficilmente conciliabili, il principe deve scegliere i mezzi più funzionali all’efficace governo

dello Stato: <<Un principe non può osservare tutte quelle cose per le quali li uomini sono tenuti

buoni, sendo spesso necessitato, per mantenere lo Stato, operare contro alla fede, contro alla

carità, contro all’umanità, contro alla religione>>. Sarà però importante che egli <<paia, a

vederlo et udirlo tutto pietà, tutto fede, tutto integrità, tutto religione>>, per conseguire più

facilmente i propri scopi.

Dovere del principe è:<<vincere e mantenere lo Stato, i mezzi saranno giudicati onorevoli e da

ciascuno laudati>>. Astuzia, fermezza, destrezza, coraggio sono le virtù del principe

simbolicamente rappresentate dalla volpe e dal leone. Prudenza e giustizia, fortezza e

temperanza, magnanimità e liberalità varranno se conformi allo scopo della politica e non più

come virtù in se stesse, e andranno praticate se non ledono l’immagine di forza, di potenza, di

determinazione incontrollabile del principe. Ad esso converrà essere temuto che amato, farsi

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dissimulatore, poiché egli non è tenuto ad essere giusto, grande o magnanimo ma piuttosto

conservare il potere per la convivenza pacifica dei sudditi.

Nel terzo capitolo egli discute, accanto ai principati ereditari, anche quelli misti in cui consistono

le vere difficoltà. I principati nuovi o sono parzialmente tali, come quando parti nuove si

aggiungono al corpo politico e amministrativo dello Stato che li ha conquistati e di cui vanno a

far parte, o sono del tutto nuovi tali cioè da dipendere solo dal principe, a sua volta non

dipendente da altro e in sé completamente sovrano. Inoltre il principato è civile, non nel senso

della genesi, che può essere anche violenta, ma perché come corpo politico richiede un esercizio

del potere non tirannico, essendo per lui la tirannide un potere esercitato senza il consenso di una

parte o di un’altra del corpo sociale (nobile e popolo) e dunque contro ogni sua parte. La

tirannide nella sua pretesa assolutezza nell’esercizio del potere, conduce al supremo dissidio

intero e infine a consumarsi, come nel caso del tiranno Gualtieri di Brienne, duca d’Atene,

descritto nelle “Istorie fiorentine” . Ora per Machiavelli, quanto alla forma politica i principati

possono essere, aristocratici se prevale l’elemento degli ottimati, oppure popolare se prevale

l’elemento del popolo. In questo ultimo caso si distingue il principato in cui il comando del

principe si attua attraverso i magistrati, da quello in cui esso si attua direttamente per sé, che è la

forma suprema del principato. Quindi Machiavelli individua il fattore determinante della politica

nella personalità di chi regge lo Stato.

Ma le istituzioni umane sono precarie come l’instabilità di ogni cosa umana. Il mondo della

natura e della storia sono il campo decisamente rischioso in cui si trova operare il politico, che

deve frequentemente sacrificare la moralità al fine di sconfiggere tale insicurezza. Machiavelli

vede così continuamente intrecciarsi libertà e necessità, volontà soggettiva e determinazione

oggettiva: l’agire libero di un uomo o di una associazione o di uno Stato è limitata dalle

circostanze e dall’azione altrui. Ciò che è la volontà non può prevedere ne determinare è la

fortuna, che non può essere appunto dominata dalla consapevole e libera azione umana che è la

virtù. L’uomo non è ne interamente libero e ne interamente necessitato dalle circostanze ma può

continuamente sfidare la fortuna intesa classicamente come il corso necessario degli eventi, che,

scorrono come un fiume in piena. Questa necessità può essere addomesticata costruendo argini

volti a limitarne la forza distruttiva. Occorre cogliere e modellare le occasioni per questo scopo,

piegando le circostanze attivamente a nostro favore. La virtù vuol dire assecondare con successo

il corso delle cose facendo ricorso alla capacità di interpretare le situazioni esercitando il proprio

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ingegno creativo e la razionalità affrontando infine, gli eventi con prontezza e coraggio. Chi è

irresoluto soccombe invece ad essi. Per metà dunque le cose dipendono dalla sorte per l’altra

dalla virtù o libertà: <<Non di manco perché il nostro libero arbitrio non sia spento, indico potere

essere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci

governare l’altra metà, a presso, a noi>>. Questa virtù consiste nel saper prendere decisioni

tempestive, unitare rotta e atteggiamento non appena ciò venga richiesto dalle circostanze, quali

devono essere conosciute secondo il ciclo necessario che regola gli eventi storici, che è la

condizione per dominarli efficacemente. Se non ci facciamo ingannare da raffigurazioni ideali

della natura degli uomini, ma li conosciamo per quello che sono, possiamo agire con maggiore

accortezza. Osservando gli uomini nella realtà quotidiana, li scopriamo egoisti, volubili, cupidi,

simulatori, infidi e mediocri. Per districarsi nella selva degli egoismi sono però più utili i

suggerimenti della religione pagana che quelli di ispirazione cristiana: <<La nostra religione ha

posto il sommo bene nella umiltà, abiezione, nello dispregio delle cose umane; la religione

pagana lo poneva nella grandezza dell’animo, nella fortezza del corpo, e in tutte le altre cose atte

a fare gli uomini fortissimi>>. Il Cristianesimo ha reso così il mondo debole e lo ha dato in mano

a uomini scellerati, volti ad insinuare la rassegnazione e a scoraggiare lo spirito attivo a favore

della vita contemplativa e all’umiltà.

Machiavelli non si pone il problema della legittimità del potere sovrano, poiché per lui unico

titolo per la sua legittimazione è il possesso di fatto. Lo Stato è prima di tutto autorità, titolarità

dell’imperio e del governo, monopolio del comando e della forza coercitiva necessaria per

esercitarlo. Ma col tempo la pura forza rischia di poggiare su un terreno argilloso poiché essa può

essere rovesciata continuamente se non ottiene il consenso. Forza e consenso svolgono ruoli

complementari, poiché senza la forza le occasioni storiche si vanificano e la virtù resta

inoperante; senza il consenso la forza può essere sopraffatta da una forza armata più potente.

Il prudente relativismo storico di Machiavelli, non offre una ricetta assoluta per la forma

istituzionale più stabile, limitandosi a constatare che la forma normalmente più duratura è lo Stato

misto a base popolare e a struttura sociale gerarchica, fortemente centralizzata ella funzione della

decisione politica e assai disciplinato nel sistema di accesso ale cariche governative. Sparta e

Roma sono gli esempi storici addotti per la felice soluzione della mediazione equilibratrice in

esse attuata, con i loro sistemi istituzionali volti ad equilibrare, mediante opportuni pesi e

contrappesi, le opposte spinte dei gruppi sociali, in particolare quelle dell’aristocrazia e dei ceti

popolari urbani. Senza questo sapiente equilibrio, vincono le lotte di fazione che disgregano i

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sentimenti collettivi alimentati dalle virtù civili, conducendo alla catastrofe la vita dello stato. Le

virtù civili nella vita civile però possono essere meglio conservate se è viva e operante

l’istituzione religiosa, che per Machiavelli è una forza completamente secolarizzata che <<scende

dall’alto, saviamente ammaestrando gli animi e raffermandoli nell’adempimento dei loro doveri

civili>> (Chabod).

Altamente conflittuale è la visione delle relazioni interstatali in Machiavelli, per il quale la

condizione naturale della convivenza tra gli Stati è l’ostilità della loro competizione. La guerra

c’è ed è ineluttabile. Senza deprecarla, che è cosa inutile, occorre combatterla se necessario

attraverso la conoscenza delle sue specifiche leggi. La forza militare assicura così, sia il

mantenimento del potere all’interno sia l’esistenza e la grandezza all’esterno. Buone leggi e

buone armi sono il fondamento del potere interno ed esterno. La debolezza politica e civile non

può essere mai surrogato dalla forza delle armi, ma senza forti eserciti le istituzioni non sono

solide.

La crisi italiana è da addebitare anche alla debolezza delle armi, che è dovuta per un verso al

declino dell’esercito e dell’arte della guerra feudali, e per l’altro all’utilizzazione di truppe

mercenarie. Queste ultime, insieme alle forze di carattere universalistico come la Chiesa e

l’Impero, e quelle di carattere particolaristico, come il clero e l’aristocrazia, sono di ostacolo alla

creazione di uno Stato efficiente, dinamico, espansivo, accentrato e assoluto. Nell’avversione a

tali forze Machiavelli rappresenta esemplarmente gli interessi della nascente borghesia cittadina,

che proprio nella monarchia può trovare il più efficace strumento di affrancamento e di

emancipazione.

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7. J. Bodin (Angers 1529/30 – Laon 1596/7): sovranità

e assolutismo moderno

di P. Armellini

J. Bodin Fu giurista e avvocato a Parigi, dove si trasferì nel 1567 entrando al servizio del re

Enrico III e di suo fratello il duca di Alençan. Fra i suoi scritti vanno ricordati:

1) “Methodus ad facilem historiarum cognitionem” (1566), in cui giudica la storia come la

migliore preparazione alla politica;

2) “Risposta al paradosso del signor Malestroict circa il rincaro d’ogni cosa e il modo di porvi

rimedio” (1568), in cui osservando i fenomeni economici e monetari del suo tempo e

anticipando le tesi del mercantilismo, esamina il fenomeno dell’inflazione che turbava il

commercio di quei tempi indicandone la origine nell’abbondanza dell’oro e dell’argento in

circolazione (miniere di Potosi in America) e dichiarandosi a favore della libertà di

Commercio;

3) “I sei libri della Repubblica” (1576) dove emerge la tesi della sovranità assoluta e dello Stato

di Diritto, affermando che il sovrano non è padrone dei beni dei suoi sudditi e che non può

stabilire imposte senza il consenso degli Stati generali: la sovranità, anche se assoluta, deve

sempre rispettare i diritti di natura e le leggi divine;

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4) “Colloquium Heptaplomeres ad abolitis rerum subtilium arcanis”, pubblicato in edizione

completa solo nel 1857, dove emerge il suo antimachiavellismo e la tesi di un teismo che

polemizza contro gli intolleranti estremisti religiosi

“I sei libri della Repubblica” vengono scritti nel 1576, quattro anni dopo il massacro di San

Bartolomeo, subito dopo il quale Fr. Hotman, giurista mezzotedesco, da Ginevra scrive la

“Franco – Gallia”, pamphlet sulle origini dell’istituto monarchico in Francia. La tesi ivi sostenuta

era gli antichi re di Francia dovevano la loro corona alla elezione e diventavano re secondo leggi

e condizioni stabilite; essi non dovevano essere tiranni detentori di un potere assoluto, eccessivo e

infinito. Il popolo poteva dunque togliere la corona a quei re che non rispettavano tali condizioni.

Una sovranità revocabile non era assoluta ma era un governo misto, che associa i tre tipi di

elementi: regio, aristocrazia e popolare, fungendo l'aristocrazia per diritto di nascita da

intermediario tra l’autorità reale e quella popolare (considerate naturalmente nemiche). Si

costituiva così una diretta polemica contro la preponderanza del potere reale.

La sfida fu raccolta dal partito dei Politiques, un gruppo di intellettuali che, prendendo le distanze

tanto dal partito dei cattolici quanto da quello dei protestanti, sosteneva che il re doveva porsi al

di sopra dei conflitti religiosi, acquisendo il ruolo di arbitro imparziale che protegge tutti i culti.

Ciò non era indifferente al significato e al valore della sovranità in sé considerata. In re deve

prima di tutto rifiutarsi di farsi il capo di un partito e perciò deve tenere vigorosamente nelle sue

mani l’autorità senza farsi condizionare dai fantasmi in lotta.

Nel “Methodus” del 1566 emergono già alcuni caratteri della riflessione bodiniana, legati alla

storia, dove si deve cercare lo spirito delle leggi <<raccogliere le leggi degli antichi… per

operarne la sintesi>> perché <<il meglio del diritto universale si nasconde… nella storia>>. Ed è

proprio attraverso una lunga serie di esempi nutriti di erudizione storica, che Bodin intende

definire il potere sovrano conformemente ai principi dell’assolutismo. Il carattere ipotetico –

deduttivo che sarà usato da Hobbes è estraneo all’impianto argomentativo di Bodin, che fonda

esso invece sulla esperienza fornita dalla storia politica.

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Nei “Sei libri della Repubblica” (1576) egli si propone di chiarire la definizione dello Stato, che

pone al principio della sua opera: <<La Repubblica è un retto governo di più famiglie, e di ciò

che ad esse è comune, con potenza sovrana>>. Ma la validità propria dello Stato risiede

nell’ultima determinazione: nella sovranità che, occorre dirlo subito viene intesa da Bodin come

priva di limite, salvo il caso di quelli che derivano dalla legge di Dio o della natura.

Gli elementi dello Stato sono la famiglia, le cose comuni, il retto governo e la sovranità.

E’ la famiglia e non l’individuo il fondamento dello Stato (si prevedono così le distanze dal

contrattualismo, che vede nei diritti individuali il presupposto del diritto di resistenza). Individuo

e società vanno insieme, poiché esso va sempre considerato nel gruppo sociale primario (la

famiglia). Il suo tipo di rapporto di comando e di disobbedienza è quello su cui si fonda il sistema

di potere della società politica.

Prima distinzione tra tipi diversi di potere è quella fra il potere pubblico e il potere privato (il

primo si esercita da parte del sovrano con la legge). Ora per Bodin il potere non riconosce al di

sopra di sé alcun superiore se non Dio. Ciò significa che per l’uomo non esiste altra autorità che

la ragione, che è sempre conforme alla volontà divina. La ragione, che esercita il suo dominio

sulle passioni, è la prima forma di potere, quella esercitata dall’individuo su di sé disciplinando i

propri sentimenti. Ma l’individuo è inserito organicamente in un gruppo, la famiglia dove è il

padre che esercita il suo potere sui figli = potere come comando. In questo senso, come istituto in

cui si ha la prima forma di comando, la famiglia precede lo Stato.

Secondo elemento dello Stato è ciò che è comune alla famiglia e quanti vivono nello Stato. Esso

consta dei beni, dei servizi e delle disposizioni senza le quali non è possibile organizzare

alcunché di pubblico (patrimonio comune, tesoro pubblico, territorio, leggi, consuetudini,

giustizia). Essa ha bisogno della sfera privata per definirsi (B. critico del collettivismo).

Terzo elemento è la sovranità, come ciò che unifica le persone e le cose e la fa sussistere in una

reale unità che si esprime nell’organizzazione dello Stato. La sovranità è il cardine fondamentale

di esso, dipendendo da esso magistrati, leggi e ordinanze e facendo delle famiglie, dei corpi, dei

collegi un unico corpo politico.

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Il governo retto è il quarto elemento dello Stato. Sovranità e governo retto, per quanto in Bodin

sono distinti, sono intimamente connessi fra loro, poiché il governo giusto presuppone il potere

sovrano e questo non si può concepire senza il governo giusto. Infatti l’essenza dello Stato non è

nel monopolio e nell’esercizio della forza su determinati individui di un territorio: questo è un

fine esercitato anche da altre efficienti organizzazioni come bande di ladri e pirati, che non

formano affatto uno Stato, che in quanto ente sovrano invece fa valere il principio della giustizia.

Ma vediamo da vicino il concetto di sovranità, definita come potere assoluto che non riconosce al

di sopra di sé alcun altro potere, tranne quello divino. In questo senso il potere sovrano ha in se le

ragioni della propria determinazione, di cui risponde solo a Dio. La sovranità è allora concepita in

analogia con la volontà divina, cioè è libera nell’atto di determinarsi e ciò coincide con la sua

ragione. Ma così intesa essa tende confondersi, come potere assoluto, con la forza che attua il

comando formulato dal diritto, cioè per il tramite dileggi. In Bodin così, Stato, potere sovrano e

forza s’identificano e questo significa che la forza trova in sé il principio che la limita e perciò

non sconfina nella violenza, nell’arbitrio, nella licenza: il diritto è allora regola con cui si

disciplina da se la forza, per realizzare l’ordine della coesistenza armonica degli individui

nell’unità statuale.

Lo Stato così ha un’origine storica, in quanto si fonda sul processo storico di depurazione della

violenza sino a che non si esprime la forza che afferma la giustizia, che regola i rapporti tra

vincitori e vinti.

La forza nell’ambito politico è assunta come potere di cui esistono te tipi: sovranità, dominato,

tirannia. Essi sono tutti assoluti, ma solo i primi due sono giusti; il terzo è ingiusto e legittima la

resistenza attiva. Il potere sovrano è la forza che si esprime col diritto; il dominato, caratteristico

delle origini della società politica, trova nella morale e nella religione il suo limite; la tirannia è

il potere senza regole o valori che la limitano, si fonda non sulla forza ma sulla violenza da cui si

genera, e non stabilisce alcun rapporto perché non esistono per essa posizioni autonome ma solo

dei sottoposti all’arbitrio del potere. Il dominio invece nasce per correggere la anarchica

cupidigia innata dell’uomo per le cose degli altri che gli fanno odiare la tranquillità, lo spinge alla

rapina e alla guerra ingiusta.

La sovranità è per Bodin un potere assoluto, perpetuo, indivisibile, intrasferibile, e

imprescrittibile.

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Premesso che per Repubblica non si intende una forma di governo opposta alla monarchia, ma la

intera comunità politica, chi si dota di un governo giusto (non solo perché conforme a certi

principi morali ma anche perché tende a realizzarli pienamente), ad essa è inerente il potere

sovrano: <<La Repubblica senza potere sovrano che ne unisca tutte le membra, e le parti, e tutti i

nuclei familiari e i collegi in un solo corpo, non è più Repubblica>>. La sovranità è dunque la

forza coesiva che assicura il rapporto naturale di comando e di obbedienza, sul modello della

cellula familiare, essenziale alla vita sociale.

Il suo potere è:

1) ASSOLUTO (superiorem non recognoscens), sicché il principe è sciolto dall’autorità della

legge: per quanto la potenza assoluta e sovrana dello Stato non sia un arbitrio incondizionato

(avendo la sua norma nella legge divina e naturale), non v’è potenza sovrana dove non c’è

indipendenza del potere statale da tutte le leggi, e capacità di fare e disfare le leggi. Ma

l’essere dispensato dalle leggi è un attributo solo negativo, che non basta a definire la

sovranità, come mostra il caso romano di Pompeo il Grande. Essa consiste invece nel positivo

potere di dare ai sudditi le leggi, e di abolire quelle inutili e farne di altre. Ciò non può essere

compiuto da chi è soggetto alle leggi oppure da chi ha ricevuto da altri tale potere. Questo

mostra come in Bodin la sovranità sia intesa non tanto nell’attività esecutiva o giudiziale

quanto nella funzione legislativa. <<Il primo attributo del principe sovrano è il potere di dare

leggi a tutti in generale e a ciascuno in particolare, senza il consenso né dei suoi superiori, né

di pari, né di inferiori: perché se il principe è obbligato a non fare leggi senza il consenso di

un superiore, non è altro che un suddito; se di un pari, avrà dei pari grado; se dei sudditi,

siano essi il Senato o il popolo, non è più sovrano>>. Il limite intrinseco del potere sovrano,

la legge naturale e divina, consente di stabilire la regola che il principe sovrano è tenuto ad

osservare i contratti da lui fatti sia coi propri sudditi sia con lo straniero. Egli è garante ai

sudditi delle convenzioni e delle obbligazioni mutue ed è obbligato a rispettare la giustizia in

tutte le sue azioni. Inoltre un principe non può essere spergiuro.

2) PERPETUO: il potere sovrano non può essere limitato nel tempo (in questo caso la sovranità

risiede in chi ha posto tale limite di tempo): <<non potrebbe darsi sovranità di un funzionario

o di un corpo legislativo per un periodo determinato>>. Non può essere limitata nel tempo,

come nel caso delle deleghe di potere, che si possono ritirare dal delegante.

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3) INTRASFERIBILE in quanto delegare ad altri l’esercizio della sovranità significa

spogliarsene in modo definitivo.

4) e 5) INDIVISIBILE e IMPRESCRITTIBILE, in quanto attiene all’unità dello Stato, alla

sua esistenza; non può essere perduta per il mancato esercizio di alcune prerogative per un

certo periodo di tempo. Imprescrittibile: non può essere soggetto a prescrizione.

Alla attività legislativa del potere sovrano si connettono gli altri poteri dello Stato:

a) dichiarare la guerra e concludere la pace;

b) esaminare in appello i giudizi della magistratura;

c) nominare e destinare gli ufficiali più alti dello Stato;

d) concedere grazie e dispense dalla legge;

e) imporre tributi e togliere tributi;

f) fissare il valore legale della moneta;

g) imporre ai sudditi il giuramento di fedeltà.

La sovranità rivendica il monopolio della produzione delle leggi, di cui si afferma la superiorità

rispetto alle altre norme giuridiche, come quella della consuetudine, che, per quanto aventi valore

giuridico, devono rimanere nei limiti che il potere sovrano fissa con l’emanazione delle leggi

statali. Da questo p.d.v. le autonomie della società aristocratico – feudale devono essere

coordinate ora nell’ambito della legislazione emanata dal sovrano che è sottratta ai

condizionamenti di essa.

I rapporti fra monarchia e gli stati generali: i monarconachi affermavano il diritto degli Stati

generali di deliberare leggi e di eleggere lo stesso re; la teoria della sovranità di Bodin dimostra

che gli Stati generali non possono rivendicare nessun potere autonomo nei confronti della

monarchia. Gli Stati generali possono informare il re sulla situazione del paese e devono essere

informati dal re sui provvedimenti richiesti dalle esigenze del paese; possono e devono poi

avanzare proposte. Essi sono il necessario movimento istruttorio per definire i provvedimenti

legislativi. Per esempio, per quanto riguarda i tributi, questi non possono essere posti ad arbitrio

senza il parere favorevole degli Stati generali (solo la necessità richiede ciò per la salvezza dello

Stato).

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I limiti dello Stato.

Il fatto che la sovranità deve riconoscere come invalicabili i principi e i valori del diritto divino e

di quello naturale pone il potere sovrano non come fonte autonoma di principi e di regole i

valori metaempirici di carattere etico – religioso il vero criterio di legittimazione dello Stato.

Stato sovrano come stato costituzionale poiché la gestione del potere politico è sottoposto a dei

limiti. Innanzitutto ci sono le leggi fondamentali, relative all’organizzazione politica dello Stato

francese definitesi nella storia e non modificabili dal re. Altro limite è la proprietà, che è per

Bodin un diritto assoluto per quanto sottoposto alle leggi (quali esso non deriva da una

successione del potere sovrano) si fonda sul diritto divino e naturale. Sulla proprietà si fondano

le reali garanzie di libertà. Perciò la prima forma di garanzia costituzionale è la distinzione fra

pubblico e privato: sul piano pubblico il monarca è sovrano, potendo derogare dalle leggi per

quanto ciò debba avvenire attraverso la procedura stabilita dalle leggi del regno; sul piano privato

re e suddito sono uguali di fronte alla legge.

Bodin afferma l’indivisibilità del potere sovrano, per la quale esso non può appartenere

contemporaneamente ad uno, a pochi o a tutti (egli accetta l’antica classificazione delle forme di

governo in monarchia, aristocrazia, democrazia). In questo senso egli non accoglie la concezione

dello Stato misto, inattuabile perché la sovranità non può che essere o di uno, o di pochi o di tutti.

Lo Stato sussiste solo nel caso che venga assicurata l’unità della decisione e del comando. Per

Bodin è irrealizzabile ciò che pensano alcuni scrittori calvinisti e cattolici per cui il popolo può

eleggere magistrati, disporre delle finanze e concedere grazia, l’aristocrazia può fare le leggi,

dichiarare la guerra e stabilire la pace, fissare i tributi, ed infine un supremo magistrato può

giudicare in ultima istanza. Da ciò si sarebbe determinato un conflitto insanabile tra diversi centri

di potere da cui deriva la guerra civile.

Se si distingue fra costituzione (status civitatis) e governo, il principio della costituzione mista

può essere attuato solo nell’attività di governo, che deve fornire criteri per la determinazione

positiva politica. Essa attua il principio della giustizia ispirandosi a tre criteri, l’aritmetica, il

geometrico e l’armonico. Del governo aristocratico è propria la giustizia distributiva o geometrica

che distribuisce i beni secondo i meriti di ciascuno, del governo popolare, la giustizia

commutativa o aritmetica che tende all’uguaglianza. La costituzione aristocratica si fonda su un

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ordine sociale e civile molto differente con una rigida gerarchia; la costituzione democratica

finisce per misconoscere la diversità delle posizioni sociali e promuove una politica

eccessivamente livellatrice che esplode in lotte civili. Massima stabilità allo Stato per Bodin è

assicurata dalla costituzione armonica, che tempera il governo aristocratico con quello popolare,

riconoscendo ad ogni individuo quanto gli spetta per il suo status sociale, per i suoi meriti e non

eliminando le differenze ma facendo coesistere le tensioni (elimina cioè le contrapposizioni).

Solo la monarchia è la forma di governo che si avvicina di più all’ordine naturale per attuare la

giustizia, essendo capace di fare da arbitro fra i contrasti delle forze sociali: aristocrazia e popolo.

Per Bodin la sovranità non riconosce sopra di sé alcun altro se non Dio. Lo Stato si pone così

come ente sovrano, sopra tutti e anche sopra i conflitti religiosi garantendo una giustizia che deve

rendere conto solo a Dio. Se il monarca deve preoccuparsi solo di questioni che riguardano la

maiestas (l’esistenza dello Stato), egli non deve parteggiare per nessuno. Ciò non significa che lo

Stato sia indifferente in materia di religione che è invece il fondamento dello Stato. Compito del

monarca è mantenerla incorrotta e di evitarne la frattura della sua unità in pluralità di confessioni

(ne andrebbe la sua credibilità).

Il timore di Dio è il primo freno della società politica, l’ateismo è invece il sovvertitore dello

Stato. Rappresentando il cattolicesimo la confessione religiosa che ha permesso l’unificazione

della Francia intorno alla monarchia, essa non può che difenderlo ma senza trasformarsi in un

capo partito per annientare il calvinismo. L’unità di fede può ricostruirsi solo da parte della

sincera professione della vera religione da parte del monarca. Il monarca, con l’esempio, il

prestigio e l’ascendente deve portare i sudditi, senza lotte, all’unità e alla pace religiosa. La fede

non può essere imposta, è un atto spontaneo della coscienza (v. la figura di Teodosio che non

persegue gli ariani ma si limita a manifestare la sua adesione al cristianesimo).

Bodin ritiene proprio di una comunità razionalmente organizzata il principio della tolleranza

religiosa. Alla sua difesa è dedicato il “Colloquium Heptaplomeres ” , in cui sette persone

dialogano rappresentando sette diverse religioni (cattolica, luterana, calvinista, ebraica,

maomettana, pagana, rel. Naturali). Essi stanno a Venezia (considerata prima dell’Olanda sede

della libera religione). Toralbo sostenitore della rel. Naturale, sostiene la tesi che, dato il conflitto

fra la religione positiva, la pace sia possibile solo attraverso un fondamento puramente razionale

di ogni religione. Ciò non elimina la persistenza delle religioni positive, le quali valgono per le

plebi a muoverne l’assenso attraverso i riti e le cerimonie. Ricondotte alla loro sostanza comune

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naturale, le religioni positive si riconoscono solidali ed eliminano i contrasti. L’ideale della pace

è lo scopo prevalentemente politico di Bodin che scrive questa opera nell’epoca delle guerre di

religione. Il principio di tolleranza religiosa è il fondamento dell’ordine politico.

Sabine (pp. 311 – 313) ha notato tre tipi di confusioni in Bodin:

1. La sovranità come potere perpetuo, illimitato e incondizionato di fare ed eliminare leggi è

però limitata dal diritto naturale che impone il mantenimento dei patti e il rispetto della

proprietà (conflitto fra volere sovrano e giustizia eterna);

2. La fedeltà alla legge costituzionale francese e alle antiche usanze, contrasta con il senso pieno

di sovranità del re francese che la esercita attraverso le leges imperii immutabili;

3. La proprietà, considerata diritto sacro naturale appartiene solo alla famiglia, ciò contrasta con

l’assolutezza del potere sovrano, che impone tasse.

Lo Stato sovrano rivendica la sua autonomia nei confronti dei due ordinamenti di carattere

universale con cui si era organizzato politicamente il Medioevo: Impero e Chiesa. La società

politica trova solo nella sovranità il suo principio legittimante. L’Impero cui tutti gli altri principi

non devono sottomettersi, perde la sua caratteristica di ordine politico universale per ricevere da

Bodin la forma di Stato aristocratico a struttura federale depotenziato rispetto agli Stati a

costituzione monarchica. La sovranità assicura autonomia anche dalla Chiesa, di cui però Bodin

riconosce la giurisdizione nell’ambito spirituale,(culto e costume morale informato alla

religione), per quanto vigilata dallo Stato che argina la tendenza del papato a far valere la sua

supremazia spirituale su quella temporale ideale di una Chiesa lontana da interessi mondani e

politici.

I rapporti sociali vengono modificati: il rapporto feudale signore – vassallo (proprio della

stratificazione a compartimenti medievali) viene risolto nell’unico rapporto suddito – sovrano. Le

articolazioni autonome della società feudale, che si vedevano garantite situazioni di privilegio,

non hanno più ragione di esistere. Unica fonte di organizzazione sociale è lo Stato. Tre sono le

associazioni: il collegio (due o tre persone); la corporazione (unione di più collegi); l’universitas

(unione di famiglie, collegi, e corporazioni di una medesima comunità). Bodin difende la libertà

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di associazione, per quanto essa crea problemi fra confessioni religiose. L’istituzionalizzazione

dei corpi e delle universitas avviene attraverso gli Stati generali. Il fatto che il re incarni la

sovranità e detenga il potere assoluto di emanare leggi, non elimina il fatto che egli debba

ascoltare le indicazioni degli Stati generali che esprimono gli interessi e le opinioni del regno.

8. Thomas Hobbes: stato di natura e contratto; lo

Stato assoluto(Westpart, Malmesbury 1588 - Hardwich Hall, Derbyshire, 1679)

di Paolo Armellini

Studiò ad Oxford e si impiegò come precettore presso i Cavendish. A Parigi ebbe rapporti con

Merseme e Gassendi, in Italia fece visita in carcere a Galilei. Pubblicò il "De Cive" ('42) e il

"Levitano" ('51) giudicati composti in favore di Cromwell. Nel 67 la Camera dei Comuni, in un

bill contro il “Levitano” reclamò misure contro gli atei. Re Carlo II difese Hobbes e lo prese sotto

la sua protezione. Nel '70 pubblica "Behemoth", storia dei precedenti della guerra civile in

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Inghilterra; un "Autobiografia" ('72). Altre opere sono il "De Corpore" ('55) e il "De Homine"

('58). Negli "Elementi di legge naturale e politica" ('40) anticipa le sue tesi.

Fra le prime opere pubblicate da Hobbes c'è la traduzione della "Storia della guerra del

Peloponneso" di Tucidide. Si era nel 1628, anno in cui il Parlamento strappava a re Carlo I la

Petizione dei diritti, espressione di un antagonismo fra i partiti in lotta già con Giacomo I e

pronunciatosi con il figlio trascinato in rovinose e improduttive spese militari: il risentimento per

l'eccessivo carico fiscale convogliava le crescenti simpatie della classe media in favore del

parlamento, sempre più opposto al governo. Nell'Introduzione, Hobbes attribuisce un forte risalto

alla funzione educativa della storia; infatti nella sua opera emerge una esemplare tendenza

antidemocratica se non filomonarchica. La storia viene ad occupare il posto tradizionalmente

riservato alla filosofia morale, che viene contrapposta alla concreta efficacia narrazione storica

(istruisca segretamente, non esplicativamente) per le aperte comunicazioni di precetti. La storia

insegna a distinguere onore e disonore (retto o scorretto comportamento) a comportarsi con

prudenza con la conoscenza dei fatti passati. In ciò è presente una profonda avversione per la

retorica; ad Hobbes interessa la scientificità della storia. Egli non ama Dioligi d'Alicarnasso, per

il quale lo scopo della storia è il piacere dell'ascoltare non lo scrivere la verità, egli evita di

raccontare calamità e miserie per magnificare solo i fatti splendidi e gloriosi, narrare

l'attaccamento dello storico alla patria, nascondendo ciò che la disonora. Tucidide è invece

ruvidamente obiettivo con la sua spassionata ricerca della verità storica che segue metodicamente

l'ordine temporale. Fra i temi che colpiscono Hobbes ci sono l'equazione tra democrazia e

demagogia, la preoccupazione per il potere dei retori, basato sull'emotività popolare, la

contrapposizione tra retorica e razionalità in ogni campo.

Fra le letture degli anni '27 - '32 alla Biblioteca Bodleiana ci sono una gran quantità di libri sul

metodo della scienza, la grammatica e le lingue, l'astronomia, la matematica, la geometria, tutte

discipline che denotano la difficoltà della scienza moderna a districarsi dal peso della tradizione.

Il suo ideale di scienza rigorosa interamente deduttiva si nutre della convinzione che i principi

primi, esplicativi del reale si riducano a due, il moto e il corpo. Ciò emerge fin dall'opera del '31

attribuita dal Tönnies a lui, lo “Short Tract on First Principles”, manifesta adesione all’ideale

dimostrativo euclideo (principi, deduzioni, conclusioni, corollari). La trattazione si conclude con

l’abbozzo di una etica: il bene viene identificato con ciò che possiede il potere attivo di attrarre

localmente qualsiasi cosa, per cui è bene tutto ciò che è desiderabile relativizzazione del

concetto di bene (ciò che è desiderabile per uno, non lo è per l’altro). Un legame necessario di

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causa ed effetto determina l’appetito (contro il monilismo che sostiene la tesi che il libero agente,

posti tutti i requisiti, può operare o non operare, che è per Hobbes contraddittorio). Nello “Short

Tract” c’è la riduzione materialista sia del meccanismo della sensazione e della formazione delle

idee sia nel processo di volizione, con conseguenze sul piano teologico, morale e politico.

Hobbes fra il ’34 e il ’37, come accompagnatore dei Covendish, va a trovare Galilei, Marsenne e

Gassendi e concepisce il progetto di scrivere un’opera complessiva, gli “Elementa philosophiae”,

che si articolerà nelle tre successive trattazioni “De Corpore”, “De Homine”, “De Cive”. Tutti

gli aspetti della realtà si riducono a movimenti di corpi e in base ad essi vanno spiegati in una

prospettiva meccanicistico – materialistica unitaria non solo la scienza naturale ma anche la

morale e la politica.

Nel ’40 Hobbes scrive gli “Elementi di diritto naturale e politica”. Per Hobbes esistono solo

sostanze materiali e tutti i fenomeni si riducono a movimenti di corpi legati dal nesso causale

(materialismo meccanicistico). L’anima è anch’essa un ente corporeo. Tutte le conoscenze

derivano dalle sensazioni, che sono modif. prodotte dall’oggetto corporeo sui nostri sensi. I

concetti, sono solo segni o nomi (nominalismo) usati per padroneggiare più agevolmente i dati

sensibili. Il ragionamento è una combinazione o calcolo di tali segni. Bene e male si identificano

con piacevole e spiacevole.

La tesi centrale è questa: bene è ciò che piace, male ciò che dispiace, i una considerazione

puramente fisica di questi termini viene ribadita negli “Elements” la relativizzazione del

concetto di bene. Così Hobbes introduce il concetto di potere: per tutelare la propria

autoconservazione, l’organismo umano deve continuamente ricercare il piacere e la sua causa, il

bene, evitando in pari tempo il dolore e il male, ma ciò implica la possibilità o la capacità di farlo,

appunto il potere. La coscienza della propria potenza o della propria debolezza, o anche la sola

illusione della prima e il timore della seconda, provocano turbamenti emotivi, passioni. Hobbes

tratta anche dell’onore che è il riconoscimento del potere (superiorità).

Tenendo conto che l’uomo agisce condizionato dalle forze materiali che convergono su di lui e

non è più libero di un sasso, Hobbes offre la sua opinione sulla res cogitas, l’anima, la mente, che

è un complesso di concetti, e queste sono traduzioni di movimento. L’intelletto è la facoltà che

collega i concetti ai nomi, mentre la ragione è un meccanismo puramente formale di connessione

di nomi. In nessun caso la ragione è dotata di quel potere normativo assoluto che le deriva da

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un’impostazione metafisica del problema. Hobbes passa così a costruire la sua scienza della

politica che occupa la seconda parte degli “Elements” e viene ripresa ed arricchita nel “De Cive”

del 1642. Esso risponde alla necessità di combattere le teorie che sostenevano che l’azione

eversiva delle forze parlamentari in conflitto con Carlo I. Ma esso appare primo delle prime due

parti degli “Elementa philosophiae”. Nella prefazione Hobbes giustifica ciò dicendo che non

aveva bisogno delle precedenti, fondata com’è sull’esperienza, ciò che contrasta con lo

svolgimento apodittico della scienza da lui auspicata. Fatto è che egli si sentiva ancora

insoddisfatto della prima parte del suo lavoro e riprende l’intera seconda parte della sua opera

precedente.

Stato di natura. Il “De Cive” prende le mosse dalla concezione naturalistica dell’uomo per

consolidare la sua antropologia individualistica che farà da sfondo alla teoria contrattualistica

dello Stato. Non è vero che l’uomo sia quell’animale politico, incline per natura alla società

con i suoi simili, di cui parla Aristotele: basta osservare il comportamento degli uomini e le

loro motivazioni quando si riuniscono insieme il loro movente è l’utilità (interessi comuni

determinano amicizie; nelle relazioni mondane emerge sempre l’esibizione della propria

superiorità e del proprio potere). Conclusione generale: l’unico legame che tiene uniti gli

uomini è l’utile individuale, che è il perseguimento dell’autoconservazione, fine di ogni

organismo meccanicisticamente inteso. Corollario: l’origine delle grandi e durevoli società

deve essere stata non già la mutua simpatia degli uomini ma il reciproco timore. Nella dedica

al “De Cive” Hobbes esclude che l’uomo sia animale naturalmente politico a partire da due

postulati certissimi:

1) La bramosia naturale per la quale ognuno pretende di godere da solo dei beni comuni;

2) La ragione naturale per la quale ognuno rifugge dalla morte violenta come dal peggiore dei

mali naturali.

Con ciò Hobbes non nega che gli uomini non abbiano bisogno gli uni degli altri, nega solo che

abbiamo dalla natura un istinto di benevolenza e concordia reciproche. Qui Hobbes polemizza

con Grozio secondo cui gli uomini anche se traessero alcuna utilità dal vivere comune,

dovrebbero comunque accettarlo per un’esigenza della loro ragione naturale. Hobbes invece nega

l’esistenza di un amore naturale dell’uomo verso il simile, perché ogni associazione spontanea

nasce o dal bisogno reciproco o dall’ambizione, mai dall’amore o dalla benevolenza (Cfr. “De

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Cive”, I, 2). Gli uomini sono quindi tutti diffidenti naturalmente l’uno verso l’altro e disposti a

nuocersi reciprocamente. Ma ognuno ha paura di morire e di morire in modo violento.

Di qui Hobbes passa a descrivere i rapporti tra gli uomini della condizione naturale (stato

naturale), che precede la costituzione dello Stato. Essa è intrisecamente contraddittoria, in cui

l’uomo non può vivere. Hobbes descrive questa condizione come “bellum omnium contra

omnes” dove ognuno è “homo homini lupus”. Ora, lo stato di natura è descritto come assurdo

perché risulti il contrasto con la ragionevolezza dello Stato civile. La passione più caratteristica

nell’uomo è forse la vanità, cioè il piacere di essere stimati e di ricevere onori dagli altri più che

quello di trarne vantaggio, essendo che la vanità è il piacere dell’anima, l’interesse dei sensi.

Entrambe sono due aspetti dell’amor proprio e quindi testimonianza della natura egoistica

dell’uomo: la vanità è l’amore delle proprie capacità naturali, l’interesse è l’amore del proprio

benessere materiale; ma entrambe queste passioni dominanti fanno dell’uomo un essere

naturalmente non socievole, un essere che cerca la compagnia degli altri non per tendenza

naturale e spontanea, ma per soddisfare la brama di onori e il desiderio di beni naturali. Solo una

passione nell’uomo è più forte dell’amor proprio: ed è la paura di morire. Vanitoso ed egoista,

l’uomo è anche vile. La causa del timore reciproco è l’uguaglianza di natura fra gli uomini per la

quale tutti desiderano la stessa cosa, cioè l’uso esclusivo dei beni comuni. In tale condizione di

uguaglianza il più forte non può mai essere interamente sicuro di non venire ucciso dal più

debole. Inoltre la causa di esso è la volontà di danneggiarsi a vicenda o anche l’antagonismo che

deriva dal contrasto delle opinioni e dall’insufficienza del bene. Il diritto di tutti su tutto e

l’ugualmente naturale volontà di nuocersi a vicenda fanno si che lo stato di natura sia uno stato di

guerra incessante di tutti contro tutti. In questo stato non c’è nulla di giusto: la nozione del diritto

e del torto (giustizia ed ingiustizia), nasce dove c’è una legge, e la legge nasce dove c’è un potere

comune. Ognuno ha diritto su tutto, compresa la vita degli altri (“De Cive”, I, 14; “Lev”.13).

Questo “diritto” non ha nulla a che fare con la legge di natura, che è invece l’eliminazione o la

radicale limitazione di esso. Esso è piuttosto un istinto naturale insopprimibile giacché

<<ciascuno è portato desiderare ciò che per lui è bene, e a fuggire ciò che per lui è male

soprattutto a fuggire il maggiore di tutti i mali naturali che è la morte; e ciò con una necessità di

natura non minore di quella con cui la pietra è portata verso il basso>> “De Cive”, I, 7). Ma

questo istinto naturale non è, date le circostanze, contrario alla ragione perché non è contrario alla

ragione di far di tutto per sopravvivere. E poiché il diritto in generale è appunto <<la libertà che

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ciascuno ha di usare delle facoltà naturali secondo la retta ragione>>(lb., I, 7), così l’istinto che

porta ciascun uomo a far tutto ciò che è in suo potere per difendersi e prevalere sugli altri, può

ben chiamarsi un diritto, finché l’uomo, obbedendo alla stessa ragione, non abbia trovato altro

strumento più efficace e più comodo per la propria sopravvivenza. Tuttavia è proprio

dall’esercizio inevitabile di questo diritto che scaturisce la condizione di guerra di tutti contro

tutti. Questa condizione non può realizzarsi e stabilirsi in un modo tale, perché coinciderebbe

ovviamente con la distruzione totale del genere umano. La semplice minaccia potenziale dello

stato di guerra impedisce ogni attività industriale o commerciale, agricola, navale, la costruzione

di case e in generale l’arte e la scienza e pone l’uomo al livello di un animale solitario abbruttito

dal timore e incapace di disporre del suo tempo (“Lev”. 13; “De Cive”, I, 13). Ciò ci deve indurre

a pensare che lo stato di natura è la stessa condizione naturale dell’uomo, quando non vi siano

vincoli artificiali a determinarne altrimenti l comportamento, e in questo senso perdura anche

dopo la costituzione dello Stato, manifestandosi in tutti i campi riguardo ai quali lo Stato non ha

legiferato, nell’ambito della società civile. La tesi della naturale uguaglianza degli uomini in

Hobbes non ha così alcuna radice di tipo religioso o metafisico.

Se l’uomo fosse privo di ragione, la condizione di guerra totale sarebbe insormontabile e

l’abbrutimento o la distruzione della sua specie sarebbero il principio e la fine della sua storia.

Ma la ragione umana è la capacità di prevedere e di provvedere, mediante u calcolo accorto, ai

bisogni e alle esigenze dell’uomo. E’ la ragione naturale che suggerisce all’uomo la norma o il

principio generale da cui discendono le leggi naturali del vivere civile, proibendo a ciascuno di

fare ciò che reca la distruzione della vita o gli toglie i mezzi di evitarla e di omettere ciò che serve

a conservarla meglio (“Lev”., 14). Questo principio è il fondamento della legge naturale.

La legge naturale di Hobbes non ha niente a che fare con l’ordine divino e universale stoico e

medievale. Per Hobbes come per Grozio e il giusnaturalismo moderno, la legge naturale è un

prodotto della ragione umana. Ma la ragione per Grozio è ancora un’attività speculativa o

teoretica, capace di determinare in modo assolutamente autonomo, cioè indipendente da ogni

condizione e circostanza e dalla stessa natura umana, ciò che è bene e ciò che è male in se stesso;

per Hobbes la ragione è un’attività finita o condizionata dalle circostanze in cui opera, è una

tecnica calcolatrice capace di prevedere le circostanze future e di operare in vista di esse le scelte

più convenienti. La “naturalità” del diritto significa la “razionalità” di esso. Ora le norme

fondamentali del diritto sono dirette a sottrarre l’uomo al gioco spontaneo e autodistruttivo degli

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istinti e a imporgli una disciplina che gli procuri una sicurezza almeno relativa e la possibilità di

dedicarsi alle attività che rendono agevole la sua vita.

La fondamentale norma è: <<Cercare e conseguire la pace in quanto si ha la speranza e la

capacità di ottenerla; e quando non si può ottenerla, cercare e usare tutti gli ausili e i vantaggi

della guerra>> (“Lev”. 14; “De Cive”, II,2). Da questa legge principale derivano le altre, di cui la

prima è:

1. <<L’uomo è spontaneo quando anche gli altri lo facciano e per quanto lo giudicherà

necessario alla pace e alla sua difesa, deve rinunciare al suo diritto su tutto e accontentarsi di

avere tanta libertà rispetto agli altri quanto egli stesso ne riconosce agli altri rispetto a sé>>

(“De Cive”, II, 3; “Lev”. 14). Ciò corrisponde al precetto evangelico di non fare agli altri ciò

che non vorresti fosse fatto a te. Esso significa l’abbandono o il trasferimento del diritto

illimitato su tutto e perciò consente di uscire dallo stato di natura cioè dalla guerra continua di

tutti contro tutti e implica che gli uomini stringano tra loro patti con i quali rinunciano al loro

diritto originario o lo trasferiscono a persone determinate. Ma ovviamente i patti per essere

tali devono essere mantenuti: sicché la seconda legge naturale è che

2. <<bisogna stare ai patti, cioè osservare la parola data>> (“Lev”. 15; “De Cive”, III, 1). Dopo

queste Hobbes enuncia altre 18 leggi naturali:

3. è proibita l’ingratitudine;

4. bisogna rendersi utili agli altri;

5. misericordia;

6. limitare le pene al futuro;

7. non bisogna ingiuriare;

8. non essere superbi;

9. essere moderati;

10. non essere parziali;

11. le proprietà comuni;

12. le cose da dividersi a sorte;

13. la primogenitura e il diritto del primo occupante;

14. l’incolumità dei mediatori di pace;

15. l’istituzione di arbitri;

16. nessuno è giudice della propria causa;

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17. è vietato agli arbitri accettare doni dai giudicandi;

18. bisogna avvalersi dei testimoni per la prova dei fatti;

19. non stringere patti con l’arbitro;

20. condannare tutto ciò che impedisce l’uso della ragione, (“De Cive”, III; “Lev”. 15).

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Queste leggi sono anche morali, sono il compendio di filosofia morale. Sono leggi in quanto sono

prescrizioni della ragione: lo sono anche come formule espresse in parole in quanto si trovano nelle

Sacre Scritture come precetti di vita promulgati da Dio. Ma le leggi più importanti sono quella

relativa all’associazione degli individui, a scopo di pace o di difesa, e quella relativa all’osservanza

dei patti. Le regole enunciate hanno lo scopo di rendere possibile una coesistenza pacifica.

Stato civile. L’atto fondamentale che segna il passaggio dallo stato di natura allo stato civile è

quello compiuto in conformità della seconda legge naturale, cioè la stipulazione di un contratto

con il quale gli uomini rinunziano al diritto illimitato dello stato di natura e lo trasferiscono ad

altri. Questo trasferimento è indispensabile affinché il contratto possa costituire una valida

difesa per tutti. Solo se ciascun uomo sottomette la sua volontà ad un unico uomo o a una

assemblea e si obbliga a non fare resistenza all’individuo o all’assemblea cui si è sottomesso, si

ha una stabile difesa della pace e dei patti di reciprocità in cui essa consiste. Quando questo

trasferimento sia effettuato, si ha lo Stato o società civile, detto anche persona civile, perché ,

conglobando la volontà di tutti, si può considerare una sola persona. Si può dire dunque che lo

Stato è <<l’unica persona la cui volontà, in virtù dei patti contratti reciprocamente da molti

individui, si deve ritenere la volontà di tutti questi individui: onde può servirsi delle forze e degli

averi dei singoli per la pace e per la comune difesa>> (“De Cive”, V, 9). Colui che rappresenta

questa persona (indiv. o assemblea) è il sovrano ed ha potere sovrano ed ogni altro è suddito. <<

Questa è l’origine di quel grande “Leviatano”, o per usare maggior rispetto, di quel Dio mortale

al quale, dopo il Dio immortale, dobbiamo pace e difesa: giacché per l’autorità conferitagli da

ogni singolo uomo della comunità, ha tanta forza e potere che può disciplinare, col terrore, la

volontà di tutti in vista della pace interna e dell’aiuto scambievole contro i nemici esterni>>

(“Lev.”, 17). Lo Stato civile è ragionevole perché risolve l’assurdità di quello di natura,

ostacolando o comunque raffrenando la inclinazione a nuocere, per liberare l’uomo dalla paura

della morte. Lo Stato, consistente in un potere superiore ai singoli individui, cioè dotato di forza

sufficiente per impedire l’uso individuale della forza, è l’istituzione destinata a sanare la

contraddizione dello Stato naturale è la sostituzione del regno della guerra con quello della

pace.

Ora, per Hobbes la filosofia civile è una scienza più della fisica e alla pari della geometria, è una

scienza dimostrabile, cioè le cui cause prime sono in nostro potere o più semplicemente prodotte da

noi (non dimostrabili sono invece quelle le cui cause prime non dipendono da noi ma dalla volontà

divina). Ma in che senso si può dire che noi produciamo l’oggetto della filosofia civile? Come

formiamo cioè noi lo Stato? Per Hobbes lo Stato non è per natura ma per convenzione; esso

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soddisfa ad una esigenza elementare degli uomini che attraverso un accordo reciproco, spiegabile

solo coll’ipotesi contrattualistica, pongono base allo Stato. Il contratto che da origine allo Stato è un

accordo con cui un certo numero di individui stabiliscono dunque di rinunciare a quel diritto

illimitato e potenziale su tutte le cose che appartiene loro nello Stato di natura e di trasferirlo ad una

terza persona, col duplice scopo di togliersi di mano l’arma principale di offesa reciproca e di

affidarla a chi la possa adoperare in difesa di tutti. Ciò presuppone un terzo principio della natura

umana, cioè che gli uomini siano esseri ragionevoli, che siano in grado di rendersi conto, con un

calcolo di cui solo esseri raziocinanti sono capaci, che la guerra dipende dal diritto illimitato su tutto

e può essere evitata solo rinunciandovi. Il dettame della retta ragione è la pace: ciò è ricavabile da

quella facoltà raziocinante che permette all’uomo di ricavare certe conseguenze da certe premesse.

Con ciò Hobbes non si domanda come sia possibile storicamente che l’essere passionale e violento

che è l’uomo, istintivo ed egoista, abbia abbandonato l’inclinazione naturale per la ragione. Egli

parla ai suoi concittadini, cercando di convincerli che la guerra civile sta covando sotto il fuoco

dell’aperta lotta religiosa e politica della sua patria. Lo Stato è il prodotto allora degli uomini stessi,

o meglio della loro volontà razionale, che dimostra che l’elemento basilare della società politica è

l’obbedienza al sovrano.

Lo Stato di natura è a lungo intollerabile, perché non garantisce il conseguimento del primum

bonum, la vita. Sotto forma di leggi naturali la retta ragione suggerisce all’uomo una serie di regole,

subordinate a quella fondamentale di cercare la pace. Ora, accade che nella maggior parte dei casi,

il fine previsto dalla regola non venga osservato da tutti o per lo meno dalla maggior parte dei

membri del gruppo: io non sono tenuto ad osservare una regola se non la osservano anche gli altri.

Hobbes dice che le leggi naturali obbligano in foro interno, non in foro externo. Ma nello Stato di

natura, dove il fine supremo non è la pace ma la vittoria, chi mi assicura che se io agisco

razionalmente per cercare la pace, anche gli altri fanno così? Lo Stato di natura è quello in cui le

leggi naturali ci sono, sono valide, ma non sono efficaci. L’unica via per renderle efficaci (regole

osservate da tutti o dalla maggior parte) è l’istituzione di un potere tanto irresistibile da rendere

svantaggiosa ogni azione contraria lo Stato.

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Patto e Sovranità. Condizione per ottenere la pace è l’accordo di tutti per uscire dallo Stato

naturale e per istituire uno Stato. Tale accordo o patto è un atto di volontà, lo Stato è un prodotto

della volontà umana: è l’uomo artificiale. L’accordo deve essere di molti e non di pochi,

permanente e non temporaneo; non deve limitarsi a costruire una semplice associazione di

persone che perseguono un fine comune. Lo Stato di natura è uno stato di insicurezza, allora lo

scopo principale dell’accordo è quello di rimuovere le cause di questa insicurezza. La causa

principale di questa insicurezza è la mancanza di un potere comune. L’unico modo per costituire

un potere comune è che tutti acconsentano a rinunciare al potere proprio e a trasferirlo a

un’unica persona, che da ora avrà tanto potere quanto basta per impedire al singolo di esercitare

il proprio potere a danno di altri. Occorre però che tutti si accordino nell’attribuire a una sola

persona tutti i loro beni, il loro diritto su ogni cosa, e tanta forza per sconfiggere chi viola

l’accordo. L’obbligo fondamentale è quello caratteristico del pactum subiectionis, ossia l’obbligo

di obbedire a tutto quello che il detentore del potere comanderà: <<Io autorizzo e cedo il mio

diritto di governare me stesso a quest’uomo o a quest’assemblea di uomini, a questa condizione:

che anche tu ceda il tuo diritto a lui e autorizzi tutte le sue azioni allo stesso modo>> (“Lev.”,

112).

A differenza del pactum societatis, il patto d’unione è per Hobbes di sottomissione; ma a differenza

del pactum subiectionis, i cui contraenti sono, da un lato, il popolus nel suo complesso e, dall’altro,

il sovrano, è, come il p.s., un patto i cui contraenti sono i singoli soci tra loro che si impegnano

reciprocamente a sottomettersi ad un terzo non contraente. Hobbes ha fatto cioè dell’unico patto di

unione un contratto di società rispetto ai soggetti e di sottomissione rispetto al contenuto. Il potere

sovrano comprende il supremo potere economico (o dominium) e il supremo potere coattivo (o

imperium). Il potere politico è la somma dei due poteri = “potestas superiorem non recognoscens”.

Hobbes da tre definizioni dello Stato:

1) <<una moltitudine di uomini uniti come una persona da un potere comune, per la loro comune

pace, difesa e vantagio>> (“Elements”, I, 19, 8);

2) <<una unica persona, la cui volontà, in virtù dei patti contratti reciprocamente da molti

individui, si deve ritenere la volontà di tutti questi individui, onde può servirsi della forza e degli

averi dei singoli per la pace e per la comune difesa>> (“De Cive”, V, 9), dove è da osservare

l’eliminazione del “vantaggio” dai fini dello Stato;

3) <<una persona, dei cui atti ciascun individuo di una gran moltitudine, con patti vicendevoli, si è

fatto autore, affinché possa usare la forza e i mezzi di tutti, secondo che, crederà opportuno, per

la pace e per la comune difesa>> ("Lev.” 112).

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La sovranità ha tre attributi fondamentali: la irrevocabilità, l’assolutezza, l’indivisibilità. Noi

sappiamo che il patto di unione è: 1) un patto di sottomissione stipulato tra i singoli e non tra il

popolo e il sovrano; 2) consiste nell’attribuire a un terzo al di sopra delle parti tutto il potere che

ciascuno ha nello Stato di natura; 3) il terzo cui questo potere viene attribuito è una unica persona.

Dal 1° discende l’irrevocabilità, dal 2° l’assolutezza, dal 3° l’indivisibilità.

1) Il tradizionale patto di sottomissione, interpretato come un rapporto tra mandante e mandatario,

contiene il pericolo di essere revocato, perché il suo contenuto è il conferimento di un incarico

di governo affidato a certe condizioni ed entro certi limiti di tempo. Hobbes è invece a favore

della irrevocabilità per due motivi:

a) difficoltà di fatto: se uno dei due contraenti fosse il popolo (universitas e non moltitudo), per

rescindere il contratto basterebbe l’accordo della maggioranza; ma quando i contraenti cono

tutti indistintamente i membri della società civile, uti singoli, cioè come moltitudine e non

come popolo, la rescissione del contratto può avvenire solo se tutti sono d'accordo, cioè

richiede non la maggioranza ma l’unanimità;

b) impossibilità di diritto: essa deriva dall’aver concepito il patto di unione come un contratto a

favore di un terzo (obbligo non solo l’uno verso l’altro, ma anche in favore di un terzo);

perciò non può essere rescisso col solo consenso delle parti, ma occorre anche il consenso

del terzo al quale le parti si sono obbligate.

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Dunque la irreversibilità dipende dal fatto che una volta costituito lo Stato, i cittadini non

possono dissolverlo negando ad esso il loro consenso: il diritto dello Stato difatti nasce dai

patti dei sudditi fra loro e con lo Stato, non da un patto tra i sudditi e lo Stato, che potrebbe

essere revocato (“Lev.” 18; “De Cive”, VI, 19). Nel “Leviatano” Hobbes dice che delle due

l’una: o si immagina questo patto come intercorrente tra il sovrano e i sudditi, come un’unica

persona, ma questo è impossibile, perché i sudditi prima di riunirsi in una assemblea non sono

una persona, e se lo fossero sarebbero già essi stessi lo Stato; o lo si immagina come

intercorrente tra il sovrano e ciascuno dei sudditi singolarmente presi, e allora, posto che sia di

fatto possibile, diventa, una volta concluso, nullo, perché <<qualsiasi atto del sovrano venga

incriminato da uno di loro come violazione del patto, è l’atto insieme sui e di tutti gli altri, in

quanto compiuto a nome e con l’autorizzazione di ciascuno di loro in particolare (“Lev.” );

anche se non fosse nullo, non ci sarebbe nessuno in grado di giudicare la controversia qualora il

suddito lo denunciasse.

2) La sovranità è assoluta, “legibus soluta”, contro le teorie affermanti questo o quel limite dello

Stato (=costituzionalismo). La sovranità sta in un potere esercitabile senza limiti esterni. In

natura ognuno è sovrano e suddito a secondo delle circostanze e della situazione; nella società

politica nata dopo il patto d’unione il sovrano è sovrano e il suddito è suddito. Ora solo il

sovrano ha il diritto su tutto. Ma contro l’assolutismo sono stati avanzati vari argomenti:

a) se il patto avviene tra il popolo (=universitas) e il sovrano, il trasferimento del potere

sovrano può essere condizionato all’adempimento da parte del sovrano di certi obblighi; qui

Hobbes nega il presupposto di questo p.d.v., cioè l’esistenza di un patto tra popolo e

sovrano. Prima della costituzione del potere sovrano non c’è un popolo ma una moltitudine

necessità che la moltitudine decida di uscire dallo Stato di natura, attribuire il potere non

ad una persona fisica ma ad un’assemblea (la quale lo rappresenti): qui però il sovrano è il

popolo stesso. Il patto tra popolo e sovrano, se c’è, è fra il titolare della sovranità e colui o

coloro cui è demandato l’esercizio del potere sovrano. Ma questo patto non ha niente a che

fare col patto d’unione originante la società politica.

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b) il contenuto del patto: la maggiore o minore estensione del potere sovrano dipende anche

dalla quantità e dalla qualità dei diritti naturali che formano l’oggetto del trasferimento. I

fautori della sovranità limitata sostengono che il trasferimento è parziale. Per Hobbes invece

il trasferimento è quasi totale: per dar vita allo Stato civile ogni individuo deve rinunciare al

diritto illimitato a tutto (in omnia) e alla forza di farlo valere; entrato a far parte dello Stato,

non rimane loro che il diritto alla conservazione della vita. Il cap.XXI del “Leviatano”

contiene la carta dei diritti di libertà dei sudditi secondo Hobbes <<Se il sovrano comanda

ad un uomo di uccidere, ferire o mutilare se stesso, o di non resistere a quelli che lo

assalgono, o di astenersi dal prendere cibo, aria, medicina, o altra cosa, senza della quale

non potrebbe vivere, quell’uomo ha la libertà di disobbedire. La libertà nel “silentium legis”

è mera libertà di fatto, che possono essere accresciute, diminuite o soppresse secondo le

opportunità del sovrano. Esse non limitano il potere sovrano>>.

L’argomento classico in favore dei limiti del potere sovrano si fonda sul principio della

subordinazione del potere politico (chiunque lo detenga) al diritto , o più precisamente alla

legge (al diritto oggettivo). Hobbes liquida la tesi della subordinazione del sovrano al diritto

positivo (leggi civili)con la tesi antica che nessuno può obbligare se stesso, perché chi obbliga

se stesso si potrebbe liberare a proprio piacimento e arbitrio (“De Cive”, IV, 14, “Lev.” );

siccome le leggi civili sono fatte dal sovrano, se il sovrano fosse ad esse sottoposto imporrebbe

un obbligo a se stesso. Problema più grave è quello se non vi siano leggi oltre a quelle civili.

Chiunque difende l’illimitatezza del potere sovrano deve fare i conti con le leggi del paese (la

common law), tramandate per consuetudine ed applicate dai giudici ( e di cui i legisti

affermano la superiorità sulla norma emanata dal re e dal parlamento), e con le leggi naturali.

Hobbes è un nemico dichiarato dei fautori del diritto comune (Sir E. Coke), contro cui scrive in

tarda età il “Dialogo tra un filosofo e uno studioso del diritto in comune d’Inghilterra”, ove

sostiene che non vi è altro diritto che quello emanato dal re perché solo il re ha la forza

necessaria per sostenerlo e farlo valere. L’unica fonte del diritto è la legge derivata dalla

volontà espressa o tacita del sovrano, dice nel “De Cive” (XIV, 15) perché la consuetudine non

costituisce legge.

Ma cosa sono le leggi civili? Hobbes ripete spesso che il sovrano è sottoposto alle leggi di

natura, che però sono solo mere regole di prudenza o norme tecniche, la cui osservanza dipende

dal giudizio sulla possibilità di perseguire il fine nella situazione data. Nei rapporti con gli altri

sovrani e coi sudditi, il giudizio spetta solo al sovrano, che non è obbligato esternamente verso

nessuno ad osservare i dettami della ragione; questi perciò non costituiscono di fatto un limite

al potere sovrano. Spetta solo al sovrano dunque stabilire attraverso l’emanazione delle leggi

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civili ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, dopo la costituzione dello Stato, per i sudditi giusto o

ingiusto lo stabiliscono le leggi civili. La morale di Hobbes è quindi un legalismo etico : teoria

che afferma che il sovrano (e anche Dio) non comanda ciò che è giusto, ma è giusto ciò che il

sovrano comanda. E’ quindi il sovrano a promulgare norme per stabilire il proprio e l’altrui

(“De Cive”, VI, 9) e dove non c’è un potere comune non c’è legge e quindi nemmeno giustizia

(“Lev.” ). Obiezione: le leggi civili stabiliscono ciò che è giusto e ciò che è ingiusto perché

non sono altro che l’esecuzione coattiva delle leggi naturali; <<Dopo la costituzione dello Stato

le leggi naturali entrano a far parte di quelle civili>> (“De Cive”, VIII, 9). Hobbes ribatte che

spetta al sovrano stabilire quale sia il contenuto delle leggi naturali (è cioè compito del sovrano

non solo rendere coattive le leggi naturali ma anche cosa prescrivono) (“De Cive”, VI, 16; XIV,

10; XVIII, 10) e anche se il sovrano viola le leggi naturali, il suddito ha il dovere di ubbidire al

comando del sovrano eccezion fatta per ciò che mette in pericolo la vita. (“De Cive”, VI,

13):<<al potere di cui non si può dare uno di maggiore, corrisponde un’obbedienza altrettanto

grande (obbedienza senza riserve da parte del suddito)>>. A questo punto l’unico limite

effettivo sembra essere la resistenza dei sudditi ad un comando del sovrano considerato

ingiusto. Ma sulla base della obbedienza obbligatoria dopo il patto, questo limite cade. Ma

anche in Hobbes una teoria dell’abuso di potere; ciò che può indurre i sudditi a sciogliersi dal

dovere di obbedire non è l’abuso ma il non uso, non l’eccesso ma il difetto di potere. La

ragione per cui gli uomini hanno investito di tanto potere un altro uomo è il bisogno di

sicurezza. Se il sovrano che essi hanno istituito non li protegge, essi hanno il diritto di cercarsi

un altro protettore (“Lev.” ).

3) La sovranità è indivisibile: il potere sovrano è indivisibile perché esso non può essere distribuito

tra poteri diversi che si limitino a vicenda. La sovranità deve essere attribuita ad un’unica

persona. Hobbes ha l’unico problema dell’unità del potere (Cfr. J.J.Rousseau, “Contratto

Sociale”, IV, 8), e perciò avverso la disgregazione dello Stato e l’anarchia. Le cause della

dissoluzione della unità statale sono soprattutto due:

a) la divisione dei poteri sovrani all’interno dello Stato.

Il potere sovrano non può essere distribuito tra poteri diversi che si limitano a vicenda, perché

questa divisione non garantirebbe neppure la libertà dei cittadini (se i poteri divisi agissero

d’accordo questa libertà ne soffrirebbe e, se fossero discordi, s’arriverebbe presto alla guerra

civile) (“De Cive”, VII, 4). E’ stata la teoria dei governi misti quella cui si sono appellati i

difensori delle prerogative del Parlamento contro la Corona. Ma per Hobbes essa non garantisce

una maggiore libertà dei cittadini: se i tre organi vanno d’accordo, il loro potere è assoluto

quanto quello di una sola persona; se sono in disaccordo lo Stato non è più Stato ma anarchia.

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Fra i poteri del sovrano ci sono “la spada di giustizia” e la “spada della guerra” che devono

essere di una sola persona: il potere di punire presuppone il potere di giudicare la ragione e il

torto, chi ha la spada deve avere la bilancia. Sovrano poi è chi fa le leggi (potere esecutivo;

potere giudiziario e potere legislativo in uno). Il potere sovrano è quindi indivisibile, assoluto ed

irrevocabile. Ma questo non significa che la teoria politica di Hobbes non ponga alcun limite

all’azione dello Stato, che non può comandare, abbiamo visto, di uccidere o ferire se stessi o una

persona cara o di non difendersi o prendere cibo o altra cosa necessaria alla vita; né può

comandargli di confessare un delitto perché nessuno è costretto ad accusare se stesso (“De Cive”,

VI, 13; “Lev:”, 21).

b) la separazione tra potere statale temporale e potere spirituale della Chiesa.

Lo Stato è l’ ”Anima della Comunità” e congloba in sé anche l’autorità religiosa e non può

riconoscere una autorità religiosa indipendente: pertanto Chiesa e Stato coincidono. La diversità

tra Stato e Chiesa è puramente verbale: “La materia dello Stato e della Chiesa è la stessa, sono

cioè gli stessi uomini cristiani e la forma che consiste nel legittimo potere di convocarli è pure la

stessa, dato che i singoli cittadini sono obbligati a recarsi dove lo Statoli convoca. Però si

chiama Stato in quanto consta di uomini e Chiesa in quanto consta di cristiani” (“De Cive”,

XVII, 21). Il problema dei rapporti fra Stato e Chiesa, fra l’autorità civile (che ha la sovranità

sulla materia della pace e del benessere di questa vita) e le autorità spirituali (che hanno il potere

di regolare ciò che riguarda la salvezza dell’anima), si pone laddove i cittadini devono obbedire

ai precetti diversi dalle leggi civili, in base a cui possono addirittura essere indotti a

disobbedirvi, con lo spauracchio delle pene eterne (chi crede che pena e castigo eterni sono più

temibili del premio e castigo terreni può non obbedire alle leggi civili, considerando il potere di

un qualcuno di superiore allo Stato).

Hobbes basa il suo argomento sulle Sacre Scritture:

1. Interpretazione antidogmatica del cristianesimo: tutto ciò che serve per essere cristiani è che

bisogna credere che Gesù Cristo è figlio di Dio ( ciò elimina insidiosi dissensi teologici).

2. L’affermazione che il regno di Dio non è di questo mondo e che Cristo è venuto tra gli

uomini solo per insegnare e predicare non a comandare e ha lasciato all’autorità civile il

potere di comandare o emanare leggi (i precetti del Vangelo rimasero solo precetti fino a che

i potenti li imposero come leggi civili) (“De Cive”, XVII, 11 – 14; XV, 7).

9. John LOCKE fra Giusnaturalismo e costituzionalismo

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di P. Armellini

Nel clima delle guerre di religione della Gran Bretagna del XVII secolo l’opera di Locke deve

confrontarsi con un attacco poderoso condotto contro il giusnaturalismo da chi come Filmer ha

rimproverato ad esso il principio dell’eguaglianza e della libertà naturale degli uomini per

riaffermare il diritto divino dei re. La storia costituzionale inglese deve per Locke

fondamentalmente liberarsi di una lettura distorta e forzata, che vede i tre poteri (legislativo,

esecutivo e giudiziariao) rimanere in mano al re, mentre il Parlamento perde le sue prerogative di

Alta corte di giustizia e riunendo le caratteristiche di iurisdictio (amministrazione della giustizia

pronunciata secondo la legge) e gubernaculum (potere regolato dalla consuetudine) distinte dal XV

secolo.

Nato a Wrington nel 1632 da famiglia puritana, J. Locke studia lingue classiche e filosofia

ad Oxford. Legge Cartesio ed è amico T. Sydenham (medico) e R. Boyle (chimico). In un viaggio al

seguito di Sir W.Vane incontra e conosce Schaftesbury (lord Ashley), di cui diventa nel 1667

segretario privato. Vive a lungo a Montpellier e Parigi e poi torna nel 1679 in Inghilterra, mentre il

suo protettore cospira contro Carlo II e la sua restaurazione cattolica. Morto Schaftesbury, emigra in

Olanda con Guglielmo d’Orange e ritorna in Inghilterra con lui diventato poi re d’Inghilterra.

Deluso dal nuovo indirizzo politico della monarchia, declina offerte di incarichi e si rifugia nel

castello di Oates, ospitato da Lady Marsham figlia del filosofo Cudworth. Quivi passa gli ultimi

suoi quattordici anni e muore nel 17041. Le sue opere principali sono Saggio sull’intelletto umano

1 Sulla vita e le opere di John Locke cfr. H.R.F. Bourne, The life of John Locke, 2 voll., London 1876; A. Carlini, La filosofia di G. Locke, Firenze 1928; N. Kemp Smith, John Locke, 1632-1704, Manchester 1933; R.I Aaraon, John Locke, Oxford 1937; M. Cranston, John Locke, a biography, London 1957; A. L. Leroy, Locke, sa vie, son ouvre, avec un exposé de sa philosophie, Paris 1964.

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(1690)2, Due trattati sul governo (1690)3, Pensieri sull’educazione (1693), Ragionevolezza del

cristianesimo (1695), e le quattro Lettere sulla tolleranza (1689–1705, ultima incompiuta)4.

Dal punto di vista politico bisogna considerare il contenuto di due opere giovanili, gli Scritti sul

magistrato civile (1660–67) e i Saggi sul diritto di natura (1664), i quali mostrano che la sua

prospettiva liberale, di cui viene considerato padre, è stata la faticosa conquista conseguente ad una

riflessione impegnata su eventi politico–culturali contemporanei. I primi mostrano il suo esordio a

favore della restaurazione stuartiana. Nel 1660 il suo orientamento politico è consolidato in senso

antirivoluzionario e legittimistico. Nel settembre 1659 infatti intrattenendo un rapporto epistolario

con H. Stubbe, il quale difende la vecchia causa rivoluzionaria, identificata con la repubblica e la

politica condotta dall’esercito in nome del popolo e sostiene la tesi dello Stato repubblicano garante

delle libertà e della tolleranza5. Locke invece esprime l’esigenza di vedere come sia possibile ora ad

uomini di diversa professione religiosa vivere in pace sotto il medesimo governo, senza lotte ed

animosità tendere altresì al medesimo interesse civile e giungere infine verso il medesimo fine di

pace e soccorso reciproco6.

La tolleranza è un problema di convivenza civile ma Locke rifiuta la soluzione di un

rafforzamento della libertà religiosa, auspicando anzi l’intervento pacificatore dell’autorità politica

nelle questioni religiose. Ciò appare anche nella prefazione al primo libro Scritto sulla tolleranza.

Locke scrive il primo Scritto sul magistrato civile (’60) in risposta all’opera di E. Bagshaw

intitolata The Great Question concerning Thing Indifferent in Religious Worship, sostenitore della

tesi che nega al magistrato civile il diritto di intervenire in questioni religiose, non avendo esso

nessuna autorità sull’uomo interiore, che deve riconoscere l’unica autorità della parola divina nelle

Scritture. Alla domanda se il magistrato civile possa legittimamente imporre e determinare l’uso di

cose indifferenti in relazione al culto religioso Locke non esita a dare risposta affermativa, poiché la 2 Cfr. J. Locke, Saggio sull’intelletto umano, a cura di M. e N. Abbagnano, Utet, Torino 1971. Per un quadro generale sulla filosofia di Locke si veda: C.A. Viano, John Locke. Dal razionalismo all’illuminismo, Einaudi, Torino 19732; M. Sina, Introduzione a Locke, Laterza, Roma-Bari 1978; F. Pintacuda De Michelis, Locke, Isedi, Milano 1978; F. Fagiani, Nel crepuscolo della probabilità. Ragione ed esperienza nella filosofia sociale di John Locke , Bibliopolis, Napoli 1983; R. Pititto, John Locke, Athena, Napoli 1984; J. W. Yolton, John Locke, Il Mulino, Bologna 1989.3 Cfr. J. Locke, Two Teatises of Government, ed. crit. a cura di P. Laslett, Cambridge 1960, tr. it. Due trattati sul governo, introduzione e cura di L. Pareyson, Utet, Torino 1969. Sul pensiero politico di Locke si consultino le seguenti opere:J. W. Gough, John Locke’s Political philosophy, Oxford 1950; R. Polin, La politique morale de John Locke, Paris 1960; N. Bobbio, Locke e il diritto naturale, Giappichelli, Torino 1963; M. Seliger, The Liberal Politics of J. Locke, London 1968; W. Euchner, Naturrecht und Politik bei John Locke, Frankfurt a. M. 1969, tr.it. La filosofia politica di Locke, Laterza, Roma-Bari 1976; J. Dunn, The political Thought of John Locke, London 1969, tr.it. Il pensiero politico di J. Locke, Il Mulino, Bologna 1982; A. Sabetti, La filosofia politica di John Locke, Liguori, Napoli 1971; N. Matteucci, Introduzione a J. Locke, Antologia degli scritti politici, Il Mulino, Bologna 1980, pp. 7-40; W. Von Leyden, Hobbes e Locke. Libertà e obbligazione politica, Il Mulino, Bologna 1984; P. Farina, Pensare il mondo che cambia. Uno studio su economia e politica in John Locke, Guerini, Milano 1996; C. A. Viano, Il pensiero politico di Locke, Laterza, Bari 1997.4 Cfr. J. Locke, Scritti sulla tolleranza, a cura di D. Marconi, Utet, Torino 1977.5 Cfr. H. Stubbe, An Essay in Defense of Good Old Cause, London 1658.6 J.Locke,

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competenza del magistrato civile in tale materia è dimostrata in base a note tesi contrattualistiche:

l’uomo può infatti per contratto trasferire la sua libertà ad altro e può obbedirgli. Nel secondo

Scritto (un trattato latino) Locke ribadisce tale tesi autoritaria del potere politico che, riecheggiando

l’interpretazione hobbesiana, si risolve in giustificazione ideologica della Restaurazione e del

ritorno di Carlo II sul trono degli Stuart. Locke teme essenzialmente le conseguenze del fanatismo

religioso e vede nella dinamica rivoluzionaria il non controllato affermarsi della tendenza centrifuga

delle sette e della mitologia democratico–egalitaria. Il magistrato civile ha perciò per Locke i poteri

idonei a reprimere ogni eventuale attentato di gruppi particolaristici alla saldezza della pace sociale.

Locke vede così nella Restaurazione una garanzia di legalità razionale per la vita associata oltre

l’utilitarismo di Hobbes7.

Rimane però la difficoltà della risoluzione senza residui della razionalità normativa della

prassi politica in esercizio autoritario della sovranità. Il tribunale della ragione respinge il postulato

del diritto divino dei re e al monarca rifiuta ogni aureola di metafisica sacralità. Locke così avverte

la esigenza di razionalizzare più rigorosamente l’esercizio del potere: tenendo conto di Hobbes,

bisogna dire che la teoria del contratto sociale quale fondamento della sovranità è suscettibile di

interpretazioni assolutistiche, democratiche o semplicemente giusnaturalistiche. Locke nei Saggi

sulla legge di natura (‘60-’64)8 sceglie una via moralistico–teologica, centrata sull’idea di un

contesto di leggi naturali razionalmente determinabili e fungenti da criterio assolutamente

normativo e legittimante dell’esercizio del potere. La legge di natura è quel codice universale della

condotta umana da cui trae giustificazione ogni nostra valutazione morale. La legge di natura non

viene conosciuta attraverso qualcosa che è iscritto in noi, o che ci viene tramandato dalla tradizione,

ma viene conosciuta dalla ragione per mezzo dell’esperienza sensoriale. Dalle apparenze della

percezione sensoriale la ragione e la facoltà di argomentare passano successivamente alla nozione

di un artefice della natura. Con l’idea di Dio sorge la nozione di legge naturale che lega

necessariamente tutti gli uomini. La ragione è qui un lume naturale che apprende con una inferenza

immediata, sulla base del materiale del senso, la legge di natura, che è un decreto di Dio. Il lume

della ragione (o della natura) non solo sa che vi è un Dio che è il legislatore supremo, ma conosce

anche le regole più particolari che si possono derivare dalla legge di natura. Ma c’è un sottinteso

politico di questi Saggi: l’idea che la legge naturale, per la sua derivazione divina e la sua universale

determinabilità in termini razionali, non tollera eccezioni nella sua funzione orientativa e normativa,

talché le scelte operative del sovrano ne risultano condizionate non meno delle iniziative private dei

semplici cittadini. Così nel 1664 Locke prende le distanze da ogni interpretazione utilitaristica di

7 A. Baldini, Il pensiero giovanile di J. Locke, Milano 1969.8 Cfr J. Locke, Saggi sulla legge naturale, introduzione di G. Bedeschi, a cura di M. Cristiani, Laterza, Roma-Bari 1973; W. Von Leyden, Introduction to J. Locke, Essays on the Law of Nature, Oxford 1954.

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tipo hobbesiano della legge di natura e modera la sua fede assolutistica invocando un limite di

natura etico–teologica per l’esercizio della sovranità . Di qui il suo distacco da Carlo II e dalla

Restaurazione. Rimangono delle difficoltà irrisolte: chi potrebbe assicurare l’osservanza della legge

naturale da parte di un monarca, che non vuole lasciarsi condizionare da quel limite? Siamo in

presenza del problema del controllo del potere. Si tenga conto delle risorte contese tra il re ed il

Parlamento e delle tendenze filocattoliche degli Stuart, che mostrano l’utopismo della tesi sulla

capacità ordinatrice e pacificatrice di una monarchia assolutistica, sempre più estranea ala coscienza

politica di un paese in progresso. L’incontro avvenuto nel 1666 con lord Ashley (candidato al

cancellierato, futuro conte di Schaftesbury) pone Locke anche nella condizione di intuire i limiti e le

insufficienze dell’astratto moralismo dei Saggi del ’64. Ciò è già evidente nel Saggio concernente

la tolleranza del 1667 (uscita postuma), nel quale l’esplicita negazione del diritto divino dei re si

accompagna al riconoscimento della funzione strumentale del potere politico come garante della

pace, del benessere e dei privati interessi. L’autorità dello Stato trova dunque un limite concreto

nella preservazione dei cittadini (anche se mancano qui meccanismi costituzionali atti ad assicurare

un efficace controllo dell’uso di quella autorità). La sfera interiore della coscienza religiosa e quella

mondana della vita pubblica tendono a dissociarsi definitivamente: le opinioni religiose sfuggono

per loro natura alla competenza delle autorità civili e meritano una assoluta e universale tolleranza,

anche se ciò non vale per i papisti e i fanatici).

La finalità del potere politico si fa tutta laica e terrena, esaurendosi nelle pratiche esigenze

organizzative della vita associata. Le differenze tra i due poteri, quello civile e quello ecclesiale,

saranno giustificate dalle differenti e non coincidenti finalità: mondana e politica la finalità dello

Stato, trascendente e religiosa quella della Chiesa, cosìcome viene evidenziato nell’opera Sulla

differenza fra il potere civile e il potere ecclesiastico del 1673-74). Locke si sente libero dalla

necessità di scegliere tra l’illiberale materialismo hobbesiano e lo spiritualismo metafisico dei

Platonici di Cambridge. La indicazione della libertà e dell’interesse dei cittadini come limiti

immanenti dell’autorità dello Stato toglie fondamento ad ogni assolutismo leviatanico, ma dissacra

anche, laicizzandola, la ragione, non più candela del Signore ma semplice organo di orientamento

pragmatico tra le urgenze della vita. Stimolato anche dalle tesi antistuartiane rappresentate dal conte

di Schaftesbury per individuare nel concetto di libero consenso dei cittadini (e nelle tecniche atte ad

accettarlo legalmente) il fondamento della legge civile, Locke vuole liberare la ragione dai vincoli

dell’autorità e del privilegio sociale e apre un discorso politico potenzialmente rivoluzionario

d’ispirazione liberale che prende corpo con i Due Trattati sul Governo civile del 1690 (ma composti

sin dal 1681). Il primo di essi è scritto in polemica con Filmer che ha scritto il Patriarca (1642,

pubblicato postumo nell’82), testo che è divenuto per il suo intransigente assolutismo, motivato con

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argomenti di apparente derivazione biblica, il manifesto teorico del risorto autoritarismo stuartiano

e della congiunta battaglia politica del partito tory. Locke ne combatte la tesi centrale di un

assolutismo monarchico di origine patriarcale e di diritto divino, rifacendosi al concetto di stato di

natura anteriore ad ogni strutturazione politica dei rapporti umani e condizionante anzi la

consensuale e contrattuale instaurazione di essi. Alla tesi paternalistica del potere, per cui il potere

sovrano era stato trasmesso da Adamo ai suoi discendenti e quindi ai padri delle famiglie, sicché

anche il potere del monarca non è che una forma del potere paterno, Locke obietta in primo luogo

che il potere paterno è il potere dei due genitori (potere duale) e in secondo luogo che il potere dei

genitori sui figli è un potere temporaneo; inoltre, tale potere, che non nasce ex generatione ma dalla

conservazione dei figli da parte dei genitori, è limitato dal non poterne violare la vita e i possessi.

Locke tenta così di compiere una puntuale confutazione di quelle tesi che tentano di conciliare il

diritto divino col diritto naturale eliminando ogni rinvio all’idea del consenso popolare avvenuto col

ricorso contrattualistico. Tali temi ritornano all’inizio del Secondo Trattato, che poi continua con la

parte positiva della dottrina politica. Nei Saggi sulla legge naturale abbiamo visto identificare la

legge di natura con la legge divina; corrispondentemente l’ordine e il fondamento dell’autorità e del

potere politico vengono riconosciuti nella volontà divina; al tempo stesso Locke già qui riserva agli

uomini la facoltà di scegliere mediante un contratto il depositario dell’investitura divina, che di per

sé è indiretta e impersonale, e affida alla ragione il compito di rivelare e interpretare la legge

divina9. Per Grozio ed Hobbes è la ragione, che indica ciò che è o non è d’accordo con la natura

razionale. Per il Locke dei Saggi è il comando di Dio che la ragione si limita a manifestare, essendo

il limite superiore ad essa (quello inferiore è invece il materiale su cui la ragione deve operare). Nei

Due Trattati questo limite superiore scompare e la legge di natura acquista la sua autonomia, pur

rimanendo il suo limite inferiore, che è il contenuto della esperienza della vita associata degli

uomini.

Successivamente si approfondisce la riflessione in Locke sullo stato di natura. La riflessione

morale e politica di Locke è solidale con la sua filosofia della conoscenza. Egli sostiene la

possibilità di una scienza certa della morale, avendo questa un carattere razionale o dimostrativo

sulla base del fatto che non si può proporre alcuna regola morale di cui non si debba dar ragione;

che la ragione di tali regole dovrebbe essere la loro utilità per la conservazione della società e della

felicità pubblica; che pertanto nella disparità delle regole morali, seguite nei differenti gruppi in cui

l’umanità si divide, occorrerebbe isolare e raccomandare quelle che si rivelano veramente efficienti

a questo scopo10. Inoltre secondo Locke, l’uomo può di fatto giudicare sulla rettitudine o meno delle

proprie azioni in funzione di tre tipi di regole: 1) la legge divina; 2) la legge civile; 3) la legge della 9 J. Locke, Saggi, cit., I.10 Cfr. J. Locke, Saggio sull’intelletto umano, I, 2.

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opinione e della reputazione. La legge divina sarebbe la legge promulgata da Dio agli uomini nel

lume naturale o secondo la voce della rivelazione. La legge civile è stata istituita dall’uomo e

dipende dal potere legislativo di ogni Stato politico. La legge d’opinione fissa norme variabili della

virtù e del vizio, seguendo le disposizioni di spirito particolari degli individui che formano la

società11. D’altra parte un fatto primordiale caratterizza l’uomo: la coscienza del proprio potere, che

gli fornisce l’idea della propria libertà. Ora, noi sappiamo che in Locke l’uomo non può avere idee

se non in funzione dei dati della propria esperienza sensibile; perciò anche tutti i suoi principi

morali non possono esistere se non a partire dai dati della propria sensibilità. Locke dice anche che

l’uomo ha la possibilità però di ascoltare in sé e nella natura la voce della ragione, che si manifesta

nell’ordine dei fenomeni naturali. La valutazione del bene è così a un tempo empirica e universale.

Essa dipende infatti sia dai dati sensibili sia dalla libertà di giudizio che riconosce la legge di natura.

In funzione della nozione della esistenza di Dio viene spiegata in effetti la nozione di legge

promulgata da Dio alla ragione dell’uomo12: non si tratta affatto di un qualche principio innato

dell’intelletto, anteriore all’esperienza. Solo sulla base delle idee fornite dalla sensazione e dalla

riflessione l’uomo può darsi una condotta morale, in virtù della sua possibilità di intuizione

razionale e della sua libertà d’azione. L’uomo, così, facendo esperienza della propria libertà, può

scoprire nell’ordine razionale delle sue idee la regola universale del bene. La felicità esiste solo per

l’essere umano cosciente della sua libertà e perseguente nella sua azione il compimento di una legge

di natura, la quale si rivela alla riflessione sull’esperienza. In Locke quindi non c’è più una

giustificazione metafisica a priori della legge di natura; tutt’al più egli crede alla conformità della

esperienza morale alla rivelazione cristiana. Ora, nel Secondo Trattato, intitolato Saggio

concernente la vera origine, estensione e fine del governo civile, Locke definisce la condizione del

potere politico in conformità alla vera nozione dell’uomo come agente morale, e dunque come

essere libero. Esiste una legge di natura che è la ragione stessa in quanto ha per oggetto i rapporti tra

gli uomini e che prescrive la reciprocità perfetta di tali rapporti. Locke, come Hobbes, connette

strettamente questa regola di reciprocità con quella dell’uguaglianza originaria degli uomini; ma, a

differenza di Hobbes, ritiene che questa regola limiti il diritto naturale di ciascuno col pari diritto

degli altri13. Nell’ordine naturale la vita di ogni individuo è un bene proprio, che è importante

conservare; i rapporti tra gli uomini sono governati da un principio di autonomia (assenza di

subordinazione dell’uno rispetto all’altro): la punizione avviene al fine di salvaguardare il bene

fondamentale, la persona umana, o della riparazione dei danni subiti da essa. Lo stato di natura non

si concepisce se non governato da una legge di ragione: “Lo stato di natura è governato dalla legge

11 Cfr. Ib., II, 712Cfr. Ib., IV, 10.13 Cfr. Ib., II, 4.

Page 77:  · Web viewRimane fermo però che il cristiano può disobbedire alle leggi contrarie a quella divina. La teoria costituzionale a forma di governo che consenta di far valere nei confronti

di natura, che collega tutti; e la ragione, la quale è questa legge, insegna a tutti gli uomini, purché

vogliano consultarla, che, essendo tutti uguali e indipendenti, nessuno deve danneggiare l’altro nella

vita, nella salute, nella libertà e nella proprietà”14. Questa legge di natura vale per tutti gli uomini in

quanto tali (siano o meno cittadini). Locke cita il teologo anglicano R. Hooker con favore per

prendere le distanze da Hobbes quando nega ai rapporti originari umani ogni conflittualità e pone

alla base dell’umano consorzio la legge dell’amore: “Il mio desiderio di essere amato il più

possibile dai miei uguali in natura, mi impone un obbligo naturale di nutrire nei loro riguardi una

affezione del tutto simile”15. Questo appunto vuol dire che lo stato di natura non è svincolato da

ogni legge ma è soggetto alla legge di natura, che obbliga a non distruggere né se stessi né altra

creatura . Norma fondamentale è infatti l’autoconservazione e la conservazione degli altri16. Nello

stato di natura tale legge è la sola valida, sicché la libertà degli uomini consiste in esso nel non

sottostare ad alcuna volontà o autorità altrui ma nel rispettare solo la norma naturale. Neanche in

questo stato la libertà consiste per ciascuno “nel vivere come gli piace”17. Il diritto naturale

dell’uomo è limitato alla propria persona ed è quindi diritto alla vita, alla libertà, e alla proprietà in

quanto prodotta dal proprio lavoro.

Si pone ora il problema di sapere in che modo la legge di natura legittimi la proprietà

ricollegandola alla persona del possessore. Locke, a differenza di Hobbes, colloca la proprietà nello

stato di natura, come Grozio e Pufendorf. Questi però hanno attribuito ad essa un’origine

convenzionale. Locke parte invece dal presupposto ricavato dalle Sacre Scritture che Dio

originariamente ha dato la terra e tutte le cose in comune agli uomini18. È vero che Dio ha dato il

mondo agli uomini in comune, ma egli lo ha dato loro per la loro sussistenza e per il conforto della

loro esistenza. Ogni uomo è proprietario del suo corpo e del proprio lavoro e da ciò Locke deduce la

proprietà privata dei beni materiali; Locke dice che attraverso il lavoro c’è una differenza tra i frutti

comuni e i frutti dei quali si appropria in quanto vi aggiunge qualcosa di più di quel che ha fatto la

natura19. Non è stato necessario un consenso degli altri affinché qualcuno si appropriasse di

qualcosa, perché egli sarebbe morto di fame20. Oltre ai frutti del lavoro, l’uomo acquisisce la

proprietà della terra, recingendola, seminandola, bonificandola, coltivandola e usandone il

prodotto21. La legge dell’appropriazione naturale esclude lo spreco, per cui esistono limiti morali

all’acquisizione della proprietà privata. Infatti devono essere lasciate a disposizione degli altri cose

14 Ib., II, § 6.15 Ib., II, § 5.16 Cfr. Ib., II, 6.17 Ib., II,§ 22.18 Cfr. Ib., II, 25.19Cfr. Ib., II, 27-28.20 Cfr. Ib., II, 28.21Cfr. Ib., II, 32.

Page 78:  · Web viewRimane fermo però che il cristiano può disobbedire alle leggi contrarie a quella divina. La teoria costituzionale a forma di governo che consenta di far valere nei confronti

sufficienti e buone e nulla deve essere perduto o distrutto di quanto creato da Dio22. Il presupposto

di tale discorso è d’ispirazione cristiana, ma questi limiti sono resi inoperanti da Locke con la

osservazione che vi sarebbe terra sufficiente nel mondo da bastare al doppio d’abitanti “se

l’invenzione della moneta e il tacito accordo degli uomini a porvi valore non avessero introdotto per

consenso più ampi possessi, e il diritto ad averli”23. A partire dunque dal momento in cui il denaro

diviene l’equivalente dei beni consumabili la proprietà si modifica ed esce dai limiti previsti

dall’ordine naturale. L’invenzione e l’uso della moneta giustificano, cioè rendono non solo possibili

ma anche legittimi, possessi più ampi, che cioè vanno al di là di quei giusti limiti determinati dal

consumo necessario alla conservazione. In particolare oro e argento, che sono non deperibili,

possono essere tesaurizzati senza limiti, poiché così nulla si guasta e non si danneggia nessuno; gli

uomini possono così possedere terra e beni molto al di là della loro personale necessità24. Così gli

uomini hanno permesso un possesso della terra sproporzionato e ineguale senza violare la legge

naturale25. Da queste tesi è emersa l’interpretazione di Locke come ideologo della proprietà privata

borghese e dell’accumulazione illimitata di ricchezza. Occorre osservare che Locke si è limitato a

proiettare nello stato di natura un processo economico–sociale effettivo: il sorgere dell’economia

borghese moderna. Non bisogna dimenticare poi che il desiderio che ha portato gli uomini dalla

considerazione del valore d’uso a quello di scambio è spiegato da Locke con una spiegazione

psicologica, cioè con “il desiderio di possedere più di quanto si abbia bisogno” che ha alterato il

valore intrinseco delle cose26. Il denaro permette che questo desiderio sia soddisfatto. Prima del

denaro c’è stato il baratto. Ciò ha fatto dire a Locke che “l’eccedere i limiti della proprietà non sta

nell’estensione del possesso, ma nel fatto che qualcosa vada in rovina inutilizzato nel possesso di

alcuno”27. Ma occorre anche sottolineare la concezione ampia e polisensa della proprietà in Locke,

che non la intende solo in beni mobili ed immobili. Per lui gli uomini si riuniscono in società

politiche “per la mutua conservazione della loro vita, libertà e averi, cose che io nomino con

termine generale, proprietà”28. Non solo averi ma anche vita e libertà sono beni civili. Ora, la

società politica nasce per tutelare proprietà in tutta la vastità dei suoi significati.

Possiamo passare allo stato politico, partendo dal fatto che gli uomini edificano la società

rispettando nel modo più completo la norma fondamentale della legge di natura, quella della

conservazione di sé e degli altri. Gli uomini non sono sufficienti a se stessi e sono perciò spinti a

cercare la società e la comunità con gli altri. E la prima cosa necessaria per una vita conveniente

22 Cfr. Ib., II, 27 e 31.23 Ib., II, 36.24 Cfr. Ib., II, 46.25 Cfr. Ib., II, 50.26 Ib., II, 37.27 Ib., II, 46.28 Ib., II, 123.

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alla natura umana è quella di evitare lo stato di guerra29 originato da quegli uomini che “non

sottostanno ai vincoli della comune legge di ragione, e non hanno altra forza che quella della forza e

della violenza”30. Proprio la necessità di evitare la contesa ed il dominio della forza induce gli

uomini a porsi in società abbandonando lo stato di natura. Così essi portano rimedio alle lacune

dello stato naturale, e principalmente all’insicurezza e alla soggettività nell’applicazione della legge

di natura. Lo stato naturale è diventato complesso con la nascita di istituzioni (famiglia, rapporto

padrone–servo) e con lo sviluppo dell’economia diventata mercantile. Lo stato di natura,

inizialmente pacifico, ad un certo punto si altera e degenera in stato di guerra perché in esso

mancano leggi positive ed un giudice che le faccia rispettare, sicché gli uomini devono farsi

giustizia da soli31. Così però la giustizia si trasforma facilmente in abuso e in vendetta. Invece “dove

c’è un’autorità, un potere sulla terra da cui per appello si può ottenere soccorso, li è esclusa la

permanenza dello stato di guerra”32. Gli individui, o la maggior parte di essi, stipulano il patto con

cui si costituisce un potere civile che non toglie agli uomini i diritti di cui godevano in natura tranne

quello di farsi giustizia da sé, giacché, anzi, la giustificazione del potere civile consiste nella sua

efficacia a garantire agli uomini, pacificamente, questi diritti. “Per potere politico intendo il diritto

di far leggi con penalità di morte, e per conseguenza con ogni penalità minore, per il regolamento e

la conservazione della proprietà”33. Il potere politico si distingue da quello dispotico, che è assoluto

e arbitrario e non è conferito dalla natura ma è la conseguenza del fatto che uno aggredisce un altro

mettendone a repentaglio la vita34. Esso non deriva da un contratto. Il patto sociale è così formulato

da Locke: “L’unico modo con cui uno si spoglia della sua libertà naturale e si investe dei vincoli

della società civile, consiste nell’accordarsi con altri uomini per congiungersi e riunirsi in una

comunità, per vivere gli uni con gli altri con comodità, sicurezza e pace, nel sicuro possesso della

proprietà privata, e con una garanzia maggiore contro chi non vi appartenga”35. Inoltre la libertà

dell’uomo nella società politica consiste “nel non sottostare ad altro potere legislativo che a quello

stabilito per consenso né al dominio di altra volontà o alla limitazione di altra legge da quella che

questo potere legislativo stabilirà conformemente alla fiducia riposta in lui”36. In altri termini il

consenso dei cittadini da cui si origina il potere civile fa di questo potere un potere scelto dagli

stessi cittadini e quindi nello stesso tempo un atto e una garanzia di libertà degli stessi cittadini. Ciò

esclude che il contratto, come in Hobbes, formi un potere assoluto od illimitato. In Hobbes tale

contratto viene stipulato fra i singoli (non ancora popolo) a favore del sovrano (non vincolato dal 29 Cfr. Ib., III.30 Ib., II, 16.31 Cfr. Ib., II, 19.32 Ib., II, 21.33 Ib., II, sez. III.34 Cfr. Ib., II, 23-24,172.35 Ib., II, 95.36 Ib., II, 22.

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contratto, essendone solo beneficiario); col contratto i singoli cedono tutti i loro diritti, tranne la vita

(che deve essere appunto tutelata dal contratto); pactum unionis (generante lo Stato) e pactum

subjectionis (assoggettamento all’autorità politica) vengono in Hobbes a coincidere. In Locke il

discorso è diverso. L’uomo, che non possiede alcun potere sulla propria vita (che per legge di natura

ha il potere di conservare), non può, con un contratto, rendersi schiavo di un altro e porre se stesso

sotto un potere assoluto che disponga di lui come gli piace. Solo il consenso di coloro che

appartengono alla comunità stabilisce il diritto di quella comunità sui suoi membri; ma questo

consenso, come è un atto di libertà, così è diretto a mantenere o garantire questa libertà stessa e non

può convalidare l’assoggettamento dell’uomo all’incostante, incerta e arbitraria volontà di altri

uomini. Per questo il contratto in Locke è primo luogo un pactum unionis, distinto dal pactum

subjectionis, e i singoli col contratto conservano tutti i loro diritti tranne uno, che è quello di farsi

giustizia da soli. Gli uomini infatti entrano nella società politica per conservare e meglio tutelare,

attraverso giudici imparziali, tutto quello che già avevano nello stato di natura, che per Locke è

essenzialmente sociale e pacifico, e non uno stato di miseria e anarchia come in Hobbes. Inoltre per

Locke il sovrano non può essere legibus solutus, perché se non fosse sottoposto alle leggi, non

sarebbe sottoposto nemmeno al giudizio del giudice, la cui istituzione è il fine principale della

società civile, il sovrano in questo modo resterebbe nello stato di natura e tale fine sarebbe

vanificato completamente, poiché i cittadini non sarebbero tutelati da qualsiasi abuso, da qualunque

parte provenga (compreso il sovrano). Questo è uno dei motivi per cui si è detto che in Locke non

ha grande peso il concetto di sovranità, che invece sarebbe legata alla idea di un potere irresistibile e

incondizionato: in realtà anche Locke ritiene indispensabile la cessione di tutto il potere necessario

per la costituzione della società, il che equivale al potere di conservare e difendere la propria vita,

libertà e beni e quello di giudicare e punire i trasgressori37. Ciò significa che, dopo il patto, è la

comunità ad essere arbitra e, con la nascita del giudice comune, nessun giudizio parziale ci può

essere. Il passaggio alla società civile richiede che ognuno di noi rinunci al diritto di punire i

trasgressori della legge naturale e rimetta questo potere e questo diritto all’autorità civile. Con ciò

gli uomini non cessano di appartenere alla comunità umana: “Coloro che sono riuniti in un solo

corpo e hanno una legge comune stabilita e una magistratura cui appellarsi, insignita dell’autorità di

decidere le controversie che nascono fra di loro, si trovano gli uni con gli altri in società civile”38.

Come si avviene l’organizzazione del potere civile? Quando Locke parla del potere politico,

ricorrono i termini di consenso e di fiducia: “Il potere politico è quel potere che ciascuno,

possedendolo allo stato di natura, ha rimesso nelle mani della società, e, in questa, ai governanti che

la società ha stabilito sopra di sé, con la fiducia, espressa o tacita, che sia impiegato per il suo bene 37 Cfr. Ib., II, 87 e 99.38 Ib., II, 87.

Page 81:  · Web viewRimane fermo però che il cristiano può disobbedire alle leggi contrarie a quella divina. La teoria costituzionale a forma di governo che consenta di far valere nei confronti

e la conservazione della sua proprietà”. Perciò, una volta passato nelle mani del magistrato, il potere

“non può avere altro fine né altro criterio che quello di conservare i membri di quella società nelle

loro vite, libertà e possessi, e quindi non può avere un potere assoluto e arbitrario sulle loro vite ed

averi”, ma può essere solo il potere di fare leggi che mirino alla conservazione del tutto; “questo

potere trae origine unicamente dal contratto e dall’accordo e dal mutuo consenso di quelli che

costituiscono la comunità”39. È da escludere che il consenso possa essere di tutti, per cui, posto che

l’unanimità è un obiettivo impossibile da raggiungere, l’unico modo realistico per governare una

comunità sulla base del consenso è la “regola della maggioranza”: “la maggioranza ha il diritto di

deliberare e decidere per il resto”40; infatti “poiché ciò che una comunità delibera non è che il

consenso degli individui che la compongono, e poiché a ciò che è un solo corpo è necessario

muovere in un solo modo, è necessario che il corpo muova nel senso in cui lo porta la forza

maggiore, che è il consenso della maggioranza”41; il “consenso della maggioranza” è “l’azione della

totalità”42.

Il potere politico non può essere illimitato. Quattro sono i limiti fissati da Locke. In primo

luogo il potere politico non può avere più diritti di quelli che gli vengono trasmessi; poiché le

obbligazioni della legge di natura non cessano nella società (talvolta diventano anche più coattive);

il fatto che le leggi positive debbano modellarsi su quelle naturali giustifica la forma del

giusnaturalismo lockeano43 (Ib., II, 135). In secondo luogo il potere politico non può governare con

decreti estemporanei ed arbitrari, ma è tenuto a dispensare la giustizia e a decidere intorno ai diritti

dei sudditi con leggi promulgate e fisse e giudici autorizzati e conosciuti; certezza del diritto è

l’eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge (principio di legalità); quindi le leggi promulgate

non devono variare nei casi particolari ma essere uguali per tutti44. In terzo luogo il potere civile non

può togliere una parte anche minima della propria proprietà personale senza il suo consenso; e così

non possono essere imposte tasse senza il consenso del popolo stesso, poiché uno dei fini del potere

civile è la difesa della proprietà, che è diritto naturale dell’uomo; e senza questa limitazione del

potere il godimento della proprietà diventa illusorio45. In ultimo luogo il potere civile “non può

trasferire il potere di fare leggi in altre mani, perché, dal momento che non è un potere delegato dal

popolo, coloro che l’hanno non possono passarlo ad altri”46.

39 Ib., II, 171.40 Ib., II, 95. 41 Ib., II, 96.42 Ib., II, 98.43 Cfr. Ib., II, 135.44 Cfr. Ib., II, § 137.45 Cfr. Ib., II, 138.46 Ib., II, 141.

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Vediamo ora quali sono in Locke le funzioni del potere. Il potere politico deve conseguire il

fine della comunità politica, che è quello di determinare come la forza della comunità debba essere

adoperata per conservare la comunità stessa e i suoi membri. Esso risponde alla funzione del potere

legislativo, che perciò incarna, a partire dalla costituzione politica fondamentale, la legge morale in

decisioni generali miranti al bene pubblico (pace, sicurezza e benessere del popolo). Esso è

“supremo” non perché illimitato ma perché è superiore al potere esecutivo. Il primo fa le leggi, il

secondo le esegue, applicando la legge secondo la regola dell’equità e conservando la prerogativa di

poter adottare decisioni particolari a seconda delle circostanze. Le loro funzioni sono nettamente

distinte47; il potere esecutivo è però subordinato al primo.

Il potere esecutivo diventa potere federativo quando è incaricato della salvaguardia della società

politica nei suoi rapporti con l’estero e ha il compito di rappresentare la comunità di fronte ad altre

comunità o ad individui estranei ad essa; perciò ad esso sono devolute le decisioni intorno alla

guerra e alla pace, alle alleanze, alle leghe48. Potere esecutivo e potere federativo sono nelle stesse

mani, perché sono inseparabili. I poteri fondamentali sono però il potere legislativo ed il potere

esecutivo. Se quest’ultimo, che è in possesso della forza della società politica, se ne serve contro il

legislativo, si pone in stato di guerra contro il popolo, che ha il diritto di ristabilire il suo potere

legislativo nell’esercizio del suo potere anche con l’uso della forza49. Ma il popolo conserva, dopo

la costituzione di una società politica, il potere supremo di rimuovere o alterare il potere legislativo.

Questo può essere rimosso quando legifera contro la fiducia del popolo, per esempio quando attenta

(per sconsideratezza, ambizione o corruzione) alla proprietà dei cittadini. La costituzione della

società civile non significa mai affidarsi ciecamente alla volontà assoluta e all’arbitrario dominio di

un altro uomo. Perciò ognuno conserva il diritto di difendersi contro gli stessi legislatori50. Locke ha

pienamente giustificato con ciò il diritto di resistenza contro la tirannide. Il ricorso alla resistenza

attiva e alla forza, contro ogni potere politico che ecceda i suoi limiti e ponga l’arbitrio al posto

della legge, non è ribellione, perché è piuttosto la resistenza contro la ribellione dei governanti alla

legge e alla natura della società, perché cioè non guardano più alle esigenze del bene pubblico 51. Lo

stesso diritto i cittadini conservano di fronte al potere esecutivo, il quale è già subordinato al potere

legislativo e deve rendere conto ad esso dei suoi provvedimenti52.

Contro il diritto di resistenza molti obiettano che esso pone il fondamento del governo nell’instabile

opinione e nell’umore incerto del popolo. Locke ritiene invece che gli uomini non cambiano le loro

47 Cfr. Ivi, §§ 132-150.48 Cfr. Ivi, §§ 145-148.49 Cfr. Ivi, § 155.50 Cfr. Ivi, §§ 149, 222.51 Cfr. Ivi, § 241.52 Cfr. Ivi, § 152.

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antiche forme di governo così facilmente (Hobbes dice al contrario proprio che la natura degli

uomini è soggetta a desiderare novità) e difficilmente si convincono ad emendare i difetti della

Costituzione. Errori e leggi ingiuste sono spesso sopportati dal popolo, che si rivolta solo dopo una

lunga serie di abusi, prevaricazioni e inganni53. Con la rivoluzione legittima, il popolo, che possiede

il potere costituente (=capacità di creazione dello Stato ma differenziazione da esso, poiché può

modificarlo se non risponde più alla norma della legge di natura), ritrova il suo potere morale per

intero al fine di dare esecuzione alla legge di natura: “la legge nella sua accezione, non è tanto

costrizione quanto indicazione data a un agente libero e intelligente per il suo proprio interesse. essa

non prescrive nulla che vada oltre l’intenzione del Bene generale di coloro che si trovano ad essere

soggetti alla legge”54.

Desta sorpresa il fatto che Locke non menzioni nella sua teoria dei poteri, quello giudiziario, tanto

più che l’inconveniente più grave dello stato di natura è proprio la mancanza di natura che facciano

osservare le leggi e comminino le giuste pene per la loro infrazione. Non è in realtà

un’incongruenza grave, perché il potere giudiziario è concepito come parte essenziale di quello

legislativo, che ha così due diverse ma inscindibili attività, quella di emanare leggi e quella di farle

applicare: “l’autorità legislativa o suprema non può assumersi il potere di governare con poteri

estemporanei ed arbitrari, ma è tenuta a dispensare la giustizia e a decidere intorno ai diritti dei

sudditi, con leggi promulgate e fisse, e giudici autorizzati e conosciuti”55.

Alla visione di Locke è connaturata la riflessione sulla religione e sulla tolleranza56. Già nel Saggio

sulla tolleranza del 1667 viene chiaramente affermato che esistono sfere di pensiero e di azione in

cui l’individuo non deve subire alcuna limitazione da parte dello Stato, poiché esse non hanno alcun

effetto sulla vita politica e sociale della nazione. Tra queste Locke colloca le opinioni filosofiche e

il culto divino. L’ Epistola sulla tolleranza del 1689 viene pubblicata anonima,ma risulta assai

moderna per la tesi della netta separazione tra Stato e Chiesa per quanto riguarda le finalità, le

funzioni e i poteri che ad essi rispettivamente competono. Lo Stato è un’associazione di individui

che ha come scopo la tutela del diritto naturale alla vita, alla libertà e alla proprietà. La giurisdizione

del magistrato civile non può estendersi a ciò che concerne la salute delle anime, poiché,

consistendo il suo potere nella coercizione, non potrebbe esercitarsi in alcun modo sulla coscienza,

la quale è per se stessa incoercibile. Le questioni religiose non hanno alcuna attinenza con la difesa

di quei diritti, a meno che esse non comportino pratiche nocive per la salute sociale o l’integrità

dello Stato stesso. Perciò Locke esclude dal diritto alla tolleranza due categorie: a) i cattolici

53 Cfr. Ivi, §§ 225-232.54 Ivi, § 57.55 Ivi, § 136.56 Cfr. J. Locke, Lettera sulla tolleranza, La Nuova Italia, Firenze 1961.

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(“papisti”) che, aderendo alla Chiesa cattolica, non possono essere tollerati dal magistrato civile in

quanto passano sotto il potere di un altro principe; nella Chiesa il Papa ha infatti sia la qualità di

Capo della Chiesa sia quella di sovrano di uno Stato; i papisti obbediscono ad una autorità politico–

religiosa che è per Locke a sua volta intollerante; b) gli atei, poiché non esistendo per essi alcunché

di sacro, non possono dare alcuna garanzia sui patti e sui giuramenti che assicurano la coesione

dello Stato e l’armonia della società. La Chiesa è invece un’associazione intesa a procurare ai propri

membri la salvezza dell’anima, che, dipendendo da condizioni interiori della coscienza del credente,

non può essere indotta con la forza. Il sacerdote non può richiedere l’intervento del magistrato per

realizzare con la coazione ciò che non riesce a ottenere con le armi della parola e della convinzione.

La Chiesa può legittimamente espellere dal proprio seno mediante scomunica coloro che non

condividono i dogmi e i riti che essa propone come mezzi di salvezza: ma lo scomunicato non deve

assolutamente perdere i diritti civili di cui gode come membro dello Stato.

La tolleranza nella Ragionevolezza del cristiano, scritto nel 169557, è considerata alla luce del più

vasto problema del rapporto tra religione e ragione. Ridotto alla sua struttura essenziale, il

cristianesimo si limita alla fede nell’esistenza di Dio, al riconoscimento della funzione salvifica del

Cristo come Messia e alla predicazione di alcuni insegnamenti morali fondamentali. Considerata

sotto questa luce, la religione cristiana non solo non appare contraria alla ragione, ma rivela la sua

intrinseca ragionevolezza poiché non fa che rivestire con la forza della Rivelazione contenuti etico–

religiosi cui tutti potrebbero accedere con il solo ausilio della ragione E’ la posizione di un deismo

moderato. Infatti Locke non rifiuta ogni forma di religione positiva (come i deisti posteriori) cui

viene generalmente ridotta una religione razionale o naturale. Nella religione cristiana ragione e

rivelazione camminano di pari passo. Per questo l’adesione ai singoli credi o ai singoli riti delle

varie sette cristiane (che interpretano la dottrina cristiana in dettagli che vanno al di là delle verità

fondamentali) non può essere viziata dal fanatismo di chi crede di essere egli solo nella verità, ma

deve essere animata dallo Spirito di tolleranza di chi si affida alla forza dell’argomentazione

razionale. La ragione serve non a raggiungere la verità, ma a togliere ostacoli per avvicinarsi ad

essa. Il fanatismo è così il maggiore ostacolo sia nelle questioni religiose che in quelle politiche.

10. G. B. Vico fra storia e diritto(Napoli 1668 – 1744)

57 J. Locke, Ragionevolezza del cristianesimo (1795), a cura di A. Sabetti, La Nuova Italia, Firenze 1979.

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Di P. Armellini

La vita.

Figlio di un poverissimo libraio con altri 7 figli, ha avuto una infanzia funesta da un grave incidente

al cranio. Studi quasi da autodidatta lo condussero appena diciottenne a difendere il padre in una

causa forense, in cui però non si sente portato. Accetta con gioia di educare i figli del marchese

Rocca (1686 – 1695). Ha contatti col mondo culturale napoletano, con i nuovi eclettici, i rinnovatori

del cartesianesimo, gli scettici libertini, i gasseudiani, i pensatori del naturalismo rinascimentale, i

galileiani. Legge Lucrezio di cui è riflesso la canzone “Affetti di un disperato” (1693). Nel 1699

vince la cattedra di eloquenza nell’università di Napoli; si sposa ed ha otto figli. In una esistenza

tribolata porta avanti il colloquio con i “Quattro autori” (Platone, Tacito, Bacone e Grozio). Scrive

le “Orazioni inaugurali” tra cui “De nostri temporis studiorum ratione” (1708). Importante è “De

antiquissima italorum sapientia” (1710). Fra il 1717 e il 1732 si hanno gli anni più fecondi: la

prima “Scienza Nuova” (1725), l’ “Autobiografia” (1728), la seconda “Scienza Nuova”(1725).

Diventato storiografo regio muore nel 1744.

Le opere.

Le “Orazioni inaugurali”.

Le sei “Orazioni inaugurali” (1699 – 1706). Polemica antirazionalista, dove accanto a

riconoscimenti all’atonismo, e a Cartesio, si affaccia già la polemica contro la pretesa di una scienza

matematizzante della natura. La polemica si fa più forte con l’orazione “ De nostri temporis

studiorum ratione” (1708). Contro il razionalismo cartesiano Vico difende i diritti della fantasia e

della memoria, senza le quali non è possibile neanche la poesia; rivendica il valore della retorica e

dell’eloquenza; contesta l’idea di un’unicità del metodo e della ricerca degli studi; sostiene la

peculiarità ella scienza morale e politica, che, presupponendo il libero arbitrio dell’uomo, non è

suscettibile di certezza assoluta. Vico quindi ritiene impossibile la pretesa di ridurre ogni

conoscenza all’evidenza razionale poiché vi sono certezze umane che non si lasciano ricondurre ad

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essa, cioè alla necessità della dimostrazione propria della ragione geometrica. Egli difende

l’autonomia del certo di fronte al vero.

Contro l’apriorismo Vico si richiama a F.Bacone il quale gli avrebbe dato l’idea della complessità e

ricchezza dell’universo culturale e dell’esigenza di scoprire le leggi di questo universo. Accanto a

lui, fra i suoi “autori”, occorre porre Platone, il filosofo dell’uomo quale deve essere, e Tacito, lo

storico dell’uomo qual è. Più tardi aggiungerà Grozio che l’avrebbe indirizzato a capire le leggi del

mondo degli uomini (v. “Autobiografia”). Questo periodo si conclude con l’opera “De

antiquissima Italorum sapientia” (1710) dove si propone di rintracciare, attraverso l’analisi

etimologica di alcune parole dotte della lingua latina, considerate come relitti di un’età tramontata,

la sapienza filosofica dei primi abitanti dell’Italia. In realtà egli finisce per attribuire a questi antichi

popoli le sue teorie, fra cui in particolare la dottrina dell'equivalenza del vero col fatto, in base al

quale criterio si sostiene che solo Dio ha conoscenza piena della realtà, perché si può conoscere con

verità soltanto ciò di cui si è autori. Questo criterio Vico lo applicherà originalmente alla storia

umana. Antitesi quindi tra conoscenza divina (conoscenza perfetta risultante dal possesso di tutti gli

elementi che costituiscono l’oggetto) e conoscenza umana (l’andare raccogliendo fuori di sé alcuni

degli elementi costitutivi dell’oggetto). Differenza quindi tra l’intendere (intelligere) e pensare

(cogitare). La ragione, che è l’organo dell’intendere, appartiene veramente a Dio, mentre l’uomo ne

partecipa soltanto. Dunque Dio e l’uomo possono conoscere in verità solo ciò che fanno: “verum et

factum convertuntur”. Ma il fare di Dio è creazione di un oggetto reale; il fare umano è creazione di

un oggetto fittizio, che l’uomo opera raccogliendo al di fuori di sé, per via di astrazione, gli

elementi del suo conoscere. In Dio le cose vivono, nell’uomo periscono (“De antiq.”,1,1). La

conoscenza umana nasce così da un difetto della mente umana cioè dal fatto che essa non contiene

in sé gli elementi da cui le cose risultano e non li contiene perché le cose sono fuori di essa. Questo

difetto tuttavia viene convertito in vantaggio giacché l’uomo si procura mediante l’astrazione gli

elementi delle cose che originariamente non possiede e dei quali poi si serve per ricostruire le cose

stesse in immagine.

Posto dunque il principio che si può conoscere solo quando si fa, l’uomo non può conoscere il

mondo della natura che, essendo creato da Dio, può essere oggetto solo della conoscenza divina.

Con verità si può conoscere il mondo della matematica che è un mondo di astrazioni create

dall’uomo.

L’uomo non può conoscere neppure il proprio essere la propria realtà metafisica. Il torto di Cartesio

è stato quello appunto di averlo creduto possibile. Il cogito è la conoscenza del proprio essere, non

la scienza di esso, del proprio pensare. La coscienza può essere propria anche dell’ignorante

Page 87:  · Web viewRimane fermo però che il cristiano può disobbedire alle leggi contrarie a quella divina. La teoria costituzionale a forma di governo che consenta di far valere nei confronti

(d’altronde nessuno scettico dubita della coscienza della propria esistenza); la scienza è la

conoscenza vera fondata sulle cause. Ora, l’uomo non conosce la causa del proprio essere perché

non è egli stesso questa causa: egli non si crea da sé. Il cogito cartesiano sarebbe principio di

scienza solo nel caso che il mio pensiero fosse causa della mia esistenza: il che non è, giacché io

sono composto di mente e di corpo e il pensiero non è causa del corpo. E non è neppure causa della

mente. Se fossi soltanto corpo, non penserei; se fossi soltanto mente, neppure penserei perché avrei,

come Dio, l’intelligenza: l’unione del corpo e della mente è dunque la causa del pensiero. E il

pensiero è solo un segno e non la causa del fatto che io sono mente (Ib.,1,3). Vico osserva che

Cartesio avrebbe dovuto dire non già <<io penso dunque sono>>, ma <<io penso dunque esisto>>.

L’esistenza è il modo d’essere proprio della creatura: significa esserci o esser sorto o star sopra e

suppone la sostanza, vale a dire ciò che la sostiene e ne racchiude l’essenza (“Prima risp. Al Giorn.

Dei Lett.”, § 3). Non si ha quindi scienza del proprio pensare perché si ignora in qual modo il

pensiero si produca.

Il criterio sul quale fondare la ragione deve invece dunque essere individuato sulla base della

distinzione fra il vero e il fatto e della successiva conversione dal vero col fatto. Ciò significa che si

può avere una vera scienza solo delle cose che facciamo ed essa deve preoccuparsi di individuare il

modo, la guisa onde le cose che intendiamo conoscere si generano. Solo Dio ha vera scienza della

natura poiché l’ha creata; l’uomo non ha fatto la natura e ne può avere conoscenza limitata, mentre

ha piena conoscenza della matematica e della geometria i cui principi e simboli sono fatti dalla

mente umana.

Ora si tratta di indicare come avviene la conversione del verum factum, se è una operazione mentale

oppure si realizza nel fare, nella pratica attività degli uomini. La scienza deve riferirsi alle cose

umane prodotte dall’attività dell’uomo. Vico riafferma spesso il fondamento metafisico del vero,

della giustizia, del diritto, dell’equità che derivano tutti da Dio e ritornano a lui, perché per lui è la

Provvidenza divina e costituisce il presupposto metafisico che consente agli uomini di fare la storia.

Ma da questo ordine ideale Vico non deduce classicamente i principi dell’ordine storico – politico.

Gli interessa invece il processo di formazione dove si converte vero e fatto. Fatto è tutto ciò che

testimonia l’attività degli uomini: la scienza dei fatti comprende tutto il campo delle discipline

umanistiche (filologia) contrapposto alla filosofia come scienza del vero. Il fatto certifica l’attività

dell’uomo. Ora si tratta di cogliere nel fatto ciò che contiene il vero e lo <<accerta>>. Quando

l’uomo non è in grado di conoscere il vero si attiene al certo, per essere sicuro di ciò che fa. E

dall’incertezza l’arbitrio umano ci si toglie grazie ai precetti del senso comune, espresso in un

popolo, un gruppo sociale, una nazione, che è la prima certificazione del vero. Solo dopo un lungo

periodo gli uomini considerano il vero con la ragione. Il certo è dunque l’autorità della Tradizione.

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È sul verisimile infatti che si fondano le manifestazioni umane fondamentali come la retorica, la

poesia, la storia, la prudenza, non su verità geometriche.

Il verisimile è la verità problematica, ciò che sta in mezzo tra il vero e il falso e non implica una

garanzia infallibile di verità. Il verisimile è la verità umana per eccellenza. È il probabile

fondamento della metafisica poiché essa non è servita ad altro che a fare nazioni deste, acute,

riflessive e gli uomini ingegnosi, magnanimi, pronti. Ricondurre la filosofia alla verità dimostrativa

matematica è causa di dubbio e di disordine. Per questo alle ragioni cartesiane Vico oppone

l’ingegno, alla critica la topica.

Il certo discende dalla volontà sicura dei fini che vuole perseguire e si identifica coi modi che

rendono sicura la volontà. Essa è l’autorità. Ora, non sussiste contrapposizione tra vero e certo

(ragione che rende possibile la conoscenza del vero e autorità) poiché il certo è parte del vero,

precisamente quella che può essere appresa dall’uomo nelle condizioni i cui si trova. La ragione si

manifesta nell’uomo dopo un lungo periodo e inoltre non perviene ad una conoscenza esaustiva del

vero per cui deve sempre attenersi al certo.

“La Scienza Nuova” (1725 – 1730 – 1744)

L’opera consta di cinque libri, preceduta da una premessa illustrativa (“Idea dell’opera”).

Primo libro: “Dello stabilimento dei principi”.

Secondo libro: “Della sapienza poetica”.

Terzo libro: “Della discoverta del vero Omero”.

Quarto libro: “Del discorso che fanno le nazioni”.

Quinto libro: “Del discorso delle cose umane nel risurgere che fanno le nazioni”.

Abbiamo finora visto riconoscere alla conoscenza la capacità di investigare un certo ordine di realtà

(la matematica) ma non altri. Ora nella “S.N.” riconoscere come oggetto proprio della conoscenza

umana il mondo della storia, dove l’uomo non è sostanza fisica e metafisica, ma prodotto della sua

propria azione, i cui principi possono essere cercati nell’uomo stesso.

La scienza nuova intende instaurare un’indagine del mondo storico diretta a rintracciare l’ordine, le

leggi di questo mondo. Essa è nuova solo come riflessione sulla storia. Ma nello stesso tempo è

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antichissima in quanto nata con l’uomo e la vita associata e cominciò con il pensiero umano e non

quando i filosofi cominciarono a riflettere sulle cose umane. In ciò si forma l’umanità e l’uomo nel

suo proprio essere d’uomo, poiché la riflessione accompagna tutta la storia umana e in essa si

verifica l’identità del vero e del fatto nel senso che l’uomo che pensa la storia è colui che la fa. La

storia non è un succedersi slegato di avvenimenti, ma ha in sé un ordine fondamentale, al quale lo

svolgersi degli avvenimenti tende o accenna come al suo significato finale. Può assurgere alla

dignità di scienza come unità di certo (filologia) e vero (filosofia) cioè è insieme inveramento del

certo (particolare) e accertamento del vero (universale). In questo senso la storia non è

insignificante erudizione né un riempirsi di anacronistici arbitrari significati. Occorre cioè

abbandonare il dualismo tradizionale tra filosofia e filologia, ossia tra la conoscenza del vero e di

ciò che è accertabile di fatto sul passato. I principi della nuova scienza si trovano nella natura della

nostra mente di uomini, comune a tutti. Nella mente umana ciò che è chiaro è che in essa la ragione

si sviluppa da ultimo, dopo lo sviluppo del senso e poi della fantasia. Vico così proietta questo

schema della psicologia individuale, sulla storia dell’umanità: gli uomini prima sentono senza

avvertire, poi avvertono con animo perturbato e commosso, poi infine riflettono con mente pura. Si

hanno così tre età, in cui passano tutte le nazioni: età degli dei (miti religiosi primitivi), l’età degli

eroi o del dominio signorile (i poemi omerici) e infine l’età degli uomini (pensiero filosofico e

codificazioni legislative).

Vico rompe così con la tradizione ermetica che interpretava i miti in chiave allegorica, mentre per

lui essi rappresentano la parte fondamentale di ogni cultura primitiva, manifestazione di una

fantasia che somiglia a quella dominante ancora nei bambini. Contro la comprensione di questa

sapienza poetica si è opposta la baria dei dotti e quella delle nazioni, i primi desiderosi di riportare il

più indietro possibile nel tempo le proprie dottrine, le seconde la propria civiltà. Occorre invece

riconoscere l’autonomia della sapienza poetica e rinunciare a giudicare antistoricamente le credenze

più antiche alla luce del pensiero razionale, sulla base della civiltà moderna. È quindi da evitare sia

l’illusione di ritrovare una sapienza riposta dietro la lettera delle antiche favole ma anche il

disprezzo razionalistico per le superstizioni arcaiche (le fonti delle tre età sono Terenzio e Platone).

Ora, se per gli antichi la successione delle età è un ordine di decadenza e di regresso (la perfezione è

all’inizio), per Vico la successione è un ordine progressivo. Se la storia delle umane idee, come

storia ideale eterna, è ciò su cui procede la metafisica della mente umana, essa è la determinazione

dello sviluppo umano dalle rozze origini fino alla ragione tutta dispiegata.

Il punto di partenza della storia e della meditazione storica di Vico è la situazione originaria

dell’uomo dopo il peccato originale, dopo il quale desidera il soccorso, che la natura non può dargli,

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da una cosa superiore, Dio. L’uomo quindi tende ad uscire dal suo stato di caduta per muovere

verso un ordine divino e perciò compie uno sforzo o conato per sollevarsi dal disordine degli

impulsi primitivi. La filosofia lo aiuta in questo sforzo mostrandogli come egli deve essere (la rep.

Di Pl. Contro la feccia di Romolo, termine ed inizio della storia).

La scienza della storia è allora teologia civile e ragionata della Provvidenza divina, cioè la

dimostrazione di un ordine provvidenziale: l’uomo, nel suo tentativo di sollevarsi dalla caduta, si

muove nel tempo ma tende ad un ordine universale ed eterno, il quale si viene chiarendo come meta

finale, anche senza o contro il proponimento della comunità umana, come “gran città del genere

umano”, che è la comunità umana nel suo ideale, la vita associata come deve essere nella sua

realizzazione finale. È alla sua luce che la successione temporale acquista significato. Alla nuda

constatazione del fatto succede la valutazione (al “fu, è, sarà” il “dovette, deve, dovrà”), la necessità

ideale per la quale, tra le possibili direzioni che il corso storico poteva assumere, una solo doveva

assumere il corso cronologico per realizzare l’ordine della comunità ideale. Questa necessità ideale

non è però necessità di fatto che annulla le alternative. La storia ideale eterna non si identifica mai

con la storia nel tempo. Questa corre su quella, ed è la struttura che regge la storia temporanea e la

norma per giudicarla. È il dover essere della storia nel tempo, che non annulla la problematicità

della storia, che può anche non adeguarsi e non raggiungere il termine. La storia ideale eterna è

quindi trascendente rispetto alla storia particolare delle nazioni, che non esclude il rapporto ma anzi

lo implica.

Platone è così l’antecedente del suo pensiero in quanto la repubbl. Plat. È la norma per la

costituzione di uno Stato ideale. Ma Vico gli rimprovera di non aver considerato lo stato di caduta

originario (ha fissato lo sguardo sulla meta finale della storia non sul suo inizio). Occorre quindi

integrarne l’insegnamento con Tacito (l’uomo qual è) per poi considerare l’intero sviluppo della

storia come il progresso che va dall’umanità decaduta e dispersa all’umanità restituita all’ordine

della “ragione tutta spiegata”.

Vico ritiene indissolubilmente solidali Rivelazione e ragione e afferma che la “S.N.” dimostra la

verità della Bibbia poiché solo l’ipotesi dell’uomo ingiusto non per natura ma per natura caduta o

debole permette la comprensione della storia. Il suo “bestione” primitivo è diverso da quello di

Lucrezio, Hobbes, Grozio, Selden, Pufendorf, che, sulla base di una gnoseologia sensista o di una

metafisica materialistica, lo pervertono radicalmente. Solo l’ipotesi di un uomo inizialmente buono

poi per sua colpa corrotto, spiega la storia. Vico infatti nega il passaggio dal non-uomo all’uomo.

Anche l’umanità primitiva, di robustissimi sensi, possiede la ragione, anche se stordita e stupida. I

termini del problema non sono quelli del passaggio dal non- uomo all’uomo, ma quello di come

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l’Adamo decaduto (gli uomini rozzi tutto senso e passione) possa aver potuto dare origine alla

società e alla civiltà, che neppure poi riesce a conservare.

Il rapporto tra storia nel tempo e quella ideale eterna è rapporto fra essa e la totalità della norma ed è

proprio per questo che ogni età ha la possibilità di muoversi e non morire e sfuggire la disperazione.

La storia ideale eterna in quanto eterna non ha parti e non si distribuisce nella successione

cronologica. È norma trascendente divina che sorregge l’uomo. Ciò che costituisce la differenza tra

le varie fasi della storia è nella modalità del rapporto, secondo il senso, la fantasia, la ragione.

Le tre età della storia.

La prima sapienza del genere umano è stata una sapienza poetica. Gli uomini che hanno fondato la

società erano stupidi insensati e orribili bestioni, privi di legge e di linguaggio articolato, senza

potere di riflessione, ma dotati di forti sensi e robusta fantasia. Le forze naturali che li minacciavano

erano per loro divinità terribili, per timore delle quali cominciarono a frenare gli impulsi bestiali,

creando la famiglia e i primi ordini civili. Si costituirono quelle che Vico chiama “repubbliche

monastiche” dominate dalla potestà paterna e fondate sul timore di Dio (età degli dei). L’uomo

primitivo non è giusnaturalisticamente uomo di ragione tutto dispiegato e non si distingue dalle

bestie. In lui la ragione è sprofondata nel corpo e nell’istinto. La genesi del movimento attivo (per

cui l’uomo non subisce con passività gli impulsi esterni, ciò che lo distingue dalle cose e dai bruti) è

connessa a due modi di avvertire, conoscere, la realtà, la religione e la fantasia. La prima esperienza

religiosa è il terrore religioso che l’uomo prova in occasione di un fenomeno naturale, il fulmine.

Da ciò egli si figura il cielo come un essere animato che tutto domina e che col fulmine comanda.

L’uomo cerca di interpretare queste manifestazioni del cielo per conformarsi alla sua volontà. Al

terrore religioso è connesso il pudore (che lo sottrae alla promiscuità e lo lega alla donna, da cui il

matrimonio). Un altro sentimento generato è la pietà per i defunti. Divinazioni, matrimoni e

sepoltura sono le esperienze originarie con cui l’uomo si umanizza. Si forma così la prima autorità

che è quella monastica dove l’uomo nello stato di natura vive solo con la compagna e i figli e non

ha sopra di sé che Dio.

Incominciata la vita delle città, le repubbliche si fondarono invece sulla classe aristocratica, che

coltivava le virtù eroiche della pietà, della prudenza, della temperanza, della fortezza, e della

magnanimità. Gli uomini facevano derivare ancora la propria nobiltà da Dio, ancora la fantasia

prevaleva sulla riflessione (età degli eroi). L’evoluzione è promossa dall’esigenza di procurarsi

mezzi di sussistenza più abbondanti di quelli offerti dalla natura per cui occorre coltivare la terra cui

si dedicano le genti maggiori. Vi si contrappongono le genti minori, che continuano la vita ferina.

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Questi, affamati, invadono i campi coltivati, ma debellati dalle genti maggiori, alcuni mantengono

la vita se coltivano la terra (servo – padrone) e perciò vengono tutelati dalle genti maggiori. Il primo

nucleo politico è allora genitori, figli e famoli, non uniti quindi dal sangue ma dal dominio del pater

familias. Si ha la distinzione, naturalmente fondata, fra nobili (che hanno legittime nozze e auspici)

e plebei che ritengono i nobili nati da dei. Crescono in numero i plebei e perdono in austerità ed

onestà i nobili (grazie alla riflessione e alla malizia) e hanno inizio le contese, con il rapporto di

tutela che si rivela asservimento, in cui i famoli si persuadono della vanità della distinzione e

lottano perché siano loro partecipati auspici e nozze. I nobili si difendono stringendosi insieme

senati eroici e repubbliche aristocratiche, che sono le prime forme politiche di convivenza. In questo

periodo gli uomini si levano dallo stadio di mutismo e fondano la lingua articolata che come

espressione di mente sensitivo – fantastico dovette esser poetica. La poesia è divina (il trascendente,

visto dalla fantasia, fa vedere in ogni corpo la divinità) ed è creatrice (anche se solo di immagini

corpulente, che perturbano lo spirito e creano emozioni violente, non di cose reali). Il linguaggio

non è arbitrario ma nasce dalla esigenza degli uomini di intendersi. La poesia non è sapienza riposta

(verità intellettuali camuffate) ma un modo autonomo di intendere la verità e del trascendente.

Nell’opera di Omero Vico ha visto l’opera anonima e collettiva del popolo greco dell’età eroica

(miti e racconti favolosi di verità che la riflessione non era capace di chiarire). Ma la poesia si

spegne quando prevale la riflessione (gli uomini che si allontanano da ciò che è sensibile e

corpulento, si staccano dalla fantasia per esprimersi e formulare concetti universali).

Per quanto riguarda il diritto. Dopo il susseguirsi degli ammutinamenti dei servi della gleba contro i

nobili, questi si riuniscono in ordini e nominano un re le prime città sono aristocratiche. Esse

devono reperire i mozzi di sussistenza dal lavoro dei campi, affidato alle genti minori, a cui viene

concesso prima il dominio bonitario dei campi, sempre revocabile (1a legge agraria). Gli ordini

aristocratici sono chiusi e la plebe ottiene l’istituzione dei tribuni della plebe. Con le XII Tavole i

plebei ottengono il diritto quiritario la proprietà piena dei nobili (2a vittoria). Ma questa dopo la

morte del proprietario tornava all’originario concedente aristocratico, poiché, non partecipando agli

auspici (culto religioso) i plebei non potevano sposarsi e possedere prole. Con gli auspici essi

ottennero tutto ciò che riguardava la ragione privata e dopo conseguirono anche quella pubblica con

cui si conclude la parificazione tra plebe e nobiltà Nasce l’età degli uomini col passaggio dalla

metafisica fantastica e sentita a quella ragionata. Il rapporto con l’ordine provvidenziale della storia

eterna assume la forma della riflessione, che mira a rintracciare l’idea del bene sulla quale tutti gli

uomini debbono accordarsi. Nasce la filosofia platonica, intesa a trovare nel mondo delle idee la

conciliazione degli interessi privati e il criterio di una comune giustizia.

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Con la nascita della repubblica democratica prende così inizio quella età degli uomini in cui la

ragione è tutta dispiegata. La forma di convivenza non è di natura sensitivo – fantastica ma di natura

riflessivo – razionale, poiché la vita si viene affinando con la penetrazione della ragione nel

significato di cerimonie, riti, leggi, prescrizioni. Cessa il formalismo giuridico poiché alla

giurisprudenza severa succeda quella benigna; le leggi si moltiplicano al fine di adeguarsi alla

varietà dei casi. Il dominio politico non è più in mano ai nobili, sulla base di una distinzione di

natura inaccessibile, ma è di tutti sulla base del merito e del censo, accessibile e stimolatrice delle

energie di tutti. Al senato compete la tutela del popolo. È la libertà il principio su cui si fonda tutta

la costituzione ed è il risultato di un lungo processo storico in cui la ragione storica delle classi

dominanti si venne a poco a poco umanizzando, sotto le richieste della plebe. La legge e il diritto

difendono tutti i cittadini. Si perviene ad una reale compartecipazione fra politica, leggi e ragione in

cui si esplica nella filosofia e nelle scienze. Con ciò si forma lo Stato come terza universitas iuris (la

prima è l’uomo, la seconda il pater familias). In esso l’individuo vive nella sua compiuta

dimensione ed esiste una reale comunione di vita fra gli individui che partecipano a tutte le forme di

vita associata. In esso ragione volontà e potere si convertono l’una nell’altra. La storia ideale eterna

è norma dello sviluppo delle comunità che si evolvono. Vico considera la storia temporale sempre

in rapporto ad essa.

La provvidenza.

Sono solo gli uomini a creare le nazioni. Ma questo mondo non si intende senza l’ordine

provvidenziale. Sono monastici o solitari i filosofi che rendono impossibile intendere il mondo della

storia. Epicuro Hobbes e Machiavelli sostengono che le azioni umane avvengono a caso; gli stoici e

Spinoza invece ammettono il fatto. Caso o fatto rendono impossibile la storia perché l’uno esclude

l’ordine, l’altro la libertà. L’ordine provvidenziale garantisce l’uno e l’altra. Il mondo delle nazioni

è uscito da una mente diversa, alle volte contraria, sempre superiore ai fini particolari degli uomini,

per conservarne la generazione. Per es. dalla libidine sono nati matrimoni e famiglie;

dall’ambizione dei capi le città; dall’abuso della libertà dei nobili sopra i plebei le leggi e la libertà

popolare. La provvidenza rivolge ai fini della conservazione e della giustizia della società umana le

azioni e gli impulsi apparentemente più rovinosi (eterogenesi dei fini).

La provvidenza non interviene dall’esterno, miracolosamente, per correggere gli smarrimenti

dell’uomo. Ma la storia ideale eterna non è immanente a quella temporale. Nell’uno e nell’altro

caso la protagonista della storia sarebbe la provvidenza che così sarebbe la necessità razionale

intrinseca agli avvenimenti storici. Il riprodursi delle storie delle nazioni sarebbe uniforme.

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La trascendenza è il significato ultimo della storia, al di là degli eventi particolari, di cui sono autori

gli uomini. Essa è norma ideale cui il corso degli eventi non si adegua mai perfettamente. Ma la

provvidenza è presente all’uomo, che solo in rapporto ad essa può sollevarsi dalla caduta e fondare

il mondo della storia (come sapienza poetica, riflessa e filosofica). La sapienza umana è

essenzialmente religiosa perché si riferisce al divino. Vico difende la funzione civile della religione

e se la scienza nuova ha come oggetto la trascendenza, è teologia civile e ragionata della

provvidenza divina , se ha per oggetto la presenza della norma ideale della storia è storia delle

umane idee.

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11. Il costituzionalismo di Montesquieu fra forme di

governo e separazione dei poteri di P. Armellini

(Montesquieu Nasce a Bordeaux 1689 – Muore a Parigi 1755)

Vita e opere:

Charles- Louis de Secondat, barone di Montesquieu nasce presso Bordeaux nel 1689 da una ricca

famiglia della nobiltà di toga. Dopo studi di diritto a Bordeaux e Parigi, diventa magistrato, ma

vende la carica nel 1725. Si occupa di divulgazione scientifica nella convinzione che la conoscenza

sconfigga il pregiudizio. Leggendo Montaigne, assume una forma di scetticismo antidogmatico

associato ad un relativismo culturale. Nel 1721 pubblica le “Lettere persiane” in cui, ispirandosi

alla moda della letteratura esotica, svolge un’acuta critica dell’organizzazione e dei costumi politici

francesi. Nel 1728 è ammesso all’Académia française e inizia a viaggiare. Se nel saggio “Sul

governo civile” si trova già la teoria del potere limitato dalle leggi fondamentali del bene pubblico e

della libertà privata, e la ripartizione delle funzioni del potere come garanzia della libertà,

dichiarandosi discepolo di Locke, in altri scritti si dedica alla osservazione dei costumi e delle

istituzioni europee che conosce attraverso numerosi viaggi. Studia anche le popolazioni antiche ed

offre un’ampia raccolta di resoconti di viaggi in Asia, Africa e America. L’Inghilterra rimane però

per lui la patria delle libertà individuali e politiche, dello stato di diritto della tolleranza e della

divisione dei poteri. Ad Amsterdam nel 1734 pubblica le “Considerazione sulle cause della

grandezza dei romani e della loro decadenza”, in cui rintraccia le cause dell’ascesa romana nelle

virtù civili e militari e quelle della loro decadenza nell’estensione eccessiva raggiunta dall’impero e

nella corruzione, cioè in cause naturali ed umane. Diventa cieco, non rallenta l’attività di studioso e

pubblica nel 1748 lo “Spirito delle leggi” che gli da rapida fama in Europa ed in America. Nel 1750

seguirà la “Difesa dello Spirito delle leggi” con gli “Eclaircissements”. È andato perduto il

“Trattato dei doveri” del 1725, di cui rimangono un riassunto e dei frammenti. Di rilievo è

l’insieme dei “Pensieri” lasciati manoscritti. Si ricorda anche il “Tempio di Cuido” del 1725.

Già nelle “Lettere persiane” è possibile rintracciare l’atteggiamento mentale presente nell’analisi

sociale di Montesquieu. Fondendo il romanzo epistolare e la letteratura di viaggio, egli inverte

originalmente l’osservatore e l’osservato: infatti a viaggiare è il ricco persiano Usbeck con il suo

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accompagnatore Rica che narrano il loro viaggio in Europa vista come mondo esotico che desta

stupore. L’artificio filosofico – letterario di osservatori provenienti da un altro mondo culturale,

l’orientale Persia, relativizzando le culture, rende più oggettivo il punto di vista. Mostrando la

parzialità della mentalità eurocentrica che considerale consuetudini e le istituzioni europee come un

parametro indiscutibile, universale ed assoluto, Montesquieu fa la satira della civiltà occidentale del

suo tempo. Egli mette a ruolo i vizi e le contraddizioni del sistema socio – politico del tempo,

l’irrazionalità, l’incongruenza e la superficialità di istituzioni, usanze, costumi sociali, credenze

religiose. Può irridere la vanità dell’aristocrazia, il servilismo dei cortigiani, degli adulatori e degli

arrampicatori sociali. Contesta l’ignoranza dei magistrati, l’intolleranza religiosa, l’ipocrisia dei

cattolici, le frustrazioni sessuali del clero. Denuncia soprattutto l’involuzione autoritaria della

monarchia francese e combatte l’assolutismo religioso e politico della Reggenza di Luigi XIV. In

una cornice orientale fondata su una larga conoscenza dei costumi del luogo e con una curiosità

penetrante dei rapporti fisiopatologici, ci offre un quadro pieno di contraddizioni della società a lui

contemporanea, che non offre atteggiamenti d’indulgenza o compiacimento verso il dispotismo e le

forme di asservimento del mondo orientale, i cui costumi politici, religiosi, familiari e sessuali

hanno costi umani e sociali e demografici altissimi. Montesquieu si palesa in religione un deista con

la identificazione di Dio con la giustizia e in politica un avversario di ogni dispotismo, anche in

riferimento alla teoria hobbesiana del potere sovrano. Con una venatura scettica alla Montaigne,

Montesquieu si ricorda che nessuna critica è possibile se non investe anche noi stessi: ciò che

chiamiamo naturale spesso è solo una qualità di credenze ereditate non poste ancora in discussione.

Il metodo storico – critico ispirato al relativismo culturale che indaga le vicende storico – sociali

indipendentemente da ogni visione provvidenzialistica della storia, è presente anche nelle

“Considerazioni”. Qui le vicende storiche di Roma vengono indagate per scoprire le cause della

grandiosa parabola politica dell’urbe salita a potenza per la mirabile armonia tra istituzioni e virtù

civiche e poi decaduta quando, per il suo eccessivo allargamento, si ruppe necessariamente tale

fortunata armonia. L’esemplare fenomeno storico viene da M. studiato nelle sue cause sociali,

ambientali, storicamente mondane, riconducendole unitariamente all’impreciso concetto di “spirito

generale” del popolo romano. Le cause della grandezza dei romani viene riconosciuto dunque

nell’amore della libertà, del lavoro e della patria, in cui erano allevati fin dall’infanzia; e le cause

della loro decadenza nell’eccessivo ingrandimento dello Stato, nelle guerre lontane, nell’estensione

del diritto di cittadinanza, nella corruzione dovuta all’introduzione del lusso asiatico, nella perdita

della libertà sotto l’impero. Montesquieu non crede alla casualità dei destini di un popolo: ci sono

sempre cause che lo innalzano, mantengono o fanno precipitare e queste cause particolari sono

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l’effetto di una causa generale da cui dipendono poi gli svolgimenti storici, che non sono racconti

senza capo né coda.

Lo Spirito della legge.

Nello “Spirito delle leggi” emerge una fiducia nelle scienze naturali, il cui metodo deve poter essere

applicato alla indagine degli eventi storici e sociali, allo studio della politica e del diritto. Lontano

dallo schematismo aprioristico del giusnaturalismo, M. ricava le leggi che governano le istituzioni

civili e sociali da nessi tra fenomeni storicamente accertati che occorre rintracciare estendendo il

metodo sperimentale allo studio dei fenomeni politici, manifestando ciò la sua fiducia nella

possibilità conoscitiva delle scienze. La scienza storico – sociale è attenta a descrivere i fenomeni

quali sono e non quali vorremmo che fossero, per cui non ha senso descrivere e cercare la società

perfetta e razionale ma è semmai necessario rendere perfettibili e razionalizzare quelli

effettivamente esistenti, lontano da ogni utopismo. Anche la sua critica del dispotismo si inscrive in

questa cornice metodologicamente realistica.

La Storia e le leggi.

Solo che la quantità e la diversità delle norme nate o dalla consuetudine o dal volere dei legislatori

non sono per M. frutto del capriccio, dell’arbitrio e della pura fantasia. Le norme provengono dalla

ragione umana e ubbidiscono a certi principi, che lo studioso deve mettere in luce. Nella

“Prefazione” M. pone il problema dell’ordine nella storia, che si manifesta in leggi costanti sotto la

capricciosa diversità degli eventi e pensa di aver trovato i principi cui si piegano i casi particolari, la

storia delle nazioni e il legame di ogni legge ad un’altra, o il suo dipendere da una legge più

generale. Così per lui si tratta di riflettere sulle leggi e le consuetudini di tutti i popoli per metterne

allo scoperto lo spirito. Il suo intento non è indagare sul “corpo” delle leggi, ma sulla loro “anima”

insegnando la maniera di insegnarle e proponendo un metodo per studiare la giurisprudenza. Questo

significa dar ragione alle leggi, che non sono il contingente risultato dell’immaginazione umana,

proprio come la storia dei popoli non è il frutto di una capricciosa successione di eventi senza

legami razionali. È vero che M. parte dai fatti particolari osservati uno dopo l’altro, ma per scoprire

sopra di essi la principale molla da cui dipendono. La moltitudine delle norme e delle consuetudini

vengono dalla ragione: <<La legge, in generale, è la ragione umana, in quanto governa tutti i popoli

della terra; e le leggi politiche e civili di ogni nazione non devono essere altro che i casi particolari

ai quali si applica tale ragione umana. Esse devono adattarsi così bene al popolo per cui sono fatte,

che solo in casi rarissimi quelle di una nazione potrebbero convenire ad un’altra …... hanno da

essere ….. relative alla geografia fisica del paese; al clima, glaciale torrido o temperato; alla

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qualità, situazione e grandezza del paese, al genere di vita dei popoli, contadini, cacciatori o pastori;

devono essere in rapporto al grado di libertà che la Costituzione può tollerare; alla religione degli

abitanti, alle loro inclinazioni, alle loro ricchezze, al loro numero, al loro commercio, ai loro

costumi, alle loro usanze. Esse infine sono in rapporto fra loro e con la loro origine; con le finalità

del legislatore, con l’ordine delle cose sulle quali si fondano. È pertanto necessario studiarle sotto

tutti questi aspetti diversi. Questa è l’impresa che io ho tentato nella mia opera. Esaminerò tutti

questi rapporti: il loro insieme costituisce quello che chiamo lo spirito delle leggi>> ( ).

La legge è il rapporto necessario che deriva dalla natura delle cose ed ogni essere ha la sua legge,

per cui anche l’uomo obbedisce nella sua storia alle sue leggi. Ora però egli come corpo fisico, è

governato come tutti gli esseri naturali da leggi immutabili, ma come essere intelligente non

soggiace a nulla di necessitante, perché viola incessantemente le leggi che Dio ha stabilito e cambia

quelle che egli stesso stabilisce. Davanti a tutte le leggi (religiose, morali, politiche) stanno le “leggi

di natura”, che derivano unicamente dalla costituzione specifica del loro essere. Esse esistono a

partire dall’esistenza di una “ragione primitiva” di cui le leggi sono la mediazione verso gli esseri, a

partire da Dio, creatore e conservatore dell’universo. La legge naturale ci imprime l’idea di un

creatore e ci porta verso di lui. Esiste poi una legge del debole uomo naturale che ricerca la pace

con gli altri prima della costituzione della società politica: contro Hobbes si afferma così l’esistenza

di una giustizia prima della statuizione delle leggi positive. Esiste poi la legge che impone di cibarsi

e di generarsi. Infine c’è la legge che spinge gli uomini a vivere in una società, che esige la

formazione di “leggi positive”. Le leggi che presiedono ai vicendevoli rapporti fra i popoli si

rifanno al “diritto delle genti”. Gli uomini hanno anche leggi che regolano i rapporti fra governanti

e governati (“diritto politico”) e quelle che regolano i rapporti fra tutti i cittadini (“diritto civile”).

Occorre che l’uomo si diriga, ma è limitato. Egli è soggetto all’errore e all’ignoranza come

intelligenza finita; può perdere le deboli conoscenze che ha. Come creatura sensibile è soggetto a

molteplici passioni. Può in ogni istante dimenticare il suo creatore che lo ha richiamato a sé con le

leggi religiose. Può dimenticarsi continuamente di sé, ma i filosofi lo avvertono con le leggi morali.

Fatto per vivere nella società, può dimenticare gli altri, ma i legislatori lo hanno posto di fronte ai

suoi doveri con le leggi politiche e civili (I, II). L’ordine della storia non è allora mai un fatto né un

semplice ideale superiore estraneo ai fatti storici: è la legge di tali fatti, la loro normatività, il dover

essere cui essi possono più o meno avvicinarsi o adeguarsi. Le leggi dunque da un verso

corrispondono ad un criterio unitario che è la ragione umana <<in quanto governa tutti i popoli

della terra, dall’altro devono essere talmente specifiche del popolo per il quale sono stabilite che è

puramente fortuito che le leggi di una nazione possano andar bene anche per un’altra>> ( ).

Nel primo libro Montesquieu, riconosciuto il principio metafisico di un Dio creatore e ordinatore

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dell’universo sia sul piano fisico che spirituale, ricerca quali siano le leggi naturali della vita

sociale. La legge naturale non è un principio razionale ideale da cui dedurre sistematicamente e

aprioristicamente, secondo uno schema giusnaturalistico, tutto un sistema di norme astratte, bensì è

il rapporto intercorrente fra i vari fenomeni empirici. In ogni nazione c’è <<un carattere generale, di

cui il carattere dell’individuo reca più o meno l’impronta; esso è costituito dalle cause fisiche che

dipendono dal clima e dalle cause morali che costituiscono la combinazione delle leggi; della

religione, dei costumi e delle maniere>> ( ); anzi <<le cause morali formano il carattere di una

nazione e decidono delle qualità del suo spirito, in misura maggiore delle cause fisiche>> ( ); e

quando una di queste cause agisce con maggior forza, le altre ne subiscono l’influsso. Così <<la

natura ed il clima dominano quasi da soli presso i popoli selvaggi, le maniere governano i cinesi, le

leggi tiranneggiano il Giappone, i costumi prevalevano un tempo a Sparta, le massime di governo e

i costumi prevalevano a Roma>> ( ). Spirito delle leggi indica l’impronta, il carattere che anima

e ispira i vari sistemi istituzionali e giuridici, analizzati da M., con metodo comparativo. La sola

regola generale che l’esame comparato delle leggi politiche e civili è il loro variare in relazione a

una molteplicità di variabili e di fattori non disposti da M. in una gerarchia d’importanza, anche se

le caratteristiche del territorio e del clima, i comportamenti demografici, le abitudini di vita, le

attività produttive, le arti, i costumi, le mentalità, le credenze religiose spiccano su ogni altro. Dal

mutevole intreccio di tali fattori emerge l’individualità, la personalità dei diversi popoli, la cui

varietà è tale da rendere inutile il ricorso alla vuota categoria di una “natura umana” universale ed

immutabile nello spazio e nel tempo. Ne consegue che le leggi <<debbono essere talmente adatte al

popolo per cui sono state fatte, che solo eccezionalmente possono convenire a un’altra>> ( ): i

popoli non debbono modellarsi sulle leggi, ma le leggi modellarsi sui popoli. Più che sbagliato, il

giusnaturalismo si rivela, in questa prospettiva, inutile sul piano teorico, poiché l’interesse si deve

concentrare non già sul diritto naturale, ma sulle leggi positive che reggono le società reali. Però

data la definizione di <<leggi, nel significato più ampio che sono i rapporti necessari che derivano

dalla natura delle cose>> (SL,I,I), già dal cap. II del libro I (“Della natura dei tre diversi governi”)

prevale la definizione dei governi, la determinazione della loro “natura” e dei “principi” che li

reggono. Osserviamo subito che per M. le forme prestatali di potere non sono precisamente oggetto

del suo studio, ma solo un’introduzione alla scienza politica (S.L., XVIII: “Delle leggi nel loro

rapporto con la natura del terreno”), perché non presentano un potere supremo e definito. pertanto

esamina le forme compiute di Stato, scartando i popoli barbari, selvaggi, dediti prevalentemente alla

cacciagione e alla pastorizia. Diamo un breve schema dell’opera (31 libri, con 15-20 capitoli

ciascuno). Libro II: Montesquieu qui procede alla distinzione tra i governi e ne studia la “natura”;

Libro III: ne studia i “principi”; Libro VIII: ne studia la “corruzione”. Libri IV – XIII: ne studiava le

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“conseguenze” dell’esistenza delle varie forme di governo, relativamente all’ ”educazione” (IV),

alla “legislazione” (V), alla “semplicità delle leggi civili e criminali”, alla “forma dei giudizi”, alla

“decisione delle pene” (VI), alle “leggi suntuarie”, al “lusso” e alla “condizione delle donne” (VII),

alle ”forze difensive e offensive” (IX – X), alla “libertà politica” (XII), alle “imposte” (XIII).

Capitoli o frammenti prendono in considerazione poi i rapporti tra “governo e costumi” (XIX),

“governo e commercio” (XX), “governo e popolazione” (XXIV).

Tipologia delle forme di governo.

Dal libro II al libro XII M. cerca di determinare i diversi tipi di associazione politica, dei quali

individua non soltanto la struttura istituzionale, cioè la “natura” del governo (ciò che fa si che esso

sia ciò che è, cioè il meccanismo), ma anche lo “spirito”, cioè l’atteggiamento psicologico

corrispondente alle varie forme di governo in virtù delle loro diverse istituzioni, ovvero il

“principio” (ciò che fa agire il governo, la molla che mette in movimento i cittadini e forma lo

spirito generale). Dalla natura del governo derivano le leggi politiche, quelle che tendono

all’organizzazione governativa (oggi diremmo il diritto costituzionale). Dal principio del governo

dipendono le leggi civili e le leggi sociali, volte alla conservazione di un certo ambiente e alla scelta

di certi orientamenti (il diritto pubblico). La tipologia delle forme di governo (II – VIII) è affrontata

con metodo innovativo rispetto alle precedenti classificazioni delle varie forme di governo a lui

note, da Aristotele a Machiavelli, Bodin e Locke. Queste avevano generalmente assunto come

criterio l’aspetto quantitativo, il numero degli individui – uno, pochi, molti – che esercitano il

potere. Montesquieu invece antepone a questo criterio un principio qualitativo di legittimità, che ha

come discriminante l’esistenza o meno di un governo costituzionale. Egli fissa i tipi fondamentali di

governo nella “repubblica”, nella “monarchia” e nel “dispotismo”. La repubblica può essere però

democratica o aristocratica; essendo il governo repubblicano quella in cui il popolo <<tutto

insieme>> o una parte del popolo (<<certe famiglie>>) è in possesso del potere sovrano. Vediamo

ciascuna di esse:

1) Le repubbliche sono quei regimi che nell’antichità corrispondevano ai nomi di Roma, Atene e

Sparta e nel medioevo e nella modernità a Venezia e Genova.

a) La repubblica democratica è per “natura” quella in cui la sovranità appartiene all’intero

popolo, il quale da un certo punto di vista è sovrano e da un altro è suddito. Infatti in quanto

monarca obbedisce alle proprie volontà espresse col suffragio, ma in quanto suddito obbedisce

ai magistrati da lui nominati. M. distingue molto bene tra “democrazia diretta” e “democrazia

rappresentativa”. <<Il popolo che ha il potere sovrano deve fare da sé tutto quel che può. Il resto

deve farlo tramite i suoi ministri>> ( ). E in nuce presente la teoria della rappresentanza

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politica, dicendo che il popolo è <<ammirevole nelle scelte>>, ma incapace <<di decidere da

solo i tempi e le circostanze>> ( ). Il principio della repubblica è la virtù: <<non si tratta di

virtù morale o di virtù cristiana, ma di virtù politica>> ( ).la virtù repubblicana è il civismo,

cioè amor di patria ed eguaglianza. I politici greci che sostenevano il civismo presupponevano

che in ogni cittadino ci fosse un costante spirito di rinuncia al proprio egoismo a vantaggio del

bene pubblico, in forza dell’amor di patria e delle leggi. Uno spirito di eguaglianza esclude ogni

privilegio e uno spirito di frugalità è ostile al lusso e all’eccesso dei piaceri privati. L’amore

dell’uguaglianza limita la ambizione al desiderio, all’onere di rendere alla patria servigi più

grandi degli altri cittadini: <<L’amore della frugalità limita il desiderio di avere alla

sollecitudine che chiede il necessario per la propria famiglia e anche il superfluo per la patria>>

( ). La virtù repubblicana allontana dunque l’amore delle ricchezze, che darebbero un potere

al cittadino molto più esteso rispetto all’uso personale di esse. Da ciò si ricavano i tratti

principali della legislazione di una repubblica: le leggi devono mantenervi la uguaglianza e

conservare la purezza dei costumi. Il regime comporta una condizione media della vita

riguardante sia il numero sia il comportamento degli abitanti. La repubblica è il regime adatto

solamente a Stati di piccole dimensioni (idea questa che potrà essere smentita solo dalla

Rivoluzione Americana): la repubblica democratica, per quanto ammirevole per virtù, è anche la

più fragile, poiché il popolo è troppo soggetto alle passioni per poter esercitare direttamente il

potere.

b) La repubblica aristocratica è quella che per natura risulta dall’appartenenza della sovranità a

pochi. Essendo solo una parte del popolo titolare del potere sovrano, il resto della

popolazione si trova nei confronti di chi governa come i sudditi di una monarchia.

L’elezione dei magistrati avviene attraverso una scelta e non a sorte; un senato regola gli

affari che il corpo dei nobili non riesce a trattare. Quanto al principio, esso è sempre la

virtù, che non si chiama più civismo ma moderazione, senza la quale la repubblica non

potrebbe durare. Infatti là dove le fortune umane sono diseguali, è raro che esista molta

virtù. Occorre allora che le leggi mirino ad infondere uno spirito di moderazione, avente lo

stesso posto che ha nello Stato l’uguaglianza. La moderazione da parte dei grandi lascerà al

popolo la possibilità di esercitare una certa influenza. I dittatori o gli inquisitori creati

devono, se è necessario, restituire lo Stato alla libertà con la violenza. La grandezza dei

magistrati deve essere controbilanciata dalla brevità della carica. Se le leggi non prevedono

un tribuno del popolo, occorre che esse ne tengano conto.

2) Le monarchie hanno una natura tale che il potere sovrano appartenga ad una sola persona che

governa con leggi fisse e stabilite. <<Il monarca è la fonte di ogni potere politico e civile ma

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non compendia in sé tutto il potere perché rientra sempre nella monarchia l’esistenza di poteri

intermedi, subordinati e indipendenti che impediscono che prevalga la volontà momentanea e

capricciosa di un solo e assicurano la continuità e la stabilità delle leggi fondamentali>> ( ).

M. considera soprattutto i grandi Stati a lui contemporanei, e non la monarchia dell’antichità. Il

potere monarchico è la forma di governo preferibile secondo M., purché sia limitata attraverso i

corpi intermedi, quei <<canali mediani attraverso i quali scorre il potere>> ( ). Essi sono i

parlamenti, le magistrature e gli istituti rappresentativi di tre ordini. Il potere intermedio più

conveniente è quello del clero, quello della nobiltà è il più naturale. Un terzo potere è affidato

ad un corpo di magistrati, che è il depositario delle leggi per tenerle presenti ai prìncipi.

Il principio della monarchia consiste nell’onore o onori. Esso è un movente strano ma

onnipotente, per quanto risulti falso dal punto di vista filosofico. Si deve indicarlo con “punto di

onore” e lo si intende come <<il pregiudizio relativo ad ogni persona e ad ogni condizione>> (

). Si può spiegarlo tenendo conto che ognuno preso a sé, ogni organismo sociale, ogni categoria

sociale preferisce se stessa alle altre, anzi si oppone ad esse reclamando preferenze esclusive

dallo Stato o volendo essere tenuta in grado di preminenza, di distinzione attraverso privilegi.

Questo insieme di ambizioni private riuscirebbe letale per una repubblica, ma per la monarchia

risulta utile al suo funzionamento, perché vi constata che ognuno, credendo di agire per sé,

opera per il raggiungimento del bene pubblico: <<Può portare a realizzare il fine del governo

esattamente come la virtù. In ogni caso salvaguardia la dignità e l’obbedienza. L’onore, in

effetti, c’impone che il principe non ci deve mai ordinare un atto che ci disonori perché esso ci

renderebbe incapaci di servirlo>> ( ). Di conseguenza, la monarchia implica l’ineguaglianza

e i privilegi. La monarchia desta preoccupazioni quando il sovrano è tentato di stravolgere le

“leggi fondamentali” e di scavalcare o sopprimere i corpi intermedi: i diritti costituzionali e le

prerogative della nobiltà, del clero, del Terzo Stato e delle città sono indispensabili per

preservare una monarchia dalla degenerazione nell’assolutismo, risultando anzi l’essenza della

monarchia. Privilegi e disuguaglianze saranno in essa dunque garantiti dalle leggi, che debbono

assicurare al clero il tranquillo possesso dei beni e il libero esercizio della sua giurisdizione e

dare ai nobili il privilegio dei beni ma non la possibilità di esercitare il commercio. Titolare del

“deposito delle leggi” è una indipendente e permanente magistratura, che di fatto coincide con i

parlamenti, le corti di giustizia, cui M. affida il compito di rendere noto, custodire e richiamare

le leggi se non sono rispettate.

3) Col dispotismo Montesquieu completa la descrizione e l’analisi dei regimi politici. Egli ha

presente soprattutto quello turco, ma non dimentica i costumi persiani e russi. La natura di

questo regime consiste nel fatto che il monarca vi regna senza legge e seguendo solo la propria

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capricciosa e arbitraria volontà. Spesso il sovrano non esercita personalmente il comando,

distraendosi nel “serraglio” (harem) e lasciando gli affari ad un ministro. Il principio del

dispotismo è la paura. L’onore, con le sue norme, vi sarebbe pericoloso e la virtù non è

richiesta. Davanti al despota tutti i sudditi sono uguali, ma in nulla perché di fatto non sono

“nulla”, contro la democrazia dove essi sono eguali perché sono “tutti”. Il despota è poi

obbligato a tenere sempre il braccio alzato per colpire o minacciare di farlo. I sudditi sono

avviliti da lui al livello di docili bestie, educate a comportarsi bene per timore di ricevere

frustate. di leggi non ce ne vogliono molte, poiché tutto deve funzionare in base a due o tre idee,

e soprattutto non si vogliono idee nuove: <<Quando addestrate un animale, state bene attenti a

non fargli mutare addestratore, insegnamento e trattamento; condizionate il suo cervello con due

o tre movimenti soltanto e non di più>> ( ).

Dopo questo quadro sui tipi fondamentali di governo e sui principi che li guidano, M. avverte:

<<Tali sono i principi dei tre governi; ciò non significa che in una repubblica si sia virtuosi, ma che

si deve esserlo. Ciò non prova neppure che in una certa monarchia si tenga in conto l’onore e che in

uno Stato dispotico particolare, domini il timore; ma solo che bisognerebbe che così fosse, senza di

che il governo sarà imperfetto>> (III, 11). Ogni principio è un dover essere, ricorrendo al quale in

modo incessante come un’esigenza intrinseca di tutte le forme storiche di Stato, esse se ne vedono

garantita la conservazione. Esso però può essere trascurato e obliato. M. mostra come ogni tipo di

governo si realizzi e si articoli in un insieme di leggi specifiche, considerando i più diversi aspetti

dell’attività umana, e anche la struttura del governo stesso. Queste leggi riguardano l’educazione,

l’amministrazione della giustizia, il lusso, il matrimonio e l’intero costume civile. Descrivono lo

“spirito” piuttosto che la struttura dei sistemi istituzionali, egli prende in considerazione le leggi nei

vari ambiti in cui si articolano la società e lo Stato: l’educazione, la legislazione civile e penale, le

libertà, l’apparato militare, il sistema commerciale, monetario e fiscale. Ogni sistema istituzionale si

regge su un “ethos” che permea la mentalità e i sentimenti del popolo: la democrazia sulla virtù

civile, l’aristocrazia sulla moderazione, la monarchia sull’onore, il dispotismo sulla paura. La

educazione, tramandando e radicando l’ethos pubblico, è decisiva per la sopravvivenza dello Stato,

salvo il caso dello Stato dispotico, che si regge sulla ignoranza.

Per M. ogni tipo di governo si corrompe quando viene meno il suo principio (VIII, 1) ed una volta

corrotto, le migliori leggi diventano cattive e si rivolgono contro lo Stato stesso (VIII, 11). A questo

riguardo, il governo dispotico fa caso a sé per la continua tendenza alla corruzione del suo principio

che è di per sé corrotto. Sin dal libro III M. aveva scritto che se la virtù o l’onore vengono meno e lo

Stato non è più amato per sé stesso, ma solo per i benefici che se ne possono trarre per i fini privati,

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se si vuole essere liberi contro le leggi invece di essere liberi con le leggi, allora lo Stato è perduto,

la repubblica diventa un cadavere e la sua forza è data solo dal potere di alcuni e dalla <<licenza di

tutti>>. Per quanto riguarda la democrazia essa si guasta <<non solo quando si perde lo spirito di

eguaglianza, ma anche quando si diffonde uno spirito di estrema eguaglianza […..] allora il popolo

non potendo tollerare quello stesso potere che ha demandato ad altri, vuole fare tutto da solo

deliberare al posto del senato, eseguire al posto dei magistrati e svestire della toga i giudici […..].

Tutti giungeranno ad amare questo disordine: il peso del comando diverrà intollerabile quanto

quello dell’obbedienza [……]. I costumi, l’amore per l’ordine, scompariranno e con essi scomparirà

la virtù>> ( ). La vera distinzione fra i governi è data dalla modalità di esercizio del potere, che

può essere moderata o violenta. Per darci l’idea della corruzione del governo democratico, M. ce lo

mostra come quello che è in grado di cadere nel dispotismo di tutti: non si tratta più del potere di

uno solo <<senza legge e senza regola alcuna>> e dei suoi umori capricciosi, ma si tratta di tutti e

della volontà arbitraria di tutti.

La Costituzione inglese.

La grande svolta dell’opera è costituita dal capitolo VI del libro XI, in cui si tratta della

“Costituzione inglese” (scritto già nel 1734), ove vediamo Montesquieu prendere partito e diventare

da osservatore dottrinario con la comparsa del suo ideale politico. Alla prima classificazione, di tipo

descrittivo, ne segue un’altra in cui domina l’ideale madre della libertà, che nel paese in cui viveva

non esisteva. La sua opera è nata per questo senza madre: <<Probem sine matrem creatam>>

(Ovidio) è l’epigrafe dello “Spirito delle leggi”. La monarchia del periodo della reggenza non piace

perché lì <<l’arte di governare si è ridotta a quella di corrompere>> ( ). Rimane deluso di viaggi

a Genova e Venezia. Solo l’Inghilterra finisce per rappresentare ai suoi occhi il regime della libertà

per eccellenza. Essa ha un regime monarchico che ha per oggetto diretto la libertà politica,

congiunta ai governi moderati (contrapposti a quelli violenti del dispotismo). Tale libertà ha per

condizione fondamentale che a nessuno sia data la possibilità di abusare del potere (al singolare),

ciò implicando una certa distribuzione dei poteri (al plurale): confronta il capitolo intitolato “Della

Costituzione inglese” che è da mettere in relazione al libro XI intitolato “Dell’eccellenza del

governo monarchico”, che non corrisponde affatto ai regimi di Richelieu e di Luigi XIV, i quali con

la centralizzazione burocratica e ministeriale hanno portato la monarchia sulla china del dispotismo.

Come possono le monarchie evitare l’abisso del dispotismo? M. ci tiene a precisare che <<La

monarchia è perduta quando un principe mutando l’ordine delle cose, crede di mostrarsi più potente

che non rispettandolo; quando sottrae agli uni le loro funzioni naturali per affidarle arbitrariamente

ad altri, e quando è più preoccupato di seguire i propri capricci che non la propria volontà. La

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monarchia è perduta quando un principe, riconducendo unicamente ogni cosa a se stesso, riduce lo

Stato alla capitale ( ), la capitale alla corte, la corte alla sua sola persona>>. La corruzione

avviene con l’obliterazione dei privilegi affidati ai corpi intermedi e alle città, come mostra citando

un autore cinese (“Della compilazione di opere composte sotto la dinastia dei Ming”). Con la

corruzione della natura c’è anche la corruzione del principio: <<Il principio della monarchia si

corrompe, quando le massime cariche sono l’indice della massima servitù, quando si toglie ai grandi

il rispetto del popolo e quando li si rende vili strumenti del potere arbitrario. E ancor più si

corrompe quando l’onore viene a trovarsi in contraddizione con gli onori, e quando si può essere

coperti di infamia e al tempo stesso di cariche>> ( ). Sono frasi fortemente allusive alla

monarchia francese, che pure inizialmente, per le sue origini germaniche e feudali, aveva un

<<governo gotico>>, misto di aristocrazia e di monarchia, che poi invece si è corrotto in dispotico

governo per l’abuso di potere, forzando le inclinazioni della gente e reggendola col ricorso alle

misure estreme. L’obiettivo che essa raggiunge con la paura non è la pace e la tranquillità: <<Non è

il caso di parlare di pace, si ha piuttosto il silenzio tipico di quelle città che il nemico sta per

occupare>> ( ). Il governo monarchico moderato invece offre vantaggi, confortato dal suo

principio che è l’onore e dalla sua natura che postula l’esistenza di poteri intermedi, delle contro -

forze resistenti ostinatamente alle indebite invasioni del sovrano. Esse agiscono con quello spirito di

corpo che ha le sue forme fisse, attraverso le quali sollevano obiezioni ed eccezioni, rallentano ed

impediscono tale invasione. Montesquieu non mette in discussione la indivisibilità della

sovranità,ma ritiene che tali corpi intermedi la debbano limitare da ogni parte facendo della

monarchia, giuridicamente assoluta un regime temperato ossia misto (“mêlèe”). La nobiltà è la

contro – forza per antonomasia <<Senza monarca non c’è nobiltà; ma senza nobiltà, non c’è un

monarca, c’è un despota>> ( ). È evidente qui il liberalismo nobiliare di M. che sottolinea anche

il ruolo del clero, dei parlamenti e della città. Le repubbliche sono incapaci di portare alla libertà,

perché sono in regime socialmente indifferenziato, ugualitario e di massa, cioè formato di parti fra

loro omogenee, in cui gli elementi sono giustapposti, non gerarchicamente ordinati. La repubblica

soddisfa l’uguaglianza, ma non la libertà. È la monarchia per M. ad avere per oggetto la libertà

perché la rende possibile con la divisione del lavoro sociale all’interno del suo regime. Essa può

tendere anche soltanto alla gloria dello Stato o del principe, ma così degenera nel dispotismo. Ma

quando la sua struttura sociale differenziata dalla molteplicità degli ordini, delle funzioni e delle

condizioni non viene alterata, verrà garantita la libertà politica. Questa potrà esistere perché tra il

vertice e la base della nazione si conserveranno dei <<ranghi intermedi>> e perché al vertice si

stabilirà una separazione dei poteri.

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Lo spirito generale.

Prima di affrontare questo altro grande tema della filosofia politica di Montesquieu, dobbiamo

ancora affrontare alcuni temi monografici volti ad illustrare il significato della libertà.

Nel libro XII egli parla delle leggi penali, tanto essenziali per la sicurezza del cittadino e quindi per

la sua libertà. Quando l’innocenza dei cittadini non è garantita, non lo è la libertà. Per avere questa,

occorre che il governo sia tale <<che un cittadino non abbia ragione di dover temere un altro

cittadino>> ( ). Per quanto riguarda le pene, egli si dichiara a favore della loro mitezza e contro

il rigore dei supplizi praticati sotto l’antico regime.

Nel libro XIII M. ci ricorda l’esistenza di rapporti complessi tra l’imposizione di tributi, i problemi

delle entrate pubbliche e la libertà. C’è il capitolo ultimo che è dedicato agli esattori il quale inizia

così: <<Tutto è perduto quando la professione lucrativa degli esattori arriva ancora in forza delle

ricchezze che procura, ad essere una professione onorata>> ( ). Poi entrano alla rinfusa rapporti

molteplici di altro tipo, in cui si mostra che le leggi debbono tener conto della natura fisica del

paese, della influenza, delle circostanze orografiche e climatiche sul temperamento, sui costumi,

sulle leggi e sulla vita politica dei popoli. Le leggi poi devono essere il rapporto con la religione

degli abitanti, con le loro propensioni, con i loro costumi, con le loro maniere. Dal libro XIV a

quello XIII si parla dell’influenza del clima; nel XVIII del suolo; nel XIX dello spirito generale. Ma

M. non ha ceduto alla tentazione di spiegare <<lo spirito delle leggi con la materia>> (Hazard).

Descrive con cura l’effetto dell’aria sulle fibre del nostro corpo e afferma che nei climi freddi il

corpo ha maggiore forza, ma è poco sensibile ai piaceri, al dolore e all’amore. Famose sono le

proposizioni sullo spirito di servitù proprio dell’Asia, esposta al dispotismo perché non possiede

vere e proprie zone temperate e perché l’estensione delle sue pianure è enorme. In Europa invece le

cause fisiche avrebbero creato <<uno spirito di libertà che fa si che ogni paese assai difficilmente

possa essere assoggettato da una nazione straniera>> ( ). Col capitolo XIV ci troviamo però

davanti a questo titolo: “I cattivi legislatori sono coloro che hanno assecondato i vizi del clima e i

buoni sono quelli che vi hanno fatto opposizione”. Egli è lontano dal credere che nei confronti di

queste influenze l’uomo possa essere soltanto passivo: <<Quanto più le cause fisiche portano gli

uomini al riposo, tanto più le cause morali li devono allontanare da esso>> (XIV, 5). Quando il

clima porta gli uomini a fuggire, il lavoro della terra, la religione e le leggi devono spingerlo ad esso

(XIV, 6). Nei confronti degli stessi agenti della natura tende a configurarsi la libertà condizionata

degli uomini nella storia. E nel libro XIX M. dice che bisogna tenere in somma considerazione

un’idea destinata ad avere una grande eco: <<Parecchie cose governano gli uomini: il clima, la

religione, le leggi, le massime del governo, gli esempi delle cose passate, i costumi e le maniere. Da

tutto questo risulta uno spirito generale. A seconda che in ogni paese una di queste cause agisce con

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maggiore forza, le altre fanno sentire in proporzione una forza minore. La natura e il clima

signoreggiano presso che incontrastati presso i selvaggi; le maniere governano i cinesi, le leggi

tirannizzano il Giappone; i costumi un tempo caratterizzavano la vita di Sparta; le massime del

governo e i costumi antichi caratterizzavano Roma>> (XIX, 4). Questo passo è il più importante del

capitolo quarto del XIX: “Che cosa è lo spirito generale?”, ove si comprende che tale spirito

generale è il risultato di sette cause diverse, di cui una sola è fisica, il clima. Delle sette cause, a

seconda della forma o del grado di civiltà, è ora questa è ora quella a tenere il primato.

La libertà politica e la separazione dei poteri.

Lo “Spirito delle leggi” si propone di mettere in luce e di giustificare storicamente le condizioni che

garantiscono la libertà politica del cittadino. Tale libertà non è inerente per natura a nessun tipo di

governo, neppure alla democrazia; essa è propria soltanto dei regimi moderati, cioè dei governi in

cui ogni potere trovi limiti che gli impediscono di prevaricare: <<occorre che per la disposizione

stessa delle cose il potere arresti il potere>> (XI, 4). Perché, pur avendo sperimentato il dispotismo,

accade che la natura non si rivolta contro tale flagello, amando la libertà ed odiando la violenza?

Così risponde M.: <<Per formare un governo moderato bisogna cambiare i poteri, dirigerli,

temperarli, farli agire; dare, per così dire, della zavorra all’uno per metterlo in grado di resistere

all’altro: un capolavoro di legislazione che il caso raramente produce e che raramente si lascia fare

alla prudenza. Un governo dispotico, al contrario, salta, per così dire, agli occhi; è uguale

dappertutto: poiché bastano le passioni per stabilirlo, tutto il mondo è adatto a riceverlo>> (v, 14).

La monarchia francese non è riuscita a realizzare tale tipo di legislazione, che egli trova nella

Costituzione inglese (XI, 6), la quale ha per oggetto diretto la libertà politica, la quale coincide con

la sicurezza della persona, del singolo individuo e dei propri beni. Per libertà si deve intendere <<il

diritto di fare tutto ciò che le leggi permettono>> ( ). Molti hanno considerato libero il regime

conforme alle proprie consuetudini o inclinazioni. Altri hanno chiamato libera una certa forma di

governo. Si è voluto per esempio che non ci fosse libertà nelle monarchie per attribuirla in guerra

alle repubbliche, dove sembra che abbiano più voce le leggi e meno voce quanti hanno il poter di

farle eseguire. E siccome si è facilmente portati a vedere nella libertà la semplice assenza di

impedimento ai nostri desideri e a credere che essa consista nel fare ciò che piace, si è attribuita la

libertà alla democrazia perché pare che in essa il popolo faccia ciò che gli piace. Ciò equivale però a

fare confusione tra il “potere del popolo” e la “libertà del popolo”. La libertà politica non consiste

affatto nel fare ciò che piace, bensì nel fare ciò che si deve volere e, per converso, nel non essere

mai costretti a fare ciò che non si deve voler fare. Ma chi è che stabilisce il dovere, ossia quello che

si deve fare? Le leggi. La libertà è il potere delle leggi, non già quello del popolo. Viceversa è il

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potere delle leggi a costituire la libertà del popolo. Si comprende meglio allora la sua massima:

<<Occorre avere ben presente che cos’è l’indipendenza e che cosa è la libertà. La libertà è il diritto

di fare tutto ciò che le leggi permettono: infatti se un cittadino potesse fare ciò che esse proibiscono,

non avrebbe più libertà, poiché anche gli altri acquisterebbero un tale potere>> ( ). La libertà si

trova non nella democrazia e nella aristocrazia, ma solo nei regimi moderati indipendentemente

dalla loro forma, rispettando la condizione che in essi i governanti non facciano abuso della autorità

sovrana: <<Un’esperienza di secoli mostra come qualsiasi uomo che si trovi ad avere potere, sia

portato ad abusarne, finché non gli vengono posti dei limiti. Chi lo direbbe? Persino la virtù ha

bisogno di limiti. Perché non si possa abusare del potere bisogna che, per la disposizione delle cose,

il potere argini il potere. Una Costituzione può essere tale che nessuno sia costretto a fare le cose a

cui la legge non lo obbliga e a non fare quello che la legge permette>> ( ). La libertà politica

viene subordinata ad una certa <<disposizione delle cose>>, cioè ad una certa distribuzione dei

poteri e la loro separazione in potere legislativo, esecutivo e giudiziario, così come si è realizzata

nella Costituzione inglese. si deve ricordare che il Locke attribuiva al legislativo il compito passivo

di determinare il diritto naturale, che accanto al potere esecutivo egli poneva un potere federativo

per i rapporti dei cittadini coi membri estranei alla società civile, che ignorava il potere giudiziario

come potere autonomo, che invocava a garanzia della libertà politica il diritto di resistenza e di

rivoluzione da parte del popolo. Pur non discutendo il dogma della sovranità una e indivisibile, M.

proclama la tesi della pluralità dei poteri dello Stato, distinti non solo per la funzione esercitata, ma

anche per gli organi che la compiono, l’equilibrio dei quali deve avere luogo automaticamente e non

per il buon volere dei legislatori e dei governanti. La teoria della separazione dei poteri viene così

enunciata: <<Tutto sarebbe perduto se un’unica persona, o un unico corpo di notabili, di nobili o di

popolo, esercitasse questi tre poteri: quello di fare le leggi, quello di eseguire le esecuzioni

pubbliche e quello di punire i delitti o le controversie tra i privati>> ( ). La riunione di due di

questi poteri nelle stesse mani annulla la libertà del cittadino, perché rende possibile l’abuso dei

poteri stessi. L’originalità di M. è dovuta all’affermazione dell’autonomia del potere giudiziario.

Infatti la libertà del cittadino deve essere anche garantita dalla natura particolare delle leggi che

devono dargli la sicurezza nell’esercizio dei suoi diritti (XII, 1). Tuttavia M. si addentra nell’esame

della Costituzione inglese, ove osserva l’esistenza di una magistratura indipendente, di un sistema

di barriere contro la tirannide costruito non in modo astratto, ma a partire da istituti effettivamente

esistenti. L’indipendenza dalla magistratura, cui viene affidato il sistema giudiziario nel moderno

stato di diritto, deve essere protetta da interferenze esterne per poter esercitare la sua funzione

neutrale “super partes”. La legge, accanto alla sua tradizionale funzione costrittiva, ne assume una

garantista, come strumento di protezione e tutela delle libertà civili, pubbliche e private.

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Tuttavia dopo l’affermazione del principio, il problema muta di prospettiva, perché nella tecnica

della separazione dei poteri viene introdotto un nuovo elemento, quello della divisione del solo

potere legislativo - <<quello che rappresenta la volontà generale dello Stato>> - fra le tre classi o gli

Stati (o ceti) medievali del Regno che sta indagando. Infatti il Parlamento inglese risulta composto

dal Re, dalla nobiltà temporale e spirituale, e dal popolo. M., per cogliere l’effettivo equilibrio tra i

diversi poteri, introduce nella sua costruzione l’ideale classico del governo misto, proveniente dal

pensiero politico inglese. Unendo i due temi della separazione dei poteri e del governo misto

(divisione del legislativo) Montesquieu giunge a questa conclusione: <<Essendo il corpo legislativo

diviso in due parti, l’una terrà a freno l’altra con la reciproca facoltà d’impedire. Entrambe saranno

vincolate dal potere esecutivo, che lo sarà a sua volta da quello legislativo>> ( ). Montesquieu,

più che a una netta divisione delle funzioni dello Stato, teorizza un governo bilanciato, in cui i

diversi organi, in un sistema di pesi e di contrappesi, realizzano un equilibrio costituzionale capace

di ostacolare l’affermarsi di un potere assoluto. Esaminando però questo equilibrio ci si accorge che

è un equilibrio sociale piuttosto che un equilibrio costituzionale. M. è vittima di una confusione tra

potere giuridico e potere sociale, finendo per identificare un organo dello Stato con una classe

sociale o ceto. Qui si rivela la forma generale della separazione dei poteri in Montesquieu, per il

quale essa non si applica solo agli organi statali ma ad ogni aspetto della società politica. Per questo

egli ritiene che sia la monarchia il tipo stesso del governo libero, perché è il regime delle

distinzioni, delle separazioni e degli equilibri. La monarchia costituzionale garantisce la libertà

perché tra il vertice e la base dello Stato nazionale si conservano dei corpi intermedi e al vertice si

stabilisce la separazione dei poteri. Fatta sparire la funzione federativa, introduce il potere

giudiziario accanto a quello esecutivo e quello legislativo. Questo viene suddiviso tra due Camere,

che fra di loro si vincolano. Ci troviamo di fronte al Parlamento inglese: Camera dei comuni,

Camera dei Lords, Re/Regina: <<questi tre poteri dovrebbero dar luogo ad una situazione di riposo

o inattività; ma siccome per il movimento necessario delle cose, saranno costretti ad andare,

dovranno andare di concerto>> ( ). Anche se fermo alla Costituzione, M. intravede già il ruolo

del gabinetto come organo che deve permettere ai poteri di <<andare di concerto>>. A dover

legiferare dovrebbe essere il popolo nella sua totalità, perché in uno Stato libero chiunque sia

stimato avere uno spirito libero, deve essere in grado di governarsi da solo. Nei grandi Stati ciò è

però impossibile e nei piccoli è pieno di inconvenienti, per cui occorre fare affidamento a dei

rappresentanti, scelti dal popolo per la loro abilità. Ad essi non spetta prendere decisioni operative,

ma votare le leggi e controllare la loro buona applicazione. Per questo il corpo scelto dal popolo

deve condividere il legislativo con il, corpo rappresentativo della nobiltà. I loro corpi devono essere

rappresentati in modo diviso poiché altrimenti la comune libertà<<sarebbe la loro schiavitù>>. Le

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due branche del legislativo sono fra loro connesse strettamente, avendo la facoltà di ostacolarsi

vicendevolmente, che è funzione diversa dalla statuizione. Questa è <<il diritto di ordinare

direttamente o di correggere quanto sia stato ordinato da altri>> (XI, 9), mentre la facoltà di

impedire è <<il diritto di rendere nulla una risoluzione presa da altri>> (XI,9), senza sostituirvisi.

Così le manovre del popolo contro la nobiltà e quelle della nobiltà contro il popolo non possono

riuscire perché il potere blocca il potere. Inoltre le due branche del legislativo sono frenate

dall’esecutivo, affidato ad un sovrano, che dalla Costituzione riceve un sovrappeso col diritto di

veto e il privilegio della inviolabilità per difendere le prerogative sue proprie. Ma è condizionato dal

potere legislazione, che ha la forza necessaria per resistere al sovrano attraverso la convocazione

obbligatoria delle sessioni periodiche, il voto annuale di bilancio, il controllo sull’applicazione delle

leggi e l’eventuale incriminazione dei ministri. Se rischiano le tre forze l’inazione, in verità il

meccanismo politico del potere è reso possibile proprio dall’operare concertato delle istituzioni, che

è il mezzo con cui si evita l’abuso del potere. La vera unione non è quella dei <<cadaveri sepolti

l’uno accanto all’altro>> come nel dispotismo, ma è una <<unione armoniosa il cui effetto è che

tutte le parti, per quanto ci sembrano tra loro contrapposte, concorrono al bene generale della

società; alla stessa guisa che le dissonanze in musica concorrono a formare l’accordo generale […..]

può esserci un’armonia donde risulta la felicità (il benessere) che sola costituisce la vera pace>>

(XI, 9). I termini con cui Montesquieu descrive la natura di un siffatto regime sono armonia,

concertazione, freno reciproco, sovrappeso, reazione, combinazione dei poteri, separazione,

bilanciamento, collaborazione. Così egli condensa il suo pensiero Costituzionalista: <<Vorrei

ricercare in tutti i governi moderati che conosciamo quale sia la distribuzione dei tre poteri e, in

base a questo, calcolare il grado di libertà di cui ciascun governo può godere>>.

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12. J. J. Rousseau, eguaglianza e democrazia(Ginevra 1712 – Ermenonville 1778)

di P. Armellini

Morta la madre di parto e lasciato dal padre, passa una infanzia difficile; riceve l’appoggio di

Madame De Warens, dama svizzera al servizio del re di Sardegna, che prima le fa da madre e poi da

amante. Esercita diversi mestieri e si forma filosoficamente; con essa compie molti viaggi. Si separa

da Madame De Warens, torna a Parigi ed entra in contatto con gli enciclopedisti; per le

“Enciclopedie” scrive articoli di carattere musicale. Nel 1750 partecipa ad un concorso indetto

dall’Accademia di Digione sul tema “Se il ristabilimento delle scienze e delle arti abbia contribuito

a migliorare i costumi” e lo vince con il “Discorso sulle scienze e sulle arti”, contenenti la tesi

controcorrente della negatività del processo di incivilimento. Su occasione di un nuovo concorso

pubblica il “Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza fra gli uomini” (1755). Rompe

con gli enciclopedisti e si ritira prima all’Ermitage poi a Montmorency dove scrive il “Contratto

sociale” (1762), e l’ “Emilio” (1762), condannati dalle autorità parigine e ginevrine. Ripara a

Neuchâtel, in territorio svizzero soggetto al re di Prussia e qui scrive “Le lettere scritte dalla

montagna” contro Ginevra e un “Progetto di costituzione per la Corsica”. Su invito di Hume si

trasferisce a Londra ma la sua instabilità nervosa sempre peggiorata gli fa rompere con lui. Torna in

Francia e dopo vario peregrinare si ritira ad Ermenonville dove scrive le “Considerazioni sul

governo di Polonia”, conclude l’autobiografia - le “Confessioni” – e muore nel 1778. Viene

considerato dai suoi critici sia illuminista che romantico, sia individualista che collettivista,

anticipatore di Kant e precursore di Marx. Per alcuni è il teorico del sentimento interiore come

unica guida della vita, per altri è il difensore dell’assorbimento totale dell’individuo nella vita

sociale. Figura ricca e contraddittoria, affascina per la sua complessità dei sentimenti che incarna e

descrive, denunciando i pericoli di un razionalismo esasperato: la ragione senza gli istinti è sterile,

le passioni senza la ragione portano all’anarchia.

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“Discorso sulle scienze e sulle arti”. Nelle “Confessioni” emerge costantemente un tema, quello

della natura come succedaneo della divinità, l’archetipo di ogni bontà e felicità, il criterio di valore

supremo. Rousseau identifica il proprio “Io” singolare con la natura, relegando nella sfera del

antinatura i conflitti, le tensioni interiori. La netta antitesi gli si presenta soggettivamente dapprima

come frutto di traumi infantili, che lasciano traccia incancellabile nell’archeologia della memoria. A

molti degli eventi che hanno costituito un trauma nella crescita dell’io (punizioni ingiustamente

subite, il distacco dalla città – madre Ginevra) il Rousseau adulto assegna intensa carica simbolica,

tale da raffigurare sempre e definitivamente il salto da una condizione naturale originaria

d'innocenza e di inconsapevole felicità ad uno stato di caduta e di peccato. Peccato e caduta sono

l’acquisto della consapevolezza, la uscita dalla natura vista come paradiso terrestre. La sua forma

mentis dualista si fonda su una ipersensibilità al bene e al male; traumi giovanili, sentimenti di

colpevolezza, tendenza all’evasione e al narcisismo vanno ricondotti alla contraddittoria formazione

religiosa calvinista e cattolica. Su questo sfondo Rousseau interpreta il mito cristiano della caduta di

Adamo e intravede il riscatto di una dimensione secolare, coerente con una soluzione razionale

della teodicea. Ma l’ambiguità della natura di Rousseau è evidente se si nota che egli non è stato

affatto un asceta, perché ha avuto un senso vivo e quasi pagano della felicità (immagine di giovane

voluttuoso, compiacimenti erotici, concessioni ad un franco libertismo) . Anche qui emerge il

contrasto natura – antinatura: da una parte sono le circostanze irripetibili che fanno di qualche

momento del passato uno stato di grazia e dall’altra vi è l’urto con la società, la mania di

persecuzione, le malattie reali. Col passato Rousseau intrattiene un rapporto ambivalente di

esaltazione e di condanna e il male ha la faccia della società e la presenza di altri esseri umani.

Il singolo è buono ed incorrotto, per cui il male e la caduta sono sempre imputabili all’umanità

presa come un tutto, alle istituzioni civili e al processo irrazionale che ha portato alla formazione

della cultura e della società. Un illuminazione la coglie sulla via di Vincemes un giorno dell’ottobre

1749, come se una tempesta emotiva gli aprisse gli occhi obbligandolo a vedere un altro universo e

a diventare un altro uomo: l’antitesi in natura – antinatura, individuo – società, emozione – ragione,

libertà – oppressione, caduta – redenzione vengono descritti come se si presentassero con una tale

energia da dargli turbamento. Rousseau è sul punto di descrivere tutte le contraddizioni del sistema

sociale, tutti gli abusi delle istituzioni, proprio mentre cade sulla via verso il recluso Diderot e

mentre il quesito dell’Accademia di Digione che ha dato origine al suo primo scritto (sul “Mercure

de France”). Contraddizioni sociali e abusi istituzionali corrispondono a sue esperienze affettive

( traumi infantili, l’apprendistato ginevrino, l’esilio, la frustrazione da catecumeno, l’educazione

sentimentale di Madame de Warens: tutte esperienze da bassifondi; sono esperienze lentamente

accumulate che fanno dire al suo amico Diderot: <<Era un barile di polvere da cannone che sarebbe

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rimasto inesploso senza la scintilla che partì da Digione e gli dette fuoco>>) (Cfr. “Lettera a

Malescherbes 12 – 1 – 1762; “Confessioni” VIII).

Nel periodo 1744 – 49, il mondo ostile alla sua natura è rappresentato dalla società parigina dei

salotti letterari da cui si sente escluso. Il conflitto esplode con il netto rifiuto di quel mondo, in

nome della natura. L’Accademia di Digione formula il suo quesito: <<Se il Rinascimento delle

scienze e delle arti abbia contribuito a migliorare i costumi>>. Dall’ambito circoscritto dei due

secoli recenti Rousseau generalizza a tutta la storia formulando una filosofia della decadenza storica

fondata su un’antitesi radicale che da soggettiva si obiettiva in conflitto universale catastrofico, il

quale mostra come le nostre anime si siamo corrette via via, che le scienze e le arti sono progredite

verso la perfezione. Egli sente che il suo destino politico è quello di dimostrare <<l’uomo è

naturalmente buono e che soltanto a causa delle istituzioni gli uomini diventano malvagi>>. Il

“Discorso” viene premiato ed espone l’oscuro autore al clamore e alle polemiche del successo

letterario. L’autodidatta provinciale ed impacciato, umile e povero, si scaglia contro la cultura e la

civiltà moderna con la violenza di un predicatore religioso o di un moralista antico. Per lui le idee

dei filosofi hanno spinto l’uomo lontano dal suo stato d’innocenza per conquistare il mondo e

giungere fino alle stelle. Nonostante il fascino di un età di scoperte, Rousseau trova che nelle

affermazioni dei filosofi non c’è saggezza ma declamazioni oziose e un destino di catastrofe

paradossale, poiché essi stanno minando il fondamento della vita comunitaria e distruggendo la

virtù. Nell’antico Egitto e nella Grecia e Roma arcaiche, Rousseau vede invece l’immagine della

virtù; in Socrate, Catone e Fabrizio vede i simboli della moralità che rifiuta le vane scienze; ad esse

contrappone i vizi da cui sono derivate le scienze; con le loro conseguenze: dissipazione,

parassitismo, lusso, frivolezze, decadenza delle virtù guerriere e patriottiche, ozio, mediocrità. In

Rousseau troviamo così l’incrocio tra una tematica umanistica – la vanità delle scienze – e la critica

illuministica della società; egli mette infatti in contrasto i motivi delle diverse correnti intellettuali,

criticando la cultura dei lumi in nome della virtù civile e della coscienza religiosa e imputando al

sapere i guasti che i philosophes dei lumi attribuiscono alla superstizione religiosa. Non è così né

illuminista né cristiano. In realtà Rousseau si rende conto che, attaccando le scienze e le arti, si

scaglia in verità contro le ideologie della classe dominante. La debolezza della civiltà risiede nel

solco sempre più profondo tra l’essere e l’apparire. L’uomo sembra avere raggiunto uno stadio in

cui l’urbanità dei costumi pare rendere semplici e fruttuosi i rapporti tra gli uomini. Ma l’urbanità è

una vernice brillante che cela una realtà diversa, mentre sarebbe piacevole se il contegno esteriore

fosse un riflesso della inclinazione del cuore. La civiltà si afferma attraverso rapporti di dominio e

di servitù che spesso l’unità sociale e introducono tra gli uomini il sospetto e la paura: <<non si osa

più apparire ciò che si è>>. L’affinarsi dei costumi si riduce per R. a una scuola di ipocrisia e di

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conformismo, mentre le disposizioni del cuore e il contegno esteriore, tra essere e apparire, apre una

scissione all’ interno dello stesso individuo avilizzato. La convivenza sociale e divenuta un gioco di

maschere e di menzogne, mosso dagli egoismi privati, ai quali R. contrappone le virtù civili della

città – stato greche e della Roma repubblicana. L’inganno delle apparenze è stato moltiplicato dal

progresso delle arti, mentre prima i nostri costumi erano rustici e naturali. R. intende rimanere

sconosciuto e ascoltare la coscienza e gli imperativi del cuore. Il primo passo deve essere la

restaurazione della virtù, che è quella forza attiva del coltivatore, restio ad abbandonare la bellezza

e la sovrabbondanza della natura. La virtù è una forza dell’anima degli uomini felici di vivere a

contatto con la natura e che rifiutano le avventure del sapere ozioso. E’ virtù terrena e sociale, che

non vuole la felicità di un altro mondo, ma assicurare in questo le condizioni che rendano possibile

la vita comunitaria; essa fornisce coesione, unità e comprensione che, in uno stato sociale, permette

la possibilità di capire meglio i propri compiti. La perdita di essa è deplorevole per le sue

conseguenze sociali. E’ stato l’orgoglio ad allontanare l’uomo dal benefico contatto con la natura. I

beni che l’umanità crede di avere acquistati, i tesori del sapere, dell’arte e della vita raffinata non

hanno contribuito alla felicità, ma hanno estraniato l’uomo dalla virtù. Le scienze e le arti hanno

origine nei nostri vizi e hanno contribuito a rinforzarli: <<l’astronomia è nata dalla superstizione;

l’eloquenza dall’ambizione, dall’odio, dall’adulazione, dalla menzogna; la geometria dall’avarizia;

la fisica da una vana curiosità; tutte, e la morale stessa dall’orgoglio umano>> (“Discorso sulle

scienze e sulle arti”, II). Il lustro della civiltà è solo vanità. Il progresso delle scienze e delle arti non

è tanto la radice del male - così egli precisa ai suoi critici – quanto il perverso effetto di una distorta

società, tra i membri della quale sono scomparse la solidarietà e la trasparenza della comunicazione.

L’incentivo al sapere è infatti nell’orgoglio individuale, nel desiderio di apparire o di dominare. Per

sfuggire alla sua povertà interiore, l’uomo si rifugia nel mondo ma si illude di non essere con se

stesso e per questo ha paura del riposo. Egoismo, vanità e desiderio di dominio governano i rapporti

umani e la vita sociale si regge più sui vizi che sulla virtù. Il peggiore è il lusso che ci fa stabilire il

merito verso lo stato di un uomo sulla base della sua capacità di consumo. Chi ha responsabilità

politiche non parla più di virtù e di morale, ma di commercio e di ricchezza; gli esseri umani sono

ridotti a valori economici e vengono giudicati in base al loro peso finanziario. Le società politiche

moderne hanno fondato le proprie istituzioni su basi commerciali che hanno creato nuova schiavitù.

La crescita della cultura, come quella del lusso o delle ricchezze, ribadisce l’ingiustizia e la servitù:

<<le scienze, le lettere e le arti stendono ghirlande di fiori sulle catene di ferro di cui gli uomini

sono carichi>>.

“Discorso sull’origine e sui fondamenti della diseguaglianza fra gli uomini” (1755). La posizione

di R. è “scandalosa” perché ritiene responsabile dei mali sociali quelle lettere, arti e scienze in cui

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gli enciclopedisti hanno riposto le cause del progresso. Ciò che per essi è progresso è ulteriore

corruzione: <<Tutti i progressi della specie umana l’allontanano continuamente dal suo stato

primitivo; più noi accumuliamo nuove conoscenze e più ci precludiamo di acquistare la più

importante di esse>> (Discorso sulle scienze, II). R. si mostra nostalgico di un modello di rapporti

sociali, improntato al recupero dei più profondi sentimenti umani e per questo egli avanza l’ipotesi

dell’uomo di natura, originariamente integro, biologicamente sano, e moralmente retto; dunque non

malvagio, non oppressore, giusto. L’uomo non era, ma è divenuto malvagio e ingiusto e il suo

squilibrio è di ordine sociale e quindi derivato. Questa situazione in cui l’uomo si trova non è, come

ha pensato Pascal sulla scorta della Bibbia, costitutiva di lui ne dovuta al peccato originale: <<La

perfettibilità, le virtù sociali, le altre facoltà che l’uomo naturale aveva ricevuto in potenza non si

sarebbero sviluppate di per se stesse, ma avevano bisogno perciò del concorso fortuito di più cause

estranee che potevano non nascere mai e senza le quali l'uomo sarebbe rimasto eternamente nella

sua condizione primitiva>> (“Discorso sull’origine della diseguaglianza, I ). Cause fortuite hanno

perfezionato la ragione umana deteriorando la specie, facendo l’uomo cattivo col farlo socievole e

conducendo l’uomo al degrado attuale. Dei vizi della società non sono responsabili né Dio né la

natura umana di per sé non corrotta. Il male è imputabile solo all’ordinamento sociale e alle

istituzioni cioè alla storia dei rapporti fra gli uomini. Quindi vediamo coesistere in R. un ottimismo

antropologico (l’uomo è buono per natura) e un pessimismo storico (il corso della civiltà è

deviazione) R. ama e odia gli uomini; li odia per ciò che sono diventati, li ama per ciò che sono in

profondità. La sanità morale, il senso della giustizia, l’amore fanno parte della natura umana mentre

la maschera, la menzogna, la fitta rete dei rapporti alienanti sono effetti di quella sovrastruttura che

si è andata formando lungo un crinale di estraniamento dai bisogni e dalle inclinazioni originarie.

La genesi del male è individuata nel passaggio dallo stato di natura allo stato sociale: <<Non è certo

una lieve impresa distinguere ciò che c’è di originale e ciò che c’è di artificiale nella natura attuale

dell’uomo, e individuare in tal modo uno stato che non esiste più, che forse non è mai esistito, che

probabilmente non esisterà mai – e di cui tuttavia è necessario possedere una nozione esatta, per

poter giudicare bene il nostro stato presente>> (Ibidem). E’ evidente che l’uomo può risalire allo

stato in cui si trova verso lo stato originario: di fatti la decadenza è dovuta a cause accidentali ed

estranee sulle quali la volontà umana può agire. R. intende il progresso come un ritorno alle origini,

cioè alla natura; e si ferma con compiacenza a delineare la meta e il termine ideale di questo ritorno:

la condizione naturale dell’uomo. Ma egli non intende questa condizione come uno stato di fatto.

Quella di “stato di natura” è un concetto limite, che non rimanda a fatti storici reali, ma ha la

funzione teorica di far emergere per contrasto i tratti distintivi dello stato di civiltà. Inoltre lo stato

di natura come concetto rappresenta un ideale normativo e un criterio di valutazione morale,

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rispetto al quale commisurare lo scarto maggiore o minore delle diverse condizioni di civiltà. Lo

stato di natura o la natura originaria umana è dunque solo una norma di giudizio, un criterio

direttivo per sottrarre l’uomo al disordine e all’ingiustizia della sua condizione presente e riportarlo

all’ordine e alla giustizia che devono essergli propri. Lo stato naturale non è, ma deve essere, non

nel senso che l’uomo vi sia infallibilmente diretto, ma solo nel senso che ha la possibilità o

l’obbligo di tenere ad esso.

I philosophes vedono tra natura e cultura una sostanziale continuità. Lo scandalo di R. consiste

nell’opporre invece i due termini, nel concepire la civiltà come allontanamento dalla natura e come

progressiva aberrazione. I filosofi secondo R. hanno sempre proiettato sullo stato di natura i

caratteri dell’uomo civilizzato, presentando in questo modo come naturale ed eterno ciò che invece

è il prodotto contingente di un lungo processo storico che avrebbe anche potuto seguire vie

differenti. Realtà storiche come la diseguaglianza, la proprietà privata o le passioni egoistiche non

sono manifestazioni necessarie della natura umana. Per liberarci dei pregiudizi connessi alla nostra

particolare esperienza sociale dobbiamo guardare la nostra civiltà dall’esterno, dalla prospettiva di

altre forme di esistenza umana, reali o immaginarie. R. così mette a frutto la vasta letteratura sui

“selvaggi”, propria del ‘700. Per quanto nostalgico verso il passato R. si volge all’uomo presente,

corrotto e disumano, conoscendo i limiti dello stato di vita primitivo: <<Errando nella foresta, senza

industria, senza parola, senza domicilio, senza guerra e senza associazione, senza alcun bisogno dei

suoi simili come senza alcun bisogno di nuocer loro, forse anche senza mai riconoscere alcuno

individualmente, l’uomo selvaggio, soggetto a poche passioni, e bastando a se stesso, non aveva che

i sentimenti e le conoscenze adatte a tale stato. Se per caso faceva qualche scoperta, poteva tanto

meno commerciarla, in quanto non conosceva nemmeno i suoi figli. L’arte periva con l’inventore.

Non c’era né educazione né progresso; le generazioni si moltiplicavano invano e, partendo ciascuna

dallo stesso punto, i secoli scorrevano in tutta la rozzezza delle prime età; la specie era già vecchia e

l’uomo restava sempre fanciullo>> (Ibidem). Il mito del “buon selvaggio” risulta essere allora una

sorta di categoria filosofica, una norma di giudizio in base a cui condannare l’impianto storico –

sociale che ha mortificato la ricchezza passionale dell’uomo, come la spontaneità dei suoi

sentimenti più profondi. Con questo confronto tra l’uomo presente e quello del passato R. intende

stimolare gli uomini ad un salutare cambiamento. Contro i giusnaturalisti che dipingono un uomo

già in origine socievole, morale e razionale, R. spoglia l’uomo di natura di ogni carattere

storicamente acquisito. Al di qua della ragione, del linguaggio, delle relazioni sociali, della

conoscenza del bene e del male, lo stato di natura è una condizione assai prossima alla animalità,

proiettata in una immensa lontananza temporale. Ma come è iniziata questa storia di deviazione e

di ingiustizia? Gli uomini “naturali”, se si eccettuano incontri sessuali occasionali, vivono isolati e

Page 117:  · Web viewRimane fermo però che il cristiano può disobbedire alle leggi contrarie a quella divina. La teoria costituzionale a forma di governo che consenta di far valere nei confronti

dispersi; sono esseri dominati dai sensi, nei quali la ragione e l’immaginazione non si sono ancora

sviluppate. I desideri non oltrepassano i bisogni vitali, e questi trovano immediata soddisfazione.

Non si apre quindi uno spazio per le passioni, per i progetti, per le speranze o le paure legate al

futuro: l’anima, << da nulla turbata, si abbandona al solo sentimento della propria esistenza

presente, senza alcuna idea dell’avvenire>> (Ibidem ). Quella naturale è una condizione di unità e

di equilibrio, senza tempo e senza storia. Essa è anche una condizione premorale in quanto non vi è

coscienza del giusto o dell’ingiusto. Il comportamento è guidato dalla interazione tra due sentimenti

naturali: l’amore di sé, che tende all’autoconservazione; e la pietà che, comportando

l’identificazione con ogni altro vivente che soffre, tempera le tentazioni egoistiche dell’amore di sé.

A differenza della vita animale, tuttavia, la natura umana ha in sé un elemento di instabilità che può

spezzare l’equilibrio e dare origine a una storia. L’uomo è “agente libero”, non incatenato

all’istinto, ed è dotato di perfettibilità, cioè di un insieme di potenzialità che tendono a realizzarsi se

vengono provocate da circostanze esterne. R. individua nella perfettibilità la possibilità di

un’evoluzione quasi illimitata, ma anche <<la fonte di tutte le sventure>>. I primi ostacoli opposti

dall’ambiente naturale provocano la nascita delle prime relazioni sociali e delle prime forme di

riflessione. Con le tecniche della caccia, della pesca e della costruzione di capanne, gli uomini

cominciano ad addomesticarsi; i sentimenti si affinano e le unioni sessuali occasionali diventano

rapporti più duraturi. Nasce il linguaggio, il cui sviluppo è collegato all’instaurazione di una più

stabile vita familiare, all’influenza che i figli, bisognosi di aiuto, esercitano sui genitori nel tentativo

di esprimersi, così come agli ulteriori rapporti tra i gruppi familiari e alla necessità di un sistema di

comunicazione più articolato, per poter esprime l’accresciuto bisogno reciproco. Una comunità

dotata di linguaggio ha già una lunga storia alle spalle ed è entrata in una nuova fase di sviluppo

(Cfr. “Saggio sull’origine delle lingue”). Se da un lato infatti i bisogni fisici si possono esprimere a

segni, dall’altro le passioni, le esigenze morali, il risveglio della ragione devono necessariamente

originare le lingue, che si sviluppano con la complessità dei bisogni sociali. Si passa così dal

linguaggio segnico a quello della poesia e del canto. E’ questo il secondo stadio, quello della società

nascente, egualmente distante dalla stupidità dei bruti e dai lumi funesti degli uomini civili.

L’alfabeto è caratteristico di società ad organizzazione politica. Ma anche il nuovo e felice

equilibrio della nascente società viene travolto da ulteriori trasformazioni, che preparano il terzo

stadio, quello dell’uomo civile. Metallurgia e agricoltura sono le due rivoluzioni tecniche decisive,

da cui procedono la divisione del lavoro, la proprietà privata e la diseguaglianza. Agricoltura:

inizialmente gli uomini erano sparsi sulla faccia della terra, in cui la famiglia è l’unica società

secolo doro, perché ognuno si considera padrone di tutto e le sue necessità lo allontanano dai simili,

per cui la terra è in pace. In un mondo non competitivo si possono facilmente soddisfare i propri

Page 118:  · Web viewRimane fermo però che il cristiano può disobbedire alle leggi contrarie a quella divina. La teoria costituzionale a forma di governo che consenta di far valere nei confronti

bisogni, attraverso la mobilità, la caccia e l’allevamento nomade. Non esiste ancora l’agricoltura

stabile, che invece rappresenta una svolta decisiva. Essa porta la proprietà, il governo, le leggi, e per

gradi povertà e crimini. Senza l’intervento del clima instabile e dei fenomeni naturali lo sviluppo

della agricoltura sarebbe stato diverso: se fosse stato sempre primavera, l’uomo non avrebbe

rinunciato alla libertà primitiva, di per sé indolente, per autoimporsi fatica e miseria necessarie per

lo stato sociale. Ma sotto le querce non ebbe inizio solo l’amore, ma anche qualcosa di meno nobile,

come la coltivazione, e con essa la divisione delle terre e il diritto avanzato sul raccolto da chi lo

aveva prodotto. Lo stato di natura è completamente distrutto. E’ nata la proprietà. L’agricoltura e la

metallurgia produssero la grande rivoluzione che ha civilizzato l’uomo facendogli perdere l’umanità

con le sue conseguenze dettate e favorite dai processi di produzione e di scambio, quando le merci

sono prodotte in quantità diverse da uomini diversi e per fini diversi. L’equilibrio delle differenze

naturali legate alla libertà originaria si rompe in favore dell’asservimento dei membri più deboli. Si

tracciano i solchi della società civilizzata fra le varie gerarchie. Infatti la maggiore complessità

sociale genera passioni “fittizie” e bisogni artificiali, per soddisfare i quali l’individuo diviene

schiavo del lavoro e sempre più dipendente dagli altri. Il moltiplicarsi dei desideri inappagati

produce infelicità. Se le tecnologie portano alle gerarchie, queste hanno avuto origine dalla

proprietà <<Ma appena un uomo ebbe bisogno dell’aiuto di un altro, appena si accorse che era utile

per un singolo avere provviste per due, l’eguaglianza disparve, subentrò la proprietà, il lavoro

divenne necessario, e le vaste foreste si tramutarono in ridenti campagne, che bisognò irrigare col

sudore umano, e nelle quali si videro ben presto la schiavitù e la miseria germogliare e crescere

insieme con le messi. La metallurgia e la agricoltura furono le due arti la cui invenzione produsse

questa grande rivoluzione>>; <<alla coltivazione delle terre seguì necessariamente la loro

spartizione, e dal riconoscimento della proprietà derivarono le prime regole di giustizia>>; <<Non

mi fermerò a descrivere il resto, cioè l’uso e l’abuso delle ricchezze>>.

Le gerarchie portano a istituzioni che rappresentano l’atto finale di ratifica della diseguaglianza. Le

istituzioni, attraverso le leggi della giustizia civile, congelano un processo fluido e plasmano a loro

immagine le attività umane. Si costituisce il governo e l’uomo realizza il suo potenziale di socialità.

La differenza fra l’uomo selvaggio e l’uomo civilizzato è che il primo respira quiete e libertà e vive

per restare in ozio quando il cittadino suda sempre attivo e si tormenta per intraprendere

occupazioni più ardue per le quali lavora fino alla disperazione e alla morte, rinunciando alla vita

per l’immortalità. L’uomo è diventato schiavo degli altri: la diseguaglianza ha origine

nell’evoluzione e nel progresso storico, dove tutto si è ridotto a proprietà e competizione.

L’acquisizione di nuovi bisogni vincola l’uomo agli altri anche quando ne è il padrone. La società è

diventata coabitazione forzata di uomini dagli interessi contrastanti, mossi dal solo desiderio di

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distruggersi. L’uomo sociale è malvagio, l’uomo pensante è depravato: tutti i mali sono opera

nostra, attraverso la forza motrice dell’avidità di guadagno che spinge l’uomo prima a cercare il

necessario, poi il superfluo e ancora inutili ricchezze conquistate a danno di altri. L’ipocrisia è la

caratteristica della vita civile.

Il governo non è, come per Locke, inteso come il trasferimento in un diritto costituzionale di un

diritto del tutto valido fondato sulla legge naturale. Governo vuol dire trasferimento in istituzioni

tiranniche e temporali di un sopruso compiuto da pochi contro i molti. Quanto i ricchi difendano,

sono acquisizioni fondate sulla forza e su titoli abusivi e precari. Essi sono così esposti agli attacchi

dei diseredati e alla vendetta dei poveri. Così essi hanno congegnato un progetto, quello di garantire

con l’istituzione, che mostra di seguire la legge dell’uguaglianza, dell’ordine, del godimento

pacifico dei beni individuali, quanto accumulato indebitamente. Legge e diritto di proprietà sono il

primo stadio; la magistratura è il secondo stadio; la trasformazione del potere legittimo in quello

arbitrario è il terzo. E’ la proprietà, e quindi la diseguaglianza, ciò che costituisce la svolta decisiva,

verso la degenerazione morale e sociale dell’umanità. E’ la proprietà privata a scatenare la guerra di

tutti contro tutti che Hobbes attribuisce allo stato di natura. La necessità del patto sociale scaturisce

dalla necessità di superare lo squilibrio drammatico di una condizione sociale già contro natura. Su

queste basi si può stabilire solo un iniquo patto, imposto con l’inganno e con forza dei ricchi a

danno dei forti. L’istituzione delle leggi e della società civile si risolve nella legittimazione della

proprietà e della diseguaglianza: una semplice usurpazione di fatto viene coperta con la maschera

rispettabile del diritto. Parallelamente alle rivoluzioni tecniche e scientifiche avvengono ad esse

intrecciate quelle morali e cognitive, con cui si va attuando la perfettibilità. Anche qui per R.

l’innocenza originaria si corrompe quando si apre la divaricazione fra essere e apparire. Nascono le

passioni dell’individuo, dell’orgoglio, del disprezzo e della vergogna. La passione naturale

dell’amore di se degenera in quella sociale e artificiale dell’amor proprio, che è una passione

egoistica prodotta dal confronto consapevole con l’altro, un desiderio di prevalere su tutti. L’amor

proprio è all’origine di ogni vizio morale: <<Il selvaggio vive in se stesso; l’uomo sociale, sempre

proiettato fuori di se, non sa vivere se non nell’opinione degli altri>>. Al punto finale di questo

processo ci dovrà essere una <<nuova rivoluzione>>, per il recupero della libertà umana perduta

con l’appropriazione privata di ciò che è comune. Contro le contraddizioni dell’uomo pensato come

risultato del conflitto d’interessi economici, bisogna ristabilire a livello morale quella libertà.

“Economia politica” (1755) Questo articolo scritto per l’”Enciclopedia” rappresenta

un’anticipazione, insieme al “Manoscritto di Ginevra” (’61), delle “Istituzioni politiche”, progettate

fin dal ’50 ma mai finite, perché R. poi pubblica il “Contratto Sociale” (1762). Ma è possibile

seguire la maturazione del pensiero di R. riguardo al concetto di volontà generale che è

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l’espressione della sovranità. Qui il riferimento è a Diderot che per l’enciclopedia scrive la voce

“Diritto naturale”. Viene discussa la questione della proprietà, che nel “Discorso sulla

diseguaglianza” è un luogo dell’evoluzione umana e la fonte di sfruttamento in una comunità

imposta dai ricchi ai poveri. Nell’ “Economia politica” c’è una frase che dice: <<E’ necessario

ricordare che la base del patto sociale è la proprietà e che la sua prima condizione è che ognuno sia

mantenuto nel pacifico godimento di quanto gli appartiene>>. Sembra che R. derivi da Locke

queste parole. Ma si deve subito notare che per lui la proprietà non è un diritto naturale che la

società civile deve sanzionare. Egli non ripudia affatto le parole pronunciate precedentemente per

cui, quando le parole “mio” e “tuo” vennero pronunciate per la prima volta, fu un giorno infausto

per l’umanità. Il diritto di proprietà è delimitato dall’accento posto sul “pacifico godimento” che

ognuno trarrà dalla salvaguardia del proprio diritto, non competitivo e mantenuto su scala umana. Il

diritto di proprietà va protetto perché serve a scopi precisi. Il primo riguarda la preoccupazione per

lo istituto della famiglia (i beni di famiglia devono essere alienati il meno possibile e rimanere al

suo interno, non andare a finire in mano agli speculatori). Il secondo riguarda la stabilità sociale, per

cui la garanzia della proprietà deve essere accompagnata da leggi che la regolano, perché alla

morale e alla repubblica non giovano i continui cambiamenti di condizione dei cittadini. R. si

mostra ansioso di proteggere i diritti dei piccoli proprietari in una società democratica di cittadini

liberi e uguali. Sotto questo riguardo la proprietà diviene la base della società, poiché non possono

essere sottratti quei beni che la famiglia utilizza direttamente. Viene esclusa la possibilità

dell’accumulazione lockeana; R. raccomanda infatti una politica di confisca di tutto quanto eccede

un certo minimo necessario alla sopravvivenza. Su un altro passo R. riconosce come <<il più sacro

fra tutti i diritti dei cittadini>> quello di proprietà, ma poi precisa:<< o perché esso riguarda più da

vicino la conservazione della vita, o perché, essendo i beni materiali più facilmente asportabili e più

difficili da difendere della persona, si deve rispettare maggiormente ciò che può più facilmente

essere sottratto; oppure, finalmente, perché la proprietà è il vero fondamento della società civile e

l’autentica garanzia dell’impegno dei cittadini; perché se i beni materiali non garantissero per i loro

proprietari, niente sarebbe più facile che eludere i propri doveri ed evadere la legge>>. La proprietà

risulta quindi per R. un pegno della condotta onesta dei cittadini, e assicura l’adempimento dei

doveri di questi verso lo Stato. La proprietà, che nella condizione prepolitica sarebbe

un’usurpazione, acquista un nuovo ruolo quando i cittadini acconsentono a formare la comunità

politica. Essa garantisce ora tanto la libertà del cittadino quanto l’adempimento del suo dovere. E’

limitata nella sua estensione ed inestricabilmente legata allo Stato. E’ solo un mezzo per permettere

ai cittadini di compiere il proprio dovere. R. sa che difficilmente l’uomo, una volta corrotto, sarebbe

in grado di recuperare la propria grandezza del suo stato originario; ma nutre fiducia nel futuro e

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rimprovera a Voltaire il suo pessimismo, ricordandogli che, tutto considerato, essere vivi è un bene.

R. vive nella convinzione che nell’uomo esista una grandezza latente che si può portare alla luce

ancora una volta, almeno in parte, perfezionando le istituzioni per un verso e la capacità di guardarsi

in un più ampio proposito comune per l’altro. Egli in alcune pagine autobiografiche dice che ha

cercato di guardare all’uomo in sé e di trovare nella sua costituzione il vero sistema; il suo sistema

si limita a togliere dall’uomo quanto egli vi aveva aggiunto (“Fragment biografique”). I suoi

avversari sono alcuni luoghi comuni scolastici. Ammira Diderot, ma nella discussione sulla

“Volontà generale” prende le distanze da lui. Egli dice che oltre la famiglia troviamo la comunità,

che è l’unico modo di unire gli uomini, non solo di aggregarli, sulla base del diritto. La famiglia è

naturale, la comunità politica è convenzionale, risultante da accordi specifici. Qui R. polemizza con

Filmer, quando dice che nella società politica non esistono i rapporti dedotti dall’autorità paterna,

con la sottomissione della madre e con l’obbedienza dei figli. Del pari inaccettabile è il concetto di

diritti maturati dai ricchi a causa del loro maggior potere economico, perché ciò può essere una

realtà non un diritto. Il semplice possesso non stabilisce il diritto di proprietà; la terra di per se non

dovrebbe essere occupata da nessuno; poi la superficie occupata non dovrebbe eccedere le esigenze

di sussistenza individuale, infine il possesso deve essere reso effettivo non con un gesto formale, ma

col lavoro e la coltivazione. Il resto è violenza. Tutto quanto si verifica nella comunità invece è

fondato sulla più piena aderenza al principio dell’equa distribuzione della terra secondo il bisogno

prevenendo l’accumulazione di ricchezza eccessiva, che è il compito del sovrano in uno stato civile.

L’usurpazione non ha giustificazione in natura e non può formare la base del diritto. In una società

retta dalla volontà generale si deve impedire il processo di accumulazione nel suo stesso sorgere.

Anche la guerra non è ragione efficace per il consolidamento di un legame sociale, perché essa, se è

un conflitto tra società, presuppone l’esistenza della comunità politica, se è conflitto fra privati non

è in relazione con quanto si discute. La sola spiegazione accettabile della fondazione della società

civile deve essere l’utile comune che ne trarranno i membri. Gli stati legittimi non sono masse

tenute insieme con la forza; la loro forma tende al bene comune, non alla soddisfazione dei suoi

capi. Per R. va combattuta però anche la tentazione di paragonare lo Stato ad un organismo, poiché

lo Stato è un’entità morale dotata di una volontà: lo Stato è mosso dalla volontà generale descritta

nell’ ”Economia politica” come una volontà che <<poiché mira sempre ala conservazione e al

benessere del tutto e delle parti ed è l’origine delle leggi, costituisce per tutti i membri dello Stato,

nei rapporti che intrattengono fra loro e con l’organismo politico, il criterio di ciò che è giusto e

ingiusto>>. La discussione sulla volontà generale è importante per il rapporto con il Diderot, il

quale ne ha parlato nel suo articolo ”Diritto naturale”, in cui l’autore suppone che il singolo sia stato

privato del diritto di decidere da sé ciò che è giusto e ciò che è ingiusto; questo diritto può essere

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allora esercitato solo dal genere umano, essendo malfide le volontà particolari ed essendo sempre

buona la volontà generale. Il problema di Diderot è quello di determinare i diritti universali

dell’uomo che trascendono spazio e tempo e sono inalienabili. L’intera umanità diviene depositaria

di questi diritti, verificati dalla volontà generale. Ma come sappiamo in che modo procedere? Dove

possiamo consultare la volontà generale? La risposta è: ovunque, cioè in tutti i principi legislativi

scritti di tutte le società organizzate. Si tratta di una volontà generale comune all’umanità in tutte le

fasi del suo sviluppo, dai selvaggi già in qualche modo sociali alle società più avanzate con codici

legislativi più complessi. Sembra poi una volontà generale che fluttua sopra l’umanità e che gli

uomini possono trovare per proprio conto una volta messa a tacere tutte le passioni. La volontà

generale diviene la guida della condotta umana verso gli altri, verso la società in cui si è membri,

dalla società verso altre società. Ora, l’universalismo di Diderot non può essere la fonte dell’idea

rousseauniana di volontà generale, nonostante il riconoscimento formale di R. . Nella prima

versione del “Contratto Sociale” (I, cap.II) si dice che non esiste alcuna società universale del

genere umano, ma società naturali perché ciò che esiste è un’evoluzione graduale da cui è scaturita

la necessità di istituzioni politiche, perché, acquisendo l’uomo sempre più crescenti bisogni, si

rendono necessarie forme di aiuto reciproco. L’umanità ha lasciato lo stato di natura e imboccato

una fase di disordine senza pace e felicità. La miseria e l’incapacità di distinguere il bene dal male

sono il risultato della crescente socializzazione dell’uomo. Hobbes sbaglia nell’avere immaginato lo

stato di guerra come la condizione naturale dell’umanità e come la causa dei vizi di cui è invece

conseguenza. L’età dell’oro è rimasta estranea all’uomo o perché l’uomo non la riconobbe quando

avrebbe potuto goderne o perché, l tempo in cui poteva riconoscerla, essa era già perduta. Non è

accettabile parlare di società generale dell’umanità quando la nostra innocenza naturale è svanita.

Senza comunicazione, virtù e morale non si può dire che esista una società, che è appunto un’entità

morale. Ancor meno sostenibile è l’idea che si possa far funzionare un tribunale generale

dell’umanità. La sua esistenza presuppone una comprensione della ragione per cui gli interessi

personali dell’uomo richiedono che egli si sottometta alla volontà generale. Ciò presuppone una

capacità di astrazione che è un esercizio difficile. Per R. è solo dall’ordine sociale stabilito tra gli

uomini che si possono dedurre le idee di ordine. Concepiamo la società generale in base alle nostre

società particolari, perché una volontà generale stabilita sulla fiducia nella società generale

dell’umanità non ha consistenza. Il principio luminoso della volontà generale va ripensato in termini

di esperienza concretamente umana della società, particolari di cui per prima cosa l’uomo deve

essere cittadino. Il difetto del cosmopolitismo è che si vanta di amare il mondo intero così da avere

il diritto di non amare nessuno in particolare. Partendo dagli antipodi di Diderot, R. dice che la

volontà generale è fonte di doveri, non solo di diritti. Essa non riguarda rapporti tra nazioni: <<La

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volontà di questa società particolare ha sempre un duplice valore: per i membri dell’associazione è

una volontà generale, per la grande società è una volontà particolare>>. Se il “Discorso

sull’uguaglianza” costituisce una diagnosi della degenerazione sociale dallo stato di natura al patto

iniquo, la voce “Economia politica” disegna la prognosi del buon governo, la teoria e la pratica

dello Stato giusto, prefigurando il “Contratto Sociale”. L’autore costantemente presente a R. per il

suo concetto di volontà generale è anche Pufendorf (Cfr. “I doveri dell’uomo e del cittadino” 1734),

che ha descritto l’entrata degli uomini nello stato sociale come un solenne impegno, assunto da

ciascuno, di rinunziare una volta per tutte alla propria volontà particolare, di costituire un corpo

sociale, e di sottomettersi alla “volontà positiva di tutti in generale”. Tale sottomissione è definitiva,

irrevocabile e si articola attraverso due convenzioni: un “pactum unionis” e un “pactum

subjectionis”. Ne risulta una volontà unica. Lo Stato è per Pufendorf <<una persona morale

composta, la cui volontà, formata dall’insieme delle volontà di molti riunite in virtù delle loro

convenzioni, è considerata volontà di tutti in generale, ed è autorizzata per questo motivo a servirsi

delle forze e delle facoltà di ciascun individuo privato per conseguire la pace e la sicurezza

comune>>. Pufendorf polemizza con Hobbes perché disegna un assetto gerarchico del potere nato

dalla spontanea sottomissione dei contraenti all’autorità da loro stessi prescelta. Il trapasso dallo

stato di natura allo stato sociale è privo di lotta, dominato dall’equità, dai giuramenti, dalla fedeltà

ai patti. La “legge naturale” si prolunga e si realizza senza frattura nelle leggi positive. I cittadini

educati al potere comprendono la necessità e l’utilità del governo civile. Diderot non fa che

riesporre nel suo articolo i principi di Pufendorf. Come questi, parla del malvagio antisociale che è

tale per ignoranza. Sembra che Diderot e Pufendorf parlino di Hobbes: rifiutando la volontà

generale di tutti, il malvagio sa comunque illustrare le sue ragioni a favore della sua politica ferina e

aggressiva, dicendo che il suo diritto di uccidere gli altri è reciproco. Diderot gli offre una scelta

netta: o la repressione o il ravvedimento attraverso la persuasione razionale (viene edificato). Il

ravvedimento del malvagio avviene con il rinvio ai supremi principi che regolano la volontà

generale, mostrandogli il fondamento stesso del diritto naturale, la fonte extrastorica della ragione

universale (la recta ratio dell’intero genere umano): <<la volontà generale è sempre buona – dice

Diderot – non ha mai ingannato e mai ingannerà>>. Nella voce “Economia politica” R. dice che la

volontà generale è un dato oggettivo della retta ragione (la differenza con Diderot è impalpabile),

precisando che è conoscibile da parte del soggetto mediante una precisa scelta etica: <<per seguirla

bisogna conoscerla, e soprattutto bisogna ben distinguerla dalla volontà particolare, cominciando da

se stessi>>. Qui è posto il nesso tra morale e politica, libertà e autorità, sovranità della legge e limiti

del potere esecutivo, diritti e doveri dei cittadini. Il punto d’incontro è dato dalla più sublime delle

istituzioni umane, la legge, che l’uomo deve ad una ispirazione celeste. Attraverso metafore R. si

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domanda: <<Per quale arte imperscrutabile si è potuto trovare il mezzo di assoggettare gli uomini

per renderli liberi? D’impiegare al servizio dello Stato i beni, le braccia, la vita stessa di tutti i suoi

membri senza costringerli e senza consultarli? D’incatenare la loro volontà con il loro beneplacito?

Di far valere il loro consenso contro il loro rifiuto, e di forzarli a punirsi da sé quando fanno ciò che

non hanno voluto? Come può accadere che obbediscano senza che nessuno comandi? Che servono e

non abbiano padroni? Tanto più liberi di fatto, in quanto sotto una apparente soggezione, ciascuno

perde della propria libertà solo quel che può nuocere alla libertà altrui. Questi prodigi sono opera

della legge. Solo alla legge gli uomini debbono la giustizia e la libertà. E’ questo salutare organo

della volontà di tutti che ristabilisce nel diritto l’uguaglianza naturale tra gli uomini. E’ questa voce

celeste che detta a ciascun cittadino i precetti della ragione pubblica e gli insegna a modellare la

propria condotta sui principi dettati dal suo proprio giudizio e a non essere in contraddizione con sé

stesso>>. La volontà generale è la fonte del potere sovrano, la regola suprema e il limite

dell’autorità dei magistrati. Ma come si esprime in concreto? R. non ripete, come Pufendorf e

Diderot, che è incorporata una volta per tutte nei patti istitutivi o depositata nel diritto positivo,

continua a parlare delle condizioni educative, morali e politiche che rendono concretamente

possibile la crescita della volontà popolare retta: amor di patria, rettitudine dei governanti, onestà

dei costumi. Finisce l’articolo con la parte dedicata al buongoverno, all’equa ripartizione della

ricchezza, all’amministrazione della finanza pubblica, al fisco, agli argomenti economici. Il

concetto di volontà generale è chiarito in un capitolo tormentato del “Manoscritto di Ginevra” poi

escluso dal “Contratto Sociale”; in esso si confronta ulteriormente con Hobbes, Pufendorf, Diderot.

Il concetto di volontà generale diventa la chiave di volta della critica antigiusnaturalista. Che cosa è

la sociabilitas? Essa, che dovrebbe spiegare l’appello alla volontà di una società generale del genere

umano, intesa come suprema depositaria dei principi del diritto e della giustizia, è una chimera dei

filosofi, mentre la realtà storica ci presenta solo modelli di società antagoniste, competitive,

violente. Il preteso progresso non è che corruzione e la ragione, è un prodotto tardivo dello sviluppo

sociale. La natura non detta patti sociali. Non esiste un deposito extrastorico della volontà generale,

intesa da Diderot come un atto puro dell’intelletto che ragiona nel silenzio delle passioni. Essa è

accettabile per l’individuo già ragionevole, ma non ha alcun valore cogente. La volontà generale

intesa come voce edificante dell’intelletto è soverchiata dagli istinti egoistici e dalle passioni

aggressive; la volontà generale è inerme e non si impone al volgo, è pura proiezione della ragione

astratta. Ma <<sforziamoci di trarre dallo stesso male il rimedio che deve guarirlo. Mediante nuove

associazioni correggiamo se è possibile, la mancanza di un’associazione generale>>. Una volontà

generale legittima ed efficace non può essere altro che l’espressione vivente dell’assemblea

popolare: <<La volontà generale cui spetta la direzione dello Stato non appartiene al passato, ma al

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presente, e il vero carattere della sovranità consiste in un accordo costante di tempo, luogo, effetto,

fra la direzione della volontà generale e l’impiego della forza pubblica>>. La scelta morale

consapevole dei singoli risolve dunque il conflitto tra senso ed intelletto, passioni e ragione, e le

singole scelte individuali si compongono in una volizione unitaria, in un “io comune”. La ragione

che parla nel silenzio delle passioni è impotente a modificare la decadenza umana. Non bisogna

sopprimere il momento hobbesiano, la ferinità e la forza associata con la astuzia, nella costruzione

della società giusta, esso è lo strumento più efficiente di autocoercizione e di coercizione sociale.

Inoltre la socializzazione del malvagio è garanzia di liberazione per tutti. Nella volontà generale R.

vede confondersi coscienza e natura, istinto e ragione, libertà e necessità.

Il “Contratto Sociale” (1762) inizia con una frase: <<L’uomo è nato libero e tuttavia è ovunque in

catene>>. Sciogliere l’uomo da esse e restituirlo alla libertà è l’obiettivo del nuovo contratto, come

finzione teorica di un passaggio netto ed istantaneo dallo stato di natura allo stato civile, che

coincide con la creazione di un puro ordine di diritto. Tra natura e costituzione politica legittima

non v’è continuità: R., contro Locke e con Hobbes, nega l’esistenza di diritti naturali. Morale,

diritto e proprietà privata sono istituzioni artificiali. Il Contratto non prospetta il ritorno alla natura

originaria, ma esige la costruzione di un modello sociale, non fondato sugli istinti né solo sulla

ragione, isolata e contrapposta al mondo prerazionale; è sulla voce della coscienza umana aperta

alla comunità. Col passaggio dallo stato di natura allo stato sociale, l’uomo sostituisce nella sua

condotta la giustizia all’istinto. Qual è il principio che renderà possibile tale palingenesi storica?

Non è la volontà astratta, ritenuta depositaria di tutti i diritti, o la ragione pura, estranea alle

passioni. Il principio che legittima il potere e garantisce la trasformazione sociale è costituito dalla

volontà generale amante del bene comune. Di cosa essa è il frutto e come riesce a modificare gli

uomini mettendo fine alla corsa dell’accumulazione dei beni? Delineando una comunità etico –

politica in cui ciascun individuo non obbedisce ad una volontà estranea, ma ad una volontà generale

che egli riconosce per propria e quindi in ultima analisi a se stesso, R. descrive un ordine sociale,

non naturale, che nasce tuttavia per una necessità quando gli individui non sono più in grado di

vincere le forze che si oppongono alla loro conservazione. A questo punto il genere umano

perirebbe se non mutasse la sua maniere di vivere. Il problema del “Contratto Sociale” è quello di

prospettare un passaggio allo stato civile che non sacrifichi la libertà e l’uguaglianza, cioè quello di

<<Trovare una forma di associazione capace di difendere e di proteggere con la forza comune la

persona e i beni di ogni associato, e in virtù della quale ognuno, unendosi a tutti gli altri, obbedisca

tuttavia soltanto a se stesso, e rimanga libero com’era prima>> (Ib., I, 6). Questo problema è risolto

col patto che è alla base della società politica. La clausola fondamentale di questo patto è

l’alienazione totale di ciascuno associato, con tutti i suoi diritti, a tutta la comunità. In cambio della

Page 126:  · Web viewRimane fermo però che il cristiano può disobbedire alle leggi contrarie a quella divina. La teoria costituzionale a forma di governo che consenta di far valere nei confronti

sua persona privata, ciascun contraente riceve la nuova qualità di membro o parte indivisibile del

tutto; e si genera così un corpo morale e collettivo, composto di tanti membri quanti voti ha

l’assemblea corpo che ha la sua unità, il suo “io comune”, la sua vita e la sua volontà(I,6). Ora, la

volontà generale non è il frutto di un pactum subjectionis a un terzo, che implicherebbe la rinunzia

alla propria responsabilità diretta e la delega dei propri diritti. Essa è frutto del solo pactum unionis

che ha lungo eguali, che restano sempre tali; essa non è la somma delle volontà di tutti i

componenti, ma una realtà che scaturisce dalla rinuncia di ognuno ai propri interessi a favore della

comunità, quel corpo morale e collettivo che trae dal medesimo atto a sua unità o “io comune”. È un

patto che gli uomini non stringono con Dio o con un capo ma tra loro, in piena libertà e

uguaglianza: <<Solo la volontà generale può dirigere le forze dello Stato secondo il fine della sua

istituzione, che è il bene comune; infatti è stato il contrasto degli interessi privati a rendere

necessaria la istituzione delle società civili, è stato l’accordo dei medesimi a renderla possibile. Il

legame sociale risulta da ciò che in questi interessi differenti c’è in comune… ora poiché la volontà

tende sempre al bene dell’essere che vuole, e la volontà particolare ha sempre per oggetto

l’interesse privato, mentre la volontà generale si propone l’interesse comune, ne consegue che solo

quest’ultima è, o deve essere, il vero motore del corpo sociale>>. Secondo questa impostazione

ogni cittadino non è niente e non può niente se non per mezzo di tutti gli altri; l’uomo con la volontà

generale per il bene comune deve pensare a sé solo pensando agli altri, solo tramite gli altri, non

come strumenti ma come fini in sé, come lo sono tutti i componenti. Nessuno deve ubbidire a

l’altro, ma tutti alla legge, sacra per tutti perché è frutto ed espressione della volontà generale. Col

passaggio dallo stato di natura allo stato civile, l’uomo sostituisce nella sua condotta la giustizia

all’istinto e dà alle sue azioni la moralità di cui prima mancavano:<<Allora solamente la voce del

dovere succede all’impulso fisico e il diritto succede all’appetito e l’uomo, che fino ad allora aveva

considerato solo sé stesso, si vede forzato ad agire su altri principi e a consultare la ragione prima di

ascoltare le sue tendenze>>(I,8). Il passaggio dallo stato di natura a quello civile non è dunque una

decadenza, se lo stato civile è, come deve essere, la continuazione e il perfezionamento dello stato

di natura. Tutti gli sforzi del nuovo patto sociale sono diretti a eliminare i germi dei contrasti tra

interessi privati e interessi comunitari, assorbendo i primi nei secondi (radicale socializzazione

dell’uomo); per far ciò occorre radicare a legge sociale nel profondo dei cuori umani, in modo che

gli uomini non siano in contraddizione con sé, che siano ciò che vogliono sembrare e appaiano ciò

che sono. Alla forza della costruzione sarà subentrata della volontà, alle fortune dei privati il tesoro

pubblico. Non c’è nulla di privato, tutto è politico o deve diventarlo. L’uomo è essenzialmente

sociale, un’animale politico. La volontà del corpo sociale sovrano è la volontà generale, che tende

sempre all’utilità generale e quindi non può sbagliare (II, 3). Di questa volontà sono emanazione le

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leggi, che sono gli atti della volontà generale, esse non sono quindi gli ordini di un uomo o di più

uomini, ma le condizioni per la realizzazione del bene comune pubblico (II, 6). La sovranità non è

che la volontà generale del corpo politico e appartiene interamente al popolo, che riunito in

assemblea, esercita direttamente il potere legislativo. Ogni individuo è contemporaneamente

cittadino, in quanto partecipe del potere sovrano, e suddito in quanto come egli altri è soggetto alle

leggi della comunità. Con l’adesione al contratto sociale, l’individuo perde in modo illimitato la

libertà naturale, che è però compensata dalla libertà civile, che trova nel diritto un limite ma anche

un’assoluta garanzia. Il suddito obbedisce alla legge che egli stesso ha stabilito in quanto cittadino e

membro dell'autorità sovrana. La dipendenza totale di tutti dalla legge comune impedisce la

dipendenza personale di un individuo dal potere arbitrario di un altro. Mirando sempre al bene

comune, la volontà generale è sempre nel giusto. Con ciò deriva che la sovranità è, come in Hobbes,

assoluta, con la differenza che essa appartiene al popolo, ed è inalienabile, non essendo conferibile

ad alcun organo distinto dal popolo, o corpo politico collettivo. Contro il liberalismo R. non

ammette divisioni o limitazioni del potere: non essendovi diritti preesistenti al contratto sociale, non

c’è un ambito privato di libertà naturali da proteggere contro l’invadenza dello Stato; ogni diritto

nasce infatti dal patto. Del resto il potere sovrano, che risiede esclusivamente nella totalità degli

associati, <<non ha alcun bisogno di un garante nei confronti della collettività, poiché è impossibile

che il corpo voglia nuocere ai suoi membri>>. Il potere sovrano, inalienabile e indivisibile, coincide

con la sola funzione legislativa, esercitata da tutto il popolo nella forma della democrazia diretta. R.

quindi non accetta le istituzioni rappresentative e parlamentari, in quanto esse sono fondate sulla

delega, illegittima, della sovranità popolare. L’esecuzione delle leggi va affidata al governo che

tuttavia non detiene alcuna sovranità, ma è semplice emanazione della volontà generale, con la

funzione di rendersi intermediario tra i sudditi e il corpo politico sovrano (III, 1). I membri del

governo non sono rappresentanti del popolo, ma solo suoi funzionari, con un mandato provvisorio e

in ogni momento revocabile. I governi tendono a degenerare opponendosi alla sovranità del corpo

politico con una loro volontà particolare che si oppone a quella generale. Ma i depositari del potere

esecutivo non hanno nessuna autorità legittima verso il popolo, che è il vero sovrano: <<Essi non

sono i padroni del popolo, ma i suoi ufficiali e il popolo può stabilirli e destituirli quando gli piace.

Non è questione per essi di contrattare ma di obbedire; e incaricandosi delle funzioni che lo Stato

impone loro non fanno che compiere i loro doveri di cittadini senza avere in alcun modo il diritto di

disputare sulle condizioni>> (III, 18).

Un patto sociale stabilito a queste condizioni garantisce la libertà dei cittadini perché garantisce che

ciascuno dei suoi membri non obbedisca che a sé stesso. Nell’obbedire ala volontà generale

l’individuo per R. non subisce limitazioni. Per questo R. ha distinto la volontà generale dalle

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decisioni che in linea di fatto prende il popolo e perfino dalla volontà di tutti (II, 3); dall’altro lato

egli esige la completa subordinazione dell’individuo alla volontà generale, perché fuori di essa egli

non può che avere interessi o moventi particolari e quindi ingiusti. L’istituzione dello stato civile

costituisce anche una trasformazione radicale dell’esistenza umana, per cui ora l’ordine fondato sul

diritto è il termine positivo, mentre dello stato di natura si enfatizza l’animalità, per il mancato

sviluppo delle facoltà propriamente umane. Alla schiavitù dell’istinto subentra la libera e razionale

obbedienza alla legge e alla coscienza morale. R. vorrebbe trovare nello stato civile l’unità perduta

dello stato naturale, e la scorge nella figura idealizzata del cittadino antico che si identificava

totalmente nei valori patri. Ma nell’epoca moderna, in cui l’individuo grazie alla sua coscienza

morale non si annulla nella coscienza politica, vi sarà sempre una contraddizione tra

cosmopolitismo e patriottismo. Nei “Frammenti politici” R. ammette la scissione non evitabile

neppure col contratto:<<Ciò che costituisce la miseria umana è la contraddizione tra l’uomo e il

cittadino; rendete l’uomo uno e lo renderete felice quanto può esserlo. Datelo tutto l’intero allo

Stato, o lasciatelo tutto intero a se stesso; se ne dividerete il cuore, questa lacerazione lo renderà

infelice>>.

Tale dilemma si ripresenta nelle pagine del “Contratto Sociale” dedicate ala religione. Vi è una

religione del cittadino, quella che nei popoli antichi promuoveva la coesione sociale con il culto,

anche esteriore e politico, degli dèi patri; ma l’unità interna poggia sull’intolleranza verso il barbaro

e lo straniero. All’estremo opposto vi è la religione dell’uomo, il cristianesimo autentico, inteso

come puro culto interiore senza riti ne dogmi, come il messaggio di fratellanza universale del

Vangelo; ma la religione dell’uomo allontana i cuori dallo Stato, perché la patria del cristiano non

appartiene a questo mondo. In effetti, non può esistere una repubblica cristiana, perché il

cristianesimo predica solo la servitù e la dipendenza. I veri cristiani sono fatti per essere schiavi. R.

tenta di superare questo dualismo proponendo per il suo Stato ideale una professione di fede civile

(IV), che associ nei suoi dogmi la credenza deista nell’esistenza di Dio e nell’immortalità

dell’anima alla santità del contratto sociale e delle leggi. Nel “Contratto Sociale” R. ammette che ci

sia <<una professione di fede puramente civile, di cui appartiene al sovrano fissare gli articoli, non

precisamente come dogmi di religione, ma come sentimenti di sociabilità senza i quali non è

possibile essere buon cittadino e suddito fedele>>(IV, 8). Lo Stato non può obbligare a credere

questi articoli, ma può bandire chiunque non li creda, non come empio ma come insocievole. Gli

articoli di questo credo civile sono gli stessi della religione naturale con in più la santità del

contratto e delle leggi e con l’aggiunta di u dogma negativo, l’intolleranza. Nel “Contratto” non c’è

per R. contrasto fra l’assoluta libertà religiosa presupposta nell’”Emilio” (1762) e l’obbligatorietà

del credo civile, perché egli nello stato civile suppone realizzato in tutte le sue conseguenze l’ordine

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razionale della natura umana, il cui organo è la volontà generale. La religione civile non fa quindi

che rendere esplicite le condizioni di questa realizzazione che non possono non essere riconosciute

dai singoli. Difatti il venir meno al credo civile, comportandosi come se non lo si ammettesse, è per

R. il crimine più grave, perché significa aver mentito di fronte alle leggi (quindi a sé stesso) e va

punito con la morte (IV, 8).

Commenta S.Cotta: <<Il contratto sociale da origine ad uno Stato democratico – in quanto il potere

vi appartiene non più ad un principe o ad un oligarchia ma ala comunità – ma consacra altresì il

dispotismo della maggioranza, che si ammonta dei caratteri della totalità… Alla persona umana

viene così negata la sua libertà>> così da <<sacrificare integralmente la sua ragione alla volontà

collettiva con un vero e proprio atto di fede… La filosofia come rivoluzione di R. sfocia nello stato

etico e totalitario>>.

13. “Il Federalista” di (Hamilton, Jay e Madison): la

costituzione americana e la repubblica federaledi P. Armellini

Federalisti sono da considerarsi quegli intellettuali americani (Hamilton, Madison e Jay), che, ai

tempi del dibattito sulla Costituzione degli U.S.A., si schierarono per un rafforzamento degli organi

federali, pur nel rispetto dell’autonomia dei singoli Stati.

Vediamo ora brevemente la struttura di questa Costituzione. L’atto di nascita degli Stati Uniti

d’America può essere considerata la Dichiarazione di Indipendenza del 4 luglio del 1776 approvata

dal Congresso Continentale, su stesura di un giovane avvocato della Virginia, Thomas Gefferson. I

delegati delle tredici colonie, richiamandosi alle teorie illuministiche, rivendicarono per sé e per

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tutti i coloni d’America il diritto naturale alla vita, alla libertà e alla felicità, per cui proclamarono di

voler essere liberi e indipendenti da ogni soggezione alla corona britannica. I governi devono

seguire questi scopi e diritti, in caso contrario possono essere sostituiti dal popolo, al cui consenso

sono legati. La sostituzione, mai affrettata, è però doverosa ove vi sia la minaccia della tirannide,

come è stato il caso della corona britannica, a cui giustificazione non si deve più obbedire. È qui

ancora presente la tradizione monarcomaca della attiva resistenza al tiranno. Tra il 1776 e il 1777

dieci dei tredici Stati fondatori si diedero una nuova Costituzione Statale, mentre il Massachusetts si

aggiunse nel 1778. Sei Stati (Virginia, Delaware, Pennsylvenia, Maryland, North Carolina,

Massachusetts) formularono le dichiarazioni dei diritti fondamentali. La libertà, intesa come

partecipazione politica, non venne assolutamente realizzata ovunque nella stessa misura; in cinque

Stati solo i protestanti potevano ricoprire gli uffici pubblici. Non venne mantenuta la sovranità

popolare in questi documenti e il principio di uguaglianza della Dichiarazione di Indipendenza era

rivolto contro l’Inghilterra, e non destinato a un illimitato uso interno, al punto che solo tre Stati lo

assunsero nelle dichiarazioni dei diritti fondamentali. L’America non era una società di uguali, ma

certamente una società di proprietari e infatti la garanzia della proprietà è assai più diffusa. Principi

fondamentali del nuovo ordinamento erano dunque la rappresentanza il più possibile paritaria nella

legislazione e la divisione dei poteri con controllo reciproco. I vincoli fra gli Stati rimanevano

ancora assai tenui.

Secondo gli Articoli della Confederazione, che erano una sorta di Costituzione provvisoria varata

nel 1777 e approvata nel 1781, erano riconosciuti come compiti comuni, per i quali si doveva agire

di concerto, solo i rapporti internazionali e la difesa. Per tutto il resto la libertà degli Stati singoli

rimaneva piena. Ma dopo la fine della guerra le voci favorevoli alla Costituzione di un governo

federale, con poteri più ampi su tutto il territorio delle colonie, si fecero sempre più numerose. Per

risolvere la questione del 1787 fu convocata a Filadelfia una Convenzione Costituzionale che lavorò

dal maggio all’ottobre, dando luogo, da parte dei 55 delegati, alla creazione di una architettura

Costituzionale nuova destinata a reggere nelle sue linee fondamentali ancora fino ai nostri giorni.

Essa, ispirandosi alla divisione dei poteri, al loro reciproco equilibrio, dava luogo a nuovi organi

federali, in grado di esercitare la propria autorità su tutti i cittadini della Confederazione, che si

trasformava in Unione, acquisendo la fisionomia di uno Stato vero e proprio. La Costituente riuscì a

creare una Costituzione che conciliava la sovranità dei singoli Stati con l’inderogabile esigenza di

un superiore potere federale. Essa prevedeva che un largo numero di materie rimanesse di

competenza dei singoli Stati, che avevano perciò i loro organi legislativi ed esecutivi e potevano

darsi all’interno propri ordinamenti.

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Al governo federale spettavano le funzioni della difesa, della politica estera, delle finanze nazionali,

del commercio sia interstatale che estero, della posta. Il potere legislativo federale era affidato a un

Congresso, composto da una Camera dei Rappresentanti, con competenza finanziaria i cui seggi

erano distribuiti in proporzione alla popolazione di ciascuno Stato (un deputato ogni 30.000

abitanti),a da un Senato, nel quale indipendentemente dal numero di abitanti, ogni Stato aveva due

seggi, e che aveva il controllo della politica estera. Era la soluzione di compromesso fra gli Stati più

popolosi e le preoccupazioni degli Stati minori, che, dal p.d.v. rappresentativo, potevano risultare

sacrificati se ciò dipendeva dal numero della popolazione. Il potere esecutivo era affidato ad un

Presidente, eletto per la durata di quattro anni; esso assommava in sé sia l’ufficio di Capo dello

Stato sia di Capo del Governo; il voto indiretto era affidato ad una assemblea di “grandi elettori”

designati dagli Stati. Fra i suoi poteri amplissimi vi era tra l’altro, il comando delle forze armate, la

nomina dei giudici della Corte suprema e il blocco, tramite veto, delle leggi approvate dal

Congresso. Quest’ultimo poteva a sua volta mettere in stato di accusa il Presidente e destituirlo se

questo si fosse reso colpevole di violazioni della legge; al Presidente spettava a sua discrezione la

nomina dei segretari (ministri) per ogni dicastero federale. Esso era indipendente dal potere

legislativo (Congresso), la cui Camera dei Rappresentanti era eletta ogni due anni (col diritto di

voto e l’eleggibilità affidata al censo) e il cui Senato era eletto ogni sei anni Repubblica

Presidenziale elettorale. Il potere giudiziario – fermo restando l’autonomia in materia dei singoli

Stati – fu sottoposto al controllo della Corte suprema, composta da giudici vitalizi nominati dal

Presidente. Essa aveva la funzione di Tribunale di ultima istanza, cui si ricorreva contro le sentenze

dei Tribunali inferiori. Rimaneva il compito non facile di fare ratificare la Costituzione dei singoli

Stati. Per illustrare i vantaggi della Costituzione federale e facilitarne l’approvazione, fra l’ottobre

1787 e l’aprile 1788 alcuni esponenti delle posizioni moderate, A.Hamilton (1757 – 1804), John Jay

(1745 – 1829), James Madison (1751 – 1836) compilarono una serie di opuscoli, pubblicati su

periodici e giornali col nome “Publius”, poi nati più tardi col nome di “Federalist”. La Costituzione

fu ratificata dai singoli Stati nel corso del 1788 ed entrò in vigore il 4 marzo 1789 coll’elezione di

George Waschington come primo Presidente americano. La discussione fu condotta dal partito

federalista favorevole al rafforzamento del potere centrale, (legato al commercio e all’industria –

per il quale la stabilità politica era la necessaria premessa per lo sviluppo e la prosperità economica

- , ai grandi proprietari che vedevano in un esecutivo forte la migliore garanzia contro il disordine

sociale e le tendenze radicali) e dal partito antifederalista (che aveva maggiore ascolto fra i ceti

medi e bassi, fra i piccoli coltivatori indebitati che vedevano nel governo centralizzato un possibile

strumento delle oligarchie nazionali e degli affaristi delle città; essi temevano di non sentirsi

adeguatamente rappresentati da istituzioni lontane anche fisicamente). Le tesi federaliste furono

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approvate da 11 Stati su 13; la Costituzione fu ratificata dal Congresso continentale nel settembre

1788. Nel febbraio 1789ci furono le prime elezioni presidenziali e G.Waschington divenne

Presidente un mese dopo. Le richieste degli antifederalisti ottennero una parziale soddisfazione con

l’approvazione fra il 1789 e il 1791 di Dieci emendamenti alla Costituzione (art. aggiuntivi) da

parte del Congresso. Il cosiddetto Bill of Rights stabiliva i diritti fondamentali di ogni cittadino

americano e le prerogative dei singoli Stati contro l’eventuale invadenza del potere federale.

Il governo federale fu organizzato in dipartimenti, ossia in ministeri, di cui furono titolari

A.Hamilton, federalista al Dipartimento del Tesoro e T.Gefferson, antifederalista al Dipartimento di

Stato (estero). Due questioni erano ancora aperte: dal p.d.v. dei diritti politici non c’era l’estensione

del diritto di votare a suffragio universale neppure tra i maschi. C’era poi ancora la schiavitù, che fu

abolita negli Stati settentrionali e centrali, ma non al sud dell’Unione. Nel 1787 fu approvata

l’Ordinanza del Nord – Ovest che permetteva l’espansione verso l’Ovest; le regioni colonizzate

diventavano territori, con governanti e giudici mandati dal Congresso; potevano darsi organi di

autogoverno; con 60.000 abitanti diventavano Stati dell’Unione. Gli interpreti sono d’accordo nel

considerare il “Federalista” una delle più complete teorie dello Stato federale, anche se in accordo

col carattere pragmatico della cultura anglosassone non , esiste in questa opera, una considerazione

sul senso globale di questo strumento istituzionale, perché fu presentato come mezzo per risolvere i

problemi politici degli americani, e non come il modello del governo della società delle nazioni.

Il debole assetto confederale sperimentato nel decennio 1777–‘87 fece venire alla luce la gravità dei

conflitti tra i nuovi Stati e tra loro e l’organo confederale. L’autogoverno ereditato dalla tradizione

britannica, il senso della democrazia, garanzia insieme di libertà individuale e di autonomia locale,

la lingua comune, la somiglianza degli ordinamenti, dei costumi, della cultura, non si dimostrarono

sufficienti ad assicurare l’armonia e i rapporti pacifici tra gli Stati, o preservarli dall’invelenirsi dei

conflitti anche sociali ed economici, e delle divisioni e quindi dello scoppio di insurrezioni e di

guerre. Liti commerciali e territoriali, diatribe sulla partecipazione agli oneri comuni non furono

arginati dal sostrato di razionalità illuministica e dalla religione protestante delle classi dirigenti, che

fecero si che le ex colonie si abbandonassero al gioco delle libere volontà sovrane. Le debolezze

emersero soprattutto nell’impossibilità di stabilire imposte federali, di avviare un rapporto diretto

con i cittadini, di intervenire con forze proprie nel dirimere i conflitti ed imporre soluzioni non

gradite al singolo Stato membro discorde.

Hamilton in particolare mostrò di aver assimilato la lezione di pessimismo e di realismo politico

machiavelliano e di ben conoscere, sulla scorta della teoria della Ragion di Stato e dell’analisi delle

guerre fra potenze europee, i pericoli incombenti sulla confederazione: dissoluzione, creazione di

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eserciti permanenti, nuove tirannidi, rovina del sogno americano. Il modo di approccio al problema

politico non concedeva nulla alla declamazione retorica sui grandi principi, mostrava poca

erudizione storica, disattenzione nei confronti dei grandi miti politici di una cultura classica e

letteraria, manifestava un ragionamento fondato esclusivamente sul buon senso (= calcolo politico),

che parte sempre dai fatti e dalle situazioni esaminate freddamente, contraddistinto da un realismo

lontano da divagazioni utopiche. Basando la teoria di governo sull’analisi dell’uomo non come

dovrebbe essere ma come è soltanto, il “Federalista” tende ad eliminare le divagazioni idealistiche e

a commisurare i mezzi ai fini, a fondare la scienza politica moderna sull’esperienza, il cui campo

d’indagine è l’esame degli effetti delle azioni politiche. Nell’opera si nota una certa tensione fra i

primi articoli dominati dal problema del potere, l’antico gubernaculum, e gli ultimi dedicati al

potere giudiziario, l’antica iurisdictio: all’interno di queste tensioni vanno collocati gli argomenti

posti a difesa del governo bilanciato e della nuova struttura federale.

Occorre qui fare una premessa di tipo religioso: i coloni si considerano come una sorta di popolo

eletto, protagonista di un “sacro esperimento”, destinato e realizzare il vero cristianesimo.

Pluralismo e tolleranza erano valori condivisi dall’intera società coloniale (non applicati però agli

schiavi neri, considerati pura merce, e agli indiani) che si riflettevano nella larga autonomia di cui

godevano le comunità locali. Convinti di rappresentare una missione storica che spettava alle ex

colonie per la conquistata indipendenza, agli autori del Federalista fu facile mostrare che

quell’indipendenza poteva trasformarsi in anarchia proprio per il vuoto di potere che esisteva sulle

coste occidentali dell’Atlantico. L’America era disarmata di fronte all’influenza di potenze straniere

che avrebbero potuto agire dividendo i diversi Stati. Forte era la presenza di futuri, inevitabili

dissensi fra i diversi Stati. Pura espressione geografica poteva restare l’America se non si dava

strutture che istituzionalizzassero un potere centrale capace di evitare il disgregamento della

Confederazione e dare sostanza alla missione americana. Solo una matura riflessione sulla propria

esperienza avrebbe dato agli americani un buon governo. L’antropologia pessimistica

machiavelliana e hobbesiana che pervadono il Federalista coglie l’effettivo comportamento umano

in cui ragione e passioni coesistono. L’uomo è ambizioso, brama il potere, è fazioso, vendicativo,

rapace, vuole predominare sugli altri e invidia l’altrui potenza e ricchezza. A queste passioni si

abbandonano le classi dirigenti che abusano spesso della fiducia in loro riposta. Questo porterà in

America a conflitti fra Stati e a conflitti fra fazioni di uno stesso Stato. Ma ciò non giustifica

l’assolutismo, ma porta a fondare una unione accettando la natura pluralistica della società e

consentendo un primato della religione sulle passioni. La Federazione è il rimedio alla possibile

guerra fra gli Stati e rappresenta la vera barriera contro le fusioni interne. Qui Hamilton capovolge

un radicato luogo comune del pensiero politico del tempo, secondo cui la democrazia è possibile

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solo in un piccolo Stato. Invece è vero che proprio nelle piccole repubbliche nascono quelle fazioni

che producono agitazioni e rivoluzioni, le quali spaccano in due la piccola comunità. Solo in un

grande Stato è possibile la repubblica, impedendo alle fazioni di condurre alla rovina il paese.

Infatti in un grande spazio le tensioni e i conflitti si allentano e si scaricano più facilmente proprio

perché rimangono localmente circoscritti; in una piccola repubblica c’è un solo conflitto, in una

grande ve ne è una pluralità, sicché tendono ad equilibrarsi e neutralizzarsi.

Sviluppando il discorso, Madison offre una definizione della fazione come una associazione che

persegue fini contrastanti con quelli degli altri cittadini o con l’interesse nazionale. Ciò però non

esclude che sia riconosciuta la positività del partito opposto alla fazione. In una democrazia le

decisioni non vengono prese in base a principi di giustizia, ma in virtù del potere delle fazioni, che

tendono a calpestare i diritti delle minoranze e a disattendere gli interessi permanenti della

comunità. Ma rimuovere il potere dalle fazioni vuol dire distruggere la libertà, che è invece

essenziale alla vita politica. Inoltre l’uomo non possiede una ragione infallibile che interpreta in

modo giusto il bene comune, ma è spinto dall’amor proprio, dall’educazione ricevuta, dalle

convinzioni maturate e soprattutto dai propri interessi. La causa più comune della faziosità è data

dall’ineguale distribuzione delle ricchezze e per questo nascono lotte fra proprietari e non

proprietari, creditori e debitori, agrari ed industriali. La società è talmente diversificata che si

autointerpreta in modo diverso. Occorre agire non sulle cause (non si possono distruggere le qualità

diverse degli individui), ma sugli effetti, controllandoli per salvare il pubblico interesse e i diritti dei

singoli dal pericolo delle fazioni, senza intaccare la prassi democratica. Valutiamo l’allargamento

dell’orbita di una società divisa in tante parti e in tanti interessi, cosicché è possibile una varietà di

opinioni e di interessi, una maggior varietà di gruppi e di partiti, il che impedisce il formarsi di

maggioranze tiranniche. Come la molteplicità di confessioni è garanzia di tolleranza fra fedi

religiose, così la molteplicità di partiti è garanzia di salvaguardia dei diritti civili. Libertà politica e

religiosa sono strettamente unite per la democrazia pluralistica, che è presidiata dall’ampiezza delle

strutture politiche. Una Federazione di Stati grandi determina un equilibrio fra i centri di potere, per

cui nessuna strategia sovversiva può conquistarli tutti. Essa appare come un consistente e duplice

processo di accentramento e decentramento. Il compromesso raggiunto fra la posizione unitaria,

tendente alla creazione di un potere forte centrale, e quella pluralista dei sostenitori della libertà

d’azione degli Stati, alla Convenzione di Filadelfia consentì la promulgazione di una Costituzione e

la creazione di uno Stato federale, in cui viene superato il dogma dell’assolutezza, dell’unicità e

della indivisibilità della sovranità statale. La sovranità è condivisa dagli Stati ex coloniali e dallo

Stato federale, il quale esercita il suo potere non sugli Stati ma direttamente sui cittadini, con i quali

instaura rapporti diretti di cittadinanza, nazionalità, partecipazione. La Federazione incarna il sentire

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patriottico della nazione americana, che nasce direttamente dai cittadini. Il rapporto immediato con

essi consente altresì il ricorso ad una tassazione che mette al riparo la sopravvivenza degli Stati

apparati federali dall’incostanza che caratterizzava in precedenza il gettito dei singoli Stati per il

mantenimento della Confederazione. Qui si ha per la prima volta la distinzione tra confederazione e

federazione. La prima è solo un patto transitorio finalizzato al perseguimento di obiettivi limitati,

senza mettere in questione la sovranità dei soggetti statali. La seconda è la creazione, ottenuta con la

parziale cessione della sovranità degli Stati, di un livello statale superiore che li ricomprende

stabilmente ed ha una sua strategia politica indipendente dalle componenti, che pure è chiamata a

salvaguardare. L’Unione è una Repubblica Presidenziale di uno Stato grande con esigenze diverse

che trovano soluzione nella diversa articolazione degli organi costituzionali, nei loro poteri e nelle

loro competenze, nel loro bilanciamento e nel riconoscimento di un meccanismo di revisione

legislativa attraverso la legislazione (judicial review). Gli interessi di carattere generale vengono

con la Federazione delegati al Governo centrale, al cui vertice c’è il Presidente dell’Unione

personificazione dell’unità nazionale, che firma le leggi approvate dal Congresso, con le sue

raccomandazioni al Congresso partecipa alla iniziativa legislativa, detiene il diritto di veto su di

esse, nomina i nove giudici della Corte suprema, l’organo della tutela costituzionale da cui dipende

la magistratura federale. Questa è designata a decidere in merito a conflitti eventuali fra gli Stati

membri, fra questi e la Federazione e sulla legittimità delle leggi.

Hamilton polemizza col pensiero settecentesco che considerava la libertà il giusto mezzo tra due

eccessi, la tirannia e l’anarchia per cui, se si voleva aumentare la libertà, si doveva diminuire il

momento dell’autorità (e viceversa). Egli si proclama invece difensore di un forte potere centrale

esecutivo che deve avere i caratteri di unità, durata, autonomia degli appannaggi, poteri adeguati,

perché l’istanza esecutiva deve essere monocratica (mentre quella deliberativa ha bisogno del

confronto fra pluralità di opinioni). L’unità del comando consente non solo una costante ed

uniforme applicazione delle leggi, ma soprattutto garantisce una giusta sottomissione al volere del

popolo e un giusto senso di responsabilità, cosa che non accade nei governi collegiali, in cui è

impossibile l’identificazione della responsabilità, sono paralizzati i meccanismi di sanzione, risulta

inefficace il controllo dell’opinione pubblica. Il governo plurimo è la forma irresponsabile di

governo oligarchico. Invece di lottare contro l’autorità, diminuendo i suoi poteri, bisogna renderla

responsabile di fronte alla volontà del popolo, attraverso elezioni o per mezzo dell’impeachment,

che è la messa in stato di accusa del Presidente avanzata dal Congresso (i rami del legislativo uniti)

che può destituirlo se il Presidente si rende colpevole di violazioni della legge. In questo caso il

Senato si trasforma in Corte suprema di giustizia. Al governo federale spettano le competenze

relativa alla politica estera e militare che permettono di eliminare le frontiere fra gli Stati, che

Page 136:  · Web viewRimane fermo però che il cristiano può disobbedire alle leggi contrarie a quella divina. La teoria costituzionale a forma di governo che consenta di far valere nei confronti

perdono il carattere violento e acquistano un carattere giuridico (tutti i conflitti possono così essere

composti di fronte ad u Tribunale, le cui sentenze sono vincolanti). Anche il conferimento agli

organi federali di alcune competenze nel campo economico ha lo scopo di eliminare gli ostacoli di

natura doganale e monetaria, che impediscono la unificazione del mercato, e di attribuire al

governo federale un’autonoma capacità di decisione nel settore della politica economica. L’elezione

diretta del Presidente (Capo dello Stato e del Governo) conferisce stabilità e forza all’esecutivo, per

permettergli di svolgere efficacemente la funzione equilibratrice della vita sociale e attuare in modo

organico e coerente il programma di governo. Se il potere legislativo è affidato al Congresso coi

suoi rami della Camera e del Senato votati diversamente per contemperare le pretese degli Stati

grandi e piccoli ad avere una presenza equa negli organi federali, l’equilibrio tra la sovranità

federale e quella degli Stati, che godono di un completo autogoverno, è assicurato dalle Costituzioni

federali e proprie. Sia a livello statale sia a livello delle minori autonomie locali e sociali. Tale

equilibrio è conseguito anche tramite una ripartizione delle materie di competenza. Restando agli

Stati la cura degli affari interni (sicurezza) e la competenza dell’istruzione scolastica in generale

sono delegate alla federazione, le relazioni e i trattati internazionali, con rilievo speciale del

Presidente in fase esecutiva e del Senato per il dibattito e la ratifica. Alla federazione spettano

ancora le politiche di coordinamento finanziario, economico e sociale afferenti ai rapporti comuni

tra le singole realtà, con attribuzioni particolari (per es. sulle leggi fiscali) alla Camera dei

Rappresentanti nonché tutte le decisioni necessarie a evitare sovrapposizioni o contrapposizioni

esplosive e destinate a procurare un armonico sviluppo delle parti e del tutto nella libertà e nella

certezza del diritto. Donde il ruolo della giurisdizione della Corte suprema, definita da Hamilton la

“cittadella della giustizia e della sicurezza di tutti”. Con la tesi della separazione (non assoluta) dei

poteri, la tripartizione del legislativo (Stato misto), il principio della balance, il “Federalista” ha

superato la questione dogmatica della sovranità indivisibile ed affronta il problema costituzionale

della sua autonomia con la tecnica del governo rappresentativo, che distribuisce i poteri fra gli

organi dello Stato, creando un sistema di governo in cui si trovano garantiti insieme efficienza e

libertà. La sovranità non si dissolve nel governo ma anche il principio della sovranità popolare non

esercita un’influenza determinante nella costruzione del governo. Se uno Stato nazionale tende a

rendere omogenea tutta la vita delle comunità esistenti sul suo territorio, cercando di imporre a tutti

i cittadini la stessa lingua, gli stessi costumi, la stessa educazione ed istruzione, col governo federale

il potere centrale è fortemente limitato dalla disposizione degli Stati di un potere sufficiente per

reggersi autonomamente. Così le strutture federali sfuggono alla logica tendenzialmente totalitaria

dello Stato nazionale, il quale, con la coscrizione obbligatoria tende a trasformare i cittadini in

soldati. La conseguenza di questa distribuzione di competenze tra una pluralità di centri di potere

Page 137:  · Web viewRimane fermo però che il cristiano può disobbedire alle leggi contrarie a quella divina. La teoria costituzionale a forma di governo che consenta di far valere nei confronti

indipendenti e coordinati (questa è la formula di K.Wheare) è che ogni parte del territorio ed ogni

individuo sono sottoposti a due centri di potere: al governo federale e al governo di uno Stato

federato, senza che per ciò venga meno il principio della unicità di decisione su ogni problema.

Poiché il modello federale attua una vera e propria divisione del potere su base territoriale,

l’equilibrio costituzionale può mantenersi senza il primato della Costituzione su tutti i poteri. Ciò si

traduce in concreto nel fatto che, in caso di conflitto, il potere di decidere quali siano i limiti che i

due ordini di poteri sovrani non possono oltrepassare, non spetta né al potere centrale né agli Stati

federati, ma ad una autorità neutrale, cioè i Tribunali, ai quali è conferito il potere di revisione

costituzionale delle leggi. Nel potere giurisdizionale deve manifestarsi la maestà della autorità

nazionale. Esso per le sue funzioni è il meno pericoloso per i diritti politici sanciti dalla

Costituzione perché non ha né forza né volontà; può ledere infatti i diritti di un singolo, ma non di

un popolo. inoltre se la Costituzione è rigida, il potere legislativo è limitato e tali limitazioni

possono essere efficaci solo tramite le Corti di giustizia. Ciò non significa che il potere giudiziario è

superiore a quello legislativo, ma solo che il potere legislativo che ha un’autorità delegata, non può

agire in contrasto con l’atto di delega, dato che i rappresentanti del popolo non sono superiori al

popolo stesso. L’altro canto l’interpretazione e l’applicazione delle leggi è il compito speciale delle

Corti: nel caso di un insanabile contrasto fra legge costituzionale e una ordinanza, si dovrà dar

preferenza alla prima perché in essa si esprime la volontà popolare.

14. B. Constant e la libertà dei modernidi Paolo Armellini

Proprio mentre nel maggio del 1795 termina la insurrezione giacobina a Parigi giunge dalla

Svizzera, in compagnia di M. De Stael, un giovane che scrive libelli repubblicani e intende

diventare deputato: si chiama B. Constant (Losanna 1867-Parigi 1830) e al suo nome è legato

l’affermarsi del pensiero liberale dell’Ottocento. Dopo aver compiuto gli studi in Inghilterra, ottiene

la cittadinanza francese e nel 1796 scrive Sulla forza del governo attuale della Francia e sulla

necessità di aderirvi, dove auspica il non ritorno alla situazione precedente alla Rivoluzione di cui

vengono pure denunciati errori. Da eletto al Tribunato, si oppone a Napoleone, che lo costringe

all’esilio in Europa. La sua critica al militarismo napoleonico si evince dall’opera Sullo spirito di

conquista e di usurpazione del 1816, ma collabora con lui durante i cento giorni scrivendo una

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costituzione sul modello inglese. Rientrato a Parigi nel 1817 dopo l’esilio impostogli da Luigi

XVIII, in parlamento si oppone sia ai reazionari che ai democratici. Nominato da Luigi Filippo

presidente del Consiglio di Stato muore nel 1831. Sostenitore della sovranità non illimitata del

popolo, sulle orme di Sieyès, egli scorge un errore nella visuale politica di Montesquieu e Rousseau,

quello di non aver visto che “vi è una parte dell’esistenza umana che resta necessariamente

individuale e indipendente, e che è di diritto fuori da ogni competenza sociale. La sovranità esiste

solo in modo limitato e relativo”58, per cui essa si arresta laddove comincia l’indipendenza

individuale. Fin dal periodo napoleonico in cui viene redatto il testo citato, egli sembra vicino a von

Humboldt nel ritenere la giustizia e la difesa le uniche funzioni irrinunciabili della legislazione

statale. Ma il grado di demarcazione dal costituzionalismo veniva segnato da questa pagina:

“Montesquieu, nella sua definizione della libertà, ha disconosciuto tutti i limiti dell’autorità sociale.

“la libertà, dice, è il diritto di fare tutto ciò che è permesso dalle leggi”. Certamente, non vi è alcuna

libertà quando i cittadini non possono fare quanto le leggi non vietano: ma leggi non potrebbero

vietare tante cose, che di nuovo non vi sarebbe alcuna libertà (…). La massima del signor

Montesquieu (…) significa che nessuno ha il diritto di impedire a un altro di fare ciò che le leggi

non vietano, ma non spiega che cosa le leggi abbiano o meno il diritto di vietare. Ora, è proprio in

questo che consiste la libertà. La libertà è solo ciò che gli individui hanno il diritto di fare, e che la

società non ha il diritto di impedire”59. Ci sarà sempre bisogno di uno Stato per proteggere gli

individui da tutti gli altri e ciò distingue Constant dall’anarchismo di un Godwin60, malgrado nel

contesto francese lo statalismo accomunasse per lui Luigi XIV, Robespierre e Napoleone. La libertà

veniva assunta da Constant nell’accezione di assenza di leggi, ma era anche rivendicata come sfera

intangibile di attività da difendere anche contro lo Stato. Nel suo L’esprit de conquete, prima che

nel Corso di politica costituzionale, già osservava che alla sovranità deve essere opposto dai popoli

qualcosa, indipendentemente dal fatto che il potere politico sia detenuto dalla monarchia o dal

58 B. Constant, Principes de politique applicables à tous les gouvernement (1890), postumo a cura di E.Hofmann, Droz, Genève 1980, p. 45. Su Constant cfr. A. Zanfarino, La libertà dei moderni nel costituzionalismo di Benjamin Constant, Giuffrè, Milano 1961; A. Zanfarino, Introduzione a B. Constant, Antologia degli scritti politici, Il Mulino, Bologna 1962; S. Holmes, Benjamin Constant et la Genèse du liberalisme moderne, PUF, Paris 1984; M. Barberis, Il liberalismo empirico di Benjamin Constant. Saggio di storiografia analitica, Ecig, Genova 1984; C. Violi, Benjamin Constant. Per una storia della riscoperta. Politica e religione, Gangemi, Roma 1984; L. Landi, Filosofia della storia, morale e politica nel pensiero di Benjamin Constant, Aurora, Pavia 1986; M. Barberis, Benjamin Constant. Rivoluzione, costituzione, progresso, Il Mulino, Bologna 1988; B. Fontana, Benjamin Comstant and the Post-Rivolutionary Mind, Yale University Press, New Haven-London 1991; AA. VV., Constant: philosophe, historien, romancier, homme d’Etat, Actes du colloque de l’Université du Maryland, octobre 1989, in “Annales Benjamin Constant”, n. 12, 1991; S. De Luca, Il pensiero politico di Constant, con antologia, Laterza, Roma-Bari 1993; T. Todorov, Benjamin Constant. La passion démocratique, Hachette Littératures, Paris 1997, trad. ital. di A. Merlino, Donzelli, Roma 2003; S. De Luca, Alle origini del liberalismo contemporaneo. Il pensiero di Benjamin Constant tra il Termidoro e l’Impero, Marco ed., Cosenza 2003. Sulla letteratura constantiana cfr. S. De Luca, La riscoperta di Benjamin Constant (1980-1993): tra liberalismo e democrazia, “La Cultura”, XXXV, n. 1-2, pp. 145-174, 295-324.59 Ibidem, p. 27.60 Cfr. B. Constant, De Godwin et de son ouvrage sur la justice politique (1817), in Idem, Mèlanges de letterature et de politique, Pichon et Didier, Paris 1829, pp. 211-224.

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governo popolare o da un governo costituzionale, poiché per evitare il dispotismo non basta

l’esistenza di leggi più o meno conosciute e votate dai parlamentari, ma occorre che esse non

possano essere fatte in modo da ledere le scelte che l’individuo compie per raggiungere la felicità

personale. Anche la divisione dei poteri è una misura insufficiente per ciò che concerne la garanzia

di cui ha bisogno l’individuo. Per questo egli accentuava al massimo, in polemica con Rousseau e

con l’interpretazione giacobina della volontà generale, l’esigenza di tutelare sul piano costituzionale

i diritti fondamentali dell’individuo, cioè la libertà personale, la libertà di stampa, la libertà religiosa

e infine l’inviolabilità della proprietà privata. Era stato addirittura il Ginevrino a ridurre le clausole

del Contratto sociale ad una sola, quella dell’alienazione completa di ogni associato alla comunità,

il che comportava per esempio rispetto ad Hobbes, per il quale almeno gli individui conservavano il

diritto alla vita, la cessione totale dei diritti al corpo politico. Ciò costituiva il più pericoloso degli

errori, perché comportava la giustificazione di ogni dispotismo attraverso la disponibilità da parte

del sovrano di un potere illimitato. Di fronte poi alle tesi di Rousseau che la rinuncia ai diritti era

uguale per tutti e nessuno aveva interesse a renderla onerosa per gli altri e che gli individui

riprendevano in quanto cittadini ciò che perdevano in quanto privati non potendo il sovrano che era

il corpo politico nuocere a sé o a qualcuno, Constant obiettava che le garanzie offerte dal sovrano

erano astratte perché nell’esercizio pratico del suo potere egli avrebbe dovuto delegarlo lasciandolo

nelle mani dei pochi che avranno più potere degli altri. Ciò negava nei fatti l’intenzione egualitaria

che ispirava la teoria roussoiana della democrazia diretta volta al superamento della distinzione di

governati e governanti. Rousseau aveva in mente come modello la polis dell’antichità in una

versione idealizzata di comunità organica e armonicamente coesa e invece avvertiva come laceranti

e negative le distinzioni moderne di società civile e Stato, diritto privato e diritto pubblico,

individuo e cittadino. La libertà collettiva di prendere parte direttamente all’esercizio della sovranità

si contrapponeva invece per Constant alla libertà dei moderni, che coincideva con le garanzie

giudiziarie e con i diritti individuali di libertà: libertà di coscienza, libertà economica, libertà di

associazione che lo Stato non può mai ostacolare.

L’individuo è per Constant talmente autonomo dal potere politico dello Stato che la unica

finalità di questo si riduce alla garanzia estesa ad ogni cittadino della sua libertà e dei suoi diritti,

non solo attraverso la separazione dei poteri, ma anche con l’attribuzione di competenze anche ai

poteri municipali. Il contenuto del concetto di sovranità è così reinterpretato da Constant in modo

tale da essere adeguato ai moderni sistemi rappresentativi, in cui essa, pur appartenendo al popolo,

viene esercitata dai suoi deputati. E’ per questo motivo che nel suo Corso di politica costituzionale

(1818-1820), che raccoglie i suoi saggi più importanti dal punto di vista politico, troviamo una

definizione negativa del più alto potere dello Stato. La sovranità infatti non vuol dire che il Re o il

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popolo possono legiferare a loro piacimento, ma che “nessuno individuo, nessuna fazione, nessuna

associazione particolare può arrogarsi la sovranità, se questa non le è delegata. Ma da ciò non deriva

che l’universalità dei cittadini, o coloro che sono investiti della sovranità possano disporre

sovranamente dell’esistenza degli individui”61. La mossa tipica del liberalismo constantiano è quella

di tracciare attorno all’individuo una sorta di cerchio magico, in cui né lo Stato né la legislazione

siano legittimati ad entrare, poiché sia alla monarchia sia al governo repubblicano si attribuisce una

finalità strumentale: “la libertà, l’ordine, la felicità dei popoli sono lo scopo delle associazioni

umane; le organizzazioni politiche sono solo degli strumenti”62. Per Constant il predominio della

volontà generale nei confronti di ogni volontà particolare non coincide in alcun modo con una

illimitata sovranità, perché essa trova due limiti insuperabili: l’assoluto rispetto degli inviolabili

diritti delle minoranze e la non interferenza con la sfera privata dei cittadini. Ogni governo che

infranga la regola della protezione dei diritti delle minoranze e dell’intangibilità della sfera

personale è automaticamente delegittimato, anche se ad operare tale illegittima interferenza è la

maggioranza. L’obiettivo polemico era chiaramente Rousseau, il quale aveva descritto le condizioni

di un patto di unione per la nascita dello Stato, in cui avviene l’alienazione totale di ciascun

associato, con ogni suo diritto, alla comunità. In essa la volontà generale s’identifica con la norma

oggettiva dell’interesse comune e per il sovrano, cioè il corpo sociale, non è possibile recar danno a

coloro che per farlo sorgere si sono associati. Ma per Constant l’errore fondamentale della

concezione democratica di Rousseau, legata all’assenza di una rappresentatività del potere sovrano,

risiede nel fatto che il detentore di esso, il popolo, non può applicare in prima persona il potere

acquisito. In pratica esso ne deve cedere l’esercizio ad una organizzazione di uomini delegati ad

agire in nome della volontà generale. Ciò smentisce il principio ideale secondo il quale il cittadino,

dandosi a tutti, rimane autonomo perché non si sottomette a nessuno; infatti egli si dà a coloro che

operano in nome di tutti: “dandosi interamente non si entra in una condizione eguale per tutti,

poiché alcuni traggono esclusivo profitto dal sacrificio degli altri (…). Non tutti guadagnano

l’equivalente di ciò che perdono, e il risultato di quel sacrificano è o può essere l’instaurazione di

una forza che toglie loro ciò che hanno”63. Anche i rappresentanti della volontà generale possono

diventare minacciosi per la sopravvivenza delle libertà civili e politiche se l’impiego del potere

coercitivo non venga limitato dalla suddivisione del potere e dal bilanciamento istituzionale. La

divisione dei poteri tuttavia risulta povera cosa per ciò che riguarda la garanzia di cui l’individuo ha

bisogno.

61 B. Constant, Cours de politique constitutionnelle, a cura di E.Laboulaye, Slatkine, Genève 1982, p. 68.62 Ibidem, II, p. 70.63 B. Constant, Principi di politica, a cura di U. Cerroni, Samonà e Savelli, Roma 1965, p. 69.

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Questa prospettiva emerge nel famoso Discorso sulla libertà degli antichi paragonata a

quella dei moderni, che egli aveva tenuto a Parigi nel 1819, in cui, parlando di due tipi di libertà,

affermava come la Rivoluzione francese avesse prodotto molti mali attraverso una confusione di

essi. Il mondo antico non conobbe la libertà civile, ma solo quella politica, cioè la partecipazione di

una ristretta categoria di cittadini alle pubbliche decisioni ricoprendo le relative cariche. Per questo

la democrazia antica prevedeva la partecipazione dell’individuo all’assemblea della città, tenendo

conto che egli era qualcosa soltanto all’interno della comunità. Gia nell’opera Dello spirito di

conquista e di usurpazione ci offre un’immagine della libertà degli antichi: “Nelle repubbliche dei

tempi antichi, l’esiguità del territorio faceva sì che ogni cittadino avesse politicamente una grande

importanza personale. L’esercizio dei diritti di cittadinanza costituiva l’occupazione e, diciamo così,

il diletto di tutti. Il popolo intero contribuiva alla formazione delle leggi, pronunciava le sentenze,

decideva della guerra e della pace. La parte che l’individuo prendeva alla sovranità nazionale non

era, come adesso, una supposizione astratta; (…) gli antichi, per conservare la propria importanza

politica e la parte che avevano nell’amministrazione dello Stato, erano disposti a rinunciare alla

propria indipendenza privata”64. Nel Discorso sulla libertà egli precisava che la democrazia antica

non distingueva la polis dallo Stato e la libertà consisteva nell’esercizio del potere in modo diretto e

senza la presenza di rappresentanti, a differenza di quella moderna: “Il fine degli antichi era la

divisione del potere sociale fra tutti i cittadini di una stessa patria: era questo che essi chiamavano

libertà. Il fine dei moderni è la sicurezza dei beni privati; ed essi chiamano libertà le garanzie

accordate dalle istituzioni a questi godimenti”65. L’uomo moderno allora vuole lo Stato solo

affinché veda da esso assicurate le condizioni attraverso le quali possa poi occuparsi del problema

della propria felicità, che nessuno può mascherare col nome di virtù, come fece Robespierre. Chi

scambia l’autonomia colla obbedienza alla legge fa coincidere la libertà con l’autorità del corpo

sociale, come avevano fatto Rousseau e Mably (compilatore secondo lui del manuale del perfetto

dispotismo), e si trova influenzato dalla visione antica che non riconosce la libertà civile e teme la

pluralità delle opinioni. La democrazia moderna si afferma sulla base del riconoscimento della

diversità e apprezza le differenze a partire da una analisi storica della Riforma protestante, che è

stata all’origine della critica dell’assolutismo, della libertà di pensiero, del dissenso e della

tolleranza. Essa è poi fondata sulla istituzione della rappresentanza, perché l’uomo moderno trova

gratificazione più nel godimento dell’indipendenza privata che nella partecipazione alle decisione

pubbliche. Quest’uomo è il borghese interessato ai suoi traffici e ai suoi guadagni al punto tale che

trascurarli è un sacrificio mai sufficientemente compensato: “la libertà individuale, ecco la vera

64 B. Constant, Dello spirito di conquista e di usurpazione, Milano 1961, p. II, cap. VI, pp. 96-97.65 B. Constant, Discorso sulla libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, in Id., Principi di politica, a cura di U. Cerroni, Editori Riuniti, Roma 1970, p. 227.

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libertà moderna. La libertà politica ne è la garanzia; la libertà politica è quindi indispensabile. Ma

chiedere ai popoli dei nostri giorni di sacrificare come quelli di altre epoche la totalità della loro

libertà individuale alla libertà politica è il mezzo più sicuro per distaccarli dall’una e quando vi si

sarà riusciti non si tarderà a strappar loro l’altra”66. La moderna democrazia è poi caratterizzata

dalla presenza di una pluralità di centri di potere che la differenziano totalmente dalla dimensione

monocratica della democrazia antica, tanto che il suo problema non risiede solo nel rivendicare il

potere dal basso, ma anche nel contestare la concentrazione del potere a favore della sua

distribuzione nelle parti periferiche di uno Stato. Ecco come Constant descrive la libertà dei

moderni: “Domandatevi anzitutto, signori: che cosa intendono, oggi, con la parola ‘libertà’, un

inglese, un francese, un abitante degli Stati Uniti? E’, per ognuno, il diritto di rispondere solo alle

leggi, di non essere né arrestato né detenuto Né messo a morte né maltrattato in alcun modo per

effetto della volontà arbitraria d’uno o di molti. E’, per ognuno, il diritto di esprimere la propria

opinione, di scegliere la propria attività produttiva e di esercitarla; di disporre della propria

proprietà e persino di abusarne; di andare e venire, senza bisogno di permessi e senza dover rendere

conto dei propri motivi o della modalità della propria condotta. E’, per ciascuno, il diritto di riunirsi

con altri sia per discutere i propri interessi, sia per professare il culto liberamente scelto insieme con

i propri associati, sia per passare la propria vita nel modo più conforme alle proprie inclinazioni o

alle proprie fantasie. Infine, è il diritto, per ciascuno, d’influire sull’amministrazione del governo,

sia nominando la totalità o parte dei funzionari, sia avanzando rimostranze, petizioni, domande che

l’autorità è più o meno obbligata a prendere in considerazione”67.

Un’attenta lettura dell’elenco delle libertà civili e politiche ci mostra un Constant dedito non

soltanto a difendere le libertà negative della modernità, ma volto anche positivamente a esaltare le

libertà politica, poiché ci può essere il pericolo che “assorbiti nel godimento della mostra

indipendenza privata (…) non rinunciamo troppo facilmente al nostro diritto di partecipare al potere

politico”68. Gli individui infatti hanno un mezzo per far valere la propria voce in contrapposizione a

quelli che detengono il potere pubblico: l’opinione pubblica. Col ragionamento si può allora sperare

di modificare l’altrui ragionamento e ciò può avvenire solamente colla stampa, che è l’unico mezzo

a disposizione della libertà civile, sia che esso si contrapponga ai facitori costituzionali della legge

sia a quelli non costituzionali. Per la concezione roussoiana della società, le leggi adottate dal corpo

sovrano sostituiscono totalmente le autodeterminazioni individuali, perché esistono soltanto libertà

collettive. Il corpo politico può allora occuparsi di tutto senza incontrare ostacoli, col rischio di

66 Ibidem, p. 234.67 B.Constant, De la liberté des anciens comparèe a celle des modernes, in Idem, Cours politique constitutionnelle, cit., II, p. 541.68 Ibidem, p. 558.

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asservire completamente gli individui in quanto singoli. Ma tale libertà appariva anacronistica a

Constant, per il quale la libertà consiste in un’ampia sfera d’indipendenza individuale con la libertà

politica. Quest’ultima è la garanzia dell’esercizio della prima, per cui gli uomini non debbono farsi

assorbire totalmente nel godimento della nostra indipendenza e non rinunciare al diritto a

partecipare al potere politico. Constant “ha compreso che libertà civili e libertà politiche,

indipendenza e partecipazione, devono essere combinate,” dice S. De Luca “in quanto la totale

politicizzazione dell’esistenza, così come la sua privatizzazione integrale, costituiscono pericoli

opposti ma simmetrici al mantenimento della libertà dell’uomo”69. Per questo chi pone il problema

della legittimità del potere negli esclusivi termini della sua titolarità (chi comanda?), trascurando la

questione della sua estensione, perde di vista il problema della garanzia fondamentale della libertà,

che consiste per Constant nella limitazione materiale del potere, garantito dallo spirito pubblico e

dalla libertà di stampa.

Ma egli si pose anche il problema delle limitazioni formali dell’esercizio del potere. Nelle

diverse fasi del suo tragitto filosofico-politico, che vide un periodo repubblicano sino al 1803 e poi

un altro monarchico-costituzionale nel 1814-15, non mutarono i principi della sua architettura

costituzionale finalizzati alla conciliazione della stabilità con la libertà. Egli vede il potere sovrano

diviso in cinque poteri. Dapprima abbiamo il potere neutro e preservatore, attribuito nella fase

repubblicana ad un organo apposito e nella fase monarchica al re, colla funzione di intervenire

quando l’organismo costituzionale si veda minacciato dal conflitto tra i poteri, svolgendo la

funzione di giudice supremo degli altri poteri che così possono essere sciolti (legislativo) o destituiti

(esecutivo). Molto importante è il potere legislativo, affidato ad assemblee forti, numerose e

indipendenti; nella fase monarchica esso viene scisso tra il potere durevole della Camera alta, in cui

vi è la presenza dei Pari, i quali hanno una carica ereditaria, che offre loro una condizione di

effettiva indipendenza dal potere reale e consente ad essi l’espressione di ordine e continuità, e una

Camera bassa, di tipo elettivo che esprime le istanze di evoluzione e mutamento della civiltà. C’è

poi il potere esecutivo, detto anche ministeriale, che è nominato ed eventualmente revocato dal re

ed esercita le funzioni di governo; per esso vige il principio della responsabilità e, insieme ai

ministri minori, può essere accusato per atti illegali pregiudizievoli all’interesse pubblico (in questo

caso da cittadini comuni vengono giudicati dai tribunali ordinari) e per attentati contro la libertà (la

sede del giudizio diventa la Camera dei Pari); il principio della responsabilità deve essere steso a

tutti i gradi della pubblica amministrazione che sono chiamati ad eseguire le disposizioni

dell’esecutivo non in modo cieco. Il potere giudiziario inoltre viene nella fase monarchica nominato

dal re ed è indipendente in quanto il magistrato è inamovibile; pene severe esistono però per quei 69 S. De Luca, Benjamin Constant teorico della modernità politica, “Bollettino telematico di filosofia politica”, WWW.philosophica.org/bft/, 25-10-2002, p. 7.

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giudici che si siano allontanati nell’esercizio delle loro funzioni dall’osservanza delle leggi; i

cittadini possono sempre opporsi in appello alle sentenze giudiziarie; esso si fonda sul sistema della

giuria, sui diritti dei condannati e il rispetto delle forme legali; il diritto di grazia rappresenta

l’ultima risorsa contro il carattere astratto delle leggi. Infine c’è il potere municipale, che consiste in

un’articolata rete di poteri locali, ai quali vengono riconosciute sfere di autonoma competenza,

alfine di scongiurare il pericolo della centralizzazione del potere e il relativo dispotismo.

15. Lo Stato di diritto secondo Kant

di P. Armellini

La prospettiva giuridico-politica di Kant rimane fondamentale per l’acquisizione dell’idea di uno

Stato di diritto nella modernità. Il diritto ha in lui la funzione di porre una relazione tra morale e

politica tenendo conto della distinzione tra l’uomo noumenico della libertà assoluta della morale e

l’uomo fenomenico della sensibilità che deve essere soggetta alle limitazioni. Il mondo della politica

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non può essere, come in Machiavelli, ridotto al mondo della forza e delle inclinazioni naturali, che

devono piuttosto essere vincolate al mondo della obbligazione politica. Questa rispetta lo scopo per

il quale lo Stato sorge, cioè la trasformazione della politica da amorale regno autonomo del potere

ad ambito inteso come regno del diritto che rispetta la destinazione morale dell’uomo. Il potere deve

con ciò essere sottomesso al diritto, che si riferisce alla libertà esteriore degli individui, per

permettere la convivenza tra persone giuridiche attraverso la limitazione della loro libertà. Il mondo

della legge che è prodotto dalla macchina legislativa dello Stato è un ordinamento coercitivo che

comanda soltanto esternamente al fine di proteggere una sfera di indipendenza personale concreta

degli individui. In questo senso si può dire che Kant appartiene al pensiero liberale, perché il mondo

egoistico della ricerca di onori, potenza e ricchezza, che non può essere ridotto esclusivamente a

quello della concorrenza economica70, pone il problema della coesistenza delle singole volontà

attraverso la determinazione e la limitazione degli arbitri nella sicurezza del diritto.

E’ l’istituzione di un universo di norme positive che secondo lui fa sviluppare tutte le facoltà

umane: “A subire questo stato di coazione l’uomo, a cui pure la libertà senza limiti sarebbe così

cara, è costretto dalla necessità, quella di sottrarsi ai mali che gli uomini si recano a vicenda. Le loro

tendenze fanno sì che essi non possono durare a lungo assieme in selvaggia libertà”. Fuori della

società civile quella libertà sarebbe distruttiva e pericolosa e può diventare invece un meccanismo

altamente creativo che disciplina gli impulsi senza annullarne il contrasto se viene all’interno della

società sottoposto a regole ben precise: “Solo nel chiuso recinto della società civile anche siffatti

impulsi danno il migliore effetto, così come gli alberi in un bosco, per ciò che ognuno cerca di

togliere aria e sole all’altro, si costringono reciprocamente a cercare l’una e l’altro al di sopra di sé e

perciò crescono belli e diritti, mentre gli alberi che in libertà e lontani tra loro mettono rami a

piacere, crescono storpi, storti e tortuosi. Ogni cultura e arte, ornamento dell’umanità, il migliore

ordinamento sociale sono frutti dell’insocievolezza, la quale si costringe da se stessa a disciplinarsi

e a svolgere interamente i germi della natura con arte forzata”71.

La sua dottrina del diritto e dello Stato viene delineata in pieno illuminismo. Kant scrive in

quadro politico in cui i prìncipi esercitano una minuziosa e pedantesca regolamentazione

amministrativa di tutti gli aspetti della vita privata dei cittadini. Nato nella Koenisberg della Prussia

orientale nel 1724, dove dapprima insegna come precettore privato e poi dal 1770 come professore

di Logica e Metafisica, pubblica abbastanza tardi le sue fondamentali opere: la Critica della ragion

70 Cfr. V. Mathieu, Kant, in L. Firpo (a cura di), Storia delle idee politiche, economiche e sociali, Utet, Torino 1975, pp. 745-781; G. Solari, La formazione storica e filosofica dello Stato moderno, Guida, Napoli 1985, pp. 105-128; G. Bedeschi, Kant: lo Stato di diritto, in Idem, Storia del pensiero liberale, Laterza, Roma-Bari 1990, pp. 93-120; P. Hassner, Immanuel Kant 1724-1704, in L. Strauss-J. Cropsey (a cura di), Storia della filosofia politica, vol. II, il melangolo,, Genova 1995, pp. 385-435.71 I. Kant, Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico (1784), in Id., Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, introduzione di G. Solari, Torino 1956, p. 128.

Page 146:  · Web viewRimane fermo però che il cristiano può disobbedire alle leggi contrarie a quella divina. La teoria costituzionale a forma di governo che consenta di far valere nei confronti

pura (1781), la Fondazione della metafisica dei costumi (1785), la Critica della ragion pratica

(1788) e la Critica del giudizio (1790). Pochi fatti turbano la sua tranquilla e regolare vita di

studioso e di professore universitario. Da Rousseau, che legge attentamente al pari di Hume,

apprende che il valore dell’uomo è indipendente dalla sua posizione sociale o dal suo livello

culturale. Al periodo di Federico II il Grande, che ha permesso un certa diffusione dei lumi, nel

1786 succede poi quello di Guglielmo II, con il cui ministro dell’educazione Kant entra in conflitto

perché i suoi censori gli impediscono la pubblicazione di un articolo. Egli aggira l’ostacolo dandolo

alle stampe in forma di libro grazie al privilegio che le università hanno di sottrarre alla censura i

libri dei professori: così l’università di Jena gli pubblica La religione entro i limiti della sola

ragione (1793). Un nuovo saggio intitolato Sopra il detto comune: questo può essere giusto in

teoria, ma non vale per la pratica (1793), in cui egli sostiene la libertà di pensiero e di stampa,

scatena su di lui l’ammonizione del governo a non trattare più argomenti di carattere religioso. Pur

difendendosi dall’accusa di aver sostenuto tesi contrarie alla religione, si attiene all’ingiunzione

governativa, perché per lui l’autorità pubblica per quanto ingiusta merita sempre di essere obbedita

in quanto espressione oggettiva del diritto. Kant muore poi nel 1704 riverito da tutta l’Europa più

colta. Ma questi episodi vanno compresi nel contesto storico culturale del suo tempo in cui ha

dominato in campo giuridico e politico la giustificazione ideologica dello Stato paternalistico, per la

quale il sovrano deve far sì che tutti i cittadini siano pii, moderati e capaci di controllare le passioni

ed anche siano soddisfatti e tranquilli nell’animo disponendo dei mezzi necessari alla vita. Lo Stato

cioè deve non solo perseguire fini di educazione morale e confessione religiosa, ma anche quelli di

una capacità imprenditrice che assicura i mezzi economici necessari alla vita. Kant invece ribadisce

che i molteplici fini dell’uomo spettano soltanto all’individuo, dovendosi limitare lo Stato a

garantire le condizioni formali per la libera esplicazione delle energie personali72.

Questo è il senso dell’insegnamento dell’illuminismo e del suo frutto politico che è la

Rivoluzione francese. E’ nota l’interpretazione di esso offerta nella Risposta alla domanda: Che

cos’è l’illuminismo? (1784), ove Kant ha scritto: “L’illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di

minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto

senza la guida di un altro. Imputabile a se stesso è questa minorità, se la causa di essa non dipende

da difetto d’intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e di coraggio di far uso del proprio

intelletto senza essere guidati da un altro. Saper aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria

intelligenza! E’ questo il motto dell’Illuminismo”73. La definizione che Kant offre non è diretta alle 72 Cfr. E. Cassirer, Vita e dottrina di Kant (1918) , a cura di M. Dal Prà, La Nuova Italia, Firenze 1977; A. Guerra, Introduzione a Kant, Laterza, Roma-Bari 1980.73 I. Kant, Risposta alla domanda: Che cos’è l’Illuminismo?, in Id., Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, cit., p. 141. Sul pensiero politico-giuridico di Kant cfr. G. Sasso, Introduzione a I. Kant, Antologia degli scritti politici, Il Mulino, Bologna 1961; P. Burg, Kant und die Franzoesische Revolution, Bunker&Humboldt, Berlin 1974; G. Vlachos, La pensée politique de Kant, Puf, Paris 1962; N. Bobbio, Diritto e Stato nel pensiero di Kant, Giappichelli,

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manifestazioni storiche del movimento, ma bada alla trasformazione dell’atteggiamento culturale

che l’illuminismo comporta nella coscienza degli individui. Divenire maggiorenni sul piano

razionale vuol dire imparare a pensare con la propria testa, per cui è l’autonomia intellettuale

dell’individuo il principio che può trasformare la società, nel momento stesso in cui i philosophes

francesi hanno creduto nella loro generalità che il miglioramento delle istituzioni possa produrre il

rischiaramento dei singoli. Per questo la libertà civile deve trovare il proprio perno nella libertà di

pensiero e di stampa, con cui l’educazione alla ragione può essere estesa a tutti i cittadini e forse

anche ai potenti che reggono le sorti del mondo: “Dunque la libertà della penna - tenuta nei limiti

del rispetto e dell’amore per la costituzione sotto la quale si vive dei sentimenti liberali che ispirano

i sudditi (le cui penne si limitano reciprocamente da sé per non perdere tale libertà) - è l’unico

palladio dei diritti del popolo”74. Con ciò sarebbe permessa al sovrano la conoscenza di ciò che

potrebbe modificare con il suo consenso la sua opinione, se viene cioè concesso al cittadino il

diritto di manifestare pubblicamente il proprio pensiero su quanto potrebbe arrecare ingiustizia alla

comunità, senza che però si possa resistere attivamente al sovrano. Alla lunga per lui la libertà del

pubblico colto finisce per incidere sullo spirito pubblico in modo da convincere chi governa a

scegliere ciò che è vantaggioso per l’uomo conformemente alla sua dignità.

Solo il genere umano può per Kant raggiungere pienamente la propria destinazione per il

fatto che il posto dell’uomo nell’universo non è predeterminato: il progresso del genere umano può

cioè raggiungere il proprio destino soltanto attraverso il progresso in una serie indefinita di

generazioni, che ha sempre davanti a sé il suo termine finale pur tra gli impedimenti. Nell’Idea di

una storia universale dal punto di vista cosmopolitico (1784), egli dice che l’uomo ha ricevuto

“disposizione dirette all’uso della ragione”, che attendono di essere esplicate in tutte le possibilità.

Infatti la tendenza naturale dell’uomo è quella di raggiungere la felicità o la perfezione attraverso

l’uso della ragione, cioè la libertà, che viene considerata perseguibile nella Critica della ragion

pratica del 1788 coll’imperativo categorico così espresso: “agisci soltanto secondo quella massima

che al tempo steso puoi far volere che divenga una legge universale”, ovvero “agisci in modo tale

da trattare l’umanità sia nella tua persona sia in quella di ogni altro sempre come fine e mai

semplicemente come mezzo”75. Rispetto alla domanda se il libero gioco delle azioni umane renda

possibile un piano determinato del corso storico che valga come scopo finale dello sviluppo di esso,

anche se non necessitante, Kant osserva che, posta la tendenza di ogni essere naturale a svilupparsi

in conformità al proprio scopo, quella umana di svilupparsi con la ragione presuppone una società

Torino 1969; P. Koslowski, Staat und Gesellschaft bei Kant, Mohr, Tubingen 1985; F. Gonnelli, La filosofia politica di Kant, Laterza, Roma-Bari 1995; L. Scuccimarra, Obbedienza resistenza ribellione. Kant e il problema dell’obbligo politico, Jouvance, Roma 1998; G. M. Chiodi-G. Marini-R. Gatti (a cura di), La filosofia politica di Kant, F. Angeli, Milano 2001.74 I. Kant, Sopra il detto comune…, cit., in Id., Scritti politici…, cit., p. 270.75 I.Kant, Critica della ragion pratica (1788), in Id., Scritti morali, a cura di P. Chiodi, Utet, Torino 1970, pp. 167 ss.

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politica universale in cui ognuno non trovi altro limite che la libertà degli altri. Il raggiungimento di

una società politica universale che comprenda sotto una medesima legislazione i diversi Stati in

modo da garantire lo sviluppo completo di tutte le capacità umane risulta essere il piano naturale

della storia. Attraverso il succedersi delle generazioni la specie realizza progressivamente la cultura,

utilizzando come strumento l’antagonismo sociale, che contrappone gli uomini e li induce a

sviluppare i loro talenti in una competizione vicendevole. Tale antagonismo è presente in tutti gli

uomini ed è definibile come compresenza della tendenza alla socievolezza (per poter avere i beni di

cui si ha bisogno) e di quella all’isolamento (per poter primeggiare sugli altri). Esso porta gli

individui all’attività e al lavoro, anche se gli uomini non se lo propongono. Credendo così di

perseguire i propri interessi soggettivi, essi realizzano a poco a poco il disegno di una forza storica

impersonale, la Natura-Provvidenza76. Per essere storicamente fecondo, tuttavia, l’antagonismo

deve svilupparsi nel contesto di istituzioni politiche che impediscano una sua degenerazione in vera

e propria guerra e lo rendano compatibile con il diritto, inteso, come dice precisamente nella

Metafisica dei costumi del 1797, come complesso di condizioni con cui il diritto dell’uno può

accordarsi con l’arbitrio dell’altro secondo una legge universale di libertà. Diritto e cultura

procedono allora di pari passo nel corso della storia. Nella recensione del 1795 allo scritto di Herder

Idee sulla filosofia della storia dell’umanità Kant non ritiene che la storia degli uomini si sviluppi

secondo un piano preordinato, come la vita delle api. Se il filo conduttore che può e deve orientare

gli uomini attraverso le vicende storiche è l’idea razionale di una comunità pacifica di tutti i popoli

della terra, Kant nega che nella storia si possa scoprire un ordine armonico e progressivo di

carattere necessitante. Un piano della storia umana non è una realtà, ma piuttosto un ideale

orientativo al quale gli uomini si debbono ispirare nelle loro azioni, che il filosofo può solo

illustrare nelle sue possibilità, mostrandole conformi al destino umano. Così egli si esprime al

riguardo: “Se genere umano significa totalità di una serie procedente all’infinito (all’indefinito) di

generazioni (e questo ne è infatti il senso abituale), e si assume che questa serie si avvicini

incessantemente alla linea della sua destinazione, che le corre a lato, allora non c’è nessuna

contraddizione nel sostenere che tale serie sia in ogni sua parte asintotica rispetto a questa sua linea,

e tuttavia nel suo insieme si unisca ad essa; in altre parole, che nessun membro di tutte le

generazioni della stirpe umana, ma solo il genere umano raggiunga pienamente la sua

destinazione”77.

L’opera della Rivoluzione ha convertito una teoria in atto di emancipazione umana,

provocando, al di là di esecrabili aspetti come il Terrore, un notevole entusiasmo in Kant, poiché

76 Sulle aporie in questa posizione kantiana che ripropone in chiave moderna il provvidenzialismo stoico di Seneca cfr. il denso e approfondito saggio di D. Falcioni, Natura e libertà in Kant Un’interpretazione del progetto Per la pace perpetua (1795), Torino 2000, che rivede molti luoghi della storiografia kantiana sull’argomento. 77 I. Kant, Recensione a Herder, Idee per una filosofia della storia dell’umanità, in Id., Scritti politici, cit., p. 174.

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con essa si schiude il regno della personalità che vince sulla natura, sull’egoismo e sulla tradizione

passiva, determinando la realizzazione della libertà come capacità del volere di determinarsi da sé

secondo la propria legge razionale. Nei Principi metafisici della Dottrina del diritto (1797), che è la

seconda parte della Metafisica dei costumi, Kant ha giustificato giuridicamente la Rivoluzione

francese sottolineando lo sbaglio di Luigi XVI il quale ha rimesso al popolo il suo potere sovrano di

fare le leggi. La sovranità, per sua essenza piena ed indivisibile, non può essere intesa come

capacità di una più equa distribuzione dei beni. Quindi la Rivoluzione francese viene da lui

accettata favorevolmente non per la sua legittimità, quanto per ragioni morali ed ideali che in essa

trionfano, senza ritenerla la realizzazione del diritto e dello Stato. Nella Rivoluzione egli ha visto

infatti la manifestazione delle spontanee forze naturali che agiscono nella storia, al di fuori di ogni

umano progetto, per far trionfare il vero e il giusto.

Sulla libertà Kant ha modellato la sua idea di organizzazione statale, così come viene

formulandola nella Metafisica dei costumi (1797). Ora, la sfera della morale è distinta da quella del

diritto, perché alla prima l’uomo partecipa come soggetto autonomo razionale e libero mentre al

secondo come sensibilità e oggetto passivo di una legge eteronoma. Come appartenente al mondo

intelligibile l’uomo compie il dovere per se stesso ma come appartenente al mondo sensibile egli

obbedisce alla legge per costrizione. Il diritto dunque prescinde dall’intenzione che è invece

essenziale alla morale. La sua filosofia pratica propone così una distinzione essenziale fra legalità,

che è intesa come dovere in osservanza alla legge senza riguardo ai suoi motivi, e la moralità che è

il dovere compiuto per se stesso perché è l’unico motivo dell’azione. Sulla legalità Kant fonda la

sua dottrina dello Stato. Egli si oppone infatti allo Stato etico d’impronta paternalistica che si

preoccupa della felicità dei propri sudditi e si fonda sulla benevolenza del sovrano verso il popolo.

Allo Stato invece appartiene la sfera della legalità, cioè delle azioni compiute nella conformità

esteriore alle leggi, e non quella della moralità, che si chiude nella coscienza dell’individuo ove

nessuna autorità può creare o giudicare l’interna moralità degli atti umani. La creazione dello Stato

si riduce al problema di trovare un ordinamento giuridico ben congegnato che permetta di

disciplinare esteriormente gli istituti e le passioni senza tentare di trasformare interiormente gli

uomini. Tale problema è risolvibile anche per uno “Stato di diavoli”. Come organizzazione

schiettamente giuridica che tutela la possibilità di un’ordinata coesistenza degli individui, lo Stato

impersona appunto quella legge giuridica universale intesa “come l’insieme delle condizioni per

mezzo delle quali l’arbitrio dell’uno può accordarsi con l’arbitrio di un altro secondo una legge

universale di libertà”78. Le singole individualità che coesistono mediante il diritto dello Stato però

non sono creature sue. Il pensiero di Kant si muove nell’orizzonte del giusnaturalismo quando

78 I. Kant., Principi metafisici…, in Id., Scritti politici, cit., p. 449.

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afferma che gli individui hanno una ragion d’essere autonoma e la loro pretesa ad esistere forma

l’originario diritto che compete a ciascuno per il solo fatto che è uomo. Egli supera però l’orizzonte

lockeano perché non astrae dalle superiori esigenze etiche dell’individuo il quale è da non

abbandonare alla libera azione delle forze naturali; infatti Kant vuole subordinare sia l’etica che la

natura a quella legge del limite che concepisce la libertà non al di fuori dei rapporti coesistenziali

regolati dal diritto. Nel dominio etico l’individuo attua in sé la libertà, che è disassoggettamento

dalla sensibilità; nel dominio economico l’individuo la attua negativamente riconoscendo gli

ostacoli che si frappongono alla soddisfazione dei suoi bisogni; nel dominio giuridico egli attua la

propria libertà limitandosi in relazione agli altri. Proprio nel mondo giuridico si rafforza così il

principio che l’individuo è sempre fine e non mai mezzo, a cui lo Stato deve garantire le condizioni

esterne per la sua interna libertà. Sottomettersi a una costrizione esterna legale per uscire dalla

condizione naturale senza ostacoli e unirsi agli altri significa vivere in uno Stato di diritto, in cui il

suum sia legalmente determinato con l’assegnazione di esso da parte di un superiore potere esterno.

L’autonomia dello Stato è esterna perché non riguarda quella del volere, ma quella della sensibilità

e per essa ognuno obbedisce a leggi che si è dato.

Garantire le condizioni del diritto è compito dei governi, a cui è però precluso il compito di

dispensare benevolmente la felicità al popolo, poiché un tale governo sottrarrebbe ai cittadini il

diritto di determinare da sé la felicità, di distinguere “da adulti” ciò che è utile da ciò che è dannoso.

Così facendo esso infatti rischierebbe di trattare i sudditi come minorenni bisognosi che altri

decidano per loro: il paternalismo è “il peggior dispotismo che si possa immaginare”. Meno che mai

è compito dello Stato rendere l’uomo forzatamente buono. Ciò è, oltreché impossibile, un progetto

assolutamente condannabile, perché attenta alla libertà e così nega la ragione stessa per cui si

costituiscono la società civile e le sue leggi, che è quella di consentire agli uomini di vivere liberi.

L’avversione kantiana per ogni forma di dispotismo, sia del principe sia del popolo, è legata al fatto

che dal predominio del singolo o della collettività di massa non può scaturire un’oggettiva norma

impersonale ed universale. La validità oggettiva del diritto e dello Stato è data dal fatto che sono

concetti trascendentali costruiti a priori. Il dispotismo etico dello Stato vuole invece attuare la

felicità individuale o la morale collettiva con mezzi coattivi che sottraggono alla personalità

naturale e morale gli interessi riguardanti l’individuo. Lo Stato può soltanto limitare tali interessi e

valori regolandoli nei loro effetti esterni socio-politici, senza però potersi sostituire all’individuo. In

ciò consiste il liberalismo kantiano, che, come ha notato Solari, non è quello di Locke perché questo

è troppo prossimo ad una concezione liberista la quale lascia i rapporti esterni abbandonati al libero

gioco delle forze naturali. Kant, che ha una certa ammirazione per l’entusiasmo etico di Rousseau,

considera però il diritto la sintesi fra la natura e l’etica nella esigenza di rendere coesistenti le libertà

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esterne. La legislazione lascia infatti sopravvivere interamente la libertà naturale e la libertà etica,

limitandosi a regolarle con una norma di ragione che esprime l’esigenza della vita di relazione.

Ma Kant si sforza di elevare lo Stato a organo di voleri sopraindividuali, cioè a cosa in sé,

perché è una persona morale. Lo Stato non è un mero aggregato di voleri singolari, ma è un tutto

unitario capace di un volere generale. Se in Rousseau esso presuppone il patto di costituzione della

società per organizzare la vita collettiva che si personifica nel popolo e nella legge della nazione,

Kant distingue nettamente fra società nata da patto di costituzione sociale (pactum sociale) e Stato

nato dal patto di costituzione civile (pactum unionis civilis). L’unione politica ha la particolarità di

essere fine in sé, un fine che cioè ognuno deve avere non solo per ragioni di giustizia distributiva e

di giurisdizione, bensì perché lo Stato è una realtà avente un valore assoluto, non scaturito

dall’arbitrio soggettivo degli individui. Alla base della società civile sta un contratto, che Kant

concepisce non come un fatto storico ed empiricamente documentabile, ma come un principio

pratico della ragione: “la prima cosa che si è obbligati ad ammettere, se non si vuole rinunciare ad

ogni concetto di diritto, è la proposizione fondamentale: l’uomo deve uscire dallo stato di natura,

nel quale ognuno segue i capricci della propria fantasia, e unirsi con tutti gli altri (coi i quali egli

non può evitare di trovarsi in relazione reciproca) sottomettendosi a una costrizione esterna

pubblicamente legale (…); vale a dire che ognuno deve, prima di ogni altra cosa, entrare in uno

stato civile”79. Ciò significa che il patto non sorge per superare uno stato di natura ferino. Infatti il

patto fra i cittadini per la costituzione di una comunità politica viene stipulato non perché è utile ad

essi, ma perché è doveroso: “il concetto di un diritto esterno in generale deriva interamente da

concetto della libertà nei rapporti esterni fra gli uomini e non ha nulla a che fare con il fine che tutti

gli uomini hanno naturalmente (la ricerca della felicità)”. Dall’idea della libertà consegue

necessariamente l’idea del patto, il quale pertanto è necessario anche quando si concepisce lo stato

di natura come condizione di felicità, alla maniera di Rousseau. Col contratto sociale gli uomini si

privano della loro libertà esteriore a favore della comunità, per riprenderla di nuovo convertita in

libertà civile, cioè nella loro qualità di membri di un organismo politico: “Questo contratto è una

semplice idea della ragione, ma che ha indubbiamente la sua realtà (pratica): cioè la sua realtà

consiste nell’obbligare ogni legislatore a far leggi come se esse dovessero derivare dalla volontà

comune di tutto un popolo, come se egli avesse dato il suo consenso a una tale volontà”80. Il

contratto non è un fatto storico ma un principio ideale sulla cui base deve essere misurata la

legittimità dello Stato, che è razionale se in esso il legislatore deve fare leggi come se esse

derivassero dalla volontà popolare, anche se rimane suo insindacabile giudizio la valutazione della

conformità delle leggi a quella volontà. Così l’uomo non sacrifica per Kant parte di sé a un fine che

79 I. Kant, Principi metafisici…, in Id., Scritti politici, cit., p. 498.80 I.Fant, Sopra il detto comune…, in Id., Scritti politici, cit., p. 262.

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lo trascende, ma egli, rinunziando alla sua libertà selvaggia, ritrova tutta la sua libertà nella

dipendenza legale, cioè nello stato giuridico: “L’atto, col quale il popolo stesso si costituisce in uno

Stato, o piuttosto la semplice idea di questo atto, che sola permette di concepirne la legittimità, è il

contratto originario, secondo il quale tutti (omnes et singuli), nel popolo, depongono la loro libertà

esterna, per riprenderla di nuovo subito come membri di un corpo comune, vale a dire come membri

del popolo in quanto è uno Stato (universi). Non si può quindi dire che l’uomo nello Stato abbia

sacrificato ad un certo scopo una parte della sua libertà esterna innata in lui, bensì che egli ha

completamente abbandonata la libertà selvaggia e sfrenata per ritrovare nuovamente la sua libertà in

generale non diminuita, in una dipendenza legale, vale a dire in uno stato giuridico, perché questa

dipendenza scaturisce dalla sua propria volontà legislatrice”81.

L’unione politica ha la particolarità di essere un fine in sé che ognuno deve avere non

soltanto per ragioni di giustizia distributiva e di giurisdizione, bensì perché lo Stato è una realtà

avente un valore assoluto non scaturente dagli arbitri soggettivi. Lo scopo di Kant è pervenire ad

una giustificazione (deduzione) dello Stato come persona morale e legislatore supremo, che non

avviene se la sua razionalità risulta strumentale alla sola difesa dei diritti individuali; infatti la

deduzione dello Stato dal diritto è condizionata da una concezione del patto come risoluzione della

pluralità dei voleri in un unico volere generale. Per esso non basta l’unità distributiva ma quella

collettiva dei voleri uniti. Il patto che esprime la esigenza razionale del volere della totalità

collettiva è un principio non solo formale ma anche costitutivo dello Stato. Il popolo è sovrano

perché è espressione dell’unità razionale degli individui, la quale comanda alla moltitudine che

obbedisce. Così lo Stato può possedere quella autonomia propria degli esseri razionali. Nella

Critica del giudizio egli attribuisce allo Stato il significato di forte organizzazione inteso come

potere organico, assoluto e unitario, applicando ad esso l’idea di organismo, che, come un tutto,

prevede che ogni membro sia considerato non solo un suo mezzo ma anche suo scopo: “Trattandosi

dell’impresa di una totale trasformazione di un grande popolo in uno Stato, si è adoperata spesso e

molto opportunamente la parola organizzazione per designare (…) tutto il corpo dello stato. Perché

in un tutto come questo ogni membro deve essere non soltanto mezzo, ma anche scopo; e, mentre

concorre alla possibilità del tutto, è determinato a sua volta dall’idea del tutto, relativamente al suo

posto e alla sua funzione”82. Pur lottando contro lo Stato assoluto Kant non intende scuotere il

principio di autorità e di sovranità, perché vede nel liberalismo economico il costante pericolo di

volgersi in anarchia e in un regime di rivoluzione. La sovranità come già per Rousseau rimane una,

inalienabile e indivisibile, ma diversamente da questi trova un limite nella natura del diritto, che

81 I. Kant, Principi metafisici…, in Id., Scritti politici, cit., p. 502.82 I. Kant, Critica del giudizio, Laterza, Bari 1982, p. 243, nota.

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svolge la funzione di regolare i rapporti esterni non perché è solo strumento di fini soggettivi etici

ed eudemonologici.

I principi fondamentali del diritto sono: 1) la libertà di ogni membro della società, che

coincide con la libertà di determinare e cercare la felicità nel modo che ciascuno uomo ritiene più

consono, purché non risulti lesivo del diritto altrui di perseguire il medesimo obiettivo; 2)

l’uguaglianza, in quanto sudditi, di fronte alla legge, derivando da ciò che ognuno può accedere alla

posizione sociale che è in grado di raggiungere con le proprie capacità, la laboriosità e la fortuna; 3)

l’indipendenza in quanto cittadino, in virtù della quale ognuno partecipa, nelle forme adeguate alle

proprie condizioni, al potere legislativo. Lo Stato deve prima di tutto impedire l’asservimento

dell’uomo da parte di altri per divenire strumento di fini non suoi. Ciò non impedisce a Kant di

riconoscere la possibilità di obbligarsi nei confronti di altri, sempre che tale obbligazione sia libera.

Lo Stato giuridico deve poi garantire ad ogni individuo come suddito l’uguaglianza di fronte alla

legge, senza implicare ciò l’uguaglianza politica né l’uguaglianza sociale ed economica, poiché lo

Stato non può impedire né disconoscere disuguaglianze di fatto non ereditarie basate sul frutto

dell’individualità che liberamente si esplica, cioè sul talento e l’operosità. Per questo egli dice che

in diritto gli uomini sono uguali. Sulla indipendenza del cittadino infine si basa l’uguaglianza

politica, che rende possibile la partecipazione al potere legislativo. L’indipendenza per Kant deve

essere non solo naturale ma anche economica. Lo Stato deve offrire a ogni individuo in quanto

cittadino l’opportunità di godere della propria indipendenza economica su cui si fonda la sua

uguaglianza politica. La proprietà ha la funzione così di assicurare all’individuo un ampio orizzonte

di libertà che però sia compatibile con quella degli altri. La proprietà non è né una creazione dello

Stato (Hobbes) né un frutto risultante dal lavoro (Locke), ma si fonda sul possesso e preesiste allo

Stato, essendo all’inizio un rapporto naturale e fisico con le cose. Essa però nello stato di natura ha

un carattere puramente provvisorio in quanto può essere preda della violenza altrui. Solo lo

strumento delle leggi civili permette che l’acquisizione della proprietà passi da provvisoria a

perentoria e stabile, nascendo lo Stato per tutelarla. I diritti dell’uomo sono sì originari, ma è

necessario l’atto del volere per far sorgere il rapporto giuridico: in questo caso, tenendo conto

dell’originario diritto al suolo dell’intera comunità umana, il mio e il tuo può essere stabilito

attraverso obbligazioni reciproche fra volontà personali, attraverso appunto norme che costringono

al reciproco rispetto: “Infatti la costituzione civile non è altro che uno stato giuridico in cui il suo

viene ad ognuno soltanto assicurato, ma non propriamente stabilito e determinato. Ogni garanzia

presuppone dunque che uno abbia già qualcosa come suo (visto che esso glielo assicura). Di

conseguenza bisogna ammettere che anteriormente alla costituzione civile (o astraendo da essa)

siano possibili un mio e un tuo esterni e nel contempo un diritto di costringere tutti quelli, con i

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quali in qualsiasi modo possiamo entrare in rapporto, di entrare con noi in uno stato costituito nel

quale questo mio e tuo possano essere garantiti”83. Se lo Stato nasce per difendere la proprietà, solo

al proprietario però compete la posizione di cittadino che partecipa alla sovranità. Il diritto di

emanare le leggi cioè non appartiene a tutti in quanto liberi e uguali, ma solo a chi è indipendente,

perché questi è effettivamente padrone di sé (sui juris) disponendo di un reddito. Questo è un limite

storico di Kant, il quale pur considerando la volontà collettiva del popolo la fonte giuridica

illimitata della legislazione suprema, considera cittadini con diritti politici attivi soltanto le persone

che possiedono i mezzi per ricavare un reddito e i mezzi per vivere: i minori, le donne e i semplici

lavoratori non proprietari e non indipendenti non vengono da lui ammessi al voto: “Emerge così il

rigido limite classistico della distinzione kantiana, che esclude dai diritti politici i lavoratori

salariati, mentre li conferisce a fabbricanti, artigiani, fittavoli, commercianti, insegnanti, artisti,

ecc.”84.

La struttura dello Stato può assumere la forma di dominio monarchico (uno), aristocratico

(alcuni) e democratico (tutti), ma la vera distinzione per Kant riguarda invece le forme di governo,

che possono essere o repubblicana o dispotica. Lo Stato potrà realizzare pienamente il diritto

soltanto quando assumerà la forma di governo repubblicana, in cui il sovrano esercita il potere in

esclusivo ossequio della legge, ovvero in piena conformità con la volontà popolare da cui la legge

deve emanare. In sintonia con il pensiero di Montesquieu, Kant ritiene che i fondamentali diritti

della persona (libertà, espressione, critica, associazione, religione) possano essere garantiti mediante

la divisione dei poteri. Kant ritiene però che tale teoria debba essere meglio conciliata con la tesi

della unitaria sovranità dello Stato. Per questo egli chiama i tre poteri dignità politiche, che

significano delle funzioni dello Stato idealmente concepito, affermando al contempo con Rousseau

che la sovranità risiede principalmente nel potere legislativo il quale viene ad esprimere la

collettività come popolo. I tre poteri non sono in un puro rapporto meccanico di equilibrio, ma sono

intesi come rapporto inscindibile e gerarchico tra tre proposizioni di un sillogismo, di cui la

maggiore pone la norma (potere legislativo), a cui, attraverso la mediazione della minore (potere

esecutivo), deve ricondursi la sentenza del giudice che è la necessaria conclusione del

ragionamento. Il potere legislativo deve essere organizzato per esprimere non empiricamente la

sovranità del popolo come unità morale dello Stato, che viene definito una riunione di un certo

numero di uomini sotto leggi giuridiche. La legge è ingiusta se esprime soltanto la volontà di uno,

di pochi o di molti, ma se essa procede dalla volontà unitaria in cui ognuno entra come membro di

un regno dei fini razionali, allora è giusta. Il potere esecutivo si rende concreto nella persona del

reggitore che gestisce gli affari statali operando attraverso particolari decreti od ordinanze e non per

83 I. Kant, Principi metafisici…, in Id., Scritti politici, cit., p. 437.84 G. Bedeschi, Storia del pensiero liberale, cit., p. 105.

Page 155:  · Web viewRimane fermo però che il cristiano può disobbedire alle leggi contrarie a quella divina. La teoria costituzionale a forma di governo che consenta di far valere nei confronti

leggi di universale valore. Il reggitore risponde dei suoi atti verso il potere legislativo che può

sempre sostituirlo e deporlo. Il potere giudiziario non può spettare al sovrano né al reggitore, perché

se essi commettessero ingiustizia non si potrebbe ripararvi. Solo un giudice eletto dal popolo può

giudicare i cittadini. In virtù dei tre poteri lo Stato si costituisce in forma autonoma, consistendo la

sua salute nell’unità delle leggi con la libertà e non nella prosperità e nella felicità dello Stato stesso.

La salute pubblica consiste nella costituzione che ad ognuno assicura la facoltà di cercare la propria

felicità per la via che gli sembri migliore. Ma l’unità dei poteri non esclude la diversità delle

funzioni e la necessità di tenerle insieme separate. A ciascuna funzione corrisponde un’idea (legge,

potere e libertà), dal cui concorso e dalla cui organizzazione risulta lo Stato e la costituzione ideale.

Se un potere forte non sostiene sia la legge che la libertà è inevitabile il ritorno all’anarchia. Inoltre

se il potere rimane da solo o collegato alla sola legge senza libertà, esso degenera in dispotismo. La

costituzione ideale è quella che in cui il potere si associa e alla legge e alla libertà e in cui la

funzione legislativa e quella esecutiva sono separate85.

Inoltre un connotato politico della costituzione repubblicana risulta essere il suo carattere

rappresentativo. Repubblicana è da Kant designata una costituzione contrapposta non alla

monarchia, ma al dispotismo inteso come assenza di legalità, che deriva dalla esecuzione arbitraria

delle leggi e dall’uso da parte del governante della volontà pubblica come sua volontà privata. Una

forma di governo che non sia rappresentativa e non conosce la separazione dei poteri non può essere

repubblicana. Se per Rousseau il sistema rappresentativo è incompatibile con lo Stato repubblicano,

per Kant ne costituisce l’essenza. Nel primo il principio della rappresentanza politica relativamente

al potere legislativo costituisce la sua contraddizione perché ne nega l’essenza che è la volontà

generale (mentre relativamente al potere esecutivo si può pensare alla rappresentanza perché è una

forza che applica la legge e ciò non appartiene alla generalità). Nel secondo lo Stato ideale non può

non essere rappresentativo perché questo esclude il dispotismo assoluto che risulta dalla identità tra

legislativo ed esecutivo. Per questo la democrazia, vista nella Pace perpetua come massa confusa,

disordinata e irrazionale, viene considerata dispotica per il fatto che ognuno vuole essere signore,

rendendo ciò impossibile il sistema della rappresentanza, e per il fatto che l’attenzione è distolta

dalle cose generali e rivolta invece alle cose particolari. Poi però nella Metafisica dei costumi la

democrazia viene avvicinata ad una forma di governo repubblicana perché viene ritenuta

compatibile col sistema rappresentativo e non più vista come esercizio diretto della sovranità da

parte dei cittadini, cosa questa che pone invece una identità tra reggitore e legislatore dotata di una

volontà sovrana che intende valere immediatamente. La repubblica, sia essa storicamente una

monarchia una aristocrazia o una democrazia, è nello stesso tempo un sogno e un imperativo da

85 Cfr. I. Kant, Principi metafisici…, §§ 43-52, in Id., Scritti politici, cit., pp. 497-533.

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realizzare. Nell’individualismo di Kant è presente l’ideale del diritto inteso come legalità, da

considerare non solo come freno al dispotismo paternalistico ma anche come correttivo della

rivoluzione, negando egli il diritto di resistenza che i rivoluzionari hanno preteso di inserire nella

Dichiarazione dei diritti dell’uomo. Infatti ammettere la rivolta significa sanzionarla con una legge,

con cui però paradossalmente il sovrano dovrebbe essere vincolato da una disposizione in virtù

della quale egli non sarebbe più tale e gli uomini tornerebbero alla libertà selvaggia della natura.

Ciò è apertamente assurdo per Kant, che rivendica il solo diritto di penna con cui i filosofi possono

mostrare le loro osservazioni critiche attraverso l’uso pubblico della ragione, auspicandosi con essa

un’azione di riforma da parte del sovrano: “Intendo per uso pubblico della propria ragione” precisa

Kant nella Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo? “l’uso che uno ne fa come studioso

davanti all’intero pubblico dei lettori. Chiamo invece uso privato della ragione quello che alcuno

può farne in un certo impiego o funzione civile a lui affidata”; se nel primo caso gli studiosi devono

godere della massima libertà, nel secondo devono ispirare però la propria condotta alla volontà del

governo perché “qui senza dubbio non è permesso ragionare, ma si deve ubbidire”86. Questa cautela

è un chiaro limite storico di Kant.

Una piena realizzazione del diritto comporta tuttavia una sua estensione dall’ambito statuale

a quello internazionale. Lo scritto kantiano più suggestivo e attuale rimane La pace perpetua87. La

meta e la misura del progresso consiste nella creazione di una società razionale, perché esso è

l’approssimazione della società esistente nella esperienza (respublica phaenomenon) alla comunità

ideale quale può essere stretta da esseri razionali puri (respublica noumenon). Tale è una comunità

cosmopolitica che sia cioè capace di abbracciare tutti i popoli nelle loro reciproche relazioni.

L’istanza di entrare in uno Stato regolato dal diritto non concerne solo i rapporti interni, ma anche

quelli esterni della comunità, che sul piano internazionale si trova rispetto alle altre in condizione di

illimitata libertà. I rapporti tra gli Stati non sono necessariamente pacifici. Se la guerra ha avuto

storicamente la funzione di disperdere ovunque il genere umano e di rendere abitato tutto il pianeta,

giocando così un ruolo progressivo, oggi è diventata un grande oltraggio e un mezzo barbarico che

distrugge e danneggia la cultura. La guerra è l’eterna nemica della pace, che non può essere

concepita solo come una tregua fra le guerre ma come la situazione in cui la ragione umana è

destinata a realizzarsi, attuando una idea di progresso che è anzitutto morale. Finora la razionalità

politica si è manifestata in una sovranità solo unilateralmente legittima, perché tendente ad

escludere i cittadini di altri Stati, nei cui confronti si è sempre pronti a far valere i propri valori ed 86 I. Kant, Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo?, in Id., Scritti politici, cit.,p. 143.87 Cfr. J. Habermas, L’idea kantiana della pace, due secoli dopo, in Id., L’inclusione dell’altro. Studi di teoria politica, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 177-215; G. Marini, Tre studi sul cosmopolitismo kantiano, Pisa-Roma 1998; D. Falcioni, Natura e libertà in Kant, cit.; L. Tundo, Kant. Utopia e senso della storia. Progresso cosmopoli, pace, Dedalo, Bari 2000; A. Taraborelli, Cosmopolitismo. Saggio su Kant, Asterios, Trieste 2004; P. Armellini, Elementi di storia del pensiero politico federalista, in Id. (a cura di), Introduzione al pensiero federalista, Aracne, Roma 2005, pp. 48-61.

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interessi. Ma la situazione di reciproca conflittualità fra gli Stati è immorale ed irrazionale e chiede

una giustizia che possa valere su ogni parte della terra. Per il diritto internazionale non può valere

più lo jus ad bellum, ma deve valere il principio della volontaria sottomissione degli Stati ad un

imperativo della ragione che così comanda: “La ragione moralmente pratica pronuncia in noi il suo

veto irrevocabile: ‘Non ci deve essere nessuna guerra, né tra te e me nello stato di natura, né tra noi,

come Stati’”. Non ha senso per Kant chiedersi se la pace sia possibile, perché non è la conclusione

provvisoria di un conflitto ma è un compito che la ragione assegna all’uomo. Occorre agire così

come se essa fosse possibile in quanto questo è nostro dovere. La pace non va intesa non come

tregua fra due guerre e come la semplice conclusione di un conflitto armato, ma come il suo esatto

contrario cioè la fine di ogni guerra. Devono così sparire gli eserciti permanenti e si deve rispettare

il principio della buona fede nei trattati. La parte centrale è dedicata a “tre articoli definitivi”,

proposti come fondamentali della futura comunità internazionale. In essi Kant elenca le condizioni

positive della pace perpetua: 1) “la costituzione civile di ogni stato deve essere repubblicana”; 2) “il

diritto internazionale deve essere fondato su un federalismo di Stati liberi”; 3) “il diritto

cosmopolitico deve essere limitato alle condizioni dell’universale ospitalità”88. Il primo pretende

che gli Stati siano razionali, cioè di diritto, non dovendo essere i suoi cittadini sottomessi

all’arbitrio del dispotismo e dovendo essi essere informati e partecipi dell’attività politica. Il

secondo articolo costituisce il vero elemento fondativo della realtà federale futura, esprimendo la

rinuncia da parte degli Stati a farsi guerra fra loro e la volontà a entrare in una libera federazione

delle comunità. Kant la concepisce come una tappa intermedia verso la meta finale della lega tra i

popoli, che presuppone l’abbandono della dimensione statuale, dato che uno Stato di popoli vede

sul piano mondiale la realizzazione del più orribile dispotismo che annulla la libertà dei popoli.

Kant sa che la federazione implica l’alienazione di una parte di sovranità dei singoli Stati membri

verso lo Stato federale e la confederazione non pone tale condizione. Egli sa anche che la

confederazione è un surrogato negativo della corretta soluzione ai fini della pace perpetua, la civitas

gentium della federazione dei popoli, però mostra la riserva che essa possa trasformarsi nel

dispotismo di una monarchia universale, che non sa rispettare la storia e la diversità culturale dei

popoli e delle civiltà.

88 I. Kant, Per la pace perpetua, in Id., Scritti politici, cit., pp. 292, 297, 301.

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16. Tocqueville: la democrazia fra libertà e

conformismo di massadi P. Armellini

Nel momento in cui le dottrine liberali dell’Ottocento rifiutano l’allargamento delle libertà politiche

al popolo intero, si affaccia in tutta Europa una nuova sensibilità sia in ambito cattolico sia in

ambito socialista in cui si abbandonano le tendenze classiche e conservatrici delle formule

monarchico – costituzionali e si avanzano richieste di ampliamento della base del potere in senso

democratico. Rispetto ad u vasto dibattito in cui si vedono contrapposti in Europa libertà e

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democrazia si impone la solitaria riflessione di Alexis de Tocqueville (1805 – 1859), che vive

intensamente gli eventi che accompagnano il passaggio dalla monarchia legittimista a quella

orleanista e il suo progressivo disfacimento. La principale opera politica di T. è “La democrazia in

America” (1835 - 40), in cui per primo coglie le minacce e i pericoli alle libertà che operano in seno

alla società democratica moderna, con le sue tendenze alla uniformità, alla massificazione

egualitaria e all’accentramento burocratico. Anche la sua vita è contrassegnata da una inquietudine

di fondo che gli ha permesso di scandagliare nelle pieghe del discorso democratico moderno al fine

di comprenderne vantaggi e svantaggi. Discendente da nobile famiglia normanna, nacque a Parigi e

dopo aver studiato diritto, dopo un lungo viaggio in Italia venne nominato nel 1827 giudice molitore

a Versaille, dove strinse amicizia con il collega G. De Beaumont. Insieme seguirono le lezioni di

Guizot e Cousin. Dopo la rivoluzione del 1830, essendo ritenuto un aristocratico favorevole ai

Borboni, ottenne un congedo per studiare il sistema penitenziario nord-americano. Rientrò in

Francia nel 1832 e si dimise da magistrato per poter scrivere “La democrazia in America” la cui

prima parte fu pubblicata nel 1835, che ebbe un notevole successo. Usciva nel 1840 la seconda

parte dell’opera. Eletto deputato per il congresso di Valognes nella Mauche, fece parte

dell’opposizione costituzionale. Cadutala monarchia di Luigi Filippo e proclamata la Repubblica, fu

eletto deputato nell’Assemblea costituente 8aprile 1848) ed entrò a far parte della commissione per

preparare la nuova costituzione. Fu ministro degli esteri nel 1849 nel gabinetto di O.Barrot,

occupandosi della questione italica. Dopo l’avvento di Luigi Napoleone si pose contro la rielezione

del Presidente della Repubblica, e, dopo il colpo di Stato del 2 dicembre 1851, venne arrestato.

Dopo la scarcerazione si ritirò a Tours per studiare e nel 1856 pubblicò “L’Antico regime e la

Rivoluzione”, primo volume di un’opera sulla Rivoluzione Francese. Morì a Cannes il 16 aprile

1859. Nel 1852 erano già ultimati i “Ricordi”. Quando nel 1830 ci fu la rivoluzione di luglio, pensò

al viaggio in America sia per allontanarsi dalla situazione politica che non approvava sia dal nuovo

regime che non lo soddisfaceva. Dietro la monarchia orleanista c’era il dottrinarismo liberale che

pensava di risolvere il conflitto fra reazione e rivoluzione, tra aristocrazia e popolo con il consenso

Moderato, che tendeva a mediare il vecchio ordine con il nuovo. Invece per Tocqueville ormai era

illusorio cercare di conservare in sede politica delle differenziazioni e le gerarchie che non avevano

più basi nella società civile (Cfr. A.M.Battista, “Studi su Tocqueville”, Firenze 1989). La società

moderna, seppur con tempi e forme diverse da paese a paese, tende alla democrazia e

all’uguaglianza, il processo democratico appare inesorabile poiché esso è la nuova condizione della

vita associata. Quando nell’ “Introduzione alla prima parte della Democrazia” accusò le classi più

potenti, più intellettuali e più morali della nazione, cioè i governanti francesi, di non aver saputo

valutare l’importanza della democrazia e di non aver tentato di guidarla, egli osservò che <<La

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rivoluzione democratica si è effettuata nell’assetto materiale della società, senza che si verificassero

nelle leggi, nelle idee, nelle abitudini e nei costumi quel cambiamento necessario per rendere utile e

positiva la rivoluzione>>(A. De Tocqueville, “La democrazia in America”, parte I, in Idem,

“Scritti politici”, a cura di N.Mattenni, Utet, Torino 1968, vol. II p. 20). Ad E. Stoffels egli

comunicava di essere un liberale di nuova natura, se è vero che ormai è certo il destino per il quale

<<la società si è messa in marcia e ogni giorno conduce gli uomini verso l’uguaglianza delle

condizioni>> (“Lettera a Stoffels”, 21 febbraio 1835). Col “Discorso sopra la libertà degli antichi

paragonata a quella dei moderni” (1819), Costant aveva criticato Rousseao e Mably che avevano

fatto l’elogio della repubblica democratica di Atene, Sparta e Roma nella speranza di realizzare

nella società moderna l’uguaglianza delle condizioni. Per Costant l’imitazione delle società antiche

era improponibile nei tempi moderni, ove quel tipo di democrazia e di uguaglianza erano

irrealizzabili. A questa posizione replicava Tocqueville nella “Introduzione” <<Tra le novità che

attirarono la mia attenzione durante la mia permanenza negli Stati Uniti, nessuna mi ha

maggiormente colpito dell’uguaglianza delle condizioni; senza fatica constatai la prodigiosa

influenza che essa esercitava nell’andamento della società, subito mi accorsi che l’uguaglianza delle

condizioni estende la sua influenza assai oltre la vita politica e le leggi, e che domina non meno la

società civile che il governo>> (Ib., p.15). la democrazia caratterizzava quindi la società americana

e con ciò T. dava ragione a coloro che nella seconda metà del seicento si erano battuti per

l’uguaglianza dei cittadini e a coloro che nella Riv. Americana avevano visto l’inizio di un processo

democratico. Le dissertazioni di T. si svolgevano quando la monarchia borghese sembrava

vincitrice sul partito dei nobili legittimisti, di cui egli era per nascita un membro col la sua famiglia

aristocratica. Alla borghesia trionfante egli ricordava che il successo era momentaneo perché

sarebbero state le classi popolari ad approfittare del contrasto tra élite aristocratica ed élite

borghese. Dopo che la aristocrazia aveva ceduto la direzione della nazione alla borghesia censitaria,

anche quest’ultima avrebbe dovuto cedere il posto agli altri ceti sociali, perché il riconoscimento

dell’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge non poteva poi riproporre una nuova

distinzione tra una minoranza privilegiata non per nascita ma questa volta su base censitaria e sul

possesso di proprietà ed una maggioranza di cittadini passivi. Credere ad un’immobile permanenza

al potere da parte della minoranza borghese era una illusione legata all’idea di realizzare la

democrazia secondo il criterio “legale” con un diritto di voto ristretto e non secondo i reali interessi

della nazione con l’estensione a tutti del diritto di voto, che avrebbe permesso la partecipazione del

popolo alla gestione degli affari pubblici, la libertà di opinione e di azione politica, il suffragio

universale e la decentralizzazione. Essendo il processo sociale ancora in atto, la vittoria della

borghesia non rappresentava ancora un punto di equilibrio poiché la storia della Francia non era la

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storia del Terzo Stato ma della democrazia e dell’uguaglianza sociale, che però è una caratteristica

non solo della Francia (Cfr.ID, p.18). tale processo è per il cristiano Tocqueville un fatto

provvidenziale: <<sarebbe quindi saggio credere che un movimento sociale che ha così lontane

origini, potrà essere arrestato dagli sforzi di una generazione? C’è forse qualcuno che può pensare

che la democrazia, dopo aver distrutto il feudalesimo ed aver vinto i Re, indietreggerà poi davanti ai

borghesi ed ai ricchi? Dove ci stiamo dunque dirigendo? Tocqueville vedeva nel moto della

democrazia una “rivoluzione irresistibile”; lo sviluppo graduale e progressivo dell’uguaglianza

costituiva simultaneamente il passato e l’avvenire perché la società futura sarebbe stata

democratica. Il compito dei governanti era quello di adattare la democrazia ai contesti storici e alle

situazioni particolari e dirigere il movimento della democrazia. Per questo era necessaria una

scienza della politica nuova per un mondo rinnovato totalmente (Cfr. Ib.,20). La scienza politica

deve guardare le cose come sono e non come si vorrebbe che fossero, può solo prendere atto di tale

tendenza, per poi valutarne i pericoli non meno che le promesse per chi ha a cuore la libertà. Per De

Caprariis la novità di Tocqueville sta appunto nella conoscenza della <<positività del fattore

dinamico delle società politiche>> (Cfr. V.De Caprariis, “Introduzione” a A.De Tocqueville,

“Antologia degli scritti politici”, Bol. 1961). Così osserviamo T. affermare nell’ ”Introduzione”

alla prima parte della Democrazia: <<In qualsiasi direzione gettiamo i nostri sguardi, avvertiamola

stessa rivoluzione che si continua in tutto l’universo cristiano. Dovunque si sono visti i diversi

incidenti della vita dei popoli volgere in profitto della democrazia; tutti gli uomini l’hanno aiutato

con i loro sforzi: quelli che volevano concorrere ai suoi successi e quelli che non pensavano affatto

a servirla (.….). tutti hanno lavorato in comune gli uni loro malgrado gli altri a loro insaputa,

strumenti ciechi nelle mani di Dio. Lo sviluppo graduale dell’uguaglianza delle condizioni è dunque

un fatto provvidenziale, ne ha tutti i caratteri principi; è universale, è duraturo, sfugge

costantemente al potere umano; tutti gli avvenimenti, come tutti gli uomini, servono al suo

sviluppo>> (Ib., ). Dalle lettere a Kergolay (gennaio 1835) e a Stoffels (21 febbraio 1835 e 24

luglio 1835) si ricava la profonda convinzione di T. sulla irresistibile diffusione dell’uguaglianza

della condizione propria della democrazia, che per passare dal livello sociale a quello politico

necessita di condizioni come lumi, moralità private e credenze che in genere sono poco considerate.

Nella sua critica al costituzionalismo garantista qualcuno ha scorto l'’avvertenza T. che il pericolo

per la democrazia non è l’anarchia e il mutamento, ma la stagnazione e la immobilità(De Caprariis).

Se in Francia il pericolo della democrazia era visto nell’anarchia, per cui ci si è rivolti ai valori

tradizionali contro la democrazia, T. diceva che l’accettazione della democrazia come mera

uguaglianza della condizione sociale e giuridica costituisce un punto di partenza necessario ma non

sufficiente per una società attraversata da un nuovo tipo di dispotismo. T. aveva visto la democrazia

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materiale di quei valori che in Francia erano rivendicati contro la democrazia. Ora, se l’uguaglianza

della condizione è un fatto, non più solo un valore, qual è la novità americana? <<Confesso che

nell’America ho visto qualcosa di più dell’America: vi ho cercato l’immagine della democrazia

stessa, della sua tendenza, del suo carattere, dei suoi pregiudizi, delle sue passioni, e ho voluto

studiarla per sapere almeno ciò che da essa dobbiamo sperare o temere>>. T. considerava per

esempio l’autogoverno locale americano la formula pratica per stabilire una società democratica

nella quale l’iniziativa individuale concordasse con le necessità collettive dello Stato. Riportando

all’autogoverno locale la democrazia americana, T. si differenzia da quegli europei che avevano

preso le masse dallo studio della Costituzione americana e dal “Federalista”; inoltre chiariva che la

democrazia non è un astratto complesso di principi traducibili in istituzioni, ma è pratica quotidiana

di vita. Quali sono allora i caratteri della uguaglianza americana? I pericoli che la transizione dalla

diseguaglianza della condizione all’eguaglianza non sono in America il rivoluzionarismo, l’anarchia

e la miseria, ma mali più insidiosi, a rivoluzionare l’America mostra il provincialismo negli scritti

politici francesi, tanto appassionati per le idee generali in materia politica. il problema è il rapporto

tra stato sociale e stato politico semplificato dalla democrazia, che è in fatto però di difficile

decifrazione. La dissoluzione dell’aristocrazia ha provocato nella società la disseminazione del

potere prima diviso tra la indivisibile aristocrazia. Tutti sono egualmente forti nelle attuali

condizioni che non significano scomparse delle differenze. Nonostante la disparità sociale in

America, dove la miseria assoluta convive con la concentrazione della ricchezza, persiste la

passione egualitaria che si riflette in tutti gli aspetti dell’esistenza individuale e collettiva,

nell’affermazione dei diritti civili e politici, ma soprattutto nell’assenso di diseguaglianze cetuali

ereditate e consolidate. In America tutti gli uomini liberi possono in teoria aspirare a tutto, nulla è

precluso per nascita o per censo. Le conseguenze possono essere positive e negative sul piano

politico. Innanzi tutto la difesa della propria indipendenza è difficile per la solitudine. Nella

democrazia accanto alla passione virile per l’uguaglianza, c’è un gusto depravato per essa che porta

i forti e i capaci ad essere degradati al livello dei deboli e degli incapaci. La Riv. Francese è portata

ad abrogare la tradizione per la sua natura insieme dispotica e libertaria. La nazione americana

invece è caratterizzata da una classe omogenea di individui, spinti non dalla brama di ricchezza ma

da una missione spirituale (pregare Dio in libertà) che li lega in società. Essa si è sbarazzata

dell’aristocrazia senza lotta. Invece in Francia la lotta contro le libertà aristocratiche porta la nuova

forma di dispotismo nella forma del cesarismo napoleonico che si fonda sulla debolezza di tutti. Gli

Stati Uniti sono un laboratorio perché nella sua democrazia la sovranità del popolo è un diritto

politico diffuso nello stato sociale. In America tutti gli uomini possono in teoria aspirare a tutto, ma

se da un lato si proclama l’assolutezza della sovranità popolare, essa si esplica nel “principio della

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maggioranza”, sicché non sarà la totalità degli individui ad esercitare insieme il potere, ma solo la

maggioranza eletta. Il problema è che esso è esclusivo e tendenzialmente illimitato. È vero che la

sovranità popolare presuppone non solo l’uguaglianza ma la civilizzazione, l’esperienza e

l’educazione popolare dell’individuo, che è così abituato ad interessarsi alla res publica come sua

costituzione orizzonte di vita. L’unione politica democratica offre dei vantaggi che spingono ad

avere fiducia nelle istituzioni democratiche cui si deve obbedire. Infatti l’uomo rimane padrone di

sé e deve rendere conto soltanto a Dio. Come diritto politico la uguaglianza non è un problema, non

lo è la sovranità del popolo come diritto politico ma il pericolo consiste nel potere della

maggioranza. Il potere infatti tende a concentrarsi e con la centralizzazione amministrativa gli

uomini tendono negativamente a fare astrazione dalla loro volontà. Essa doma agli individui non

con la forza, ma con l’utilizzo delle loro abitudini, isolandoli uno per uno nella massa comune. La

libertà non è necessariamente iscritta nell’uguaglianza e nella democrazia, come è confermato lo

Stato accentrato, che se anche riceve dal suffragio l’investitura popolare, inibisce la partecipazione

è popolare e quel autogoverno con cui si tende a salvaguardare la peculiarità regionale e culturale

delle comunità locali. Lo svuotamento della gerarchia sociale ha posto il crescente peso sociale

della classe media e della burocrazia, che minaccia la sostanza delle libertà civili, riconduca

l’eguaglianza a spinta livellatrice, spegne l’individualità.

Il dominio burocratico inoltre innalza l’opinione comune a guida del mondo, conferendo alle

espressioni organizzatrici o spontanee dell’opinione pubblica un potere di sanzione e di controllo

del consenso – la tirannia della maggioranza, la tirannide democratica – che, esaltando il

conformismo e l’uniformità di sentimenti o di pensieri, reprime quelle virtù civili che spingono al

dissenso critico e alla creatività, offrendo la misura del grado di libertà di un paese. “Negli Stati

Uniti, quando un uomo o un partito soffre un ingiustizia, a chi volete che si appelli? All’opinione

pubblica? E’ essa che forma la maggioranza? Al corpo legislativo? Rappresenta la maggioranza e la

obbedisce ciecamente. Al potere esecutivo? Esso è nominato dalla maggioranza e le serve da

strumento passivo. Alla forza pubblica? La forza pubblica non è altro che la maggioranza sotto le

armi. Alla giuria? La giuria è la maggioranza investita del diritto di decretare gli arresti: i giudici

stessi, in certi Stati, sono eletti dalla maggioranza. Per questa iniqua o irrazionale sia la misura che

vi colpisce, bisogna che vi sottomettiate. “Questo” assolutismo di fatto della maggioranza va messo

in stretta connessione con gli effetti massificanti dell’estremo individualismo sia americano che

europeo segnati dall’egoismo borghese. Il “difetto” dell’aristocrazia era stato l’impedimento della

centralizzazione, il difetto della democrazia è la possibilità di indebolire l’individuo fino a

distruggere lo spirito di cittadinanza. Tre sono i fattori che in America lottano contro questo

pericolo:

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1) la diffusione del benessere e dei lumi;

2) l’omogeneità socioculturale che elimina l’odio di classe;

3) la nobiltà sociale.

Ecco allora che il problema in democrazia non si tratta più di mettere in discussione la legittimità

del titolo della maggioranza a governare, ma come garantire i diritti della minoranza contro la

tendenza alla onnipotenza e alla tirannide della prima. Il principio della pari dignità di ogni cittadino

è ottimo se non è distorto dall’abbandono dell’individuo all’opinione della maggioranza,

snervandone lo spirito repubblicano. La violenza silenziosa che essa esercita viene stabilita dalla

concomitanza di assenza di uomini ragguardevoli e del tramutarsi dell’opinione pubblica in autorità

che circoscrivono il raggio d’azione del pensiero umano la vivacità americana si può comprendere a

partire dal nuovo modo di politicizzare la vita appropriandosi del proprio destino in una realtà in cui

la libertà non proveniva ne dalla concessione costituzionale di un monarca ne poteva essere elargita

dai governanti; essa era concessa con la realtà sociale di una democrazia che nata senza la

preoccupazione della differenza ereditaria, permetteva ad ogni cittadino di aspirare ad una qualsiasi

funzione pubblica. Alla fine della prima parte della “Democrazia in America” concludeva che

soltanto le piccole nazioni, come le città antiche, erano rimaste a lungo repubbliche democratiche;

col decentramento federale, e per merito dello zelo dei cittadini, gli Stati Uniti costituivano una

“unione libera e felice come una piccola nazione rispettata come una grande”. Venivano così

assicurati il benessere individuale poiché la sovranità non era pericolosa per la libertà, le cose

circolavano liberamente e nulla si frapponeva allo spirito d’iniziativa (IB,I,pp.189-203). Da

J.C.Lamberti (Tocqueville etbe deux démocraties, Paris 1983) ad altri studiosi, si è insistito sulla

differenza fra le due parti della “Democrazia in America”, ponendo in evidenza che nella prima T.

è preoccupato più che altro di un parlamento troppo potente e nella seconda egli insiste nella

seconda parte pubblica nel ’40 sul pericolo che l’uguaglianza possa prevalere sulla libertà e si possa

avere nel governo una concentrazione di poteri. Nella prima parte sarebbe preoccupato tanto dai

rischi commessi alla sovranità del popolo quanto nella seconda parte sottolineerebbe l’aspetto per il

quale, come vedremo, il popolo è il livello atomizzato e apatico verso uno Stato tutore, per cui solo

l’effettivo sovranità del popolo può costituire la possibile salvezza del dispotismo proprio della

democrazia (questa è la tesi di A.M.Battista nei suoi “Studi su Tocqueville”, cit.). Questa tesi porta

però all’affermazione che il vero T. democratico sarebbe il secondo F.M De Sanctis tende invece a

evidenziare la differenza fra la prima e la seconda parte nel fatto che la prima si occupa quasi

esclusivamente del sistema politico americano e la seconda del mutamento provocato dalla

rivoluzione democratica nel campo intellettuale, nei sentimenti e nei costumi. Il sistema politico ci

offre dati certi ed osservabili facilmente mentre le idee costituiscono un campo d’indagine quasi

Page 165:  · Web viewRimane fermo però che il cristiano può disobbedire alle leggi contrarie a quella divina. La teoria costituzionale a forma di governo che consenta di far valere nei confronti

impalpabile che devono essere analizzate non più con la scienza politica ma con una sociologia

della conoscenza. T. ci ricorda che oggetto della sua indagine non è tanto la democrazia politica

quanto le conseguenze della uguaglianza sui sentimenti e sulle convinzioni, prognosticando un

futuro. <<Si apre a questo punto – osserva Matteucci – un difficile problema interpretativo: il

rapporto fra questa “tirannia della maggioranza” è il “dispotismo paterno” che domina tutto il

quarto libro della seconda “Democratie” (N.Matteucci, Alexis De Tocqueville. Tre esercizi di

lettura, il Mulino, Bo 90,p.93). una possibile lettura la troviamo in De Santis, il quale dapprima

sottolinea che l’alienazione nella sovranità della cittadinanza di singoli isolati nello Stato non è per

T. un salto di qualità a livello etico per l’individuo perché egli contro Rousseau ritiene che

l’individuo no risulta potenziato nella comunità politica. la civiltà democratica è livellatrice e il

progresso è sempre parziale (e qui è presente una polemica con l’ottimismo continuistico di

Guizot). Ciò è già chiaro in una lettera a Stoffels del 21 aprile del 1830: non si può dire che l’uomo

si perfezione civilizzandosi, ma la civilizzazione trasforma i vizi e le virtù dell’uomo, che

qualitativamente diviene altro rispetto al passato. Il versante negativo della condizione semi

civilizzata è l’imperfezione dello stato sociale e la disorganizzazione del potere pubblico che pone

gli individui nella condizione di approfittarne, mostrando però così il proprio vigore. Il popolo

civilizzato vive invece sotto il “potere tutelare” della società, che provvede a tutto, che la protegge

durante la vita; egli divenuta dolce, socievole, privo di passioni in quel regno dell’egoismo che è il

moderno individualismo. Innanzi tutto “il pubblico gode presso i popoli democratici di un singolo

potere, di cui i paesi aristocratici non potevano neppure farsi un’idea; non fa valere la propria

opinione attraverso la persuasione, ma la impone e la fa penetrare negli animi attraverso una

gigantesca pressione dello spirito di tutti sulla intelligenza di ciascuno”. È il pericolo del cesarismo

di Napoleone III, è la dipendenza della vita sociale e civile del potere egemonico ed accentratore

dello Stato che egli riusciva a intravedere come quello del socialismo in cui analogamente “Lo Stato

è tutto e l’individuo è nulla”, minaccia la libertà in modo irreparabile. La democrazia americana ha

offerto alcune chances ancora sconosciute. Su essa vede fondarsi spirito di religione, spirito di

cittadinanza e spirito d’impresa, che danno luogo a un dinamismo volto a migliorare la società

senza demandare ad altri la questione. Tutto sembra segnato dalla politica nella sfera pubblica

vivifica la sfera privata dall’economia. Per T. non è la prosperità economica a creare la libertà

politica ma è vero il contrario. Il principale conservatore della repubblica democratica moderna è

l’educazione politica pratica, legata ai beni che sono essenziali all’esercizio dei diritti politici. Il

cittadino o è attivo o è un suddito. Il pericolo è piuttosto un altro: <<L’individualismo è un

sentimento ponderato e pacifico che dispone ogni cittadino a isolarsi dalla massa dei suoi simili, a

ritirarsi in disparte con la sua famiglia e i suoi amici, così che dopo essersi creato una piccola

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società e a proprio uso, abbandona la grande società a se stessa>>. Nella società aristocratica questo

atomismo esasperato era impedito dai legami organici che univano gli individui ai corpi intermedi

dei ceti, che stavano tra l’individuo e lo Stato. Il sistema democratico tutto questo è spazzato via

perché lo Stato si confronta immediatamente con la moltitudine frammentata degli uomini dispersi

nella vita privata. Come profeta della società di massa egli ravvisa una spinta sociale di fondo che a

unificare la realtà dei diversi paesi. Esso secondo Matteucci corrisponde al processo di

socializzazione che ha investito l’Europa ed ha raggiunto la massima estensione nell’ottocento nella

società democratica dell’America del Nord, dove però incontra resistenze secondo lui nello spirito

religioso. Quattro sono gli aspetti fondamentali di esso. La tendenza verso una maggiore

eguaglianza, non solo di fronte alla legge ma nello stato sociale, nei sentimenti, nei costumi e nelle

idee. Poi la vittoria necessita in essa della filosofia immanentista legata al soggettivismo razionale

di Lutero, Descartes, Bacone e Voltaire volto a smantellare l’impero della tradizione; esso però da

metodo filosofico proprio solo degli intellettuali, è divenuta una inconscia filosofia di massa per cui

ciascuno l’affida solo alla propria ragione e contesta radicalmente tutto. Inoltre si ha la crisi del

principio di autorità fondato o sulla tradizione o sulla trascendenza dei valori o su uomini

superficiali e rappresentativi o su idee e principi condivisi: <<Le opinioni umane non formano più

una specie di polveri intellettuali che si agita in tutti i sensi senza potersi raccogliere e posare>> (II,

I, 1) ed è “sempre più l’opinione comune a governare il mondo”, per cui il pubblico fa penetrare la

propria opinione con una gigantesca pressione dello spirito di tutti sull’intelletto di ciascuno.

L’immanentismo si conclude con totalitarismo secolare. Infine occorre considerare l’amore per il

benessere materiale nella ricerca dei godimenti permessi, una sorta di materialismo onesto

concentrato sull’immediato e non sul futuro, che il potere deve saper garantire, mentre diminuisce la

partecipazione politica e si fa amare solo l’ordine. (II, II, 14). Diminuiscono le rivoluzioni che

ringiovaniscono ma la società sarà sempre più pervasa da un diffuso ed endemico disordine e da

continue turbolenze perché gli uomini sono bramosi ed inquieti (II, III, 21). Allora il problema in T.

è il rapporto fra la prima Democrazia (I,II,7) e il capitolo sulla tirannide della maggioranza dove il

referente è la società americana e la sovranità popolare e la seconda Democrazia (II, IV,6) col

capitolo sul “Dispotismo paterno” presente nel compromesso francese fra dispotismo

amministrativo e sovranità popolare. La moderna tirannia della maggioranza è diversa dall’antica

perché agisce sullo spirito e non sul corpo, non usa la forza ma l’emarginazione: <<La maggioranza

traccia un cerchio formidabile intorno al pensiero. Nell’ambito di questi limiti ciascuno è libero; ma

guai se osa uscirne… Il padrone non dice più: tu penserai come me o morirai; dice: sei libero di non

pensare come me; la tua vita, i tuoi beni, tutto ti resta; ma da quel giorno sei uno straniero tra noi>>

(I, II, 7). Con la crisi del principio di autorità e con la secolarizzazione la società si trasforma in

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massa, con precisi meccanismi di esclusione e con una tolleranza meramente repressiva. Questa

società rischia l’appiattimento unidimensionale dove domina il calcolo del denaro. La ragione deve

dimostrarsi utile praticamente per legittimarsi e l’immaginazione è costretta dalla mentalità

calcolatrice e utilizzatrice a volare basso (II, III, 11). La cultura si perverte con la mentalità

industrializzata. L’individuo perde la propria individualità perché si sente sicuro solo nella massa.

Importante è allora descrivere i caratteri di questa logica commerciale in contrapposizione alla

aristocrazia. Questa è quel tipo di società in cui vige il principio della diseguaglianza nella

distribuzione sociale del potere, affidato essenzialmente alla nascita. La democrazia è quel tipo di

società in cui vige il principio dell’uguaglianza potenziale nella distribuzione “erga omnes” di tale

potere, per cui la nascita non funziona più come criterio per la sua distribuzione. Ma in democrazia

le differenze si riproducono incuranti del principio di uguaglianza. Nell’aristocrazia stato sociale e

stato politico non sono facilmente distinguibili, perché il suo dominio sulla terra è immediatamente

imperio sui suoi abitanti. La democrazia invece si profila come forma di vita naturalmente sociale in

cui il rapporto fra governati e governanti deve essere istituito “artificialmente”: il potere,

disperdendosi tra gli individui isolati per l’uguaglianza tende a concentrarsi e a centralizzarsi come

potere rappresentativo di tutta la società tomizzata. La sovranità popolare è la riaggregazione nella

sfera politica del potere polverizzato nella sfera sociale. In democrazia se l’uguaglianza da a tutti

delle risorse, c’è però l’impedimento che qualcuno abbia risorse molto ampie. La logica

commerciale ed industriale ha come simbolo di ricchezza il denaro e non la terra. La ricchezza non

garantisce ai suoi possessori ne sicurezza ne prerogative politiche. Alla mobilità spaziale

corrisponde una temporalità centrata sul presente e non c’è più interesse per il futuro. Le idee

religiose, i principi morali e la storia sono considerate nocive e così anche la conoscenza delle cose

ultime. T. allora rivaluta il concetto di autorità, intesa come incremento all’azione, mentre la

modernità l’ha posta in antitesi alle libertà. Ora, l’agire politico tende a distinguere due maniere: la

resistenza – particolare al potere sociale che decide le regole e il governo effettivo degli uomini. il

secondo tende in democrazia a concentrarsi a la prima ad estinguersi in proporzione alla

atomizzazione e al livellamento della società. Lo Stato, che si confronta immediatamente con la

moltitudine frammentaria degli uomini dispersi subito nella sfera privata una volta che gli hanno

dato vita, riconduce incessantemente l’uomo solo a se, facendogli demacramente dimenticare i suoi

antenati, nascondendogli i suoi discendenti e separandosi dai suoi contemporanei. L’allontanamento

dall’interesse pubblico può generare un opaco conformismo che distrugge le energie creative di un

popolo e fonda le premesse dell’instaurazione di nuove forme di dispotismo, quelle moderne che

avviliscono l’uomo senza tormentarlo: <<Voglio immaginare sotto quali tratti inediti il dispotismo

potrà prodursi nel mondo; vedo una folla innumerevole di uomini simili ed eguali, che

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incessantemente si ripiegano su se stessi per procurarsi piccoli e volgari piaceri, di cui riempiono la

loro anima. Ognuno di essi, ritirato in disparte, è come estraneo al destino di tutti gli altri; i suoi

figli e i suoi amici personali formano per lui tutta la specie umana (…) . Al di sopra di costoro si

eleva un potere immenso e tutelare che, da solo si incarica di assicurare loro i piaceri e di vegliare

sulla loro sorte. È assolutamente capillare, regolare, previdente e dolce. Assomiglierebbe al potere

paterno se, come quello, avesse per fine di preparare gli uomini all’età virile; ma al contrario, non

cerca che di fissarli irrevocabilmente all’infanzia; gli piace che i cittadini siano contenti, a

condizione che pensino solo ad essere contenti. Lavora volentieri alla loro felicità, ma vuole essere

l’unico agente e il solo arbitro; provvede alla loro sicurezza, prevede e assicura la soddisfazione dei

loro bisogni, facilita i loro piaceri, conduca i loro affari principali, dirige la loro attività, regola la

loro successione, divide la loro autorità: perché mai non può togliere loro interamente la fatica di

pensare e la pena di vivere? “(II, IV, 6). Se è ormai vero che la democrazia politica è la legge della

storia col popolo entrato ormai a gestire la cosa pubblica, le conseguenze illiberali della democrazia

sono viste nella 2concentrazione dei poteri”. Il possibil3e esito fosco di una mera affermazione di

uguaglianza nel benessere materiale privo di conflitti danno un quadro immobile della democrazia,

in cui Stato amministrativo, creato dall’assolutismo, e sovranità si sono spostate(e potrebbero essere

congiunti anche nel socialismo) senza poter cancellare il peccato originale dell’ ”individualismo”.

<<Esso è un sentimento fondamentale e tranquillo, che spinge ogni singolo cittadino ad apportarsi

dalla massa e a tenersi in disparte>> e “fa dimenticare i suoi avi, gli nasconde le future generazioni,

lo separa dai contemporanei e lo conduce solo a se. L’individuo è regressivo, fondato sul

presupposto della rigida contrapposizione tra sfera pubblica e sfera privata dell’età assolutistica, che

imponeva l’apatia ai propri cittadini. Esso è deleterio per una nazione che passa alla democrazia

perché ostacola la partecipazione reale alla politica e società dei cittadini. Nel futuro T. vede solo

<<Una folla innumerevole di uomini simili ed uguali che non fanno che ruotare su se stessi….. Egli

vive al loro fianco ma non li sente; non esiste che in se stesso e per se stesso, e se ancora ha una

famiglia, si può dire per lo meno che non ha più patria>> (II, IV, 6). La massificazione

amministrativa ha prodotto “una folla solitaria”, un isolamento sociale e un solitarismo dovuto ad

emarginazione da una società che non esiste. L’individuo difeso dal pensiero liberale si può

pervertire nel suo contrario quando a mediare l’individuo con lo Stato c’è la società civile.

L’esempio americano, nella sua dinamicità fornisce oltre alla previsione dei rischi anche quella dei

rimedi. La democrazia è più un modo di organizzare la società politica che un valore come lo è la

libertà e non può realizzarsi nello Stato misto centralizzato, come è la monarchia costituzionale. Il

primo antidoto al nuovo dispotismo statale viene visto nella Costituzione federale e nella

promozione di salde autonomie locali, municipali con cui si può esercitare una palestra di

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partecipazioni politiche democratiche. Nel V capitolo del primo libro della Democrazia afferma che

<<è nel comune che risiede la forza dei popoli liberi. Le istituzioni comunali sono per la libertà

quello che le scuole primarie sono per la scienza; esse la mettono alla portata del popolo, glie ne

fanno gustare l’uso pacifico e l’abituano a servirsene. Senza istituzioni comunali una nazione può

darsi un governo liberale, ma non possiede lo spirito della libertà. Rossiani ritiene che sono

passaggi interni momentanei, circostanze fortuite possono darle le forme esterne dell’indipendenza;

ma il dispotismo, ricacciato all’interno del corpo sociale, riappare presto o tardi alla superficie>> (I,

V). contro la tirannide della maggioranza esistono rimedi, contro il dispotismo potente ci si deve

appellare alla fede, alla passione o all’istituto delle libertà. Ma tutti i controveleni presuppongono

l’esistenza di un articolo sociale civile e l’assenza dell’accentramento amministrativo. La vera

medicina è lo spirito di associazione per cui egli ci offre una definizione di società pluralistica:

<<Dovunque, dove alla testa di un’iniziativa vedrete, in Francia il governo e in Inghilterra un gran

signore, state sicuri di vedere negli Stati Uniti un’associazione>> (II, II, 5). L’associazione è ciò che

rompe la grettezza dell’individuo privato e da forza e potere agli individui associati, sia contro la

tirannide della maggioranza sia contro il dispotismo paterno: l’individuo da solo perde sempre.

Quando parla di associazione T. non intende solo i partiti politici, ma anche le associazioni civili

con le più variegate attività sociali. Fra queste emergono per importanza le Chiese che col loro

messaggio ultraterreno possono essere solo contrastate dall’edonismo del benessere. Oltre il

pluripartitismo il suo pluralismo ha il suo spazio nella società ove possono contribuire alla vita di

una vita democratica ricca ed articolata. Le associazioni, esponenti di interessi comunitari di equi

tipo, assomigliano al corrispettivo, moderno e democratico dei corpi intermedi e questo ha fatto

pensare a T. come ad un pensiero in cui esiste la compresenza di aristocrazia e democrazia. Esse

hanno il potere di materializzare la volontà per risolvere dal basso i problemi di un quartiere, di una

professione ecc. L’arte dell’associazione deve crescere in modo proporzionale all’aumento

dell’uguaglianza delle condizioni. In particolare la religione, separata dalla sfera statale, se tratta

alla strumentalizzazione politica in un contesto pluralistico, ha la funzione di cura dei valori morali

spirituali che trascendono gli interni immediati. Con ciò egli pone la pacificazione tra liberalismo e

religione. Ma egli si rende conto anche dell’emergere della divaricazione sociale fra le grandi classi,

la nuova aristocrazia (o oligarchia) del capitolo e l’enorme massa degli operai, tra i quali si

reintroducono la disuguaglianza permanente delle condizioni. Anche questa tendenza presenta un

rischio di involo democratico. Ma egli non ha simpatie socialiste limitandosi o all’ammettere

l’eventualità dei conflitti e concependo l’iniziativa volta a migliorare le condizioni operaie con il

metodo del gradualismo che prevede la prevenzione del pauperismo.

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Tornando al problema dei rapporti tra prima e seconda democrazia, possiamo dire che la prima

rappresenta un momento di particolare disponibilità verso l’uomo civilizzato, mentre nella seconda

l’associazione politica ridivenuta l’unica scuola pratica della libertà e il luogo della restaurazione,

conservazione e potenziamento della destinazione politica dell’uomo contro gli istinti cellulari

dell’epoca democratica, col la sua tendenza narcisistica dei signori che si consegnano allo Stato

tutore, che dispensa ordine e benessere.

La Rivoluzione. L’alienazione di ogni diritto – potere individuale e sociale nello Stato – tutore si

manifesta in Francia per la crisi dell’aristocrazia che, trasformatasi in casta si è separata dal popolo;

la borghesia poi non è capace di passare dalla società civile a quella politica. Le cause remote della

Rivoluzione Francese sono:

1) La crisi della mobilità francese e sua divisione interna;

2) Incapacità di affermarsi di un’aristocrazia vera ed incapacità della borghesia ricca e colta di

emanciparsi dalla tutela dello Stato e di assumere responsabilità di governo;

3) Clero diviso tra alto e basso;

4) Popolo benestante ma atomizzato e diviso in se stesso;

5) Il vero protagonista è il potere centrale – amministrativo che divenuto l’unico punto di

riferimento della società divisa, ma anche un potere solo che esclude la società civile dalla

partecipazione politica.

La patologia è:

1) L’alienazione della società dalla politica (la società politica è il potere centrale –

burocratico);

2) La lotta di classe;

3) Il dispotismo amministrativo.

Le cause prossime e l’illuminismo filosofico che è una sorta di narcisismo della ragione, crescita

distorta della libertà perché è priva di pratica politica. Gli economisti invece non parlano

dell’uguaglianza astratta dei filosofi, che è omogeneità di particelle tutte simili ma separate, pronte

a formare la massa, ma criticano il potere solo per il disordine, per la disorganizzazione. Per uscire

dalla polarità della condanna o dell’entusiasmo per la Riv. Francese, T. dice che la Riv. Non è

estinzione di ogni potere e non è equiparabile all’anarchia (il vero suo spirito è il dispotismo) non è

estensione della fede (non è equiparabile a irreligione) ma è una nuova religione, imperfetta, senza

Dio, ma che fa molti proseliti.

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Cap. VII: Constant, Guizot e Tocqueville: il problema dei diritti.

Felicità e sicurezza individuali riposano su determinati principi positivi ed immutabili. La

Costituzione è garanzia di questi principi: così dice Constant. Essi costituiscono il limite della

sovranità. La legittimità del potere politico risiede nel rispetto di essi. Esso proviene da una elesione

libera e dall’eredità. Condizione minimale per Costant di ogni associazione politica è un certo grado

di lumi e un interesse comune con gli altri, condizione soddisfatta dalla proprietà, che rende gli

uomini capaci di esercitare i diritti politici. Ma Constant considera la proprietà non un diritto

originario ma derivato, una “convenzione sociale” (come Kant). Pur considerando la libertà di

pensiero l’essenza della modernità, è sospettoso verso la ragione astratta delle cose come verso

l’enfatizzazione del lavoro.

Guizot e il principio della sovranità del popolo: contro Hobbes il potere politico non poggia sul

principio dell’uguaglianza ma su quello dell’ineguaglianza naturale degli uomini. Il potere politico

sanziona ciò che tramite la natura, la provvidenza ha voluto e il governo e le istituzioni

distribuiscono il potere secondo meriti e virtù, capacità. Principio della formazione del potere

politico e della legittimità del governo è la ricerca della verità come norma per la decisione politica.

Per questo devono essere selezionati i migliori. La critica al privilegio dell’aristocrazia tradotta in

pura forza avviene proprio perché essa ha abbandonato il suo etimo (aristostos = migliore).

L’ineguaglianza non è però Guizot ineguaglianza di diritti. Ci sono diritti eguali e diritti ineguali per

la capacità di ognuno. Il principio della sovranità del popolo è illegittimo perché conduce al

dispotismo del numero; la sovranità spetta alla maggioranza dei capaci.

Tocqueville pensa che sia invece conclusa l’epoca dell’aristocrazia. Guizot pensa al governo misto,

dove c’è il reciproco riconoscimento delle forze sociali. Ciò è guidato dalla mobilità sociale. La

“Democrazia in America” di Tocqueville sdrammatizza il problema della sovranità del popolo.

Avendo tutti dei diritti, tra le classi c’è una maschia fiducia. Diritti = virtù. Non essendoci

l’America il proletariato, tutti hanno un bene da difendere, il diritto di proprietà. L’americano si

sottomette volentieri al potere, non ha paura di vedere violati i suoi diritti. In ciò è distante dal

liberalismo tradizionale, legato all’agire economico ed individuale vero patrimonio di civiltà di un

grande popolo è che ogni singolo sia posto in condizione di acquisire intelligenza pratica che non lo

faccia sentire estraneo agli affari comuni. Non lo preoccupa il proletariato sociale ma quello

politico. Su T. il problema dei diritti non è posto sul piano formale della comunicazione ma è quello

della loro garanzia legato dal dispotismo amministrativo e dall’utilità sociale. Il pauperismo deve

essere prevenuto.

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17. Politica e religione in A. Rosmini

di P. Armellini

All’inizio della sua carriera di scrittore di cose religiose e politico-sociali Antonio Rosmini tentò

una risposta alle sfide portate dalla Rivoluzione francese e dall’età napoleonica alle tradizionali

forme dell’organizzazione politica e sociale. Dapprima a Rovereto tra il 1822 e il 1826 e poi a

Milano negli anni 1826-1827 egli si immerse con passione in tale ricerca producendo e abozzando

quei materiali che, abbandonati per un decennio, avrebbe poi ripreso per pubblicarli in opere della

seconda metà degli anni Trenta dell’Ottocento, come la Filosofia della Politica (Milano 1837-39) e

Filosofia del diritto (Napoli 1841-43)89. Più tardi la rivoluzione europea e italiana del 1848 vedrà

Rosmini impegnato non solo nella delicata e poi fallita missione diplomatica affidatagli dal governo

sabaudo presso Pio IX (agosto-ottobre 1848) ma anche in una vasta opera di ripensamento sui

fondamenti dell’ordinamento giuridico e politico e sull’orientamento dell’opinione pubblica

riguardanti i temi di carattere costituzionale posti all’ordine del giorno dagli eventi di quell’anno. Il

biennio 1848-49 si chiuderà per Rosmini con la condanna all’Indice non solo della sua maggiore

opera di carattere ecclesiologico, non estranea a considerazioni di teologia della storia e di laicità

della politica, come le Cinque piaghe della Santa Chiesa (Lugano 1848, ma 1832), ma anche del

suo lavoro più importante dal punto di vista costituzionale che è La Costituzione secondo la

giustizia sociale (Lugano 1848). Nonostante le incomprensioni e i sospetti sorti dal 1848 sui suoi

libri, non rinuncerà ad intervenire nel dibattito politico, conducendo sull’ “Armonia” di Torino dalla

primavera del 1850 fino al gennaio 1855 numerosi contributi critici sulla politica ecclesiastica del

governo piemontese relativamente alla disciplina degli ordini religiosi, la legislazione matrimoniale,

la legislazione scolastica90.

89 Cfr. A. ROSMINI, Filosofia della politica, a cura di M. d’Addio, Città Nuova, Roma 1997; IDEM, Filosofia del diritto, a cura di M. Nicoletti, 4 voll., Città Nuova, Roma 2013-16.90 Sulle vicende biografiche di A. Rosmini Cfr. G. LORIZIO, Antonio Rosmini Serbati 1787-1855, San Paolo, Cinisello Balsamo 1997; F. DE GIORGI, Rosmini e il suo tempo. L’educazione dell’uomo moderno fra riforma della filosofia e rinnovamento della Chiesa (1787-1833), Morcelliana, Brescia 2003; M. DOSSI, Il Santo proibito. La vita e il pensiero di Antonio Rosmini, Il Margine, Trento 2007. Sulla filosofia di R. cfr. M.F. SCIACCA, La filosofia morale di Antonio Rosmini, Loffredo, Napoli 1938; D. MORANDO, Rosmini, La Scuola, Brescia 1945; C. RIVA, L’attualità di Rosmini, Studium, Roma 1970; F. PERCIVALE, L’ascesa naturale a Dio nella filosofia di Rosmini, Città Nuova, Roma 1977; M. DOSSI, Profilo filosofico di Antonio Rosmini, Morcelliana, Brescia 1999; M.F. TADINI, Il Platone di Rosmini. L’essenzialità del platonismo rosminiano, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008; V. F. ERN, Rosmini e la sua teoria della conoscenza (Mosca 1914), a cura di R. Azzaro Pulvirenti, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2011; K.-H. MENKE, Ragione e rivelazione in Rosmini. Il progetto apologetico di un’enciclopedia cristiana, Morcelliana, Brescia 1997; M. KRIENKE, Wahrheit und Liebe bei Rosmini, Kohlhammer, Stuttgart 2004; U. MURATORE (a cura di), Antonio Rosmini: Verità, Ragione, Fede. Attualità di un pensatore, Ed. Rosminiane, Stresa 2009, pp. 13-47.

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Fondamentale per comprendere la spiritualità rosminiana che ispira la sua visione giuridico-

politica e il modo di intendere i rapporti fra Chiesa e Stato è dato dal fatto che intende rendere

comprensibile il messaggio tradizionale del cristianesimo custodito dalla Chiesa, vista paolinamente

come il corpo di Cristo che si estende a tutte le generazioni attraverso le molteplici fasi della storia,

adeguato ad essere inteso dai popoli di ogni epoca in modo peculiare. In particolare egli sa che la

Rivoluzione francese ha manifestato nella storia una mentalità e un costume sociale sempre più

distante dai dettami della dottrina sociale cristiana e dalle filosofia che la sostiene, ritenendo ciò non

solo un motivo di reazione, come pensava fino al 1826 anno in cui approda a Milano per conoscere

Manzoni e Tommaseo, con in mano gli inediti della Politica Prima in cui si sente vicino al

tradizionalismo di Von Haller e De Maistre nel difendere una forma di monarchia assoluta che si

basa su una visione pressoché statica della società, in cui sempre esistono delle classi di governanti

provenienti dagli strati della società dotati di grandi patrimoni immobiliari. Dopo la frequentazione

però dei circoli letterari e filosofici dell’ambiente milanese, aperti alle moderne istanze del

costituzionalismo europeo e anche alle tendenze più democratiche che intendono affrontare i temi

più attuali del pauperismo prodotto dallo sviluppo delle coeve società industrializzate, Rosmini

comincia a ritenere necessario politicamente considerare il popolo il vero soggetto morale della

sovranità, abbandonando la visuale per cui solo un sovrano assoluto si può occupare

paternalisticamente della felicità pubblica del suo popolo, visto più come oggetto delle sue

attenzioni, dato che non ha patrimoni e proprietà tali che lo possano indurre a dedicarsi con profitto

alle cure del bene comune, come invece può fare una classe di proprietari terrieri di grandi

proporzioni. Dal 1827 in poi il popolo viene visto sempre più come il vero soggetto delle decisioni

politiche, dato che la società si è ormai aperta allo sviluppo di ricchezze che non dipendono solo dai

patrimoni ereditari di tipo terriero, ma anche al lavoro e alle capacità imprenditoriali che richiedono

un apertura a nuovi e più dinamici ceti sociali. E’ intervenuta la lettura di A. Smith e D. Hume che

gli hanno insegnato a considerare le opinioni di’ interesse come fondamentali per la costituzione

della società. In questo frangente della sua vita egli comincia a elaborare la teoria del Tribunale

politico, che sarà il tema con cui egli entra in comunicazione con le principali correnti del

costituzionalismo europeo di tendenza liberale. L’opera Della Naturale costituzione della società

civile però non vedrà in vita la sua luce, nonostante ne fosse preparata una edizione aggiornata per il

1848 come secondo volume della Filosofia della politica91.

Fin dagli scritti giovanili per Rosmini esiste una stretta correlazione fra errori filosofici e

erramenti storico-politici. Nella “Prefazione al piano generale delle scienze”, egli rinviene nelle

teorie dei philosophes il seme di molti errori e di tutte le calamità che accompagnarono la

91 Cfr. G. SOLARI, Scritti rosminiani, a cura di P. Piovani, Giuffrè, Milano 1957;

Page 174:  · Web viewRimane fermo però che il cristiano può disobbedire alle leggi contrarie a quella divina. La teoria costituzionale a forma di governo che consenta di far valere nei confronti

Rivoluzione francese, auspicando una restaurazione della filosofia capace di edificare dottrine

sicure a fronte di ‘costumi disumani’ e ‘atrocissime scellerataggini’ come era accaduto per certe

teorie moderne. Nella Filosofia del diritto (1841-43) di alcuni anni dopo si pone la domanda sulle

ragioni per cui la scienza della legislazione, così impegnata a sostenere i caratteri di utilità, certezza,

unicità, universalità delle leggi, non parla mai della loro giustizia. Lo spostamento dell’attenzione

dalla giustizia delle leggi alla loro utilità corrisponde all’oblio filosofico dell’idea e della

esaltazione unilaterale della sensazione come fondamento del conoscere. Concepire la giustizia in

termini di mera utilità non è altro che la conseguenza della riduzione - sul piano del diritto e della

politica - dell’intelligenza alla sensibilità. Quindi in Rosmini ritroviamo sin dalle origini una istanza

di connessione tra metafisica e prassi, fra intelligenza e politica, dato che, come spiega nei Principi

della Scienza morale, l’essere è originariamente attività: “questa parola essere non significa in fine

altro che la prima attività, ogni attività: il dire ciò che è. È un dire ciò che agisce, ché nessuna cosa

è, se non agisce; dovendo agire per essere, anzi essendo un agire quel porre, quel mantenere se

stessa che fa la cosa, essendo”92.

Gli scritti politici rosminiani degli anni 1826-27 vengono abbandonati quindi sia perché

ascoltò Manzoni, il quale rilevava che i suoi studi mancavano di coerenza non evitando di

sottolineare il suo stile concettoso e poco lineare, sia perché meditò sulle osservazioni di Tommaseo

che riteneva immaturo il suo libro di politica senza una adeguata preparazione filosofica. Così egli

rispose all’amico “Voi dite bene dicendo che non è il tempo di pubblicare il mio libro di politica e

che sospendendolo io muterei in gran parte il modo della trattazione”93. Occorreva infatti

individuare in sede filosofica il fondamento del concetto di unità per superare la concezione

analitica e sostanzialmente meccanico-materialistica dell’empirisimo illuministico e prospettare una

vera enciclopedia delle scienze umane, filosoficamente fondata, in cui la politica ritrovasse la sua

idonea collocazione, precisando le distinzioni fra religione, morale, diritto e politica e i reciprochi

nessi. Egli si mise allora alla ricerca di un quadro epistemologico nuovo che gli permettesse di

uscire dall’impasse in cui era caduto.

Nella sua tormentata vita Antonio Rosmini ci ha lasciato molte opere94 in cui ha cercato di

difendere la libertà politica dei cittadini da ogni forma di potere dispotico, a partire dalla difesa

della libertà della Chiesa dalle ingerenze indebite del potere politico, ma anche dalla tentazione di

92 A. ROSMINI, Principi della Scienza morale, a cura di U. Muratore, Città Nuova, Roma 1987, p. 55.93 N. TOMMASEO-A. ROSMINI, Carteggio edito e inedito, 3 voll., a cura di V. Missori, Marzorati, Milano 1967-69, I, p. 21.94 Cfr. U. MURATORE, Conoscere Rosmini. Vita, pensiero, spiritualità, Ed. Rosminiane, Stresa 2002; P. PRINI, Introduzione a Rosmini, Laterza, Roma-Bari 1997; sul pensiero politico: G. CAMPANINI, Politica e società in Antonio Rosmini, Ave, Roma 1997; M. D’ADDIO, Libertà e appagamento. Politica e dinamica sociale in Rosmini, Studium, Roma 2000; R. PEZZIMENTI, Persona, Società, Stato. Rosmini e i cattolici liberali, Città Nuova, Roma 2012.

Page 175:  · Web viewRimane fermo però che il cristiano può disobbedire alle leggi contrarie a quella divina. La teoria costituzionale a forma di governo che consenta di far valere nei confronti

scendere a compromessi con esso accettando protezione e vantaggi, come promesso dal

giuseppinismo e giurisdizionalismo austroungarico sulla natia provincia lombarda e anche poi dalle

politiche ecclesistiche della patria ritrovata nel Piemonte sabaudo. Alla base della filosofia politica

di Rosmini c’è una dottrina generale della società, una riflessione su concrete istituzioni giuridiche

fino alle redazione di progetti di costituzione, una dottrina sociale della Chiesa colla previsione di

una sua necessaria riforma ed infine una ecclesiologia che è il presupposto della sua dottrina della

laicità della politica. Sono aspetti connessi ad una comune ispirazione filosofica, che è

l’ontologismo depurato dalla tendenza a coniugarsi con posizioni razionalistiche, per cui si ha la

possibilità di andare oltre le apparenze sensibili e di cogliere una sorta di zona pura che è l’essenza

della realtà espressa dall’idea dell’essere, che la coscienza percepisce dotata di necessità e

universalità senza che abbia i caratteri transeunti della particolarità e contingenza propri della

dimensione reale dell’essere95. Rosmini spiega ciò nella sua maggiore opera che rimane a distanza

di quasi due secoli Il Nuovo saggio sulla origine delle idee (Roma 1830)96. L’essere ideale che ogni

intelletto intuisce, al di là della consapevolezza critica che può anche mancare all’uomo comune, è

sempre attivo nel processo della conoscenza della molteplicità delle cose del mondo, il quale, così

come si offre all’affezione della sensibilità umana nel processo in cui agisce il processo di

percezione sensibile e poi intellettiva a partire dal sentimento fondamentale corporeo, ne permette la

determinazione, alimentando nella razionalità umana la tendenza amativa a conoscere l’universo

delle cose in modo sempre nuovo nella sua immensa varietà.

Esso è quindi il principio di comprensibilità dell’universo. L’azione morale quindi fonda ed

accompagna la conoscenza, facendo sì che ogni cosa sia desiderata come qualcosa da conoscere,

perché ne viene riconosciuto un ordine di amabilità diversificato e plurale secondo un grado di

diversa appartenenza all’essere creato da Dio come fondamentalmente buono (Principi della

Scienza morale, Milano 1837)97. Il suo principi sta nel desiderare l’essere nell’ordine compreso

dall’intelletto. Così la morale non si mostra come un astratto e formale rispetto di regole imposte

alla volontà dalla ragione, ma come fedeltà all’essere nel suo ordine ontoassiologico, che impone di

amarlo e rispettarlo secondo l’ordine conosciuto dall’intelletto, senza che ciò necessiti

infallibilmente la volontà, perché anzi all’uomo viene riconosciuto un proprio ambito di azione.

Alla stima speculativa deve cioè succedere la stima pratica dell’essere, che non procede a

conformarsi alla prima in modo meccanico, ma attende dall’uomo il movimento libero della sua

volontà. Egli può avviarsi infatti anche nella direzione del male, perché in quanto è immagine di

95 Cfr. A. DEL NOCE, Il problema dell’ateismo (1964), introduzione di N. Matteucci, postfazione di M. Cacciari, Il Mulino, Bologna 20115.96 Cfr. A. ROSMINI, Nuovo Saggio sulla origine delle idee, a cura di G. Messina, Città Nuova 1998.97 Cfr. A. ROSMINI, Principi della Scienza morale, a cura di U. Muratore, Città Nuova, Roma 1990.

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Dio ha la possibilità di deviare dall’ordine dell’essere, dato che è dotato di una libertà per quanto

non infinita ma condizionata dalla natura e dalle passioni (Antropologia in servizio della Scienza

morale; Teodicea). Da qui nasce la concezione antiperfettistica della visione etico-politica di

Rosmini. Nella sua concezione antropologica l’uomo appare sia nelle sue luci, dato che la sua

dignità proviene dall’idea dell’essere che è il divino in lui, sia nelle sue ombre e opacità, che

trovano origine nella sua dimensione creaturale e morale legata al peccato originale (Il

razionalismo che si insinua nelle scuole teologiche). Così egli dice nei Principi della Scienza

morale: “nell’uomo si ammira una singolare contrarietà di natura, per la quale ora egli ci si mostra

manifestamente in un essere limitato, ed ora ci si ingrandisce e ci appare come infinito: egli è

veramente un essere misto di finito ed infinito”98. Alla radice dell’antiperfettismo rosminiano

occorre considerare allora “il gran principio della limitazione delle cose”, che viene rifiutato invece

dalle ideologie perfettistiche, le quali, a partire da alcune utopie politiche antiche e rinascimentali

fino al socialismo utopistico conosciuto e criticato dal Roveretano, fanno sognare Stati e governi

ideali che pianificano strutture sociopolitiche ed economiche assolutamente perfette. Esse si

dichiarano cioè capaci di garantire l’annullamento di tutti i mali sociali e la più equa distribuzione

del benessere e della prosperità della pubblica felicità ad ogni membro della società. Tale

concezione non tiene conto della fallibilità della natura umana e si fonda su un “baldanzoso

pregiudizio, pel quale si giudica dell’umana natura troppo favorevolmente, se ne giudica sopra una

pura ipotesi (…) con mancanza assoluta di riflessione ai naturali limiti delle cose”99.

Così il Roveretano, dopo aver risolto il problema del fondamento teoretico del giudizio, al

fine di assicurare l’oggettività e l’universalità della conoscenza con il Nuovo Saggio, e dopo aver

affrontato il problema del fondamento della morale nei Principi della Scienza morale, non senza un

dettagliata analisi del problema dei rapporti inerenti fra la natura umana, con le sue potenze,

passioni e facoltà, e il principio della morale nell’Antropologia in servigio della Scienza morale

(1838), poté tornare ad occuparsi dei suoi primi interessi politici, riprendendo le considerazioni

svolte fra il 1821 e il 1827 secondo un’ottica nuova. Il problema fondamentale è stato aver

guadagnato una più matura concezione dei rapporti fra politica e religione al riparo sia dal

cortocircuito teocratico in cui il religioso tende ad assorbire totalmente il civile ed il politico, sia

dalle forme più o meno esplicite di subordinazione del religioso al politico come le teorie

dell’instrumentum regni, sia infine dalle forme di esaltazione religiosa della politica come nel

fenomeno di divinizzazione della politica. Le opere di Rosmini dedicate alla politica, al diritto e alla

storia intendono anche evitare una radicale scissione fra storia sacra e storia profana. Il mero

conservatorismo dell’orientamento giovanile aderente agli ideali della Restaurazione veniva 98 A. ROSMINI, Principi della Scienza morale, cit, p. 82.99 Ivi, p. 111

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completamente abbandonato per la sua incapacità a risolvere le esigenze di un vero rinnovamento

civile e spirituale. Esso era risultato riduttivo soprattutto, perché si limitava a ricercare le regole

mediante cui valutare i mezzi politici che conservano le società, cioè il legittimo potere dei

monarchi, e che mantengono tranquilli i popoli affinché non si rivoltino.

La Restaurazione aveva assunto il principio della religione come sostegno del trono e dei

governi e ciò contrastava cogli ideali di un rinnovamento religioso e spirituale espresso invece già

dalle Cinque piaghe, ove il tema principale è quello della libertà della Chiesa in materia di nomina

dei vescovi, che deve essere autonomo dal potere politico, fosse anche quello che promuove e

difende i vantaggi della Chiesa. Anche il tema della destinazione della ricchezza che è destinata ai

poveri e al semplice sostentamento del clero, vede la necessità di un rinnovamento del clero, il

quale si deve affidare tra l’altro ad un linguaggio comprensibile al popolo dei fedeli, ad una cultura

non di tipo scolastico come quella presente nei manuali ma capace di attingere la sua saggezza alle

fonti dei primi padri, con un linguaggio vivo e immaginifico che non muove solo le menti ma anche

i cuori dei fedeli. Non corrispondeva più alle sue convinzioni la tesi per cui “il governo cristiano

deve aver per fine ultimo la felicità soprannaturale”100. Era così messa in questione la tesi della

tutela così penetrante del potere politico sulla vita della Chiesa, che appunto deve reclamare

autonomia e indipendenza dal potere dello Stato. Il problema della politica andava organicamente

riformulato superando la visuale della Restaurazione in un momento critico della storia europea,

attraversata dai moti del 1830 in Francia, in Belgio e in Inghilterra. Non gli sfuggivano i problemi

che in tale contesto poi assumevano i crescenti problemi economici posti dello sviluppo industriale

e della connessa questione sociale. Una certa visuale che faceva del medioevo, organicamente

organizzato con ceti e corporazioni, l’età della perfetta coincidenza degli ideali cristiani con le

istituzioni feudali durate fino all’antico regime, veniva da lui rifiutata, perché era l’espressione di un

particolarismo giuridico che contrastava con l’universalismo della Chiesa.

Nel I Trattato della Filosofia della politica intitolato Della Sommaria cagione per la quale

stanno o si rovinano le umane società egli osserva che tutte le società per loro natura sono soggette

ad un movimento che le fa tendere o verso la conservazione oppure verso la loro rovina. La politica

come arte di dirigere la società, non potrà esimersi dal domandarsi quali siano i fattori decisivi, il

complesso delle cause (la “sommaria cagione”) che determina lo stare oppure il rovinare di una

società. Indovinare la sommaria cagione significa cogliere ciò che è essenziale all’esistenza di una

società ovvero trovare quale sia la “forza prevalente” in grado di garantirne la conservazione, forza

che non è sempre identica, mutando di luogo ovvero secondo i contesti storico-sociali. È così

100 A. ROSMINI, Opere inedite di politica, in Frammenti della Filosofia della Politica, ora in ID., Politica Prima, cit., p. 1.

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possibile individuare tre modelli di società, ove la forza prevalente avrà una sua peculiare

collocazione. Nelle società rozze e primitive la forza prevalente è costituita dalla supremazia fisica

attraverso la prevalenza degli uomini robusti e in armi. Questa fase dominata dalla forza fisica deve

essere superata da quella guidata dalla sottile prudenza o astuzia, ove alla materialità della forza

fisica succede la spiritualità dell’ingegno umano. In essa però gli uomini sono deboli perché nulla è

più sicuro in un mondo dove dominano solo gli astuti, potendo ogni uomo in qualsiasi momento

essere defraudato. Dalla prudenza sottile come forza prevalente è necessario passare alla prudenza

vera, in cui comandano uomini saggi e giusti; in questo modo le società diventano stabili e solide,

perché chi fa le leggi si ispira ai sacri princìpi della giustizia e della verità. La storia delle civiltà ha

mostrato che sempre ci si muove da una realtà meno solida ad una più solida. Il quarto grado della

serie da Rosmini viene individuato nel passaggio da un diritto esterno perfetto a uno che preveda

una tale convergenza fra diritto e morale, per cui la suprema forza sociale possa diventare la sola

virtù costantemente praticata. Se nelle precedenti società la vita virtuosa poteva sembrare

accidentale, ora essa sembra ai suoi occhi la condizione storica decisiva per la conservazione della

società.

Non si tratta più dopo la Rivoluzione francese di immaginare come riconquistare

cristianamente la società, ma di rendere più puro e più profondo l’insegnamento cristiano nelle

menti e nei cuori delle persone di ogni rango. Egli si dice infatti convinto che la suprema forza

sociale della virtù praticata senza limitazione, così come è e dovrebbe essere insegnata dalla

religione cattolica, può “rendere lo stesso cattolicesimo più e più puro nelle menti, più e più

profondo nei cuori, più e più effettivo nella pratica. Ecco a che si ridurrà la più consumata

politica”101. Sono proprio le forme sociali le quali riducono la religione a instrumentum regni quelle

che producono invece necessariamente a lungo andare l’eliminazione di qualsiasi effetto benefico

della religione sulla compagine sociale: “E’ un errore quanto comune altrettanto micidiale, il

considerare la religione o solamente o principalmente come politico mezzo di aiutare i materiali

vantaggi della umana società. Considerandosi la cristiana fede sotto questo punto di vista, ella cessa

di essere cosa divina, e diviene umana: da quell’ora poi è sfuggita dalle mani del legislatore e del

governo la sua benefica azione”102.

La politica è poi platonicamente connessa con la filosofia, dato che essa, come arte di

governo, non può essere separata dalla conoscenza del fine ultimo cui si deve indirizzare il governo

della cosa pubblica. Se la filosofia indaga le ragioni ultime delle cose, la filosofia della politica

come scienza indaga allora le ragioni ultime del governo della repubblica. Le scienze politiche

101 A. ROSMINI, Della sommaria cagione, cit., in Id., Filosofia della politica, cap. XVI, cit., p 351.102 Ibidem.

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speciali devono servire da mezzi di quella. Ciò di cui occorre tenere presente è che l’indagine è

relativa sempre alle azioni che muovono gli animi umani e ad essi ritornano: “perciocché a che

tendono naturalmente tutti i prodotti dell’attività se non ad appagare l’umano desiderio?”103. Se la

società politica è l’uomo in grande come per Platone, questo va inteso però non in senso

organicistico e naturalistico, ma nella prospettiva cristiana della individualità e della spiritualità

dell’uomo, la cui attività si spiega solo con la sua libertà, che ne permette di realizzare nella società

la personalità. Solo tenendo conto della persona nella sua integralità si può edificare una società

umana buona. È nello spirito umano che si debbono trovare le leggi per cui le società si avvicinano

o si allontanano dal loro fine, che è il perfezionamento sociale.

Le società infatti non stanno mai ferme, muovendosi sempre tra due limiti. Quello superiore

corrisponde all’ideale loro perfezionamento che non si riesce però mai a raggiungere. Quello

inferiore è invece dominato dalla loro decadenza e dal loro eventuale dissolvimento, come ci ha

testimoniato più volete la storia. Per questo il primo essenziale criterio politico cui devono mirare i

governanti, che sono stati capaci di conoscere le leggi psicologiche delle azioni umane, è quello di

perseguire ciò che costituisce la sostanza della società, anche a costo di trascurare ciò che la

perfeziona, senza mai commettere l’errore di perdere di vista questo fine ultimo. Lo studio dei

processi di crisi e decadenza delle società porta Rosmini a individuare le cause per cui le società

non prestano più attenzione alla sostanza della società, ma solo ai suoi accidenti. In questo senso

egli distingue la storia delle società in quattro età. La prima è quella dei fondatori e dei legislatori,

in cui il criterio della sostanza ispira il comportamento in tutti gli associati e ad esso sono informate

le istituzioni. La seconda è caratterizzata dalla potenza militare, ove ancora si ha di mira la sostanza

della società, però preoccupandosi soprattutto di sviluppare una tale forza da poter conquistare le

altre nazioni e di sviluppare la propria destrezza militare. La terza età è caratterizzata dalla

ricchezza, rispetto alla quale la sostanza non ha più un primato, provocando un indebolimento delle

istituzioni. La quarta età è infine quella in cui ci si abbandona ai beni materiali, ai piaceri e ai lussi,

al fine di condurre solo una vita ispirata alle raffinatezze di cose futili e accidentali, che ci

allontanano irreparabilmente dalla sostanza della società, provocando una crisi profonda che la

conduce al dissolvimento e a essere preda di altre società più coraggiose e forti104. Il problema è

dunque quello del rapporto fra il vecchio e il nuovo, ovvero fra tradizione e innovazione della

compagine sociale. Da una parte stanno cioè le disposizioni governative che assicurano la continuità

e la identità della società politica, mirando alla sua sostanza, e dall’altra le riforme necessarie che

perfezionano la società, accogliendo ciò che la può anche abbellire con aspetti accidentali che però

le sono utili.103 A. ROSMINI, Prefazione alle opere politiche, in Id., Filosofia della politica, cit., p. 47.104 cfr. A. ROSMINI, Della Sommaria cagione, in Id., Filosofia della politica, cit., cap. VII, pp. 83-85.

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Occorre comprendere il motivo per cui si preferisce l’accidentale al sostanziale e non si

avverte più l’importanza della distinzione fra i due ambiti e la loro necessaria connessione. Due

infatti sono le forze che Rosmini individua nella determinazione del movimento della società: la

ragione pratica delle masse da una parte e la ragione speculativa degli individui dall’altra. Il

destino delle società è stato determinato dall’intreccio di dinamiche di massa per un verso e di

impegno individuale per l’altro. La ragione pratica delle masse è la forza prevalente delle società,

che si muovono ispirate da una sorta di istinto sociale il quale non è affatto cieco e, non muovendosi

sulla base di calcoli complessi e di previsioni lontane, mira comunque al vantaggio presente ed

immediato delle masse. Essa è stata per certi aspetti determinante al punto tale che, come nelle

società antiche, è diventata prevalente. La sua forza sociale straordinaria ha permesso la nascita e lo

sviluppo di repubbliche e regni, i quali talvolta o spesso, per essersi allontanati dal perseguimento

del bene sociale principale, sono precipitati nella rovina. La capacità di costruzione della ragion

pratica delle masse si è resa evidente soprattutto nelle fasi storiche di costruzione, in cui il bene

sociale viene percepito immediatamente come desiderabile dalle masse e in cui ciascuno facilmente

lo identifica col suo. Poi è accaduto storicamente che il vero bene sociale non è stato più

immediatamente percepito come tale dalle masse, che non sono state più capaci di interpretare cosa

era bene per loro. Gli individui avevano dovuto rinunciare ai loro particolari interessi per il bene

sociale, senza potersene spiegare il motivo. Addirittura nelle fasi di opulenza delle società,

consolidati i loro fondamenti costituzionali, che li ha fatti sopravvivere sani fino ad allora, e

debellati i loro nemici esterni, le moltitudini si sono presentate talmente sicure di sé da ostentare

non solo gloria e potenza, ma anche e soprattutto lusso e ricchezza. La ragione speculativa degli

individui invece rappresenta la capacità dei migliori uomini di essa a guidare un popolo; essi,

conoscendo le leggi generali secondo cui si muovono le società, sanno prevedere gli effetti lontani

delle scelte presenti; per questo essi sono i più esercitati a pensare a lungo termine. Essa è diventata

prevalente nelle società cristiane, perché nel mondo fuoriuscito dal paganesimo si sono imposti

uomini capaci di guidare o contrastare con successo la ragione pratica delle masse, illuminandola

con la rigenerazione della coscienza critica che appartiene agli individui. Essa consiste cioè nella

capacità che hanno alcune personalità eminenti di una società di prendere decisioni efficaci in

determinati momenti storici.

Infatti nella società sono presenti due ordini di beni, quelli immediati e prossimi, come i beni

materiali che accrescono il godimento dell’anima e sono raggiungibili a breve e medio termine, e

quelli remoti, come i beni morali che favoriscono la perfezione morale dell’uomo e sono

raggiungibili a lungo termine. I politici migliori sono coloro che sanno condurre le nazioni verso un

futuro di progresso e di civiltà, solo se sanno guardare alle esigenze sostanziali o primarie di essa,

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avendo cura di subordinare a tali esigenze ciò che è accidentale o secondario. Chi invece antepone

la sfera degli accidenti alla sostanza è un politico ‘astratto’, che non sa prima di tutto leggere le

vicende del proprio popolo nel quadro universale delle vicende umane e vede poi solo alcune parti

dell’uomo trascurandone la dimensione integrale. Per Rosmini bisogna realisticamente considerare

che ogni persona, prima di essere un cittadino, è un uomo dotato di dignità infinita grazie alla

presenza in lui del divino, che è l’idea dell’essere presente nella sua mente: in lui la ragione divina e

la ragione umana non coincidono affatto, dato che Dio ha infuso in ogni anima umana una

dimensione divina che ha i soli caratteri della universalità e della necessità ideale, ma non la

sussistenza reale che sta nelle cose create e contingenti. Essa però è il lume della ragione. La forza

amativa della conoscenza quindi sta nel volersi universalmente congiungersi con ogni cosa

desiderando di conoscerla, procurando in questo impegno la sintesi della percezione intellettiva in

cui avviene l’unione fra l’universalità dell’idea dell’essere con la concretezza della sensazione

offerta dal sentimento fondamentale corporeo. La persona non esaurisce le sue funzioni

nell’appartenere allo Stato (come vorrebbero Hegel e Marx) proprio in ragione di tale infinita

nobiltà che lo Stato deve riconoscere e rispettare. Considerare poi i cittadini solo in funzione della

utilità che essi possono arrecare allo Stato, significa abbassarli dalla condizione di fini o persone

alla condizione di cose o strumenti, che valgono come un branco di pecore e non di uomini.

Proprio perché l’uomo desidera insieme sia i beni eudemonologici e sia i beni etici, la

ragione pratica delle masse è da sempre intrecciata con la ragione speculativa degli individui. Ora,

nel corso delle vicende umane il cristianesimo è stato l’unico fattore storico in grado di generare

personalità individuali capaci di opporre resistenza non velleitaria ma efficace al seppur non

completamente cieco movimento delle masse verso la rovina delle società. Esso infatti è stato

capace di staccare il personale destino di ogni singolo dai dinamismi predeterminati della natura e

della storia, per percepire concretamente di essere parte di un destino sovrannaturale e

sopramondano che esige da esso un’obbedienza a Dio che viene prima di ogni obbedienza agli

uomini, siano pure i pochi potenti o le numerose masse o maggioranze. Il cristianesimo ha reso cioè

la persona cosciente del suo coraggio di svincolarsi dalle impersonali dinamiche della ciclicità delle

forme di governo accettate passivamente dalle masse, per far fronte ad esse anche in solitudine.

L’immissione degli uomini in una relazione con la trascendenza ha rigenerato dopo il paganesimo la

vita personale e sociale di una quantità indefinita di uomini delle diverse generazioni, coscienti che

staccando il proprio destino dal mondo, essa li ha resi indirettamente capaci di prendersi cura di

esso e anzi di giovargli.

Rispetto ai programmi di rinnovamento sociale e democratico di Tommaseo, che lo invitava

in tal senso, egli ricordava quanto segue: “chi non ha collocato il punto fermo nell’altra vita, questi

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non potrà essere atto a dar nuovo movimento agli uomini, ma solo a secondarne debolmente il

corso”105. Di fronte all’amico che auspicava il recupero della dimensione sociale del cristianesimo

che fosse capace di dispensare agli uomini anche i beni terreni, per smentire le calunnie rivolte alla

religione cristiana di essersi fatta nemica della felicità terrena e facendo sostanzialmente del

cattolicesimo un elemento di rigenerazione sociale, Rosmini rispondeva che il cristiano sa che

Buona Novella è ancora sconosciuta a molti popoli e che nessuno può pensare di potenziare da sé

gli effetti di essa, cercando tra l’atro di disperdere con le sole forze umane il male. Questo sarebbe

un peccato di superbia. Nel momento in cui dialogava con Tommaseo, aveva scritto le Cinque

Piaghe, ove spiegava come nel passaggio dall’età antica a quella medievale, con la crisi dell’Impero

romano e le invasioni barbariche, la Chiesa dovette venire in soccorso di un mondo disperato e

prendere in mano una società che rischiava la rovina. I principi del Vangelo entrarono quindi nelle

leggi dell’ordine civile grazie alla grande influenza che essa ebbe sui ‘politici reggimenti’ di regni e

società violente e tiranniche quant’altre mai. Esse erano fondate sull’arbitrio e la schiavitù, ma a

poco a poco furono convertite ad una forma di convivenza più giusta e fraterna conformemente al

modello stabilito da Cristo per il governo della sua Chiesa. Ma il tempo della conversione delle

società è terminato ed è pronta una nuova era per la Chiesa. Per il Roveretano era necessario

prendere coscienza della differenza fra la ‘fedeltà evangelica’, che nasce dalla coscienza e ha per

fondamento la rettitudine della giustizia, e la ‘fedeltà politica’ che nasce da vincoli di umano

interesse e ha per fondamento l’utilità. Se i vescovi vogliono essere uomini di giustizia devono

poterlo essere liberamente. La missione sociale del cristianesimo non viene così negata, ma non

deve potere essere più affidata alla gestione del potere in supplenza. Essa richiede una rigenerazione

interiore e una testimonianza della verità del Vangelo attraverso una fedeltà che mostri il vero volto

della giustizia nell’essere politicamente inerme: “La Chiesa è inerme (intendo di armi materiali)”106.

Il tema quindi che la vita futura sia un punto fuori del mondo, sul quale punta la religione quando si

esprime nei termini autentici della escatologia e del trascendente, per operare paradossalmente a

vantaggio della società staccando gli uomini dai soli interessi materiali, torna ancora nella Filosofia

della politica quando Rosmini afferma: “La cristiana religione non può migliorare la condizione

temporale degli uomini se non a questa condizione, che ella divenga professata sinceramente, come

istituzione al tutto soprannaturale, la quale non si cura delle cose istantanee e limitate di questo

mondo, ma mira alle eterne ed infinite”107.

105 N. TOMMASEO, A. ROSMINI, Carteggio edito e inedito, a cura di V. Missori, 3 voll., Marzorati, Milano 1967-69, cit., II, p. 206.106 A. ROSMINI, Cinque piaghe della Santa Chiesa, a cura di A. Valle, Città Nuova, Roma 1999, p. 126, ma vedi anche le pp. 69 e 83-84 sul processo di costituzionalizzazione del violento potere dispotico delle monarchie pagane grazie al potere inerme della Chiesa che non è che un ministero di servizio; esso ha aiutato a far sentire tutti dei figli dello stesso Dio di uguale dignità, eliminando a poco a poco che vi fossero pochi uomini a cui i molti fossero dei puri mezzi.107 A. ROSMINI, La Società e il suo fine, in ID., Filosofia della politica, cit., 447.

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Sul senso della origine della società, cui dedica il secondo libro che s’intitola La società e il

suo fine, egli offre una serie di fini osservazioni. Affinché ci sia una società civile non basta la sola

coesistenza, che è tale anche per le pietre; perché la comunità politica si formi occorre che più

persone libere ed uguali convengano tra loro sulle modalità di esercizio dei loro diritti,

organizzandosi colla creazione di governi. Le scelte politiche e i provvedimenti governativi devono

garantire l’esistenza e il perfezionamento della società, tenendo conto del limite ontologico inerente

a qualsiasi attività. Le concezioni politiche che prescindono dalla considerazione di tale limite da

Rosmini vengono chiamate appunto con il termine di perfettismo, che rappresenta in particolare una

tendenza della politica moderna e contemporanea. Egli così lo definisce: “il sistema che crede

possibile il perfetto nelle cose umane, e che sacrifica i beni presenti alla immaginata futura

perfezione, è il sistema dell’ignoranza”, in quanto “si giudica dell’umana natura troppo

favorevolmente, se ne giudica sopra una pura ipotesi (…) e con mancanza assoluta ai naturali limiti

delle cose”; la conseguenza è che “il popolo e gli autori delle dottrine popolari credono che con i

mezzi del governo si possono ottenere qualsiasi quantità di beni, di guisa che tutti, niuno escluso, ne

abbia d’avanzo”108. La esistenza di un bene impedisce talora quello di un altro maggiore e spesso

l’esistenza di un bene ha connessa con sé quella di alcuni mali. La politica deve mirare a creare il

‘maggiore effetto buono ultimo’ ossia totale, cioè sommata la ragione al contempo e dei beni e dei

mali. L’esperienza giacobina per lui invece ha prodotto l’illusione che si possa attuare un

ordinamento in vista del bene dell’umanità riducendo ad eventi del tutto trascurabili i mali necessari

per conseguirlo; essa però scaturisce dalla mancanza della consapevolezza del limite oggettivo

inerente all’azione di ogni governo.

Nella seconda parte quindi della Filosofia della politica Rosmini intende cercare i criteri che

si riferiscono al movimento della società verso il suo limite superiore ovvero la sua ideale

perfezione. Dato ciò, si può valutare correttamente i mezzi di governo. La società è l’insieme dei

rapporti che ci sono fra gli individui e dei vincoli fra questi e le cose. La società sussiste in virtù

della ragione, ma questa può esprimersi e svilupparsi solo se esiste la condizione della esistenza di

una società. Il rapporto giuridico tende a dividere le persone contrapponendone i diritti e i doveri. Il

rapporto politico della società si comprende se distinguiamo la società dalla proprietà da una parte e

dalla signoria dall’altra. Con il vincolo di proprietà l’uomo realizza un rapporto di utilizzazione con

le cose in cui l’uomo le usa come mezzi per raggiungere dei fini. Il vincolo di società con le persone

non va confuso con il vincolo di amicizia o di beneficenza, in cui la relazione è ispirata alla pura

gratuità. L’uomo si relaziona agli altri sempre per procacciarsi qualche bene. Ma il bene sociale non

consiste nell’utilizzare l’altro come cosa, perché si tratta invece di raggiungere un bene che deve 108 A. ROSMINI, Della sommaria cagione, cap. XIV, in ID., Filosofia della politica, cit., p. 104; La società e il suo fine, l. IV, cap. X, ivi, p. 401.

Page 184:  · Web viewRimane fermo però che il cristiano può disobbedire alle leggi contrarie a quella divina. La teoria costituzionale a forma di governo che consenta di far valere nei confronti

essere condiviso cogli altri soci. Perché si realizzi la più alta delle condivisioni che la società

prevede, ci deve essere un comune volere pienamente consapevole di mirare insieme ad uno stesso

bene, il quale preveda la messa in comune dei mezzi necessari per raggiungerlo. Fare società (anche

per i briganti) è sempre una conseguenza della volontà degli associati di ricevere del bene, ottenere

cioè dei vantaggi. Ma se questa volontà rimanesse puramente egoistica, essa non potrebbe mai

condurre alla istituzione della società; nessuno si avvincolerebbe con chi persegue unicamente il

proprio interesse. Ecco allora il paradosso della politica: ci si associa per ricevere dei vantaggi, ma

si scopre che ciò è possibile solo se tutti i soci vogliono per tutti ciò che ciascuno vuole per sé.

L’associarsi funziona solo se ciascuno degli associati è disposto a dare o comunque a condividere il

suo bene con tutti: “Più persone fanno società insieme a intendimento di procacciarsi qualche bene,

che è il fine della società. Questo bene dee essere procacciato a vantaggio di tutte le persone che

compongono la società, altramente quelle persone non si potrebbero dir sozie. (…) Dunque

ciascuna delle persone associate, per natura stessa della società, desidera il bene di tutte”109. Nella

società esiste quindi un essenziale elemento morale, che il rispetto o giustizia fra i soci, che ognuno

deve volere per se e per gli altri. Nella società deve cioè essere di per sé superato l’uso strumentale

delle persone, ma si deve anzi riconoscere in ogni altro l’uguale titolo di fine dell’intero agire

sociale. Senza questo vincolo morale, che impone il volere il bene dell’altro, la società si rompe.

Nessuna società può mai prescindere dal rispetto della dignità di ogni persona. Il vincolo

sociale è diverso anche da quello di signoria, in virtù del quale un uomo come il ‘signore’ considera

in certo modo ‘suo’ un altro che è il suo ‘servo’. I due sono nettamente separati. Egli condanna in

mmodo assoluto il vincolo signorile, anche se sa che la vicenda umana risulta da un complesso

intreccio di elemento sociale (ove la relazionalità è libera e paritaria tra i soci) ed elemento signorile

(ove esistono rapporti di subordinazione fra servo e padrone). Rosmini ammette, sì, una servitù

temperata, ma la relazione non prevede la proprietà del servo, ma solo sull’opera del servo, ossia sul

suo lavoro, mai sulla sua persona. L’opposizione rosminiana fra signoria e società impone di

considerare società solo quella in cui non esistono rapporti di servitù: “la società suppone la libertà

(…) fra servo e padrone non vi ha uguaglianza, perocché il servo come servo non è che un mezzo,

di cui il padrone è il fine”110. Dalle dinamiche sociali e pubbliche di dominio è stato per lui il

Cristianesimo a riscattare definitivamente l’umanità; la secolare lotta fra papato e impero esprime il

conflitto infatti fra elemento sociale seminato dai pontefici ed elemento signorile proprio dei regni

terreni.

109 A. ROSMINI, La Società e il suo fine, in ID., Filosofia della politica, cit., pp. 168-169.110 A. ROSMINI, La società e il suo fine, in ID., Filosofia della politica, cit., p. 197-201).

Page 185:  · Web viewRimane fermo però che il cristiano può disobbedire alle leggi contrarie a quella divina. La teoria costituzionale a forma di governo che consenta di far valere nei confronti

Qual è il fine ultimo della società? Il vero bene umano è la virtù morale e tutti i beni che

possono stare con essa. La virtù è l’atto personale con cui ognuno aderisce all’essere nel suo ordine

proprio. Ciò dà luogo ad effetti eudemonologici, a stati di piacere. Ciò a cui deve mirare la società è

l’accrescimento della natura morale delle persone. Il fine ultimo della società risiede quindi

nell’appagamento dell’animo umano, che è uno ‘star bene virtuoso’. Esso si differenzia

evidentemente sia dalla beatitudine che si prova nella vita ultraterrena sia dal puro piacere materiale

dei sensi, che non richiede l’uso della riflessione per cercare la virtù. Rosmini insiste molto sulla

necessità che devono avere i politici di conoscere le leggi psicologiche (una vera teoria dei

sentimenti o delle emozioni!) al fine di evitare lo stato di insoddisfazione in cui si trovano i popoli

quando si sentono inappagati. Nessuna società umana è legittima, se si propone di raggiungere uno

scopo che non sia l’appagamento degli animi dei propri cittadini, che si ha quando esercitano la

virtù. Nessuna legge ha valore se impedisce ai soci di pervenire alla virtù: “gl’individui sono

necessariamente il fine delle società; (…) l’individuo adunque non serve ad alcuna cosa; ma tutto

serve a lui, cioè a far sì che egli ottenga il suo fine”111.

Però già al tempo di Rosmini si erano formate delle società che avevano preteso di assorbire

indebitamente in sé il fine ultimo, impossessandosene in modo esclusivo. Talune forme dispotiche

moderne, pur ammantandosi dei più alti titoli di eticità, realizzano invece la forma più sottile e

distruttiva di violenza, pretendendo che l’animo umano trovi appunto appagamento solo in esse o

per mezzo di esse. Questa concezione totalizzante della politica va per lui respinta, anche quando a

realizzarla ci sono le maggioranze democratiche, che non sono esenti da forme di dispotismo.

L’appagamento dell’animo non è opera degli Stati o dei governi. Il principio costitutivo della

società è l’uomo in quanto persona, cioè un “individuo sostanziale, intelligente, in quanto contiene

in sé un principio attivo, superiore incomunicabile (…) in una parola l’elemento personale che si

trova nell’uomo è la sua volontà intelligente, per la quale egli diventa autore delle sue

operazioni”112. Le vere trasformazioni sociali avvengono nella società invisibile degli spiriti, che

riportano ad unità la dispersa molteplicità dei beni materiali; poi esse appaiono nella società

visibile, in cui gli individui si scambiano con reciproco vantaggio le cose. Infatti, concepire la

società come semplice aggregazione di beni materiali può essere definita coabitazione, ma non

società. Il vero bene umano non può essere che l’appagamento, che si ha fra coloro che mettono

insieme un bene di cui tutti godono senza che esso diminuisca col contemporaneo godimento di

tutti. Gli uomini desiderano aver grande copia di beni sensibili e perseguire tanti piaceri. Sperano

inoltre di trovare in essi il loro appagamento. Se non lo trovano dipende solamente da un loro

errore, perché l’hanno cercato dove non poteva essere oppure scegliendo mezzi inidonei a 111 A. ROSMINI, Filosofia della politica, cit., p. 263, 296.112 A. ROSMINI, La società e il suo fine, in Id., Filosofia della politica, cit., l. III, cap. III, p. 137.

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procurarselo. Ancora perché ignorano quali siano le condizioni del vero appagamento. Ad esso non

portano né i soli beni materiali come pensavano gli epicurei, né la sola volontà come pensavano gli

stoici: esso risulta dalla unione di beni reali, che sussistono indipendentemente dalla volontà umana,

e dal giudizio, che promana dalla volontà con cui l’uomo si ritiene soddisfatto. Senza la conoscenza

della topografia del cuore umano la ricerca di esso sarebbe vana. L’appagamento deve essere

considerato il fine ultimo o remoto delle società, mentre i mezzi il fine prossimo, cioè la concreta

disponibilità dei beni reali. Il fine remoto dell’appagamento appartiene agli individui e rientra

nell’ambito della società invisibile, mentre il fine prossimo costituito da beni materiali e piaceri

sensibili si riferisce alla società esterna che ce li fornisce. Il governo non può disinteressarsi del

tutto dell’appagamento dei cittadini, perché ciò non è un’opera aliena alla società. Il suo ruolo è

quello non solo di non porre alcuno ostacolo agli individui nel conseguimento del loro vero bene

umano come l’appagamento, ma anche quello di avere il dovere di operare positivamente coi soli

mezzi propri per far sì che gli individui siano avviati e mossi all’acquisto di tale bene. Il governo in

ciò ha precisi limiti. Infatti gli individui, nel costituire la società, si sono riservati il diritto di

conseguire in piena autonomia il proprio appagamento, scegliendo mezzi e attività che ritengono

più adatti a tale fine. L’amministrazione pubblica deve per Rosmini riflettere sul fatto che la felicità

individuale non è opera sua. La felicità dipende dal sentirsi appagati coi soli mezzi a disposizione.

Esso dipende quindi da un giudizio dell’intelligenza, che stabilisce quali siano i beni reali che sono

necessari al raggiungimento della propria perfezione morale, che è la vera condizione della felicità

personale.

Seguendo la suggestiva interpretazione di P. Piovani nella sua opera su La Teodicea sociale

di Rosmini (Padova 1957), si può osservare dunque che qui ha origine la polemica di Rosmini nei

confronti del mito perfettistico tipico di alcune dottrine politiche moderne. Le limitazioni della

persona umana sono in primo luogo dovute alla sua contingenza creaturale, per cui anche l’uomo è

ontologicamente limitato dalla legge universale cui è sottoposta tutta la creazione: “La limitazione

(…) entra nella natura di tutte le cose fuori di Dio”113. Ogni cosa che non è da sé, come dice già la

tradizione della Scolastica, implica una originaria limitazione, essendo le creature altro dal

Creatore; sarebbe quindi una contradictio in terminis pensare le cose create senza questa

limitazione, perché è un assurdo pensarle creature senza essere create. Dal punto della conoscenza

questo risulta evidente dal fatto che, pur essendo egli capace di conoscere la verità e di raggiungere

certezze, deve riconoscere i limiti e le condizioni in cui ciò può avvenire, per cui questo dimostra

sia la sia verace grandezza della nostra mente sia la nostra verace piccolezza. Da qui la posizione di

un sempre instabile equilibrio che evita sia il dogmatismo della ragione sia lo ‘spaventevole

113 A. ROSMINI, Teodicea, a cura di U. Muratore, Città Nuova, Roma 1977, n. 189.

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scetticismo’. I mali fisici e morali hanno la loro base nella limitata esistenza dell’uomo che possiede

solo una libertà condizionata. Ma all’uomo compete pure per la sua infinita dignità la “signoria

delle proprie azioni”114. che è un’arma a doppio taglio purtroppo, dato che la libertà della creatura

umana è “soggetta a difetto”115 e di fronte alla scelta fra il bene e il male essa è imprevedibile. Può

sia realizzare se stessa portando a compimento l’opera del suo perfezionamento morale oppure fare

il contrario cioè mancare nell’opera di perfezionarsi. Nell’uomo le potenze sono legate e

subordinate le une alle altre come anelli di una catena. L’ultimo anello è la libertà con la quale egli

domina sulle altre potenze di cui egli è composto e su cui fa sentire il suo dominio. In linea di

principio tale subordinazione è armonica, ma tale gerarchia spesso non viene rispettata, perché la

libertà non sempre è dominatrice assoluta sulle altre potenze che operano comunicando di mano in

mano nella vita quotidiana. Infatti le varie facoltà soggettive inferiori possono agire in modo

indipendente sottraendosi all’egemonia della libertà, che così si trova ad essere confinata ad agire

entro determinati limiti. E’ qui che per Rosmini si pare il varco alla possibilità di compiere il male.

Ora la tradizione biblica, insieme ad altre del genere umano, ha sempre sottolineato questo

limite pesante posto alla libertà dell’uomo, chiamandolo ‘peccato originale’, dato che non se ne può

dare ne una spiegazione razionale né indicarne una origine empirica, se non attraverso la

mediazione del mito del Genesi. La condizione storica dell’umanità è così da sempre condizionata

dallo status naturae lapsae della caduta iniziale, che spiega molte delle limitazioni che

circoscrivono l’umana libertà. Dalla natura pare che l’uomo abbia tratto allora un disordine morale

illustrato da miti e simboli delle vetuste tradizioni, per cui giace nel profondo della natura umana un

‘guasto morale’, che la esperienza giornaliera ci attesta come un istinto infedele che trascina il cuore

umano verso l’abisso del male. Seguendo la tesi tommasiana per cui il peccato si trasmette secondo

la modalità della traduzione, che consegue quella naturale, le leggi della generazione prevedono che

la volontà deteriorata dei progenitori a causa del peccato sia ereditata dai generati. Tale disordine

morale originale ha intaccato la umana volontà rendendola così mal disposta verso la legge morale e

verso Dio116. I risvolti politici e sociali di questo guasto originale si possono vedere proprio nel

pedaggio pagato alla libertà delle persone e dei popoli. Piovani dice : “il peccato originale, relitto di

culture lontane dalla moderna, non solo non si è inabissato nel mare magnum della storia, ma

ancora, in un modo o nell’altro, ne domina l’orizzonte”117. Solo che occorre ricordare sempre con

Piovani che “anche sulla strada della libertà politica dei popoli, quel pedaggio va pagato senza

pretendere che l’errore dei governanti e di governati possa essere definitivamente vinto da una

114 A. ROSMINI, Teodicea, cit., n. 193.115 Ibidem.116 Cfr. A. Rosmini, Antropologia in servizio della scienza morale, a cura di C. Riva, Roma-Milano 1954, nn. 689, 750-757; Id., Teodicea, cit, n. 2012. 117 P. PIOVANI, La Teodicea sociale di Rosmini, cit., p. 382.

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perfetta costituzione della società civile”118. Invece in ciò sta proprio l’errore dei sistemi perfettistici

che presumono di programmare tutta la vita della comunità socio-politica in ogni particolare

escludendo anche che nel futuro programmato qualcuno possa compiere dei passi falsi,

allontanandosi dalle scelte progettate per raggiungere infallibilmente gli scopi prefissati. La società

perfetta è quella che risulta caratterizzata, infatti da un assoluto ottimismo verso la propria

impostazione, che non può mettere nel suo conto l’imprevisto, l’errore o semplicemente la critica.

Per questo, come osserva Piovani, il suo governo deve essere necessariamente autoritario, dato che

non può tollerare nessuna impurità storica119. Ciò esige l’elaborazione di quel particolare impianto

pedagogico legato alla nuova precisa visione antropologica, che impone di educare l’uomo nuovo

ad adeguarsi alle regole e agli ideali della struttura socio-politica inventata solo attraverso le

articolazioni esclusive dello Stato, affinché gli uomini siano indotti a non deviare da questa

necessaria uniforme omogeneità di una grigia cultura della pianificazione. Rosmini lo spiega

osservando nel Saggio sul comunismo e socialismo che “i riformatori sociali” giungono ad “una

inaudita intolleranza” contro tutti coloro che non si uniformano alle “loro massime”, che ritengono

il toccasana per eliminare tutti i mali della società. Ma la società che non tollera la libertà dei suoi

soci non è una vera società, la quale per essere tale “suppone la libertà”, anzi esiste per promuoverla

ed accrescerla120. Per lui quindi l’utopia perfettistica nasconde la grave insidia del più puro

dispotismo totalitario, che da lì a poco si espliciterà nelle ideologie comuniste, fasciste e naziste.

Tale dispotismo si maschera abilmente con la presentazione delle riposte politico-statali come

l’uniche capaci di dispensare felicità e benessere per tutti i cittadini della polis perfetta. Questi

vagheggiati sistemi politici poi si trasformano in una sorta di religione secolare che pretende di

costruire il paradiso in terra. Rosmini criticando in particolare i saintsimoniani indicati come nuovi

apostoli di questa religione, mette in guardia dalle subdole illusioni che essi spacciano alla gente.

Infatti le loro ideologie portano a divinizzare l’uomo non considerando affatto i suoi limiti. Essi in

particolare “tanto hanno desiderio di adulare la umana natura, che non esitano a fingerla costituita

con sì possente legge di perfettibilità, cui nessuna altra forza può sospendere, nessun accidente

trattenere da quel corso e da quel termine di fatale felicità e indefinibile perfezione, a cui ne la

portano i suoi stupendi ciechi destini”121. Eccoci così giunti a comprendere meglio la definizione

che Rosmini offre del perfettismo come quel “sistema che crede possibile il perfetto nelle cose

umane”122.

118 Ivi, p. 347.119 Cfr. Ivi, p. 372.120 Cfr. A. ROSMINI, Saggio sul comunismo e socialismo, a cura di C. Riva, Pescara 1964, p. 41.121 A. ROSMINI, Frammenti di una storia della empietà, a cura di A. Cattabiani, Borla, Torino 1968, p. 145.122A. ROSMINI, Filosofia della politica, cit., p. 104.

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Tornano di attualità le prospettive della migliore tradizione del risorgimentalismo italiano.

Rosmini, quando è entrato in vigore lo Statuto albertino nel 1848, ha avuto il coraggio di

denunziarne le ambiguità relativamente ai rapporti tra Stato e Chiesa nell’opera Le principali

questioni politico-religiose della giornata apparsa sulla rivista “Armonia” nel 1853. La funzione

della Chiesa è di tramandare la verità che salva la morale e la vita associata. Per questo la religione

cattolica non può essere religione di Stato, perché esige libertà di pensiero e di espressione. La

libertà di coscienza è inviolabile per gli appartenenti di ogni culto, per cui non si può non concedere

a tutti la possibilità di esercitare le leggi della propria religione. La religione cattolica non ha

bisogno di protezioni politiche ma di libertà nelle sue decisioni morali e disciplinari. Questa visione

si è affermata nel Concordato rinnovato nel 1984. Occorre ricordare che Rosmini evita di

considerare valide due prospettive per i rapporti fra Stato e Chiesa. Respinge il sistema

dell’immistione, che ammette che ci siano materie comuni a Stato e Chiesa e che l’uno entra nella

sfera dell’altro (è il caso della scuola e della nomina dei vescovi). Respinge anche il sistema

dell’alleanza, perché eventuali vantaggi politici per la Chiesa vengono pagati al caro prezzo della

libertà: la Chiesa che è di origine divina, è la rappresentazione visibile della società di ogni uomo

con Dio e ha i suoi diritti connaturali di esistenza, riconoscimento, libertà, propagazione e proprietà.

Questo è stato il modello seguito dalla formula “libera Chiesa in libero Stato”, che ha ispirato il

principio della religione di Stato dello Statuto albertino, in cui si prevedeva che era lo Stato e solo

esso a riconoscere la religione cattolica. Il vero sistema da accogliere è quello dell’organismo, che

elimina per Rosmini la separazione e mantiene la distinzione e i rapporti di buon vicinato fra

religione e politica, fra Stato e Chiesa. La natura del potere della Chiesa istituita da Gesù Cristo in

mezzo agli uomini e la natura dello Stato istituita dagli stessi uomini che si aggregano nella società

civile, hanno in comune il potere di unire gli uomini in due società contemporanee e su uno stesso

territorio. La Chiesa unisce gli uomini in una grande famiglia, affinché in armonia cooperino alla

propria perfezione morale, mentre lo Stato li unisce senza ergersi a detentore della moralità per un

fine come la coesistenza sicura, pacifica e prospera nell’ambito temporale senza impedire il fine

della Chiesa. Le molteplici finalità degli Stati non coincidono con l’esclusivo fine universale della

Chiesa, che nel suo seno tutti li abbraccia costituendendo l’ideale dover essere per i singoli Stati

stessi. Queste istituzioni, garantendo il bene comune, promuovono la pace religiosa verso la

diffusione della verità custodita dalla Chiesa, che esplica senza limitazioni e vincoli la sua missione.

Far causa comune coi governi da parte della Chiesa fa sì invece che poi venga combattuta anch’essa

come un partito politico o come strumento di potere.

I beni umani possono essere o reali o ideologici. Il problema politico fondamentale è allora

ricavare la somma totale dei beni della società, al fine di poter valutare l’entità della ricchezza

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sociale e di poter garantire un equa partecipazione degli associati ai benefici che da quella derivano.

I meri dati quantitativi non bastano per esprimere una valutazione, dato che non tengono conto del

modo in cui si distribuisce la quantità dei beni e dei mali. Qui egli critica l’utilitarismo di Bentham

ripreso in Italia da Gioia. La massimizzazione degli utili non tiene conto che le ricchezze potrebbero

concentrarsi in determinate categorie sociali, anche se venissero distribuiti fra il maggior numero di

cittadini: potrebbe accadere sempre che le maggioranze potrebbero opprimere o sacrificare le

minoranze. Anche le concezioni collettivistiche e socialistiche, come dice nel Saggio sul

comunismo e socialismo, finiscono per mortificare e misconoscere il principio della libertà di scelta.

Il compito del governo è solo quello di operare affinché la società consegua la maggior quantità

possibile di bene netto, alla cui fruizione debbono poter partecipare il maggior numero possibile di

persone.

Per concludere possiamo citare una pagina quasi sconosciuta di Augusto Del Noce, che così

ha scritto nel settembre del 1982 in una sua conferenza sull’attualità della Dottrina sociale cristiana:

“Giovedì della scorsa settimana parlavo a Stresa, in un convegno del “Centro Internazionale di

Studi Rosminiani” sulla “riscoperta del Rosmini politico. Se anche questo non fosse l’argomento

centrale del mio discorso, non potevo mettere da parte la sua critica del perfettismo, definito da me

quel sistema che crede possibile la perfezione nelle cose umane, e che sacrifica i beni presenti alla

immaginata futura perfezione, dimenticando che non si ha nelle cose umane miglioramento di

qualsiasi genere che non avvolga con sé qualche nuovo male, per una legge profonda, ontologica,

ineliminabile. Il che non vuole affatto autorizzare un pessimismo quietistico, ma l’opposto, fondare

l’idea di perfettibilità, nel senso che la lotta contro il male e la realizzazione di un sempre relativo

perfezionamento – osserva Del Noce – è compito dell’individuo ed è quindi lotta che può, sì,

minimizzare il male, vincibile in questo preciso momento, ma non estinguerlo nella sua radice. Quel

che più importa è che l’origine dell’errore perfettistico deve essere ricercata nella prevalenza

accordata alla facoltà di ordinare che presenta allo spirito le qualità separate delle cose rispetto alla

facoltà di pensare che concepisce le cose nel loro essere intero. L’uso legittimo della facoltà di

ordinare è, per Rosmini, di rimuovere dal perfezionamento sostanziale dell’umana società i difetti

accidentali, e in questo senso la sua funzione di grande utilità per il progresso sociale. Se però la si

assolutizza nascono forme di perfettismo, ognuna fondata sull’isolamento di una qualità: sul

particolare uso politico della libertà e della giustizia. Ora, per Rosmini, i secoli dell’età moderna, a

differenza del Medioevo sono stati appunto caratterizzati dalla prevalenza della facoltà di ordinare e

dal conseguente perfettismo. Seguendo il suo pensiero, potremmo dire – conclude Del Noce – che

le forme essenziali del perfettismo sono il liberalismo (astrazione del momento della libertà) nella

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conseguenza che gli è essenziale, il liberismo economico nelle varie forme in cui si presenta e che

caratterizzano oggi l’occidentalismo e il comunismo (astrazione del momento della giustizia)»123.

18. J.S.Mill: democrazia e differenze

di Paolo Armellini

Proprio mentre uscivano i volumi “Democrazia in America”, J.S. Mill (Londra 1806 – Avignone

1873) ne scriveva due recensioni sulla “London and Westuinster Review” del 1835 e del 1840

(Cfr.J.S.Mill, sulla “Democrazia in America” di Tocqueville, a cura di D.Cofrancesco, Guida,

Napoli 1971), mostrando notevole interesse per la tesi fondamentale in essa contenuta: la

democrazia ha avuto grandi pregi ma presenta pericoli specifici che la minacciano, come la

tirannide delle maggioranze sulle minoranze, l’egualitarismo livellatore, il conformismo di massa.

Ma una disamina del suo pensiero non può tener conto della sua critica all’utilitarismo2

individualistico di J. Bentham e al socialismo statalistico1 . per quanto riguarda il secondo egli nell’

“Utilitarismo” (1861 – 63) dice di accettare il principio secondo cui la vita individuale è orientata

alla realizzazione della massima felicità possibile, ma non è convinto come il padre J. Mill e J.

Bentham che l’autorealizzazione consista nel conseguimento del proprio interesse individuale,

poiché per lui la felicità è da intendersi come soddisfacimento della libera tendenza alla formazione

del proprio io intesa come maturazione spirituale e culturale. Qui la massimizzazione del piacere è

posposta alla qualità dello sviluppo personale, che, quanto più risulta differenziato per le scelte e gli

stili di vita, tanto più promuove la felicità dei singoli che è condizione per quella di tutti. Il carattere

sarà tanto più nobilitato e fortificato quanto più l’autodeterminazione è legata alla benevolenza e il

rispetto per il prossimo, che permettono di godere in modo duraturo le opportunità della vita e

provare meno dolore per le inevitabili avversità.

Una delle questioni che il commercio internazionale ha lasciato aperta è quella della distribuzione

dei profitti, essendo lo squilibrio nel godimento delle risorse un impedimento alla massimizzazione

della felicità. I “Principi di economia politica” (Londra 1848, trad. it. a cura di A.Campolongo,

123 A. Del Noce, Il pensiero cattolico di fronte ai nodi della crisi culturale moderna, in AA.VV., L’impegno sociale dei cattolici nell’ora presente, Atti del convegno Diocesano del 4-5 settembre 1982, Lodi 1982, p. 25.

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Utet, Torino 1962) si chiedono appunto come sia possibile distribuire equamente le ricchezze e se lo

stesso diritto di proprietà possa variare nelle sue forme. Fermo restando che le leggi di produzione

sono naturali e immodificabili, la distribuzione della ricchezza può essere modificata dalla volontà

politico – legislativa. In questo quadro Mill pone una critica ale dottrine socialiste, poiché in esse lo

Stato è lo strumento con cui la società opprime gli individui: solo la difesa dei diritti individuali

autorizza l’intervento dell’autorità statuale nella condotta degli individui in particolare. Se nel

sistema della proprietà privata il prodotto del lavoro è distribuito in maniera inversa alla quantità di

lavoro, occorre correggere un’ingiustizia sociale. Non potendo nessun sistema sociale promettere ed

attuare una giustizia e una libertà assoluta, interviene l’esperienza a suggerire che una

sperimentazione è consentita nell’ambito del vigente sistema di proprietà o mediante libere forme di

proprietà cooperativistiche o attraverso riforme come l’istruzione universale, il controllo

demografico e politiche salariali perequative. Solo con l’equa partecipazione ai benefici del lavoro

collettivo e alle risorse naturali si può così massimizzare la libertà di ogni individuo,

indipendentemente dalla condizione, razza e sesso.

È stato osservato che il <<liberalismo milliano ha [………] un’evidente inflessione aristocratica>>

(F.Valentini, “Il pensiero politico contemporaneo”, Roma – Bari, Laterza 19852 , p. 259), dovuta

all’influenza di Carlyle, di cui è stato attento lettore. Ma la sua critica all’appiattimento dei valori

nella società di massa e al conformismo, non è condotta dal p.d.v. di un isolato uomo di genio

creatore della storia, ma da un uomo politico che introduce nuovi valori fra quelli conservati, per

indicare agli altri la via da seguire. Il suo individualismo manifesta il sentimento del problema della

tutela dell’individuo entro il complesso organismo autoritario dello Stato, inserendosi Mill con il

suo saggio sulla libertà (Cfr. J.S.Mill, “Saggio sulla libertà” 1959, a cura di G.Gioriello, “Il

Saggiatore”, Milano 1971) nel solco del liberalismo ottocentesco, da Costant a Tocqueville.

Classiche risultano infatti alcune tesi milliane sulle ragioni che possono giustificare l’intervento

della collettività nei confronti dell’individuo: <<L’umanità è giustificata, individualmente e

collettivamente, a interferire sulla libertà d’azione di chiunque soltanto al fine di proteggersi: il solo

scopo per cui si può legittimamente esercitare un potere su qualunque membro di una comunità

civilizzata, contro la sua volontà, è per evitare danno agli altri. Il bene dell’individuo, sia esso fisico

o morale, non è giustificazione sufficiente. Non lo si può costringere a fare o non fare qualcosa

perché è meglio per lui, perché lo renderà più felice, o perché, nell’opinione altrui, è opportuno o

perfino giusto: questi sono buoni motivi per discutere, protestare, persuaderlo o supplicarlo, ma non

per costringerlo o per punirlo in alcun modo nel caso si comporti diversamente […..] . Il solo

aspetto della propria condotta di cui ciascuno deve render conto alla società è quello riguardante gli

altri: per l’aspetto che riguarda solo lui, la sua indipendenza è, di diritto, assoluta. Su se stesso, sulla

Page 193:  · Web viewRimane fermo però che il cristiano può disobbedire alle leggi contrarie a quella divina. La teoria costituzionale a forma di governo che consenta di far valere nei confronti

sua mente e sul suo corpo, l’individuo è sovrano>> (Ibidem, I). Nel “Saggio sulla libertà” però si

aggiunge una riflessione che manifesta la problematica nuova del liberalismo nel suo specificarsi

rispetto al garantismo costituzionalistico, ed è quella relativa agli ostacoli che la mentalità corrente

oppone all’affermazione delle libertà civili politiche e sociali. Se il liberalismo classico leggeva il

conflitto fra libertà ed autorità come contrasto tra società e Stato, determinando i limiti del potere

che lo Stato può esercitare sulla società, i regimi costituzionali, che riconoscono i diritti civili e

politici e considerano la responsabilità dei governanti davanti al corpo sociale, si trovano di fronte

alla nuova minaccia proveniente dal profondo della stessa società. Anche qui l’ottimismo

utilitaristico è reso problematico dalla chiara visione che c’è nel mondo moderno, una sempre

maggiore <<inclinazione a estendere indebitamente i poteri della società sull’individuo sia con

forza dell’opinione che con quella della legislazione; e poiché la tendenza di tutti i mutamenti in

corso nel mondo è di rafforzare la società e diminuire il potere dell’individuo, questo abuso non è

un male che tende a scomparire spontaneamente, ma, al contrario diventa sempre più formidabile>>

(J.S.Mill, “Saggio sulla libertà”, cit., I).

Il problema non è solo quello di evitare il dispotismo come forma di governo perché la libertà può

essere messa in pericolo anche dalla democrazia. Mill continua a definire le sfere di competenza,

per cui secondo il principio del danno, la libertà può essere limitata solo nella sfera degli atti

dannosi che riguardano altre persone, ma non per quanto riguarda se stesso. Il vincolo in quanto tale

è un male e in via di principio sarebbe preferibile l’assenza di leggi alla garanzia sulla loro base. Ma

nei “Principi di economia politica” abbiamo visto Mill elencare almeno cinque casi in cui lo Stato

potrebbe intervenire legittimamente. Nel “Saggio sulla libertà” egli si sofferma sul controllo delle

persone che hanno un potere esercitato su altre. La moderna democrazia di massa ha ormai aperto le

istituzioni alla sovrana volontà popolare, ma ciò non comporta necessariamente il pieno

raggiungimento della libertà. Infatti la società è un’entità collettiva che esercita un potere sui singoli

individui che la compongono non in un modo immediatamente tangibile, ma con una capillarità

diffusa così impalpabilmente e sottilmente che la tirannia della maggioranza risulta forte e

disarmante. Proprio il regime plebiscitario di Napoleone III ha mostrato di non aver bisogno di

apparati repressivi visibili e di essere compatibile col consenso del popolo. L’esercizio formale

delle libertà politiche rischia continuamente di diventare un vuoto involucro all’interno del quale

viene ratificato sostanzialmente un potere invisibile che colpisce le libertà civili in senso lato.

Infatti, in una società di massa in cui ogni interferenza del potere politico, dell’opinione collettiva o

di altri individui nella sfera privata di una cittadino è illegittima, per il fatto che ciascuno deve

essere lasciato vivere come meglio crede, <<La natura umana non è una macchina …..>> dice

Mill in una pagina di sapore humbeldtiano <<ma un albero che ha bisogno di crescere e svilupparsi

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in ogni direzione …... Non è stemperando nell’uniformità tutte le caratteristiche individuali, ma

coltivandole e facendo appello ad esse entro i limiti imposti dai diritti e dagli interessi altrui, che gli

uomini diventano nobili e magnifici esempi di vita>> (J.S.Mill, “Saggio sulla libertà”, cit., p.92).

l’autorità statale non potrà mai costringere l’individuo a fare o non fare qualcosa sulla base del fatto

che ciò sarebbe più opportuno o più giusto o per la sua felicità o per il suo benessere.

Ma accanto al dispotismo dello Stato esiste una nuova forma di oppressione, quella della

maggioranza, detta anche conformismo di massa:<<Una volta strati sociali, comunità locali,

mestieri e professioni diversi vivevano in quelli che potevano essere definiti mondi diversi, oggi il

mondo è in buona misura lo stesso per tutti>> (Ib.,p.104). Relativamente a ciò che vedono,

ascoltano, leggono gli uomini di oggi che hanno le stesse libertà e gli stessi diritti. I mutamenti

sociali hanno abbassato chi stava in alto e innalzato chi stava in basso, producendo quell’uniformità

equalitaria e conformistica, che è stata favorita dall’istruzione estesa a tutti, dal miglioramento delle

comunicazioni e dall’espansione del commercio e dell’industria manifatturiera, cose le quali hanno

diffuso un benessere verso cui tutti corrono. È sorta così una opinione pubblica con gli stessi gusti,

desideri, sentimenti. Lo stile si appiattisce su aspirazioni ed esigenze sempre meno differenziate,

verso cui gli uomini politici devono adeguarsi per non perdere il consenso sociale ed il sostegno

elettorale. Chi lede l’altrui diritto deve essere punito, ma non chi ha un comportamento antisociale

che comunque non danneggia nessuno. La libertà personale esige incondizionato rispetto e una sua

sia pur parziale violazione, seppure dannosa per pochi o per uno, lede l’intero corpo sociale. Le

libertà delle minoranze sono da salvaguardare rispetto alla pressione delle maggioranze, poiché

grazie alla difesa dei loro diritti è possibile la circolazione di un gran numero di opinioni che

arricchiscono la società e la sua libertà che si nutre della divergenza delle opinioni. Per questo

occorre difendere la libertà di coscienza, la quale implica libertà di pensiero, sentimento di ricerca e

comunicazione attraverso la stampa; la libertà di gusti e inclinazioni, facendo si che vengano

tollerati l’estrinsecazione di modi di vita originali ed eccentrici e l’espressione personale del proprio

piacere; la libertà di associazione partitica, sindacale, ecc… .

Chi detiene la maggioranza tende sempre a manipolare il consenso per far si che non si producano

alternative al suo potere. Ciò viola la libertà dei singoli e delle minoranze, che col loro dissenso e lo

spirito problematico sono l’antidoto per il dogmatismo e l’unanimità delle maggioranze. Convinto

che una tesi risulta più evidente col confronto delle tesi contrarie, Mill osserva che nelle materie

morali e civili il momento del contraddittorio valorizza gli interessi trascurati o messi in ombra

portati utilmente alla luce dalle minoranze eterodosse e anticonformiste. Esse permettono di

contestare la parzialità delle posizioni unilaterali, che sono da sostituire con le multilaterali opinioni

in contrasto, da mediare continuamente sia nella vita quotidiana che in quella civile e politica. Nel

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mondo moderno ha un ruolo decisivo l’opinione pubblica, che ha preso il posto del principio

carismatico della Chiesa, quello dell’autorità ormai ridotta a concezione dominante.

Nasce così il dogmatismo conformistico profondamente dannoso perché genera quello spirito

gregario ottenuto non attraverso la minaccia fisica ma con una non meno intollerante pressione

psicologica illiberalmente prodotta dalla manipolazione del consenso da parte delle maggioranze.

Di fronte al grigiore di stili di vita e di convinzioni sempre più uniformi diventano sempre più rare

le grandi ed originali personalità, che potrebbero costituire il contrappeso alle mediocrità e al

moderatismo delle masse con il loro gusto di scoprire nuove verità. Le minoranze formate da queste

personalità vanno difese, perché la disponibilità di un ampio potere di critica e di verifica attraverso

controlli incrociati e trasparenti sull’operato dei governanti, produce un pluralismo di opinioni e di

stili, che permette a sua volta l’individuazione di strategie più efficaci per il benessere di tutti.

Se il processo di civilizzazione aveva inibito individualità troppo marcate e frenato gli impulsi

esuberanti che minacciavano la sicurezza e la stabilità della vita sociale, ora che a tutti una relativa

sicurezza è garantita, il rischio è rappresentato dalla dispersione gregaria nella folla. Ecco allora la

necessità del contributo di personalità fornite di impulsi marcati, di desideri vivaci, di sentire

appassionati di volontà incontrollabili. Non l’eccesso ma la carenza di personalità è il vero pericolo,

inteso come appiattimento generale nella mediocrità. L’Europa si è sviluppata grazie alla varietà

delle culture che sono però viste minacciate insieme alle libertà dal destino, di progresso

dell’Occidente. La libertà favorisce questo progresso facendo dell’individuo il centro propulsore del

progresso storico, ma se esso viene imposto in modo autoritario può contrastare la libertà e vi

subentra il dispotismo della consuetudine. Questo è legato al fenomeno sociale per cui un popolo

rimane senza individualità originali e forti, i singoli risolvono interamente la loro identità nella

comunità, intesa come etnia, stato, religione, tradizioni culturali, di cui si sentono solo una parte.

L’antidoto a tutto ciò è visto nella libertà che la sensibilità di una civiltà democratica dovrebbe

lasciare agli intellettuali e alle grandi personalità che risultino capaci di indicare la via per

abbandonare il prudente conformismo delle masse. La loro opera di educazione e di persuasione, in

quanto coscienza critica di una società complessa e differenziata, dovrebbe essere finalizzata al

potenziamento degli sforzi disinteressati in favore del bene altrui intesi come parte costitutiva del

bene di ciascuno.

I casi concreti di questa teoria sono visti da J.Stuart Mill in due forme di dispotismo, quello della

dominazione sessuale e quello della dominazione coloniale. L’inammissibilità di principio è dovuta

alla presunta superiorità del proprio sesso, delle proprie convinzioni e istituzioni, della propria

cultura. Arcaico per esempio è il rapporto di soggezione della donna e dei figli nei confronti del

potere maschile nella famiglia e nella società, dovuto ad un anacronistico paternalismo.

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Per ciò che riguarda il colonialismo poi, nessun progresso, civilizzazione, tutela paternalistica o

altro fine superiore autorizzano una comunità o uno Stato a violare il diritto di autodeterminazione

di un popolo, comunità o Stato. Inammissibili sono anche molti abusi di autorità, come il

proibizionismo rispetto al consumo di alcolici. L’autoritarismo statale risulta poi un inedito pericolo

con la crescita smisurata di ranghi e ruoli burocratici alla diretta dipendenza del governo.

L’intervento indiscriminato dello Stato nella vita economica e sociale, la centralizzazione

amministrativa, e la gestione pubblica dei servizi e dell’assistenza consentirebbe all’apparato

burocratico, tendenzialmente conservatore e filogovernatore, di far valere nei confronti dell’autorità

politica e del resto della società un potere di negoziazione al fine di proteggere i suoi intermedi

corporativi. Con questi il governo disporrebbe poi di un canale privilegiato per drenare e controllare

il consenso nella società, rendendo problematico l'alternarsi al potere di opposti schieramenti

politici. Di qui il suo impegno per esempio per l’indipendenza irlandese e l’emancipazione

femminile.

Significative sono anche le “Considerazioni sul governo rappresentativo”, in cui viene innanzitutto

criticata qualsiasi concezione statica e metafisica del potere politico, le cui forme pubbliche

debbono sempre mutare in relazione ai mutamenti delle esigenze della comunità umana.

Nell’età presente il governo parlamentare e rappresentativo risulta essere il più adeguato perché

l’individuo può non soltanto esercitare un certo controllo sull’attività dello Stato, ma può anche

essere chiamato <<ad assumere una parte effettiva di governo, tramite il personale assolvimento di

qualche funzione pubblica, locale o generale>>. È necessario altresì che le strutture parlamentari

vengono perfezionate e controllate attraverso l’allargamento del suffragio, l’estensione del voto alle

donne, la tutela delle minoranze. Vigorosa è appunto la difesa di queste ultime tanto da sottolineare

la necessità che <<gli interessi, le opinioni, le aspirazioni delle minoranze siano comunque

ascoltate>>. Occorre insomma che sia impedito ad una classe, sia pure la più consistente

numericamente, di essere posta <<in condizione di costringere le altre a vivere ai margini della vita

politica, e di controllare il cammino della legislazione e dell’amministrazione secondo il suo

esclusivo interesse>>.

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19. Il pensiero politico della rivoluzione: Mazzini, Proudhon e Marxdi Paolo Armellini

G. MAZZINI (1805 – 1872): nazione, popolo e democrazia

L’idea di nazione ebbe nell’Ottocento come massimo interprete Giuseppe Mazzini, per

l’entusiasmo e la passione con cui la professò.

Secondo l’autore l’idea di nazione non può essere scissa dalla democrazia repubblicana e dalla

concezione di Dio e popolo, nel senso che la volontà divina , fondamento legittimante della legge,

si manifesta per il tramite del popolo.

Mazzini propone una religiosità laica, non mediata dalle istituzioni ecclesiastiche; il popolo,

pertanto, è il vero interprete della volontà divine.

L’autore critica il liberalismo, il socialismo ed il comunismo: il primo fonda la società sull’individuo

e finisce col dissolvere ogni vincolo sociale nel suo arbitrio, i secondi promuovono

un’organizzazione sociale che nega l’individuo e le sue libertà. Il mazzinianesimo intende, invece,

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sottolineare la socialità dell’individuo, cioè il suo necessario compimento nell’ambito delle

specifiche articolazioni della società umana: la famiglia, il comune, il popolo – nazione, l’umanità.

Dio e umanità sono i valori etico – spirituali che caratterizzano la nuova età sociale che subentra a

quella individuale, ormai spenta con la Rivoluzione francese.

La nuova società si deve basare sulla collaborazione dei singoli, che si realizza solo se ispirata al

nuovo principio dell’umanità; in questa ha un valore etico – religioso, in quanto rivela la volontà di

Dio e rende possibile il progresso.

La politica, secondo l’autore, è perfettamente autonoma nei confronti della religione, le Chiese,

inoltre, adempiuta la loro missione di proclamare l’eguaglianza, hanno esaurita la loro funzione.

Egli però non intende che la politica debba lasciarsi vincere dalla tentazione giacobina di sostituirsi

alla Chiesa, essa deve invece rispettarla per quella parte di verità che ha saputo trasmettere nei

secoli.

La nazione124 deve avere un fondamento etico – spirituale (non materiale) che conferisce ai

principi, e al diritto una stabilità e una continuità.

L’interpretazione della legge non può essere affidata né alla Chiesa né alla monarchia, bensì al

popolo, alla nazione.

Mazzini sostiene che la vera rivoluzione deve essere popolare e nazionale, suscitata dalle esigenze

di umanità del popolo (al contrario di Marx che la vedeva come lotta di classe).

La democrazia repubblicana è l’unica forma di governo che consente di attuare i principi

costituzionali della nazione; in questa, infatti, gli individui, in quanto cittadini, sono liberi ed eguali,

possono pertanto partecipare liberamente al governo della società. Questo si fonda sulla

rappresentanza nazionale, eletta a suffragio universale da tutti i cittadini: Mazzini accoglie

l’ordinamento costituzionale fondato sulle fondamentali libertà politiche, sulla tripartizione dei

poteri e sul principio elettivo delle cariche più importanti dello Stato.

124 La nazione, secondo Mazzini, è l’unità di una moltitudine di individui come unità di principi, di intenti, di diritti.

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La repubblica, per Mazzini, è uno Stato unitario che riflette l’unità nazionale del popolo: gli

ordinamenti federali e confederali finiscono per disarticolare la nazione, per far prevalere le parti

sul tutto, introducendo divisioni e contrapposizioni di interessi. Mazzini rifiuta tuttavia il

centralismo amministrativo come uno dei più efficaci strumenti del dispotismo ministeriale.

Lo Stato italiano deve essere organizzato, dal punto di vista politico – amministrativo, su dodici

regioni, ciascuna comprendete circa cento comuni, con almeno ventimila abitanti. Tale ampio

decentramento, articolato su larghe autonomie locali, consente il libero svolgimento di tutte le

forze sociali.

Lo Stato determina, come compito primario:

L’educazione nazionale;

Il sistema giudiziario e tributario;

La politica estera;

L’organizzazione militare;

La formazione di un capitale nazionale per le iniziative sociali e pubbliche.

La questione sociale, ossia il rapporto tra datore di lavoro e lavoratore, tra capitale e lavoro, deve

essere risolta nell’ambito della democrazia repubblicana mediante l’associazione, che consente

agli individui di moltiplicare le loro capacità ed energie in modo da conseguire il miglioramento

delle loro condizioni naturali ed il loro progresso intellettuale e morale. Al sistema produttivo

fondato sul capitale, sulle capacità, sul lavoro, cioè sul monopolio dei mezzi di produzione da parte

dei capitalisti, occorre sostituire gradualmente il nuovo sistema in cui il produttore è anche

proprietario dei capitali per una giusta ripartizione delle ricchezze prodotte.

Mazzini critica ogni forma di economia programmata, diretta dallo Stato, unico detentore dei

mezzi di produzione: ciò frena infatti lo spirito d’iniziativa ed ogni incentivo per migliorare le

condizioni della classe lavoratrice.

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La proprietà privata, in quanto insita nell’uomo, non si può abolire; l’autore è invece favorevole ad

una proprietà privata “associata”, che consenta alla maggioranza dei lavoratori di divenire

proprietari.

Lo Stato deve infine costituire un fondo nazionale per far fronte alle esigenze delle associazioni,

demanializzando le proprietà ecclesiastiche e altre terre incolte.

P.-J. PROUDHON (1809 – 1865) fra anarchia e federazione

Nel Socialismo dell’Ottocento Proudhon ha una posizione di particolare rilievo per aver

interpretato con originalità le istanze di libertà, di uguaglianza e di giustizia.

Il suo pensiero politico si sofferma sui rapporti tra economia e politica nella prospettiva delle

contraddizioni ed antinomie che caratterizzano il sistema economico capitalistico e le

corrispondenti istituzioni.

È il teorico della società senza Stato, dell’anarchia positiva, intesa come federalismo mutualistico,

fondata sull’autogoverno delle forze produttrici, l’autore fu uno strenuo sostenitore

dell’autonomia della classe operaia, della sua capacità di divenire la classe protagonista e di

rinnovare la società.

L’autore sostiene che non c’è differenza tra la vecchia sovranità dell’Antico regime e quella nuova

della borghesia , infatti si tratta pur sempre di sovranità; l’autorità dell’uomo sull’uomo è giusta

solo in quanto sia l’espressione dell’autorità della legge, che deve essere “giustizia e verità”.

Sulla base di tale premessa, la proprietà privata non può essere giustificata: non è un diritto

naturale in quanto pone differenze tra chi ha e chi non ha, contrario al diritto assoluto

dell’uguaglianza; la proprietà non può avere ad oggetto la terra, in quanto indispensabile alla

sopravvivenza e, pertanto, bene comune. Chi lavora ha infatti la proprietà di ciò che produce, non

dei mezzi di produzione. L’autore considera la proprietà come un furto, in quanto costituita dalla

ricchezza sociale tolta ai produttori ed ingiustamente attribuita ai titolari del diritto di proprietà,

pertanto, rappresentando la negazione della giustizia e dell’eguaglianza, va abolita.

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Proudhon critica la società teorizzata dai socialisti e dai comunisti dell’epoca; la società diventa

infatti proprietaria dei mezzi di produzione, attua un ordinamento che, in sostanza, ricostituisce i

rapporti di dominio e di sfruttamento insiti nella proprietà privata, per cui l’individuo diventa un

mero strumento della società, senza libertà né indipendenza. Occorre invece dar vita ad una libera

associazione, il cui scopo è quello di mantenere l’uguaglianza nei mezzi di produzione e

l’equivalenza negli scambi, eliminando il governo dell’uomo sull’uomo e instaurando l’anarchia,

intesa come assenza di signoria e sovranità.

Il lavoro esprime e realizza l’umanità dell’uomo, esso è l’energia mediante cui l’uomo crea il suo

mondo umano nei suoi valori, principi ed istituzioni.

Grazie alla divisione del lavoro, gli uomini perfezionano il loro lavoro; la società si articola però in

classi sociali che istituzionalizzano le divisioni sociali, negano il fondamentale diritto di uguaglianza

degli associati e la loro indipendenza.

L’introduzione delle macchine nel processo lavorativo ha aumentato le capacità produttive del

sistema economico, abbassando nel contempo i costi di produzione; tuttavia ha provocato anche

grande disoccupazione, riduzione dei salari, eccessiva produzione, falsificazioni dei prodotti,

malattie ed incidenti.

La libera concorrenza è necessaria per determinare il valore dei beni: più industrie, infatti,

controllandosi fra di loro, migliorando le tecniche di produzione e riducendo i costi, operano sulla

base di prezzi che riflettono il valore reale. La disciplina della libera concorrenza è rappresentata

dal monopolio, che regola prezzi e produzione: l’esperienza economica dimostra tuttavia che il

monopolio finisce per moltiplicare le precedenti contraddizioni.

Lo Stato ha come fine istituzionale il riequilibrio delle condizioni sociali, la garanzia della sicurezza

e della difesa dei deboli nei confronti dei potenti mediante leggi e provvedimenti che aiutino e

sostengano le classi lavoratrici. Ma nello stesso tempo il potere si trova legato agli interessi della

proprietà e del capitale, finisce quindi per diventare il braccio armato del monopolio. È necessario

che i lavoratori dirigano ed amministrino il sistema produttivo in piena autonomia ed

indipendenza. Tale autogestione delle forze produttive si realizza mediante una serie di

associazioni operaie, ognuna delle quali si forma in vista di una determinata attività che richiede la

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formazione di una forza collettiva che consenta di ottenere un risultato economico. Nell’ambito di

ciascuna associazione ogni lavoratore svolge e dirige l’attività che egli stesso ha scelto ed è

proprietario pro quota dei mezzi di produzione: in tal modo capitale e lavoro si identificano.

L’autore sostiene inoltre la necessità di istituire una Banca del popolo nella quale devono confluire

le banche locali e private per la concessione di credito ad interessi molto bassi, messo a

disposizione delle associazioni operaie.

Inoltre i rapporti che intercorrono fra i singoli ed il resto della società, sono regolati da una serie di

contratti.

L’autore tiene, però, a distinguere la serie dei suoi contratti dal contratto sociale di Rousseau:

Per Rousseau il contratto esprime la volontà generale e fonda di conseguenza il corpo politico,

dal quale l’uomo ritrae la sua nuova personalità di cittadino, che si risolve nella comunità che

rappresenta il tutto dell’uomo. Sulla base di questo principio si fonda l’illusione che la democrazia

diretta risolva tutti i problemi della società.

Per Proudhon, invece, il contratto esprime l’accordo di due o più individui i quali, liberamente,

ritenendo che le reciproche prestazioni si equivalgano, regolano nel modo più conveniente i loro

rapporti. Mediante la serie dei contratti, che finiscono per disciplinare tutti i rapporti della vita

sociale, gli individui realizzano in modo diretto e concreto la loro sovranità.

Lo Stato, con la sua organizzazione burocratico – amministrativa e con il suo apparato coercitivo,

deve scomparire e deve essere sostituito dalla corrispondente organizzazione delle forze

produttrici. Innanzitutto l’organizzazione amministrativa dello Stato deve essere riformata al fine

di favorire ampie autonomie locali ed eliminare ogni forma di centralizzazione.

I poteri pubblici non devono avere alcuna ingerenza negli affari di religione, che rientrano nella

sfera dei privati; l’amministrazione della giustizia non è più funzione dello Stato e la

corrispondente organizzazione delle giurisdizioni, dei tribunali e delle corti è sostituita da

commissioni di arbitri e di esperti.

Anche l’istruzione non deve più essere centralizzata: la scuola deve essere considerato il legame

fra le corporazioni industriali e le famiglie.

Dell’amministrazione centrale, invece, l’autore salva la Corte dei conti, ridotta però ad un ufficio

generale di statistica.

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Una corretta applicazione di questi principi, ha come ultima conseguenza che anche la politica

estera e quella militare non abbiano più ragione d’essere.

In un’ottica internazionale di questa rivoluzione sociale, neanche i domini coloniali esisteranno più,

ma sussisteranno come autonome comunità.

La federazione è il termine ultimo del processo di spontanea organizzazione dei gruppi, sancita da

una serie di contratti che culminano in quello federativo. Per certi aspetti Proudhon riprende gli

ideali della città – Stato, nel senso di un ordinamento che ha una forma ed una struttura propri e

quindi delimitati dalla loro funzione. Un gruppo sociale può crescere sino ad un certo limite che

corrisponde al massimo della forza di coesione della collettività e che si attua nella città, nella

quale tutti gli elementi che la costituiscono sono proporzionati ed armonizzati tra loro, sì che solo

nella città l’individuo può esprimere compiutamente la sua personalità in piena autonomia e

libertà.

Anche se Proudhon era convinto che la borghesia avesse esaurito la sua funzione storica e non

avesse più alcuna effettiva capacità di governo, egli richiama l’attenzione degli operai sul fatto che

una vera riforma della società era possibile solo mediante un’alleanza fra la media borghesia, che

avrebbe dovuto fornire le capacità direzionale ed imprenditoriali, e il proletariato.

K. MARX E F. ENGELS: l’utopia della rivoluzione e la società comunista

Il rapporto economia-società, trova un ulteriore approfondimento in Marx ed Engels.

La loro speculazione è indissolubilmente connessa alla concezione materialistica della storia, per

cui il processo di sviluppo storico ha il suo fondamento nella dinamica economico – sociale delle

forme e delle forze produttrici e delle lotte fra le classi sociali.

La politica è intesa, da entrabi gli autori, come una scienza della storia che studia le tensioni, i

contrasti, le lotte tra le classi, che ci permette di intendere gli avvenimenti ed i cambiamenti nei

singoli stati.

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Entrambi gli autori criticano Hegel: la sua concezione di Stato è infatti una mistificazione, nel senso

che egli indica uno Stato che in sostanza ha molto poco di razionale e che non corrisponde alle

esigenze di profondo rinnovamento quali si sono affermate con la rivoluzione francese, come il

compimento dello Stato costituzionale moderno.

Le caratteristiche della società contemporanea, post rivoluzionaria, si basano sulla trasformazione

dei vecchi ordini in vere e proprie classi sociali, fondate sulla differenza della vita privata dei

singoli.

L’individualismo che caratterizza la borghesia finalizza ogni attività alla sfera privata del singolo.

I due autori continuano a criticare Hegel perché, a loro avviso, il filosofo cercava di conciliare i

vecchi ordini medievali con un potere legislativo su base rappresentativa.

Tale contraddizione fra Stato e società civile viene risolta mediante un nuovo ordinamento della

società che consenta ad ogni individuo di esprimere la sua compiuta umanità.

Solo mediante il suffragio universale, attivo e passivo, la società civile perviene ad una reale

esistenza politica, attuando la vera democrazia, sì che lo Stato politico si risolva nella società civile.

Engels sottolinea il fatto che la nuova organizzazione economica capitalistico-industriale, scaturita

dalla Rivoluzione industriale, ha permesso la formazione di una nuova classe sociale, il

proletariato, che rappresenta la nuova forza sociale, alla quale spetta il compito di rinnovare e

riorganizzare la società e che risolva le contraddizioni dell’organizzazione produttiva capitalistica.

La classe del proletariato, costituitasi in seguito all’irrompente processo di industrializzazione,

accoglie su di sé tutte le ingiustizie della società. Il proletariato vive la negazione dell’umanità

dell’uomo, solo questa classe è in grado quindi di realizzare quella rivoluzione completa che

realizza l’emancipazione generale della società.

La Rivoluzione industriale, secondo Engels, ha svuotato di qualsiasi contenuto lo Stato e la sua

organizzazione politica, creando tutta una serie di contraddizioni che hanno causato le ingiustizie.

Engels svolge una critica radicale nei confronti della costituzione inglese, per dimostrare come le

libertà politiche e civili siano del tutto apparenti e servano a nascondere il potere reale dei tre

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grandi partiti in cui si suddivide la società inglese:l’aristocrazia terriera, quella del denaro e la

democrazia lavoratrice. Quest’ultima esprime sostanzialmente la lotta delle classi lavoratrici

contro quelle possidenti, al fine di liberare il lavoro dal dominio che su di esso esercita la proprietà

privata.

Per quanto riguarda la religione, questa è considerata come il risultato dell’alienazione dell’uomo,

pertanto questi deve riappropriarsene.

Marx precisa che le leggi economiche non sono categorie assolute, ma relative alla forma di

produzione capitalistica, fondata sulla proprietà privata: esse sanciscono, in effetti, il dominio del

capitale sul lavoro.

La ricchezza e la stessa organizzazione economica non sono altro che il risultato dell’alienazione

del lavoratore, cioè del trasferimento della sua energia, della sua attività, del suo lavoro, nei beni

prodotti; tali beni assumono nell’ambito dell’economia una loro indipendenza che si contrappone

al lavoratore stesso che li ha prodotti. tale processo crea infelicità nell’operaio, in quanto il suo

lavoro è ridotto a mero strumento (alienazione).

La contraddizione tra Stato politico, espressione del lavoro alienato, e società reale, quale risulta

dalle condizioni nelle quali vivono gli operai, deve essere risolta nel comunismo, che si instaura

allorché il lavoratore potrà riappropriarsi del suo lavoro, della sua umanità e potrà liberarsi dalle

costrizioni del capitale e della proprietà privata. Marx individua tre forme di comunismo:

1. comunismo rozzo: fondato sulla mera soppressione della proprietà privata;

2. comunismo politico democratico e dispotico: pur avendo abolito lo Stato, non riesce a

risolvere il problema dell’alienazione;

Page 206:  · Web viewRimane fermo però che il cristiano può disobbedire alle leggi contrarie a quella divina. La teoria costituzionale a forma di governo che consenta di far valere nei confronti