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Adelano di Zeri, 1 luglio 2013 Eremo Santa Maria Maddalena «Cari fratelli, trovarsi davanti alle porte chiuse è una delle esperienze più forti e significative degli ultimi decenni. L’insicurezza dilagante ha fatto sì che, a poco a poco, siano proliferate le porte blindate, i sistemi di vigilanza, le telecamere di sorveglianza; nello stesso tempo è cresciuta la diffidenza nei confronti dell’estraneo che bussa alla nostra porta. E tuttavia, in qualche luogo abitato, si trovano ancora delle porte aperte. La porta chiusa è un simbolo del nostro tempo. È qualcosa di più di un semplice dato sociologico; è una realtà esistenziale che caratterizza uno stile di vita, un modo di definirsi di fronte alla realtà, di fronte agli altri, di fronte al futuro. La porta chiusa della mia casa, che è il luogo della mia intimità, dei miei sogni, delle mie speranze e sofferenze, come delle mie gioie, è chiusa per gli altri. E non si tratta solo della mia casa materiale, ma anche del recinto della mia vita, del mio cuore. Sono sempre meno numerosi coloro che possono varcare questa soglia. La sicurezza delle porte blindate custodice l’insicurezza di un’esistenza sempre più fragile e meno permeabile alla ricchezza della vita e all’amore del prossimo. L’immagine della porta aperta è sempre stata il simbolo della luce, dell’amicizia, dell’allegria. Come abbiamo bisogno di recuperarle! La porta chiusa ci danneggia, ci paralizza, ci separa». Queste parole sono state pronunciate dall’allora vescovo di Buenos Aires, Jorge Mario Bergoglio, all’apertura dell’anno della fede, il 1° ottobre 2012. Parlano di casa, quella fatta di pietre, mattoni e cemento, certamente, ma ancor più di quella casa che siamo noi, quella casa che spesso ci dimentichiamo di visitare, abitare e vivere, anche e soprattutto al plurale. Invitano ad aprire le porte del nostro piccolo mondo al singolare; invitano a condividere gli spazi – a volte troppo angusti e ristretti – del nostro pensiero, dei nostri desideri, dei sentimenti e del vissuto personale, passando dal privato e isolato mondo della privacy, a quello più articolato e

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Adelano di Zeri, 1 luglio 2013Eremo Santa Maria Maddalena

«Cari fratelli, trovarsi davanti alle porte chiuse è una delle esperienze più forti e significative degli ultimi decenni. L’insicurezza dilagante ha fatto sì che, a poco a poco, siano proliferate le porte blindate, i sistemi di vigilanza, le telecamere di sorveglianza; nello stesso tempo è cresciuta la diffidenza nei confronti dell’estraneo che bussa

alla nostra porta. E tuttavia, in qualche luogo abitato, si trovano ancora delle porte aperte. La porta chiusa è un simbolo del nostro tempo. È qualcosa di più di un semplice dato sociologico; è una realtà esistenziale che caratterizza uno stile di vita, un modo di definirsi di fronte alla realtà, di fronte agli altri, di fronte al futuro. La porta chiusa della mia casa, che è il luogo della mia intimità, dei miei sogni, delle mie speranze e sofferenze, come delle mie gioie, è chiusa per gli altri. E non si tratta solo della mia casa materiale, ma anche del recinto della mia vita, del mio cuore. Sono sempre meno numerosi coloro che possono varcare questa soglia. La sicurezza delle porte blindate custodice l’insicurezza di un’esistenza sempre più fragile e meno permeabile alla ricchezza della vita e all’amore del prossimo. L’immagine della porta aperta è sempre stata il simbolo della luce, dell’amicizia, dell’allegria. Come abbiamo bisogno di recuperarle! La porta chiusa ci danneggia, ci paralizza, ci separa».

Queste parole sono state pronunciate dall’allora vescovo di Buenos Aires, Jorge Mario Bergoglio, all’apertura dell’anno della fede, il 1° ottobre 2012. Parlano di casa, quella fatta di pietre, mattoni e cemento, certamente, ma ancor più di quella casa che siamo noi, quella casa che spesso ci dimentichiamo di visitare, abitare e vivere, anche e soprattutto al plurale. Invitano ad aprire le porte del nostro piccolo mondo al singolare; invitano a condividere gli spazi – a volte troppo angusti e ristretti – del nostro pensiero, dei nostri desideri, dei sentimenti e del vissuto personale, passando dal privato e isolato mondo della privacy, a quello più articolato e entusiasmante della vicinanza e della prossimità, recuperando il linguaggio plurale dell’amicizia, della condivisione e della solidarietà. In un contesto che ci insegna a vivere non come individui distinti, con una propria identità, diversi, ma integrati, in una società pluralistica, multietnica e ormai globalizzata, ma come tanti asteroidi in possibile collisione, queste parole ci spingono da una parte ad aprire le porte della nostra “casa” e dall’altra a varcarne le soglie. Aprire le porte per far entrare il fratello è dare la possibilità a noi stessi di uscire, per non correre più il rischio di rinchiuderci nella paura di andar fuori, al di là di quelle mura che crediamo sicure, superando le tentazioni di autosufficienza e autoreferenzialità, accontentandosi di quel che si ha – o si presume di avere – e

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dimenticando che il Vangelo è incontro, dialogo, è cammino, è condivisione, è annuncio di un Dio di misericordia e di amore, di un Dio che salva e libera, di un Padre che perdona, che accoglie con tenerezza, un Dio – quello del Vangelo – che non si accontenta di essere rinchiuso nei nostri artistici tabernacoli e che non può essere costretto e rilegato neppure nei confini e nei recinti del sacro. Che bisogno ha l’uomo di oggi, magari senza saperlo, di incontrare uomini e donne che annunciano e testimoniano un Dio così: un Dio umile che si accontenta di passare attraverso uno sguardo, un gesto di tenerezza, o di misericordia, nell’annuncio del perdono, in una mano disinteressata e tesa verso il fratello, parole e gesti radicalmente antimoderne, anticonformiste, controcorrente che hanno bisogno di “portatori”, di testimoni autentici, di annunciatori forti che

rispondano a quella voce di Dio che ancora risuona nelle nostre assemblee: «Chi manderò? Chi andrà per noi?», nella speranza di trovare qualcuno che dica: «Eccomi!» (Is 6, 8). La “porta aperta” che sogna papa Francesco, è un desiderio condiviso e, in un eremo è, o dovrebbe essere, normalità. Spazi liberi dove entrare liberamente, dove sostare, narrarsi, dove ascoltare ed essere ascoltati; spazi dove respirare, spazi non più da difendere, ma da condividere. Francesco, quello d’Assisi, lo aveva capito benissimo: la sua “ricetta” è stata la povertà, che non fu semplicemente la rinunzia ai beni materiali, bensì il radicale rifiuto di ogni forma di potenza, di prevaricazione, di privilegio. È forse questa la chiesa che sogna l’altro Francesco? Una chiesa delle beatitudini, “povera per i poveri”, più leggera, capace di accoglienza, perdono, misericordia; una chiesa che è servizio – quella che don Tonino Bello amava dire «della stola e del grembiule» –; una chiesa che è comunità perché è comunione vissuta e celebrata intorno alla mensa della Parola e dell’Eucaristia; una chiesa che continua ad aver bisogno di ciascuno di noi per essere “riparata”. La chiesa è la casa di Dio tra gli uomini, una casa che – come ogni casa – va edificata giorno dopo giorno, va riparata e sanata e questo non credere spetti unicamente al papa, ai cardinali, ai preti o ai frati. La chiesa ha bisogno di tutte le sue membra … di me e di te. «Chi manderò? … Manda me!» (Is 6, 8).

E ora qualche notizia dell’eremo. Come sapete, la Lunigiana è, ancora una volta, toccata da eventi straordinari. In questi giorni è il terremoto, arrivato con tutta la sua imprevedibilità, a sconvolgere un’estate iniziata solo da poco. Il 22 giugno la zona orientale di questa terra incuneata tra Appennino e Alpi, è tremata con decisione, facendo riemergere antiche paure nella memoria degli anziani che ricordano con terrore il disastroso terremoto del 1920. I danni ci sono: case lesionate, gente sfollata, edifici pubblici chiusi, degenti dislocati in altre strutture ospedaliere, tutte le chiese considerate inagibili ai primi rilievi. All’eremo pare non ci siano stati ulteriori danni rispetto a quelli provocati dal terremoto del 27 gennaio 2012.

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La speranza è naturalmente di tornare alla normalità e che lo sciame sismico poco alla volta si estingua. Accanto alla paura e allo spavento, c’è lo sconcerto e lo sgomento di non fare “notizia”. Ma, d’altronde, la Lunigiana è una zona di piccoli comuni di montagna, abitata da una popolazione anziana, che poco incide sul PIL nazionale. Lo avevamo già visto, con rammarico, durante i giorni dell’alluvione: nessuno ha parlato di chi, coraggiosamente, ha resistito sui monti, isolato dalle frane, o di coloro che hanno perso la casa, anche quassù, perché l’attenzione era rivolta alle più conosciute e turistiche Cinque Terre e ai centri più popolati. Ci si sente fragili di fronte a questi eventi, impotenti, a volte abbandonati e dimenticati. Le forze e le risorse esigue non permettono grandi opere, ma un piccolo miracolo c’è per chi vuole vederlo, una piccola “ri-scossa” che accompagna la necessità di muoversi, di fare qualcosa, di solidarizzare, di unirsi. In

Lunigiana è il terremoto – come è stato per l’alluvione del 25 ottobre 2011 – che ha fatto aprire le porte alla gente per accogliere chi ha avuto le case lesionate, chi dormiva in macchina da più giorni con i bambini, o per chi ancora oggi prova l’angoscia di stare solo, paura suscitata dalle continue scosse, dallo scricchiolare dei muri e delle travi, e ha bisogno semplicemente di un po’ di compagnia … Ma questo non lo trovate sui giornali ... Il bene non fa notizia, ma io voglio scrivervi di questo bene per testimoniare che nell’uomo è ancora presente la scintilla del bene,

della solidarietà, dell’amicizia, della disponibilità, della condivisione, del “buon vicinato”. Al di là delle emergenze, la vita qui continua nei suoi ritmi. Un po’ di lavori nella casa mi hanno permesso di passare un inverno sereno, il primo al caldo dopo tre anni, e di iniziare l’accoglienza non più solo dei pellegrini del Cammino d’Assisi, ma anche dei frati, di amici e persone che vogliono condividere per qualche giorno la vita dell’eremo. Questo, per le esigue risorse con cui è partito il progetto di Adelano, è un grande risultato, anche se – vi assicuro – mi è costato non poca fatica e tante preoccupazioni, ma già C.G. Jung diceva che «tutto ciò che ha valore ha un costo, esige molto tempo e molta pazienza», oltre che fatica. Di tutto ringrazio il Signore, “artefice e dispensatore di ogni bene”, e tutti coloro che, nel suo Nome e a vario titolo, hanno reso possibile tutto questo con l’aiuto materiale e non solo ... Ancora molto c’è da fare, il più direi, ma già qualcosa si è fatto!

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Presto, come gli scorsi anni, ci sarà la festa della parrocchia e dell’eremo, intitolati a Maria Maddalena. La celebreremo il 21 luglio, di domenica, per dare la possibilità a chi lavora e a chi è fuori casa di raggiungere Adelano. L’invito è, naturalmente, esteso a tutti! Celebreremo l’Eucaristia alle ore 11, presieduta da fr. Alfio Merlo, della Fraternità di N.S. del Monte di Genova. Il pranzo è libero, sui prati attorno all’eremo, ma ci saranno anche torte, frittelle e “sgabei” preparati dalle donne del paese. Alle 15 il Coro Tre Fonti di Berceto e il Coro al Sass di Pontremoli, diretti dal Maestro Ivano Poli, eseguiranno brani del loro repertorio. Alle ore 16 la processione con la benedizione della valle e, a seguire, canti e balli della tradizione, con qualche aggiunta … Sarà presente l’ASSOCIAZIONE CAMPANARI LIGURI per rallegrare la

festa in una “battaglia di corde”, con il tradizionale e ormai inusuale, suono manuale delle campane. Spero riusciate tutti a salire fin quassù … Non avendo INTERNET e molti dei vostri indirizzi di posta elettronica, lascio al “passa-mail” questo messaggio che potete mandare liberamente a chi può interessare: io cercherò di spedirlo il prima possibile. Concludo con una frase di R. Prieto che parla del pane, il segno di questa casa. Vi abbraccio tutti. Il Signore vi benedica sempre!

«Può essere bello, ma non è certo facile farsi pane. Significa che non puoi più vivere per te, ma per gli altri. Significa che devi essere disponibile, a tempo pieno. Significa che devi avere pazienza e mitezza, come il pane che si lascia impastare, cuocere e spezzare. Significa che devi essere umile, come il pane, che non figura nelle liste delle specialità, ma è sempre lì per accompagnare. Significa che devi coltivare la tenerezza e la bontà, perché così è il pane: tenero e buono».

Fra Cristiano

Fr. Cristiano Venturi ofmEremo Santa Maria Maddalena54029 Adelano di Zeri (MS)

Tel. 0187 447451