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CONFERENZA INTERNAZIONALE SULL’AUTISMO “ Autismo: alla ricerca del tempo perduto. Ricerca e trattamento nel mondo anglosassone” Chairman: Dr. G. Prata Abbiamo due ricercatori inglesi con i quali confronteremo le esperienze che stiamo facendo qui alla Fondazione di Pordenone, e più in generale in Italia e in Gran Bretagna, e siccome siamo un po’ in ritardo dò direttamente loro la parola. Il primo è il Dr. Bowler dalla Gran Bretagna, ricercatore di Psicologia alla City University di Londra. Dopo aver seguito per 6 anni la ricerca sulla comunicazione non verbale su persone con handicap mentale grave, ha lavorato con Lorna Wing sulla sindrome di Asperger. Attualmente sta portando avanti la ricerca sulla memoria nella sindrome di Asperger e sui fattori sottostanti la comprensione sociale nei bambini e negli adulti con disordini dello spettro autistico. Dr. Bowler “L’attuale ricerca psicologica sull’autismo: implicazioni sulla comprensione del problema” Vi ringrazio molto per la presentazione. Come vi ha spiegato la Dottoressa, sono un ricercatore alla City University di Londra. Forse è utile per voi sapere che io sono una di quelle persone che lavora dietro le quinte, cercando di capire che cosa significa avere il problema dell’autismo. Incontro regolarmente persone che hanno questo problema e le loro famiglie e il mio obiettivo qui è quello di cercare di spiegarvi alcune cose relative al modo in cui la psicologia e le teorie psicologiche possano aiutarci a capire cosa voglia dire essere una persona autistica, come possiamo usare questa comprensione per migliorare gli approcci pratici che noi utilizziamo per facilitare la vita delle persone autistiche e delle loro famiglie. Gli scienziati lavorano su una base collaborativa e amo ringraziare le persone che mi aiutano nella mia ricerca. In particolare, il lavoro che 1

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CONFERENZA INTERNAZIONALE SULL’AUTISMO“ Autismo: alla ricerca del tempo perduto.

Ricerca e trattamento nel mondo anglosassone”

Chairman: Dr. G. Prata

Abbiamo due ricercatori inglesi con i quali confronteremo le esperienze che stiamo facendo qui alla Fondazione di Pordenone, e più in generale in Italia e in Gran Bretagna, e siccome siamo un po’ in ritardo dò direttamente loro la parola. Il primo è il Dr. Bowler dalla Gran Bretagna, ricercatore di Psicologia alla City University di Londra. Dopo aver seguito per 6 anni la ricerca sulla comunicazione non verbale su persone con handicap mentale grave, ha lavorato con Lorna Wing sulla sindrome di Asperger. Attualmente sta portando avanti la ricerca sulla memoria nella sindrome di Asperger e sui fattori sottostanti la comprensione sociale nei bambini e negli adulti con disordini dello spettro autistico.

Dr. Bowler “L’attuale ricerca psicologica sull’autismo: implicazioni sulla comprensione del problema”Vi ringrazio molto per la presentazione. Come vi ha spiegato la Dottoressa, sono un ricercatore alla City University di Londra. Forse è utile per voi sapere che io sono una di quelle persone che lavora dietro le quinte, cercando di capire che cosa significa avere il problema dell’autismo. Incontro regolarmente persone che hanno questo problema e le loro famiglie e il mio obiettivo qui è quello di cercare di spiegarvi alcune cose relative al modo in cui la psicologia e le teorie psicologiche possano aiutarci a capire cosa voglia dire essere una persona autistica, come possiamo usare questa comprensione per migliorare gli approcci pratici che noi utilizziamo per facilitare la vita delle persone autistiche e delle loro famiglie.Gli scienziati lavorano su una base collaborativa e amo ringraziare le persone che mi aiutano nella mia ricerca. In particolare, il lavoro che menzionerò oggi è stato portato avanti da Evelyne Thommen, John Gardiner e Sarah Grice che hanno lavorato con me alla City University. Vorrei ringraziare anche la Wellcome Trust che ci ha fornito generosamente un supporto finanziario nel corso degli anni e che ha facilitato e consentito il nostro lavoro. Come ho detto fin dall’inizio, io sono uno scienziato e gli scienziati tendono ad avere un ego piuttosto sviluppato, parlano sempre della loro ricerca quando vengono in conferenze di questo tipo e cercano sempre di convincere gli altri che la loro visione delle cose è quella corretta e che i loro colleghi hanno torto: io sono uno scienziato ma sono anche un insegnante di psicologia e così devo dare una visione equilibrata perché si abbia una comprensione corretta di quello che accade. Spero di poter centrare questo obiettivo anche oggi, cioè spero di potervi descrivere se non altro una parte della ricerca di ordine psicologico che è stata portata avanti sull’autismo. Malauguratamente, benché io abbia molto tempo per parlare, non riuscirò comunque a parlare che di una parte della ricerca. Gli scienziati non soltanto vogliono descrivere le manifestazioni dell’autismo, ma cercano anche di spiegare quelli che sono i meccanismi sottostanti che danno luogo a particolari comportamenti. Talvolta, quando ci troviamo di fronte ad una persona autistica che ha un comportamento particolare che gli rende la vita difficile, possiamo affrontare il problema trattando il comportamento stesso, in altri casi invece lo

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affrontiamo trattando qualcosa di meno palese, di meno ovvio, che magari causa quel comportamento e altri comportamenti ancora. Come scienziato, quando entro nelle case delle persone o nelle scuole (abbiamo molte scuole speciali per individui con autismo in Gran Bretagna) o quando dei genitori con bambini vengono al nostro laboratorio alla City University, spesso mi sento dire rispetto agli esperimenti che portiamo avanti: “queste cose sono portate un po’ all’estremo, cos’hanno a che fare con l’autismo?”. Perciò, anche qui, cercherò, innanzitutto, di illustrarvi alcuni di questi esperimenti spiegando i collegamenti tra le cose che faccio io e le esigenze pratiche delle persone autistiche e delle loro famiglie e così via. La seconda parte probabilmente vi sarà familiare, vorrei spiegarvi la mia visione dell’autismo, la visione che è condivisa nel mondo anglosassone in generale, vale a dire che l’autismo adesso è considerato in realtà un insieme vasto di disordini.Fino a poco tempo fa - 15 anni fa quando ho cominciato il mio lavoro sull’autismo - c’erano molte persone che ritenevano che solo un bambino che presentava ecolalia potesse avere questa diagnosi; un persona che aveva un buon uso del linguaggio e che stabiliva un contatto oculare, chi aveva la sindrome di Asperger, di solito, non poteva avere una diagnosi di autismo. Noi conosciamo la condizione descritta da Kanner che è soltanto una delle varie condizioni che sono tra loro legate dalla presenza di una compromissione sociale. Queste condizioni comprendono l’autismo, l’autismo atipico, il disturbo pervasivo dello sviluppo, la sindrome semantico pragmatica: tutte queste sindromi sono incluse nell’insieme più ampio dei disordini dello spettro autistico. Quindi abbiamo un quadro molto diversificato e variegato che è difficile in alcuni casi da comprendere; dobbiamo analizzarlo dal punto di vista del modo in cui l’autismo può variare e può cambiare il grado della compromissione della socializzazione. Lorna Wing ha effettuato una distinzione molto utile tra i bambini che si separano dagli altri, che non si relazionano con gli altri se non in modo molto strumentale, i bambini che magari sono passivi, che rispondono ad altre interazioni sociali ma che raramente avviano loro una relazione sociale e i bambini che invece sono attivi ma se volete strani, che fanno sempre le stesse domande ripetutamente, hanno un atteggiamento ripetitivo insomma. Il livello di compromissione della socializzazione può variare in misura notevolissima anche se è presente in tutti e due i casi. Cerco di non utilizzare mai il termine “autismo lieve”. Di solito viene usato per chi ha la sindrome di Asperger ma non credo che questo termine faccia giustizia alle difficoltà che queste persone vivono. Si può essere una persona molto intelligente con la sindrome di Asperger che è riuscita a padroneggiare le proprie difficoltà di socializzazione, ma questa persona avrà comunque dei problemi nel far fronte ad un mondo che trova difficile da comprendere. Etichettare questo disordine come sindrome di “autismo lieve” non gli dà giustizia delle difficoltà che sente. La maggior parte delle persone descritte da Kanner ha un ritardo mentale di qualche grado di severità mentre gli individui con la sindrome di Asperger per esempio non ce l’hanno, non hanno per definizione un ritardo mentale. Questo è un punto su cui tornerò alla fine, è un punto che interessa sia i clinici che gli scienziati. C’è quindi la questione dell’interazione tra il livello di compromissione sociale di cui una persona può soffrire e il livello del ritardo mentale. Bisogna chiedersi qual’ è la differenza, dal punto di vista del comportamento adattativo, tra un soggetto che presenta un ritardo mentale severo e che ha un’età mentale diciamo di 5 anni e una persona che ha questo ritardo e insieme l’autismo o una persona che ha la sindrome di Down e non presenta una sindrome autistica nel contempo. Noi tendiamo ad assumere che la compromissione della socializzazione che definiamo come autismo sia indipendente dalla compromissione cognitiva corrispondente ad un ritardo mentale. In effetti dovremmo chiederci “dobbiamo farla questa distinzione o no?” I ricercatori dovrebbero prendere in seria considerazione questo interrogativo.

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Se avrò tempo oggi vorrei prendere in considerazione tutta una serie di prospettive teoriche che hanno dominato nel mondo anglosassone. Come ho detto, cercherò di evitare di parlare della mia ricerca in particolare perché vorrei darvi un’idea del contesto entro il quale si esplica la mia attività. Forse avrete già sentito parlare di queste cose. Parleremo del deficit della teoria della mente, un paradigma che ha dominato la ricerca per parecchi anni e che si è dimostrato estremamente fruttuoso nell’aiutarci a comprendere che cosa significa essere autistici e ci ha consentito anche di sviluppare alcune forme di intervento. C’è una teoria che afferma che l’autismo comprende difficoltà nelle relazioni emozionali ed affettive e questa teoria ha avuto sviluppi minori dal punto di vista pratico, ciò nondimeno è un punto importante che vale la pena di menzionare. Ci sono anche teorie che vedono l’autismo dal punto di vista dei deficit nel funzionamento esecutivo, dal punto di vista del controllo inibitorio del comportamento, dal punto di vista della pianificazione del comportamento e così via. Inoltre c’è l’idea che l’autismo sia un disturbo dovuto ad una scarsa coerenza centrale, in cui i frammenti della nostra esperienza non sono integrati a livello centrale in un unicum concettuale significativo. Ritornando alla teoria della mente vi dirò che questa ricerca è in corso ormai da dieci anni: gli studi classici sono stati effettuati da Baron-Cohen e i suoi colleghi nel 1985; la teoria che fa da sfondo a questa ricerca è in effetti l’informatica. Adam Leslie è uno scienziato cognitivo, il suo compito è quello di scrivere programmi di computer che rispecchino il modo di funzionare di una mente umana normale e una delle cose più difficili è quella di scrivere un programma che insegni alla macchina a fingere, perché fingere è una cosa molto insolita. Posso dire che ciò che ho al mio polso è un orologio, ma posso anche fingere che sia un automobilina e posso muovermi come se facessi finta che questo orologio fosse una macchinina; i bambini lo fanno nella prima parte della loro vita, mentre i bambini con l’autismo non fanno questo tipo di cose; lo sappiamo tristemente. Si può stimolare a farlo ma non fa parte del loro repertorio comportamentale. La finzione è difficile da programmare perché i computer trattano le cose come vero o falso: se è vero che questo è un orologio, non può essere vero che sia anche un’automobile. Questo in poche parole è il problema. In un programma computerizzato è impossibile introdurre due condizioni in conflitto: il computer non le accetta. I bambini con autismo non fingono, il che suggerisce che hanno difficoltà a mantenere nella loro mente due cose in conflitto che possono essere vere allo stesso tempo e hanno problemi anche con il fatto di credere. Hanno difficoltà a capire che qualcuno può avere una convinzione errata, credere in una cosa che è falsa e questo ha dato origine ad un test che molti di voi avranno incontrato, il test del Sally e Anne, il test del “false believe”, della convinzione errata. Alcuni lo chiamano anche il test della teoria della mente, a me questa terminologia non piace, vi spiegherò perché più tardi.Ci si serve di due bambole, Sally e Anne, con le quali si mima una scena: Sally ha un cestino e Anne una scatola. Sally ha una biglia, la mette nel suo cestino e poi esce dalla stanza. Anne toglie la biglia dal cestino e la mette nella sua scatola mentre Sally è via. Sally torna e vuole giocare con la biglia. A questo punto ai bambini viene chiesto dove cercherà la biglia Sally. Naturalmente la risposta corretta è “nel cestino”, perché Sally non ha visto spostare la biglia e crede che sia ancora dove l’ha messa (vedi fig.1). La maggior parte dei bambini non autistici ha dato la risposta corretta, mentre tutti i bambini autistici, tranne pochi, hanno dato la risposta sbagliata. La loro difficoltà stava nell’inferire che, se Sally non aveva visto che la biglia era stata spostata, doveva credere che fosse nel cestino. Questa inferenza che non costituiva un problema per la maggior parte dei bambini con sindrome di Down, lo era per la maggior parte dei bambini autistici più dotati. Consideriamo ora l’immagine di un gatto seduto su una sedia, che l’esaminatore compone al momento senza mostrarla al bambino. La guarda e dice: “sto vedendo un’immagine di un gatto su una sedia”; poi l’esaminatore sposta il gatto sul letto e, facendo vedere l’immagine al bambino, gli chiede “dove si trova il

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gatto?” I bambini autistici rispondono correttamente che è nel letto. Trovano che questo tipo di esercizio sia molto più semplice rispetto al precedente (Sally e Anne) e hanno risultati migliori. Questo significa che è la comprensione degli stati mentali a costituire un problema per i bambini autistici e non il capire una rappresentazione, perché una rappresentazione visiva può essere errata e questa viene compresa. Pertanto questa è la linea che ho seguito nell’ambito della teoria della mente: mi sono chiesto, cioè, se la comprensione degli stati mentali della teoria della mente sia veramente qualcosa di tipico dell’autismo o se è un problema di carattere generale. C’è un tema ricorrente nella ricerca sull’autismo. Quando viene trovata una soluzione, quando degli autistici riescono a fare qualcosa che non riuscivano a fare prima, quando colmano un ritardo del loro sviluppo, si potrebbe pensare che hanno recuperato il loro ritardo. Ma invece l’alternativa è che forse hanno trovato una scorciatoia, hanno trovato un altro modo per arrivare alla soluzione. Quando si aggira un problema, molto spesso vi sono situazioni in cui si può essere scoperti. Per esempio, le persone daltoniche che non riescono a distinguere il rosso dal verde possono comunque rispettare i semafori perché sanno comunque qual è la posizione del rosso e del verde. Possono anche dire delle cose giuste, cioè dire “che bello in primavera gli alberi diventano verdi” perché sanno che sarebbero considerati degli stupidi se dicessero “ah, che belle foglie rosse!” E quindi anche se non vedono il colore giusto sanno che cosa dire, perché nel caso dei semafori sanno che il verde si trova nella posizione superiore, ma se qualcuno girasse al contrario i semafori avrebbero dei problemi. La persona “normale” sarebbe ancora nella situazione ottimale nel senso che riconoscerebbe il verde, ma un daltonico farebbe un incidente. Si può dire che il mondo sociale, per un autistico, è pieno di semafori installati al contrario. Bisogna fare attenzione quando si interviene perché alcune soluzioni possono essere valide in certe situazioni e non in altre. Secondo alcune indicazioni, altri gruppi di bambini possono trovare difficoltà con compiti di questo tipo, con esercizi che hanno condizioni errate false. Anche i bambini autistici affetti comunque da ritardo mentale possono trovare difficoltà di questo tipo. Si è trovato che l’80% dei bambini Down ha superato questo esercizio ma non ci sono state repliche dello stesso esercizio con gli stessi risultati. Bambini sordi dalla nascita, per esempio, hanno risultati diversi a seconda che anche i genitori siano sordi o meno. E anche loro hanno risultati diversi nel superare l’esercizio Sally e Anne. Un bambino sordo dalla nascita i cui genitori non sono sordi ha una comunicazione con i genitori che sarà comunque vocale in qualche modo, con l’uso anche di un linguaggio di segni di cattiva qualità; mentre un bambino sordo con genitori sordi, nasce in un ambiente molto ricco dal punto di vista del linguaggio dei segni e quindi vi è una relazione tra l’abilità linguistica e la capacità di risolvere compiti come quello Sally e Anne, che vediamo anche nell’ambito dei bambini con l’autismo. Chi ha una buona capacità di linguaggio e di astrazione, riesce a superare meglio questi esercizi e questo sembra essere indipendente dal livello generale di sviluppo intellettivo. Possiamo vedere la prossima parte e ritornare poi a questa. Ho descritto la differenza per cui i bambini autistici tendono ad avere risultati scarsi nel test di credenza errata, e invece hanno risultati molto buoni nei test fotografici. Questi risultati non mi avevano confortato appena letti perché pensavo che questi due esercizi non fossero equivalenti; da un certo punto di vista uno coinvolge degli stati mentali mentre l’altro coinvolge piuttosto rappresentazioni mentali. Ma uno di questi esercizi è molto più completo dell’altro. La storia di Sally e Anne ad esempio ha più personaggi, c’è un personaggio che fa qualcosa in relazione a qualcos’altro. Quindi ho cercato di mettere a punto un esercizio che non avesse a che fare con degli stati mentali, un esercizio meccanico che portasse anche a fare qualcosa in relazione a qualcos’altro. E quindi volevo riprodurre la complessità dell’esercizio Sally e Anne.

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Abbiamo una specie di aeroporto giocattolo con due posti in cui l’aereo può atterrare, uno colorato di giallo e l’altro di blu. Vi è un treno che si avvicina all’aereo per caricare e scaricare della merce dal treno. Vi è anche un palo con due luci. Si dice al bambino che il treno non ha un conducente e che il segnale indica al treno dove deve andare. Quindi questo viene dimostrato: l’aeroplano atterra sul lato giallo, si accende la luce gialla e il treno si avvicina dal lato giallo e lo stesso dalla parte azzurra. Si cerca di far capire questo al bambino ripetendolo più volte; i bambini autistici adorano sia i treni che la ripetizione di questo esercizio. Poi si scambiano i colori: si fa atterrare l’aereo dalla parte gialla facendo accendere la luce azzurra e si chiede poi al bambino dove andrà il treno a questo punto. Abbiamo trovato che i bambini autistici e anche quelli normodotati che superano l’esercizio di Sally e Anne dicono sempre che il treno seguirà la luce segnaletica, invece quelli che non superano l’esercizio Sally e Anne dicono invece che il treno si avvicinerà all’aereo e non seguiranno l’indicazione della luce. Quindi la conclusione è che il problema nei bambini autistici è un ritardo nell’acquisizione di un ragionamento complesso e un ragionamento complesso è necessario per poter sopravvivere nella società. Dobbiamo poter pensare alle cose in modo complicato e le cose non sono sempre come sembrano. La cosa ovvia qui è che il treno si avvicini all’aereo ma in effetti la situazione è più complessa perché bisogna tenere in considerazione anche la luce segnaletica. Questo è un punto importante nella teoria della mente; io di solito sono noto per essere un forte critico ma devo dire che si tratta di un modo importante per riflettere su come individui autistici affrontano la società e se non capiscono che ci possono essere anche convinzioni false alla base di un comportamento di una persona non capiscono perché una persona sceglie un tipo di comportamento piuttosto che un altro e così trovano difficoltà a relazionarsi con il comportamento degli altri. E’ molto importante quindi capire come intervenire, particolarmente con gli individui affetti dalla sindrome di Asperger. Sta di fatto che queste persone seguivano anche dei corsi formativi perché si pensava che si trattasse di timidezza, di chiusura in se stessi e che questo dovesse essere superato per relazionarsi con il mondo esterno. Adesso sappiamo che il mondo esterno viene visto in modo diverso. Questo è un aspetto importantissimo, un contributo rilevante per l’impostazione della teoria della mente. Il problema deve essere riconosciuto come specifico. Hanno difficoltà nel comprendere le situazioni complicate in generale, quindi dovremmo pensare anche a questo, per poter mettere a punto i nostri interventi. Voglio continuare con un altro approccio nei confronti dell’autismo che è stato messo a punto da Peter Hobson, una persona interessante perché è uno psicanalista e anche uno psicologo sperimentale. Come psicanalista non condivide la maggior parte delle teorie della psicoanalisi sull’autismo e questo è importante tenerlo a mente. Sappiamo in effetti che gli autistici hanno difficoltà a relazionarsi con gli altri a livello emotivo. Hobson ha trovato dei risultati per convalidare le sue teorie, risultati simili alla teoria della mente: l’assenza di un orientamento proto dichiarativo. Tra l’età di 9 mesi e un anno i bambini normodotati cominciano ad interessarsi al mondo esterno, indicando oggetti e cercando di coinvolgere anche le altre persone; indicano e allo stesso tempo guardano anche l’altra persona affinché guardi un oggetto, una situazione. Quindi, secondo la teoria della mente, questo avviene perché i bambini capiscono che anche l’altra persona ha una sua teoria della mente.Non voglio dire che una teoria sia più corretta di un’altra. Quello che mi colpisce è che esiste un tipo di relazione triangolare in questo comportamento proto dichiarativo. Questo avviene anche negli esercizi che abbiamo visto in precedenza. I matematici di solito preferiscono parlare di reazioni binarie o ternarie per descrivere i tipi di equazione diverse e forse il cervello autistico può soltanto gestire le relazioni binarie e trova più difficoltà con quelle più complesse.

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Gli altri filoni di cui parla Hobson si basano sulla sua ricerca con adulti autistici. Mostrando delle immagini fisse ed espressioni vocali che corrispondono ad emozioni diverse - felicità, rabbia, tristezza, paura, disgusto, ecc. Hobson chiede di far corrispondere una situazione emotiva ad una immagine. Di solito le persone autistiche trovano più difficile fare questo tipo di corrispondenza di quanto non facciano le persone del gruppo di controllo. Certamente i sostenitori della teoria della mente e anche Peter Hobson non sarebbero d’accordo con quest’altra dichiarazione che faccio io e cioè che queste teorie sono simili da alcuni punti di vista, perché parlano entrambe dell’autismo come se fosse la compromissione di un sistema altamente specifico, pur vedendo il sistema in modo molto diverso. Allo stesso tempo entrambe le teorie sostengono che tutto quello che compone l’autismo derivi dalla stessa causa e si basano sugli stessi risultati e sugli stessi elementi che ho appena descritto, cioè su questo comportamento proto-dichiarativo. Riguardo all’idea che vi sia qualcosa di più generale che accade negli individui autistici vorrei parlare ancora della mia ricerca. Vi farò vedere un video molto breve per illustrarvi meglio questo aspetto.Questo filmato è stato messo a punto da sociopsicologi negli anni ’40 per spiegare il comportamento delle persone. Io l’ho trovato per caso quando insegnavo sociopsicologia ed ho pensato di poterlo utilizzare per vedere come veniva descritto da un autistico (vedi fig. 2). Di solito, osservando il filmato, si interpretano le forme che corrono come se fossero delle persone che si rincorrono e alla fine la persona rincorsa sembra arrabbiata tanto che alla fine rompe la scatola. In genere non ci si aspetta che una persona autistica faccia questo tipo di descrizione. Non ho mai voluto mettere per iscritto tutto questo, ma un altro collega lo ha fatto in uno dei suoi libri, e quando abbiamo proiettato questo film a bambini autistici dotati, ho visto che il linguaggio dello stato mentale non veniva utilizzato molto nelle descrizioni. Ma non lo facevano neppure bambini normodotati che si comportavano più o meno allo stesso modo. Analizzando invece le descrizioni dei bambini autistici abbiamo trovato comunque cose interessanti. Ad esempio nel filmato vi sono tre oggetti animati e uno inanimato. Quindi si possono descrivere le cose come azioni di oggetti animati rispetto agli oggetti non animati oppure azioni tra tre oggetti. All’inizio c’è una specie di lite: i tre triangoli si scontrano e poi alla fine il triangolo grande rincorre i due triangoli più piccoli intorno alla scatola e la cosa più interessante per il nostro scopo è che i bambini autistici hanno descritto altrettanto bene che i bambini normodotati la lite. L’hanno menzionata quanto gli altri bambini. Il fatto di rincorrersi, invece, non è stato descritto dai bambini autistici, anche se la fuga non accade in una frazione di secondo, ma continua piuttosto a lungo. Questo è qualcosa che mi affascina e vorrei studiarlo ancora. E’ molto importante quindi se si vuole intervenire con i bambini autistici pensare che certe volte ci sono elementi che essi non prendono in considerazione. Non ci rendiamo conto che questo costituisce un problema e quando si vuole che il bambino faccia qualcosa dobbiamo basarci sulle sue capacità, su quello che riesce a fare, sulla sua percezione, dobbiamo avere un contatto con lui per poter sviluppare una relazione adatta. Non ho dedicato troppo tempo ad Hobson perché egli ha smesso di fare ricerche in quest’area quindi è difficile vedere in che misura possa progredire. Un altro modo di guardare all’autismo, una prospettiva in crescita nel campo, è quello che fa riferimento ai deficit delle funzioni esecutive. La definizione di uno dei principali ricercatori delle funzioni esecutive nell’autismo – Russel- é: “Un compito esecutivo è un compito che, invece di valutare il possesso o l’uso dei concetti, valuta in che misura

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un individuo può raggiungere un obiettivo mentre allo stesso tempo inibisce una risposta scorretta che è ‘naturalmente’ prepotente o che è stata resa tale dall’apprendimento passato”. Quindi, se riflettete, per esempio, sull’esercizio di Sally e Anne una cosa ovvia da dire è che se qualcuno vuole qualcosa deve andare a prenderla dove questa cosa si trova. Se il compito del treno è incontrare l’aeroplano, allora il treno andrà dove si trova l’aereo. Quindi per fare l’esercizio correttamente ci vuole uno sforzo maggiore, perché bisogna sopprimere il senso dell’ovvio. Questo a volte è importante. Bisogna riflettere sull’esperienza di una persona che trova difficile considerare altre alternative ed è importante riflettere anche quando si progettano gli interventi per l’autismo. Noi facciamo questa cosa, ma dobbiamo entrare nei panni di chi non è in grado di farlo abitualmente. Russel inoltre fa un’osservazione e cioè che i bambini hanno delle regole arbitrarie. Per esempio, c’è un esercizio in cui c’è un'unica scatola che contiene una caramella; il bambino deve aprire la scatola per prendersi la caramella. E’ un compito direttivo molto semplice. L’esperimento però prevede la sistemazione di un fascio di luce all’apertura per cui quando si apre la scatola il fondo cade e la caramella scompare. Ogni volta che si apre la scatola in realtà la caramella sparisce a meno che non si tiri un leva al fianco della scatola per spegnere il fascio di luce. Per cui bisogna guardare la situazione che è complessa e dirsi “se voglio prendere la caramella prima devo spegnere il fascio di luce”. I bambini con autismo trovano questo compito molto difficile perché tirare la leva vicino alla scatola ha un rapporto solo arbitrario con l’obiettivo. Non c’è un rapporto ovvio fra il fatto di tirare la leva e prendersi la caramella. Se la relazione viene resa più palese l’esercizio diventa più semplice perché il collegamento tra lo spegnimento della luce e l’ottenimento dell’obiettivo è più chiaro. Il mio esercizio sul trenino potrebbe avere a che fare con le regole arbitrarie. Potreste riflettere su questo esercizio proprio interpretandolo dal punto di vista delle regole arbitrarie dove il rapporto tra l’azione e l’obiettivo non è palese. Quando non sono coinvolte le regole arbitrarie i bambini si comportano bene e hanno una buona performance. C’è un esercizio dove si ha una sorta di asse sopra e sotto e queste due assi sono collegate da un tubo di plastica. In un caso il tubo passa da un foro nell’asse superiore a un foro nell’asse inferiore perpendicolarmente; in un altro caso invece c’è un tubo storto per cui lasciando cadere un oggetto dal buco superiore finisce in un buco diverso nell’asse inferiore. I bambini non tengono conto del fatto che il tubo può essere deviato e può quindi inviare la pallina dal buco superiore ad un altro buco inferiore. Mettono sempre la mano sotto lo stesso buco nell’asse inferiore. Bisogna inibire la risposta ovvia cioè che tutto cade giù perpendicolarmente. Non c’è infatti nulla di arbitrario tra il tubo e il movimento causato da quest’ultimo che fa deviare l’oggetto da un'altra parte. I bambini con autismo non comprendono questa possibile deviazione. Ci sono dei compiti arbitrari dove però i bambini con autismo sono molto bravi. Per esempio, si può mostrare ai bambini due cartoline, una che illustra il giorno e una che illustra la notte ma la regola è che ogni volta che si vede il sole si dice notte e ogni volta che si vede la luna si dice giorno. Questa è la versione per bambini. La versione per adulti è ancora più difficile; si hanno parole come rosso, verde, giallo ma la parola giallo è scritta con un inchiostro rosso. Si deve vedere la parola e dire il nome del colore dell’inchiostro. E’ molto complicato insomma. Nel caso delle cartoline quando si vede il sole bisogna dire notte e viceversa. Ovviamente è una regola arbitraria: perché devo vedere un’immagine e dire l’opposto? Ma i bambini con autismo se la cavano bene, trovano questo compito relativamente facile. Russel suggerisce che hanno buoni risultati perché questo esercizio coinvolge una regola ma anche un’etichetta verbale che la identifica. Russel sostiene con grande forza che l’inclusione di etichette verbali rende la comprensione delle regole più semplice per questi bambini. Noi non sappiamo perché accade ma è importante perché sottolinea

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l’importanza del linguaggio e della necessità di raggiungere un certo livello del linguaggio per consentire ai bambini di regolare il loro comportamento. Ci sono molte ricerche riguardo il problema del regolamento dato dal linguaggio al comportamento portate avanti nell’ex Unione Sovietica. Per esempio, se si dà ai bambini uno strumento verbale per regolare il comportamento, questi riescono a farlo meglio. Se gli date delle parole in un contesto appropriato, i bambini riescono ad affrontare e a trattare quel contesto in modo più sofisticato. Le parole aiutano. Probabilmente questo è un campo che va analizzato più sistematicamente; noi sappiamo dal punto di vista clinico che i bambini che hanno una buona padronanza del linguaggio tendono ad avere una performance migliore, tendono ad adattarsi meglio dei bambini che hanno una capacità di linguaggio inferiore. Risultati di questi tipo sembrano indicare che la capacità di linguaggio consente ai bambini di migliorare il loro comportamento adattativo. Adesso continuerò parlando della prossima importante prospettiva teorica. Penso che l’aspetto più importante di questo approccio sia quello di aver superato la tendenza a spiegare solo i deficit negli individui con autismo. In effetti le persone che lavorano nel campo dell’autismo sanno che le persone autistiche spesso sono molto brave in particolari cose, per esempio nella discriminazione percettiva, nel notare pezzi di sporcizia nel tappeto, nel memorizzare molti materiali, fare calcoli, nel sapere il giorno della settimana di particolari date… in tutte queste cose sono molto più bravi di quello che noi ci potremmo aspettare sulla base del loro livello intellettivo generale. La teoria della coerenza centrale è il tentativo di fornire una cornice all’interno della quale capire sia i punti di forza delle persone con autismo sia i punti deboli. Ora, la coerenza centrale (questa è una definizione presa da Francesca Happé uno dei ricercatori più importanti in quest’area) è la tendenza a processare insieme le informazioni che entrano per un significato di più alto livello, spesso alle spese della memoria per i dettagli e questo è qualcosa che tutti quanti facciamo. Per esempio, se andate a casa di un amico e lui vi chiede di raccontargli quello che vi è accaduto oggi voi probabilmente gli farete un resoconto molto generale e globale. E se qualcuno vi chiedesse di che colore erano le sedie della stanza potreste anche ricordarlo ma anche non ricordarlo. Se avete un amico che è un architetto arredatore di interni potreste dire che è interessato ad annotarsi questo particolare, ma in generale non si tiene conto di queste cose. Cancellati i dettagli vi focalizzate su una grande immagine.Questo prossimo esempio è molto difficile da spiegare perché non parlo la vostra lingua e non posso darvi un esempio equivalente in italiano. Ma la parola scritta TEAR, in inglese, può essere pronunciata in due modi: può essere pronunciata “tiar” che significa lacrima oppure “tear” che significa strappo che, a sua volta, può essere sia un verbo – strappare qualcosa – sia un sostantivo - strappo. Noi usiamo il contesto della frase per decidere quale delle due pronunce bisogna usare, così se abbiamo la frase “Mary era triste, nel suo vestito c’era un grande ‘tear’” una persona che parla inglese sa che dovrà dire “tear”. Se invece c’è la frase “Mary era triste, nel suo occhio c’era una grande ‘tear’” un inglese dirà automaticamente “tiar” . Così guardiamo alla stessa parola e usiamo il contesto per guidare il nostro comportamento. C’è un altro esempio che viene dal lavoro di Francesca Happé. Si chiede alle persone di completare delle frasi e in realtà bisogna usare il contesto per completarle in modo accurato. Così si presenta la frase “il mare sa di sale e …” e il bambino deve concluderla. Spesso egli dice “pepe”, perché in Inghilterra sale e pepe sono le uniche spezie usate spesso in cucina e in tavola troverete sempre sale e pepe. La frase “sale e pepe” va insieme e così il bambino sente sale e dice pepe. E non si rende conto che il mare, se non per licenza poetica, non sa di pepe, perciò dovrebbe pensare a qualcos’altro. Io stavo pensando ad esempio al pesce… C’è anche un esempio clinico riportato da Francesca Happé. Avete uno scenario e chiedete al bambino di descriverlo ampiamente: “che cos’è questo?” “una bambola” “questo?” “un letto” “questo?” “una coperta”

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“e che cos’è questo?” (indicando il cuscino) “è un raviolo”. Il bambino risponde così perché vede il cuscino al di fuori dal contesto e in questo modo sembra un raviolo (vedi fig.3)In un certo senso questi esempi testimoniano il fatto che vedere le cose in modo frammentario è un problema per gli individui con autismo anche se il vedere le cose in modo frammentario li rende capaci di funzionare piuttosto bene in certe aree. Per esempio, questo è un test che viene usato in molti test di intelligenza come il Weschler ampiamente usato in psicologia perlomeno nei paesi anglosassoni. E’ chiamato il Block Design Test che deriva da un test precedente chiamato Blocks. Al soggetto esaminato vengono dati lo schema della forma di un diamante e dei cubetti che hanno due facce bianche, due rosse, e due facce che sono mezze bianche e mezze rosse diagonalmente e si chiede al bambino di copiare lo schema con questi cubetti (vedi fig.4). Sappiamo da decenni che i bambini con autismo riescono molto bene in questo test. Se osservate il loro profilo ottenuto nei vari test psicologici potrete notare un andamento abbastanza basso con un picco in questo subtest particolare. Noi lo chiamiamo isola di abilità nei bambini con autismo. Si sostiene che lo fanno bene perché sono veramente bravi nello scomporre il disegno in segmenti. Questo è stato dimostrato molto nitidamente da Anita Shah e Uta Frith quando hanno dato test simili a questo a bambini con autismo e a bambini di un gruppo di controllo con la stessa età mentale. Qualche volta capivano il compito non appena gli si mostrava il diamante e gli si davano i cubetti. Qualche volta li separavano cosicché si poteva vedere chiaramente quali cubetti bisognava prendere e come bisognava comporli per fare il diamante. Si è visto che segmentare il diamante migliorava la performance dei bambini normali di molto ma non faceva nessuna differenza sulla prestazione dei bambini con autismo che stavano già lavorando molto bene, addirittura meglio dei bambini normodotati in questo compito. Ciò suggerisce che essi in effetti avrebbero fatto così comunque. In effetti sono abbastanza bravi a vedere i pezzi in qualcosa che noi vediamo come un intero combinato. L’ultima area di ricerca di cui voglio parlare ancora si riferisce alla mia ricerca. Anche questa è un’area in cui ci sono dei punti di forza e di debolezza. Molti di voi certamente conosceranno persone autistiche che hanno vasti magazzini di conoscenza, che possono ricordare in ordine una lista di fatti e tuttavia quando si chiede loro di andare a prendere due cose dalla camera torneranno con una sola oppure con due oggetti sbagliati o qualunque cosa. Se chiedete loro di farvi un resoconto della giornata trascorsa in gita con la scuola, per esempio allo zoo, vi possono fare o un racconto molto frammentato che per voi non avrà molto senso se non sapete esattamente dove sono stati, oppure può essere capitato che abbiano visto degli struzzi, che gli piacciono molto e perciò vi parlino solo degli struzzi. Questo tipo di problema si espande lungo tutto lo spettro autistico. Ricordo l’incontro con una persona autistica di alto livello molto famosa, Temple Grandin, che venne a Londra molti anni fa e che io ho conosciuto a casa di Uta Frith dopo che era stata a fare un giro turistico per Londra. Durante il nostro incontro Uta le chiese “ci potresti raccontare cosa abbiamo fatto ieri?” e lei disse semplicemente “siamo usciti, siamo andati in giro un po’”; noi abbiamo insistito chiedendole se era andata a vedere qualcosa in particolare e lei ha continuato dicendo “ siamo andati a vedere degli edifici molto grandi, li abbiamo visitati un po’, siamo tornati a casa e abbiamo cenato” e questo è tutto. Questa è Londra ed erano andati a vedere Buckingham Palace, il Parlamento, St. Paul’s Cathedral ed è straordinario che una donna che ha un PhD in scienze agrarie, che guadagna un sacco di soldi progettando impianti per bovini ed è molto esperta in questo campo, quando le si chiede di dare un resoconto della giornata trascorsa a Londra, dica solamente “abbiamo visto alcuni grandi edifici, siamo tornati a casa e abbiamo cenato.” Ciò che mi ha colpito è che ci deve essere qualcosa di interessante nel modo in cui le persone con autismo ricordano gli eventi. Questo allora mi ha incoraggiato ad unirmi ad un collega della City University, John Gardiner, che non conosce nulla dell’autismo ma che sa molto sulla memoria e con lui ho

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cominciato un programma di ricerca. Per ora abbiamo guardato adulti con la sindrome di Asperger ma abbiamo in mente di fare qualcosa con le persone a più basso funzionamento e anche con i bambini. Ci sono abbastanza punti di forza nella memoria delle persone autistiche. Lo stesso Kanner li ha descritti come persone che hanno una buona memoria a breve termine; possono imparare cose a memoria e ripeterle, qualche volta senza dimenticanze, cosa che può essere in se stessa un problema. E Asperger quando ha descritto il suo gruppo disse che hanno buona memoria per i fatti e io penso che questa capacità mnemonica possa spaziare su temi molto ristretti. Ma le indagini scientifiche sulla memoria sono iniziate solo negli anni ’60. In un certo senso la madre e il padre della psicologia sperimentale dell’autismo sono stati Beate Hermeline e Neil O’Connor. Essi hanno indagato specialmente ciò che noi chiamiamo richiamo immediato a breve termine che si ha quando si mostra a una persona una sequenza di immagini, poi gliene si mostra una seconda serie chiedendogli quale di queste ha visto; oppure gli si fa leggere una lista di parole e poi gli si chiede di ripetere tutte le parole che sono state lette. Sembra che gli autistici siano ragionevolmente capaci in questo compito. Vanno bene anche in ciò che noi chiamiamo richiamo con suggerimenti. Ecco un esperimento tipico: si dà loro una lista di parole, circa 15 o 20 parole, e gli si concede qualche minuto per leggerle sapendo che devono impararle. Poi dopo 15 o 20 minuti gli si chiede di ricordare il maggior numero di parole possibile e, per esempio, gli si mostra la lettera G che l’esaminatore sa essere la lettera iniziale di una delle parole della lista. Oppure si dice loro che nella lista c’era un termine che si riferiva a un pezzo di arredamento, ci potrebbe essere ‘sedia’ nella lista e questo li potrebbe aiutare a ricordare. L’esaminatore non dà tutte le parole chiedendo se l’hanno già viste o meno, ma dà semplicemente alcuni suggerimenti riguardo ciò che c’era nella lista. Anche bambini autistici con un ritardo abbastanza severo riescono tanto bene quanto bambini non autistici con ritardo severo in un compito come questo. Per quanto riguarda il riconoscimento visuale, esiste un test di memoria in cui si deve imparare una lista di parole essendo a conoscenza che si tratta di un test di memoria. Si dice: “guardate queste parole o immagini (per i bambini si usano spesso immagini) e imparatele e vi esaminerò più tardi”; dopodiché si mostra una lista di parole sparpagliate molto più lunga e in mezzo a questa lista di parole ci saranno le parole che si sono memorizzate. Così per ogni parola che si vede bisogna dire se era già stata vista prima oppure no. Questo è un test di memoria di riconoscimento. Individui con autismo ad alto funzionamento tendono ad essere ragionevolmente bravi nel riconoscimento visuale. Per quanto riguarda gli individui a più basso funzionamento i dati sono misti: alcuni studi mostrano che non sono molto bravi in questo e altri studi dimostrano invece che lo sono e la domanda ovvia è: “c’è niente di diverso in altre aree di funzionamento che si possa collegare a questo in qualche modo?” Io mi interesso in modo particolare di memorie falsate/illusorie. Per esempio, se vi chiedo di imparare due liste di parole, in una delle quali ciascuna parole appartiene ad una categoria diversa - come ‘mela’, ‘sedia’, ‘pantaloni’, ‘bicicletta’ - e nell’altra ogni parola è relativa ad una stessa categoria come ‘gatto’, ‘cane’, ‘cavallo’, ‘elefante’ tenderete a ricordare molto più il secondo tipo di lista rispetto al primo tipo, perché le persone correlano le parole per aiutarsi a ricordare il materiale. I bambini con autismo non fanno così. Non usano quella che noi chiamiamo la relazione semantica delle parole. Abbiamo riproposto il test ad individui adulti ad alto funzionamento con la sindrome di Asperger; dai quali non mi aspettavo di trovare lo stesso risultato. Tuttavia, anche queste persone, pur avendo un QI normale e un buon linguaggio, non usavano la relazione semantica per aiutarsi a ricordare le liste di parole. Io sono rimasto molto sorpreso ma è molto interessante che ci sia questo legame tra individui ad alto funzionamento e individui a basso funzionamento.

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In un altro test vengono proposte agli stessi bambini stringhe di parole disposte in modo casuale e sgrammaticato. Si è visto che per i bambini normodotati è molto più facile ricordare le parole se sono organizzate per formare una frase piuttosto che se sono sparse a caso, mentre i bambini autistici ricordano entrambi i tipi di parole allo stesso modo per cui non si avvalgono né della struttura semantica né di quella sintattica o grammaticale. Ora vi parlerò invece del richiamo libero. Il richiamo libero si ha quando vi si danno molte liste lunghe di parole, come ad esempio sette o otto liste di 15 parole, una per una, e poi vi si chiede di ripetere il maggior numero di parole che potete. Le persone autistiche anche ad alto funzionamento con la sindrome di Asperger hanno prestazioni misere nel ricordo libero se comparato al ricordo con suggerimento o al riconoscimento. Per quanto riguarda il riconoscimento visuale, come ho detto, i risultati variano poiché le persone ad alto funzionamento tendono ad essere brave mentre quelle a basso funzionamento riescono meno bene ma i dati sono equivoci.Le memorie illusorie sono un fenomeno molto interessante e consistono in false memorie di cose che le persone pensano essergli accadute nel passato. Le illusioni di memoria possono essere dimostrate molto facilmente.Ad esempio, vi presento una lista di vocaboli come notte, buio, letto, cuscino, coperta, ecc. e poi vi chiedo di richiamare alla mente queste parole che sono state scelte perché associate fortemente con la parola sonno. Ricordando queste parole le persone ripetono anche la parola sonno che in realtà non è contenuta nella lista ma è fortemente associata alle altre. Questo accade sia nelle persone autistiche che in quelle non autistiche. Nella memorizzazione non viene analizzato il significato. E’ interessante vedere che ad un certo livello il significato interviene a creare questa memoria illusoria. Un altro lavoro che stiamo effettuando indica che per gli autistici queste memorie illusorie sono più vive. Questo tipo di ricerca presa in prestito dal laboratorio per così dire, potremmo estenderla alla vita reale facendo degli esperimenti. Ad esempio, si può andare a fare la spesa insieme e comperare alcuni prodotti dal droghiere e si può vedere come la sequenza dei prodotti viene ricordata dai soggetti e se è possibile far ricordare un evento plausibile che in realtà non è avvenuto ma che potrebbe essere desunto da quanto è accaduto. Sappiamo attraverso la letteratura che è proprio questo che succede. Ad esempio in Inghilterra si va a comperare thè, latte e biscotti per preparare il thè delle cinque; in realtà si compra tutto tranne il latte. Queste persone poi ricordano falsamente di avere comperato anche il latte perché si dà per scontato che venga comperato tutto insieme. Quindi questa è una funzione normale negli individui autistici ed è interessante per me studiare questa memoria falsata e il fatto che questa sembri addirittura più viva dei ricordi delle cose che sono avvenute veramente. Questo è importantissimo, ad esempio, dal punto di vista penale e criminale: a volte accade che queste persone si trovino a dover rilasciare una testimonianza e vengano accusate di furto ad esempio. Fanno una descrizione che non è affidabile. A volte descrivono con certezza quello che è successo altre volte possono descrivere delle cose plausibili che non hanno avuto luogo. Questa ricerca può essere interessante per conoscere maggiormente sia i punti di forza sia i punti deboli che caratterizzano questo gruppo di persone. Per trarre alcune conclusioni ora vorrei riuscire a dipingere un quadro chiaro perché mi rendo conto che la situazione è piuttosto frammentata. In generale possiamo pensare alle varie impostazioni come se fossero divise in due categorie: una che possiamo chiamare “di dominio specifico” che comprende quelle teorie (per esempio la teoria della mente o il riconoscimento emozionale) che sostengono che una funzione cerebrale non funzionante adeguatamente causi tutte quelle conseguenze che insieme danno luogo all’autismo. L’altra che possiamo chiamare “di dominio più generico” che comprende la teoria dei deficit delle funzioni

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esecutive o la coerenza centrale in cui si parla di diversi aspetti funzionali e diverse aree coinvolte in modi e momenti diversi dello sviluppo. Quindi la ricerca può seguire questi due filoni che dicono cose diverse e hanno conseguenze diverse sui vari interventi da fare. Si può pensare di dover insegnare la teoria della mente ma sarebbe una eccessiva semplificazione pensare che il test di Sally e Anne possa essere la soluzione di tutto. Bisogna pensare di intervenire in modo più generico perché non si può certo pensare che intervenendo su un aspetto specifico si possa risolvere tutto. Per motivi pratici bisogna intervenire su un certo problema ma bisogna pensare a tutte le cause e a tutte le implicazioni più ampie possibili.La maggior parte di noi crede che l’autismo sia un problema del cervello del bambino ma bisogna vedere quanto le teorie generali condizionano gli interventi che mirano a vedere cosa c’è che non funziona nel cervello. Vi sono degli studi secondo cui la teoria della mente riguarda il lobo frontale del cervello. Un altro collega, un neuroscienziato che se ne intende molto poco dell’autismo, mi ha detto: “tutto quello che facciamo come esseri umani e che ci differenzia dagli altri animali dipende dal lobo frontale”. Quindi dire che la causa dell’autismo è il lobo frontale può essere anche vero ma non è specifico. Bisogna vedere come il loro frontale si relaziona e si lega alle altre aree del cervello. Questa è una ricapitolazione di tutto quello che ho appena detto. Dei resoconti modulari affermano che esiste un sistema cerebrale specifico che conduce, ad esempio, al modulo della teoria della mente, che spiega la comprensione sociale. Questo sistema è indipendente da un altro sistema cerebrale che è in relazione con il modulo che spiega la causalità meccanica ed è diverso da un altro sistema cerebrale specifico che ci fa comprendere il riconoscimento emozionale. Tutti questi sistemi funzionano parallelamente e sono relativamente indipendenti l’uno dall’altro (vedi fig.5). Io dico, invece, che tutto è correlato. Quello che si deve fare è cercare di comprendere come la percezione, l’attenzione e la memoria funzionano insieme e di poterci permettere di risolvere problemi complessi, come il compito di Sally e Anne o l’esercizio del treno e dell’aeroporto (vedi fig.6). Il redattore di una rivista specializzata, una volta, in una conferenza ha detto che la ricerca in questo settore è come guardare la foresta tropicale e veder delle piste ben delineate dove la gente ha già camminato molto e altre zone di foresta fissa dove nessuno ha mai camminato. Penso che sia vero tutto questo: ci sono delle aree che non sono ancora state esplorate. E’ proprio questo il messaggio che vorrei lasciare, ossia che tutti noi possiamo cercare di affrontare delle aree nuove, non ancora esplorate. La maggior parte dei bambini con autismo di Kanner ad esempio hanno sicuramente un ritardo mentale, una compromissione cognitiva e tutto questo come interagisce con l’autismo? Non lo sappiamo abbastanza. Non sappiamo se un bambino con un QI di 50 ha una funzione simile rispetto ad un bambino che ha lo stesso QI e anche l’autismo. Ci sono diverse cose che ancora non si sanno e che meritano di essere studiate e approfondite anche con ricerche ed esperimenti.

Dibattito

D. Quali suggerimenti pratici si possono avere per quanto riguarda gli interventi di tipo educativo con i ragazzi?

R. In presenza della Dr. Howlin mi sento in svantaggio parlando di implicazioni pratiche perché io non sono un clinico e non mi occupo di interventi, però posso suggerire un certo numero di implicazioni pratiche ad esempio materiali che derivano dalla teoria della mente. Penso che diversi programmi di intervento si siano basati proprio su questa. Ci si è concentrati soltanto su un aspetto dei problemi dei bambini e cioè che i bambini stentano a capire gli stati mentali delle altre persone. Dobbiamo piuttosto concentrarci sulla

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formazione e l’addestramento dei bambini perché possano capire quelle situazioni in cui la ricetta immediata non è sempre la risposta da dare. Dobbiamo far si anche che i bambini siano posti di fronte a situazioni in cui tutto è presente, dove vi sia un contatto tra elementi e dove non ci siano cose da intuire e dove non si debba per così dire attraversare lo spazio e il tempo per comprendere le situazioni. Questo noi lo facciamo in modo così istintivo che è difficile uscire dalla nostro modo di comprendere le cose per avvicinarci a quello di un bambino autistico. Per quanto riguarda la ricerca sulla memoria, ci si basa su un’impostazione empirica. Il suggerimento è di usare dei supporti visivi che permettono al bambino poi di regolare anche il suo comportamento.

D. Per quanto riguarda i bambini che non parlano o ecolalici, in che modo si possono studiare?In che modo potete eventualmente verificare il QI e le risposte ai test?

Dr. BowlerDomanda importante. Questa è un’area che dobbiamo considerare in maggiore dettaglio. Per quanto riguarda la capacità di valutare le loro capacità, questo non è tanto un problema perché abbiamo delle scale di sviluppo infantile che sono adeguate per bambini il cui livello evolutivo è quello di un infante. Abbiamo delle scale di valutazione che coprono bambini in età prescolare e così via. Per cui per capire le sue capacità di performance rispetto al normale sviluppo non è un problema. Dal punto di vista delle esplorazioni e delle indagini scientifiche è più difficile valutarli. Per esempio, il video che vi ho mostrato prima faceva vedere che bambini autistici dotati non sono in grado di descrivere l’inseguimento. Però mi sono dimenticato di menzionare che i bambini normali sono in grado di distinguere i movimenti di inseguimento dai movimenti di non inseguimento prima di sviluppare la capacità di puntamento proto dichiarativo. I bambini di 6/8 mesi, sono in grado di distinguere i movimenti tipici dell’inseguimento da quelli che sono altri tipi di movimento. Filippo Scia ha effettuato uno studio sui bambini piccoli e ha cercato di valutare questi bambini. Ha usato le tecniche anche per valutare bambini poco dotati con autismo. Usa due schermi di TV. In uno schermo si vede un inseguimento e nell’altro si vede la stessa quantità di movimento con gli stessi personaggi, però gli adulti quest’ultimo non lo considererebbero un inseguimento. Se vedete dei bambini guardare queste scene, potete capire quale dei due schermi il bambino trova più interessante misurando il tempo che ci passa davanti. I bambini guardano di più una cosa rispetto ad un’altra perché la trovano più interessante o più significativa. Potete fare la stessa valutazione anche con bambini con l’autismo. Non conosco studi sull’osservazione preferenziale, piuttosto conosco studi sull’ascolto preferenziale dove bambini vengono messi su una stanza e ci sono delle scatole con dei registratori; ad un certo punto il bambino può avvicinarsi il registratore all’orecchio e può sentire suoni diversi. Se non ricordo male, il bambino con autismo non preferisce suoni tipici del parlato, preferisce suoni diversi da esso. Mentre i bambini con sindrome di Down preferiscono il parlato. Queste sono le modalità che ci consentono di valutare queste capacità nei bambini con autismo severo.

D. Qual è la differenza tra l’autismo dalla nascita e l’autismo regressivo dove i bambini che prima hanno vissuto delle emozioni comuni anche a noi hanno un’involuzione tipica dell’autismo. Nelle vostre osservazioni, avete notato delle differenze nelle percezioni che hanno i bambini involuti in questo modo?

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Dr. BowlerNo, secondo me non viene effettuata questa distinzione, soprattutto nel Regno Unito non le effettuiamo. Per quanto riguarda il reclutamento dei soggetti, ingaggiamo le persone che partecipano ai nostri esperimenti sulla base della diagnosi che, di solito, viene posta ad un certo punto della vita prescolare del paziente. Per altro questo concetto di autismo regressivo non mi è chiaro.

D. Io sono una neuropsichiatra che lavora qui nella regione Friuli e mi sembra molto interessante la domanda della signora perché noi vediamo che facciamo diagnosi di autismo su bambini che hanno delle storie estremamente diversificate e che spesso l’ingresso a questo tipo di patologia è dovuto a tanti problemi diversi. Quando facciamo gli studi sulla teoria della mente, noi vediamo che questo è tutto quello che poi ritroviamo nei bambini nel momento in cui li valutiamo ma non sappiamo perché in quel momento quel bambino ci sta dando certe risposte. E tornando a tutte le vecchie teorie sull’autismo alla fine scopriamo che sia la teoria psicanalitica, sia la teoria socio relazionale, sia la teoria neuropsicologica sia la teoria cognitivista, ecc. alla fine ci danno alcune chiavi di lettura su situazioni che portano i bambini a bloccarsi in questo tipo di processo o di procedimento per cui poi veramente le cose che osserviamo sono queste. Abbiamo anche dei casi di regressione e lì bisogna studiare, io credo, bambino per bambino. Ogni bambino è diverso dall’altro e all’interno del termine autismo mettiamo Aldo, Giovanni, Giacomo e Marina: tanti tipi di patologia ma anche tanti bambini. Allora io credo che i test, le valutazioni siano estremamente utili per capire come potrebbe funzionare questo bimbo e come arrivare a lui per dare ai genitori, agli insegnanti e ai riabilitatori gli strumenti per entrare in contatto con quella che è l’organizzazione della mente ma anche con quello che può essere il sistema di motivazione, di desiderio, di piacere ad imparare e ad entrare in relazione con l’altro. E, probabilmente, se integriamo l’osservazione clinica, le conoscenze dei genitori e degli insegnanti con i dati delle ricerche più precise avremo poi un quadro di come intervenire.

Dr. Bowler Senza dubbio sono d’accordo che l’autismo è una sindrome comportamentale, un cluster in realtà di comportamenti che vediamo e verifichiamo in alcuni bambini. Tutti sono d’accordo credo nel fatto che il modo di sviluppare la patologia del bambino differisce da un bambino ad un altro. In alcuni bambini c’è senza dubbio un’origine genetica perché si vede la condizione in altri membri della famiglia e se i bambini hanno un figlio con autismo la probabilità aumenta. Ma senza dubbio vi sono altri casi dove avviene qualcosa al bambino dopo la nascita e dopo un periodo di sviluppo normale o tipico, quando l’encefalo è influenzato in un modo che produce una sindrome comportamentale simile all’autismo. Senza dubbio lei ha ragione, noi abbiamo bisogno di guardare al modo in cui questi due tipi di bambini si sviluppano ed è questo che intendevo quando prima ho parlato di traiettorie evolutive. Dobbiamo seguire il bambino in questo senso. Fino ad un periodo molto recente c’è stato un problema scientifico nell’effettuazione di questa differenziazione, tra i bambini che sembrano essere stati diversi fin dalla nascita e i bambini che invece sembrano essere stati normali alla nascita e per un certo periodo di tempo ma che ad un certo punto hanno avuto una crisi, uno sviluppo catastrofico e in effetti sono mutati in modo drammatico. Si può fare riferimento a un resoconto in retrospettiva di quanto è accaduto; la memoria di tutti è sempre inaffidabile in certa misura, perché si ricordano certe cose e ci si dimentica di altre. La memoria viene organizzata in modo da dar senso al nostro presente, perciò si perdono i dettagli in questa organizzazione. Inoltre molto dipende se avete avuto un bambino solo o più bambini. In alcuni casi ci sono genitori che sono stati a loro volta figli

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unici e non hanno rilevato difficoltà nel comportamento del bambino fino ai tre anni di età. Altri genitori possono dire “a 6 mesi avevo già capito che era diverso dai suoi fratelli e dalle sue sorelle e allora sono andato immediatamente dal medico perché sapevo che avrebbe dovuto fare cose che non faceva”. Sappiamo che c’è un lavoro in corso che ci consente di fare una diagnosi precoce dell’autismo. Il fatto di essere in grado di individuare a 18 mesi piuttosto che a 1 anno di età la patologia, significa anche che vi ricordate di più, che avete una memoria più fresca del primo periodo dello sviluppo del bambino e di conseguenza siete meno suscettibili ad eventuali distorsioni di queste memorie e siete in grado di effettuare delle distinzioni che sono molto importanti dal punto di vista della comprensione di tutto il panorama complesso che è l’autismo.

D. Se i bambini autistici non utilizzano delle strutture semantiche come si spiega che nella rievocazione di una lista di termini (per usare il suo esempio) il bambino dica la parola sonno che nella lista non esiste?

Dr. BowlerE’ un reperto interessante questo che fa riferimento ad una parte oscura della teoria psicologica; è un qualche cosa che merita sicuramente un’ulteriore indagine e lo richiede. I bambini non hanno usato la struttura semantica dell’elenco quando questi elenchi, dicevo, erano correlati da un punto di vista semantico. Una categoria semantica viene progettata definendo dei set di condizioni sufficienti per essere inclusi in una classe. Tutto questo viene definito in modo astratto e matematico. In questo caso le liste sono associative. Il nostro modo di redigere liste associative è questo: vengo in una sala come questa e dico “sono uno psicologo sperimentale. Qui abbiamo la parola sonno, d’accordo? Adesso vi darò altre parole e voglio che mi scriviate su un pezzo di carta fino a che punto la parola letto per esempio viene correlata con sonno.” Voi mi date 9 come punteggio. Poi vi dico “secondo voi la parola mela è correlata con sonno?” e voi mi date un punteggio di 1. Ci sono però anche parole che sono correlate associativamente a determinati altri termini per il modo in cui le persone vivono la loro vita concreta, non in modo astratto. Queste correlazioni vengono definite sulla base dell’esperienza. Rispetto a queste false memorie c’è una cosa molto interessante che è questa: le persone autistiche possono avere la stessa tendenza ad associare l’insieme e questo è un punto di forza, una cosa che fanno allo stesso modo degli altri; ma questo ci dice anche che c’è qualcosa di strano nel loro modo di organizzare le cose da un punto di vista semantico, un punto ancora oscuro, perché non siamo riusciti ancora, sperimentalmente, a chiarire che cosa succede. Possiamo usare delle liste semantiche per cercare di generare delle false memorie e possiamo prevedere che gli autistici non saranno altrettanto bravi a fare queste cose, ma sono stati effettuati degli esperimenti su persone con amnesia e abbiamo visto come queste usavano queste liste associative. Volevamo usare le stesse procedure con i bambini autistici. Lo abbiamo fatto e ora possiamo procedere sulla base dei dati che abbiamo raccolto.

Dr. Cinzia Raffin“La fondazione Bambini e Autismo: attività e progetti futuri.”

Ringrazio i presenti perché per me che sono la coordinatrice scientifica della Fondazione Bambini e Autismo che ha organizzato questa giornata è molto gratificante vedere un pubblico così numeroso e ne approfitto anche per salutare le 150 persone che sono nella sala superiore. Sono particolarmente contenta di presentare le attività della Fondazione a questo bel pubblico e sono ancora più contenta di presentarle dopo aver sentito la relazione del Dr. Bowler. Ho parlato ieri con la Dr. Howlin e in qualche modo mi sono resa conto, anche attraverso questi scambi, che il lavoro che la Fondazione sta portando avanti nel suo specifico del trattamento

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psicoeducativo per i bambini e i ragazzi autistici si colloca in uno standard di qualità diciamo pari ad altre realtà che si occupano di autismo in Europa e nel mondo. Sono gratificata di questo e spero che sia anche di buon auspicio perché la Fondazione possa collaborare più strettamente con altri servizi del territorio per fare in modo che questo approccio all’autismo sia il più qualificato possibile. Io illustrerò brevemente le attività della Fondazione e poi ci sarà un video in cui vedrete qualche immagine del lavoro che svolgiamo quotidianamente. L’area più importante della Fondazione riguarda la presa in carico psicoeducativa del bambino autistico. Naturalmente quando si parla di presa in carico ci si riferisce ad un sevizio piuttosto complesso che abbraccia molti aspetti; diciamo che li ho sottolineati per comodità anche se poi sono integrati l’uno con l’altro, naturalmente. Il trattamento psicoeducativo che viene condotto presso la nostra Fondazione viene programmato secondo le caratteristiche, le risorse e naturalmente i deficit di ogni specifico bambino o ragazzo. Oltre al trattamento psicoeducativo abbiamo i rapporti con la scuola perché naturalmente non possiamo fare un lavoro che sia disgiunto con quello che viene fatto nella scuola. A differenza del mondo anglosassone qui in Italia sappiamo che i bambini vengono inseriti attraverso una legge, che è la 104, nella scuola pubblica e quindi molte famiglie sentono il dovere di inserire questi fanciulli nella scuola pubblica cercando di poterli supportare attraverso la presenza di un’insegnante di sostegno. Per i ragazzi autistici è particolarmente importante che questo sostegno ci sia, proprio per le difficoltà che sono state evidenziate in maniera così puntuale dal Dr. Bowler. E’ quindi necessario che una Fondazione che si occupa della presa in carico di un bambino autistico abbia un continuo scambio e una continua collaborazione con la scuola, sia per quanto riguarda la formazione degli insegnanti sia per quanto riguarda la programmazione delle varie attività che vengono fatte a scuola, con incontri che sono diversi e che si fanno ogni qualvolta servono per cercare di dare dei suggerimenti rispetto, per esempio, alla risoluzione di comportamenti problema come l’uscita dalla classe di cui si parlava in precedenza e che possono essere in qualche maniera contenuti o risolti attraverso delle strategie appropriate. I rapporti con la famiglia sono altrettanto importanti perché evidentemente la famiglia è quella che, non dimentichiamolo, tiene il bambino o il ragazzo o la persona adulta per la grossa parte della giornata. La scuola se ne occupa per un pò di ore, la Fondazione per un altro po’ di ore e poi la famiglia se ne occupa per il resto della giornata. Questo significa che la famiglia deve essere informata non soltanto su che cos’è l’autismo ma anche sulle modalità con cui si può intervenire per migliorare la vita non soltanto del bambino autistico ma dell’intero sistema familiare. Questo significa sostanzialmente conoscere bene l’autismo, conoscere bene quel particolare bambino. Dovremo avere anche strategie per affrontare il lavoro quotidiano e impostare l’ambiente perché la persona sia facilitata anche all’interno della casa, per l’accoglienza di questa persona con queste caratteristiche specifiche e così via. L’altro punto riguarda la rete di servizi. Evidentemente sia nel momento in cui noi riceviamo e prendiamo in carico un bambino con problemi di autismo sia successivamente, si possono presentare dei problemi. Per esempio, è possibile, che il bambino abbia, oltreché la definita sindrome autistica anche una serie di condizioni mediche correlate che evidentemente noi, in quanto Fondazione, non riusciamo a prendere in carico e quindi è necessario ed auspicabile per noi avere questa rete di servizi per poterlo inviare, ad esempio, per accertamenti di tipo genetico, strumentale o biochimico in altre realtà altamente specializzate. Questo è quello che oggi noi facciamo. Il titolo del mio intervento è “La Fondazione: attività e progetti futuri”. Quindi vorrei parlarvi anche dei progetti futuri sempre relativamente al discorso della presa in carico. Abbiamo diversi progetti alcuni dei quali sono progetti che noi contiamo di realizzare perché siamo molto tenaci in questo, ma che probabilmente ci porteranno via del tempo e ciò nondimeno pensiamo che siano progetti che vanno a dare una precisa risposta a problemi che effettivamente esistono nel territorio, che

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esistono nelle famiglie: il famoso “dopo” di cui parlava l’Assessore alla sanità della Provincia, che spesso spaventa; spaventa i genitori perché evidentemente “finché ci siamo noi, si dice, qualcosa riusciamo a fare, ma quando non ci saremo più di chi saranno i nostri bambini, i nostri figli?”Ne abbiamo diversi di progetti futuri. Il primo è quello dell’ampliamento della sede, per disporre di maggiore spazio da destinare effettivamente all’educazione, al trattamento psicoeducativo. Il secondo progetto molto importante è quello della costruzione di una comunità residenziale in cui il soggetto autistico sia inserito nel miglior modo possibile, quindi creando una situazione di spazi e di tempi che seguano, diciamo, le caratteristiche del funzionamento di queste persone e che dia loro però l’opportunità, ovviamente a seconda del grado di risorse che il singolo individuo può avere, di essere inseriti in situazioni lavorative sfruttando quelle punte di capacità che molte persone autistiche hanno. Noi abbiamo già delle idee, però forse è troppo prematuro enunciarle qui. Pensiamo che anche nel nostro territorio regionale esistano delle specifiche tradizioni di artigianato ecc. che potrebbero essere da stimolo per offrire una possibilità lavorativa a molte persone autistiche adulte. Ancora, la collaborazione con la scuola pubblica. Vi avevo parlato prima che effettivamente la collaborazione con le scuole che accolgono i bambini che vengono seguiti dalla Fondazione esiste, però esiste su un piano diciamo abbastanza non dico personale, ma biunivoco, nel senso che noi lavoriamo con gli insegnanti di questi bambini, gli insegnanti fanno riferimento a noi per problemi specifici e così via. Ci siamo resi conto però che dobbiamo fare questo lavoro ogni anno, lo dobbiamo fare per più insegnanti perché non vengono nominati in tempo, lo dobbiamo fare in diverse scuole della città, della provincia. L’idea nostra - e sono confortata dal fatto che anche la professoressa Howlin mi ha detto ieri sera che forse è una buona idea quella di mescolare e trovare il giusto mezzo tra educazione speciale e anche inserimento in situazioni di socializzazione come la scuola pubblica - è quella di poter creare dei nuclei specializzati di scuole. Questo non significa creare dei ghetti, ma creare delle scuole che si specializzino per taluni handicap. Questo per quale motivo? Voglio dirlo in maniera molto chiara perché altrimenti rischio davvero di essere fraintesa. Perché se io devo inserire un bambino, per esempio, alle elementari sarei più contenta di poterlo inserire in una scuola elementare dove ci sono insegnanti già preparati su questo specifico problema, che conoscano da anni questo problema, che abbiano costruito delle metodologie per affrontare l’educazione di questi bambini, che abbiano predisposto degli ambienti di educazione anche individualizzata per questi bambini, che posseggano un archivio di materiali che devono essere costruiti per questi bambini e così come vale per l’handicap dell’autismo, io credo che valga anche per altri handicap. Qui è un augurio che mi faccio e che spero in questo di essere confortata anche dall'opinione di altri genitori, che la scuola pubblica possa anche specializzarsi rispetto all’autismo. (applauso)Ancora, la collaborazione con l’azienda sanitaria è naturalmente un altro progetto su cui speriamo di avere presto delle risposte concrete perché riteniamo che il lavoro che la Fondazione fa sia un buon lavoro ma purtroppo è molto costoso. Quindi non potremmo pensare che un servizio di cui i nostri bambini hanno diritto debba essere supportato soltanto dal privato sociale o dal volontariato. Volontariato peraltro che è splendido e che ci dà veramente una mano per portare avanti tutte le attività che stiamo svolgendo. Ancora sui progetti futuri: c’è il progetto di ampliamento della rete di servizi attraverso la collaborazione con centri di ricerca specializzati in cui poter inviare, se è il caso, i nostri bambini o comunque inviare domande, per esempio, interrogativi, questioni a cui magari noi non riusciamo nel nostro piccolo a trovare una risposta ma possono trovare una risposta in altri ambienti. Questo per quanto riguarda i progetti futuri della presa in carico. L’altra area su cui è impegnata la Fondazione riguarda la formazione. Noi riteniamo che sia indispensabile che chiunque entri in contatto con un bambino, ragazzo, adulto autistico sia preparato e preparato bene.

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Quindi proprio per questo attualmente, quindi nell’oggi, stiamo già attivando una serie di iniziative che sono: innanzitutto la formazione permanente del personale della Fondazione (ci tengo fortemente a questo perché non si può imparare una cosa una volta per tutte in un ambito come questo dove la ricerca produce di anno in anno se non di mese in mese dei risultati). Quindi è necessario che chi si occupa di questo sia costantemente aggiornato. Principalmente allora la formazione del personale della Fondazione che va a studiare, che si tiene aggiornato attraverso una bibliografia recente e così via. Poi la formazione degli insegnanti di cui ho già parlato, la formazione di psicologi, pedagogisti, tirocinanti. Ancora, la realizzazione di convegni internazionali come questo o anche di conferenze che abbiamo già organizzato per gruppi specifici. Ed infine la diffusione di informazioni anche attraverso Internet, noi abbiamo un sito, e nel nostro sito sarà possibile anche trovare gli atti di questo convegno. Anche per quanto riguarda la formazione abbiamo dei progetti. Uno è quello della formazione degli educatori, perché molti bambini e ragazzi, in realtà, non sono seguiti solo dagli insegnanti ma anche da assistenti all’interno della scuola e fuori dalla scuola in situazioni extrascolastiche. Anche queste persone necessitano di conoscere approfonditamente che cos’è l’autismo per poter evidentemente dare il loro meglio. La formazione per genitori, non perché noi riteniamo che i genitori non siano competenti, anzi sono le persone più competenti rispetto al loro bambino, ma perché a volte è necessario davvero che ci sia questo scambio di informazioni tra chi è competente rispetto al proprio bambino e chi per professione deve essere competente rispetto alla sindrome. Quindi momenti di incontro che possono essere anche momenti di formazione in cui supportare la famiglia a creare degli spazi e delle strategie per poter vivere più serenamente all’interno della famiglia. Un altro progetto è quello del training pratico per operatori sanitari, insegnanti, educatori. La formazione per il volontariato che in qualche maniera stiamo già facendo ma che vorremmo si definisse ancora in maniera più completa. La realizzazione di almeno un appuntamento annuale come questo, un convegno che raccolga le esperienze internazionali in questo ambito fatto nel nostro territorio. Vorremmo ancora organizzare dei gruppi di auto aiuto quindi raccogliendo famiglie che possano lavorare insieme agli esperti della Fondazione per poter scambiare esperienze e anche incentivare la creatività rispetto alla risoluzione di alcuni comportamenti che possono essere ancora problematici.Ancora, vorremmo organizzare degli incontri con autistici adulti. E’ stata citata prima Temple Grandin: speriamo di poterla invitare un giorno! Noi abbiamo anche degli autistici adulti che conosciamo che vivono molto più vicino a noi e che potrebbero essere di aiuto non solo per le famiglie ma anche per altri ragazzi che vivono la stessa esperienza. Infine la creazione di una banca dati, sempre attraverso Internet, che possa far accedere con facilità ad indirizzi, centri di ricerche, bibliografie aggiornate e così via. Parlo brevemente della valutazione. Quello che stiamo facendo nell’oggi è una valutazione diagnostica attraverso strumenti adeguati che esistono. Noi siamo abbastanza convinti che per fare una diagnosi non basta l’osservazione clinica ma è necessario effettivamente usufruire di strumenti e di scale che siano comunemente accettate dal mondo scientifico e validate. Oltre alla valutazione diagnostica facciamo la valutazione funzionale, che poi, diciamo, è la base su cui lavoriamo per la costruzione del progetto psicoeducativo e anche della programmazione scolastica. In questo momento noi ci occupiamo soprattutto di presa in carico e quindi vorremmo sviluppare ulteriormente la possibilità di inviare a centri specializzati quelle persone che magari nel corso dello sviluppo possono manifestare dei nuovi problemi. Infine riteniamo sempre che all’interno del processo di valutazione ci sia un momento abbastanza importante che è quello della comunicazione della diagnosi alla famiglia, che dal nostro punto di vista deve essere una

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comunicazione chiara, supportata già da risposte perché ahimè noi abbiamo l’esperienza di molti genitori che ci sono venuti a raccontare che hanno girovagato per l’Italia avendo diagnosi le più strane e con termini abbastanza incomprensibili e che comunque anche quando le hanno avute corrette, alla domanda “che cosa facciamo adesso?” hanno avuto molte poche risposte. Noi riteniamo che sia molto importante che la comunicazione della diagnosi preveda anche un percorso di risposte alle domande che sorgono ai genitori dopo la diagnosi. Naturalmente sempre all’interno del processo di valutazione abbiamo i follow up, programmati periodicamente che ci permettono di vedere la crescita del bambino o del ragazzo autistico. Per quanto riguarda i progetti futuri possiamo dire che saranno al passo con quello che la ricerca ci porterà di nuovo. Vi lascio alla visione del video.

Volontaria Dr. Marisa Barcarollo “I have a dream”: come contribuire a realizzare un sogno.

Saluto con molto piacere tutti i presenti nella sala inferiore e superiore. Ringrazio la Dr. Raffin anche a nome degli altri volontari per le parole che ha avuto. Sono una volontaria e mi è stato chiesto di fare un intervento come tale. Lasciate che cominci anch’io con “I have a dream”, io ho un sogno, probabilmente lo stesso sogno che molti presenti in sala hanno. Il mio arrivo in Fondazione risale allo scorso febbraio. Sono stata 30 anni nel mondo dell’insegnamento; man mano che ho avuto a che fare con i bambini con autismo, il mio coinvolgimento è andato aumentando sempre di più, direi che è diventato quasi totale. Mi sono accorta anche man mano che avevo modo di stare con loro delle loro potenzialità, ma se ci sono delle potenzialità è giusto anche che diventino risorse per la loro vita di uomini e donne, che diventino risorse per la società. E’ nostro dovere umano e sociale sostenerli nel loro percorso educativo. E’ nostro dovere sostenerli per il raggiungimento di un loro obiettivo. Non dimentichiamo che il loro futuro si costruisce ora. Loro non sono in grado di costruirsi il loro domani, siamo noi che ci dobbiamo pensare, che dobbiamo salvaguardare il loro diritto alla dignità, il loro diritto al lavoro, il loro diritto ad essere parte integrante e quanto più attiva possibile della società. Il loro diritto anche a raggiungere quell’indipendenza che è nelle loro possibilità. Questo sogno sicuramente condiviso si realizzerà. Si realizzerà perché è giusto. E’ un sogno che costa? Certo. Costa in fatica, in tempo, costa anche in soldi. Noi abbiamo bisogno di tutte queste forme di sostegno. Ci sono per esempio esercizi da preparare, da archiviare, ci vuole fantasia. Ci sono dati da mettere nel computer. Ci sono attività per ogni tipo di abilità per cui abbiamo effettivamente bisogno di essere sostenuti da diverse risorse, risorse che magari la mente, il tempo, il cuore di ciascuno può suggerire. Ogni informazione più dettagliata la si potrà avere contattando la Fondazione Erikson diceva che nell’adolescenza l’essere è per ciò che si sarà; nell’età matura l’essere è per ciò che si fa, nella vecchiaia l’essere è per ciò che si è stati. A me viene da aggiungere: “ il continuare ad esserci è per ciò che si è lasciato”. A questo punto mi viene in mente una riflessione che ha fatto un mio amico spagnolo il giorno del suo settantesimo compleanno. Voglio riportare le sue parole in spagnolo per non togliere nulla: “A esta altura de la vida hay que echar cuentas. El futuro de la vejez es el recuerdo y el recuerdo puede durar màs o menos. Hay que intentar hacerlo durar màs.” A questo punto della vita bisogna tirare le somme. Il futuro della vecchiaia è il ricordo e il ricordo può durare più o meno, bisogna cercare di farlo durare il più possibile. Grazie.

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Dr. G. Prata La Dr. Patricia Howlin è attualmente tutor nel dipartimento di Psicologia delle disabilità dell’apprendimento per la South Thames Regional Healt Authority, è professore di Psicologia Clinica alla St George’s Hospital Medical School. E’ consulente clinica avendo conseguito un Phd in Psicologia all’Institute of Psychiatry di Londra. E’ membro della British Psychological Society.

P. Howlin“Programmi clinici e programmi educativi a casa: un efficace trattamento nel tempo.”

Questo pomeriggio vi parlerò dei trattamenti dell’autismo ma vorrei cominciare parlandovi di informazione di base per sfatare un po’ i miti e guardare poi alla gamma di trattamenti che potrebbero essere generalmente disponibili per questi bambini. Inoltre mi concentrerò su problemi più pratici che i genitori si trovano ad affrontare in casa. Vorrei analizzare quelli che sono i miti che circondano l’autismo. Si ritiene che l’autismo sia una patologia rara, una condizione morbosa che non si verifica sovente quindi in realtà non è necessario che molti professionisti la conoscano. Ciò è falso. Se guardiamo ai dati più recentemente pubblicati sulla prevalenza dell’autismo risulta che le percentuali sono molto più elevate di quanto noi temessimo un tempo. Studi recentemente fatti nel Regno Unito, suggeriscono che se si prende in considerazione tutta la gamma dei disturbi di origine autistica (i casi più classici di Kanner, i casi di Asperger e gli altri, i bambini che non riescono ad essere inseriti in una categoria piuttosto che nell’altra) le percentuali sono comunque piuttosto elevate. Suggeriscono che 980 individui su 10.000 ricadono nell’ambito di questo spettro di condizioni autistiche ovvero in pratica l’1% della popolazione. E’ quindi chiaro che benché l’autismo di Kanner non è consueto, se si considera tutto lo spettro delle condizioni autistiche, ci sono molti bambini nella nostra società che presentano sintomi che sono comunemente associati con l’autismo. Quindi è necessario che i professionisti in tutti i settori della vita (pediatri, medici generici, medici di base, psichiatri, oncologi, insegnanti, pedagogisti) siano consapevoli del problema e sappiano che cosa possono fare per aiutare. E’ interessante notare in questa slide (Fig.1) che la percentuale della sindrome di Kanner è più elevata rispetto alle percentuali degli altri disturbi, quindi è molto probabile che ci siano molti bambini nella nostra società che non sono ancora stati diagnosticati ma che richiedono comunque un aiuto. Il secondo mito, la seconda credenza fallace è relativa alle cause, all’eziologia dell’autismo. Inizialmente si credeva che i genitori fossero gli agenti che causavano la patologia. E’ noto ormai che l’autismo non è dovuto ad un’inadeguatezza parentale, non è dovuto al fatto che i bambini soffrono di traumi psicologici e non è dovuto neppure al fatto che i bambini siano vissuti in un ambiente non ideale. In effetti ci sono molte evidenze che dimostrano che l’autismo ha una fonte e un substrato neurologico. Molto presto la gente ha cominciato a rendersi conto che l’autismo era strettamente associato con l’epilessia ed era difficile dire che i bambini avessero sviluppato epilessia perché i genitori non erano stati dei buoni genitori. Più recentemente ci sono stati studi che hanno dimostrato che l’autismo si manifesta in associazione con altri disturbi genetici. Abbiamo per esempio la sindrome di Monteil, in cui i soggetti hanno una crescita dei tubercoli disturbata in certe parti del cervello. Sono soprattutto i bambini che hanno questo disturbo nei lobi temporali che dimostreranno con più probabilità caratteristiche autistiche. Recentemente è stato fatto molto lavoro sull’origine genetica dell’autismo. Ci sono chiare evidenze di un’associazione in gemelli monozigoti identici e più recentemente si sono riscontrate evidenze di marcate storie familiari di autismo.

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Vediamo adesso i meccanismi del cervello che potrebbero essere principalmente coinvolti ed interessati. Ci sono studi inerenti il modo in cui il cervello è composto e oggi, con le tecniche di imaging disponibili e che possono vedere come il cervello elabora l’informazione, ci sono maggiori speranze di identificare aree particolari che possono essere colpite nell’autismo. I lobi frontali sono considerati un’area responsabile dei problemi dell’autismo. Come abbiamo sottolineato, i lobi frontali sono coinvolti in quasi tutte le nostre attività, quindi ci sono diverse aree che possono essere influenzate e che possono avere un effetto sulla funzionalità dei lobi frontali. Ci sono molte ipotesi e molti interrogativi che vengono sollevati: è chiaro che qualcosa quindi va storto nello sviluppo del cervello ma non si sa ancora che cosa sia. Ci sono studi neurobiologici e chimici, studi di imaging che vengono effettuati su campioni molto ridotti di bambini e i risultati di uno studio magari non sono convalidati dai risultati raggiunti con un altro studio. Quindi ci sono ancora molte domande riguardanti i difetti di base presenti nell’autismo che non hanno ancora trovato risposta. Lo stato di conoscenze attuali è peraltro simile anche nel settore genetico. Per esempio, l’autismo viene considerato probabilmente come una delle patologie del bambino più ereditabili; i tassi di eredità sono molto più elevati rispetto ad una situazione morbosa quale la schizofrenia; il rischio per eventuali fratelli, se c’è un bambino autistico in una famiglia, aumenta in modo considerevole, anche se ci sono altre cause dell’autismo che bisogna senza dubbio considerare dal punto di vista genetico. Le prime evidenze di un meccanismo genetico coinvolto sono derivate da uno studio dei gemelli. Se ci sono dei gemelli monozigoti e uno dei fratelli ha autismo l’altro fratello gemello ha il 75-80% di possibilità di sviluppare autismo. Il gemello che non ha autismo ha altri problemi correlati all’apprendimento o alla socializzazione. C’è un elevato grado di concordanza nei gemelli monozigoti e se guardiamo ai gemelli eterozigoti c’è un rischio di avere problemi nella socializzazione e nell’apprendimento, ma non particolarmente elevato. Come ho detto nei fratelli e nelle sorelle di bambini con autismo c’è un rischio maggiore rispetto alla popolazione generale, di un possibile sviluppo autistico anche nel fratello. La gente deve divenire sempre più consapevole del rischio per i fratelli non soltanto di sviluppare l’autismo ma anche i problemi correlati all’autismo. Per esempio, si soleva affermare un tempo che i fratelli di bambini con autismo erano disturbati perché avevano un fratello o una sorella molto difficili e problematici. Se guardiamo le famiglie con bambini che hanno altri handicap come per esempio la sindrome di Down, vediamo che i fratelli di un bambino autistico hanno una percentuale di problemi più elevata rispetto alla norma. Il 10% di loro ha problemi di comunicazione o di linguaggio, altri hanno difficoltà nei rapporti sociali, altri hanno comportamento stereotipato o rigido. Queste informazioni sono importanti per gli esperti di genetica perché in tal modo si possono analizzare le influenze dell’elemento genetico, ma sono importanti anche per gli educatori, per i pedagoghi perché è probabile che i soggetti con autismo abbiano problemi nell’articolazione del linguaggio, nell’apprendimento della lettura e dell’ortografia. Probabilmente questi problemi, con il giusto tipo di aiuto e input, possono essere risolti con grande efficacia senza causare grossi deficit. L’importante quindi è allontanarci da un pensiero che ci porti a ritenere che problemi di questo tipo nei fratelli siano causati dallo stress. Sono problemi che possono presentarsi ma che, se identificati abbastanza presto, possono consentire un intervento precoce e non c’è ragione perché queste difficoltà debbano avere un effetto a lungo termine sui fratelli. Come ho detto, dal punto di vista genetico e neurobiologico abbiamo ancora molta strada da fare per poter scoprire come coadiuvare le strategie terapeutiche. Non è che ci sia un unico gene che causi l’autismo, probabilmente ce ne sono molti coinvolti. La teoria generale afferma che ci sono tra 3-6 geni associati a questa patologia ed è per questo che aumentano le percentuali di sviluppo dell’autismo anche nei fratelli. Stiamo cercando di individuare siti particolari in particolari cromosomi per vedere se è possibile identificare

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la posizione di questi geni. Probabilmente questi geni verranno scoperti, ma saranno necessari anni o decenni prima che si possa arrivare a una terapia genica dell’autismo. La cosa importante da ricordare è questa: anche se l’autismo è una condizione genetica, questo non significa che non si possa trattare in modo efficace. Ci sono molti trattamenti che hanno dimostrato di avere efficacia e alcuni di questi trattamenti sono stati indicati ai genitori. Non credo che le traduttrici saranno in grado di tradurre tutto questo elenco di terapie ma questo vi dà un esempio di tutte le terapie disponibili adesso. Ci sono terapie farmacologiche, dietetiche, la manipolazione del cranio del bambino, l’uso di particolari occhiali, o l’utilizzo di nastri di musica, di suoni da ascoltare… Insomma ci sono molte terapie che vengono offerte ai genitori per curare l’autismo. Spesso ci sono persone che propugnano queste terapie. Per esempio, ci sono persone che dicono che la comunicazione facilitata può curare l’autismo e può guarirlo. Questa è una tecnica che consiste nel guidare il bambino ad utilizzare gli strumenti di comunicazione, tramite i quali scriverà meravigliosi messaggi sull’autismo, scriverà poesie o avanzerà dichiarazioni politiche. E’ stato detto che la comunicazione facilitata avrebbe consentito anche al paziente più disabilitato e con bassissimi quozienti di QI di portare avanti discussioni di elevato livello discutendo su idee astratte, raccontando barzellette, mostrando insomma livelli di intelligenza elevatissimi. Malauguratamente, anche se fossero in grado di farlo, sempre con l’aiuto di un facilitatore adulto che guidi la loro mano, comunque sarebbe difficile per loro dirvi in tempo che devono andare al bagno o cosa vogliono a pranzo. Questa tecnica in realtà non ha un grosso beneficio pratico. Sfortunatamente molti degli studi effettuati su questa tecnica hanno dimostrato che i messaggi che venivano ottenuti in realtà non erano stati redatti dal bambino ma dalla guida che li seguiva. Alcuni anni orsono è stata popolare la holding therapy terapia con la quale si cercava di contenere i movimenti del bambino durante una crisi e successivamente si diceva che il bambino diventava più socievole. Con questa tecnica si diceva che i sintomi dell’autismo si sarebbero perduti nel corso del tempo e che il bambino sarebbe diventato perfettamente normale. Recentemente è stato affermato che se i bambini seguivano una terapia comportamentale fin dalla più tenera età, crescendo, sarebbero diventati assolutamente normali. Il problema è che per molte di queste dichiarazioni, tanto più estreme erano le promesse, tanto meno evidenze c’erano che le terapie funzionassero. Molte di queste dichiarazioni non hanno una base sostanziale, perché non ci sono esperimenti di controllo che abbiano dimostrato la loro capacità di funzionare e non c’è neppure una casistica valida che dimostri la loro efficacia. Ovviamente nei mass-media sono sempre riportati i casi di quei genitori che dicono “questa terapia ha funzionato meravigliosamente per il mio bambino”, ma non si sentono mai testimonianze di genitori che dicono che non ha funzionato o che ha fatto addirittura peggiorare il bambino. Poi ci sono terapie che sono state oggetto di indagine e che hanno dato risultati assolutamente e totalmente negativi. Vorrei menzionare per esempio la comunicazione facilitata (Fig.2). Negli USA sono stati fatti investimenti per insegnare agli insegnanti ad utilizzare gli strumenti per guidare la mano del bambino. Milioni di dollari sono stati investiti, ma in effetti quando c’è stata una valutazione dei risultati i bambini non davano nessuna indicazione di essere in grado di comunicare indipendentemente. La comunicazione veniva dalla guida adulta e non dal bambino. Inoltre, negli USA si sono spesi molti soldi per particolari terapie farmacologiche contro l’autismo, per esempio la FenFluramine che agisce sui livelli di serotonina e che ha costituito il principale trattamento farmacologico riservato ai bambini autistici per intere generazioni. Con l’andar del tempo è divenuto chiaro che, anche se ci sono stati degli effetti positivi, ci sono stati anche molti effetti negativi e adesso in pratica il farmaco è stato ritirato.Ci sono molti bambini che fin dalla più tenera infanzia hanno seguito la terapia con questo farmaco e non c’è modo di sapere quali siano gli effetti a lungo termine di questa terapia.

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Poi ci sono altri trattamenti che sono stati valutati e che hanno dato risultati negativi ma è necessario lavorare ulteriormente per chiarire la situazione. Non sono certa che l’ODG intervention training sia stato diffuso anche in Italia ma era popolare in Francia e negli USA. I bambini dovevano ascoltare suoni filtrati ed erano desensibilizzati rispetto ai suoni che avevano su di loro un effetto negativo. Dovevano seguire la terapia per un paio di settimane. Indagini più recenti però hanno dimostrato che insegnare ai bambini nastri di musica, dargli delle istruzioni, farli sedere, farli star presenti può essere comunque un beneficio. Uno dei grossi interventi di cui si parla molto su Internet al momento, è l’uso di iniezioni di secretina, un enzima che viene iniettato di solito nello stomaco o anche per altra via. Alcuni genitori hanno detto che ha avuto un effetto miracoloso sullo sviluppo dei bambini. E’ un trattamento che era stato utilizzato per problemi del tratto basso intestinale su un paio di bambini che avevano anche una sindrome autistica associata. La secretina era stata iniettata per i problemi gastrici ed è stato detto che ha avuto un importante risultato anche per l’autismo. Nel Regno Unito ci sono persone che pagano 500 sterline per iniezione, ma studi più recenti, benché di estensione limitata, suggeriscono che non ha una particolare efficacia, soprattutto nel breve termine perché non c’è differenza tra il gruppo trattato e il gruppo che assume placebo. Sempre su Internet ci sono genitori che scrivono dicendo che hanno provato questo trattamento per i loro figli ma che hanno avuto effetti disastrosi, che effettivamente il comportamento del bambino è peggiorato e di molto anche. Al momento non ci sono reali giustificazioni che possano spingere i genitori a spendere un sacco di soldi per trattamenti di questo tipo (Fig.3). Infine, c’è tutta una vasta gamma di altri trattamenti che a mio avviso hanno bisogno di una maggiore valutazione perché senza dubbio sul quotidiano sembrano funzionare ma è necessario raccogliere ulteriori evidenze (Fig.4). Per esempio ci sono dei farmaci che vengono proposti che agiscono specificatamente sui livelli della serotonina. Ci sono altri approcci educativi, soprattutto uno che si concentra sulla comunicazione non verbale con i bambini, il programma, di cui parlerò maggiormente poi, che consente di organizzare l’ambiente del bambino in modo che questo sappia che cosa fare, quando i suoi compiti vengono conclusi e così via. Il TEACCH sembra avere una grossa efficacia anche se è necessario analizzare l’efficacia di questo trattamento su base sperimentale. Un altro programma che oggi viene utilizzato ampiamente e che in certa misura è simile o presenta delle analogie rispetto al TEACCH è il Pictury Change Communication System (sistema di comunicazione con scambio di immagini). I bambini con profonda disabilità hanno una facilitazione nel comunicare le loro esigenze mostrando delle immagini: se vogliono bere, invece di fare un segno o invece di dire che vogliono bere, mostrano per esempio l’immagine di un bicchiere oppure mostrano il modellino di una tazza o di un bicchiere di plastica con cui possono manifestare alla gente la loro esigenza. Ci sono poi anche altre tecniche che sono state messe a punto come quelle di storie sociali per bambini autistici in cui vengono utilizzate terminologie molto semplici, storie per immagini molto semplici per dimostrare loro quello che dovrebbero fare qualora si presenti un particolare problema o per indicare che non devono fare certe cose, come uscire dalla classe a metà lezione e così via. Sono storie molto semplici costruite intorno a problemi. Poi un altro lavoro è stato svolto al fine di sviluppare reti di amicizia per i bambini autistici sia per le scuole che prevedono l’integrazione di bambini autistici. Questi sono aspetti che vanno studiati più in profondità, ma c’è molto in corso per migliorare questa situazione. Fra le terapie più efficaci ci sono quelle che iniziano precocemente subito dopo la diagnosi del bambino. Alcuni di questi interventi precoci che sono stati studiati, iniziano quando il bambino ha 2 o 3 anni di età (naturalmente devono essere diagnosticati il più presto possibile); vi sono diverse tecniche utilizzate per fare una diagnosi, a volte si segue una impostazione pedagogica, altre volte una impostazione più

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comportamentale, ecc. Tutto questo avviene nell’ambito delle scuole oppure presso le famiglie o in alternativa in collaborazione con entrambe e questa è la soluzione migliore. I risultati di questi programmi che sono ancora pochi e che si concentrano su piccoli gruppi di bambini indicano che i bambini che ricevono la terapia molto presto riescono a sviluppare il linguaggio, le abilità sociali, la capacità di badare a se stessi e così via. In confronto al gruppo di controllo, il progresso è sicuramente migliore, non in tutti i settori ma in molti. E se analizziamo il progresso di bambini anche in seguito si vede che un gran numero riesce a frequentare le scuole normali. Purtroppo questi studi sono delle mescolanze di metodi diversi e anche di tecniche di valutazione diverse. Ad ogni modo l’intervento precoce è molto importante. Per il successo di questo intervento si sono elaborati dei programmi che si basano su un’impostazione tradizionale, sulla terapia comportamentale con il bambino che lavora individualmente e con l’adulto, con compiti che di solito si svolgono su un tavolino cominciando molto precocemente. Dai due anni per un periodo di 4 anni con 40 ore la settimana. Il numero di ore è importante: 20 o 30 ore non sono sufficienti; naturalmente tutto ciò comporta dei costi per i genitori e significa che molte famiglie hanno bisogno che i terapisti vadano a casa; questo comporta diversi problemi. Comunque vi sono stati dei miglioramenti notevolissimi nel QI di questi bambini e una maggiore integrazione scolastica. Questi bambini addirittura poi non vengono più distinti dai bambini normodotati. Tuttavia ci sono state anche delle critiche nei confronti di questo tipo di studi, perché parlano di guarigione e di bambini che sembrano normodotati anche se il campione studiato è troppo piccolo per poterlo affermare. Inoltre anche se il QI può migliorare ciò non significa che sia superato l’autismo. Poi ci sono le critiche riguardo alle metodologie del calcolo del QI, perché è molto difficile avere dei risultati affidabili specialmente nei bambini di giovanissima età. Alcuni terapisti che adottano questa impostazione dicono che non vedono bambini con comportamenti troppo aggressivi, con cambiamenti di umore improvvisi e questo perché i bambini riescono a mentire molto bene fin da giovane età. A conclusione, io penso che il trattamento precoce sia esso di tipo comportamentale o di tipo educativo, è comunque importante per i bambini e le famiglie. Non si può dire in modo categorico che un’impostazione è migliore di un’altra o che sia necessario avere una terapia di esattamente 40 ore settimanali piuttosto che un trattamento individuale, perché tutto questo non è rigidamente definito. E’ importante parlare del tipo di programmi, ma come sottolineavo è più importante il momento in cui si iniziano i programmi. Penso che fondamentalmente si possa concludere che è sì importante cominciare questi interventi il più presto possibile e secondo le indicazioni, ma i programmi di breve termine non funzionano, devono durare almeno 6 mesi e probabilmente di più, durante tutta la vita scolastica del bambino. Bisogna che vi sia sostegno almeno 2/3 ore al giorno, un buon rapporto tra adulto e bambino, un responsabile che gestisca il programma, la formazione degli educatori perché possano affrontare con cognizione di causa l’autismo. Tutto ciò è fondamentale se vogliamo che il nostro programma sia elaborato in modo razionale. Quindi parlare di un trattamento particolare per l’autismo o dire che qualsiasi trattamento può essere efficace per tutti è veramente privo di senso perché tutti i bambini sono diversi: ognuno ha la propria personalità, le proprie capacità e i deficit correlati all’autismo sono diversi e quindi si dovrà avvicinare ad ognuno di essi in modo diverso. Innanzitutto è importante riconoscere che il profilo intellettuale di un bambino autistico è vario. Alcuni hanno ritardo molto grave, altri hanno un ritardo moderato e circa il 20/25 % hanno invece un QI nella gamma “normale”. Un ragazzo con 130 di QI può iniziare un trattamento diverso rispetto a un bambino di 5 anni con un QI pari a 32. Oltre al QI anche le abilità del linguaggio sono diverse: alcuni non parlano, altri dicono solo alcune parole, altri ancora hanno un vocabolario estremamente ricco. In particolare quelli con sindrome di Asperger riescono ad elaborare concetti astratti, riescono a eseguire istruzioni diverse tutte insieme, ricevono tutto quello che ascoltano alla lettera e bisogna quindi far sì che il messaggio che diamo

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loro sia compreso. Naturalmente l’impostazione che useremo con un bambino che ha un ricco vocabolario dovrà essere molto diversa da quella usata con un bambino che non parla. Ci sono difficoltà con chi ha bassi livelli di linguaggio perché sappiamo che tutto quello che facciamo dovrà tenere in considerazione l’incapacità di comunicare; invece con il gruppo più abile sarà più facile pensare che i bambini capiscano. A volte non è detto: sembrano parlare di argomenti complessi, possono conoscere molte cose sulla biologia, esperimenti scientifici, la chimica e allo stesso tempo possono non capire alcune regole sociali molto semplici o altre cose. Quindi è difficile a volte trovare la strategia giusta per comunicare con bambini che riescono a parlare. E’ importante riconoscere i deficit fondamentali dell’autismo che interessano molti aspetti del comportamento del bambino come la comunicazione, la comprensione. La mancanza di linguaggio può diventare causa di frustrazione o di un comportamento aggressivo ma ci sono anche altri modi in cui il bambino può far capire ciò che sente. Con i bambini più capaci questi comportamenti diventano più rari ma è il linguaggio che può essere inadeguato, per esempio ci possono essere delle risposte sociali sgarbate, imprudenti e, a volte, è difficile sia per le famiglie che per gli istruttori gestire questi bambini. Molto dipende dal livello in cui si trova il bambino e dal suo livello di comprensione. Ci sono bambini che comprendono facilmente; nel gruppo dei bambini più dotati, questi capiscono fino ad un certo punto ciò che viene detto e questo significa che se diamo loro un messaggio questo verrà probabilmente recepito a metà fino a che non lo spiegheremo nei minimi dettagli. Se ad un bambino gli si dice di chiedere al padre se vuole una tazza di caffè, lui potrebbe chiederglielo ma potrebbe non ritornare a riferire la risposta. Se non glielo si spiega lui non lo farà. Oppure può sbagliarsi del tutto e quindi si può pensare che il bambino sia sgarbato, maleducato, che voglia adottare un comportamento distruttivo. Questa mancanza di comprensione può inviare dei messaggi diversi e anche errati alle persone. Il problema con il linguaggio è che non riguarda solo il modo di parlare ma anche le capacità di immaginazione interna. Se queste mancano ne conseguiranno molti altri problemi come per esempio comportamenti molto stereotipati. Con i bambini più dotati invece si potrà notare dell’immaginazione ma molte volte sono cose che copiano dalla TV, dai video. Questi bambini non vogliono coinvolgere altri bambini e a volte si arrabbiano se altri cercano di interferire nei loro giochi. Poi ci sono altre difficoltà sociali da prendere in considerazione. Tra i bambini con handicap più grave ci possono essere bambini molto chiusi, isolati e in questo caso la terapia dovrà cercare di aiutarli ad interagire con gli altri. Nel caso di bambini più dotati invece le preoccupazioni dei genitori di solito riguardano il modo insolito di interagire con gli altri: cercano di parlare a tutti quelli che vedono, seguono le persone. Conosco un bambino che ha l’ossessione degli orologi e vuole sapere sempre che tipo di orologio le persone indossano e quindi tira su le maniche delle persone per la strada per vedere che orologio hanno. E se per caso hanno un particolare tipo di orologio le segue per tutto il tragitto. Ovviamente questo rende i bambini molto vulnerabili per cui le difficoltà sociali sono sempre presenti anche se le modalità con cui si manifestano differiscono da bambino a bambino. Altri bambini più capaci soprattutto quando crescono desiderano disperatamente farsi degli amici, ma finché non li aiutiamo ad imparare come interagire il loro comportamento sarà completamente inappropriato e allontanerà i bambini piuttosto che avvicinarli. Ancora, i bambini più disabili possono manifestare comportamenti bizzarri come spogliarsi in pubblico o avere attacchi di rabbia in pubblico, mentre il gruppo di persone più capaci tende ad essere più sottile poiché cerca di adeguarsi al gruppo pur non riuscendoci. Comunque, con qualunque livello si lavori, le difficoltà sociali costituiscono un problema per l’integrazione, perciò fintanto che queste persone non avranno un aiuto speciale all’interno degli ambienti in cui vivono penso sarà molto difficile assicurarsi che agiscano isolati dai loro pari. In ambienti “non protetti” è

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importante aiutare non solo il bambino con autismo ma anche le persone normali affinché riconoscano i problemi che un bambino con autismo ha.Questo accade perché non hanno la visibilità di capire i discorsi e le reazioni delle altre persone. E’ chiaro che anche molti degli individui più capaci nel momento in cui crescono rimangono un po’ isolati e vivono una vita abbastanza solitaria e spesso sentono che la loro autostima è molto bassa. E’ chiaro quindi che le loro difficoltà nella comprensione sociale hanno un impatto molto ampio su molte altre aree di funzionamento. Allo stesso tempo il comportamento individualistico che si può trovare in ogni bambino autistico ha impatti differenti in base al livello del bambino: se si ha un bambino autistico molto handicappato le stereotipie sono di tipo fissare dei pezzi di carta, attaccare cose, dondolare o cose del genere, che possono interferire molto con la sua abilità di imparare altri compiti. Con bambini più dotati non sarà sufficiente giocare con pezzetti di carta, perché avranno bisogno di altre persone che partecipino alle loro routine, avranno bisogno che ci siano dei riti, che i fatti si svolgano in un certo modo. Sarà possibile notare una certa sofferenza sia nei dotati sia in quelli meno dotati se tali rituali vengono interrotti. Qualsiasi cambiamento viene male accettato. Il gruppo più dotato nonostante abbia degli schemi di comportamento piuttosto rigidi può anche sviluppare delle idee molto rigide sulle cose, su cosa è giusto e cosa è sbagliato. I bambini possono sconvolgersi se le persone intorno a loro non seguono certe regole di comportamento. Può preoccupare il fatto che bambini più dotati possano seguire questi rituali anche in situazioni che possono essere più pericolose, come ad esempio un bambino che scappava di casa perché affascinato dai treni e i familiari lo ritrovavano a bordo dei treni, in Scozia, nel Galles. E siccome si può arrivare fino in Francia prendendo un treno in Inghilterra, tutto questo porta a situazioni veramente pericolose. E’ importante ricordare che ci può essere un problema che può sembrare analogo per diversi bambini, come avere eccessi di collera o avere comportamenti aggressivi ma le cause possono essere diverse. Il bambino può essere aggressivo perché non ha altro modo per comunicare, non ha nessun’altra strategia, nessun altro comportamento per comunicare la propria sensazione, o perché se ha un eccesso di collera gli prestano attenzione. O magari può essere che ha un eccesso di collera perché è terrorizzato da qualcosa, perché la sua routine è stata disturbata. Lo stesso comportamento quindi può avere cause molto diverse. Quando si lavora con i bambini e si presentano dei comportamenti problematici, bisogna chiedersi se cercano di raggiungerci con il loro atteggiamento. Non vale la pena di cercare di liberarsi degli eccessi di collera, bisogna chiedersi come possiamo dare al bambino altri modi di manipolare il suo ambiente in modo altrettanto efficace. Dovrete insegnargli comportamenti o strategie alternative o dovrete guardare alla causa sottostante e di solito è necessario guardare a tutte queste componenti insieme. La cosa più importante è ricordare che se avete un bambino con comportamenti problematici, con eccessi di collera o comportamenti aggressivi e così via, non dovete concentrarvi sul comportamento superficiale ma dovete invece concentrarvi sull’elemento che causa questi comportamenti e lavorare quindi alla radice. Come ho già detto, una delle cose importanti da ricordare è che le difficoltà del bambino nella comunicazione possono stare alla base di molti problemi comportamentali, perché il bambino non ha una reale capacità di controllare il proprio ambiente con altri strumenti e con altri mezzi. Talvolta questi comportamenti che sono descritti come inappropriati o come maladattativi, in realtà per un bambino che non parla e che ha un basso livello di intelligenza possono essere molto adattativi, molto appropriati. Forse non vanno bene per gli altri, per la gente intorno al loro, ma per questi bambini sono modi di agire molto efficaci, e va ricordato anche che il bambino può provare una grossa sofferenza e una grossa ansia perché non comprende quello che sta succedendo intorno e non può comunicare questa paura agli altri. Quindi si deve tener presente che questi comportamenti inappropriati possono essere l’unico mezzo di comunicazione efficace che il bambino sa

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usare e quindi bisogna cercare di dargli strumenti di comunicazione più efficaci di quelli. Bisogna insegnare ai bambini che non usano le parole altri modi di comunicare, attraverso gesti o mostrando delle immagini o usando delle fotografie o dei modellini di cose particolari come una tazza, un bicchierino di carta, un modello di una toilette, del cibo: ci sono vari strumenti che possono essere utilizzati affinché il bambino che non può parlare possa indicare alla gente che cosa ha bisogno di fare. Un’altra cosa da ricordare è questa: gli insegnanti, i genitori, la gente che sta loro intorno e che si trova di fronte ad un comportamento molto difficile, per esempio a un bambino che sta urlando o che sta tirando i capelli alla gente devono cercare di interpretare il messaggio che il bambino sta cercando di mandare e capire se vuole uscire da quella situazione perché si annoia o perché è troppo difficile per lui oppure perché vuole altre cose. I genitori e gli insegnanti devono fare due cose: devono cercare di capire qual è il messaggio che il comportamento indica e poi devono cercare di dare ai bambini altri modi di comunicare lo stesso messaggio. Probabilmente la cosa più importante è che gli adulti parlino al bambino nel modo più efficace possibile. Il linguaggio deve essere semplice: se si da un’istruzione al bambino si devono indicare tutte le varie fasi incluse nell’istruzione, perché il bambino non comprenderà le parole non dette. Per quanto possibile, inoltre, bisogna cercare di rinforzare il messaggio verbale con un messaggio visivo. Non bisogna dargli messaggi complessi comprendenti una serie di compiti da portare avanti, ma bisogna dar loro messaggi semplici accompagnati da immagini o da istruzioni scritte. Una delle componenti più importanti per i programmi educativi per i bambini autistici è il velcro. Il velcro è molto importante perché i bambini possono attaccare e staccare cose molto facilmente, per esempio possono staccare vari bigliettini o varie immagini (attaccate su un particolare supporto con il velcro)che rappresentano un elenco di attività mattutine. Così il bambino può ridurre la quantità di istruzioni verbali che riceve. Naturalmente questo va fatto sia con i bambini che non hanno capacità di linguaggio, ma anche con quelli che ce l’hanno. Se cercate di comunicare sequenze complesse di istruzioni o l’orario giornaliero o settimanale, se cercate di spiegare loro che ben presto ci sarà Natale, immagini, calendari elenchi possono aiutare moltissimo bambini che hanno un QI di 140 o per bambini che hanno un linguaggio migliore di quello degli insegnanti della scuola. E’ utile per questi bambini come per quelli che non hanno capacità di linguaggio. Una buona comprensione delle cose di base non sempre significa una comprensione del tempo per un bambino con autismo. La nostra equipé aveva in carico un bambino che non aveva la comprensione del tempo e lavorare per due ore, per due minuti o per due giorni per lui era uguale. In questo caso abbiamo utilizzato quella specie di piccoli orologi che si usavano in cucina per vedere i tempi di cottura. Il bambino sapeva che quando l’orologio suonava poteva andarsene e per un periodo di due mesi se ne stava seduto per 35/40 minuti o anche di più. Quando riusciva a visualizzare il tempo perché vedeva che l’orologio procedeva era in grado di far fronte all’esercizio. Quindi con uno strumento visivo era in grado di aiutarsi. Quest’idea di usare delle indicazioni visive fa parte del programma educativo che abbiamo messo a punto e che è stato modificato da Theo Peters in Belgio ed è un sistema dove il linguaggio non è ridondante ma è supportato e integrato con immagini, indicazioni, colori, in modo che i bambini possono entrare in un ambiente dove c’è un’area rossa per lavorare, un’area verde per giocare, il lavoro da fare è sempre messo a sinistra, il lavoro finito è sempre messo a destra, l’orario contiene sempre delle immagini o degli elenchi di compiti da espletare e così via. Senza parlare al bambino, egli sa già cosa deve fare, dove deve trovarsi in quel momento, cosa può fare con il quaderno quando ha finito l’esercizio, dove deve andare a lavorare, dove deve andare a giocare e così via. Prestando attenzione all’ambiente possiamo ridurre la confusione che può insorgere dai messaggi verbali in questo modo per il bambino.

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Ora proseguirò parlando del comportamento sociale. Spesso i comportamenti problematici dei bambini con autismo, soprattutto in pubblico, possono essere dovuti al fatto che i bambini non capiscono le regole sociali. Le regole sociali non possono essere mai scritte. Tutti i bambini normodotati le conoscono, sanno per esempio come entrare in un altro gruppo di bambini. Se analizzate le varie fasi seguite dai bambini normodotati sono sovente molto complicate, comprendono momenti di attesa, approcci molto graduali prima di entrare in un gruppo; anche le interazioni più semplici con altri bambini comportano una comprensione molto complessa di regole che non sono però regole scritte. I bambini autistici semplicemente non hanno la capacità interiore di scoprire, elaborare comprendere queste regole, perciò non sanno come approcciarsi agli altri, non sanno come giocare, come stabilire un contatto oculare con loro, come guardarli. Per esempio, io ho avuto un bambino che aveva grossi problemi a scuola perché non sapeva quando doveva ridere. Aveva scoperto che quando i bambini raccontavano per esempio una barzelletta si riteneva giusto ridere alla fine, quindi lui pensava fosse giusto ridere quando l’insegnante parlava. Ma di conseguenza rideva sempre e in modo esagerato ogni volta che l’insegnante parlava. Rideva anche quando l’insegnante diceva che era arrabbiato con i bambini perché semplicemente non sapeva quando ridere o meno. E’ quasi impossibile però insegnare ad un bambino le regole per ridere al momento giusto. E’ impossibile anche per l’insegnante più abile concettualizzare queste regole. Quindi affrontare queste regole sociali è una grossa difficoltà perché noi non sappiamo le regole, le abbiamo nella nostra testa e non le abbiamo mai imparate né scritte. Quindi affrontare i problemi di comprensione sociale nell’autismo è una grossa difficoltà. Una delle cose molto importanti da fare è cominciare a insegnare regole sociali molto basilari il più precocemente possibile. I bambini devono sapere che non devono spogliarsi in pubblico, che non devono accostarsi agli estranei, che non devono toccare le cose nei negozi, che non devono parlare di certi argomenti che possono essere imbarazzanti all’esterno. Allo stesso tempo ci sono altri comportamenti sociali di base che devono esser loro insegnati come ad esempio a dire il proprio nome. Io ho lavorato anche con persone autistiche anziane abili ed è sorprendente vedere quanti di loro avevano ancora bisogno della madre per scegliere i vestiti e per indossare quelli giusti per il lavoro. Andavano al lavoro ma non sapevano radersi la mattina perché non avevano mai imparato questi compiti di base. La cosa più importante è cercare di insegnare precocemente ai bambini le regole molto semplici. Considerato che hanno comportamenti piuttosto rigidi se imparano questi compiti molto presto di solito vi si attengono e li sanno espletare bene. Successivamente, quando i bambini crescono, bisognerà cambiare le regole: per esempio se avete detto al bambino che può spogliarsi solo in casa ora può capitare che debba andare in piscina o dal medico e debba spogliarsi. Allora bisogna spiegargli che ci si può spogliare anche dal medico o in piscina. Oppure si possono aggiungere elementi qualificativi alle regole: seguendo il procedimento corretto i bambini sono in grado di far fronte a queste cose. Se un bambino però ha sempre potuto spogliarsi ovunque si trovasse perché nessuno gli ha mai detto il contrario, continuerà a farlo anche a tredici e magari anche a trenta quando questo comportamento non è più accettabile. Quindi è molto importante dare regole molto severe quando sono piccoli e magari renderle meno severe quando crescono. Che dire dei comportamenti stereotipati e ritualistici? Molti bambini con autismo spesso hanno un interesse o un comportamento ossessivo e una interruzione della routine o un comportamento imprevedibile può renderli aggressivi. Bambini che hanno questi interessi ossessivi possono anche fare impazzire i genitori e gli adulti che gli stanno in parte in certi momenti. Quando incontrate per la prima volta un bambino che ha, per esempio, un interesse ossessivo per le rane è interessante ascoltarlo. Ma parlarne 24 ore al giorno per 365 giorni all’anno vi porta poi a desiderare di strangolarlo. Questo effettivamente può costituire un’intrusione notevole nella vita degli altri. Il problema è che questi rituali e questi comportamenti ripetitivi e stereotipati

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sono molto importanti per le persone autistiche. Sono una parte integrante della condizione morbosa autistica e se cercate di eliminarli del tutto magari alla fine avrete una persona che soffre molto. Forse non ve ne importa nulla di parlare della vita degli anfibi ma se dite a quella persona di non parlare più di rane nella sua vita è come se il suo mondo cadesse a pezzi. Cosa si deve fare? Bisogna cercare di intervenire gradualmente. Di solito i comportamenti si sono sviluppati gradualmente, non nascono con quelle proporzioni. E’ una piccola cosa che il bambino comincia a fare, per esempio comincia a girare verso destra anziché a sinistra o si interessa un pochino delle rane, finché si arriva ad una fase dove il bambino va sempre e solo in una direzione. So di famiglie che devono fare dei giri pazzeschi per arrivare in un determinato negozio perché il bambino vuole sempre girare solo e solo a destra. Di solito queste cose nascono gradualmente. Se volete ridurle è meglio farlo altrettanto gradualmente, non eliminarle del tutto di colpo. Magari potreste gradualmente imporre delle restrizioni in modo che il bambino possa parlare della vita della rana ma per 10 minuti alla volta, o soltanto con certe persone, o solo in certi luoghi, o solo prima di andare a nanna, o solo nella vasca da bagno in modo da poter restringere il tempo da dedicare a queste attività. Credo che tutti sappiamo che ai bambini autistici non piacciono i cambiamenti, che i cambiamenti non vengono compresi. Per alcuni il Natale può essere un trauma perché ci sono grandi cambiamenti: cambia il cibo, cambia la routine, l’ambiente. Bisogna aiutare i bambini a capire che questi cambiamenti avverranno e questo li aiuterà ad aspettarli. Una collega di Theo Peeters, Hilde de Clerque, ha scritto di come il figlio odiasse tutti i Natali. Ha scritto di non essere mai riuscita a spiegare al figlio di cosa si trattasse. E’ riuscita ad anticipargli il fatto tramite dei cataloghi di regali natalizi e andando in giro per i negozi comprando esattamente quei giocattoli visti nei cataloghi. Poi preparava le confezioni regalo, le metteva sotto l’albero e preparava il figlio. Quando arrivava il Natale il bambino sapeva esattamente quale sarebbe stato il suo regalo e se ci fossero state delle differenze rispetto a ciò che si aspettava sarebbe rimasto traumatizzato. Lui doveva sempre sapere cosa stava per succedere. Grazie a tutto questo lavoro di preparazione il bambino ha potuto vivere serenamente il giorno di Natale. Naturalmente è stata una grande perdita di tempo, ma per questo bambino questo era l’unico modo per evitare che il Natale diventasse un incubo per sé e per gli altri. Il bambino non ha avuto nessuna sorpresa per il Natale e questo l’ha reso felice. Bisogna quindi prevedere il cambiamento e introdurlo gradualmente. A volte le famiglie cercano di affrontare il problema mantenendo tutto uguale, cercando di evitare cambiamenti nell’ambiente ma prima o poi è inevitabile che qualche cambiamento sia necessario e più il bambino si abitua ad uno schema rigido, più grande sarà lo shock il giorno in cui arriverà il cambiamento, quindi bisogna abituarlo ad affrontare e gestire il cambiamento. Anche con i bambini che hanno un interesse particolare per un oggetto che si portano sempre dietro bisogna agire gradualmente: si può ridurre il periodo di tempo che il bambino passa con quell’oggetto o se si tratta di un oggetto di grandi dimensioni si può cercare di ridurne la dimensione. C’è stato il caso di una bambina piccola che si portava dietro una coperta molto grande con attività stereotipate: infilava le dita nella coperta, se la portava dietro anche quando mangiava. Non faceva nulla, assolutamente nulla senza la sua coperta. La mamma doveva rubargliela la notte per lavarla altrimenti non ci sarebbe mai riuscita. Non sapeva più come comportarsi. Il problema era che in una mano la bambina teneva la coperta e nell’altra mano una cartolina e quindi aveva sempre le mani occupate e non riusciva a fare nient’altro. La madre quindi ha cominciato a tagliare via un pezzo di coperta ogni sera. La bambina non si accorgeva che si trattava di una coperta sempre più piccola e nel giro di un paio di settimane è risultato un pezzettino piccolissimo, poi qualche filo e la bambina si è stancata. Parallelamente alla riduzione della coperta è seguito il portarsi dietro la cartolina. Spesso togliendo l’oggetto al bambino, questi cercherà qualcos’altro da portarsi dietro in sostituzione. Si possono fare anche altri tipi di questo approccio graduale: è il caso di un bambino

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che soffriva anche di epilessia che si era ammalato in un certo periodo e la madre aveva cominciato a dormire nello stesso letto perché per via della febbre temeva che potesse arrivargli un attacco; il problema è stato che, una volta guarito, il bambino si era abituato alla presenza della madre e si svegliava subito se lei cercava di uscire dalla stanza, bagnando il letto e questo causava altri problemi. Alla madre era stato detto che doveva ignorare queste crisi e che doveva andare nella sua stanza ignorando il bambino. Il bambino avrebbe pianto una notte o forse due ma poi il problema sarebbe scomparso. La madre non voleva arrivare fino a questo punto perché era preoccupata dell’epilessia e non voleva sconvolgerlo. Il medico e l’assistente che andavano a dargli sostegno a casa la convincono a farlo. Il bambino non si è addormentato, ha continuato a gridare così tanto tempo che i vicini hanno dovuto chiamare la polizia perché pensavano che stessero abusando di lui: una situazione molto imbarazzante e molto difficile e ci volle molto tempo perché la madre riuscisse a controllarlo.Abbiamo detto alla madre di non lasciare la stanza, ma di usare un materassino gonfiabile di quelli da campeggio per riposarsi a fianco del bambino poi di allontanarlo gradualmente vicino alla porta, nel corridoio, fuori dalla stanza. Ci sono voluti due mesi ma dopo è potuta tornare a dormire nella sua stanza. In questo caso si è trattato di progetto graduale che non ha sconvolto il bambino e non ha reso più ansiosa la madre. Ora vediamo l’esempio di un bambino che non voleva mangiare da solo: a scuola lo faceva ma a casa voleva che la madre lo imboccasse. In questo caso si è deciso che la madre gli desse da mangiare la maggior parte del pasto e poi lo lasciasse finire da solo l’ultima cucchiaiata. Poi gradualmente la madre ha lasciato che il bambino mangiasse da solo più cucchiaiate. All’inizio il bambino si opponeva, era molto lento a farlo, mangiava solo un paio di cucchiaiate ma poi improvvisamente ha cominciato a mangiare tutto da solo. Questo è accaduto dopo una settimana, quindi in un periodo non molto lungo è riuscito a mangiare tutto da solo. Poi c’è il caso di un bambino che mangiava solo alcuni cibi e i genitori hanno cominciato ad aggiungergli piano piano altri cibi. L’accordo era che prima il bambino doveva mangiare il cibo nuovo e poi poteva continuare a mangiare sul piatto normale e così ha cominciato a mangiare altri alimenti. All’inizio il progresso era lento poi nel periodo successivo è migliorato molto. Questa impostazione così graduale può essere usata anche con altri comportamenti: fobie, bagno, in generale nei confronti dell’acqua. E’ il caso di un bambino che doveva essere lavato in un grande catino di plastica perché il bambino odiava la stanza da bagno. Per riuscire ad avvicinarlo al bagno e alle docce, hanno sfruttato il momento in cui hanno deciso di cambiare il bagno di casa e siccome in Inghilterra è difficile trovare gli idraulici e ci vuole molto tempo prima che vengano a fare i lavori hanno pensato di sfruttare l’occasione per far familiarizzare il bambino con il bagno e gli hanno permesso di portare i giocattoli in bagno e di giocare lì. Così il bambino poteva usare la vasca, che era inutilizzabile, per giocare. Il bambino non si toglieva i vestiti neppure quando faceva caldo e c’era l’acqua, ma piano piano sono riusciti a lavargli la faccia poi ad un certo momento gli hanno lasciato indossare il costume da bagno e successivamente sono riusciti ad aumentare il livello dell’acqua, a mettergli il tappo e alla fine, dopo un paio di mesi, il bambino entrava in vasca serenamente. Per un periodo non ha voluto che gli si lavassero i capelli e prima hanno lasciato stare ma poi hanno superato anche questo problema. Questa quindi non è una soluzione rapida ma non sconvolge i bambini e non mette in ansia i genitori e quindi appare come una strategia graduale molto utile. Un’altra cosa molto importante da ricordare quando si affrontano le stereotipie è che non bisogna sconvolgere la vita del bambino perché queste routine possono avere una funzione compensatoria e di

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ricompensa per il bambino. Il bambino può trovare giovamento a parlare di rane con qualcuno quindi queste sono delle ricompense sociali molto importanti, sono delle routine che danno conforto al bambino e lo aiutano a ridurre l’ansia e la sofferenza. A volte con la crescita queste diventano la base per i contatti sociali: ci sono persone che hanno coltivato interessi molto strani e particolari per esempio per gli insetti, insetti stecco o per le tartarughe. C’è chi ha sempre avuto la passione per le tartarughe e adesso appartiene ad una associazione per gli appassionati di tartarughe e gira per il mondo. Questa esperienze è stata positiva perché ha potuto far vedere che tutto ciò funziona da un punto di vista clinico. Penso sia da ricordare che l’autismo anche nei bambini dotati comporta dei deficit fondamentali come quelli sociali e comunicativi che sono così radicati che esistono pochi modi per eliminarli. A volte si può fare molto di più e invece che tentare inutilmente di eliminarli si può cambiare l’ambiente. Quindi se sappiamo che una certa situazione causa sofferenza al bambino dobbiamo evitarla. Nelle scuole inglesi, ad esempio, c’è un intervallo piuttosto lungo per il gioco; ci sono periodi addirittura di un’ora e mezza in cui i bambini sono liberi e questo tipo di ambientazione non strutturata per un bambino autistico è debilitante. Quindi a volte i bambini diventano aggressivi con comportamenti che non si riscontrano quando il bambino è in classe con l’insegnante. Alcune scuole insistono comunque che il bambino autistico vada a giocare con gli altri anche se per il bambino questa è una tortura più che un rilassamento: bisogna far sì che gli insegnanti capiscano questo punto. In questo caso lasciare il bambino in un aula sarà meglio per tutti. Aiutare gli altri a capire le esigenze di un bambino autistico è importante. Tutti devono seguire le stesse regole.Un’altra cosa è fare in modo che l’ambiente sia il più prevedibile possibile.

Dr. D. Vivanti“I servizi per l’Autismo in Europa: un impegno dell’Associazione Autisme Europe”

Innanzitutto presento le scuse del presidente di Autisme Europe che non può essere presente. Il consiglio direttivo di Autisme Europe che è composto da sei membri, tra cui appunto io, mi delega a rappresentare l’associazione europea in questa sede e a salutare tutti. Forse non tutti sapete che Autism Europe è un’associazione che riunisce circa 90 associazioni di 30 diversi stati europei alcuni dei quali aderenti all’unità europea altri esterni ad essa, tra cui Polonia, Ungheria, Slovacchia ecc.. Autismo Italia, l’associazione italiana di cui sono presidente, è l’associazione che fa parte del consiglio di amministrazione di Autisme Europe; nel consiglio direttivo si entra per chiamata del presidente per aiutare la gestione dell’associazione. Quindi il ruolo del consiglio direttivo e dei suoi membri è un ruolo gestionale che serve a gestire il lavoro di Autisme Europe che è soprattutto di tipo politico, cioè quello di svolgere un’azione di lobby possibilmente il più vicino possibile alla Commissione Europea in modo da influenzarne le politiche nella speranza di influenzare anche il destino dei finanziamenti. Autisme Europe fa quest’azione di lobby attraverso gli organismi che sono più vicini alla commissione europea, in particolare il “Forum delle persone disabili e diverse” di cui il presidente di Autisme Europe è il vicepresidente e la “piattaforma delle ONLUS sociali” a cui Autisme Europe è stata invitata a partecipare. Autismo Italia è un’associazione di genitori ma anche di piccole associazioni non lucrative come appunto la nostra Fondazione di Milano che offre servizi di accompagnamento sul territorio a persone autistiche – diagnosi, valutazione, programmi – sia per scuole che per famiglie. L’associazione Autismo Italia lavora in collaborazione con gli enti pubblici e privati della zona. Ci piacerebbe naturalmente anche avere con noi la Dottoressa Raffin e il suo gruppo.

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Per tornare all’argomento servizi in Europa, l’idea di Autisme Europe è che naturalmente vadano rispettate sia l’individualità della persona sia le condizioni culturali locali. Non esiste, come abbiamo detto, né la bacchetta magica né la soluzione a portata di mano: per l’autismo esistono degli interventi globali e di supporto sul bambino e sulla famiglia che ovviamente non possono non tener conto delle condizioni culturali del singolo paese. L’approccio, la concezione di Autisme Europe, è considerare la sindrome autistica come congenita o comunque con una manifestazione molto precoce. Non spetterà certamente all’associazione definire queste caratteristiche ma diciamo che vengono accettate le condizione ritenute attendibili dalla Comunità Scientifica Internazionale. Non si deve dimenticare che la sindrome autistica è una sindrome cronica, grave; anche nelle sue manifestazioni più lievi è comunque un handicap molto invalidante a livello di inserimento sociale perché è irreversibile anche se, come è stato detto, qualche miglioramento ci può essere. Si devono fornire ambienti di lavoro e di vita adeguati perché, nel rispetto dei diritti della persona, non sarebbe logico aspettarsi che la persona più debole, la persona handicappata debba fare tutti gli sforzi per adattarsi ad un mondo che non comprende. Mi sembra logico e più civile che le persone più fortunate e più dotate che siamo noi, facciano maggiori sforzi per adattarsi al più debole. Naturalmente per ambienti di lavoro si intende anche l’ambiente scolastico e la famiglia. Lo scopo dei servizi dovrebbe essere di favorire una migliore qualità di vita sia al bambino sia alla famiglia, di favorire lo sviluppo delle potenzialità del bambino, di valorizzare i suoi punti forti, piuttosto che insistere su ciò che non sa fare e naturalmente avere presente il diritto di ogni persona ad una vita piena ed intelligente. La dottoressa Howlin ci ha mirabilmente parlato dei problemi di comportamento che io riassumo adesso con l’immagine dell’iceberg di Schopler. Come voi sapete, i problemi di comportamento possono rappresentare il problema più grosso sia per i genitori sia per gli operatori, ma dobbiamo considerare che i problemi di comportamento non sono che la punta dell’iceberg visibile del mare e che i problemi di deficit della persona autistica più importanti stanno sotto il pelo dell’acqua. Non si vedono ma se noi non affrontiamo questi deficit che stanno alla base e se ci rivolgiamo solo ai problemi di comportamento è possibile che a un problema se ne sostituisca un altro e che questo circolo diventi vizioso. Ma come fare ad affrontare i deficit sottostanti? A questo punto richiamiamo in nostro aiuto la già citata Francesca Happé. Dal suo bel libro ho preso questo schema di Morgan e Frith sullo sviluppo dei disturbi dello sviluppo. Come dice la dottoressa Happé, se un anziano viene a chiedervi che cos’è una mela potete dargli una risposta diversa a seconda di quello di cui ha bisogno: se lui ha fame gli potreste dire che è qualcosa di dolce, che si mangia, pieno di vitamine, ma se lui la vuole disegnare gli spiegate che è tonda, colorata e via dicendo. Allo stesso modo si può parlare dell’autismo da diversi punti di vista: si può parlarne dal punto di vista organico: avete già sentito dire che la base dell’autismo sta in una disfunzione del cervello, si può parlarne come di un disturbo di tipo cognitivo: avete sentito il dottor Bowler raccontarci degli aspetti cognitivi che stanno alla base delle manifestazioni aurtistiche e si può parlarne anche a livello dei sintomi, quindi della triade sintomatologica e al di sotto della triade di tutte le manifestazioni comportamentali che sono dovute alla triade sintomatologica. Quello che è importante è che possiamo parlare dei tre livelli a seconda di quello che vogliamo sapere. Se per esempio parliamo del livello organico parliamo della causa prima dell’autismo cioè del livello eziologico ed è questo il livello a cui dobbiamo rivolgerci se cerchiamo la cura risolutiva per l’autismo. Ma la cura risolutiva per l’autismo ancora non c’è perché il livello eziologico è ancora oggetto di ricerca e ancora non ci sono dati sperimentali tali che ci consentano di aggredire il momento eziologico dell’autismo, cioè quando quell’alterazione del cervello si determina, affrontando la quale sarebbe possibile o guarire o ancor meglio prevenire, in modo che bambini autistici possibilmente non ne nascano più e questo

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è in fondo il nostro obiettivo a lungo termine più importante. Ma non possiamo intervenire a questo livello: ricordatevi che ci sono dei farmaci che possono funzionare sui sintomi ma che non esiste la cura per l’autismo. Quello che è importante ricordare quando si vuole somministrare un farmaco è che deve essere dato nell’interesse del paziente. Questa è una parentesi fatta perché non ci siano equivoci, perché bisogna sapere che le terapie farmacologiche non affrontano le cause perché ancora non si conoscono. Se poi passiamo ad un livello più basso, queste cause biologiche aggrediscono il cervello. Avete sentito parlare di fattori genetici e c’è anche una certa evidenza che agiscano fattori ambientali a questo livello. Qualcuno aveva fatto una domanda sulle manifestazioni dei sintomi dell’autismo che riguarderebbero un 50% dei bambini intorno all’anno e mezzo due di età. Una delle ipotesi più importanti è che in realtà a posteriori è difficile indicare se davvero è così o se non ci fossero già dei preliminari. Tuttavia esiste un certo numero di casi in cui i sintomi sono precipitati in modo drammatico in seguito a manifestazioni febbrili, o per esempio encefalopatie, crisi allergiche, vaccinazioni. Non si sa se esista un legame eziologico fra le due cose, cioè se ci possa essere un legame di causa effetto. Questo non è possibile saperlo al momento. Quello che però è suggestivo è che questa insorgenza di sintomi dopo un episodio organico acuto è comune all’insorgenza dei sintomi di molte malattie neurologiche. Ritorniamo al nostro cervello colpito. Cosa vi può essere di colpito? O la struttura o la funzione. Se parliamo di alterazione della struttura abbiamo dei quadri aspecifici che sono peraltro frequentemente presenti nell’autismo: parlo della dilatazione dei ventricoli temporali o dell’alterazione della dimensione del cervelletto e così via.. Quale che sia il momento determinante si arriva al secondo livello di Morgan e Frith: il livello cognitivo. Non ne parlo perché questa mattina il Dr Bowler ha trattato l’argomento esaurientemente e quello che è interessante è che alcuni aspetti cognitivi dell’autismo si conoscono, pur essendo ancora oggetto di ricerca. Per esempio si conosce che c’è una qualche alterazione della memoria, una certa mancanza di teoria della mente, si conosce per esempio il disturbo di attenzione che molte persone autistiche hanno e quindi se noi possiamo aiutare le persone a questo livello evidentemente le aiuteremo anche in quelle che sono le manifestazioni della sindrome, cioè nella comunicazione, nell’interazione sociale e nell’immaginazione. Adattando l’ambiente a quello stile cognitivo che è dovuto al deficit cognitivo noi riusciremo a dare un aiuto anche alle manifestazioni dell’autismo. E’ un po’ come ripresentarvi la figura dell’iceberg ma al contrario: agendo a livello superiore si può dare un aiuto a livello delle manifestazioni. Questa è una parentesi che faccio perché sono la mamma di due gemelli autistici eterozigoti ma sono anche medico di formazione, quindi ovviamente sono attratta da questo tipo di cose.Per quanto riguarda le attività pratiche di Autisme Europe naturalmente oltre alla sfera politica e di coordinamento fra le varie associazioni, si è dato luogo a collaborazioni e progetti europei. Qui in Italia come sapete abbiamo in corso un progetto “Horizon” nella regione Lombardia che dal punto di vista trannazionale è nato proprio nell’ambito di Autisme Europe con rappresentanti dell’associazione europea. Poi ci siamo impegnati per esempio come associazione europea nella definizione dell’autismo e nella revisione delle CIDH che è la definizione dell’handicap ma soprattutto è stato interessante il progetto “Dafne”, finanziato con il contributo della Comunità Europea e che ha consentito la realizzazione di un manuale di pratica nei confronti delle persone autistiche e che rispecchia un po’ la visione che le associazioni di Autisme Europe hanno di servizi ideali per l’autismo. Naturalmente gli autori sono tutti dei professionisti tranne due: una sono io che mi sono occupata della vulnerabilità della persona autistica in famiglia, e l'altra è la Gerland che è una persona autistica dotata, una svedese, paziente di Cristopher Gilbert che ha dato una sua testimonianza sull’effetto che su di lei ha avuto la psicoterapia.

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Questo studio è ancora in corso e finanzia azioni in favore delle fasce deboli principalmente bambini e donne ma è stato approvato il nostro progetto perché è stata riconosciuta una maggiore vulnerabilità della persona autistica rispetto agli altri handicap. Perché questa vulnerabilità? Intanto per le aspettative esagerate, perché i bambini autistici, pur avendo un deficit intellettivo da medio a grave, per la maggior parte hanno un aspetto normale e la mancanza di segni fisici di handicap può indurre chi non è esperto di autismo a credere che siano tutti intelligenti e con queste aspettative esagerate a frustrarli e a trattarli come persone ostinate, come cattivi, come bambini che non vogliono invece che trattarli come persone che non possono.Questa credenza esiste ancora in Italia e in una parte della Francia e rappresenta un rischio per il bambino e per la famiglia perché questa colpevolizzazione può portare alla paralisi e quindi alla mancanza di un intervento da parte della famiglia sul bambino: la rinuncia educativa è negativa perché il bambino ha bisogno anche in famiglia di chiarezza, di educazione, di regole e di limiti, come vi ha detto la Dott.ssa Howlin,. Un altro pericolo è appunto quello di credere che il bambino non faccia perché non voglia e quindi, come dire, di guastare un po’ i rapporti familiari, creando degli equivoci e delle tensioni che certamente non aiutano né la famiglia né il bambino. Naturalmente poi sono gli stessi problemi legati all’autismo che sono molto difficili per la famiglia stessa e anche per gli operatori. Le caratteristiche stesse dell’autismo rendono l’handicap particolarmente difficile: immaginate cosa deve provare un genitore che si vede apparentemente respinto da un bambino bello e apparentemente perfetto in cui ha già posto amore e devozione, si crea come un rapporto d’amore non corrisposto che tuttavia, contrariamente a un rapporto d’amore rifiutato nella vita, non si può e non si vuole rinnegare. E’ quindi uno sbilanciamento di questo rapporto d’amore che crea uno stress, molto pesante per la famiglia. Il disturbo della comunicazione è altrettanto difficile da affrontare anche perché, malgrado la famiglia se ne sia accorta presto, spesso viene consolata con le solite frasi che molti hanno sentito: “Lo zio ha parlato a quattro anni”, “abbiamo altri tempi”, ecc. E purtroppo si sentono dire queste cose non solo da amici e parenti, ma anche da professionisti non esperti e anche questo non fa che ritardare l’intervento e creare nella famiglia un senso di frustrazione, di inadeguatezza e di incapacità come genitore nei confronti di questo bambino che non impara e non comunica bisogni e tantomeno sentimenti. Naturalmente i problemi di comportamento sono estremamente pesanti da affrontare tanto e la famiglia che si trova di fronte ad un bambino che passa il tempo a picchiarsi o a dare calci e morsi ai coetanei prova un dolore che difficilmente si può superare senza un gran livello di stress. E non c’è solo questo: ci sono anche i problemi connessi all’iperattività. Il bambino iperattivo non dà tregua, le stesse case a volte assomigliano più a prigioni che non a focolari: con i soprammobili nascosti, le medicine nascoste, i detersivi messi fuori dalla portata del bambino, e neanche uscire dà sollievo perché con un bambino iperattivo si corrono grandi pericoli ed è un inseguimento continuo, riposarsi è impossibile, le vacanze non esistono e perfino ammalarsi diventa un lusso, si finisce per trascurare gli altri figli, la coppia scoppia e lo stress della famiglia, di tutta la famiglia, diventa cronico. Naturalmente anche l’ambiente contribuisce a creare difficoltà, che sono sia le tante credenze sull’autismo, ma anche l’incomprensione sociale. Molti genitori, infatti, scambiano le manifestazioni bizzarre dell’autismo per maleducazione e il genitore si sente spesso rifiutato, incapace e viene criticato spesso da amici, vicini e parenti, di cui avrebbe invece enormemente bisogno e finisce per trovarsi a vivere una situazione di stress veramente molto pesante. Ma il più difficile problema, l’incubo che accompagna le famiglie fin da quando il bambino è piccolo, sono proprio l’incertezza del futuro, “che cosa sarà di questo bambino quando non ci sarò più io a curarlo e a volergli bene?” Credo che non esista genitore che non abbia in qualche modo invidiato i

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genitori dei bambini con gravi handicap fisici e che non si sia augurato di poter sopravvivere al proprio figlio per potergli evitare questo futuro in solitudine. Naturalmente la cosa più importante è appunto la formazione, sia dei genitori che dei professionisti, perché se è vero che il mito della madre frigorifero, colpevolizzando la famiglia, aveva come conseguenza logica l’esclusione della famiglia dal trattamento, le conoscenze attuali ci dicono al contrario che l’autismo ha un origine biologica e che la fiducia nella capacità dei genitori non ha motivo di non esserci e quindi come ovvia conseguenza la collaborazione dei professionisti con la famiglia è pressoché indispensabile. Theo Peeters sostiene che la collaborazione tra famiglie e professionisti non solo non è rifiutabile ma è auspicabile, sia per il ruolo educativo che la famiglia ha, essendo i genitori i primi educatori del bambino, sia per la conoscenza approfondita che ogni genitore ha del suo bambino con il quale vive ventiquattro ore su ventiquattro per ogni giorno dell’anno. Inoltre nessuno è più motivato della famiglia a migliorare le proprie condizioni e le condizioni del bambino e nessuno ha la stessa responsabilità, infatti qualunque professionista un giorno può rinunciare e dedicarsi ad altro o andare in pensione, ma il genitore non può permetterselo e la responsabilità ultima del figlio è comunque sempre sua. Ed infine la continuità: noi sappiamo quanto sia difficile creare continuità e coordinazione nell’intervento dei nostri figli e può capitare che la famiglia sia l’unico fattore di continuità nella sua presa in carico. Quindi è necessario collaborare, tenendo conto delle sue conoscenza e quindi utilizzando la sua testimonianza sia nella diagnosi che nella valutazione e utilizzando i suoi bisogni e le sue necessità nell’impostazione dei piani educativi individuali. Collaborando, noi aumentiamo non solo le possibilità del bambino di migliorare, ma miglioriamo l’autostima sia del bambino che della famiglia. Garantire dei successi ai genitori e ai bambini attraverso scambi positivi è lo strumento più adeguato per conoscersi ed apprezzarsi, per migliorare il sentimento di sé e la qualità della vita della famiglia compreso il bambino perché non è pensabile che la qualità di vita del bambino migliori indipendentemente dalla qualità di vita della sua famiglia. Questi concetti li trovate descritti molto più dettagliatamente sul manuale di buona pratica.Vorrei finire citando ancora Theo Peeters quando ci parla della necessità di formare gli operatori con la finalità di migliorare la condizione delle persone autistiche e di rispettarle. Peeters parla anche del profilo del professionista che lavora con l’autismo, perché pur formati, ci sono professionisti che non saranno mai adatti a lavorare con l’autismo; questa non è una colpa, ma è un’indicazione a non stressarsi con qualcosa che non è adeguato al proprio essere e al proprio stile. Per lavorare bene con l’autismo sono essenziali le seguenti qualità: “Essere attratti dalle diversità”, perché questi bambini sono veramente curiosi, uno diverso dall’altro,

sono difficili ma possono essere anche affascinanti nelle loro manifestazioni. Ed allora, se qualcuno è in grado di cogliere questo lato intrigante, dovrebbe sfruttare questo punto di forza.

“Avere una vivace immaginazione” perché il bambino manca della capacità immaginativa, quindi l’immaginazione di chi deve mettersi nei suoi panni deve essere davvero enorme.

“Essere capaci di dare senza ricevere ringraziamenti”: quando poi si conosce meglio l’autismo si colgono delle forme di ringraziamento, ma almeno all’inizio è necessario essere disinteressati.

“Essere capaci di adattare sé stessi”, ossia la persona forte della coppia deve adattarsi alla persona più debole, e deve avere il coraggio di lavorare da sola nel deserto perché spesso succede che i colleghi non capiscano e ritengano bizzarre le strategie utilizzate con le persone autistiche.

“Non sentirsi soddisfatti del proprio grado di conoscenza” perché chi pensa di sapere tutto ha perso la sfida e non sa nulla. Ogni giorno si scopre qualcosa di nuovo e in ogni individuo autistico ogni giorno

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può sorgere un problema nuovo, chi si ferma nella formazione probabilmente ha perso il treno della propria conoscenza.

“Accettare che ogni piccolo progresso porti con sé un nuovo problema” “Possedere capacità pedagogiche ed analitiche straordinarie”, di cui avete avuto un’idea da quanto

la prof. Howlin vi ha raccontato sulle strategie necessarie per affrontare i problemi di comportamento. “Essere disponibili a lavorare in équipe” perché nessuno può pensare di risolvere da solo i problemi

pervasivi: per un problema pervasivo ci vuole una risposta pervasiva. I servizi, le famiglie e tutti coloro che hanno in carico questi bambini devono riuscire a collaborare, perché è soltanto così che i miglioramenti potranno essere consistenti e stabili.

“Essere umili” si lega un po’ al fatto di accettare anche il parere diverso, magari delle famiglie o di un altro professionista, e poi alla fine “l’Amore?” con il punto di domanda. E’ naturale che per affrontare un handicap come l’autismo ci voglia l’amore, questa è la condizione di base, ma non bisogna credere che l’amore sia sufficiente. Se noi mettiamo tanto amore nel nostro lavoro e non otteniamo risultati che cosa significa: che non abbiamo amato abbastanza? O forse abbiamo amato abbastanza e il bambino non ha accettato il nostro amore? Certi atteggiamenti sono distruttivi e non portano a nulla di buono, in realtà ciò che ci vuole per lavorare bene è essere consapevoli e coscienti delle difficoltà e appunto umili. L’amore è indispensabile ma non basta perché l’autismo è veramente diverso.

Dibattito

D. Il bambino autistico se non vede una ragione per raccontare un ricordo non lo fa. Ciò significa che non ricorda se non su stimolo e di conseguenza non ricorda autonomamente? Esiste un modo per verificare ciò?

Dr. BowlerL’immagine della memoria negli autistici non è un’immagine completa come vi ho fatto vedere questa mattina quello che conosciamo può esser sintetizzato come segue. Esistono delle difficoltà in situazioni che richiedono l’uso della memoria nelle quali è l’ambiente che offre uno stimolo per ricordare quello che deve essere fatto e le difficoltà esistono nel momento in cui bisogna tirar fuori delle informazioni internamente, cioè richiamare la memoria, riorganizzarla, setacciarla e trovare gli elementi utili selezionandoli dagli altri. Tutte queste azioni sono disorganizzate nelle persone che hanno problemi del lobo frontale del cervello. Ma non è una funzione tutto o niente. Non è detto che un individuo autistico non possa fare una cosa bene e possa invece fare qualcos’altro. Ci sono dei punti di forza e dei punti deboli come abbiamo visto, c’è una certa disposizione che può essere misurabile e può essere anche lieve in un individuo rispetto ad altri. Non possiamo dire che non abbiano memoria perché sappiamo che riescono a memorizzare delle cose bene.

D. Com’è la situazione negli altri paesi del mondo, come si convive con questo problema?

Dr. VivantiIo posso dire che ho parlato di Autisme Europe perché io ne faccio parte ma esiste anche un’Associazione Mondiale dell’autismo la “World Autism Organization” di cui fa parte anche l’India e direi che le visioni che io vi ho detto sull’autismo e che avete sentito dai nostri oratori sono comunque più o meno condivise da tutti, naturalmente nel rispetto delle singole particolarità. Per esempio negli USA la situazione è molto articolata perché in ogni stato in realtà si possono trovare delle risposte differenti. Diciamo che lì magari prevale la

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cultura del liberismo che si applica anche per l’handicap. Ma per quanto riguarda l’autismo quello che avete sentito dai nostri relatori sono acquisizioni accettate a livello mondiale, non c’è differenza di concezione.

D. Oggi si è parlato dell’associazione tra autismo di Kanner e ritardo mentale. Volevo chiedere ai due relatori Dr. Bowler e Dr. Howlin se c’è comunque la possibilità di misurare un livello intellettivo per autistici non verbali, in che modo, e più o meno quali risultati possono dare queste indagini.

Dr. HowlinPenso che comunque ci sia bisogno di professionisti che conoscono l’autismo, ma certamente con le abilità giuste esistono dei test disponibili per misurare l’intelligenza non verbale. Attualmente noi abbiamo valutato due o tre bambini autistici con problemi diversi a livello di linguaggio e con altre difficoltà e con un’assistenza psicologica ben organizzata. In altri studi abbiamo testato bambini in età molto giovane e poi li abbiamo ricontrollati ad un’età più matura e abbiamo visto che vi sono delle misurazioni affidabili che possono essere effettuate. Una misurazione precoce ha una minore affidabilità rispetto a bambini più grandi ma esistono dei test affidabili. E’ possibile utilizzare dei test che hanno una componente verbale e una non verbale ma è comunque possibile ottenere dei risultati affidabili. Ma per fare questo c’è bisogno che siano degli esperti a effettuarli, sia su bambini di giovane età sia su bambini che abbiano già capacità comunicative. A volte ci vuole diverso tempo per ottenere dei risultati buoni e non è detto che in un’unica sessione si riesca ad ottenerli, ma ripetendo il test nel tempo non è troppo difficile arrivare ai risultati.

D. Volevo chiedere alla Dr. Howlin che differenza c’è tra un bambino autistico e un bambino con un disturbo autistico.

Dr. HowlinNon so la risposta perché temo che sia un problema di termini che vengono usati a volte in modo diverso. A volte si usa il temine disturbo autistico, altre volte è soltanto un sinonimo di autismo, altre volte si intende un bambino che abbia uno o due sintomi dell’autismo e non i tre criteri di base tutti insieme. Quindi penso sia difficile dare una risposta alla sua domanda. Nello studio che abbiamo svolto per identificare l’età di sviluppo dell’autismo abbiamo studiato anche quali sono le etichette che vengono date ai genitori. I genitori che hanno le etichette più vaghe come ‘disturbo di tipo autistico’ oppure ‘caratteristiche autistiche’ o ‘tendenze autistiche’ erano meno contenti di queste diagnosi rispetto ad una ben definita di “autismo” o di “Asperger” perché in quel modo potevano consultare libri e altre fonti, altrimenti le tendenze autistiche sono più vaghe e difficili da capire. I professionisti utilizzano questi termini in modo diverso e questo è il problema, perché è anche più difficile sapere come comportarsi .

D. Io volevo ringraziare i relatori per il loro utilissimo contributo che hanno dato perché si possa anche qui da noi affrontare l’argomento dell’autismo tenendo ben presente che a una disabilità grave della comunicazione bisogna per forza far fronte con risposte adeguate. Quindi una serie di premesse sono state date e in particolare quello che mi sembrava molto importante sottolineare è che la diagnosi precoce è fondamentale perché si possano ottenere anche su questo fronte dei miglioramenti nel comportamento e nelle prestazioni. Mi restava da chiedere casomai se in Inghilterra, lo strumento che Baron-Cohen e Gillbert hanno messo a punto, cioè la CH.A.T. sta dando dei buoni risultati perché credo che qui da noi ci sia proprio bisogno di anticipare l’età in cui si riconosce ufficialmente che il bambino è autistico ed ha bisogno di un

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intervento in tanti fronti soprattutto in quello della comunicazione e dello sviluppo del linguaggio. In questo senso dovremmo avvicinarci al modo di affrontare altre patologie dove appunto l’intervento precoce è stato in grado di farci vedere che le cose possono davvero cambiare di molto.

Dr. HowlinIl metodo C.H.A.T. (Check List for Autism/PDD in Toddlers) è una check list, un elenco di punti utilizzato in questo settore. Non so se esiste un equivalente che viene somministrato subito dopo la nascita di un bambino per controllarne lo sviluppo. Non è una figura che esiste in Italia ma da noi è un servizio regolare e si sono aggiunte a questo tipo di controllo delle domande aggiuntive. Ad esempio si chiede come il bambino indica, come fa le domande, come comunica. Una lista piuttosto breve pubblicata dalla Società per l’Autismo in Inghilterra. Il personale addestrato per l’uso di questo metodo ha dimostrato che si tratta di uno strumento molto utile anche se non diagnostico. E’ importante come strumento di screening per individuare quei bambini che possono dimostrare i problemi tipici dei bambini autistici e quindi in seguito a questo possono essere riferiti a dei centri specializzati. Non è uno strumento diagnostico ma può essere uno strumento utile per identificare bambini con problemi che richiedono ulteriori valutazioni.

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Fig. 1

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Fig.2

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Fig.3

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Fig.4

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Fig.5

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Fig.6

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