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Cristiana Fanelli Lituraterre La lingua e la scrittura giapponese Il testo Lituraterre nasce da un viaggio di Jacques Lacan in Giappone e segna una tappa importante nella sua riflessione sulla lettera e sulla scrittura. In questo paese Lacan era già stato nel 1963; allora l’incontro fu con la statuaria buddista ed ebbe notevoli effetti nelle ricerche che conduceva sullo sguardo come oggetto causa di desiderio. Le tracce di questo primo viaggio confluirono in due seminari: L’angoscia 1 in cui Lacan ha riletto l’Unheimlichkeit freudiana attraverso l’oggetto sguardo, riferendo del suo viaggio in Oriente nel capitoletto Le palpebre di Buddha 2 ; e I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi 3 in cui Lacan ha intrecciato le teorie dell’ottica con quelle dell’estetica orientale, per giungere infine ad un confronto con Il visibile e l’invisibile (1964) di Maurice Merleau-Ponty 4 . Questo secondo viaggio è invece all’insegna dell’incontro con la lettera giapponese, in particolare con la calligrafia, l’arte del Tratto in cui secondo Roland Barthes «l’atto di scrittura soggioga l’atto pittorico, di modo che dipingere non è mai altro che inscrivere» 5 . La calligrafia infatti ha origine nella scrittura e la scrittura ideografica giapponese ha una storia complessa: in qualche modo è un corpo “estraneo” alla lingua giapponese perché proviene dal cinese. Gli ideogrammi cinesi vennero introdotti in Giappone durante il V secolo 1 J. LACAN, Il seminario. Libro X, L’angoscia (1962-1963), a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino, 2007. 2 Ivi, pp. 240-248. 3 J. LACAN, Il seminario. Libro XI, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964), a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino, 2001. 4 M. MERLEAU-PONTY, Il visibile e l’invisibile, a cura di M. Carbone, Milano, Bompiani, 2007. 5 R. BARTHES, L’impero dei segni (1970), tr. it. di M. Vallora, Einaudi, Torino, 1984, p. 105.

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Cristiana Fanelli

LituraterreLa lingua e la scrittura giapponese

Il testo Lituraterre nasce da un viaggio di Jacques Lacan in Giappone e segna una tappa importante nella

sua riflessione sulla lettera e sulla scrittura. In questo paese Lacan era già stato nel 1963; allora l’incontro fu

con la statuaria buddista ed ebbe notevoli effetti nelle ricerche che conduceva sullo sguardo come oggetto

causa di desiderio. Le tracce di questo primo viaggio confluirono in due seminari: L’angoscia1 in cui Lacan

ha riletto l’Unheimlichkeit freudiana attraverso l’oggetto sguardo, riferendo del suo viaggio in Oriente nel

capitoletto Le palpebre di Buddha2; e I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi3 in cui Lacan ha

intrecciato le teorie dell’ottica con quelle dell’estetica orientale, per giungere infine ad un confronto con Il

visibile e l’invisibile (1964) di Maurice Merleau-Ponty4.

Questo secondo viaggio è invece all’insegna dell’incontro con la lettera giapponese, in particolare con la

calligrafia, l’arte del Tratto in cui secondo Roland Barthes «l’atto di scrittura soggioga l’atto pittorico, di

modo che dipingere non è mai altro che inscrivere»5. La calligrafia infatti ha origine nella scrittura e la

scrittura ideografica giapponese ha una storia complessa: in qualche modo è un corpo “estraneo” alla lingua

giapponese perché proviene dal cinese. Gli ideogrammi cinesi vennero introdotti in Giappone durante il V

secolo d.C., epoca a cui risalgono le più antiche iscrizioni su spade e specchi, mentre le prime opere di

letteratura sono attestate attorno all’VIII secolo.

Questo trapianto fu dirompente, ebbe il carattere di un’irruzione, produsse una violenta forza d’urto

perché il cinese e il giapponese sono due lingue completamente diverse e trasferire il sistema degli

ideogrammi cinesi nel giapponese pose moltissimi problemi. Intanto i caratteri cinesi (chiamati in

giapponese kanji, cioè caratteri degli “Han, dei cinesi”) non bastavano a rendere tutte le componenti della

lingua giapponese, per esempio escludevano il sofisticato sistema giapponese delle preposizioni, delle

declinazioni verbali, le marche di numero e di genere. Pertanto si ricorse ad una seconda scrittura, sillabica,

composta da due elementi: i caratteri cinesi kanji che rappresentano la parte semantica della parola mentre,

per le parti funzionali, si utilizzarono i kana6.

1 J. LACAN, Il seminario. Libro X, L’angoscia (1962-1963), a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino, 2007.2 Ivi, pp. 240-248.3 J. LACAN, Il seminario. Libro XI, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964), a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino, 2001.4 M. MERLEAU-PONTY, Il visibile e l’invisibile, a cura di M. Carbone, Milano, Bompiani, 2007. 5 R. BARTHES, L’impero dei segni (1970), tr. it. di M. Vallora, Einaudi, Torino, 1984, p. 105.6 La struttura fonetica dei kana si svilupperà appieno nell’VIII secolo differenziandosi in hirogana, scrittura detta “delle donne”; e katakana usati dapprima per trascrivere i sûtra buddisti ricchi di parole di origine straniera. Essi continuano ad essere molto diversi nella forma e nell’uso.

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In qualche modo Lacan farà di questa anomalia un paradigma: è come se la lingua giapponese recasse al

suo interno traccia indelebile “dell’erosione” provocata dall’immissione di un sistema di scrittura estraneo

alla lingua. In base a quanto Lacan svilupperà nel corso di Lituraterre, possiamo dire che il sistema degli

ideogrammi cinesi agì sulla lingua giapponese come la lettera agisce sul significante: produsse una

“rottura” da cui “piovve” materia in sospensione, ovvero la scrittura sillabica. Per questo Lacan ci dice che

nella lingua giapponese è incluso un effetto di scrittura, cioè di “erosione”, che permane nella scrittura

attualmente in uso.

Inoltre questa erosione comportò una doppia pronuncia fonetica: la on o on-yomi, la pronuncia del

carattere importata dalla Cina; e la kun o kun-yomi, la pronuncia giapponese che indica il significato del

carattere.

L’assimilazione di questo sistema di scrittura fu lunga e prese le fattezze di un processo di traduzione.

Su questo sfondo è nato lo shodo, la “Via della scrittura” (connessa alla filosofia zen e a discipline quali la

cerimonia del tè, la pittura, l’arte di comporre i fiori) nonché l’arte calligrafica.

La “calligrafia corsiva” o “a filo d’erba” è nata nell’ambito di una letteratura amorosa praticata nelle

corti imperiali nell’epoca Heian da scrittrici donne. Questi versi della poetessa Komachi, annoverata tra i

sei poeti immortali, possono darcene un’idea:

Pensando a luimi sono addormentatae mi è apparsoavessi saputo che era un sognonon mi sarei svegliata

In questa fucina letteraria, lungo le piste di temi amorosi e privati, la scrittura giapponese evolse e si

affinò, distinguendosi per stile e contenuto dalla scrittura cinese utilizzata a fini pubblici e in ambito

ufficiale. Oltre che nella compilazione di opere poetiche e narrative, la calligrafia è poi intervenuta nella

trascrizione dei testi sacri, nella decorazione di stoffe, nella pittura e negli ambiti più vari.

Tra lettera e significante nessuna frontiera, ma litorale

L’incontro con la lettera e con la calligrafia ha permesso a Lacan di articolare in modo nuovo la

relazione tra significante (o come lo chiamava in quegli anni “sembiante”), lettera e scrittura in psicanalisi.

Il saggio che ne deriva appare per la prima volta nel 1971, sul terzo numero della rivista “Littérature”. Nella

parola Lituraterre – un’invenzione nel senso lacaniano del termine – spiccano:

1) lettérature calco della parola francese “letteratura”. Lituraterre si sviluppa infatti attorno al racconto

di Edgar Allan Poe La lettera rubata, un esempio letterario tratto dalla tradizione occidentale, e alla

calligrafia, l’arte orientale in cui pittura e scrittura s’intrecciano;

2) litura voce dotta latina per “cancellatura”, “spalmatura”, “rammendo”, “raschiatura”;

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3) terre terra di litorale: Lacan distingue la lettera dal significante opponendoli come fanno la terra e il

mare, sostanze diverse ma che possono entrare l’una nell’altra;

4) a letter – a litter (“lettera e rifiuto”) un gioco di parole che Lacan prende da James Joyce e con cui,

secondo Lacan, il grande scrittore dimostra di andare diritto al meglio che ci si possa attendere alla fine di

un percorso analitico. A sua volta Joyce amava citare il celebre sicut palea con cui, al termine della sua

vita, San Tommaso commenta la propria opera. Completa il quadro l’allestimento di Finale di partita in cui

Samuel Beckett mette sulla scena due bidoni di spazzatura: «l’avere con cui Beckett bilancia il passivo che

costituisce il nostro essere come scarto, salva l’onore della letteratura, e mi allevia dal privilegio che

crederei di avere per il mio posto»7.

Con ironia (privilegio) Lacan allude al posto di “resto”, “rifiuto” o “scarto” che lo psicanalista incarna

per un analizzante alla fine della cura. Nello stesso tempo, lo psicanalista equipara la letteratura ad un

adattamento di resti – i resti di grandi cose perdute, a cominciare da generi come il mito, la tragedia,

l’epopea, i canti orali.

Sotto nuovi passi letterari ritroviamo sempre le tracce dei passi più lontani che precedono e preparano la

nuova scrittura. Sebbene essa li allontani, con la sua sola presenza li rievoca e, a sua volta, nell’attimo

stesso in cui questa nuova scrittura si deposita, già si trasforma in “resto”. Quando si scrive, nel momento

stesso in cui si lascia cadere l’inchiostro, le lettere sul foglio, si scrive di una perdita. Una nostalgia sorda

percorre le pagine.

È dunque attraverso la nozione di rifiuto, resto o scarto, che Lacan situa il tema della scrittura ed entra

nel frenetico dibattito che animava la Francia degli anni Settanta, coinvolgendo filosofi, teorici della

letteratura, logici, matematici e scrittori d’avanguardia. Il 22 febbraio del 1969, al Collège de France,

Michel Foucault tiene la conferenza Cos’è un autore? a cui Lacan partecipa con entusiasmo8.

Annuncia: «il mio insegnamento trova posto in un cambiamento di configurazione che si annuncia con

uno slogan di promozione dello scritto»9. Non facciamoci ingannare, ormai da anni Lacan lavora attorno a

questi temi, ma è comunque vero che Lituraterre costituisce uno spartiacque, prepara il terreno alle formule

della sessuazione e a quella logica del reale che trova nella scrittura il suo supporto.

Un’ultima osservazione. Lacan parla di quella letteratura d’avanguardia (post-joyciana o meglio post

Finnegans Wake) che spinge verso un’estrema riduzione del senso, verso la scarnificazione del contenuto,

l’abolizione della trama, la rarefazione dei personaggi – aderisce insomma ad un’etica che Foucault ha

ricondotto all’“indifferenza”, vale a dire ad un formalismo indifferente sia nei riguardi del contenuto che

della trama simbolica. Secondo Lacan, questo tipo di linguaggio letterario si confonde con quello della

scienza, entrambi scarnificano ed inaridiscono la pagina spogliandola dagli equivoci del gioco significante e

7 J. LACAN, Il seminario. Libro XVIII, D’un discours qui ne serait pas du semblant (1971), Paris, Éditions de l’Association lacanienne internationale, p. 114.8 M. FOUCAULT, Scritti letterari, a cura di C. Milanese, Milano, Feltrinelli, 2004.9 J. LACAN, Il seminario. Libro XVIII, D’un discours qui ne serait pas du semblant (1971), op. cit., p. 114.

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dalle pluralità di senso che esso libera. Lacan ritroverà traccia di questo processo anche nella lingua e nella

cultura giapponese, segnate dalla complessa storia della sua scrittura.

Come preannunciato, la maggiore preoccupazione di Lacan è distinguere tra loro la lettera, il

significante e la scrittura – ridefinendo al contempo ciascuno di essi. La prima linea di demarcazione che

traccia è quella tra lettera e significante. Tra queste due dimensioni, spiega, non c’è frontiera, bensì litorale.

Qual è la differenza?

«La frontiera, separando due territori, simbolizza che sono medesimi per chi li varca» 10, è una linea di

divisione posta convenzionalmente su uno “stesso” territorio, quindi separa simbolicamente un’estensione

di terra fatta, però, della stessa materia. La linea del litorale funziona in ben altro modo: «il litorale ha la

caratteristica di porre un dominio come facente tutto intero frontiera per un altro, e questo solo per il fatto

che essi non hanno assolutamente nulla in comune, neppure una relazione reciproca» 11, come succede ad

esempio tra il mare e la spiaggia.

La lettera è litorale? chiede Lacan. O è il “letterale” da rintracciare nel litorale? «Il bordo del buco nel

sapere: è questo che la psicanalisi designa della lettera quando le si accosta? [...] tra godimento e sapere la

lettera farebbe litorale»12.

Queste righe meritano un esame attento. La chiave per intendere questo passo è la nozione topologica di

“bordo” come zona di rovesciamento tra due territori disuguali (ad esempio, dentro e fuori) che non sono in

opposizione tra loro, ma che piuttosto sono in continuità tra loro grazie ad un lembo che immette un

territorio nell’altro. Dunque, non una relazione di opposizione, ma di continuità tra superfici diverse e

separate.

La lettera funziona come una sponda interna, come una linea interna tra godimento e sapere: è in virtù

della lettera che il reale entra nel simbolico o che, all’inverso, arriveremo ad articolare qualcosa del reale.

Dire che la lettera mette in relazione due territori significa dire che qualcosa del reale si lascerà articolare,

passerà al significante producendo senso.

Lacan prosegue: «nulla permette, come invece si è fatto di confondere la lettera con il significante per

postularne poi un primato»13. Sebbene sulla lettera si regga il funzionamento dell’inconscio, non dobbiamo

concludere che la lettera sia primaria rispetto al significante. Non soltanto Lacan considera significante e

lettera come territori incomparabili (sebbene l’uno possa entrare nell’altro), ma rifiuta l’idea di un primato

dell’una sull’altra. Le pone invece come contigue e cooperanti.

10 Ivi, p. 117.11 Ibidem.12 Ibidem.13 Ivi, p. 118. Riconosciamo in queste righe un riferimento implicito a quel fraintendimento dei propri testi che lo psicanalista lamentava. In particolare, la lettura promossa da Jacques Derrida accusava Lacan di fono-logo-centrismo..

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Piuttosto ribadisce la dipendenza della lettera e del significante (quindi dell’inconscio) dal linguaggio:

«Piuttosto poniamo attenzione a quanto, del linguaggio, chiama il litorale al letterale»14. Se l’inconscio

comanda la funzione della lettera, se lui ha paralato di “istanza” della lettera nell’inconscio, è solo perché

l’inconscio presuppone la struttura del linguaggio come necessaria e sufficiente. Sarà facile riconoscere in

questo, e in molti altri passi del saggio, la prossimità di Lacan alle tesi che Martin Heidegger propone in In

cammino verso il linguaggio (1959). Sono numerose le risonanze e non è un caso che tra gli scritti di

Heidegger compaia anche un colloquio, realmente avvenuto nel 1953, tra il filosofo e un professore

giapponese. Lacan aderisce completamente a ciò che Heidegger dice del linguaggio, alla celebre

affermazione secondo cui «il linguaggio è la dimora dell’essere»15.

In questi brani Lacan risponde a coloro che hanno visto nella lettera nient’altro che un significante

privilegiato. Per superare questo fraintendimento, Lacan ritorna sulla sua concezione del significante e,

ironia, lo fa attraverso la 52 lettera di Freud a Fliess16. Quel che Freud chiama “traccia della percezione” -

cioè la prima trascrizione delle percezioni, completamente inconscia, ordinata secondo associazioni di

simultaneità - è quanto di più prossimo ci sia a ciò che lui chiama “significante”.

La “traccia” della percezione non va dunque confusa con quella traccia, quel tratto che scava un vuoto:

l’una può produrre un senso, l’altra assicura nella struttura un posto vuoto. Sulla parola “traccia” si apre

forse un’altra divaricazione tra Lacan e Derrida – non possiamo ancora dire se tale divaricazione sfocerà in

aperta divergenza. Se per Derrida la traccia è un’impronta, un pieno, per Lacan la traccia è un vuoto in cui

alloggerà il godimento.

In Freud e la scena della scrittura (1966) Derrida ha descritto l’inconscio come un reticolo di tracce

sospese ad un’archi-traccia, ad una prima traccia fondamentale da cui prenderà avvio la ripetizione. In tal

modo la scrittura - che il filosofo, sulla scia del Notes magico di Freud, descrive come una serie di tracce

impresse in modo indelebile - sarebbe originaria rispetto alla parola, precederebbe il parlante.

Lacan teorizza invece una sincronia tra lettera, significante e scrittura; resta inoltre prossimo ad

Heidegger quando afferma che la lettera, come d’altronde il significante, è conseguenza del linguaggio e

che essa è vivificata dall’uso della lingua, dal fatto che si parli. Lo psicanalista parte sempre da un corpo,

“vivo” perché “parlante”, parte cioè da un parlessere che, articolando un discorso, permette un effetto di

metafora o di metonimia, un gioco di parole e, attraverso le parole, esprime la vita del corpo, i suoi sintomi,

le sue cadute, il suo dolore, il suo godimento. Si tratta di «indicare il vivo di ciò che produce la lettera come

conseguenza del linguaggio, e precisamente per il fatto che lo abita chi parla»17. C’è tutta una pulsazione da

lingua nel corpo, dirà Lacan.14 J. LACAN, Il seminario. Libro XVIII, D’un discours qui ne serait pas du semblant (1971), op. cit., p. 118.15 M. HEIDEGGER, L’essenza del linguaggio, in Id., In cammino verso il linguaggio (1959), a cura di A. Caracciolo, Mursia, Milano, 1973, p. 132.16 S. FREUD, Le origini della psicoanalisi. Lettere a Wilhelm Fliess (1887-1902), a cura di G. Soavi, Torino, Bollati Boringhieri, 1968, pp. 123-130.17 J. LACAN, Il seminario. Libro XVIII, D’un discours qui ne serait pas du semblant (1971), op. cit., p. 119.

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Come non richiamare le parole di Heidegger secondo cui «proprio il linguaggio fa dell’uomo

quell’essere vivente che egli è in quanto uomo. L’uomo è uomo in quanto parla. È la lezione di Wilhelm

von Humboldt. Il linguaggio fa parte di ciò che l’uomo ritrova nella sua più immediata vicinanza.

Dappertutto ci si fa incontro il linguaggio»18.

Possiamo già anticipare che, nella prospettiva di Lacan, la scrittura non va pensata come segno grafico

che ricalca il significante, quindi seconda rispetto alla parola orale. La scrittura fa parte degli effetti di

lingua forgiati da chi la parla, effetti che si producono solo quando si produce l’urto della lettera sulla

catena significante. La scrittura, spiegherà Lacan, è quella materia in sospensione che resta, si deposita

quando l’onda s’infrange sulla costiera.

Ciò significa che, nella pratica analitica, la scrittura va cercata in ciò che si legge, anzi la scrittura “è”

questa pratica di lettura: la lettura degli equivoci di senso introdotti da un lapsus o insiti in un gioco di

parole, la lettura di un sogno che segue la sua grammatica (condensazione e spostamento), la rivelazione di

senso evocata da un motto di spirito. Scrittura e decifrazione sono la stessa cosa.

Ricostruiamo allora questa importante distinzione e articolazione tra lettera, significante e scrittura

attraverso il resoconto del viaggio in Giappone che Lacan fa seguendo i binomi estetici della teoria della

pittura orientale, cinese e giapponese.

La calligrafia: il Tratto del pennello e il “tratto unario”

«Ritorno da un viaggio in Giappone. Decisiva è stata la condizione di litorale entrata in gioco solo al

ritorno perché il soggiorno in Giappone mi ha dato “un tantino troppo” (eccedenza) di quella lettera che

caratterizza la lingua giapponese e che è la condizione del litorale. Questo troppo proviene da quanto ne

veicola l’arte»19, in particolare la calligrafia che celebra le “nozze” della pittura con la lettera20.

È François Cheng ad illuminarci su queste “nozze” in Vide et plein21 un libro che ha dedicato a Lacan

perché con lui, dal 1969 al 1973, una o più volte a settimana, ha studiato i testi di Lao-tzu e Shih-t’ao.

Esistono varie testimonianze di questi incontri in cui Cheng descrive il modo in cui Lacan leggeva i testi,

come li interrogava, quali temi lo interessavano di più e, soprattutto, come cercasse dei punti di

congiunzione con la sua teoria.

18 M. HEIDEGGER, “Il linguaggio” in In cammino verso il linguaggio (1959), op. cit., p. 27.19 J. LACAN, Il seminario. Libro XVIII, D’un discours qui ne serait pas du semblant (1971), op. cit., pp. 119-120.20 Un esempio di calligrafia proviene dai kakemono (parola che per estensione indica tutto il quadro ma che letteralmente indicava il rotolo da appendere, il classico supporto della pittura giapponese, fatto di tessuto o carta, che fa da cornice alla pittura mentre un pomolo in legno o avorio all’estremità inferiore tiene in tensione l’opera quando viene appesa) sui quali s’intrecciano pittura e lettere dai caratteri di formazione cinese.21 F. CHENG, Vide et plein. Le langage pictural chinois, Paris, Seuil, 2001. Si veda altresì F. CHENG, Lacan et la pensée chinoise, in A.A.V.V., Lacan, l’écrit, l’image, Paris, Flammarion, 2000, pp. 133-153.

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Lacan appariva molto interessato a quel che Cheng chiama il “Tratto del pennello”, molto affine al

“tratto unario” di cui parla lo psicanalista. Due qualità in particolare li accomunano: il tratto scava un vuoto

e allo stesso tempo assicura una singolarità.

Già anni prima, in La logica del fantasma (1966-1967) 22, Lacan ha citato Shih-t’ao e la teoria del

“Tratto” (o della “Traccia”) lasciata dal pittore, per spiegare come il “tratto unario” organizzi

l’identificazione simbolica del soggetto. Il tratto unario, o i tratti unari, si instaurano a supporto di quanto

resta carente nell’immagine narcisistica che si costituisce durante la fase dello specchio – fase in cui lo

specchio funziona come oggetto reale.

Nella formazione di questa immagine, ci sarà un elemento che non si riflette, un punto che resterà

oscuro e che decompleterà l’unità dell’immagine (un trou al livello dello specchio). Rispetto a questo

elemento non assorbito dall’immagine, il bambino preleverà un tratto nel campo dell’Altro (la madre), dal

corpo o dalle parole di lei, che produrrà un’identificazione simbolica capace di restituire a quell’immagine

un’unità ideale e durevole. Il tratto interviene a rompere e, insieme, a risanare l’unità narcisistica dell’io.

Spiega Claude Landman: «l’immagine speculare si sostiene su un trou, su qualcosa che la decompleta. È

un punto importante. Non c’è unità dell’immagine se essa non è decompletata, se essa non è bucata dal dire.

Ed è là che viene a funzionare l’oggetto piccolo a, come si coglie perfettamente nello scambio di sguardi. È

là che l’oggetto piccolo a ruota attorno a quel trou. È quanto di più celato vi sia nello stadio dello

specchio»23.

Infatti in questa identificazione il bambino guadagna un’unità immaginaria, ma perde qualcosa a livello

della pulsione. In questo processo avviene qualcosa di molto singolare, che organizza la soggettività su

qualcosa di unico, stabilisce una differenza.

Nelle pagine dedicate all’arte del maestro di calligrafia, Cheng scrive: «il Tratto non è una linea senza

rilievo né un semplice contorno delle forme; esso mira a carpire “la linea interna” delle cose, come anche i

soffi che le animano»24. La formazione degli ideogrammi ha educato i Cinesi e i Giapponesi a cogliere le

cose nei loro tratti essenziali e perciò la calligrafia, che in questa scrittura affonda le proprie radici, ne porta

l’impronta: «l’arte del Tratto è stata favorita dall’esistenza della calligrafia e dal fatto che in pittura

l’esecuzione di un quadro è istantanea»25.

In Oriente l’apprendistato di un artista consiste in un lungo periodo di osservazione della natura durante

il quale egli deve imparare a conoscere e a padroneggiare i tratti di tutte le cose. Egli comincia a dipingere

22 J. LACAN, Il seminario. Libro XIV, La logique du fantasme (1966-67), Paris, Éditions de l’Association lacanienne internationale, lezione del 26 aprile 1967.23 C. LANDMAN, Commento al seminario di J. Lacan ...ou pire, lezione del 10 febbraio 2009 – testo reperibile sul sito www.freud-lacan.fr nella sessione Dossier, preparatorio al Seminario d’estate dell’Association Lacanienne International.24 F. CHENG, Vide et plein, op. cit., p. 75.25 Ibidem.

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solo quando possiede la visione d’insieme e i dettagli concreti del mondo esterno, mai potrà farlo prima.

Allora l’esecuzione diviene istantanea: nel Tratto precipitano insieme, in un momento brevissimo, una

visione esterna ed interna, vale a dire la “linea interna” o “il bordo tra dentro e fuori”. Allo stesso modo il

“tratto unario” iscrive qualcosa che è insieme “nel” soggetto e “fuori” di lui, memoria incancellabile di

quanto si è prodotto nello spazio “tra” il soggetto e l’altro materno, un “tra” che Lacan mette in assonanza

con “Altro” (in francese “entre” e “Autre”). È la traccia indelebile del momento in cui è avvenuta la

separazione dall’altro materno: la madre ha riconosciuto una singolarità nel bambino e, pronunciando delle

parole o compiendo dei gesti, l’ha inscritta assicurando al bambino un’ossatura simbolica. Nel

riconoscimento di una singolarità, si realizza la separazione tra i due: tra madre e figlio si apre uno spazio

Altro, lo spazio di una perdita, lo spazio delle differenze. Capiamo perché in questa singolarità c’è insieme

la traccia del soggetto e l’istallazione dell’Altro. In questo frangente s’inscrive anche la particolare

relazione del soggetto con l’Altro.

La calligrafia è dunque una composizione di tratti singolari. Lacan lo sottolinea dicendo che, in questa

arte, la singolarità del tratto a mano (in quanto traccia soggettiva indelebile e incancellabile) annienta

l’universalità, dimensione che vale solo grazie al significante.

Questa singolarità convive con una dimensione o demansione che è la dimora del soggetto («un-en-

peluce»26). Poniamo attenzione alla parola “demansion” con cui Lacan indicava “la residenza” o il luogo

dell’Altro, della verità in quanto mi-dire. Quella verità che ha struttura di finzione, una finzione che

nondimeno fa luce27.

Ho trovato una sorprendente affinità, non solo contenutistica ma anche lessicale, con un passo in cui

Heidegger descrive “l’intimità” come “linea mediana”, uno spazio inter-medio che possiamo chiamare

anche dif-ferenza, dimensione: «la linea mediana è l’intimità. Per indicare tale linea mediana la lingua

tedesca usa il termine das Zwischen (il fra, il frammezzo). La lingua latina dice inter. All’inter latino

corrisponde il tedesco unter. Intimità di mondo e cosa non è fusione. L’intimità di mondo e cosa regna

soltanto dove mondo e cosa nettamente si distinguono e restano distinti. Nella linea che è a mezzo dei due,

nel frammezzo di mondo e cosa, nel loro inter, in questo unter, domina lo stacco. L’intimità di mondo e

cosa è nello stacco (Schied) del frammezzo, è nella dif-ferenza [...] la dif-ferenza regge quella linea

mediana, nel moto e nella relazione alla quale e grazie alla quale mondo e cose trovano la loro unità» 28.

Perciò è la differenza che porta le cose ad essere cose, il mondo al suo essere mondo e in questo venire ad

essere ciascuna permette all’altra di esistere. Perciò essa è «la dimensione del mondo e delle cose»29, misura

26 “Uno di peluche”, omofono di Un-en-plus, “uno-in-più”. C’è un richiamo all’oggetto transizionale (orsacchiotto, peluche) di Winnicott: l’oggetto che resta al bambino quando l’Altro va via, qualcosa che con la sua presenza rinvia ad un’assenza. Questo oggetto diviene una sorta di luogo Altro interno al bambino, a cui infatti il bambino parla come fosse quella persona andata via. In tale situazione questo oggetto in più, il peluche, sta lì a contornare una perdita, a cercare in qualche modo una simbolizzazione. Si tratta della seconda tappa del processo di formazione del soggetto, chiamato da Lacan separazione, che avviene attraverso la perdita di a piccolo.27 J. LACAN, Il seminario. Libro XVIII, D’un discours qui ne serait pas du semblant (1971), op. cit., p. 132.28 M. HEIDEGGER, Il linguaggio, in Id., In cammino verso il linguaggio (1959), op. cit., p. 37.29 Ivi, p. 38.

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lo spazio di mondo e di cosa, dischiude il vincolo di distacco e di indissolubilità tra mondo e cosa. È lo

strano paradosso che abbiamo provato a descrivere.

Nel suo Trattato sulla pittura Shih-t’ao fa emergere anche l’altra qualità del tratto, cioè la capacità di

fare vuoto. Egli distingue il “Tratto” dalla “rappresentazione”: il Tratto scava un vuoto e al contempo scrive

l’essenziale, ma non ha una finalità rappresentativa proprio come per Lacan il tratto unario non è una

presenza, un pieno, l’impronta di un messaggio, né tanto meno una rappresentazione immaginaria.

L’iscrizione del tratto si accompagna quindi ad una perdita che instaura l’oggetto come perduto, e perciò

da ritrovare, quindi come vuoto topologico. Esso segna il punto di separazione “tra” soggetto e Altro e,

insieme, esso verrà a funzionare rispetto a ciò che nell’Altro fa trou. Un oggetto «che, forse non per caso,

può ridursi così, come io la designo, ad una lettera, a. Al livello della calligrafia è questa lettera che fa la

posta in gioco di una scommessa, quale? scommessa che si vince con l’Inchiostro e il Pennello»30. L’arte

della calligrafia, incidendo sulla pagina il Tratto del pennello, mira a far emergere dalla pagina un vuoto, il

vuoto dell’oggetto attorno a cui si snoderanno splendide rappresentazioni pittoriche.

In quest’ultima frase, Lacan fa cenno ad uno dei binomi dell’estetica cinese. Su di esso, nonché su

Montagna-Acqua e Uomo-Cielo, Lacan costruisce il racconto del viaggio appena concluso.

La cancellatura, l’assenza e il soggetto

È ancora François Cheng ad introdurci alla funzione di questi binomi nel pensiero estetico orientale. «In

cinese l’espressione Montagna-Acqua significa, per estensione, il paesaggio: per figurare un tutto, se ne

scelgono due sole parti. Montagna e Acqua costituiscono i due poli della natura»31 a cui, secondo Confucio,

corrispondono i due poli della sensibilità umana - l’uomo di cuore preferisce la montagna, l’uomo spirituale

l’acqua. Questi poli s’intrecciano in una rete di corrispondenze e di rovesciamenti secondo un movimento

circolare che Shih-t’ao denominava “abbraccio universale” (l’acqua che evapora sale dalla terra al cielo

dove s’addensa in nubi per poi, sotto forma di pioggia, tornare alla terra).

La figura dell’uomo entra nel paesaggio «ampliando il nostro sguardo, osserveremo che all’interno di un

quadro di paesaggio tra l’insieme di elementi dipinti e lo spazio che li circonda, in questo rapporto tra pieni

e vuoti, tra terra e cielo, a questo livello l’Uomo è sempre presente. È presente soprattutto attraverso lo

sguardo che poggia sul paesaggio di cui è allo stesso tempo parte integrante» 32. Lo sguardo dell’uomo sul

paesaggio introduce il binomio Lontano-Vicino. Quando lo spettatore si trova su un’altura da cui ha una

vista a perpendicolo e panoramica sul paesaggio, tale binomio prende la forma di una “distanza profonda” o

figure en abîme – si tratta di una figura in abisso, dell’inabissarsi di una figura? o piuttosto di una figura

vista dall’alto in basso, quindi di una figura che acquista grande profondità?

30 J. LACAN, Il seminario. Libro XVIII, D’un discours qui ne serait pas du semblant (1971), op. cit., pp. 120-121.31 F. CHENG, Vide et plein, op. cit., pp. 92-93.32 Ivi, pp. 97-98.

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Lacan si colloca all’interno del paesaggio che dipinge nella posizione dell’Uomo descritta da Cheng:

«tale invincibilmente mi apparve in una circostanza a cui bisogna prestare attenzione, cioè tra le “nuvole”,

in tale circostanza mi apparve lo scintillio delle acque, sola traccia ad apparire come se operasse, più che

indicare, un rilievo alle latitudini della pianura siberiana; pianura davvero desolata di ogni vegetazione, ma

non di riflessi – riflessi di questo scintillio che spingono nell’ombra ciò che non brilla»33.

Questo paesaggio desolato, una pianura siberiana priva di presenze umane, appare da lassù come una

calligrafia, pura traccia che opera senza indicare, senza significare. Essa non rinvia ad un senso, né ad una

presenza umana, opera anche se non ci permette d’immaginare nulla.

Nelle leggi dell’ottica il binomio luce-ombra distingue ciò che brilla da ciò che cade nel cono d’ombra

proiettato dalla luce. Secondo queste stesse leggi, lo specchio che riflette un’immagine contiene in sé anche

dei buchi attraverso cui passano i fasci luminosi. Accanto allo specchio che riflette, abbiamo però anche

uno specchio senza superficie in cui non si riflette niente: con questa immagine Lacan esplicita la differenza

tra immagine e oggetto a, tra ciò che brilla e si riflette sullo specchio e ciò che non vi appare, che non è

specularizzabile. Ci sono dei versi di una poesia di Louis Aragon, Controcanto da “Fou d’Elsa”, molto cari

allo psicanalista che recitano:

Sono quello sventurato paragonato agli specchiche possono riflettere ma non possono vedere,come loro il mio occhio è vuoto e come loro abitatodall’assenza di te che fa la sua cecità.

Il binomio luce-ombra parla della differenza tra verità (significante, luce, finzione) e lettera (ombra,

materia letterale, lettera), ed introduce un’ambiguità, se è vero che per fare ombra è comunque necessaria

una fonte di luce. In altri termini, è sempre dal campo dell’Altro, della verità o della finzione, che la lettera

proietta il suo cono d’ombra: «Che cos’è lo sfavillio, lo scorrere dell’acqua? È un bouquet, bouquet di ciò

che altrove ho distinto dal tratto unario e da ciò che esso cancella. L’ho detto a proposito del tratto unario, è

dalla cancellazione del tratto che si designa il soggetto»34.

Nella costituzione del soggetto ci sono due tempi: il primo è quello della cancellatura (rature, liture); il

secondo è quello della concatenazione significante che si produce su questo vuoto. Rature, cancellatura di

una traccia che prima non c’era, è questo che fa la terra di litorale: «Litura pura, è il letterale. Là, produrre

questa cancellatura, è riprodurre questa metà (assenza) in cui il soggetto sussiste»35. Lacan allude alla storia

del soggetto e della metà di pollo.

Nel processo che dal tratto unario porta al soggetto si produce una costante divisione tra senso e non-

senso: ogni volta che il soggetto appare come senso da una parte (significante), dimora altrove come non-

senso (il vuoto inciso del tratto unario).

33 J. LACAN, Il seminario. Libro XVIII, D’un discours qui ne serait pas du semblant (1971), op. cit, p. 120.34 Ibidem.35 Ibidem.

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Questo passo è denso di riferimenti che, in modo quasi accennato, convocano la riflessione lacaniana sul

soggetto dell’inconscio. Ancora una volta Lacan fa risaltare il nesso che stringe tra loro tratto unario,

significante, soggetto e oggetto a. Innanzitutto «il tratto unario commemora l’irruzione del godimento»36 e

da questo “marchio” ha origine il significante che esiste sempre articolato ad almeno un altro significante.

La stoffa del soggetto è dunque bifida: una parte è un vuoto, è un’assenza, una conca prodotta da

un’irruzione che coincide con una perdita; un’altra parte è consistente, densa di un senso che è effetto

dell’articolazione tra due significanti (il soggetto è ciò che un significante rappresenta per un altro

significante).

Egli sarà articolato a sua insaputa lungo la catena dei significanti inconsci che, nel loro insieme, formano

il “sapere inconscio”, una scrittura da ritrovare, da decifrare e interpretare.

Cosa lega il tratto unario al significante, quindi al soggetto?

Il significante prende origine dal tratto unario. Se il tratto è la traccia dell’irruzione di godimento, allora

la ripetizione significante continuerà ad essere mezzo di godimento (a ricercare il momento in cui un

godimento ha fatto irruzione). C’è un paradosso del godimento: nella ripetizione significante vi è

“dispersione” di godimento (il godimento assume il suo statuto nella perdita dell’oggetto a, qualcosa che

cade nell’articolazione senza tradursi in significato37) e insieme “ricerca”, “ritorno” di godimento. Proprio

perché viene colto nella dimensione della perdita, qualcosa richiede di compensare, c’è un più-di-godere da

recuperare: «è al posto di questa perdita introdotta dalla ripetizione che vediamo sorgere la funzione

dell’oggetto a, di ciò che chiamo a»38.

Le parole di Marc Darmon ci introducono agevolmente alla concezione lacaniana della lettera: «Credo

che la lettera sia lì dove l’ha messa Lacan: vale a dire la lettera a che indica l’oggetto causa del desiderio.

Ricordate cosa ho detto dell’ob-sjet (nella parola objet Lacan inietta la s di os, osso, trasformandolo in ob-

sjet)? La lettera è un corpo estraneo, viene da Altrove. Abbiamo a che fare con il significante. E la lettera

viene da Altrove: è l’osso dell’oggetto. Poiché questa lettera è di troppo in una parola – come la s nella

parola oggetto – produce degli effetti, eventualmente anche effetti di senso»39. L’oggetto causa del desiderio

è indicato attraverso la lettera a.

Lacan ci offre numerosi esempi di come il simbolico e il reale entrino in congiunzione, di come la lettera

possa innestare il significante, alterandolo. Basti citare alcuni titoli degli ultimi seminari: Encore, è scritto

“ancora”, ma si può intendere anche en corps, “nel corpo”; Les non-dupes errent, suona come Les noms du

36 J. LACAN, Il seminario. Libro XVII, Il rovescio della psicoanalisi (1969-1970), a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino, 2001, p. 51.37 Ivi, p. 56.38 Ivi, p. 54.39 Sono passi trascritti dalla conferenza tenuta da Marc Darmon, psicanalista dell’Association lacanienne internationale ed esperto di topologia, tenuta presso la Facoltà di Filosofia dell’Università “La Sapienza” di Roma in Villa Mirafiori il 17 aprile 2004.

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pères – “I nomi del padre” - mentre lo scritto dice “I non illusi sbagliano/errano”. R.S.I. – le iniziali di Reale,

Simbolico e Immaginario - suona come Hérésie – “eresia”. Un esempio molto raffinato proviene dal

Seminario Le sinthome: qui la lettera h prende il posto di –pt- [suffisso che in greco indica la caduta]

producendo un’assonanza tra “sintomo” e saint’homme – “sant’uomo”.

Le lettere inconsce sono ciò che, del significante, tocca il reale40: ciò che può arrivare a sapersi del reale.

Per questo Lacan situa le lettere sul litorale, cioè sulla sponda tra simbolico e reale.

«Produrre la cancellatura (rature), sola, definitiva, tale è l’impresa della calligrafia»41. Solo, definitivo è

anche il Tratto tracciato dal maestro di calligrafia. Qui un elemento di tecnica pittorica entra nell’arte: il

maestro tiene il pennello nella parte più lontana dalla punta e in posizione verticale rispetto al foglio.

Compie gesti rapidi, leggeri e definitivi: il Tratto è incancellabile. In Oriente non esistono strumenti per

cancellare, il che vuol dire che la cancellatura è insita nel tratto stesso.

Roland Barthes scrive: «dal momento che il tratto esclude la cancellatura e la correzione (perché il

carattere è tracciato di getto), non esiste nessuna invenzione della gomma o dei suoi sostituti. La gomma,

questo oggetto emblematico del significato che si vorrebbe davvero cancellare o di cui si vorrebbe per lo

meno alleggerire, assottigliare la pienezza. Ma nell’ottica orientale perché la gomma, dal momento che lo

specchio è vuoto?»42.

La scommessa della calligrafia – o il suo segreto - sarà di far apparire sulla tela la cancellatura, la conca

scavata dal tratto in cui alloggerà il godimento (scrittura) prodotto dall’opera: «ogni cosa

nell’orchestrazione degli strumenti è volta verso il paradosso d’una scrittura irreversibile e fragile, che è

anche incisione e scivolamento: carte di ogni genere, ma di cui molte lasciano indovinare la propria origine

d’erba. Quaderni le cui pagine sono piegate in due, come quelle di un libro che non è ancora stato tagliato,

di modo che la scrittura si muove attraverso un lusso di superfici che ignora lo sbiadirsi (essa si traccia al di

sopra di un vuoto)»43. In tal modo la traccia cancellata diventa il segreto del quadro. Il segreto del non-

senso, dell’assenza implicata dal simbolo stesso.

Il vuoto e il pieno nell’haiku

Allo stesso modo opera anche l’haiku, componimento poetico di tre versi diretti a cogliere aspetti

abituali, quotidiani e marginali della vita, dotati di un senso pieno e luminoso, privo di allusioni. Eppure

questa semplicità, questa chiarezza produce qualcosa di estremo, di abbacinante: fa sorgere un vuoto, ci

conduce sul bordo di un non-senso. La cancellatura è nella pagina, tra i versi: è tangibile che stiamo

costeggiando un vuoto in cui il senso scompare.

40 Cfr. J. LACAN, Il seminario. Libro XXIV, L’insu que sait de l’une bevue s’aille a mourre (1976-1977), Paris, Éditions de l’Association lacanienne internationale, lezione del 19 aprile 1977.41 J. LACAN, Il seminario. Libro XVIII, D’un discours qui ne serait pas du semblant (1971), op. cit., pp. 120-121.42 R. BARTHES, L’impero dei segni, op. cit., p. 101.43 Ibidem.

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Scrive Roland Barthes: «pur essendo del tutto intelligibile, lo haiku non vuole dire nulla [...] l’assenza

dello haiku invoca la voluttà maggiore, quella del senso»44. L’Occidente inumidisce di senso ogni cosa, alla

maniera di una religione autoritaria che imponga il battesimo all’intera popolazione: «noi abbiamo due

modi per evitare al discorso l’infamia del non-senso e sottomettiamo l’enunciato all’una o all’altra di queste

significanze: il simbolo o il ragionamento, la metafora e il sillogismo.

Lo haiku, le cui espressioni sono sempre semplici, colloquiali, in una parola accessibili, è attirato in un

tipo o nell’altro di questi due imperi del senso»45. Così l’annotazione di un istante d’eccezione, specie di

epifania in cui per un breve momento sfioriamo il silenzio, viene classificato nella categoria dei “codici

poetici”. Ogni verso è caricato di valori simbolici. Ad esempio nei versi che seguono si è voluta leggere

l’immagine del tempo che fugge:

Quante personesono passate attraverso la pioggia d’autunnosul ponte di Seta!

O ancora nella terzina costitutiva dello haiku si è voluto riconoscere il disegno di un sillogismo scandito

in tre tempi: la posizione, la sospensione, la conclusione. Eppure «le vie dell’interpretazione, destinate per

noi a svelare il senso, cioè a farlo entrare con l’effrazione (e non a scuoterlo, a farlo cadere come

l’apprendista zen, alle prese con il suo koan), le vie dell’interpretazione non possono dunque che sciupare

lo haiku: perché il lavoro di lettura che vi è connesso è quello di sospendere il linguaggio, non di

provocarlo»46.

La parola sospensione denota certo uno iato di senso, una sincope, ma rinvia soprattutto alla faglia del

sistema simbolico: «quando ci viene detto che fu il rumore della rana a risvegliare Bashô alla verità dello

zen (anche se questo è ancora un modo troppo occidentale di parlare), si può intendere che Bashô scoprì

con questo rumore non certo il motivo di “un’illuminazione”, ma piuttosto la fine del linguaggio; c’è un

momento in cui il linguaggio viene meno ed è proprio questa cesura senza eco che costituisce ad un tempo

la verità dello zen e la forma, breve e vuota, dello haiku»47. Essere non è altro che dimenticare48.

Sospendere, rompere la radiofonia interiore che risuona in noi seguendoci anche nel sonno, è forse

questo il senso del satori (tradotto di solito con illuminazione, rivelazione, intuizione). «Nello haiku la

parsimonia del linguaggio è il frutto di una cura che a noi pare inconcepibile, perché non si tratta tanto di

essere coincisi, quanto di agire sulle radici stesse del senso, per ottenere che questo senso non si diffonda,

non si interiorizzi. La brevità dello haiku non è formale: lo haiku non è un pensiero ricco ridotto ad una

44 Ivi, pp. 80-81.45 Ivi, pp. 81-82.46 Ivi, p. 84.47 Ivi., p. 86.48 J. LACAN, Il seminario. Libro XVII, Il rovescio della psicoanalisi (1969-70), op. cit., p. 59.

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forma breve, ma un evento breve che trova ad un tratto la sua forma esatta [...] questa esattezza ha

evidentemente qualcosa di musicale: lo haiku ha la purezza, la sfericità e il vuoto di una nota musicale»49.

A dispetto delle apparenze, la natura di questo componimento poetico è anti-descrittiva. L’avvenimento

descritto (si tratta quindi di qualcosa che avviene) passando nel bordo delle parole si aggancia al suo

rovescio muto, assente: l’avvenimento è proprio l’affiorare di questa assenza (presenza assenza fanno, lo

ricordo, le due facce del simbolo). È questo a fare dello haiku un’arte del Tratto:

Soffia il vento d’invernomandano lampigli occhi dei gatti

«Tali tratti instaurano ciò che si è potuto chiamare “la visione senza commento” [...] ciò che sparisce

nello haiku sono le due funzioni fondamentali della nostra scrittura classica: da una parte la descrizione,

d’altro lato sparisce la definizione [...] non descrivendolo né definendolo, lo haiku - potrei ormai chiamare

in questo modo ogni tratto discontinuo, ogni accadimento della vita giapponese - si assottiglia sino alla

pura e semplice enunciazione»50.

Accanto allo specchio che riflette un’immagine unitaria e quindi gratificante, narcisistica, Lacan ha

parlato di uno specchio vuoto che non riflette nulla – il vuoto è la forma dell’oggetto a, ma vuoto è anche il

luogo dell’enunciazione. In queste frasi affiorano parole quali: sospensione, avvenimento e assenza, tratto.

Sono parole che sporgono dalla pagina e tradiscono una forte attinenza con il discorso di Lacan: «tra centro

e assenza, tra sapere e godimento, c’è litorale (cioè lettera) che vira al letterale. Ciò che la mia visione dello

scintillio, dello scorrere delle acque rivela, per il fatto che vi domina la cancellatura (perché il più del

paesaggio cade sotto un cono d’ombra) è che, producendosi (la cancellatura, cioè la rottura operata dalla

lettera) tra le nuvole, essa si congiunge alla sua fonte ed è infatti nelle nuvole che Aristofane mi invita a

trovare cosa ne è del significante: ossia il sembiante per eccellenza, dal momento che proprio dalla sua

rottura piove il suo effetto quando ne precipita quel che vi era materia in sospensione»51.

Il senso sospeso al significante è godimento? Il godimento è sospeso e attende una rottura, una fessura

per cadere e iscriversi?

La scrittura: materia in sospensione

Lacan sta tracciando per noi “l’abbraccio” tra significante, lettera e scrittura. Quando il sembiante-

significante (nel quadro, la nuvola) viene “rotto” dalla lettera, esso libera del significato, del godimento

(materia in sospensione) che precipita verso la terra erodendola, dilavandola: per Lacan questa erosione “è”

la scrittura: «Il godimento che si evoca quando un sembiante si rompe, ecco ciò che nel reale si presenta 49 R. BARTHES, L’impero dei segni, op. cit., pp. 87-88.50 Ivi, pp. 97-98.51 J. LACAN, Il seminario. Libro XVIII, D’un discours qui ne serait pas du semblant (1971), op. cit, p. 121.

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come erosione, dilavamento (ravinement). È proprio per questo che la scrittura può essere detta nel reale

erosione, dilavamento del significato, ciò che è piovuto del sembiante, in quanto è questo che fa il

significato»52. Il significato è “ciò che si legge” e alloggia nella scrittura prodotta dal gioco tra significante e

lettera. In questa prospettiva, la scrittura non ricalca il significante, non è seconda ad esso.

È la nozione di “bordo” che scardina l’equivoco della tradizione metafisica: non c’è opposizione né una

gerarchia, si tratta piuttosto di “registri differenti” (la scrittura e la lettera sono nel reale; il significante nel

simbolico) ma sincronici, co-operanti. La zona di bordo fa sì che l’uno entri nell’altro, vi agisca, produca

degli effetti.

Lacan precisa che non si tratta di metafore: la scrittura “è” questo dilavamento. I verbi che

caratterizzano il reale sono “rottura”, “erosione”: il reale “irrompe” nell’esistenza di un uomo, la lettera

“rompe” il sembiante, ovvero il significante.

Poniamo ora attenzione ad un altro elemento: «bisogna dire che la pittura giapponese di cui vi ho detto

che s’intreccia così bene con la calligrafia, perché? perché là la nuvola, non vi manca. È da lì, da dove mi

trovavo, che ho davvero capito bene quale funzione avevano quelle nuvole d’oro che letteralmente tappano,

nascondono tutta una parte delle scene [...] presiedono alla ripartizione di piccole scene. Perché? come è

possibile che delle persone che sanno disegnare provino il bisogno di mescolare le scene con questo

ammasso di nuvole, se non fosse proprio che è questo (ammasso) che introduce la dimensione del

significante. E la lettera che fa cancellatura vi si distingue per essere dunque rottura del sembiante, (rottura)

che dissolve ciò che costituiva forma, fenomeno, meteora»53. Lacan mette l’accento sul posto in cui si trova,

“tra le nuvole”, come se da questa posizione gli si rivelasse qualcosa d’essenziale.

Nell’estetica orientale la nuvola introduce nel quadro il Vuoto – come d’altronde fanno anche lo spazio

lasciato bianco, le nebbie, i tratti slegati o l’inchiostro diluito. Nel pensiero orientale il Vuoto è considerato

un elemento dinamico, favorevole al movimento e alla trasformazione, capace di far sorgere la visione di

quanto, altrimenti, non sarebbe visibile. Cheng scrive in proposito: «nel Vuoto inafferrabile delle nuvole si

vedono molti tratti delle montagne e corsi d’acqua che altrimenti vi si dissimulerebbero»54, sono gli spazi, i

vuoti aperti dal continuo spostamento delle nubi a mostrare la visione di quanto altrimenti sarebbe celato.

Sappiamo che Lacan ha ricondotto il vuoto al significante (creazione ex nihilo), ha fatto del vuoto un

prodotto del significante55. Per questo sottolinea che le nuvole che lo attorniano, come quelle dipinte sui

quadri, introducono il significante (quindi metafore e metonimie). In un’intervista apparsa sull’Âne (n° 25,

febbraio 1986), François Cheng che aveva a lungo meditato con Lacan sulla nozione di Vuoto mediano ci

52 Ivi, p. 122.53 Ivi, p. 122.54 F. CHENG, Vide et plein, op. cit., p. 96.55 Che il significante faccia buco nel reale, Lacan lo ha sostenuto sin dai tempi dell’Etica della psicoanalisi – pp. 154-156 - sino al seminario su Joyce, Il sinthomo.

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indica una frase chiave per intenderlo: «Trenta raggi si congiungono in un mozzo unico; questo vuoto nel

carro ne permette l’uso. Da una zolla di argilla si plasma un vaso; il vuoto del vaso ne permette l’uso. Si

predispongono porte e finestre per una stanza; il vuoto nella stanza ne permette l’uso».

Possiamo dedurne che il Tratto calligrafico funziona appieno solo grazie al Vuoto presente sulla tela e

introdotto dal Tratto. Mentre è grazie al vuoto della nube - o del significante - che si produce l’alternanza di

luci e ombre con cui, come vedremo in seguito, Lacan mette in gioco la dialettica sempre co-operante tra

significante e verità (luce) da un lato, lettera e oggetto piccolo a (ombra) dall’altro: elementi che come

dicevo non sono in opposizione, ma che grazie ad una zona di bordo possono immettersi l’uno nell’altro.

Subito dopo Lacan dipinge una seconda scena: «poco dopo, vi ho detto che era un viaggio di ritorno: è

sorprendente vederle apparire. Ci sono altre tracce che si vedono sostenersi in isobare, tracce che sono

dell’ordine di una ripiena il che le fa apparire normali rispetto a quelle la cui suprema pendenza sul rilievo è

marcata da curve. Là dov’ero, era chiarissimo, avevo già visto a Osaka come le autostrade paiono

discendere dal cielo, solo lì possono posarsi così, le une sopra le altre. C’è una certa architettura

giapponese, quella più moderna, che sa ritrovare molto bene l’antica. L’architettura giapponese consiste

essenzialmente in un battito d’ali di uccello»56.

Ricordandoci che l’arte orientale trova nella natura la sua fonte d’ispirazione, Lacan introduce una

distinzione tra linee curve e linee rette. Sulla terra ogni creatura vivente segue la curvatura universale, la

linea retta inscrive solo quella distanza che, nella dinamica di Newton, è attribuita ad un corpo che cade.

Cade come fa la pioggia - materia in sospensione quando ritorna alla terra per eroderla, cade come fa

l’oggetto a, come fa il cono d’ombra che buca lo specchio, cade come fa il pennello del maestro di

calligrafia puntato perpendicolarmente sul foglio.

Ne deduciamo che le linee curve sono quelle tracciate dal significante e dal senso attraverso i giochi

della metafora e della metonimia, mentre il movimento dei corpi che ne bucano l’inclinatura appartengono

al reale.

La lingua giapponese e il linguaggio scientifico

A questo punto Lacan si chiede se sia possibile un discorso che non sorga dal significante, ovvero dal

sembiante «È insomma possibile costituire dal litorale un discorso che si caratterizzi per non emettersi dal

sembiante? È la questione che si propone nella letteratura d’avanguardia che è un fatto di litorale: quindi

non si sostiene nel sembiante [...] ciò a cui sembra ambire questa letteratura è ciò che chiamo lituraterrir»57.

Con questo gioco di parole Lacan modifica la sua invenzione: litura, cancellatura, si coniuga con se

tarir: inaridirsi, prosciugarsi, disseccarsi. Si riferisce a certi estremi della sperimentazione letteraria che

56 J. LACAN, Il seminario. Libro XVIII, D’un discours qui ne serait pas du semblant (1971), op. cit, p. 122. Da notare l’uso del termine battement, parola che modula la frequenza ripetitiva di un battito con il respiro di un intervallo; inoltre richiama battre (un enfant est battu) e batterie (batteria significante).57 Ivi, p. 124.

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tendono ad essiccare il senso abolendo la trama della storia, togliendo spessore ai personaggi, riducendo la

scrittura ad un lavoro sulle lettere - come fa James Joyce in Finnegans Wake. Lo smacco è che, operando

questo lavoro di riduzione letterale, la letteratura d’avanguardia assume una movenza scientifica: anche il

linguaggio scientifico trova nei numeri e nelle lettere una scarnificazione del senso e ambisce a farsi

linguaggio universale. La dimensione dell’immaginario e del simbolico non può essere abolita senza

generare terrore.

Come abbiamo già detto, nella lingua giapponese è incluso un effetto di scrittura, di erosione. In questa

lingua il significante si appoggia sulla lettera e non sul segno, il che modifica profondamente lo statuto del

soggetto: «la lettera è promossa alla funzione di un referente, essenziale come lo sono tutte le cose ed è

questo che cambia lo statuto del soggetto. È così che il soggetto fa leva, si appoggia su un cielo stellato, e

non solo sul tratto unario, per la sua identificazione fondamentale. Ma averne troppi d’appoggi è come non

averne per niente. Ed è per questo che si appoggia sul Tu: per dire ogni minima cosa vi sono modi più o

meno cortesi di dirla. Quando avrete visto che la minima cosa nella lingua giapponese è soggetta alle

variazioni nell’enunciato, variazioni che sono di cortesia, avrete afferrato qualcosa. Avrete imparato che in

giapponese la verità rinforza la struttura della finzione che vi denoto aggiungendovi le leggi della

cortesia»58. In Giappone la vita sociale, i rapporti, le conversazioni, tutto è regolato da un ordine codificato

in cui ciascuna posizione è perfettamente definita in rapporto a quella di un altro, di un Tu e questo si

riflette nel linguaggio, nei gesti, nell’estenuante formalismo, nel rigido protocollo che imprime all’esistenza

i connotati di un rituale.

Roland Barthes ci descrive uomini e donne tenuti assieme da queste regole - come visibile nella

deferenza degli inchini, gesti perfetti, pratiche centenarie, incessantemente ripetute nel corso delle loro

esistenza. Insiste soprattutto sul magistero dell’inchino – classico esempio di cortesia, quindi sembiante per

eccellenza – sulla sua capacità di far sorgere un vuoto attraverso l’estrema accuratezza formale: «chi saluta

chi? Solo una simile domanda giustifica il saluto, lo piega all’inchino, all’appiattimento, fa trionfare in

esso, non il senso ma il grafismo e infonde ad una posizione che noi riteniamo eccessiva il ritegno d’un

gesto in cui ogni significato è assente. La Forma è vuota, sostiene e ripete un motto buddista. È ciò che

attraverso una pratica della forma esprimono la cortesia del saluto, la curvatura dei due corpi che

s’inscrivono ma non si prostrano [...] se io dico che laggiù la cortesia è un saluto, lascio intendere che c’è in

essa qualcosa di sacro»59. La scrittura invade anche la sfera della verità, del sembiante in cui senso e senza-

senso si alternano.

Una testimonianza molto bella proviene anche dallo scrittore Goffredo Parise, che del Giappone ci ha

lasciato un diario di viaggio in forma di romanzo. Scrive: «e così Marco venne a sapere che esisteva un

comportamento linguistico molto strano, basato sul rapporto inferiore-superiore. Esisteva una struttura

58 Ivi, p. 125.59 R. BARTHES, L’impero dei segni, op. cit., pp. 78-79.

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grammaticale per parlare con un superiore, un’altra completamente diversa con un inferiore e ancora

un’altra se ci si rivolgeva invece a un familiare di pari grado come ad esempio un fratello o una sorella.

L’imperatore parlava addirittura un linguaggio unico, che pochi giapponesi erano in grado di capire, un

linguaggio nutrito di suoni e significati arcaici»60.

La particolare struttura della lingua giapponese sottende un diverso funzionamento della rimozione e

modifica lo statuto del soggetto inconscio: «tutto ciò sembra condurre al risultato che non ci sia nulla da

difendere del rimosso poiché il rimosso stesso trova riparo in questo riferimento alla lettera» 61. Perciò, in

questo paese, un analista non potrà far altro che occupare il posto di uno stilo, del pennello del maestro di

calligrafia.

Lacan rende così omaggio alla “straordinaria opera” di Roland Barthes L’impero dei segni perché

Barthes, ci dice, ha prelevato dal Giappone un certo numero di “tratti” o meglio «il Giappone l’ha costellato

di molteplici lampi; o meglio ancora: il Giappone l’ha messo nella condizione di scrivere» 62. Cos’è la

scrittura? si chiede, rispondendo: «la scrittura è a suo modo un satori; il satori (l’accadere zen) è un sisma

più o meno forte (per niente solenne) che fa vacillare la conoscenza, il soggetto: provoca un vuoto di

parola. Ed è anche un vuoto di parola che costituisce la scrittura; è da questo vuoto che nascono quei tratti

con cui lo zen, nell’esenzione di ogni senso, scrive i giardini, i gesti, le case, i mazzi di fiori, i volti, la

violenza»63.

Il soggetto della lingua giapponese gli è parso «un grande involucro vuoto della parola, e non quel

nucleo pieno che si presume diriga le nostre frasi, dall’esterno e dall’alto; di modo che ciò che appariva

come eccesso di soggettività è piuttosto un modo di diluizione, di emorragia del soggetto in un linguaggio

frazionato, parcellizzato, diffratto sino al vuoto»64.

Eppure niente è più distinto dal sembiante (quindi dal significante) del vuoto scavato dalla scrittura –

ciotola sempre pronta a ricevere il godimento o almeno a invocarlo con il suo artificio. In qualche modo

Lacan obietta a Barthes di confondere la struttura di finzione propria del sembiante-significante con ciò che

è provocato dalla rottura del sembiante, cioè il vuoto, l’erosione della scrittura, ciotola pronta a ricevere

godimento.

«Stando alle nostre abitudini, niente comunica di sé meno di tale soggetto che in fin dei conti non

nasconde nulla: non deve far altro che manipolarvi, e vi assicuro che non se ne priva. Per me è una delizia,

lo adoro. Siete un elemento tra gli altri del cerimoniale in cui il soggetto si compone proprio per il fatto di

potersi scomporre»65. Lacan allude all’arte di “nascondere svelando”, di accecare per eccesso di luce.

Anche nel racconto di Edgar Allan Poe la lettera è nascosta alla luce del giorno.

60 G. PARISE, L’eleganza è frigida, Adelphi, Milano, 2008, p. 32.61 J. LACAN, Il seminario. Libro XVIII, D’un discours qui ne serait pas du semblant (1971), op. cit, p. 125.62 R. BARTHES, L’impero dei segni, op. cit., p. 6.63 Ivi, p. 8.64 Ivi, p. 12.65 J. LACAN, Il seminario. Libro XVIII, D’un discours qui ne serait pas du semblant (1971), op. cit., p. 126.

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In qualche modo Lacan sta portandoci sul bordo di un abisso: quello di un Impero, il Giappone, in cui

un’estrema codificazione ha prodotto l’assenza di enigmi da decifrare, cioè l’assenza di enunciazioni, tracce

nel linguaggio di un dire inconscio. E abolire i giochi tra luce e ombra è esattamente ciò che tenta di fare la

scienza: abolire quel margine d’indecidibile, quel margine di equivoco sempre presente nelle parole per

giungere a verità incontrovertibili, senza buchi.

Il teatro Bunraku è l’emblema del fatto che «ciò che è accuratamente offerto da leggere è il fatto che non

c’è nulla da leggere»66. Le bambole del Bunraku – uomini o donne con arti, mani e bocca mobili - sono alte

da uno a due metri e vengono manovrate da un maestro e due assistenti. Il maestro ha il volto scoperto e

senza trucco, gli assistenti sono incappucciati, tutti e tre si muovono lungo un fossato poco profondo che

lascia il loro corpo visibile sulla scena. Su un lato, una pedana accoglie musicisti e recitanti: all’opposto di

quanto accade nel teatro occidentale, è messa in scena una divisione tra corpo e parola. Vediamo espulsa o,

meglio, scomposta quella unità che fa la nozione di parlessere in Lacan e che lo ha portato a dire che il

reale «è il mistero dell’inconscio, è il mistero del corpo parlante»67.

Lacan trova in questo tipo di arte qualcosa di emblematico del modo di essere e di parlare di questo

popolo: «il bunraku, teatro delle marionette, fa vedere la struttura del tutto ordinaria per coloro ai quali essa

detta persino gli usi e le abitudini. Voi sapete che a lato della marionetta si vedono le persone che vi

operano. Proprio come nel bunraku, tutto ciò che si dice in una conversazione giapponese potrebbe essere

letto da un narratore»68. Nessun mistero.

Questo fa sì che il Giappone «il luogo in cui è più naturale supportarsi con un interprete, ci si può

raddoppiare con un interprete, in nessun caso è necessaria una interpretazione. Rendetevi conto quanto ero

sollevato! Il giapponese è perpetua traduzione dei fatti di linguaggio!»69.

Per cogliere appieno le intenzioni di questa frase dobbiamo soffermarci sul senso che Lacan dà al

termine “interpretazione”. Ne Il rovescio della psicoanalisi aveva scritto che l’interpretazione analitica è a

metà tra un enigma e una citazione. L’enigma è un dire a metà, qualcosa che si offre nel discorso

dell’analizzante come “enunciazione”: toccherà all’analista farla divenire un enunciato. Anche la citazione

è un dire a metà solo che stavolta, ad apparire, è un enunciato e il nome dell’autore su cui ci si appoggia –

svelando in tal modo in quale discorso si è inseriti. Lo psicanalista ha il compito di cogliere un enigma,

un’enunciazione nel discorso di un analizzante e, al momento opportuno, di restituirglielo a mo’ di

citazione, di enunciato. Così facendo egli ritaglia nel discorso dell’analizzante dei significanti maestri con

cui “interviene” sulla trama di tutti gli altri significanti (sapere) perché egli sappia creare nuove

associazioni, ritrovare i significanti rimossi e liberare “materia in sospensione” (scrittura di godimento).

66 R. BARTHES, L’impero dei segni, op. cit., p. 72.67 J. LACAN, Il seminario. Libro XX, Encore (1973-74), op. cit., p. 216.68 J. LACAN, Il seminario. Libro XVIII, D’un discours qui ne serait pas du semblant (1971), op. cit, p. 126.69 Ibidem.

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Lo scritto si chiude con un aneddoto che racconta la deriva scientista insita nell’ambizione a

scarnificare, a ridurre l’immaginario alla lettera abolendo i giochi di luci e ombre, tacciati come misteri o

inganni. Lacan ci racconta di aver avuto un solo scambio intellettuale: con un biologo. Come vogliono le

leggi di cortesia, questi gli ha illustrato i suoi lavori alla lavagna. Impreparato, Lacan dice di non aver

compreso il senso delle lettere che il biologo tracciava. Eppure, ammette lo psicanalista, il fatto di non

averne capito nulla non esclude che quelle lettere fossero perfettamente valide, efficaci in ciò che

iscrivevano: il biologo stava illustrando la trasmissione molecolare. Riduceva ad una serie di lettere la

complessa e tormentosa storia delle generazioni che si susseguono passando lungo le vie della sessualità.

È un altro esempio del lavoro della lettera, di un’azione il cui senso resta ignoto, ma che nondimeno si

esercita. Così, senza sapere come, senza conoscere la loro azione, scrive Lacan, le mie molecole si

trasmetteranno ai miei discendenti. Questi diverranno soggetti senza che io abbia mai saputo come e perché

trasmettessi loro ciò che ne avrebbe comunque fatto degli esseri viventi! Dei parlesseri, dei soggetti.