quattrosecoli.files.wordpress.com€¦  · Web viewGiacomo Leopardi. Canti. Ad Angelo Mai. III...

51
Giacomo Leopardi Canti Ad Angelo Mai 1 III (gennaio 1820) 1 Italo ardito, a che giammai non posi 2 Di svegliar dalle tombe 3 I nostri padri? 2 ed a parlar gli meni 3 4 A questo secol morto, al quale incombe 5 Tanta nebbia di tedio? E come or vieni 6 Sì forte a' nostri orecchi e sì frequente, 7 Voce antica de' nostri, 8 Muta sì lunga etade? 4 e perché tanti 9 Risorgimenti? 5 In un balen feconde 10 Venner le carte; alla stagion presente 11 I polverosi chiostri 12 Serbaro occulti i generosi e santi 13 Detti degli avi. E che valor t'infonde, 14 Italo egregio, il fato? O con l'umano 15 Valor forse contrasta il fato invano? 16 Certo senza de' numi alto consiglio 17 Non è ch'ove più lento 18 E grave è il nostro disperato obblio, 19 A percoter ne rieda ogni momento 20 Novo grido de' padri 6 . Ancora è pio 7 21 Dunque all'Italia il cielo; anco si cura 22 Di noi qualche immortale: 23 Ch'essendo questa o nessun'altra poi 1 Angelo Mai (1782-1854) divenne nel 1819 primo custode della Biblioteca Vaticana, e in quel medesimo anno vi ritrovò i libri De re publica di Cicerone. 2 Italo… padri?: Italiano coraggioso, perché non cessi di risvegliare i nostri antenati dalle loro tombe? 3 gli meni: li conduci. 4 Il tu che fa da soggetto della frase è la “voce antica de’ nostri” (padri). 5 risorgimenti: ritrovamenti di antichi testi. 6 certo… padri: non è certo senza l’alta volontà degli dei che il rinnovato grido dei padri riemerga di continuo a percuotere dove più pigro e pesante è il nostro oblio senza speranza. 7 pio: pietoso, misericordioso.

Transcript of quattrosecoli.files.wordpress.com€¦  · Web viewGiacomo Leopardi. Canti. Ad Angelo Mai. III...

Page 1: quattrosecoli.files.wordpress.com€¦  · Web viewGiacomo Leopardi. Canti. Ad Angelo Mai. III (gennaio 1820) 1 Italo ardito, a che giammai non posi . 2 Di svegliar dalle tombe .

Giacomo Leopardi

Canti

Ad Angelo Mai1

III (gennaio 1820)

1 Italo ardito, a che giammai non posi 2 Di svegliar dalle tombe 3 I nostri padri?2 ed a parlar gli meni3 4 A questo secol morto, al quale incombe 5 Tanta nebbia di tedio? E come or vieni 6 Sì forte a' nostri orecchi e sì frequente, 7 Voce antica de' nostri, 8 Muta sì lunga etade?4 e perché tanti 9 Risorgimenti?5 In un balen feconde 10 Venner le carte; alla stagion presente 11 I polverosi chiostri 12 Serbaro occulti i generosi e santi 13 Detti degli avi. E che valor t'infonde, 14 Italo egregio, il fato? O con l'umano 15 Valor forse contrasta il fato invano?

16 Certo senza de' numi alto consiglio 17 Non è ch'ove più lento 18 E grave è il nostro disperato obblio, 19 A percoter ne rieda ogni momento 20 Novo grido de' padri6. Ancora è pio7 21 Dunque all'Italia il cielo; anco si cura 22 Di noi qualche immortale: 23 Ch'essendo questa o nessun'altra poi 24 L'ora da ripor mano alla virtude 25 Rugginosa dell'itala natura, 26 Veggiam che tanto e tale 27 È il clamor de' sepolti, e che gli eroi 28 Dimenticati il suol quasi dischiude, 29 A ricercar s'a questa età sì tarda 30 Anco ti giovi, o patria, esser codarda.

31 Di noi serbate, o gloriosi8, ancora 32 Qualche speranza? in tutto

1 Angelo Mai (1782-1854) divenne nel 1819 primo custode della Biblioteca Vaticana, e in quel medesimo anno vi ritrovò i libri De re publica di Cicerone.2 Italo… padri?: Italiano coraggioso, perché non cessi di risvegliare i nostri antenati dalle loro tombe?3 gli meni: li conduci.4 Il tu che fa da soggetto della frase è la “voce antica de’ nostri” (padri).5 risorgimenti: ritrovamenti di antichi testi.6 certo… padri: non è certo senza l’alta volontà degli dei che il rinnovato grido dei padri riemerga di continuo a percuotere dove più pigro e pesante è il nostro oblio senza speranza.7 pio: pietoso, misericordioso.8 gloriosi: si riferisce agli eroi dimenticati.

Page 2: quattrosecoli.files.wordpress.com€¦  · Web viewGiacomo Leopardi. Canti. Ad Angelo Mai. III (gennaio 1820) 1 Italo ardito, a che giammai non posi . 2 Di svegliar dalle tombe .

33 Non siam periti? A voi forse il futuro 34 Conoscer non si toglie9. Io son distrutto 35 Né schermo alcuno ho dal dolor, che scuro 36 M'è l'avvenire, e tutto quanto io scerno 37 È tal che sogno e fola 38 Fa parer la speranza. Anime prodi, 39 Ai tetti vostri inonorata, immonda 40 Plebe successe; al vostro sangue10 è scherno 41 E d'opra e di parola 42 Ogni valor; di vostre eterne lodi 43 Né rossor più né invidia; ozio circonda 44 I monumenti vostri; e di viltade 45 Siam fatti esempio alla futura etade.

46 Bennato ingegno11, or quando altrui non cale12 47 De' nostri alti parenti, 48 A te ne caglia, a te cui fato aspira 49 Benigno sì che per tua man presenti 50 Paion que' giorni allor che dalla dira 51 Obblivione13 antica ergean la chioma, 52 Con gli studi sepolti, 53 I vetusti divini, a cui natura 54 Parlò senza svelarsi, onde i riposi 55 Magnanimi allegràr d'Atene e Roma. 56 Oh tempi14, oh tempi avvolti 57 In sonno eterno! Allora anco immatura15 58 La ruina d'Italia, anco sdegnosi 59 Eravam d'ozio turpe, e l'aura a volo 60 Più faville16 rapia da questo suolo.

61 Eran calde le tue ceneri sante17, 62 Non domito nemico 63 Della fortuna, al cui sdegno e dolore 64 Fu più l'averno18 che la terra amico. 65 L'averno: e qual non è parte migliore 66 Di questa nostra? E le tue dolci corde 67 Susurravano ancora 68 Dal tocco di tua destra, o sfortunato 69 Amante19. Ahi dal dolor comincia e nasce 70 L'italo canto. E pur men grava e morde 71 Il mal che n'addolora 72 Del tedio che n'affoga20. Oh te beato, 73 A cui fu vita il pianto! A noi le fasce 74 Cinse il fastidio; a noi presso la culla 9 non si toglie: non è nascosto.10 al vostro sangue: per i vostri discendenti, frutto del vostro sangue.11 Il poeta si rivolge di nuovo ad Angelo Mai.12 non cale: non importa.13 dira oblivione: funesta dimenticanza.14 Oh tempi: tempi dell’Umanesimo.15 immatura: lontana dall’adempiersi.16 faville: scintille di valore e di ingegno.17 Si rivolge a Dante, morto nel 1321 e quindi, nella prospettiva storica di Leopardi, nell’imminenza dei tempi umanistici.18 averno: inferno. Il poeta pensa ai personaggi magnanimi che Dante incontra nella prima cantica della Divina Commedia.19 Il poeta si rivolge a Francesco Petrarca, che amo Laura non ricambiato.20 E pur…n’affoga: eppure pesa e lacera (morde) meno il male che addolora che il tedio che sommerge.

Page 3: quattrosecoli.files.wordpress.com€¦  · Web viewGiacomo Leopardi. Canti. Ad Angelo Mai. III (gennaio 1820) 1 Italo ardito, a che giammai non posi . 2 Di svegliar dalle tombe .

75 Immoto siede, e su la tomba, il nulla.

76 Ma tua vita era allor con gli astri e il mare, 77 Ligure ardita prole21, 78 Quand'oltre alle colonne22, ed oltre ai liti 79 Cui strider l'onde all'attuffar del sole 80 Parve udir su la sera23, agl'infiniti 81 Flutti commesso, ritrovasti il raggio 82 Del Sol caduto, e il giorno 83 Che nasce allor ch'ai nostri è giunto al fondo; 84 E rotto di natura ogni contrasto24, 85 Ignota immensa terra al tuo viaggio 86 Fu gloria, e del ritorno 87 Ai rischi25. Ahi ahi, ma conosciuto il mondo 88 Non cresce, anzi si scema26, e assai più vasto 89 L'etra27 sonante e l'alma28 terra e il mare 90 Al fanciullin, che non al saggio, appare.

91 Nostri sogni leggiadri ove son giti29 92 Dell'ignoto ricetto30 93 D'ignoti abitatori, o del diurno 94 Degli astri albergo, e del rimoto letto 95 Della giovane Aurora, e del notturno 96 Occulto sonno del maggior pianeta? 97 Ecco svaniro a un punto, 98 E figurato è il mondo in breve carta31; 99 Ecco tutto è simile, e discoprendo, 100 Solo il nulla s'accresce. A noi ti vieta 101 Il vero appena è giunto, 102 O caro immaginar; da te s'apparta 103 Nostra mente in eterno; allo stupendo 104 Poter tuo primo ne sottraggon gli anni; 105 E il conforto perì de' nostri affanni.

106 Nascevi ai dolci sogni intanto, e il primo 107 Sole splendeati in vista, 108 Cantor vago dell'arme e degli amori32, 109 Che in età della nostra assai men trista 110 Empièr la vita di felici errori: 111 Nova speme d'Italia. O torri, o celle, 112 O donne, o cavalieri, 113 O giardini, o palagi! a voi pensando,

21 Cristoforo Colombo.22 colonne: colonne d’Ercole, lo Stretto di Gibilterra.23 Nelle Annotazioni a questa poesia Leopardi fornisce le testimonianze erudite «di questa fama anticamente divulgata, che in Ispagna e in Portogallo, quando il sole tramontava, s’udisse a stridere in mezzo al mare a guisa che fa un carbone o un ferro rovente che sia tuffato nell’acqua».24 rotto… contrasto: demolito ogni ostacolo della natura.25 ignota… rischi: un’immensa terra sconosciuta fu la gloriosa ricompensa al tuo viaggio e ai rischi del ritorno.26 si scema: diminuisce, riduce le proprie dimensioni. Leopardi nelle Annotazioni: «dopo scoperta l’America, la terra ci par più piccola che non ci pareva prima».27 etra: etere, aria, «l’elemento destinato al suono» (Leopardi, Elogio degli uccelli).28 alma: feconda, generosa, materna.29 giti: andati, participio passato del verbo “gire”, largamente usato in poesia.30 ricetto: sito, luogo ospitale.31 figurato… carta: il mondo è rappresentato in una piccola carta geografica.32 Ludovico Ariosto, contemporaneo della scoperta dell’America e cantore delle armi e degli amori, secondo il famoso incipit dell’Orlando furioso.

Page 4: quattrosecoli.files.wordpress.com€¦  · Web viewGiacomo Leopardi. Canti. Ad Angelo Mai. III (gennaio 1820) 1 Italo ardito, a che giammai non posi . 2 Di svegliar dalle tombe .

114 In mille vane amenità si perde 115 La mente mia. Di vanità, di belle 116 Fole e strani pensieri 117 Si componea l'umana vita: in bando 118 Li cacciammo33: or che resta? or poi che il verde 119 È spogliato alle cose? Il certo e solo 120 Veder che tutto è vano altro che il duolo.

121 O Torquato, o Torquato34, a noi l'eccelsa 122 Tua mente allora, il pianto 123 A te, non altro, preparava il cielo. 124 Oh misero Torquato! il dolce canto 125 Non valse a consolarti o a sciorre il gelo 126 Onde l'alma t'avean, ch'era sì calda, 127 Cinta l'odio e l'immondo 128 Livor privato e de' tiranni35. Amore, 129 Amor, di nostra vita ultimo inganno, 130 T'abbandonava. Ombra reale e salda 131 Ti parve il nulla, e il mondo 132 Inabitata piaggia36. Al tardo onore37 133 Non sorser gli occhi tuoi; mercè, non danno, 134 L'ora estrema ti fu. Morte domanda 135 Chi nostro mal conobbe, e non ghirlanda.

136 Torna torna fra noi, sorgi dal muto 137 E sconsolato avello,138 Se d'angoscia sei vago, o miserando 139 Esemplo di sciagura. Assai da quello 140 Che ti parve sì mesto e sì nefando, 141 È peggiorato il viver nostro. O caro, 142 Chi ti compiangeria, 143 Se, fuor che di se stesso, altri non cura? 144 Chi stolto non direbbe il tuo mortale 145 Affanno anche oggidì se il grande e il raro 146 Ha nome di follia; 147 Né livor più, ma ben di lui più dura 148 La noncuranza avviene ai sommi? o quale, 149 Se più de' carmi, il computar s'ascolta, 150 Ti appresterebbe il lauro un'altra volta?38

151 Da te fino a quest'ora uom non è sorto, 152 O sventurato ingegno, 153 Pari all'italo nome, altro ch'un solo, 154 Solo di sua codarda etate indegno 155 Allobrogo feroce, a cui dal polo 156 Maschia virtù, non già da questa mia 157 Stanca ed arida terra, 158 Venne nel petto39; onde privato, inerme,

33 in bando li cacciammo: abbiamo espulso (dalla nostra letteratura e dalla nostra mente) le belle fantasie.34 Torquato Tasso, autore della Gerusalemme liberata.35 Il poeta fa riferimento ai sentimenti maligni da cui Tasso si sentì sempre perseguitato nell’ambiente della corte estense.36 Ombra… piaggia: il nulla ti parve realtà sostanziale e il mondo una plaga disabitata.37 A Tasso fu offerta l’incoronazione poetica a Roma, da lui ambitissima, ma morì prima di poterla ricevere.38 o quale…volta?: chi ti porgerebbe un’altra volta la corona d’alloro se (oggi) si dà retta più al calcolare che alla poesia?39 Da te… petto: dopo di te, o sventurato ingegno, non è sorto nessun altro uomo pari alla nostra antica grandezza,

Page 5: quattrosecoli.files.wordpress.com€¦  · Web viewGiacomo Leopardi. Canti. Ad Angelo Mai. III (gennaio 1820) 1 Italo ardito, a che giammai non posi . 2 Di svegliar dalle tombe .

159 (memorando ardimento) in su la scena 160 Mosse guerra a' tiranni40: almen si dia 161 Questa misera guerra 162 E questo vano campo all'ire inferme 163 Del mondo. Ei primo e sol dentro all'arena 164 Scese, e nullo il seguì, che l'ozio e il brutto 165 Silenzio or preme ai nostri innanzi a tutto.

166 Disdegnando e fremendo, immacolata 167 Trasse la vita intera, 168 E morte lo scampò dal veder peggio. 169 Vittorio mio, questa per te non era 170 Età né suolo. Altri anni ed altro seggio 171 Conviene agli alti ingegni. Or di riposo 172 Paghi viviamo, e scorti 173 Da mediocrità: sceso il sapiente 174 E salita è la turba41 a un sol confine, 175 Che il mondo agguaglia. O scopritor famoso42, 176 Segui; risveglia i morti, 177 Poi che dormono i vivi; arma le spente 178 Lingue de' prischi eroi; tanto che in fine 179 Questo secol di fango o vita agogni 180 E sorga ad atti illustri, o si vergogni.

fuorché uno solo, unico che fosse indegno di vivere in un’età così vile, il fiero piemontese (Vittorio Alfieri) al quale fu ispirata in cuore (venne nel petto) virile energia dal cielo (dal polo), non già da questa mia terra spenta e infeconda.40 Vittorio Alfieri fu soprattutto autore di tragedie, nelle quali esaltava le virtù morali e civili degli eroi classici, spesso con intento fortemente critico verso i regimi tirannici a lui contemporanei.41 turba: folla. Con il latinismo “turba” è qui espresso precisamente il concetto di massa, fondamentale nella sociologia contemporanea, che all’epoca di Leopardi non aveva ancora il termine codificato.42 Il poeta torna in chiusura a rivolgersi a Angelo Mai.

Page 6: quattrosecoli.files.wordpress.com€¦  · Web viewGiacomo Leopardi. Canti. Ad Angelo Mai. III (gennaio 1820) 1 Italo ardito, a che giammai non posi . 2 Di svegliar dalle tombe .

Ultimo canto di SaffoIX (maggio 1822)

1Placida notte, e verecondo raggio 2 Della cadente luna; e tu che spunti 3 Fra la tacita selva in su la rupe, 4 Nunzio del giorno; oh dilettose e care 5 Mentre ignote mi fur l'erinni e il fato, 6 Sembianze agli occhi miei; già non arride 7 Spettacol molle ai disperati affetti. 8 Noi l'insueto allor gaudio ravviva 9 Quando per l'etra liquido si volve 10 E per li campi trepidanti il flutto 11 Polveroso de' Noti, e quando il carro, 12 Grave carro di Giove a noi sul capo, 13 Tonando, il tenebroso aere divide. 14 Noi per le balze e le profonde valli 15 Natar giova tra' nembi, e noi la vasta 16 Fuga de' greggi sbigottiti, o d'alto 17 Fiume alla dubbia sponda 18 Il suono e la vittrice ira dell'onda.

19 Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella 20 Sei tu, rorida terra. Ahi di cotesta 21 Infinita beltà parte nessuna 22 Alla misera Saffo i numi e l'empia 23 Sorte non fenno. A' tuoi superbi regni 24 Vile, o natura, e grave ospite addetta, 25 E dispregiata amante, alle vezzose 26 Tue forme il core e le pupille invano 27 Supplichevole intendo. A me non ride 28 L'aprico margo, e dall'eterea porta 29 Il mattutino albor; me non il canto 30 De' colorati augelli, e non de' faggi 31 Il murmure saluta: e dove all'ombra 32 Degl'inchinati salici dispiega 33 Candido rivo il puro seno, al mio 34 Lubrico piè le flessuose linfe 35 Disdegnando sottragge, 36 E preme in fuga l'odorate spiagge.

37 Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso 38 Macchiommi anzi il natale, onde sì torvo 39 Il ciel mi fosse e di fortuna il volto? 40 In che peccai bambina, allor che ignara 41 Di misfatto è la vita, onde poi scemo 42 Di giovanezza, e disfiorato, al fuso 43 Dell'indomita Parca si volvesse 44 Il ferrigno mio stame? Incaute voci 45 Spande il tuo labbro: i destinati eventi 46 Move arcano consiglio. Arcano è tutto, 47 Fuor che il nostro dolor. Negletta prole48 Nascemmo al pianto, e la ragione in grembo 49 De' celesti si posa. Oh cure, oh speme 50 De' più verd'anni! Alle sembianze il Padre,

Page 7: quattrosecoli.files.wordpress.com€¦  · Web viewGiacomo Leopardi. Canti. Ad Angelo Mai. III (gennaio 1820) 1 Italo ardito, a che giammai non posi . 2 Di svegliar dalle tombe .

51 Alle amene sembianze eterno regno 52 Diè nelle genti; e per virili imprese, 53 Per dotta lira o canto, 54 Virtù non luce in disadorno ammanto.

55 Morremo. Il velo indegno a terra sparto 56 Rifuggirà l'ignudo animo a Dite, 57 E il crudo fallo emenderà del cieco 58 Dispensator de' casi. E tu cui lungo 59 Amore indarno, e lunga fede, e vano 60 D'implacato desio furor mi strinse, 61 Vivi felice, se felice in terra 62 Visse nato mortal. Me non asperse 63 Del soave licor del doglio avaro 64 Giove, poi che perir gl'inganni e il sogno 65 Della mia fanciullezza. Ogni più lieto 66 Giorno di nostra età primo s'invola. 67 Sottentra il morbo, e la vecchiezza, e l'ombra 68 Della gelida morte. Ecco di tante 69 Sperate palme e dilettosi errori, 70 Il Tartaro m'avanza; e il prode ingegno 71 Han la tenaria Diva, 72 E l'atra notte, e la silente riva.

Page 8: quattrosecoli.files.wordpress.com€¦  · Web viewGiacomo Leopardi. Canti. Ad Angelo Mai. III (gennaio 1820) 1 Italo ardito, a che giammai non posi . 2 Di svegliar dalle tombe .

Il passero solitarioXI (1831?)

1D'in su la vetta della torre antica, 2 Passero solitario, alla campagna 3 Cantando vai finché non more il giorno; 4 Ed erra l'armonia per questa valle. 5 Primavera dintorno 6 Brilla nell'aria, e per li campi esulta, 7 Sì ch'a mirarla intenerisce il core. 8 Odi greggi belar, muggire armenti; 9 Gli altri augelli contenti, a gara insieme 10 Per lo libero ciel fan mille giri, 11 Pur festeggiando il lor tempo migliore: 12 Tu pensoso in disparte il tutto miri; 13 Non compagni, non voli, 14 Non ti cal43 d'allegria, schivi gli spassi; 15 Canti, e così trapassi 16 Dell'anno e di tua vita il più bel fiore.

17 Oimè, quanto somiglia 18 Al tuo costume il mio! Sollazzo e riso, 19 Della novella età dolce famiglia, 20 E te german di giovinezza, amore, 21 Sospiro acerbo de' provetti giorni, 22 Non curo, io non so come44; anzi da loro 23 Quasi fuggo lontano; 24 Quasi romito, e strano 25 Al mio loco natio45, 26 Passo del viver mio la primavera. 27 Questo giorno ch'omai cede alla sera, 28 Festeggiar si costuma al nostro borgo. 29 Odi per lo sereno un suon di squilla46, 30 Odi spesso un tonar di ferree canne, 31 Che rimbomba lontan di villa in villa. 32 Tutta vestita a festa 33 La gioventù del loco 34 Lascia le case, e per le vie si spande; 35 E mira ed è mirata, e in cor s'allegra. 36 Io solitario in questa 37 Rimota parte alla campagna47 uscendo, 38 Ogni diletto e gioco 39 Indugio48 in altro tempo: e intanto il guardo 40 Steso nell'aria aprica 41 Mi fere il Sol che tra lontani monti49, 42 Dopo il giorno sereno, 43 ti cal: ti importa.44 Io, non so come, non mi curo del divertimento e del riso, che sono i dolci compagni della giovane età, e nemmeno di te, amore, che sei fratello della giovinezza e doloroso rimpianto nei giorni maturi.45 quasi… natio: come un solitario e straniero al luogo natale.46 squilla: campana.47 alla campagna: verso la campagna. Il sintagma composto da a + nome di luogo per indicare un rapporto spaziale indeterminato, è stilema amato da Leopardi.48 indugio: rimando.49 e intanto… monti: e intanto il sole mi colpisce lo sguardo disteso nell’aria serena, sole che tra i lontani monti…

Page 9: quattrosecoli.files.wordpress.com€¦  · Web viewGiacomo Leopardi. Canti. Ad Angelo Mai. III (gennaio 1820) 1 Italo ardito, a che giammai non posi . 2 Di svegliar dalle tombe .

43 Cadendo si dilegua, e par che dica 44 Che la beata gioventù vien meno.

45 Tu, solingo augellin, venuto a sera 46 Del viver che daranno a te le stelle,47 Certo del tuo costume 48 Non ti dorrai; che di natura è frutto 49 Ogni vostra vaghezza50. 50 A me, se di vecchiezza 51 La detestata soglia 52 Evitar non impetro, 53 Quando muti questi occhi all'altrui core, 54 E lor fia vòto il mondo, e il dì futuro 55 Del dì presente più noioso e tetro, 56 Che parrà di tal voglia?51 57 Che di quest'anni miei? che di me stesso? 58 Ahi pentirommi, e spesso, 59 Ma sconsolato, volgerommi indietro.

50 Tu… vaghezza: tu, solitario uccellino, giunto al termine (a sera) che il destino (le stelle) darà alla tua vita, di certo non compiangerai il tuo stile di esistenza, perché ogni vostro desiderio è frutto di natura.51 A me…voglia?: a me, se non ottengo (impetro) di evitare la detestata soglia della vecchiaia, quando questi (miei) occhi non diranno più nulla (saranno muti)al cuore altrui e il mondo sarà privo di interesse (vòto) ai miei occhi, e il giorno futuro sarà più noioso e tetro del giorno presente, che cosa penserò di tale scelta (quella della fuga da ogni compagnia descritta nella poesia)?

Page 10: quattrosecoli.files.wordpress.com€¦  · Web viewGiacomo Leopardi. Canti. Ad Angelo Mai. III (gennaio 1820) 1 Italo ardito, a che giammai non posi . 2 Di svegliar dalle tombe .

L'infinitoXII (1819)

Sempre caro mi fu quest'ermo colle, e questa siepe, che da tanta parte dell'ultimo orizzonte il guardo esclude. Ma sedendo e mirando, interminati52 5 spazi di là da quella, e sovrumani silenzi, e profondissima quiete io nel pensier mi fingo53; ove per poco il cor non si spaura. E come il vento odo stormir tra queste piante, io quello 10 Infinito silenzio a questa voce vo comparando: e mi sovvien l'eterno, e le morte stagioni54, e la presente e viva, e il suon di lei. Così tra questa immensità s'annega il pensier mio: 15 E il naufragar m'è dolce in questo mare.

52 Interminati: senza termine, illimitati.53 mi fingo: mi immagino, alla lettera, secondo l’etimologia latina, “costruisco” con la mente. 54 morte stagioni: le età trascorse, il passato.

Page 11: quattrosecoli.files.wordpress.com€¦  · Web viewGiacomo Leopardi. Canti. Ad Angelo Mai. III (gennaio 1820) 1 Italo ardito, a che giammai non posi . 2 Di svegliar dalle tombe .

COMMENTO A L’INFINITO

L’incipit della poesia stabilisce immediatamente una relazione affettiva (Sempre caro) tra il poeta e un luogo (quest’ermo colle) e un suo elemento paesaggistico (questa siepe). Il sempre iniziale dice che il sentimento affettivo verso il luogo è di lunga durata; il lettore perciò immagina la frequentazione del colle come un’azione consueta e lungamente ripetuta e, allo stesso modo, i pensieri di cui si dà conto nella lirica come pensieri abituali e molte volte reiterati.

Sia il colle che la siepe sono accompagnati dall’aggettivo dimostrativo questo; il poeta, cioè parla in presenza degli elementi ambientali che nomina e, per così dire, li mostra col dito al lettore.

Il colle è definito con un solo aggettivo: ermo, cioè solitario, appartato dai traffici degli uomini; dunque, luogo caro al poeta perché frequentato da lui solo.

La siepe ha una definizione più complessa: essa è posta in modo da impedire in gran parte allo sguardo la visione dell’orizzonte più lontano.

L’insieme dei Canti leopardiani (in particolare gli idilli) e la biografia del poeta permettono al lettore di dare una precisa collocazione geografica al luogo di cui il poeta parla: si tratta dei colli marchigiani, presso Recanati. Se è esatta l’identificazione tradizionale dell’ermo colle leopardiano, l’ultimo orizzonte, dal quale lo sguardo è escluso, consiste nel susseguirsi a perdita d’occhio di vallate e basse colline ad ovest del paese. L’orizzonte precluso è quindi molto ampio, spaziando per diverse decine di chilometri. Ma la vastità della vista è impedita dalla siepe. Sotto questo aspetto, colle e siepe si trovano in contrasto: il colle elevando il punto di osservazione dilata l’orizzonte, mentre la siepe lo riduce; eppure entrambi sono detti cari.

Chi conosce la poesia di Leopardi sa che la visione negata non perde di efficacia, anzi, ciò che i sensi non esauriscono ma percepiscono solo parzialmente eccita l’immaginazione molto più e più piacevolmente di una percezione interamente data. Come leggiamo in numerosissimi passi dello Zibaldone, l’estetica leopardiana ha in questa idea un cardine fondamentale. Proprio per la sua qualità di ostacolo alla vista, la siepe è detta cara.

Ma procediamo con la lettura del testo. La congiunzione avversativa Ma del quarto verso introduce proprio la giustificazione del contrasto prima delineato. Il poeta si pone dinanzi alla siepe nella inattività rilassata del corpo (sedendo) e nella concentrazione dello sguardo (mirare è verbo intensivo di vedere), cioè in atto contemplativo, nel quale lo schermo su cui si fissa l’occhio (la siepe) stimola la mente a vedere al di là di ciò che si vede: di là da quella (siepe) ... io nel pensier mi fingo. Occorre ricordare che il significato originario di fingere, qui usato da Leopardi, non è quello moderno di “fare finta”, “produrre apparenze non vere”, ma “costruire, dare forma (mentalmente)”. L’occhio vede la siepe, ma la mente sa che oltre c’è uno spazio immenso; il percorso del pensiero, però, non si arresta all’ultimo orizzonte visibile. Ciò che il pensiero può costruire nella mente va ben più lontano di qualche miglio di territorio collinare, ha a che fare con l’infinito, espresso con i tre sintagmi: interminati spazi, sovrumani silenzi, profondissima quiete. Il primo dei tre aggettivi dice l’assenza di un limite (in-terminati, senza termine). Il secondo rivela che l’immaginazione può rappresentarsi qualcosa che va oltre l’esperienza sensibile umana: il pensiero, proseguendo al di là dello spazio terrestre, entra in uno spazio sovrumano, disabitato dall’uomo, nel quale si perdono tutti i rumori e non resta che un silenzio, quale le orecchie non possono percepire. Il terzo sintagma pare ribadire il secondo, ma lo perfeziona dilatando la percezione uditiva (negativa) del silenzio a quiete, cioè a assenza di ogni moto e suggerendo, attraverso l’aggettivo superlativo, l’idea dello sprofondamento abissale. La mente umana è dunque capace di comprendere in sé l’infinito? Questo sembra essere l’interrogativo sotteso alla lirica. Il poeta, tuttavia, non sviluppa un’argomentazione teoretica, ma descrive un’esperienza: il pensiero può volare oltre i limiti dello spazio percepibile e immaginarsi l’interminabile, ma in quello spazio, che è poi uno stato dell’animo, il cuore umano prova una sensazione di smarrimento, che somiglia al terrore: ove per poco il cor non si spaura. Il poeta qui dice “cuore”, che è una parola comunissima e perfino banale nel linguaggio poetico, ma rispetto a “pensiero” indica una realtà più globale, che comprende non solo l’attività razionale e immaginativa, ma il complesso della coscienza; il cuore è metafora ancora efficace per significare tutto ciò che sta dentro l’uomo, che sta al di qua dei suoi sensi.

Esattamente a metà del testo, la lirica fa posto a un’altra specie di percezioni sensoriali e a una diversa esperienza di infinito. A fare da legame tra le due parti – con scelta poetica bellissima ed emozionante – sta il contrasto tra il silenzio sovrumano degli spazi fuori dai rumori terrestri e il vento che stormisce tra le piante. Queste piante, questa voce: di nuovo, come all’inizio della poesia, il poeta usa il dimostrativo, la parola che suppone la presenza fisica dell’oggetto tra chi parla e chi ascolta. Siamo tornati sulla terra, sul colle presso Recanati, in mezzo a percezioni sensoriali concrete e finite. Ma, come era avvenuto all’inizio a causa della visuale ostacolata, di nuovo è una percezione sensoriale, stavolta uditiva, a rilanciare il lavoro del pensiero, superando, si direbbe, lo spauramento del cuore: io quello / infinito silenzio a questa voce / vo comparando .

Page 12: quattrosecoli.files.wordpress.com€¦  · Web viewGiacomo Leopardi. Canti. Ad Angelo Mai. III (gennaio 1820) 1 Italo ardito, a che giammai non posi . 2 Di svegliar dalle tombe .

In questo verso sta, a mio parere, il nòcciolo interpretativo della poesia. Il poeta si rappresenta nell’atto (è da notare il presente progressivo vo comparando, che dice il divenire dell’azione, il suo tentativo) di comparare quell’infinito silenzio (quello, s’intende, della precedente finzione immaginativa) con questa voce, quella del vento tra le fronde, cioè un rumore specifico e certamente finito. Ma si può comparare il silenzio con un rumore? e soprattutto, l’infinto con il finito? Che rapporto ci può mai essere tra realtà così evidentemente incommensurabili? Ritorneremo su questo problema dopo aver seguito ancora un po’ lo sviluppo della lirica.

La comparazione tra quello / infinito silenzio e questa voce produce in realtà uno slittamento del pensiero verso la dimensione temporale dell’infinito: l’eterno. La frase che va da metà del verso 11 a metà del verso 13 ricostruisce con una sintesi straordinaria e con meravigliosa suggestione poetica il percorso della mente. Le parole ripercorrono all’incontrario il percorso della mente, usando la rara figura retorica dell’ysteron-proteron, cioè dell’inversione del corso del tempo per cui ciò che viene dopo viene enunciato prima. Questa figura retorica è usata di solito per anticipare un effetto finale che si impone all’attenzione così rapidamente e con tale forza, che solo a posteriori il ragionamento può ricostruire, retrocedendo, la catena causale. Così, qui il poeta mette subito il punto d’arrivo: e mi sovvien l’eterno; poi viene il passato (le morte stagioni), il presente (la presente / e viva), e infine la sensazione uditiva che ha dato inizio al processo del pensiero (il suon di lei). Il suono del vento, dunque, sta a indicare l’attimo in cui l’io vive e i dati sensoriali da cui è avvolto. Mentre ciò che si vede (la siepe, ad esempio) occupa uno spazio e ha una relativa indipendenza dal tempo, i suoni sono impalpabili, privi di consistenza spaziale, totalmente affidati all’attimo in cui risuonano. Per questo, nella mente del poeta, il vento produce associazioni di tipo temporale. Se lo stormire delle foglie è il segno della stagione presente, l’immaginazione può ritornare alle stagioni che non sono più e retrocedere nel tempo senza limite, fino a concepire l’eternità, così come, nella prima metà del testo, l’immaginazione rivolta allo spazio aveva condotto a concepire l’infinito.

Dunque, dice il poeta, l’esperienza mentale dell’infinito (sia spaziale che temporale) sorge in noi a partire da dati sensoriali che non possono essere altro che finiti. Questo è il paradosso di cui ci parla L’infinito: noi conosciamo la realtà solo attraverso percezioni limitate, eppure il pensiero umano ha la capacità di procedere verso l’infinito.

Allora l’immensità che compare nel penultimo verso va intesa non semplicemente come sinonimo di infinito, ma etimologicamente come mancanza di misura, in-commensurabilità: non c’è misura tra l’esperienza sensibile di cui è fatta la nostra conoscenza e l’esperienza mentale, che pur facciamo, del progresso all’infinito. Di fronte a questa incommensurabilità il pensiero s’annega, verbo che, certo, si connette al naufragar del verso successivo, ma va anche letto di nuovo in senso etimologico: si nega. Il pensiero razionale è negato dal paradosso dell’infinito che nasce dal finito, smette di essere uno strumento utile di conoscenza; e tuttavia il naufragio della ragione nel mare della distanza tra il finito che conosciamo e l’infinito che concepiamo è la più dolce delle esperienze.

G.D.

Page 13: quattrosecoli.files.wordpress.com€¦  · Web viewGiacomo Leopardi. Canti. Ad Angelo Mai. III (gennaio 1820) 1 Italo ardito, a che giammai non posi . 2 Di svegliar dalle tombe .

Nello stesso periodo nel quale fu composto L’infinito, Leopardi leggeva i pensieri di Pascal (matematico e filosofo francese del ‘600), come risulta dalle annotazioni dello Zibaldone. I brani di Pascal che seguono forniscono interessanti riscontri sia concettuali che linguistici con la lirica leopardiana.

Blaise PascalPensieri (edizione e traduzione a cura di Paolo Serini, Einuadi, 1974)

220 Quando considero la breve durata della mia vita, sommersa nell'eternità che la precede e la segue, il piccolo spazio che occupo e financo che vedo, inabissato nell'infinita immensità degli spazi che ignoro e che mi ignorano, io mi spavento e stupisco di trovarmi qui piuttosto che là, non essendoci nessuna ragione perché sia qui piuttosto che là, oggi piuttosto che domani. Chi mi ci ha messo? Per ordine e per opera di chi questo luogo e questo tempo furon destinati a me? (...)

222 Il silenzio eterno di quegli spazi infiniti mi sgomenta.

223 Sproporzione dell'uomo'. (...) L'uomo contempli, dunque, la natura tutt'intera nella sua alta e piena maestà, allontanando lo sguardo dagli oggetti meschini che lo circondano. Miri quella luce sfolgorante, collocata come una lampada eterna a illuminare l'universo; la terra gli apparisca come un punto in confronto dell'immenso giro che quell'astro descrive, e lo riempia di stupore il fatto che questo stesso vasto giro è soltanto un tratto minutissimo in confronto di quello descritto dagli astri roteanti nel firmamento. E se, a questo punto, la nostra vista si arresterà, l'immaginazione vada oltre: si stancherà di concepire prima che la natura di offrirle materia. Tutto questo mondo visibile è solo un punto impercettibile nell'ampio seno della natura. Nessun'idea vi si approssima. Possiamo pur gonfiare le nostre concezioni di là dagli spazi immaginabili: in confronto della realtà delle cose, partoriamo solo atomi. E' una sfera infinita, il cui centro è in ogni dove e la circonferenza in nessun luogo. Infine, è il maggior segno sensibile dell'onnipotenza di Dio che la nostra immaginazione si perda in quel pensiero.

L'uomo, ritornato a sé, consideri quel che è in confronto a quel che esiste. Si veda come sperduto in questo remoto angolo della natura; e da quest'angusta prigione dove si trova, intendo dire l'universo, impari a stimare al giusto valore la terra, i reami, le città e se stesso. Che cos'è un uomo nell'infinito?

Ma per presentargli un altro prodigio altrettanto meraviglioso, cerchi, tra quel che conosce, le cose più minute. Un acaro gli offra, nella piccolezza del suo corpo, parti incomparabilmente più piccole: zampe con giunture, vene in queste zampe, sangue in queste vene, umori in queste vene, gocce in questi umori, vapori in queste gocce; e, suddividendo ancora queste ultime cose, esaurisca le sue forze in tali concezioni, sicché l'ultimo oggetto cui possa pervenire sia per ora quello del nostro ragionamento. Egli crederà forse che sia questa l'estrema minuzia della natura. Voglio mostrargli là dentro un nuovo abisso. Voglio raffigurargli non solo l'universo visibile, ma l'immensità naturale, che si può concepire nell'ambito di quello scorcio di atomo. Ci scorga un'infinità di universi, ciascuno dei quali avente il suo firmamento, i suoi pianeti, la sua terra, nelle stesse proporzioni del mondo visibile; e, in quella terra, animali e, infine, altri acari, nei quali ritroverà quel che ha scoperto nei primi. E, trovando via via negli altri le stesse cose, senza posa e senza fine, si perda in tali meraviglie, che fanno stupire con la loro piccolezza come le altre con la loro immensità. Invero, chi non sarà preso da stupore al pensiero che il nostro corpo, - che dianzi non era percepibile nell'universo, che a sua volta era impercettibile in seno al Tutto, - sia ora un colosso, un mondo, anzi un tutto rispetto al nulla, al quale non si può mai pervenire?

Chi si considererà in questa maniera sentirà sgomento di se stesso e, vedendosi sospeso, nella massa datagli dalla natura, tra i due abissi dell'infinito e del nulla, tremerà alla vista di tali meraviglie; e credo che, mutando la propria curiosità in ammirazione, sarà disposto a contemplarle in silenzio più che a indagarle con presunzione.

Perché, insomma, che cos'è l'uomo nella natura? Un nulla rispetto all'infinito, un tutto rispetto al nulla, qualcosa di mezzo tra il tutto e il nulla. Infinitamente lontano dalla comprensione di questi estremi, il termine delle cose e il loro principio restano per lui invincibilmente celati in un segreto imperscrutabile: ugualmente incapace d'intendere il nulla donde è tratto e l'infinito che lo inghiotte.

Che farà, dunque, se non scorgere qualche apparenza della zona mediana delle cose, in un'eterna disperazione di conoscerne il principio e il termine? Tutte le cose sono uscite dal nulla, e vanno sino

Page 14: quattrosecoli.files.wordpress.com€¦  · Web viewGiacomo Leopardi. Canti. Ad Angelo Mai. III (gennaio 1820) 1 Italo ardito, a che giammai non posi . 2 Di svegliar dalle tombe .

all'infinito. Chi seguirà quei meravigliosi processi? Solo l'autore di quelle meraviglie le comprende; nessun altro lo può.

Per non aver considerato questi due infiniti, gli uomini si son vòlti temerariamente all'indagine della natura, come se avessero qualche proporzione con essa. E' strano che abbian voluto scoprire i principi delle cose, e giungere da questi sino a conoscere tutto, con una presunzione infinita come il loro oggetto: perché è certo che non si può concepire un tal disegno senza una presunzione o una capacità infinite, come la natura.

(...)Impariamo, dunque, a conoscere le nostre capacità. Siamo qualche cosa e non siamo tutto. Quel tanto

di essere che possediamo c'inibisce la conoscenza dei primi princìpi, che derivano dal nulla, e la pochezza del nostro essere ci preclude la vista dell'infinito.

Il nostro intelletto tiene nell'ordine delle cose intelligibili lo stesso posto che il nostro corpo nell'immensità della natura.

(...)Tale la nostra effettiva condizione. Essa ci rende incapaci sia di conoscere con piena certezza come di

ignorare in maniera assoluta. Noi voghiamo in un vasto mare, sospinti da un estremo all'altro, sempre incerti e fluttuanti. Ogni termine al quale pensiamo di ormeggiarci e di fissarci vacilla e ci lascia; e, se lo seguiamo, ci si sottrae, scorre via e fugge in un'eterna fuga. Nulla si ferma per noi. E' questo lo stato che ci è naturale e che, tuttavia, è più contrario alle nostre inclinazioni. Noi bruciamo dal desiderio di trovare un assetto stabile e un'ultima base sicura per edificarci una torre che s'innalzi all'infinito; ma ogni nostro fondamento scricchiola, e la terra si apre sino agli abissi.

Non cerchiamo, dunque, né sicurezza, né stabilità. La nostra ragione è sempre delusa dalla mutevolezza delle apparenze; nulla può fissare il finito tra i due infiniti che lo racchiudono e lo fuggono.

Quando avremo compreso ciò, credo che ce ne staremo tranquilli, ognuno nella condizione in cui la natura lo ha messo. Poiché lo stato mediano toccatoci in sorte rimane sempre distante dagli estremi, che importa avere un po' più di conoscenza delle cose? Chi ne ha di più, le guarderà un po' più dall'alto, ma resterà pur sempre infinitamente lontano dal termine: così come la durata della nostra vita resta infinitamente lontana dall'eternità, anche se si prolunghi di dieci anni.

Davanti a quegli infiniti, tutti i finiti sono eguali; e non vedo perché dobbiamo fermare l'immaginazione sull'uno piuttosto che sull'altro. Il semplice confronto che facciamo tra noi e il finito ci riesce penoso.

Se l'uomo cominciasse con lo studiare se stesso, capirebbe quant'è incapace di spingersi oltre. Come potrebbe una parte conoscere il tutto? Forse esso aspirerà a conoscere almeno le parti con cui ha qualche proporzione. Ma le parti del mondo sono tutte in tale rapporto e connessione reciproca che credo impossibile conoscere l'una senza l'altra e senza il tutto.

(...)L'eternità delle cose in se stessa o in Dio deve anch'essa fare stupire la nostra breve durata. E

l'immutabilità fissa e costante della natura, paragonata al continuo cangiamento che caratterizza il nostro essere, deve produrre lo stesso effetto.

Page 15: quattrosecoli.files.wordpress.com€¦  · Web viewGiacomo Leopardi. Canti. Ad Angelo Mai. III (gennaio 1820) 1 Italo ardito, a che giammai non posi . 2 Di svegliar dalle tombe .

La sera del dì di festaXIII (1820)

Dolce e chiara è la notte e senza vento, E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti Posa la luna, e di lontan rivela Serena ogni montagna. O donna mia,

5 Già tace ogni sentiero, e pei balconi Rara traluce la notturna lampa55: Tu dormi, che t'accolse agevol sonno Nelle tue chete stanze; e non ti morde Cura56 nessuna; e già non sai né pensi

10 Quanta piaga m'apristi in mezzo al petto. Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno Appare in vista, a salutar m'affaccio, E l'antica natura57 onnipossente, Che mi fece all'affanno. A te la speme

15 Nego, mi disse58, anche la speme; e d'altro Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto. Questo dì fu solenne: or da' trastulli Prendi riposo; e forse ti rimembra59 In sogno a quanti oggi piacesti, e quanti

20 Piacquero a te: non io, non già, ch'io speri, Al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo60 Quanto a viver mi resti, e qui per terra Mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi In così verde etate!61 Ahi, per la via

25 Odo non lunge il solitario canto Dell'artigian, che riede a tarda notte Dopo i sollazzi, al suo povero ostello62; E fieramente mi si stringe il core, A pensar come tutto al mondo passa,

30 E quasi orma non lascia. Ecco è fuggito Il dì festivo, ed al festivo il giorno Volgar63 succede, e se ne porta il tempo Ogni umano accidente. Or dov'è il suono Di que' popoli antichi? or dov'è il grido

35 De' nostri avi famosi, e il grande impero Di quella Roma, e l'armi, e il fragorio Che n'andò per la terra e l'oceano? Tutto è pace e silenzio, e tutto posa64

55 lampa: arcaico per lampada.56 cura: preoccupazione, pensiero (latinismo).57 antica natura: compl. oggetto dipendente da a salutar m’affaccio.58 Il soggetto sottinteso è l’antica natura onnipossente.59 ti rimembra: ti ricordi.60 chieggo: chiedo.61 verde etade: giovane età.62 ostello: casa, dimora. La parola mette in evidenza l’idea di luogo di rifugio.63 giorno volgar: giorno comune, feriale, contrapposto a festivo.64 posa: il verbo “posare” nel lessico leopardiano esprime la quiete, l’assenza di moto e di azione.

Page 16: quattrosecoli.files.wordpress.com€¦  · Web viewGiacomo Leopardi. Canti. Ad Angelo Mai. III (gennaio 1820) 1 Italo ardito, a che giammai non posi . 2 Di svegliar dalle tombe .

Il mondo, e più di lor non si ragiona65. 40 Nella mia prima età66, quando s'aspetta

Bramosamente il dì festivo, or poscia Ch'egli era spento67, io doloroso, in veglia, Premea le piume68; ed alla tarda notte Un canto che s'udia per li sentieri

45 Lontanando morire a poco a poco69, Già similmente mi stringeva il core.

65 si ragiona: si parla.66 prima età: infanzia.67 or… spento: quando il giorno festivo era finito.68 le piume: del letto.69 un canto… a poco: si udiva un canto morire a poco a poco allontanandosi per i sentieri.

Page 17: quattrosecoli.files.wordpress.com€¦  · Web viewGiacomo Leopardi. Canti. Ad Angelo Mai. III (gennaio 1820) 1 Italo ardito, a che giammai non posi . 2 Di svegliar dalle tombe .

Alla lunaXIV (1819?)

O graziosa luna, io mi rammento che, or volge l'anno70, sovra questo colle io venia pien d'angoscia a rimirarti: e tu pendevi allor su quella selva 5 siccome or fai, che tutta la rischiari. Ma nebuloso e tremulo dal pianto che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci il tuo volto apparia, che travagliosa era mia vita: ed è, né cangia stile, 10 O mia diletta luna. E pur mi giova la ricordanza, e il noverar l'etate del mio dolore. Oh come grato occorre nel tempo giovanil, quando ancor lungo la speme e breve ha la memoria il corso, 15 il rimembrar delle passate cose, ancor che triste, e che l'affanno duri!71

70 or volge l’anno: si compie un anno, l’anno ha compiuto tutto il suo giro.71 Oh come il ricordo delle cose passate giunge gradito nell’età giovanile, quando il corso della speranza è ancora lungo e quello della memoria breve, anche quando il ricordo è triste e il dolore si prolunga nel presente.

Page 18: quattrosecoli.files.wordpress.com€¦  · Web viewGiacomo Leopardi. Canti. Ad Angelo Mai. III (gennaio 1820) 1 Italo ardito, a che giammai non posi . 2 Di svegliar dalle tombe .

A SilviaXXI (19-20 aprile 1828)

1 Silvia, rimembri ancora 2 Quel tempo della tua vita mortale, 3 Quando beltà splendea 4 Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi, 5 E tu, lieta e pensosa, il limitare 6 Di gioventù salivi?72

7 Sonavan le quiete 8 Stanze, e le vie dintorno, 9 Al tuo perpetuo canto, 10 Allor che all'opre femminili intenta 11 Sedevi, assai contenta 12 Di quel vago73 avvenir che in mente avevi. 13 Era il maggio odoroso: e tu solevi 14 Così menare il giorno.

15 Io gli studi leggiadri 16 Talor lasciando e le sudate carte74, 17 Ove il tempo mio primo 18 E di me si spendea la miglior parte, 19 D'in su i veroni del paterno ostello 20 Porgea gli orecchi al suon della tua voce, 21 Ed alla man veloce 22 Che percorrea la faticosa tela75. 23 Mirava il ciel sereno, 24 Le vie dorate e gli orti, 25 E quinci il mar da lungi, e quindi il monte. 26 Lingua mortal non dice 27 Quel ch'io sentiva in seno76.

28 Che pensieri soavi, 29 Che speranze, che cori77, o Silvia mia! 30 Quale allor ci apparia 31 La vita umana e il fato! 32 Quando sovviemmi di cotanta speme, 33 Un affetto mi preme 34 Acerbo e sconsolato, 35 E tornami a doler di mia sventura78. 36 O natura, o natura, 37 Perché non rendi poi 38 Quel che prometti allor? perché di tanto 39 Inganni i figli tuoi?

72 il limitare… salivi: ti avviavi a oltrepassare la soglia della giovinezza.73 vago: parola molto amata da Leopardi, mantiene entrambi i significati che ha nella lingua italiana: “bello” e “indefinito”.74 sudate carte: faticose letture.75 io… tela: io, tralasciando talvolta gli amati studi e le pagine difficili (che affaticano), sulle quali si consumava il primo tempo della mia vita e la parte migliore di me stesso, dai balconi (veroni) della dimora paterna porgevo orecchio al suono della tua voce e al (rumore della) tua mano che si muoveva nel lavoro della tessitura.76 Lingua… seno: non si può dire in parole umane ciò che io sentivo nel cuore.77 cori: cuori, sentimenti.78 Quando… sventura: quando mi torna in mente quanto era grande quella speranza, mi opprime un sentimento crudele e disperato e ritorno ad addolorarmi per la mia sorte sventurata.

Page 19: quattrosecoli.files.wordpress.com€¦  · Web viewGiacomo Leopardi. Canti. Ad Angelo Mai. III (gennaio 1820) 1 Italo ardito, a che giammai non posi . 2 Di svegliar dalle tombe .

40 Tu pria che l'erbe inaridisse il verno, 41 Da chiuso morbo combattuta e vinta, 42 Perivi, o tenerella79. E non vedevi 43 Il fior degli anni tuoi; 44 Non ti molceva80 il core 45 La dolce lode or delle negre chiome, 46 Or degli sguardi innamorati e schivi; 47 Né teco le compagne ai dì festivi 48 Ragionavan d'amore.

49 Anche peria fra poco81 50 La speranza mia dolce: agli anni miei 51 Anche negaro i fati 52 La giovanezza. Ahi come, 53 Come passata sei82, 54 Cara compagna dell'età mia nova, 55 Mia lacrimata speme! 56 Questo è quel mondo? questi 57 I diletti, l'amor, l'opre, gli eventi58 Onde cotanto ragionammo insieme? 59 Questa la sorte dell'umane genti? 60 All'apparir del vero83 61 Tu, misera, cadesti: e con la mano 62 La fredda morte ed una tomba ignuda 63 Mostravi di lontano84.

79 Tu… tenerella: Tu, piccola e tenera Silvia, prima che l’inverno facesse ingiallire l’erba, morivi combattuta e vinta da una malattia nascosta nel tuo corpo.80 non ti molceva… schivi: non ti lusingava la lode per i tuoi capelli neri o per i tuoi sguardi pieni d’amore e tuttavia pudichi.81 Anche… poco: perì anche dopo poco tempo.82 Da qui fino al termine il poeta non si rivolge più a Silvia, ma alla personificazione della speranza ( mia lacrimata speme).83 vero: è la comprensione della realtà delle cose – odiosa agli occhi del poeta – contrapposta alle felici speranze e alle amate illusioni che contraddistiguono i primi anni della vita umana.84 Il “tu” a cui si rivolge il poeta è sempre la Speranza, alla quale non resta che additare la tomba. Rovesciando il proverbio classico secondo cui “finché c’è vita c’è speranza”, qui l’ultima e unica vera speranza è riposta nella morte.

Page 20: quattrosecoli.files.wordpress.com€¦  · Web viewGiacomo Leopardi. Canti. Ad Angelo Mai. III (gennaio 1820) 1 Italo ardito, a che giammai non posi . 2 Di svegliar dalle tombe .

ANALISI DI A SILVIA

Testo a struttura simmetrica e chiusa: dopo pochi versi introduttivi (vv. 1-6) che annunciano l'intento evocativo (secondo la poetica della rimembranza), due strofe rappresentano l'età delle speranze rispettivamente in Silvia giovinetta (vv. 7-14) e nel poeta (vv. 15-27); la strofa centrale (vv. 28-39), caratterizzata da una sintassi e da una retorica fortemente espressive (successione di esclamative e di interrogative, personificazione e antagonismo della natura), interrompe la rievocazione per riassumerne e spiegarne il senso; seguono altre due strofe che tornano a rappresentare Silvia (vv. 40-48) e il poeta (vv. 49-63) nella fase di morte delle speranze: negli ultimi versi (vv. 60-63) la figura di Silvia si confonde con l'allegoria, in un quadro che, venuto meno qualsivoglia elemento descrittivo o realistico, è tutto costruito su emblemi e astrazioni: la speranza che si allontana e l'apparire del vero, la mano che mostra e la tomba nuda. Le due vicende parallele esemplificano una verità filosofica: è proprio della natura umana sperare nella felicità, ma è inevitabile che tale speranza sia disattesa poiché la natura generale delle cose non è finalizzata alle aspettative degli individui. È questo, come sappiamo, uno dei temi di fondo del pensiero di Leopardi: è la «contraddizione spaventevole» che egli scopriva nell'esistenza (e che enunciava con estrema precisione in una pagina del 1825).

In questo canto la contraddizione non solo è dichiarata, in termini di discorso concettuale, nei versi di protesta contro la natura (vv. 36-38, «O natura, o natura, / perché non rendi poi / quel che prometti allor?») ma è espressa anche attraverso la struttura metaforica del linguaggio. Consideriamo la seconda parte del testo, dove giunge .a conclusione la parabola di Silvia: Silvia non arriva a vedere il fiore della sua vita, muore prima ancora che l'inverno dissecchi le erbe del prato. La metafora (di antica tradizione letteraria) del fiore (= giovinezza) qui sottolinea l'accostamento tra due ordini di esistenza, tra il corso della vita umana e il grande ciclo vegetativo; ma ne pone anche in luce uno sfasamento tragico e inspiegabile, poiché alla regolarità con cui si succedono le fasi naturali (primavera/inverno) si contrappone la vicenda interrotta dell'individuo il cui destino è di non realizzarsi neppure biologica mente (non fiorisce, è escluso dall'amore).

La contraddizione è dunque molteplice: tra le speranze e l'apparire del vero; tra la natura dell'uomo e i processi naturali e materiali di cui egli è parte; tra l'individuo e le specie, tra la sfera affettiva e quella biologica. In questa luce bisogna rileggere anche la prima parte del canto, dove si sviluppa l'analogia tra promesse della primavera e promesse (che non saranno mantenute) dell'adolescenza: la figura di Silvia rimanda fin dall'inizio a connotazioni funebri.

(da Il materiale e l’immaginario, 1986)

Page 21: quattrosecoli.files.wordpress.com€¦  · Web viewGiacomo Leopardi. Canti. Ad Angelo Mai. III (gennaio 1820) 1 Italo ardito, a che giammai non posi . 2 Di svegliar dalle tombe .

Le ricordanzeXXII (26 agosto – 12 settembre 1829)

1 Vaghe stelle dell'Orsa, io non credea 2 Tornare ancor per uso a contemplarvi 3 Sul paterno giardino scintillanti, 4 E ragionar con voi dalle finestre 5 Di questo albergo ove abitai fanciullo, 6 E delle gioie mie vidi la fine. 7 Quante immagini un tempo, e quante fole 8 Creommi nel pensier l'aspetto vostro 9 E delle luci a voi compagne! allora 10 Che, tacito, seduto in verde zolla, 11 Delle sere io solea passar gran parte 12 Mirando il cielo, ed ascoltando il canto 13 Della rana rimota alla campagna! 14 E la lucciola errava appo le siepi 15 E in su l'aiuole, susurrando al vento 16 I viali odorati, ed i cipressi 17 Là nella selva; e sotto al patrio tetto 18 Sonavan voci alterne, e le tranquille 19 Opre de' servi. E che pensieri immensi, 20 Che dolci sogni mi spirò la vista 21 Di quel lontano mar, quei monti azzurri, 22 Che di qua scopro, e che varcare un giorno 23 Io mi pensava, arcani mondi, arcana 24 Felicità fingendo al viver mio! 25 Ignaro del mio fato, e quante volte 26 Questa mia vita dolorosa e nuda 27 Volentier con la morte avrei cangiato.

28 Né mi diceva il cor che l'età verde 29 Sarei dannato a consumare in questo 30 Natio borgo selvaggio, intra una gente 31 Zotica, vil; cui nomi strani, e spesso 32 Argomento di riso e di trastullo, 33 Son dottrina e saper; che m'odia e fugge, 34 Per invidia non già, che non mi tiene 35 Maggior di sé, ma perché tale estima 36 Ch'io mi tenga in cor mio, sebben di fuori 37 A persona giammai non ne fo segno. 38 Qui passo gli anni, abbandonato, occulto, 39 Senz'amor, senza vita; ed aspro a forza 40 Tra lo stuol de' malevoli divengo: 41 Qui di pietà mi spoglio e di virtudi, 42 E sprezzator degli uomini mi rendo, 43 Per la greggia ch'ho appresso: e intanto vola 44 Il caro tempo giovanil; più caro 45 Che la fama e l'allor, più che la pura 46 Luce del giorno, e lo spirar: ti perdo 47 Senza un diletto, inutilmente, in questo 48 Soggiorno disumano, intra gli affanni, 49 O dell'arida vita unico fiore.

Page 22: quattrosecoli.files.wordpress.com€¦  · Web viewGiacomo Leopardi. Canti. Ad Angelo Mai. III (gennaio 1820) 1 Italo ardito, a che giammai non posi . 2 Di svegliar dalle tombe .

50 Viene il vento recando il suon dell'ora51 Della torre del borgo. Era conforto 52 Questo suon, mi rimembra, alle mie notti, 53 Quando fanciullo, nella buia stanza, 54 Per assidui terrori io vigilava, 55 Sospirando il mattin. Qui non è cosa 56 Ch'io vegga o senta, onde un'immagin dentro 57 Non torni, e un dolce rimembrar non sorga. 58 Dolce per sé; ma con dolor sottentra 59 Il pensier del presente, un van desio 60 Del passato, ancor tristo, e il dire: io fui. 61 Quella loggia colà, volta agli estremi 62 Raggi del dì; queste dipinte mura, 63 Quei figurati armenti, e il Sol che nasce 64 Su romita campagna, agli ozi miei 65 Porser mille diletti allor che al fianco 66 M'era, parlando, il mio possente errore 67 Sempre, ov'io fossi. In queste sale antiche, 68 Al chiaror delle nevi, intorno a queste 69 Ampie finestre sibilando il vento, 70 Rimbombaro i sollazzi e le festose 71 Mie voci al tempo che l'acerbo, indegno 72 Mistero delle cose a noi si mostra 73 Pien di dolcezza; indelibata, intera 74 Il garzoncel, come inesperto amante, 75 La sua vita ingannevole vagheggia, 76 E celeste beltà fingendo ammira.

77 O speranze, speranze; ameni inganni 78 Della mia prima età! sempre, parlando, 79 Ritorno a voi; che per andar di tempo, 80 Per variar d'affetti e di pensieri, 81 Obbliarvi non so. Fantasmi, intendo, 82 Son la gloria e l'onor; diletti e beni 83 Mero desio; non ha la vita un frutto, 84 Inutile miseria. E sebben vòti 85 Son gli anni miei, sebben deserto, oscuro 86 Il mio stato mortal, poco mi toglie 87 La fortuna, ben veggo. Ahi, ma qualvolta 88 A voi ripenso, o mie speranze antiche, 89 Ed a quel caro immaginar mio primo; 90 Indi riguardo il viver mio sì vile 91 E sì dolente, e che la morte è quello 92 Che di cotanta speme oggi m'avanza; 93 Sento serrarmi il cor, sento ch'al tutto 94 Consolarmi non so del mio destino.95 E quando pur questa invocata morte 96 Sarammi allato, e sarà giunto il fine 97 Della sventura mia; quando la terra 98 Mi fia straniera valle, e dal mio sguardo 99 Fuggirà l'avvenir; di voi per certo 100 risovverrammi; e quell'imago ancora 101 Sospirar mi farà, farammi acerbo 102 L'esser vissuto indarno, e la dolcezza 103 Del dì fatal tempererà d'affanno.

104 E già nel primo giovanil tumulto

Page 23: quattrosecoli.files.wordpress.com€¦  · Web viewGiacomo Leopardi. Canti. Ad Angelo Mai. III (gennaio 1820) 1 Italo ardito, a che giammai non posi . 2 Di svegliar dalle tombe .

105 Di contenti, d'angosce e di desio, 106 Morte chiamai più volte, e lungamente 107 Mi sedetti colà su la fontana 108 Pensoso di cessar dentro quell'acque 109 La speme e il dolor mio. Poscia, per cieco 110 Malor, condotto della vita in forse, 111 Piansi la bella giovanezza, e il fiore 112 De' miei poveri dì, che sì per tempo 113 Cadeva: e spesso all'ore tarde, assiso 114 Sul conscio letto, dolorosamente 115 Alla fioca lucerna poetando, 116 Lamentai co' silenzi e con la notte 117 Il fuggitivo spirto, ed a me stesso 118 In sul languir cantai funereo canto.

119 Chi rimembrar vi può senza sospiri, 120 O primo entrar di giovinezza, o giorni 121 Vezzosi, inenarrabili, allor quando 122 Al rapito mortal primieramente 123 Sorridon le donzelle; a gara intorno 124 Ogni cosa sorride; invidia tace, 125 Non desta ancora ovver benigna; e quasi 126 (inusitata maraviglia!) il mondo 127 La destra soccorrevole gli porge, 128 Scusa gli errori suoi, festeggia il novo 129 Suo venir nella vita, ed inchinando 130 Mostra che per signor l'accolga e chiami? 131 Fugaci giorni! a somigliar d'un lampo 132 Son dileguati. E qual mortale ignaro 133 Di sventura esser può, se a lui già scorsa 134 Quella vaga stagion, se il suo buon tempo, 135 Se giovanezza, ahi giovanezza, è spenta?

136 O Nerina! e di te forse non odo 137 Questi luoghi parlar? caduta forse 138 Dal mio pensier sei tu? Dove sei gita, 139 Che qui sola di te la ricordanza 140 Trovo, dolcezza mia? Più non ti vede 141 Questa Terra natal: quella finestra, 142 Ond'eri usata favellarmi, ed onde 143 Mesto riluce delle stelle il raggio,144 È deserta. Ove sei, che più non odo 145 La tua voce sonar, siccome un giorno, 146 Quando soleva ogni lontano accento 147 Del labbro tuo, ch'a me giungesse, il volto 148 Scolorarmi? Altro tempo. I giorni tuoi 149 Furo, mio dolce amor. Passasti. Ad altri 150 Il passar per la terra oggi è sortito, 151 E l'abitar questi odorati colli. 152 Ma rapida passasti; e come un sogno 153 Fu la tua vita. Iva danzando; in fronte 154 La gioia ti splendea, splendea negli occhi 155 Quel confidente immaginar, quel lume 156 Di gioventù, quando spegneali il fato, 157 E giacevi. Ahi Nerina! In cor mi regna 158 L'antico amor. Se a feste anco talvolta, 159 Se a radunanze io movo, infra me stesso

Page 24: quattrosecoli.files.wordpress.com€¦  · Web viewGiacomo Leopardi. Canti. Ad Angelo Mai. III (gennaio 1820) 1 Italo ardito, a che giammai non posi . 2 Di svegliar dalle tombe .

160 Dico: o Nerina, a radunanze, a feste 161 Tu non ti acconci più, tu più non movi. 162 Se torna maggio, e ramoscelli e suoni 163 Van gli amanti recando alle fanciulle, 164 Dico: Nerina mia, per te non torna 165 Primavera giammai, non torna amore. 166 Ogni giorno sereno, ogni fiorita 167 Piaggia ch'io miro, ogni goder ch'io sento, 168 Dico: Nerina or più non gode; i campi, 169 L'aria non mira. Ahi tu passasti, eterno 170 Sospiro mio: passasti: e fia compagna 171 D'ogni mio vago immaginar, di tutti 172 I miei teneri sensi, i tristi e cari 173 Moti del cor, la rimembranza acerba.

Page 25: quattrosecoli.files.wordpress.com€¦  · Web viewGiacomo Leopardi. Canti. Ad Angelo Mai. III (gennaio 1820) 1 Italo ardito, a che giammai non posi . 2 Di svegliar dalle tombe .

Canto notturno di un pastore errante dell’AsiaXXIII (22 ottobre 1829 – 9 aprile 1830)

1Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, 2 Silenziosa luna? 3 Sorgi la sera, e vai, 4 Contemplando i deserti; indi ti posi85. 5 Ancor non sei tu paga 6 Di riandare i sempiterni calli?86 7 Ancor non prendi a schivo87, ancor sei vaga88 8 Di mirar queste valli? 9 Somiglia alla tua vita 10 La vita del pastore. 11 Sorge in sul primo albore; 12 Move la greggia oltre pel campo, e vede 13 Greggi, fontane ed erbe; 14 Poi stanco si riposa in su la sera: 15 Altro mai non ispera. 16 Dimmi, o luna: a che vale89 17 Al pastor la sua vita, 18 La vostra vita a voi90? dimmi: ove tende 19 Questo vagar mio breve, 20 Il tuo corso immortale?

21 Vecchierel bianco, infermo, 22 Mezzo vestito e scalzo, 23 Con gravissimo fascio in su le spalle, 24 Per montagna e per valle, 25 Per sassi acuti, ed alta rena91, e fratte92, 26 Al vento, alla tempesta, e quando avvampa 27 L'ora, e quando poi gela, 28 Corre via, corre, anela, 29 Varca torrenti e stagni, 30 Cade, risorge, e più e più s'affretta, 31 Senza posa o ristoro, 32 Lacero, sanguinoso; infin ch'arriva 33 Colà dove la via 34 E dove il tanto affaticar fu volto: 35 Abisso orrido, immenso, 36 Ov'ei precipitando, il tutto obblia. 37 Vergine luna, tale 38 È la vita mortale.

39 Nasce l'uomo a fatica, 40 Ed è rischio di morte il nascimento. 41 Prova pena e tormento 85 ti posi: ti fermi. È la visione prescientifica del pastore asiatico che immagina l’esistere della luna come un’alternanza di cammino (quando il suo moto è visibile in cielo) e di riposo (quando tramonta).86 Ancor… calli?: non sei ancora sazia di ripercorrere vie (calli) sempre uguali?87 prendi a schivo: ti viene disgusto.88 sei vaga: sei attratta, hai piacere.89 a che vale: che valore ha, che senso ha.90 a voi: agli astri del cielo.91 rena: sabbia.92 fratte: scoscendimenti coperti di macchie intricate di bosco.

Page 26: quattrosecoli.files.wordpress.com€¦  · Web viewGiacomo Leopardi. Canti. Ad Angelo Mai. III (gennaio 1820) 1 Italo ardito, a che giammai non posi . 2 Di svegliar dalle tombe .

42 Per prima cosa; e in sul principio stesso 43 La madre e il genitore 44 Il prende a consolar dell'esser nato. 45 Poi che crescendo viene, 46 L'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre 47 Con atti e con parole 48 Studiasi fargli core93, 49 E consolarlo dell'umano stato: 50 Altro ufficio più grato 51 Non si fa da parenti94 alla lor prole.52 Ma perché dare al sole, 53 Perché reggere in vita 54 Chi poi di quella consolar convenga? 55 Se la vita è sventura 56 Perché da noi si dura?95 57 Intatta luna, tale 58 È lo stato mortale. 59 Ma tu mortal non sei, 60 E forse del mio dir poco ti cale96.

61 Pur tu, solinga, eterna peregrina, 62 Che sì pensosa sei, tu forse intendi, 63 Questo viver terreno, 64 Il patir nostro, il sospirar, che sia; 65 Che sia questo morir, questo supremo 66 Scolorar del sembiante97, 67 E perir dalla terra98, e venir meno 68 Ad ogni usata, amante compagnia. 69 E tu certo comprendi 70 Il perché delle cose, e vedi il frutto99 71 Del mattin, della sera, 72 Del tacito, infinito andar del tempo. 73 Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore 74 Rida la primavera, 75 A chi giovi l'ardore, e che procacci 76 Il verno co' suoi ghiacci100. 77 Mille cose sai tu, mille discopri, 78 Che son celate al semplice pastore. 79 Spesso quand'io ti miro 80 Star così muta in sul deserto piano, 81 Che, in suo giro lontano, al ciel confina; 82 Ovver con la mia greggia 83 Seguirmi viaggiando a mano a mano; 84 E quando miro in cielo arder le stelle; 85 Dico fra me pensando: 86 A che tante facelle101? 87 Che fa l'aria infinita, e quel profondo

93 studiasi… core: si preoccupano di fargli coraggio.94 parenti: genitori (latinismo).95 perché… dura?: perché noi la sopportiamo?96 ti cale: ti importa.97 scolorar del sembiante: impallidire del volto nella morte.98 perir dalla terra: venir meno, scomparire dalla faccia della terra.99 il frutto: lo scopo.100 a chi giovi… ghiacci: a chi dia beneficio l’ardore estivo e che fine ottenga (procacci) l’inverno con i suoi ghiacci. Insomma, quale sia il senso dell’alternarsi delle stagioni.101 facelle: fiammelle. Sono evidentemente le stelle.

Page 27: quattrosecoli.files.wordpress.com€¦  · Web viewGiacomo Leopardi. Canti. Ad Angelo Mai. III (gennaio 1820) 1 Italo ardito, a che giammai non posi . 2 Di svegliar dalle tombe .

88 Infinito seren102? che vuol dir questa 89 Solitudine immensa? ed io che sono? 90 Così meco ragiono: e della stanza103 91 Smisurata e superba, 92 E dell'innumerabile famiglia104; 93 Poi di tanto adoprar, di tanti moti 94 D'ogni celeste, ogni terrena cosa, 95 Girando105 senza posa, 96 Per tornar sempre là donde son mosse; 97 Uso alcuno, alcun frutto 98 Indovinar non so. Ma tu per certo, 99 Giovinetta immortal, conosci il tutto. 100 Questo io conosco e sento, 101 Che degli eterni giri, 102 Che dell'esser mio frale106, 103 Qualche bene o contento107 104 Avrà fors'altri; a me la vita è male.

105 O greggia mia che posi, oh te beata, 106 Che la miseria tua, credo, non sai!107 Quanta invidia ti porto! 108 Non sol perché d'affanno 109 Quasi libera vai; 110 Ch'ogni stento, ogni danno, 111 Ogni estremo timor subito scordi; 112 Ma più perché giammai tedio non provi. 113 Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe, 114 Tu se' queta e contenta; 115 E gran parte dell'anno 116 Senza noia consumi in quello stato. 117 Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra, 118 E un fastidio m'ingombra 119 La mente, ed uno spron quasi mi punge 120 Sì che, sedendo, più che mai son lunge 121 Da trovar pace o loco108. 122 E pur nulla non bramo109, 123 E non ho fino a qui cagion di pianto. 124 Quel che tu goda o quanto,125 Non so già dir; ma fortunata sei. 126 Ed io godo ancor poco, 127 O greggia mia, né di ciò sol mi lagno. 128 Se tu parlar sapessi, io chiederei: 129 Dimmi: perché giacendo 130 A bell'agio, ozioso, 131 S'appaga ogni animale; 132 Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale? 133 Forse s'avess'io l'ale 134 Da volar su le nubi,

102 seren: cielo.103 stanza: spazio.104 innumerabile famiglia: insieme innumerevole degli esseri prodotti dalla natura.105 girando: che girano.106 frale: fragile, effimero.107 contento: gioia.108 loco: quiete.109 nulla non bramo: non desidero nulla.

Page 28: quattrosecoli.files.wordpress.com€¦  · Web viewGiacomo Leopardi. Canti. Ad Angelo Mai. III (gennaio 1820) 1 Italo ardito, a che giammai non posi . 2 Di svegliar dalle tombe .

135 E noverar110 le stelle ad una ad una, 136 O come il tuono errar di giogo in giogo111, 137 Più felice sarei, dolce mia greggia, 138 Più felice sarei, candida luna. 139 O forse erra dal vero112, 140 Mirando all'altrui sorte, il mio pensiero: 141 Forse in qual forma, in quale 142 Stato che sia, dentro covile o cuna113, 143 È funesto a chi nasce il dì natale.

110 noverar: contare.111 di giogo in giogo: da un rilievo montuoso all’altro.112 erra dal vero: si allontana dalla verità, si sbaglia.113 dentro covile o cuna: in una tana o in una culla, nella condizione animale come in quella umana.

Page 29: quattrosecoli.files.wordpress.com€¦  · Web viewGiacomo Leopardi. Canti. Ad Angelo Mai. III (gennaio 1820) 1 Italo ardito, a che giammai non posi . 2 Di svegliar dalle tombe .

La quiete dopo la tempestaXXIV (17-20 settembre 1829)

1Passata è la tempesta: 2 Odo augelli far festa, e la gallina, 3 Tornata in su la via, 4 Che ripete il suo verso. Ecco il sereno 5 Rompe114 là da ponente, alla montagna115; 6 Sgombrasi116 la campagna, 7 E chiaro nella valle il fiume appare. 8 Ogni cor si rallegra, in ogni lato 9 Risorge il romorio 10 Torna il lavoro usato. 11 L'artigiano a mirar l'umido cielo, 12 Con l'opra in man117, cantando, 13 Fassi in su l'uscio; a prova118 14 Vien fuor la femminetta a còr119 dell'acqua 15 Della novella piova; 16 E l'erbaiuol rinnova 17 Di sentiero in sentiero 18 Il grido giornaliero. 19 Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride 20 Per li poggi120 e le ville. Apre i balconi, 21 Apre terrazzi e logge la famiglia121: 22 E, dalla via corrente, odi lontano 23 Tintinnio di sonagli; il carro stride 24 Del passeggier che il suo cammin ripiglia.

25 Si rallegra ogni core. 26 Sì dolce, sì gradita 27 Quand'è, com'or, la vita? 28 Quando con tanto amore 29 L'uomo a' suoi studi intende?122

30 O torna all'opre? o cosa nova imprende? 31 Quando de' mali suoi men si ricorda? 32 Piacer figlio d'affanno; 33 Gioia vana, ch'è frutto 34 Del passato timore, onde si scosse 35 E paventò la morte 36 Chi la vita abborria123;

114 rompe: irrompe, squarcia le nubi.115 alla montagna: il locativo introdotto dalla preposizione “a” è uno stilema largamente usato da Leopardi e ha il significato di riferimento spaziale indefinito: “dalla parte della montagna”, “verso la montagna”.116 sgombrasi: si libera, la visuale ritorna limpida.117 l’opra: l’oggetto del suo lavoro.118 a prova: a gara, in fretta.119 còr: raccogliere.120 poggi: lievi colline.121 la famiglia: la servitù.122 Quando… intende?: in quale altro momento l’uomo attende alle sue occupazioni (studi, latinismo) con altrettanto amore? 123 gioia…aborria: gioia priva di reale contenuto, che è frutto del timore ormai superato, a causa del quale coloro che normalmente detestano (aborria) la vita si turbarono (si scosse) e temettero (paventò) la morte. Secondo la convinzione profonda di Leopardi gli uomini, tutti gli uomini, non possono far altro che aborrire la vita, eccetto che in particolari situazioni, come quella illustrata in questa poesia.

Page 30: quattrosecoli.files.wordpress.com€¦  · Web viewGiacomo Leopardi. Canti. Ad Angelo Mai. III (gennaio 1820) 1 Italo ardito, a che giammai non posi . 2 Di svegliar dalle tombe .

37 Onde in lungo tormento, 38 Fredde, tacite, smorte, 39 Sudàr le genti e palpitàr, vedendo 40 Mossi alle nostre offese 41 Folgori, nembi e vento124.

42 O natura cortese, 43 Son questi i doni tuoi, 44 Questi i diletti sono 45 Che tu porgi ai mortali. Uscir di pena 46 È diletto fra noi. 47 Pene tu spargi a larga mano; il duolo 48 Spontaneo sorge e di piacer, quel tanto49 Che per mostro125 e miracolo talvolta 50 Nasce d'affanno, è gran guadagno. Umana 51 Prole cara agli eterni!126 assai felice 52 Se respirar ti lice 53 D'alcun dolor: beata 54 Se te d'ogni dolor morte risana127.

124 onde… vento: per la qual cosa le genti sudarono e tremarono (palpitar), vedendo le forze della natura (folgori, nembi e vento) mosse contro di noi.125 mostro: prodigio, fenomeno straordinario (latinismo).126 cara agli etereni!: cara alle divinità! Detto con ironia.127 assai… risana: abbastanza fortunata se ti è lecito tirare fiato da qualcuno dei (consueti) dolori, ma veramente beata solo allorché la morte ti risana da ogni dolore.

Page 31: quattrosecoli.files.wordpress.com€¦  · Web viewGiacomo Leopardi. Canti. Ad Angelo Mai. III (gennaio 1820) 1 Italo ardito, a che giammai non posi . 2 Di svegliar dalle tombe .

ANALISI DI LA QUIETE DOPO LA TEMPESTA

La base concettuale è data dalla «teoria del piacere»: il piacere ha un'essenza soltanto negativa, poiché consiste o nel sollievo che si prova al cessare del dolore o nell'aspettativa del futuro. La Quiete rappresenta in forma di apologo il primo dei due casi (il secondo è invece esemplificato secondo uno schema assai simile nell'altro canto, composto da Leopardi pressappoco negli stessi giorni, Il sabato del villaggio).

La composizione si articola in una prima ampia strofa (vv. 1-24) in cui si descrive la vita del borgo che torna alle opere consuete; in una parte centrale (vv. 25-31), costruita su una successione di interrogative, che segna il passaggio dall'esempio specifico e minimo (il temporale in campagna) al discorso generale, dove la tempesta diventa metafora dei pericoli ben più vasti e straordinari che periodicamente minacciano gli uomini; in un'ultima parte (vv. 32-54, con inizio quindi all'interno della seconda strofa) di enunciati perentori che rivelano la verità filosofica, smascherando con un brusco effetto di contrasto (v. 32, «Piacer figlio d'affanno ») la serenità delle immagini d'apertura; sono ironici i versi conclusivi (vv. 42-54) che contengono l'apostrofe diretta alla natura.

Per l'interpretazione di questo canto (e del Sabato che gli è simile) alcuni suggerimenti interessanti si possono trarre da uno studio di G. Lonardi128, che ha riconosciuto e analizzato la presenza di varie fonti greche: presenza sorprendente in un testo che sembrerebbe nascere semplicemente dall'osservazione di una realtà familiare. Sono possibili invece riscontri precisi con Omero (Iliade, VIII, vv. 555-59129; XVI, vv. 297-300130) da cui viene per esempio l'immagine del cielo nuvoloso che si «rompe», con Arato, autore nel IV-Il I secolo a. C. dei Phaenomena in cui è tratto tipico l'alternarsi dello stile descrittivo e della riflessione amara (per la tempesta si veda in particolare v. 988 e seguenti) e anche con un frammento dell'Ecate di Callimaco. Leopardi rappresentò la quotidianità di Recanati avendo in mente quei poeti che egli giudicava ancora «primitivi» e «naturali». Non è illegittimo, secondo Lonardi, supporre che nel mondo artigiano-contadino egli abbia in una certa misura trasferito il modello antico; che abbia visto l'erbaiuolo, la femminetta, il carrettiere come figure esemplari di un'umanità arcaica e semplice. Senonché, quando egli compone questi canti, non può più credere che la condizione di ignoranza, la non-problematicità, sia una condizione di felicità: o meglio, questa gli appare fragile e provvisoria, confinata nel breve momento che segue alla tempesta e ridotta per di più al solo e mediocre ritorno delle abitudini («torna il lavoro usato», v. 10). Leopardi finisce dunque per concedere anche agli «ignoranti» il triste privilegio dell'infelicità, ma non si assegna, né assegna ad altri, un «compito» verso di loro. «Forse è lo stesso dire che non si definisce costituzionalmente diverso, ma solo, in quel punto, fornito di una coscienza che le creature che osserva non hanno».

(da Il materiale e l’immaginario, 1986)

128 G. Lonardi, Per un restauro classico della «Quiete dopo la tempesta », in Classicismo e utopia nella lirica leopardiana, Firenze, Olschki, 1969.

129 Vincenzo Monti, Traduzione dell'Iliade, VIIISiccome quando in ciel tersa è la Luna,e tremole e vezzose a lei dintornosfavillano le stelle, allor che l'ariaè senza vento, ed allo sguardo tuttesi scuoprono le torri e le forestee le cime de' monti; immenso e purol'etra si spande, gli astri tutti il voltorivelano ridenti, e in cor ne godel'attonito pastor

130 Vincenzo Monti, Traduzione dell'Iliade, XVISiccome allor che dall'eccelsa vettadi gran monte le nubi atre disgombrail balenante Giove, appaion tuttesubitamente le vedette e gli altigioghi e le selve, e immenso s'apre il cielo:così respinta l'ostil fiamma, aprisside' Dànai il core e respirò.

Page 32: quattrosecoli.files.wordpress.com€¦  · Web viewGiacomo Leopardi. Canti. Ad Angelo Mai. III (gennaio 1820) 1 Italo ardito, a che giammai non posi . 2 Di svegliar dalle tombe .

Il sabato del villaggioXXV (settembre 1829)

1La donzelletta vien dalla campagna, 2 In sul calar del sole, 3 Col suo fascio dell'erba; e reca in mano 4 Un mazzolin di rose e di viole, 5 Onde, siccome suole, 6 Ornare ella si appresta 7 Dimani, al dì di festa, il petto e il crine131. 8 Siede con le vicine 9 Su la scala a filar la vecchierella, 10 Incontro là dove si perde il giorno132; 11 E novellando vien del suo buon tempo133, 12 Quando ai dì della festa ella si ornava, 13 Ed ancor sana e snella 14 Solea danzar la sera intra di quei 15 Ch'ebbe compagni dell'età più bella. 16 Già tutta l'aria imbruna, 17 Torna azzurro il sereno134, e tornan l'ombre 18 Giù da' colli e da' tetti, 19 Al biancheggiar della recente luna. 20 Or la squilla135 dà segno 21 Della festa che viene; 22 Ed a quel suon diresti 23 Che il cor si riconforta. 24 I fanciulli gridando 25 Su la piazzuola in frotta, 26 E qua e là saltando, 27 Fanno un lieto romore: 28 E intanto riede alla sua parca mensa, 29 Fischiando, il zappatore136, 30 E seco pensa al dì del suo riposo.

31 Poi quando intorno è spenta ogni altra face137, 32 E tutto l'altro tace, 33 Odi il martel picchiare, odi la sega 34 Del legnaiuol, che veglia 35 Nella chiusa bottega alla lucerna, 36 E s'affretta, e s'adopra 37 Di fornir138 l'opra anzi il chiarir dell'alba.

38 Questo di sette è il più gradito giorno, 39 Pien di speme e di gioia: 40 Diman tristezza e noia 41 Recheran l'ore, ed al travaglio usato 131 onde… crine: con il quale (mazzolino) ella si propone (appresta), l’indomani, giorno di festa, di ornare il petto e i capelli, come fa di solito.132 incontro… giorno: rivolta verso il tramonto.133 e novellando… tempo: e va raccontando dei suoi tempi giovanili.134 torna… sereno: il cielo si schiarisce, da nero ritorna blu, al sorgere della luna.135 squilla: campana.136 riede… zappatore: il bracciante agricolo ritorna fischiettando alla sua povera mensa.137 face: lume.138 fornir: portare a termine.

Page 33: quattrosecoli.files.wordpress.com€¦  · Web viewGiacomo Leopardi. Canti. Ad Angelo Mai. III (gennaio 1820) 1 Italo ardito, a che giammai non posi . 2 Di svegliar dalle tombe .

42 Ciascuno in suo pensier farà ritorno139.

43 Garzoncello scherzoso140, 44 Cotesta età fiorita141 45 È come un giorno d'allegrezza pieno, 46 Giorno chiaro, sereno, 47 Che precorre142 alla festa di tua vita143. 48 Godi, fanciullo mio; stato soave, 49 Stagion lieta è cotesta.50 Altro dirti non vo'; ma la tua festa 51 Ch'anco tardi a venir non ti sia grave144.

139 al travaglio… ritorno: ognuno ritornerà col suo pensiero al solito lavoro.140 Garzoncello scherzoso: ragazzino a cui piace divertirsi.141 età fiorita: fanciullezza.142 precorre: precede.143 festa di tua vita: l’età adulta. Nel pensiero leopardiano, l’età adulta è sempre connotata negativamente; lo stesso avviene anche qui: essa è chiamata festa in analogia al dì di festa di cui si tratta in questa poesia, giorno atteso, ma in realtà pieno di tristezza e noia.144 la tua festa… grave: non ti pesi se anche la tua età adulta (festa) tarda a venire.

Page 34: quattrosecoli.files.wordpress.com€¦  · Web viewGiacomo Leopardi. Canti. Ad Angelo Mai. III (gennaio 1820) 1 Italo ardito, a che giammai non posi . 2 Di svegliar dalle tombe .

A sé stessoXXVIII (maggio 1833?)

1 Or poserai145 per sempre, 2 Stanco mio cor. Perì l'inganno estremo, 3 Ch'eterno io mi credei146. Perì. Ben sento, 4 In noi di cari inganni, 5 Non che la speme, il desiderio è spento147. 6 Posa per sempre. Assai148 7 Palpitasti. Non val cosa nessuna 8 I moti tuoi, né di sospiri è degna 9 La terra. Amaro e noia 10 La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo. 11 T'acqueta omai. Dispera 12 L'ultima volta. Al gener nostro il fato 13 Non donò che il morire. Omai disprezza 14 Te, la natura, il brutto 15 Poter che, ascoso, a comun danno impera, 16 E l'infinita vanità del tutto149.

145 poserai: ti quieterai.146 Perì… credei: morì, finì anche l’estremo inganno – l’amore – che io avevo creduto eterno.147 Ben… spento: mi accorgo bene che è spenta non solo la speranza, ma anche il desiderio degli inganni che (un tempo) mi erano stati cari.148 Assai: a sufficienza, quanto basta.149 Omai… tutto: ormai disprezza (imperativo, il cui soggetto è “tu, cuore”) te stesso, la natura, il brutto potere nascosto che domina a danno di tutti, e l’infinita inutilità e vuotezza di ogni cosa. L’ultima frase riecheggia il celebre ritornello del libro biblico di Qoelet: “Vanità delle vanità e tutto è vanità”.

Page 35: quattrosecoli.files.wordpress.com€¦  · Web viewGiacomo Leopardi. Canti. Ad Angelo Mai. III (gennaio 1820) 1 Italo ardito, a che giammai non posi . 2 Di svegliar dalle tombe .

ANALISI DI A SE STESSO

Il metro e l'impianto concettuale. Come risponda, ottimamente, a questo schema metrico lo svolgimento del pensiero, mostra anzi tutto il ritorno, all'inizio di ciascun gruppo, del medesimo motivo (vv. 1, 6, 11): «Or poserai per sempre...; Posa per sempre...; T'acqueta omai... ».

E il progressivo variar dei concetti, dall'uno all'altro dei tre gruppi, ogni volta s'irradia, conseguente, da quel fermo spunto iniziale.

1. Posa mio cuore. Perito oramai l'inganno estremo (l'inganno d'amore), chiusa è la via ad ogni speranza, ad ogni desiderio.

2. Posa mio cuore. Dopo tanto palpitare, chiaro è che nulla al mondo vale i palpiti di un cuore, e che la vita non offre se non duolo e tedio.

3. Posa mio cuore. Unico dono del destino all'uomo è la morte. La vita non gli può suggerir che disprezzo: anche per sé, anche per la natura, e per il male onnipossente, e per «l'infinita vanità del tutto».

«Infinita vanità del tutto»: colpisce la singolare potenza di questa formula finale, a cui il metro stesso, si noti, dà singolare risalto, riservandole, fuor del disegno normale, un apposito verso. Delle tre parti, infatti, di cui consta il canto, la terza ed ultima eccede di un verso la misura delle altre; e si tratta, appunto, dell'endecasillabo riservato alla formula finale.

Mobilità estrema degli elementi costruttivi. Non c'è quasi verso in questo canto che non sia sintatticamente spezzato. Maggiore del numero dei versi è quello delle proposizioni. E di diciotto, quante esse sono, due sole sono subordinate (l'inganno « ch'eterno io mi credei »; il potere « che ascoso a comun danno impera »). Delle altre, due sole si legano, mediante congiunzione (v. 8 né, v. 10 e), alla proposizione precedente; le rimanenti son tutte autonome, senza alcun le game né di subordinazione, né di coordinazione. Brevissime, in genere: cinque se ne contano nei primi tre versi, dieci dal sesto al tredicesimo. La più lunga è l'ultima (vv. 13-16); ma è interrotta da una subordinata (v. 15), ed è spezzata inoltre dalla presenza di quattro allineati accusativi («te, la natura, il brutto poter [che ecc.], e l'infinita vanità del tutto» ).

Frequenti, conseguentemente, sono le pause; le più pesanti (undici) segnate da punti; e meritano un particolare rilievo le due che delimitano, prima e dopo, nel corso del terzo verso, una parola sola: «.Peri.» Tra le pause maggiori s'intercalano poi, non meno numerose, le pause minori (minori, ma sensibili), segnate da virgole. Una anzi, alla fine del v. lO, è segnata da un punto e virgola, dove l'interpunzione vuole palesemente rovesciar la funzione, che normalmente è d'avvicinamento, della copulativa e (... «altro mai nulla; e fango è il mondo»).

Due proposizioni, che hanno il soggetto in comune, mancano di verbo («Amaro e noia la vita, altro mai nulla»). Un verbo, invece, costituisce da solo un'altra proposizione («Perì»). Altrove il verbo si presenta con la semplice scorta di un avverbio, o di una locuzione avverbiale («Ben sento», «Posa per sempre », «Assai palpitasti», «T'acqueta omai», «Dispera l'ultima volta»). Pochi sono gli aggettivi: il primo suona, sconsolato, nell'unico vocativo di tutto il canto («stanco mio cor»); due altri, allitterati e assonanti («estremo», «eterno»), sorgono a fissare i due tempi del fatale «inganno»; due altri, entrambi in posizione di rilievo, il primo martellato dalla rima («brutto»), il secondo isolato dalle pause («ascoso»), vengono a caratterizzare il potere, 1'«arcana malvagità», che governa il mondo; l'ultimo («infinita») s'allunga lento ad abbracciare l'universale vanità: tutti, fuor d'ogni compiacimento ornativo, accusano la necessità della loro presenza. Ma il discorso, essenzialmente, è fatto di verbi e di sostantivi. Dei verbi qualcuno si ripete («poserai» - «posa»; «perì» - «perì»), altri ripetono il medesimo movimento (e son gli imperativi «posa», «t'acqueta», «dispera», «disprezza»). Prevalgono tuttavia i sostantivi, quantitativamente e qualitativamente. Tra loro uno solo si ripete, ed è, più che ripetizione, contrapposizione tra il singolo «estremo inganno», non ancor placato nel ricordo, e i generici «cari inganni», che la memoria ha già riscattati: gli «ameni inganni» della « prima età»150. Del resto quasi tutti i sostantivi son ricchi di espressività, anche quelli che stanno, abbinati, a distinguere concetti affini («speme» e «desiderio», «moti» e «sospiri»); ma quelli specialmente che, dal «nulla» al «tutto», designano gli aspetti essenziali delle cose: «terra», «mondo», «natura», «vita», morte, «fato». Su loro batte, forte, a volta a volta l'accento. E vibra in quell'accento il disprezzo, che in altri sostantivi, con altrettanta forza, apertamente si svela: «noia», «fango».

Notevole il numero dei sostantivi; notevole anche il fatto che aggettivi, pronomi e verbi si trasformino talora in sostantivi (l'«amaro», il «morire», il «tutto»). Più notevole, comunque, è che, in genere, ciascuno di quei tanti sostantivi attiri di per sé, su di sé, con l'aiuto delle sapienti pause, il pensiero. Di qui ciò che già si è notato: il gran numero delle proposizioni e la continua spezzatura dei versi. Raro avviene che la frase sintattica coincida con la frase ritmica. E quel che i francesi chiamano enjambement (e che potrebbe ben

150 ameni...età: le citazioni sono tratte dal canto di Leopardi Le ricordanze.

Page 36: quattrosecoli.files.wordpress.com€¦  · Web viewGiacomo Leopardi. Canti. Ad Angelo Mai. III (gennaio 1820) 1 Italo ardito, a che giammai non posi . 2 Di svegliar dalle tombe .

tradursi con «accavallamento») domina da un capo all'altro di questo canto, come certo in nessun altro canto leopardiano.

(Angelo Monteverdi, Frammenti critici leopardiani, Napoli, Esi, 1967)

Angelo Monteverdi (Cremona, 1886 - Lavinio Lido di Enea, Roma, 1967) è stato docente di filologia romanza nelle università di Friburgo (1922), di Milano (1932), di Roma (1942-61); dal 1947 diresse con Aurelio Roncaglia la rivista «Cultura neolatina». Tra i suoi studi linguistici e di critica testuale, oltre che letterari, ricordiamo: Le origini e il Duecento, 1937; Saggi neolatini, 1945; Studi e saggi sulla letteratura italiana dei primi secoli, 1954; La poesia provenzale in Italia, 1956; Centoe Duecento, 1971, postumo; Manuale di avviamento agli studi romanzi, 1952; e l'interpretazione critica dei Canti leopardiani (Frammenti critici leopardiani, Napoli, Esi, 1967).

Page 37: quattrosecoli.files.wordpress.com€¦  · Web viewGiacomo Leopardi. Canti. Ad Angelo Mai. III (gennaio 1820) 1 Italo ardito, a che giammai non posi . 2 Di svegliar dalle tombe .

La ginestrao il fiore del desertoXXXIV (1836)

E gli uomini amarono più le tenebre che la luce. Giovanni 3,19

Qui su l'arida schiena del formidabil monte sterminator Vesevo151, la qual null'altro allegra arbor né fiore,

5 tuoi cespi solitari intorno spargi, odorata ginestra, contenta dei deserti. Anco ti vidi de' tuoi steli abbellir l'erme152 contrade che cingon la cittade

10 la qual fu donna de' mortali un tempo153, e del perduto impero par che col grave e taciturno aspetto faccian fede e ricordo al passeggero. Or ti riveggo in questo suol, di tristi

15 lochi e dal mondo abbandonati amante, e d'afflitte fortune154 ognor compagna. Questi campi cosparsi di ceneri infeconde, e ricoperti dell'impietrata lava,

20 che sotto i passi al peregrin risona; dove s'annida e si contorce al sole la serpe, e dove al noto cavernoso covil torna il coniglio; fur liete ville e colti,

25 e biondeggiàr di spiche, e risonaro di muggito d'armenti; fur giardini e palagi, agli ozi de' potenti gradito ospizio; e fur città famose

30 che coi torrenti suoi l'altero monte dall'ignea bocca fulminando oppresse con gli abitanti insieme. Or tutto intorno una ruina involve, dove tu siedi, o fior gentile, e quasi

35 i danni altrui commiserando, al cielo di dolcissimo odor mandi un profumo, che il deserto consola. A queste piagge venga colui che d'esaltar con lode il nostro stato ha in uso, e vegga quanto

40 è il gener nostro in cura all'amante natura. E la possanza qui con giusta misura

151 Vesevo: Vesuvio.152 erme: solitarie153 cittade… tempo: la città che un tempo fu dominatrice di tutti gli uomini: Roma.154 afflitte fortune: grandezze decadute.

Venga a queste lande (piagge) colui che è solito esaltare con lode il nostro stato, e veda quanto l'amante natura ha cura del nostro genere.E qui potrà anche stimare

Page 38: quattrosecoli.files.wordpress.com€¦  · Web viewGiacomo Leopardi. Canti. Ad Angelo Mai. III (gennaio 1820) 1 Italo ardito, a che giammai non posi . 2 Di svegliar dalle tombe .

anco estimar potrà dell'uman seme, cui la dura nutrice, ov'ei men teme,

45 con lieve moto in un momento annulla in parte, e può con moti poco men lievi ancor subitamenteannichilare in tutto. Dipinte in queste rive

50 son dell'umana gente le magnifiche sorti e progressive.

Qui mira e qui ti specchia, secol superbo e sciocco, che il calle insino allora

55 dal risorto pensier segnato innanti abbandonasti, e volti addietro i passi, del ritornar ti vanti, e procedere il chiami. Al tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti,

60 di cui lor sorte rea padre ti fece, vanno adulando, ancora ch'a ludibrio talora t'abbian fra sé. Non io con tal vergogna scenderò sotterra;

65 ma il disprezzo piuttosto che si serra di te nel petto mio, mostrato avrò quanto si possa aperto: ben ch'io sappia che obblio preme chi troppo all'età propria increbbe.

70 di questo mal, che teco mi fia comune, assai finor mi rido. Libertà vai sognando, e servo a un tempo vuoi di novo il pensiero, sol per cui risorgemmo

75 della barbarie in parte, e per cui solo si cresce in civiltà, che sola in meglio guida i pubblici fati. Così ti spiacque il vero dell'aspra sorte e del depresso loco

80 che natura ci diè. Per questo il tergo vigliaccamente rivolgesti al lume che il fe palese: e, fuggitivo, appelli vil chi lui segue, e solo magnanimo colui

85 che se schernendo o gli altri, astuto o folle, fin sopra gli astri il mortal grado estolle.

Uom di povero stato e membra inferme che sia dell'alma generoso ed alto, non chiama sé né stima

90 ricco d'or né gagliardo, e di splendida vita o di valente persona infra la gente non fa risibil mostra; ma se di forza e di tesor mendico

95 lascia parer senza vergogna, e noma parlando, apertamente, e di sue cose fa stima al vero uguale.

dell'umanità (seme umano), che (cui, compl. ogg.), quando meno ha timore, la dura nutrice (= la natura), con un lieve moto, annienta in un momento in parte,e può anche con moti poco meno lievi distruggere (annichilare) del tutto all'improvviso.Sono dipinte in questi pendii (rive) "le magnifiche sorti e progressive"dell'umanità.

Osserva (mira) qui e specchiati qui,secolo superbo e sciocco,che hai abbandonato la via (calle)fino (insino) allora segnata avanzando (innanti) dal pensiero risorto, e volti i passi all'indietro,ti vanti dell'andare a ritroso (ritornar),e lo chiami procedere.Tutte le menti intelligenti (ingegni), di cui la loro sorte crudele (rea) ti fece padre (= che ebbero la sfortuna di nascere in questo secolo),vanno adulando le tue idee infantili (pargoleggiar)benché (ancor ch') tra sé talora ti scherniscano (a ludibrio t'abbian).Non io scenderò con una tale vergogna sotto terra;ma piuttosto avrò mostrato quanto più è possibile aperto il disprezzo che si chiude (serra) nel mio petto per te:benché io sappia che l'oblio opprimechi ha infastidito (increbbe) troppo la propria epoca.Fin da ora (finor) me ne rido assai di questo male,che mi sarà comune a te (= anche il secolo superbo e sciocco sarà obliato).Vai sognando la libertà, e nello stesso tempovuoi di nuovo servo il pensiero,per il quale soltanto risorgemmo in parte dalla barbarie,e per il quale soltanto si cresce in civiltà, la quale sola guida verso il meglio i pubblici destini (fati).A tal punto (così) ti dispiacque la verità della sorte aspra e dell'infima condizione (depresso loco) che la natura ci diede.Per questo vigliaccamente volgesti le spalle (il tergo)al lume che lo fece palese: e, mentre fuggi

Page 39: quattrosecoli.files.wordpress.com€¦  · Web viewGiacomo Leopardi. Canti. Ad Angelo Mai. III (gennaio 1820) 1 Italo ardito, a che giammai non posi . 2 Di svegliar dalle tombe .

Magnanimo animale non credo io già, ma stolto,

100 quel che nato a perir, nutrito in pene, dice, a goder son fatto, e di fetido orgoglio empie le carte, eccelsi fati e novefelicità, quali il ciel tutto ignora,

105 non pur quest'orbe, promettendo in terra a popoli che un'onda di mar commosso, un fiato d'aura maligna, un sotterraneo crollo distrugge sì, che avanza

110 a gran pena di lor la rimembranza. nobil natura è quella che a sollevar s'ardisce gli occhi mortali incontra al comun fato, e che con franca lingua,

115 nulla al ver detraendo, confessa il mal che ci fu dato in sorte, e il basso stato e frale; quella che grande e forte mostra sé nel soffrir, né gli odii e l'ire

120 fraterne, ancor più gravi d'ogni altro danno, accresce alle miserie sue, l'uomo incolpando del suo dolor, ma dà la colpa a quella che veramente è rea, che de' mortali

125 madre è di parto e di voler matrigna. Costei chiama inimica; e incontro a questa congiunta esser pensando, siccome è il vero, ed ordinata in pria l'umana compagnia,

130 tutti fra sé confederati estima gli uomini, e tutti abbraccia con vero amor, porgendo valida e pronta ed aspettando aita negli alterni perigli e nelle angosce

135 della guerra comune. Ed alle offese dell'uomo armar la destra, e laccio porre al vicino ed inciampo, stolto crede così qual fora in campo cinto d'oste contraria, in sul più vivo

140 incalzar degli assalti, gl'inimici obbliando, acerbe gare imprender con gli amici, esparger fuga e fulminar col brando infra i propri guerrieri.

145 così fatti pensieri quando fien, come fur, palesi al volgo, equell'orror che primo contra l'empia natura strinse i mortali in social catena,

150 fia ricondotto in parte da verace saper, l'onesto e il retto conversar cittadino, e giustizia e pietade, altra radice avranno allor che non superbe fole,

Io non credo (che sia un) essere (animale) nobile e grande (magnanimo), ma stolto, quello che, nato per perire, nutrito di pene, dice: "Sono fatto per godere",e riempie le carte di fetido orgoglio, promettendo in terra eccelsi fati e straordinarie (nuove) felicità, che non solo questo globo (orbe), ma tutto il cielo ignora,a popoli che un'onda di mare agitato (commosso), un fiato di aria ammorbata (maligna),un crollo sotterraneo distrugge così che a gran pena sopravvive (avanza)di loro la rimembranza.Nobile natura è quella che si ardisce a sollevare gli occhi mortali contro al fato comune,e che, con lingua franca,senza togliere nulla al vero,confessa il male che ci fu dato in sortee lo stato basso e fragile;(nobile natura) è quella che si mostragrande e forte nel soffrire,e non aggiunge (accresce) alle sue miseriegli odi e le ire verso altri uomini (fraterne),ancor più gravi di ogni altro danno,dando all'uomo la colpa del suo dolore,ma dà la colpa a quella che veramente è colpevole (rea), che è madre per il parto, ma per il volere è matrigna (la Natura).Costei (l'uomo nobile) chiama nemica;e pensando, poiché questa è la verità,l'umana compagnia congiunta e ordinata fin da principio (in pria) contro di essa (natura), considera (estima) tutti gli uomini alleati fra loro (fra se confederati),e abbraccia tutti con vero amore, porgendo ed aspettando valido aiuto (aita)negli alterni pericoli e nelle angosce della guerra comune. E crede stolto armare la mano (destra) per offendere altri uomini (alle offese dell'uomo) e porre lacci e inciampi al vicino,così come sarebbe (stolto), in mezzo al

Page 40: quattrosecoli.files.wordpress.com€¦  · Web viewGiacomo Leopardi. Canti. Ad Angelo Mai. III (gennaio 1820) 1 Italo ardito, a che giammai non posi . 2 Di svegliar dalle tombe .

155 ove fondata probità del volgo così star suole in piede quale star può quel ch'ha in error la sede.

Sovente in queste rive, che, desolate, a bruno

160 veste il flutto indurato155, e par che ondeggi, seggo la notte; e su la mesta landain purissimo azzurro veggo dall'alto fiammeggiar le stelle, cui di lontan fa specchio

165 il mare, e tutto di scintille in giro per lo vòto seren brillare il mondo. 156E poi che gli occhi a quelle luci appunto, ch'a lor sembrano un punto, e sono immense, in guisa

170 che un punto a petto a lor son terra e mare veracemente157; a cui l'uomo non pur, ma questo globo ove l'uomo è nulla, sconosciuto è del tutto158; e quando miro

175 quegli ancor più senz'alcun fin remoti nodi quasi di stelle, ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo e non la terra sol, ma tutte in uno, del numero infinite e della mole,

180 con l'aureo sole insiem, le nostre stelle o sono ignote, o così paion come essi alla terra, un punto di luce nebulosa159; al pensier mio che sembri allora, o prole

185 dell'uomo? 160E rimembrando il tuo stato quaggiù, di cui fa segno il suol ch'io premo161; e poi dall'altra parte, che te signora e fine credi tu data al Tutto, e quante volte

190 favoleggiar ti piacque, in questo oscuro granel di sabbia, il qual di terra ha nome, per tua cagion, dell'universe cose scender gli autori, e conversar sovente co' tuoi piacevolmente162, e che i derisi

155 flutto indurato: i fiumi di lava delle antiche eruzioni.156 La proposizione principale del lungo periodo (che termina al v. 185) è posta alla fine: al pensier mio che sembri allora, o prole dell’uomo?157 E poi… veracemente: e quando poi fisso gli occhi a quelle stelle, che agli occhi sembrano un punto mentre invece sono immense, tanto che (in guisa che) rispetto a loro (a petto a lor) terra e mare sono veramente un punto.158 a cui… tutto: alle quali (stelle) è sconosciuto del tutto non solo l’uomo, ma l’intero globo terrestre dove l’uomo è nulla.159 e quando…nebulosa: e quando osservo quegli ammassi di stelle infinitamente lontani, che a noi sembrano un pulviscolo (nebbia), ai quali non solo l’uomo e la terra, ma tutte insieme le stelle che noi vediamo (le nostre stelle), infinite nel numero e nella grandezza, insieme all’aureo sole, o sono invisibili (ignoti) o si vedono come essi dalla terra, cioè un punto di luce nebulosa.160 Di nuovo, la proposizione principale del periodo si trova alla fine: qual moto allora, / mortal prole infelice, o qual pensiero / verso te finalmente il cor m'assale? 161 di cui… premo: il suolo (lavico) che calpesto è il segno dello stato umano: condizione effimera e in balia della natura.

Page 41: quattrosecoli.files.wordpress.com€¦  · Web viewGiacomo Leopardi. Canti. Ad Angelo Mai. III (gennaio 1820) 1 Italo ardito, a che giammai non posi . 2 Di svegliar dalle tombe .

195 sogni rinnovellando, ai saggi insulta fin la presente età, che in conoscenza ed in civil costume sembra tutte avanzar163; qual moto allora, mortal prole infelice, o qual pensiero

200 verso te finalmente il cor m'assale? Non so se il riso o la pietà prevale.

164Come d'arbor cadendo un picciol pomo, cui là nel tardo autunno maturità senz'altra forza atterra,

205 d'un popol di formiche i dolci alberghi165, cavati in molle gleba166 con gran lavoro, e l'opre e le ricchezze che adunate a prova167 con lungo affaticar l'assidua gente168

210 avea provvidamente al tempo estivo, schiaccia, diserta e copre in un punto169; così d'alto piombando, dall'utero tonante170

scagliata al ciel profondo, 215 di ceneri e di pomici e di sassi

notte e ruina171, infusa di bollenti ruscelli o pel montano fianco furiosa tra l'erba

220 di liquefatti massi e di metalli e d'infocata arena scendendo immensa piena172, le cittadi173 che il mar là su l'estremo lido aspergea, confuse

225 e infranse e ricoperse in pochi istanti: onde su quelle or pasce la capra, e città nove sorgon dall'altra banda, a cui sgabello son le sepolte, e le prostrate mura

230 l'arduo monte al suo piè quasi calpesta. Non ha natura al seme dell'uom più stima o cura che alla formica: e se più rara in quello che nell'altra è la strage,

163 e che i derisi… avanzar: e (rimembrando)che, rinnovando i sogni caduti nel ridicolo, perfino l’età attuale, che sembra sopravanzare tutte le altre in conoscenza e civiltà, insulta gli uomini saggi.164 Periodo molto complesso, consistente in una similitudine: come un pomo cadendo da un albero devasta la città delle formiche, così il fiume di lava del vulcano distrusse la città degli uomini.165 alberghi: dimore.166 cavati… gleba: scavati nella terra soffice.167 a prova: a gara. L’espressione, spesso usata da Leopardi, indica un movimento vivace di molti nello stesso atto e con lo stesso fine.168 l’assidua gente: il popolo delle formiche.169 schiaccia… punto: schiaccia, porta desolazione e seppellisce in un attimo. I tre verbi sono i reggenti la prima parte della similitudine; il soggetto dei tre verbi è picciol pomo.170 utero tonante: ventre rimbombante del vulcano.171 notte e ruina: sono i soggetti principali di tutta la seconda parte della similitudine; vanno collegati ai verbi reggenti confuse e infranse e ricoperse. Si deve intendere: tenebre e distruzione, provocata da cenere, pomici e sassi. 172 infusa… piena: mentre scendeva un’immensa piena, fluida di bollenti ruscelli o furiosa tra l’erba lungo il fianco della montagna, composta di rocce e metalli liquefatti e di sabbia infuocata.173 le cittadi: complemento oggetto di confuse e infranse e ricoperse.

Page 42: quattrosecoli.files.wordpress.com€¦  · Web viewGiacomo Leopardi. Canti. Ad Angelo Mai. III (gennaio 1820) 1 Italo ardito, a che giammai non posi . 2 Di svegliar dalle tombe .

235 non avvien ciò d'altronde fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde174.

Ben mille ed ottocento anni varcàr175 poi che spariro, oppressi dall'ignea forza, i popolati seggi,

240 e il villanello176 intento ai vigneti, che a stento in questi campi nutre la morta zolla e incenerita, ancor leva lo sguardo sospettoso alla vetta

245 fatal, che nulla mai fatta più mite ancor siede tremenda, ancor minaccia a lui strage ed ai figli ed agli averi lor poverelli. E spesso il meschino in sul tetto

250 dell'ostel villereccio, alla vagante aura giacendo tutta notte insonne, e balzando più volte, esplora il corso dal temuto bollor177, che si riversa dall'inesausto grembo178

255 su l'arenoso dorso, a cui riluce di Capri la marina e di Napoli il porto e Mergellina. e se appressar lo vede179, o se nel cupo del domestico pozzo ode mai l'acqua

260 fervendo gorgogliar180, desta i figliuoli, desta la moglie in fretta, e via, con quanto di lor cose rapir posson, fuggendo, vede lontan l'usato suo nido, e il picciol campo,

265 che gli fu dalla fame unico schermo, preda al flutto rovente, che crepitando giunge, e inesorato durabilmente sovra quei si spiega. Torna al celeste raggio

270 dopo l'antica obblivion l'estinta Pompei, come sepolto scheletro, cui di terra avarizia o pietà rende all'aperto181;e dal deserto foro

275 diritto infra le file dei mozzi colonnati il peregrino lunge contempla il bipartito giogo

174 l’uom… feconde: l’uomo prolifica meno abbondantemente (delle formiche).175 varcàr: passarono.176 villanello: contadino.177 E spesso…bollor: e spesso, il misero contadino, giacendo insonne tutta la notte sul tetto (a terrazza) della casa rurale, e balzando più volte, tiene d’occhio il flusso di magma.178 inesausto grembo: cavità del vulcano, che sempre produce magma.179 se appressar lo vede: se il contadino vede avvicinarsi il flusso lavico.180 o se… gorgogliar: o se sente gorgogliare l’acqua nel profondo del pozzo di casa (perché per il calore si è messa a bollire).181 Torna… aperto: torna alla luce del sole, dopo l’antica dimenticanza, la distrutta Pompei, come uno scheletro sepolto che la brama di tesori o la pietà riesumano dalla terra. Il poeta si riferisce agli scavi che, a partire dagli ultimi anni del XVIII secolo, cominciarono a restituire l’antica Pompei, per interessamento dei re di Napoli, desiderosi soprattutto di disseppellire opere d’arte e oggetti di pregio con cui arricchire le proprie collezioni.

Page 43: quattrosecoli.files.wordpress.com€¦  · Web viewGiacomo Leopardi. Canti. Ad Angelo Mai. III (gennaio 1820) 1 Italo ardito, a che giammai non posi . 2 Di svegliar dalle tombe .

e la cresta fumante182, che alla sparsa ruina ancor minaccia.

280 E nell'orror della secreta notte per li vacui teatri, per li templi deformi e per le rotte case, ove i parti il pipistrello asconde, come sinistra face

285 che per vòti palagi atra s'aggiri, corre il baglior della funerea lava, che di lontan per l'ombre rosseggia e i lochi intorno intorno tinge183. Così, dell'uomo ignara e dell'etadi

290 ch'ei chiama antiche, e del seguir che fanno dopo gli avi i nepoti, sta natura ognor verde, anzi procede per sì lungo cammino che sembra star. Caggiono i regni intanto,

295 passan genti e linguaggi: ella nol vede: e l'uom d'eternità s'arroga il vanto.

E tu, lenta184 ginestra, che di selve odorate queste campagne dispogliate adorni,

300 anche tu presto alla crudel possanza soccomberai del sotterraneo foco, che ritornando al loco già noto, stenderà l'avaro lembo su tue molli foreste. E piegherai

305 sotto il fascio mortal non renitente il tuo capo innocente: ma non piegato insino allora indarno codardamente supplicando innanzi al futuro oppressor; ma non eretto

310 con forsennato orgoglio inver le stelle, né sul deserto, dove e la sede e i natali non per voler ma per fortuna avesti; ma più saggia, ma tanto

315 meno inferma dell'uom, quanto le frali tue stirpi non credesti o dal fato o da te fatte immortali.

182 dal deserto… fumante: il viaggiatore, dal foro deserto, in piedi (diritto) tra le file dei colonnati mozzati, contempla in lontananza la duplice cima e la cresta fumante (del Vesuvio).183 E nell’orror… tinge: e nell’atmosfera spaventosa della notte profonda, corre il bagliore della lava portatrice di morte attraverso i teatri vuoti, i templi straziati e le case diroccate, dove il pipistrello nasconde i suoi piccoli, come una fiaccola funebre che si aggiri nera per i palazzi vuoti, che rosseggia di lontano in mezzo alle ombre e tinge di rosso i luoghi tutt’intorno.184 lenta: flessuosa.