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Università degli Studi di Torino Dipartimento di Culture, Politica e Società Corso di Laurea Triennale in Scienze Internazionali, dello Sviluppo e della Cooperazione Tesi di Laurea Web 2.0: un ponte tra media mainstream e movimenti di protesta. Il caso della Rivoluzione Egiziana del 2011 Relatrice Prof.ssa Franca Roncarolo Laureando Marco Carmelo Amato n° matr.746414 Anno Accademico 2013 /2014

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L’obiettivo di questo lavoro è di capire che tipo di contributo i social media hanno dato ai movimenti di protesta, se sono stati utili per il conseguimento dei loro obiettivi e se hanno avuto ragione i giornalisti a definire ciò che è successo in Medioriente come una “Twitter Revolution” o una “Facebook Revolution” o se, invece, hanno peccato d’entusiasmo enfatizzando il ruolo dei social network.

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Università degli Studi di Torino

Dipartimento di Culture, Politica e Società

Corso di Laurea Triennale in Scienze Internazionali, dello Sviluppo e della Cooperazione

Tesi di Laurea

Web 2.0: un ponte tra media mainstream e

movimenti di protesta. Il caso della

Rivoluzione Egiziana del 2011

Relatrice

Prof.ssa Franca Roncarolo

Laureando

Marco Carmelo Amato

n° matr.746414

Anno Accademico 2013 /2014

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INDICE

INTRODUZIONE .........................................................................................................3 CAPITOLO 1 – WEB 2.0 E GIORNALISMO INTERNAZIONALE .................................... 6 Politica internazionale e influenza media..................................................................... 6 Web 2.0, velocizzazione dell’informazione e crisi del giornalismo professionale………..9 Diplomazia e web 2.0………………............................................................................... 15 Web 2.0 e movimenti sociali………………………………................................................... 18 CAPITOLO 2 –IL RUOLO DELLA RETE PER I MOVIMENTI DI PROTESTA: PESSIMISTI E OTTIMISTI .................................................…………………….......………. 23 Nuovi modi di fare gruppo ......................................................................................... 23 Tre fasi di sviluppo del gruppo ................................................................................... 24 Dottrina Google e cyber-utopismo……....................................................................... 28 Guerra Fredda 2.0…………………………........................................................................ 30 Diverse forme di censura del web………......................................................................32 CAPITOLO 3 – EGITTO 2011: “LA RIVOLUZIONE DEI SOCIAL NETWORK”............... 37 I canali satellitari arabi………………………… ................................................................ 37 La crescita del dissenso in Egitto e il ruolo del web 2.0 ............................................. 42 We are all Khaled Said .............................................................................................. 45 Censura ..................................................................................................................... 50

CONCLUSIONE ...............................................................................................................52

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INTRODUZIONE

I social media mi hanno permesso di seguire in presa diretta le azioni di protesta che hanno

riempito le piazze di tutto il mondo. Le immagini che venivano pubblicate sul web dagli

attivisti e dai giornalisti hanno avuto un forte impatto emotivo su di me. Il diffondersi della

crisi economica globale e l’esplosione di situazioni già critiche hanno determinato una ripresa

massiccia dell’azione collettiva. La grossa novità è stata rappresentata dal grande utilizzo che i

movimenti di protesta hanno fatto dei social network.

Il 2011 è stato l’anno dei manifestanti. In tutto il mondo le piazze si sono riempite di attivisti

che chiedevano ad alta voce più diritti e più democrazia. Il Medioriente è stato il grande

protagonista di questa ondata di proteste. La discesa massiccia per le strade da parte dei

cittadini ha portato alla destituzione di regimi pluridecennali come quello di Ben Ali in Tunisia

e Mubarak in Egitto.

Non solo

Medioriente però,

anche

nell’Occidente ferito

dalla grave crisi

economica si sono

visti i frutti di un

movimento globale

che, declinato

diversamente a

seconda dei diversi

bisogni e obiettivi,

rifiutava le

conseguenze della crisi del capitalismo finanziario. Ci sono due importanti esempi. Il primo

sono i manifestanti del “Movimiento 15-M” o movimento degli “indignados” che hanno

occupato per giorni le piazze spagnole per chiedere più partecipazione e più democrazia. Il

secondo esempio è sicuramente quello di “Occupy Wall Street” che, diffusosi negli Stati Uniti,

aveva come obiettivo la contestazione dei meccanismi finanziari che tengono in piedi il

capitalismo odierno. Sotto gli slogan “We’re the 99%” o “United for #GlobalChange” gli

indignados di tutta l’Europa e degli Stati Uniti si organizzarono per manifestare

Figura 1 Uno dei manifesti che chiamavano alla discesa in piazza globale per il 15 Ottobre 2011 Fonte:https://pensareliberi.files.wordpress.com/2011/10/15ottobreglobaldemocracy.jpg?w=540&h=300

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contemporaneamente il 15 ottobre 2011.

Uno dei fili conduttori che ha legato tutti questi movimenti è stato il grande utilizzo che

hanno fatto dei social media. Parlando delle primavere arabe, i giornalisti entusiasti hanno

spesso descritto le rivolte in atto come le “rivoluzioni dei social network”. L’obiettivo di questo

lavoro è di capire che tipo di contributo i social media hanno dato ai movimenti di protesta, se

sono stati utili per il conseguimento dei loro obiettivi e se hanno avuto ragione i giornalisti a

definire ciò che è successo in Medioriente come una “Twitter Revolution” o una “Facebook

Revolution” o se, invece, hanno peccato d’entusiasmo enfatizzando il ruolo dei social network.

L’avvento del web 2.0 e dei social media è stato di per sé un evento epocale per la

comunicazione, il mondo dell’informazione e della politica estera. Per questo il primo capitolo

di questa tesi è appunto dedicata al rapporto tra movimenti, giornalismo internazionale e web

2.0. La portata di questo evento è paragonabile a quello che successe nei primi anni ’90 con la

nascita dei canali satellitari all news che trasmettono notiziari in diretta 24 ore su 24. In poco

più di dieci anni il mondo dell’informazione ha subito due grandi stravolgimenti. I ritmi

giornalistici hanno subito un’accelerazione senza pari. Dato il filo rosso che collega il mondo

dell’informazione al mondo della moderna diplomazia e della politica estera, la rivoluzione del

giornalismo ha senza dubbio avuto delle conseguenze anche sugli altri due settori. I canali all

news sono in grado di modificare l’agenda di tutto il sistema informativo globale e, di

conseguenza, possono obbligare i politici ad interessarsi e fare dichiarazioni su determinati

argomenti. I social media rappresentano il ponte che può unire le ragioni di un movimento di

protesta all’interesse del grande pubblico. Attraverso i documenti e le immagini pubblicate in

rete dai militanti e dai citizen journalists è possibile attirare l’attenzione del giornalismo

mainstream che può accendere i riflettori sulle manifestazioni e far arrivare quelle immagini

sulle televisioni di tutto il mondo.

Tra giornalisti, studiosi del web e dei movimenti sociali si è aperto un’interessante dibattito sul

reale apporto che gli strumenti del web 2.0 hanno avuto per concentrare e organizzare il

dissenso. Nel secondo capitolo della mia tesi ho rappresentato gli ottimisti e i pessimisti

sull’uso dei social media riassumendo le tesi di Clay Shirky (ottimista) e Evgeny Morozov

(pessimista). Entrambe le parti impegnate nella discussione dimostrano di avere ottimi

argomenti a sostegno delle proprie tesi. Non si può sostenere in assoluto che una delle due

voci abbia tutta la ragione dalla sua parte. In diversi casi l’uso dei social media ha mostrato le

luci e le ombre che pessimisti e ottimisti hanno descritto nelle loro opere.

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La Rivoluzione egiziana, dall’inizio delle proteste alla destituzione di Mubarak, è la

protagonista del terzo capitolo di questa tesi. Ho scelto di raccontare le giornate che hanno

infiammato Il Cairo perché penso che in quei giorni si siano manifestate tutte le caratteristiche

e le contraddizioni del rapporto tra i movimenti e i social media. Inoltre, ricordo che io stesso

grazie a Facebook e Twitter potei seguire ciò che accadeva in Egitto e le immagini di piazza

Tahrir occupata e degli scontri degli attivisti con le forze speciali ebbero un forte impatto

emotivo su di me. Durante la Rivoluzione egiziana sono emersi tutti i limiti e tutte le virtù

dell’uso dei social network, sia nel ruolo di ponte per arrivare ai media mainstream che nel

ruolo di organizzatore e catalizzatore delle proteste.

Leggere i commenti e le storie che gli attivisti diffondevano attraverso il web ha fatto nascere

in me un forte sentimento di solidarietà nei confronti dei manifestanti. L’interesse nei

confronti dei movimenti sociali e l’utilizzo dei social media sono i motivi che mi hanno spinto a

scrivere questa tesi.

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CAPITOLO 1

Web 2.0 e giornalismo internazionale

L’avvento dei canali satellitari all news e, in seguito, quello dei social media hanno

profondamente cambiato il modo di fare informazione da parte dei media mainstream. Grazie

ai nuovi strumenti sociali, figli del web 2.0, sempre più spesso gli spettatori non sono

semplicemente attori passivi ma concorrono con i giornalisti professionisti alla redazione di

una news. Negli ultimi anni i social media hanno rappresentato uno strumento molto

importante per poter seguire le proteste che hanno infiammato le piazze di tutto il mondo. Le

immagini riprese con i cellulari e condivise sul web dai manifestanti hanno attirato le

attenzioni delle grandi testate giornalistiche che le hanno riproposte al grande pubblico. In

questo modo, l’incontro tra i due più grandi strumenti di comunicazione di massa odierni (la

televisione e il web) ha permesso la diffusione delle istanze sollevate dagli attivisti di tutto il

mondo.

Politica internazionale e influenza dei media

Web 2.0 e televisioni satellitari all news occupano oggi un ruolo fondamentale nella

rappresentazione della realtà internazionale. Questi due strumenti di comunicazione hanno

rappresentato le due più grandi rivoluzioni comunicative degli ultimi vent’anni. L’enorme

livello di diffusione che le grandi testate giornalistiche mondiali hanno fa capire quanto possa

essere importante per un movimento sociale raggiungere l’interesse di quelle testate ed

arrivare al grande pubblico. Lo strumento che oggi può fare da ponte tra questi due soggetti è

il web 2.0. Portare la propria narrazione del conflitto all’interno dei media mainstream può

significare la crescita del consenso attorno alle manifestazioni di protesta e quindi una

maggior potenza d’urto da poter opporre alla propria controparte.

I canali d’informazione 24 ore su 24, a partire dagli anni Novanta, hanno influenzato l’intera

raffigurazione della scena mondiale da parte del settore giornalistico. Infatti, gli stessi

giornalisti sono spettatori abituali delle maggiori trasmissioni “all news” come CNN, BBC, Fox,

Sky, Al Jazeera e Al Arabiya. E’ soprattutto nel sistema statunitense e in quello arabo che i

canali all news rivestono un ruolo importante nel soddisfare la domanda di informazione degli

spettatori. Le linee editoriali di questi canali sono in grado di influenzare le scelte di tutti gli

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altri news media, come spiegano bene le parole di un giornalista egiziano citato da Augusto

Valeriani nel suo libro: <<Se è notizia per Al Jazeera, è notizia anche per me!>> (Valeriani 2011

pag. 19).

Questo fenomeno, la capacità delle grandi testate giornalistiche all news di influenzare prima

l’intero sistema informativo e di conseguenza i comportamenti degli stati in materia di politica

internazionale ha preso il nome di <<CNN effect>>1. La crescente importanza che l’industria

dell’informazione ha acquisito ha portato capi di Stato e ministri a prendere seriamente in

considerazione le proprie performance televisive e a seguire come le loro azioni venissero

rappresentate sullo schermo. In particolare, più che una vera capacità di influenzare il processo

decisionale, le dirette dei canali all news hanno determinato un’estrema velocizzazione dei

ritmi dell’informazione e della politica. Gli attori della politica estera devono essere sempre

pronti a rispondere agli impulsi di un mondo che cambia velocemente e che viene narrato

ancora più rapidamente. Il giornalista americano Timothy McNulty in un suo scritto dedicato

al ruolo della televisione nell’influenzare la diplomazia e le scelte di politica estera porta

questo esempio: nel 1961 il Presidente degli Stati Uniti John F. Kennedy aspettò 8 giorni prima

di fare una dichiarazione in merito alla costruzione del muro di Berlino. Nel 1989, quando il

muro cadde, il Presidente Bush fu costretto a fare una dichiarazione su ciò che stava

avvenendo nel giro di poche ore. Il tempo trascorso fu giudicato comunque troppo lungo e

questo fu interpretato dall’opinione pubblica come sintomo di freddezza rispetto all’evento. Il

CNN effect colpisce, dunque, i ritmi della politica internazionale più di quanto definisca una

vera e propria influenza sulle decisioni da parte dei governi. Questo è vero soprattutto quando

i governi sono in grado di portare avanti una politica internazionale solida, coerente e con

obiettivi di volta in volta sempre chiari rispetto agli eventi mondiali. In questo caso è più facile

che si presenti il fenomeno inverso, cioè che siano i politici ad influenzare e a dettare le agende

degli organi di informazione. C’è una relazione inversa tra la chiarezza politica e il potere

d’influenzare da parte dei media. Il post Guerra Fredda ha sottolineato una sempre maggior

incapacità, da parte degli stati, di mantenere una politica estera chiara e coerente nei

confronti degli eventi che si moltiplicavano in tutto il mondo. Questa perdita di chiarezza ha

aperto una nuova finestra ai media e alla loro capacità di influire sulle strategie di politica

internazionale. Quando le scelte dei governi sono poco chiare e mal definite, i media possono

1 La definizione e la spiegazione del fenomeno arriva dal libro: Robinson P. (2002), The CNN effect. The myth of news, foreign politicy and intervention, Routledge, Londra

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davvero avere la capacità di influenzare la politica. Al contrario, l’influenza diminuisce

all’aumentare della chiarezza delle strategie da intraprendere.

Anche il modo in cui gli eventi vengono narrati concorre alla capacità di suggestione da parte

dei media. Il modo in cui viene gestito il flusso di immagini può rendere un evento più o meno

importante e può più o meno influenzare il pubblico e le decisioni dei policy makers. Un certo

tipo di copertura, che mostra immagini caratterizzate dal forte impatto emotivo e dalla

capacità di far immedesimare il pubblico con il dolore altrui chiaramente esorta a “fare

qualcosa” per risolvere la situazione e spinge i governi verso l’intervento. L’importanza delle

immagini viene raccontata da Michael Bohn, ex ufficiale dell’intelligence di marina e direttore

della sala operativa della Casa Bianca durante gli ultimi anni del mandato Reagan, riferendosi

al disastro di Chernobyl dice: <<Non importa quante descrizioni si hanno sul buco nero che ha

preso il posto di Chernobyl. Finché non vedi l’immagine di questa massa fumante e

puzzolente, non ti colpisce l’enormità di tutto questo. Le immagini sono importanti>>

(McNulty 1993 vol. 17 pag. 72). Alla fine degli anni ’80 i media statunitensi trasmettevano in

televisioni le cruenti immagini del massacro dei curdi in Iraq. Il pubblico americano si trovò

davanti le immagini dei cadaveri di molte donne e bambini e della fuga della popolazione

superstite. L’indignazione generale che le immagini causarono nel pubblico si trasformò in

pressione nei confronti del governo americano che infine dovette intervenire nonostante, la

settimana prima, il Presidente Bush dichiarava che le truppe statunitensi non avrebbero, in

nessun caso, preso parte al conflitto. Questi esempi dimostrano quanto possa essere influente

la potenza mediatica di certe immagini. Non è un caso che ad essere diffuse dai giornalisti

sono spesso le immagini più violente, che, quindi, hanno un maggior impatto emotivo sul

pubblico, degli scontri che avvengono nelle piazze in rivolta. Spesso le foto o i video dei feriti e

delle vittime della repressione statuale vengono innalzati a simboli della protesta.

Il ruolo fondamentale che le televisioni hanno acquisito emerge chiaramente grazie al

confronto che si può fare tra le frasi di Robert McNamara e Dick Cheney, entrambi ministri

della Difesa statunitensi ma in periodi diversi. Il primo fu ministro durante la presidenza

Kennedy e in piena crisi dei missili di Cuba, dichiarò: <<Non credo di aver mai guardato la

televisione nelle due settimane della crisi dei missili>>. Il secondo fu impegnato nel 1991,

durante la guerra del Golfo, allo stesso proposito disse: <<Era impensabile non guardare la

CNN>> (Ammon 2001, cit. contenuta in Valeriani 2011 pag. 14).

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I media dimostrano di avere un grande potere nel modificare le percezioni del pubblico

rispetto a determinati eventi. Dimostrano anche di poter mettere in difficoltà la macchina

della politica estera. Per questo è interessante spiegare il ruolo fondamentale

dell’informazione e come questa stia cambiando per capire quanto sia importante per i

movimenti riuscire ad entrare dentro i racconti dei media mainstream.

Web 2.0, velocizzazione dell’informazione e crisi del giornalismo professionale

Sono le breaking news, notizie che arrivano inaspettate nelle redazioni, lanciate dai canali all

news, a definire le ricostruzioni degli eventi internazionali. Questo ha determinato un

processo di velocizzazione dei media e la capacità dei canali informativi di dettare i nuovi ritmi

dell’informazione. L’abilità di questi canali di lavorare nell’immediatezza e di fornire un

continuo aggiornamento su quel che succede determina la credibilità del sistema all news.

Dettare i nuovi ritmi giornalistici, lavorare costantemente “in diretta”, determina anche un

minore approfondimento della notizia su cui si sta lavorando. Questo è dovuto dal fatto che, a

causa della crisi, i giornali non possono più permettersi di finanziare decine di uffici di

corrispondenza sparsi per il mondo. In questo modo i giornalisti vengono mandati nel luogo

dove accadono gli eventi, senza che questi abbiano potuto svolgere quel lavoro di inchiesta e

approfondimento che è possibile fare grazie ad uno studio di corrispondenza. Infatti, spesso ciò

che si vede in televisione è un giornalista che schematicamente descrive l’evento che si sta

svolgendo e, col passare del tempo, presenta una serie di aggiornamenti. Questo approccio non

comprende il lavoro di rielaborazione e approfondimento da parte del giornalista. In questo

caso anche lo stesso inviato diventa spettatore, proprio come il pubblico a casa, di ciò che sta

avvenendo in tempo reale. Questi cambiamenti impongono delle modifiche anche a livello

logistico. Infatti, le grandi testate giornalistiche spostano i propri mezzi nelle aree che si

prospettano essere le più interessanti da coprire mediaticamente. In questo modo, qualsiasi

cosa dovesse succedere i canali sono sempre pronti per far partire una diretta dal luogo dove si

stanno svolgendo i fatti.

Oggi il flusso di informazioni ha subito un’ulteriore velocizzazione, a causa del web 2.0. Grazie

agli strumenti dati da Internet (social media e blog), il pubblico può imbattersi in notizie che

reputa interessanti, commentarle o condividerle e renderle così di dominio pubblico prima

ancora che sia un giornalista a imbattersi nelle stesse. Tutto questo ha determinato un grande

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cambiamento nel mondo delle notizie. Mentre prima il monopolio dell’informazione

apparteneva ai giornalisti professionisti adesso, potenzialmente, tutti possono essere in grado

di confezionare una notizia che di interesse generale. La partecipazione attiva di quello che

prima era solamente pubblico ma che ora diviene anche generatore di news, prende il nome di

“citizen journalism” o “giornalismo partecipativo”. Più precisamente, secondo la definizione

data da Jay Rosen, professore della New York University: <<Quando la gente, prima definita

pubblico, usa gli strumenti propri della stampa per informarsi uno con l’altro. Questo è citizen

journalism>>2. Le persone si ritrovano così a non ricoprire più soltanto un ruolo passivo di

osservatore della realtà internazionale attraverso la mediazione giornalistica, ma possono

ricoprire un ruolo attivo nella costruzione delle news. Uno dei primi importanti esperimenti di

citizen journalism è stato OhmyNews3. Meno della metà dei pezzi venivano scritti da

giornalisti professionisti, il resto veniva scritto da collaboratori e soprattutto dai cittadini. Nel

2004 ha aperto OhmnyNews Internationale (OMNI) cioè la versione in inglese della testata

coreana, qui la quasi totalità degli articoli veniva realizzata da giornalisti non professionisti. Ad

oggi OMNI è diventato uno spazio dedicato alla discussione sulle criticità legate al giornalismo

partecipativo. In questi anni un sito che si è dimostrato capace di raccogliere gli scritti prodotti

dai cittadini di tutto il mondo, e che si è dimostrato particolarmente utile durante le proteste

della Primavera Araba, è Global Voices on Line4. Nel loro manifesto vengono riassunti i

cambiamenti che il giornalismo sta affrontando: <<Grazie alle nuove tecnologie, la parola non

può essere tenuta sotto controllo da chi possiede mezzi editoriali e accesso ai canali di

distribuzione, né dai governi che vorrebbero comprimere il pensiero e la comunicazione. Oggi

chiunque può controllare la forza del giornalismo. Tutti possono raccontare le proprie storie al

mondo>>5. Global Voices si occupa di fare da ponte tra giornalismo partecipativo e

giornalismo professionista. I blogger che fanno parte della rete dell’organizzazione si

occupano di scovare le informazioni più importanti che vengono prodotte all’interno dei

circuiti del web 2.0, in questo modo possono dare visibilità alle notizie e renderle accessibili a

giornalisti e lettori. Un’altra attività importante dell’organizzazione è quella di osservatorio

2 http://archive.pressthink.org/2008/07/14/a_most_useful_d.html 3 La testata è stata creata nel 2000 in Corea e ha suscitato grande interesse a livello internazionale. Infatti OhmyNews è stata una delle prime testate che ha utilizzato il contributo dei propri lettori. Il fondatore Oh Yeon Ho dichiarava: <<Ogni cittadino è un reporter>>. 4 Il sito viene fondato nel 2004 da Ethan Zuckerman e Rebecca MacKinnon. Nel 2008 è diventato un ente non-profit. 5 http://it.globalvoicesonline.org/manifesto/

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rispetto alla repressione dei blogger di tutto il mondo. L’attività, però, non si ferma

esclusivamente all’osservare ma si occupa di dotare gli stessi blogger di strumenti contro la

censura, ne è un esempio la “guida al blogging anonimo” di Global Voice on Line. Questo

sistema, per come è concepito, ha allargato a dismisura il numero delle fonti. Questo ha fatto

emergere le complicazioni di questo modo di fare giornalismo. Infatti, la ricezione di centinaia

di articoli, da ogni parte del mondo, comporta un’enorme mole di lavoro per quel che riguarda

l’editing e la verifica sulla credibilità dei fatti e può mettere in seria difficoltà le testate

giornalistiche che decidono di lavorare in questo modo.

Internet e il web 2.0 sono la causa della più recente rivoluzione dell’informazione. Gli

strumenti che il web mette a disposizione di tutti sono in grado di mettere in comunicazione e

far instaurare un dialogo tra giornalisti professionisti e comuni cittadini. Ancor più che i

computer è stato importante l’avvento degli smartphones. I telefono cellulari, costantemente

collegati ad Internet, possono essere utilizzati per realizzare materiale multimediale riguardo,

per esempio, a quello che può accadere in una piazza durante una manifestazione di protesta.

Questo materiale può diventare importante per i media mainstream che condividendolo

possono renderlo disponibile al grande pubblico. Questo avviene specialmente in contesti in

cui vige una forte censura dell’informazione interna che rende difficile per i reporter lavorare e

documentare le manifestazioni. In questo caso le immagini pubblicate sul web possono

diventare le sole immagini disponibile per raccontare cosa succede.

Cittadini ed attivisti possono denunciare determinati comportamenti, percepiti come

scorretti, di autorità o multinazionali. Attraverso la condivisione di centinaia o migliaia di

persone si può venire a creare un’intera comunità informata senza la mediazione giornalistica.

Questo può influenzare un po’ i comportamenti del soggetto denunciato. Ma è solo un

giornalista professionista che può organizzare un’intervista che raggiunga il grande pubblico e

chiedere conto del comportamento ritenuto scorretto. E’ quindi vero che, ancora oggi, sono i

giornalisti professionisti a definire quelli che sono gli eventi importanti da seguire. Una notizia

condivisa nel mondo dei social network si trasforma in notizia di dominio pubblico grazie

all’interessamento delle grandi testate giornalistiche.

Per lavorare agli eventi di politica internazionale i giornalisti devono, sempre di più, fare

affidamento alla comunità del web 2.0 e in qualche modo farne parte. I grossi cambiamenti

che il mondo dell’informazione sta affrontando sono ben rappresentati nel racconto di Ayman

Mohyeldin, corrispondente dal Cairo di Al Jazeera English: << Ero ancora nel mio ufficio nel

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centro della città quando, attraverso i miei contatti Twitter e Facebook, ho avuto la notizia che

molte persone avevano preso d’assalto il quartier generale della Sicurezza Nazionale a Nasr

City. On line c’erano già le prime cronache, le prime immagini e i primi video, e io ero ancora a

circa un’ora di auto da quella storia. Mi è venuto naturale chiedermi: ha senso che ci vada

anche io? E quel dubbio mi ha costretto a pensare attentamente quale potesse essere il

contributo peculiare di un giornalista professionista a quella narrazione, che già stava

prendendo forma anche senza di me>>. Ayman Mohyeldin spiega poi l’approccio con cui ha

effettivamente coperto quella storia: <<Ho pensato che il mio lavoro era comunque

importante, ed era quello di dare contesto alle informazioni, spiegare al pubblico globale di Al

Jazeera English perché la rabbia della gente si andasse a sfogare proprio contro quell’edificio,

che ruolo avesse la Sicurezza nazionale nel regime Mubarak>> (Valeriani 2011 pag. 22 e 58).

Il mondo del giornalismo internazionale risulta quindi profondamente cambiato rispetto a

dieci o vent’anni fa. La crisi del settore viaggia parallelamente con la crisi economica globale. I

giornali hanno dovuto applicare importanti tagli finanziari e diminuire i costi di gestione.

Questo ha significato il taglio di decine di uffici di corrispondenza in tutto il mondo. A questo si

somma la progressiva perdita d’interesse generale verso gli esteri a favore di un maggior

interessamento verso la cronaca locale e in generale per le realtà vicine al pubblico. Questo

processo ha le proprie radici nella fine della Guerra Fredda. La contrapposizione tra i due

blocchi si giocava in ogni angolo del pianeta, con la caduta del muro di Berlino è venuto meno

anche l’interesse del pubblico verso gli eventi internazionali. Queste sono le cause principali

che hanno portato le grandi testate giornalistiche ad un progressivo abbandono della

copertura internazionale. Decine di uffici di corrispondenza sono stati chiusi, dai giornali

americani, in tutto il mondo. Pochi inviati sono distribuiti in alcune regioni che si prevedono

essere le più “calde” e le più interessanti da un punto di vista giornalistico. Questa crisi ha

portato ad una contaminazione sempre più importante tra giornalismo professionale, citizen

journalism e web 2.0. Utilizzare la rete per superare la crisi economica e sistemica del

giornalismo richiede un ripensamento della professione. Social media e web 2.0

rappresentano i nuovi strumenti per raccontare la realtà internazionale e prendono il posto

degli uffici di corrispondenza che vengono gradualmente chiusi. Si viene a creare una

comunità informativa in cui il rapporto tra giornalista e pubblico è sempre più stretto e in cui lo

stesso pubblico concorre alla redazione delle notizie. I giornalisti usano sempre più

frequentemente lo strumento blog e grazie a questo possono condividere racconti e contenuti

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che non hanno potuto trovare spazio nelle edizioni cartacee o online del giornale. In questo

modo il pubblico può commentare e dibattere dell’argomento anche con il giornalista stesso.

Per seguire i grandi eventi diverse testate giornalistiche si sono fornite di live blogs, cioè blog

costantemente aggiornati. Con l’uso di questo strumento diventa chiara ciò che in precedenza

si definiva “contaminazione” tra giornalismo professionale, citizen journalism e web 2.0.

Infatti, in questi live blogs, non trovano spazio solamente i racconti ed i commenti dei

giornalisti professionisti, ma vengono aggiornati anche con i tweets degli attivisti, gli

aggiornamenti video, audio o testuali realizzati dai citizen journalists e link che riportano

materiali contenuti sui siti di testate giornalistiche concorrenti.

Il web 2.0 ha allargato profondamente la possibilità di reperire fonti, nasce quindi il problema

della credibilità. E’ per questo che il giornalista deve fare parte attivamente della comunità

informativa che si viene a creare attorno al suo lavoro. Solo in questo modo, conoscendo e

comunicando con le proprie fonti, può verificarne la credibilità. Anche perché, sui social

network, tutti possono far finta di essere qualcun altro e nascondere la propria identità, così si

può correre il rischio di scambiare una battuta e uno scherzo per la dichiarazione ufficiale di

qualche autorità. Molti giornalisti hanno aperto i propri account Twitter nei giorni in cui si

accesero le proteste nella penisola araba. Nonostante questo, da molti è stato fatto un utilizzo

parziale della piattaforma. Molti giornalisti si sono limitati a seguire e a condividere il materiale

realizzato dalle personalità che più erano diventate influenti sui social media, facendo così un

utilizzo passivo di Twitter. Utilizzati in questa maniera, i social media non possono essere

efficaci nel sostituire gli uffici di corrispondenza nella copertura degli eventi internazionali. I

giornalisti che iniziano a seguire un evento attraverso i social network e, quindi, iniziano a

visionare e condividere parte del materiale che si raccoglie intorno a determinati hashtags, non

sono diversi dagli inviati che vengono improvvisamente mandati nei luoghi in cui sta scoppiando

un conflitto. E’ lo stesso tipo di approccio, parziale, che non permette di conoscere a fondo la

realtà di cui si parla e le regole della comunità in cui si entra e non consente il lavoro di

rielaborazione e approfondimento tipico della mediazione giornalistica. Per permettere questo,

il giornalista deve entrare a far parte attivamente della comunità dei social media, interagire

con i suoi aderenti e non essere solo uno “sfruttatore” di ciò che viene prodotto all’interno di

questa. Octavia Nasr, giornalista che da anni si occupa della regione mediorientale, viene

indicata da Augusto Valeriani come un buon esempio di buon utilizzo dei social media. Con il

suo account Twitter, la giornalista pubblica commenti sulla politica internazionale ma anche

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episodi di vita quotidiana e dialoga con i suoi followers. Instaurando un rapporto così forte con

il suo pubblico, Octavia Nasr viene vista come la giornalista a cui rivolgersi nel momento in cui

si è a conoscenza di un evento degno di arrivare alla ribalta del grande pubblico.

I giornalisti non utilizzano gli strumenti dati dal web 2.0 unicamente per venire a conoscenza di

informazioni nuove e per la realizzazione delle notizie. Sempre di più, le grandi testate

giornalistiche utilizzano i social network per dialogare con il proprio pubblico, per chiedere

valutazioni sul lavoro giornalistico intrapreso, ricevere critiche e consigli e per domandare

direttamente agli spettatori, o ai lettori, su quale argomento loro preferiscano che i giornalisti

si concentrino. A volte interi programmi e lavori di reporting vengono basati sulle richieste e sui

consigli che vengono recapitati dal pubblico attraverso i social network. In questo modo, una

volta di più, la comunità diventa parte attiva del sistema informativo odierno.

Il post voto iraniano del 2009 è stato un evento emblematico e simbolico della commistione

tra giornalismo professionale e social media. E’ in questo caso che i giornalisti internazionali

hanno scoperto l’importanza dei contenuti condivisi sui social network dagli attivisti. In questo

frangente il regime di Ahmadinejad censurò e limitò fortemente il lavoro dell’informazione,

per questo la stampa internazionale ha dovuto attingere a Facebook e, in particolar modo, a

Twitter per continuare la narrazione di ciò che stava accadendo nel paese. La protesta ha

preso il nome di Green Revolution ma è stata soprannominata da molti anche come Twitter

Revolution, proprio per sottolineare l’importanza che i social network hanno avuto nel

raccontare ciò che capitava in Iran. Il 16 Giugno 2009 venne vietato ai giornalisti stranieri di

scendere in strada per impedire che potessero far circolare le notizie sulle proteste e sulla

repressione in atto nel paese. Da questo momento il racconto di quello che avvenne nelle

piazze passò principalmente dalle mani e dai cellulari degli attivisti del movimento anti

regime. Nonostante durante i giorni caldi delle manifestazioni i maggiori social media

risultassero inaccessibili (Twitter, Facebook e Youtube), molti iraniani scavalcarono i blocchi e

poterono continuare a condividere materiale multimediale direttamente dalle piazze,

materiale multimediale che è stato ampiamente utilizzato e condiviso dai media mainstream

di tutto il mondo. Una delle immagini simbolo delle proteste del 2009 è quella dell’assassinio

di una giovane manifestante, Neda Agha Soltan, da parte delle forze di sicurezza iraniane. Le

migliaia di condivisioni che il video dell’uccisione ha ricevuto sui social network sono state il

ponte che ha portato questa notizia nei programmi dei media mainstream e al grande

pubblico. Questo ha fatto in modo che si venisse a creare una rete transnazionale che

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solidarizzasse con i manifestanti iraniani e che li aiutasse a far circolare le notizie che venivano

prodotte sul campo. In questo caso i social network hanno aiutato i media e i cittadini di tutto

il mondo ad avere un racconto non parziale e non censurato di quello che avveniva durante le

proteste. L’importante ruolo ricoperto, in questo frangente, dai social media è ulteriormente

sottolineato da un episodio occorso durante le proteste. Il post voto iraniano, oltre ad aver

rappresentato un passaggio importante per il mondo dell’informazione, è anche stato un

evento globale di grande importanza politica. Per questo Jared Cohen, che nel 2009 lavorava

per il Dipartimento di Stato statunitense, durante le giornate di protesta in Iran, telefonò a

Jack Dorsey, inventore di Twitter, per chiedergli di sospendere i lavori di manutenzione già

programmati per il sito di microblogging, in quanto questi avrebbero reso il social network

inaccessibile. Questo evidenzia come ciò che avveniva nel mondo del web 2.0 fosse

estremamente importante per la diplomazia americana. In quella comunità che si era venuta a

creare attorno ad hashtags come #Iranelection, il governo americano vedeva un possibile

alleato con il quale dialogare e con il quale perseguire gli obiettivi posti sulla crisi iraniana.

Diplomazia e web 2.0

<<Si è aperta una nuova epoca per la diplomazia, l’era della Telediplomacy, un nuovo tipo di

diplomazia dominato dai media, e che si differenzia per l’impatto e l’immediatezza della real-

time television>> (Bordelot 2009).

Come il giornalismo, anche il mondo della diplomazia ha dovuto affrontare le sfide che

provenivano dalla velocizzazione imposta prima dai canali all news e poi dai social media. I

cambiamenti che il sistema informativo ha subito hanno enfatizzato la dimensione pubblica

della politica internazionale. Quando un evento diventa noto, i media iniziano ad esercitare il

proprio pressing. Per questo gli attori internazionali devono continuamente interagire con i

giornalisti e fornire loro delle news. Nel momento in cui le autorità interrompono il flusso di

informazioni lasciano aperti degli spazi che i giornalisti possono riempire con notizie e

interpretazioni proprie che possono anche discostarsi dalle posizioni ufficiali. Essendo

aumentata la complessità del sistema informativo si fa molta più fatica a gestire i media,

soprattutto durante una crisi che richiede un numero elevato di dichiarazioni in una situazione

di pressione. Per questo alcuni organi governativi hanno organizzato delle unità, che possono

essere interne o delegate all’esterno, che si occupano esclusivamente della gestione dei

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media. Per esempio, nel 2005, gli Stati Uniti hanno costituito un organo chiamato “Rapid

Response Unit (RRU)” perché si occupasse di individuare, quotidianamente, quali fossero le

criticità riscontrate dai media internazionali nelle politiche estere americane. Come risposta

l’unità si occupa di realizzare delle note che hanno il compito di dettare la linea ai funzionari

statunitensi di tutto il mondo. Nonostante la necessità di adeguarsi a queste nuove spinte, ci

sono alcune caratteristiche sistemiche della diplomazia internazionale che oppongono

resistenza alla velocizzazione del processo decisionale. Il sistema della diplomazia mondiale è

caratterizzato da un’organizzazione fortemente gerarchica che si muove con estrema

lentezza. Inoltre il mestiere stesso di diplomatico impone una certa prudenza nel rilasciare

dichiarazioni pubbliche. Nonostante l’influenza dell’odierno sistema giornalistico e dei suoi

ritmi, il mondo delle negoziazioni internazionali riesce, ancora oggi, a mantenere, anche se in

misura minore, una propria autonomia, una dimensione segreta e ritmi svincolati da quelli

dell’industria dei media. Il diplomatico si trova spesso nella posizione di intermediario tra i

policy makers e i giornalisti. <<Le nuove tecnologie di comunicazione e l’ecosistema

dell’informazione guidato dalle televisioni satellitari all news hanno portato all’esasperazione

il conflitto tra la cultura giornalistica del “tutto e subito” e quella del diplomatico “poco e con

cautela”>> (Valeriani 2011 pag. 61).

Se, da una parte, il web 2.0 ha intaccato quegli spazi di autonomia che la sfera della

diplomazia internazionale custodiva, lo stesso ha offerto nuovi canali di comunicazione che

diplomatici e organi istituzionali possono utilizzare per pubblicare le proprie posizioni e azioni.

Si ha quindi un tentativo di saltare la mediazione giornalistica per comunicare direttamente

con il pubblico. Diversi organi istituzionali hanno cominciato ad utilizzare lo strumento blog o

la creazione di canali ufficiali su Youtube e profili sui social network per raccontare la politica

estera. Attraverso i mezzi che il web 2.0 mette a disposizione, vengono pubblicati immagini e

commenti degli stessi attori della politica internazionale, in questo caso vengono abbandonati

i toni formali tipici della dialettica ufficiale mentre si preferiscono i toni tipici dell’ambiente 2.0:

informalità e rapidità di aggiornamento.

Nonostante la segretezza sia una delle peculiarità dell’attività diplomatica, la velocizzazione e

la moltiplicazione dei flussi comunicativi hanno allargato in maniera esponenziale il teatro

pubblico della diplomazia internazionale. Questo spazio pubblico è stato ulteriormente, e in

maniera improvvisa, allargato dalla diffusione di migliaia di documenti “top secret” della

politica estera statunitense. I documenti sono stati sottratti da una fonte interna e diffusi nel

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2010 dall’organizzazione Wikileaks6. Sono diverse le testate giornalistiche7 che hanno

usufruito e hanno diffuso le informazioni provenienti da Wikileaks. Gli accordi presi con le

testate e la condivisione che i giornali fanno dei file segreti sono molto importanti per

Wikileaks. Un lavoro giornalistico professionale è in grado di portare le informazioni segrete al

grande pubblico, aumentando l’effetto che queste possono avere a livello internazionale. A

questo va sommata la “collaborazione” tra l’organizzazione e gli utenti dei social media che

contribuiscono, con le loro condivisioni, alla diffusione dei file segreti e degli appelli di

solidarietà nei confronti di Wikileaks e del suo inventore Julian Assange. Nel 2010

l’organizzazione rimase vittima dei suoi stessi metodi. Una fonte interna fece circolare dei file

segreti contenenti relazioni diplomatiche degli USA riguardo alla Tunisia. A ricevere questi file

fu la piattaforma nawaat.org che è un blog gestito collettivamente da mediattivisti tunisini. Le

informazioni riguardanti la Tunisia furono condivise dai gestori del blog attraverso il sito

Tunileaks e si diffusero ugualmente sui social media grazie all’hashtag #Tunileaks. Anche i

tentativi del governo di bloccare il sito non funzionarono, i documenti già circolavano in rete e

la censura non ebbe nessun effetto in questo caso. Le note diplomatiche statunitensi

criticavano fortemente l’aumento di corruzione che il regime di Ben Ali dimostrava. Tutto ciò

che i tunisini immaginavano sul proprio governo diventava effettivamente realtà negli scritti

diplomatici del governo USA. L’effetto destabilizzante che Wikileaks ha avuto è sottolineato

da un articolo del 2011 comparso nella versione online del “Foreign Policy” a firma Elizabeth

Dickinson che si chiede se quella tunisina non sia “la prima rivoluzione di Wikileaks”. Definirla

in questo modo esagera la portata che la diffusione dei file segreti ha avuto. La Tunisia soffriva

di problemi strutturali, corruzione e repressione da parte del regime di Ben Ali e i tunisini

erano già consapevoli di tutto ciò. Nonostante questo è importante notare l’importanza che la

diffusione di questi documenti ha avuto nell’influenzare l’opinione pubblica, nell’ampliare la

consapevolezza dei tunisini dei problemi del loro paese e nell’aumentare la volontà di

cambiamento.

6 E’ un prodotto del web 2.0 ed è diventato uno strumento per i giornalisti di tutto il mondo. Wikileaks si occupa di pubblicare e diffondere materiale che è stato realizzato da qualcun altro, sono pochi gli articoli originali dell’organizzazione, garantendo l’anonimato. Si trova in mezzo e svolge il ruolo di mediatore tra chi è direttamente coinvolto nelle questioni di cui condivide le informazioni e i giornalisti che ne usufruiscono. 7 Con alcune di queste l’organizzazione di Julian Assange ha istituito delle collaborazioni: “l’Espresso”, “The Guardian”, “Le Monde”, “Der Spiegel”, “El País”, “The New York Times”. In base a questo accordo le testate avrebbero ricevuto le informazioni segrete prima dell’uscita ufficiale, in cambio Julian Assange pretendeva di imporre la data e l’ora di pubblicazione da parte dei giornali.

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Web 2.0 e movimenti sociali

Come è stato già detto, i social network svolgono, sempre di più, il ruolo di ponte tra le notizie

che vengono scovate e documentate dai cittadini e i media mainstream. Questo è stato

sfruttato dai movimenti di protesta che negli ultimi anni si sono diffusi in tutto il mondo. I

social media hanno giocato un ruolo importante per la diffusione delle proteste, soprattutto

nei paesi in cui la censura è più forte e le notizie sui cittadini scesi in piazza a manifestare fanno

fatica a circolare. Mediattivisti e citizen journalists hanno avuto una funzione rilevante per la

diffusione delle motivazioni delle manifestazioni che si sono svolte in tutto il mondo e per la

longevità dei movimenti stessi che, oltretutto, grazie alla condivisione sui social media, hanno

potuto spesso contare sulla solidarietà della comunità transnazionale. Per esempio, nel 2009,

ad un mese circa dall’inizio delle proteste post voto in Iran, si svolsero manifestazioni contro la

violazione dei diritti umani nel paese in più di 195 città di tutto il mondo. Questo dimostra

quanto sia importante per un movimento che si scavalchi la censura e che le immagini di

protesta si diffondano sui media mainstream in modo da poter creare una comunità

internazionale solidale con le ragioni dei manifestanti. Oltre che a livello comunicativo, il web

2.0 è stato importante anche a livello logistico per i movimenti. Infatti, in alcuni paesi, i social

network sono stati utilizzati per coordinare le manifestazioni. I giornalisti hanno provato ad

attaccare, ai movimenti di protesta che si sono sviluppati in tutto il mondo a partire dalla fine

degli anni 2000, l’etichetta di social network revolutions, esagerando così la reale portata che i

social media hanno avuto durante queste proteste. Si possono fare diversi esempi di

movimenti che hanno fatto un uso massiccio degli strumenti del web 2.0, a partire dalle

manifestazioni post voto iraniano del 2009 per poi passare al 2011, la Primavera Araba, ma

non solo, anche il movimento degli Indignados in Spagna e gli Occupy Wall Street negli Stati

Uniti, fino ad arrivare ad eventi più recenti come il movimento Gezi Park e le proteste anti

governative in Turchia. L’uso dei social network non è stato fondamentale per questi

movimenti. Le ragioni delle proteste sono di tipo strutturale, regimi autoritari, corruzione e

povertà diffusa sono degli esempi. La gente, molto probabilmente, sarebbe scesa in piazza

comunque contro i regimi, ma l’utilizzo dei social media ha permesso che le immagini di quelle

piazze arrivassero ai media mainstream e quindi al grande pubblico di tutto il mondo. Questo

ha determinato la formazione di una comunità informativa globale che, con uno sforzo

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minimo di condivisione dei contenuti multimediali prodotti nelle piazze, dà sostegno ai

movimenti sociali. Nei conflitti tra governi e gruppi antagonisti entrano in gioco nuovi tipi di

attori definiti “sostenitori a sforzo minimo”, possono essere attivisti per i diritti umani o

militanti impegnati in altre lotte in giro per il mondo che si impegnano nella condivisione delle

istanze dei movimenti e ne permettono la visibilità.

Nonostante i sostenitori dello strumento web 2.0 sottolineino l’importanza che i social media

hanno avuto nell’offrire uno spazio organizzativo e informativo a basso costo per i movimenti,

gli scettici mostrano l’altro lato della medaglia, cioè la facilità che i regimi hanno avuto nel

portare avanti la repressione, grazie alle tracce che venivano lasciate sui social media dagli

attivisti. Per esempio, in Turchia nel 2013, durante le manifestazioni di protesta, la polizia del

paese arrestò prima 34 persone a Smirne per dei Tweet sgraditi al governo e poi altri 4 attivisti

ad Adana colpevoli, secondo le autorità, di aver organizzato le proteste attraverso Twitter e

Facebook. In quell’occasione il premier turco Recep Tayyip Erdogan arrivò a definire i social

network <<una cancrena>>8.

Secondo alcuni studiosi le innovazioni tecnologiche avrebbero anche modificato la struttura

stessa dei movimenti antagonisti. Mentre prima le organizzazioni, soprattutto legate al

movimento operaio e ai partiti socialisti, che scendevano nelle piazze erano viste come dei

blocchi monolitici con una chiara direzione politica e con militanti che seguono le direttive dei

leader del movimento, adesso l’uso della tecnologia ha permesso lo sviluppo di movimenti

caratterizzati dall’orizzontalità, dalla mancanza di veri e propri leader e dallo spontaneismo. E’

venuto a mancare il coordinamento centrale e quel senso di unità che contraddistingue, per

esempio, i partiti socialisti. Al suo posto, si sono sviluppate relazioni molto più flessibili tra gli

attivisti. Al posto del blocco monolitico di cui si parlava in precedenza, i movimenti odierni

possono essere simbolicamente rappresentati come un insieme di reti che grazie ai social

network posso rimanere unite e comunicare tra loro. Nonostante questo, esaltare la

caratteristica dell’orizzontalismo può oscurare il fatto che, anche all’interno degli odierni

movimenti di protesta esiste un’organizzazione gerarchica. Infatti, è lo stesso processo di

mobilitazione ad essere caratterizzato da relazioni asimmetriche tra chi guida il processo di

mobilitazione e gli attivisti che vengono mobilitati.

8 Dati e citazione contenuti in: http://www.corriere.it/esteri/13_giugno_08/turchia-arresti-twitter_6ad993dc-d037-11e2-9950-94356dc22e3e.shtml

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Gli accademici israeliani Gadi Wolfsfeld, Elad Segev and Tamir Sheafer analizzando l’uso dei

social media nella Primavera Araba sottolineano come non si possa considerare il web

acriticamente come un generatore automatico di democrazia. Se questo fosse vero sarebbe

scontato il fatto che nei paesi dove internet è più accessibile e meno sottoposto a censura ci

sarebbe un maggior sviluppo dei movimenti di protesta rispetto ai regimi non democratici. Il

punto degli studiosi israeliani è che la causa principale dello scoppio delle proteste e della

nascita dei movimenti è l’ambiente politico in cui questi si sviluppano. I cittadini di un paese

che soffre di problemi strutturali e in cui non vige la libertà di espressione sono più interessati

ad attivarsi per un radicale cambiamento delle proprie istituzioni e a cercare dei mezzi di

comunicazione alternativi a quelli ufficiali. Il web 2.0 se accessibile e se utilizzato con diversi

accorgimenti può essere lo strumento adatto allo scopo. Invece, chi vive in uno Stato che

presenta un ambiente politico meno ostile è più propenso ad utilizzare internet per scopi

d’intrattenimento e meno interessato ad attivarsi nella vita politica del paese. Spesso gli stati

che soffrono di una scarsa accessibilità alla rete sono i paesi dove le proteste sono più

numerose e accese. I social media non sono quindi la causa dello scoppio della rabbia

popolare, piuttosto possono essere lo strumento utile alla diffusione di quella rabbia.

La pratica, da parte dei movimenti, di utilizzare il web per poter comunicare le proprie istanze

nasce già negli anni ’90 con l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN) che viene

quindi considerato dagli studiosi dei movimenti antagonisti come il primo movimento di

information guerrilla, e poi con Indymedia, precursore del mediattivismo, nato nel 1999 come

supporto al movimento No Global che in quei giorni era protagonista delle proteste a Seattle,

e primo caso di citizen journalism.

L’EZLN è impegnato in una lotta contro il governo messicano e a favore dei diritti della

popolazione indigena. Nasce come un movimento che pratica la lotta armata ma le armi

vengono presto abbandonate per far spazio ad una campagna di informazione mondiale che è

risultata molto efficace almeno fino al 2001. La strategia comunicativa dell’EZLN si è basata

sulla figura carismatica del Subcomandante Marcos, la cui immagine e le parole hanno fatto il

giro del mondo, e sulla produzione di un gran numero di documenti di natura informativa che

sono potuti arrivare al grande pubblico grazie ad internet. La grande prolificità, dal punto di

vista informativo, ha interessato i media di tutto il mondo che rimasero impressionati

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dall’immaginario che l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale seppe creare9. Questo ha

rappresentato quindi il primo esperimento, da parte di un movimento sociale, di utilizzo di

internet, e in un primo momento dei fax, come ponte per bucare i circuiti dei media mainstream e

far arrivare la propria

lotta al pubblico di tutto

il mondo.

Le proteste di Seattle

del 1999 che il

movimento No Global

organizzò contro la

conferenza del World

Trade Organization

mostrarono la nascita

del mediattivismo e

della collaborazione tra i

movimenti e il web, che

per la prima volta

mostrò la sua importanza nell’organizzazione e nella diffusione dei movimenti sociali. Nel suo

libro <<Omaggio a Indymedia>> Tom Liacas racconta la genesi del sito del movimento No

Global. La “battaglia di Seattle” viene ricordata principalmente per l’uso brutale della forza da

parte delle forze dell’ordine statunitensi colte di sorpresa dai numeri della mobilitazione e

dalla preparazione tattica dei manifestanti agevolata proprio dai nuovi strumenti web. Mentre

nelle strade imperversavano gli scontri, in un ufficio del centro di Seattle si trovava il quartier

generale di Indymedia, Indipendent Media Center. Qui un gruppo di attivisti si occupava di

caricare in rete, su un sito disponibile a tutti, notizie, video e foto realizzate nelle piazze.

<<Nonostante il caos degli scontri, innumerevoli innovazioni digitali venivano condivise e

sperimentate sul campo. La stessa rete hub di Indymedia rappresentava uno dei primi grandi

portali di contenuti pubblicati dagli utenti, basato sul principio dell’open publishing. Questo

significa che qualsiasi attivista con sufficiente esperienze era in grado di inviare informazioni al

9 Molti giornali, in tutto il mondo, iniziarono a dare spazio alle storie che arrivavano dal Chiapas, sia giornali di natura progressista, come Il Manifesto in Italia e Libération in Francia, sia testate meno schierate come il New York Times

Figura 2.1 Lo slogan di Indymedia: <<Non odiare i media, diventa i media>>. Fonte: http://www.lavoroculturale.org/wp-content/uploads/2014/12/indymedia-1024x690.jpg

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sito rendendo possibile, in questo modo, il primo caso di citizen journalism, una prassi cui

fanno ormai abitualmente ricorso i siti di informazione mainstream>> (Liacas 2014). Inoltre,

grazie al contributo dei primi citizen journalists il movimento No Global riuscì a ribaltare la

narrazione dei media mainstream che, influenzata dai racconti delle forze dell’ordine,

dipingeva i manifestanti come vandali e violenti. La grande mole di materiale raccolto nelle

strade e pubblicato in rete e accessibile ai giornalisti di tutto il mondo permise di far emergere

le violenze della polizia e costrinse alle dimissioni il capo della polizia di Seattle, Norman

Stamper. Indymedia divenne un attore importante nelle grandi mobilitazioni di massa dei

primi anni del 2000.

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CAPITOLO 2

Il ruolo della rete per i movimenti di protesta: pessimisti e ottimisti

In questi anni si è sviluppato un intenso dibattito sul ruolo che internet e i nuovi strumenti nati

sul web hanno avuto nello sviluppo della società, dei gruppi di protesta e del processo di

democratizzazione in diversi paesi. In particolare, il dibattito si è raccolto intorno al lavoro di

due studiosi della rete: il saggio di Clay Shirky, “Uno per uno, tutti per tutti. Il potere di

organizzare senza organizzazione” e il saggio di Evgeny Morozov, “L’ingenuità della rete. Il

lato oscuro di internet”. Mentre il primo adotta un approccio decisamente ottimistico nei

confronti delle nuove possibilità concesse dal web, il secondo smorza gli entusiasmi rispetto al

ruolo della rete nelle proteste antigovernative e sottolinea come il web possa essere

ugualmente utilizzato dai governi per reprimere e censurare.

Nuovi modi di fare gruppo

La tesi principale del saggio di Clay Shirky è quella che, grazie al web 2.0, siamo sempre più

strettamente collegati. Grazie a questi strumenti, la velocità di mobilitazione di un gruppo che

nasce e comunica sul web è fortemente aumentata. Al contrario, i costi di mobilitazione sono

enormemente diminuiti, dove per costi non si intende solamente il prezzo in denaro ma anche

il tempo impiegato.

<<L’uomo è un animale sociale. Non occasionalmente né per caso. Lo è sempre>> (Shirky

2009 pag. 13). L’uomo è, da sempre, spinto ad unirsi in gruppo. Privilegiamo l’agire collettivo

quando questo facilita lo svolgimento di compiti complessi che risulterebbero proibitivi

all’individuo singolo. Inoltre tendiamo ad unirci in gruppo con chi ha interessi o obiettivi in

comune con noi. Quindi, il web non ha fatto nascere la necessità di creare nuovi gruppi ma ne

ha, grazie ai suoi strumenti, semplicemente cambiato le modalità di formazione rendendo il

tutto più veloce e meno costoso. E’ molto importante l’aspetto economico, grazie agli

strumenti nati su internet il costo di creazione di un nuovo gruppo sociale sono precipitati e, in

economia, quando il prezzo di un bene crolla contemporaneamente aumentano i suoi

consumatori. Nuove comunità nascono quotidianamente sul web, spesso queste si raccolgono

attorno ad interessi e hobby comuni come lo sport, la musica, il cinema. Altre volte queste

comunità condividono saperi, informazioni e l’obiettivo comune di rovesciare il governo del

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proprio paese. Viviamo in un’epoca in cui, grazie ai social media, è possibile condividere

notizie, collaborare e far partire un’azione collettiva al difuori del contesto istituzionale e delle

organizzazioni formali, ed è possibile fare tutto questo con un dispendio minimo di energie,

tempo e denaro. Sono così cadute le barriere che per molto tempo hanno limitato l’azione di

gruppo. Le nuove tecnologie hanno fornito degli strumenti comunicativi malleabili che, quindi,

i gruppi possono utilizzare e adattare a proprio piacimento per conseguire i propri obiettivi.

Prima di questa rivoluzione informativa, l’alternativa all’azione istituzionale si limitava

sostanzialmente all’inazione. Uno dei limiti all’azione collettiva che è stata superato grazie alle

nuove tecnologie è quello del coordinamento. Quando un gruppo diventa sempre più

numeroso, contemporaneamente cresce il livello di complessità dei lavori di coordinamento

dello stesso gruppo. La risposta al problema delle grandi organizzazioni è sempre stata quella

di adottare una struttura di tipo gerarchico. La nascita dei nuovi strumenti sociali ha invece

visto la crescita di organizzazioni orizzontali, scarsamente strutturate e senza leader o

manager a guidarle. Ne sono un esempio i movimenti di protesta che a partire dal 2009 si sono

resi protagonisti in diversi paesi in tutto il mondo e che hanno fatto ampio uso degli strumenti

del web 2.0. Proprio per le modalità di mobilitazione e azione questi sono stati definiti come

movimenti orizzontali. Nonostante questo i critici valutano errata questa definizione in quanto

lo stesso processo di mobilitazione avrebbe insito in sé stesso un processo gerarchico.

Tre fasi di sviluppo del gruppo

Shirky considera le nuove modalità di formazione dei gruppi, dovute alle nuove tecnologie e al

conseguente abbattimento dei costi, come una vera e propria rivoluzione e una sfida allo

status quo. Le nuove modalità di comunicazione permettono a milioni di persone di restare in

contatto e di condividere un grande numero di informazioni e tutto questo è possibile farlo ad

altissima velocità e con un costo pressoché nullo. Per questo la nascita e il progressivo

assorbimento da parte della società dei nuovi strumenti sociali rappresenta una svolta epocale

paragonabile all’avvento della stampa a caratteri mobili. Una rivoluzione della comunicazione

e degli strumenti comunicativi implica che da quel momento in poi si possano compiere azioni

che prima non erano possibili e, quindi, nello stesso momento si ha un grande cambiamento

della società. L’autore distingue tre diverse fasi dello sviluppo di un gruppo (condivisione,

collaborazione, azione collettiva, elencate in ordine crescente di difficoltà) che sono state rese

possibili o più semplici dagli strumenti del web.

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Il web 2.0 permette agli utenti di poter condividere i propri contenuti (user generated content)

e di renderli pubblici a chiunque o a determinati gruppi. Negli ultimi anni sono nate molte

piattaforme che permettono la diffusione di ogni tipo di materiale multimediale amatoriale. I

computer e internet hanno sconvolto il concetto originale di audience. Sul web è tutto molto

più fluido, un utente può vestire i panni di spettatore e seguire le notizie diffuse su un sito dai

media mainstream e poco dopo può diventare, lui stesso, generatore di news e contenuti che

saranno ripresi dalle fonti d’informazione per il grande pubblico. In particolare, i social network

sono un importante veicolo di diffusione dei contenuti generati dagli utenti. Contenuti che,

grazie alla condivisione massiccia, possono diventare virali e scavalcare le barriere della rete

per arrivare al pubblico di massa delle televisioni e dei media mainstream. Ne sono un

esempio i video a forte impatto emotivo che girati nelle diverse piazze, durante le giornate di

protesta, hanno raggiunto un numero impressionante di condivisioni e grazie a queste hanno

oltrepassato i limiti nazionali e fatto conoscere le manifestazioni in tutto il mondo. La fase

della condivisione è definita come la più semplice perché non ha un grande impatto nella vita

di gruppo, un utente può autonomamente decidere di condividere dei contenuti, può renderli

disponibili o meno, ma questo non implica un vero e proprio lavoro di gruppo.

La fase successiva è quella della collaborazione. Questa determina un passo in avanti rispetto

alla condivisione in quanto presuppone che l’individuo cambi il proprio comportamento e lo

uniformi a quello di altri individui che a loro volta stanno cambiando. Mentre nella fase di

condivisione il gruppo è formato da una serie di utenti, con la collaborazione si viene a creare

l’identità del gruppo. Requisito fondamentale per la collaborazione all’interno di un insieme di

utenti è la conversazione, questa è stata resa sempre più semplice e immediata grazie alle

nuove tecnologie che si sono sviluppate: dalle email, alle chat fino ai più moderni software di

instant messaging. La forma più complessa di collaborazione è la produzione collaborativa. A

differenza del lavoro di condivisione, quando il gruppo si mette a lavorare ad un progetto

alcune delle decisioni che vengono prese collettivamente diventano vincolanti per gli individui.

La continua negoziazione che caratterizza la produzione collaborativa determina anche che ci

sia un maggior prezzo, in termini di tempo ed energie, rispetto alla semplice condivisione. Uno

degli esempi più noto in rete di produzione collaborativa è Wikipedia. La nascita o la revisione

di una voce sull’enciclopedia online presuppone un grande lavoro di collaborazione e di

negoziazione da parte della comunità di utenti, è un continuo processo in divenire. Il lavoro

della comunità permette che errori, censure e “vandalismo” siano risolti dalla comunità stessa,

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evitando un lavoro di filtro preventivo rispetto alla pubblicazione o revisione delle voci

dell’enciclopedia. Visto che Wikipedia non ha il problema di produrre profitto e nessun

collaboratore viene pagato, all’interno della comunità possono convivere tranquillamente

utenti “pigri” e altri invece particolarmente attivi.

La fase più complicata del lavoro di un gruppo è l’azione collettiva. Questa prevede che le

scelte collettive siano sempre vincolanti nei confronti dell’individuo e che queste siano mirate

al raggiungimento di un obiettivo comune. Con l’azione collettiva non si condivide soltanto la

realizzazione di un progetto come nella produzione collaborativa ma si condividono allo stesso

modo le responsabilità, in questo modo si crea un maggior legame dell’individuo al gruppo.

Quindi la stretta connessione tra i membri del gruppo e un’idea condivisa che li unisca sono

caratteristiche fondamentali per la riuscita dell’azione collettiva. Nonostante le nuove

tecnologie abbiano fornito un numero sempre maggiore di strumenti utili alla

sperimentazione di sempre nuove forme di aggregazione, il passaggio all’azione risulta

comunque essere un passaggio delicato nello sviluppo di un gruppo. Le mobilitazioni di piazza

nate sul web sono un esempio di questa difficoltà. Per esempio, in Egitto i primi presidi e flash

mob lanciati attraverso le pagine su Facebook ricevevano un numero di adesioni decisamente

superiore rispetto a chi poi effettivamente scendeva in strada. Ci sono utenti che sono ben

disponibili a lavorare, sulla rete, al perseguimento di un obiettivo ma, per molti motivi, non

fanno il passo tra azione virtuale e quella reale. Un’altra barriera che ha spesso limitato

l’azione collettiva è quella della prossimità geografica. Si presuppone che gli individui di un

gruppo per organizzarsi e lavorare insieme debbano trovarsi vicini. Le nuove tecnologie

accorciano le distanze e permettono anche a chi si trova lontano di partecipare alla

discussione collettiva con estrema celerità. Un ulteriore importante cambiamento dovuto al

web 2.0 è l’estrema velocità con cui i gruppi nascono. La condivisione di informazioni e notizie

è diventata pressoché immediata e a costo zero grazie a strumenti come social network e

blog. Mentre in precedenza c’era la necessità di ritagliare un giornale o faxare

un’informazione, adesso si può formare in poco tempo una comunità informata, rispetto ad un

certo tema, con degli obiettivi comuni e pronta all’azione. La forma di azione collettiva

definita come flash mob è uno dei prodotti dovuti alle nuove tecnologie. Infatti, solo con la

velocità di coordinamento data da questi strumenti è possibile organizzare un’azione di

questo genere. I flash mob sono nati come manifestazioni goliardiche senza nessuno sfondo

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politico10, in seguito sono stati utilizzati come manifestazioni di protesta. Questo avvenne

soprattutto in Bielorussia11 dove i flash mob, organizzati su internet, nonostante il carattere

pacifico vennero duramente repressi dalla polizia bielorussa. Le immagini, che fecero il giro

dei media internazionali e mostrarono il livello di repressione politica nel paese, mostravano le

forze dell’ordine arrestare cittadini che si erano organizzati e coordinati per mangiare tutti

insieme un gelato in piazza. Oltretutto i flash mob erano spesso

accompagnati da

attivisti che con

macchine

fotografiche e

videocamere

filmavano ciò che

avveniva in piazza. In

questo modo gli

attivisti speravano in

un approccio più

morbido della polizia

di un paese che non

poteva permettersi di

fare la figura di un

regime repressivo di fronte ai proprio partner occidentali. Secondo Shirky, in questa fase la

vera sfida all’autorità sta nel fatto che l’organizzazione delle proteste si svolge in modo

invisibile e con risultati immediatamente visibili, questo tipo di proteste non ha bisogno di un

grosso lavoro di pianificazione e i governi non possono sapere preventivamente chi

parteciperà. Gli strumenti sociali non creano l’azione collettiva, semplicemente ne rimuovono

gli ostacoli. Questi ultimi sono stati però così significativi e invasivi che, nel momento in cui

vengono rimossi, il mondo comincia a diventare un posto diverso. Ecco perché i cambiamenti

10 Il primo flash mob a sfondo politico si è svolto negli Stati Uniti e rientrava nella campagna elettorale per le presidenziali di Howard Dean. L’anno successivo, in Russia, lo strumento flash mob venne utilizzato, per la prima volta, come forma di protesta politica nei confronti del primo ministro Vladimir Putin. 11 Nel 2006, iniziarono a crescere dei movimenti antigovernativi che denunciavano brogli elettorali e che chiedevano una maggiore democratizzazione del paese. Questo movimento riempì le piazze bielorusse soprattutto tra la fine del 2010 e l’inizio del 2011

Figura 2.3 Un'immagine delle proteste antigovernative del 2010 in Bielorussia Fonte: http://www.ilpost.it/2010/12/19/proteste-minsk-elezioni-bielorussia/tens-of-thousands-of-opponents-of-belaru/

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più significativi non sono basati sulle tecnologie scintillanti e complesse ma piuttosto su

strumenti semplici e facili da usare, come l’e-mail, i celluari e i siti web, perché questi

strumenti sono quelli a cui la maggior parte delle persone può accedere,e, ancora più

importante, sono facili da usare nella vita di tutti i giorni. Le rivoluzioni non avvengono quando

le persone abbracciano nuove tecnologie, ma quando adottano nuovi comportamenti>>.

(Shirky 2009 pag. 119)

Dottrina Google e cyber-utopismo

Nel suo libro, Evgeny Morozov si è dimostrato fortemente critico nei confronti delle tesi di

Clay Shirky. Secondo il giornalista bielorusso non si può pensare al web come un diffusore

automatico di libertà e democrazia. Mentre le operazioni militari di “esportazione” della

democrazia hanno mostrato tutti i loro limiti, adesso le potenze occidentali contano sul web

per la diffusione dei valori di libertà. Il concetto sarebbe quello che una volta eliminate la

barriere comunicative automaticamente sarebbe arrivata la totale emancipazione dai regimi

autoritari. In questo modo i governi occidentali mostrano la propria volontà di percepire i

nuovi strumenti sociali come mezzi di liberazione e non di oppressione e censura. Invece, le

rivoluzioni che hanno scosso differenti regioni del mondo, negli ultimi anni, sarebbero

avvenute con o senza il sostegno di internet. Anzi, gli strumenti sociali avrebbero favorito il

lavoro di investigazione da parte delle polizie dei regimi. Morozov definisce gli ottimisti delle

possibilità liberatorie del web e coloro che non ne riconoscono gli aspetti negativi come cyber-

utopisti.

All’indomani dello scoppio delle proteste del dopo voto in Iran nel 2009 gli Stati Uniti avevano

visto aprirsi uno spiraglio dal quale entrare per condizionare la vita politica di quel paese con

cui i rapporti diplomatici non erano di certo buoni. Come è già stato detto, gli Stati Uniti per

assolvere questo compito cercarono di sfruttare Twitter. In quei giorni diversi giornalisti

statunitensi ed esperti di new media esaltarono il ruolo che il social network stava giocando in

quel momento. Tra gli altri, Morozov cita proprio le parole di Shirky: << Ecco la prima, grande

rivoluzione che sia stata catapultata su un palcoscenico globale e trasformata dai social

media>> (Morozov 2011 pag. 4). Addirittura, l’entusiasmo degli addetti ai lavori allargò

l’orizzonte spostando le proprie analisi dal contesto locale a quello globale. Infatti, secondo

loro le proteste iraniane erano il segnale che i regimi autoritari avevano le ore contate e i social

media avrebbero abbattuto ogni barriera alla diffusione della democrazia. Le proteste iraniane

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hanno senza dubbio segnato una svolta nel rapporto tra rete e movimenti sociali. Per dare la

misura dell’euforia che si scatenò attorno a quei fatti si possono citare due episodi in

particolare: la campagna pubblica per candidare Twitter al premio Nobel per la pace e la

proclamazione, durante i Webby Awards12, delle proteste iraniane come uno dei dieci

momenti più importanti del decennio per internet. Secondo Morozov, la grande mole di

materiale multimediale prodotto nelle piazze e messo a disposizione degli utenti del web ha sì

contribuito alla creazione di un sentimento di solidarietà transnazionale ma, allo stesso

momento, ha gonfiato oltremodo le aspettative sulle vittorie che realmente quel movimento

avrebbe potuto ottenere. Morozov definisce la cieca fiducia nelle nuove tecnologie come

mezzi di liberazione << dottrina Google>> (Morozov 2011). I fatti iraniani hanno contribuito a

riportare in auge la dottrina Google. In questo contesto i cyber-utopisti scoprirono ed

esaltarono la potenza liberatrice che i social network rappresentavano in quel momento

convinti che la gente, se armata delle giuste tecnologie, sarebbe stata in grado abbattere ogni

regime autoritario. Una delle principali criticità della fede cieca nella rete è quella di

sottovalutare il fatto che non tutti i regimi autoritari sono uguali, così come non lo sono tutti i

movimenti sociali. Non si può, a priori, definire il web uno strumento di liberazione se non si ha

idea di come l’utilizzo di questo sarà effettivamente declinato alle varie realtà e di quali

contromisure i governi si doteranno. Morozov è molto critico con la scelta

dell’amministrazione statunitense di aprire una finestra di dialogo con i dirigenti di Twitter per

fare in modo che non fosse interrotto il flusso di informazioni provenienti dall’Iran. Il governo

di Teheran ha approfittato di questa mossa per denunciare il web come uno strumento di

attacco alla propria sovranità da parte dell’Occidente. Di conseguenza, il regime di

Ahmadinejad innalzò il livello di censura sulla rete13. Il regime di Teheran iniziò a denunciare i

manifestanti come gli attori di un complotto filo occidentale che mirava a destabilizzare il

paese. Per fare questo non disdegnò l’utilizzo degli stessi strumenti sociali, utilizzati dai

manifestanti, per fare contro propaganda e denunciare la cospirazione filo statunitense.

12 Equivalente degli Oscar per internet. 13 Venne allestito un team di 12 persone, grandi conoscitori della rete, che iniziò un lavoro di riconoscimento atto a dare un volto a chi sul web fomentava le proteste, per dare inizio ad una serie di arresti di attivisti. Inoltre, gli iraniani che dall’estero supportavano le proteste furono contattati attraverso i social network e vennero intimati di smetterla se non avessero voluto ripercussioni contro

le proprie famiglie.

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Paradossalmente, l’importanza che, in questo contesto, il governo degli Stati uniti diede a

internet e ai social network aumentò la censura e il livello di repressione del web in Iran e in

altri paesi guidati da regimi autoritari che vedevano la rete come lo strumento degli USA per

intromettersi negli affari di politica interna. Mentre in un primo momento gli Stati Uniti si

limitavano a godere dei vantaggi economici derivanti dalle aziende della Silicon Valley

(Facebook, Twitter, Google, ecc…), quando, come nel caso iraniano, iniziarono a cogliere

anche i frutti politici, questo venne visto da molti paesi come un tentativo di ingerenza alla

quale molti di questi risposero con una forte limitazione agli accessi al web e ai programmi

sviluppati negli USA. Dall’essere una possibile risorsa economica, la rete divenne la finestra

grazie alla quale gli Stati Uniti potevano spiare e condizionare le politiche interne dei paesi non

allineati. Nella speranza di poter esaltare le nuove tecnologie i giornalisti hanno

assolutamente sopravvalutato l’effetto che i social network hanno avuto durante le proteste

iraniane e non hanno minimamente preso in considerazione gli aspetti che si sono rivelati

essere negativi dell’utilizzo di questi strumenti sociali.

Guerra Fredda 2.0

Questa fiducia incondizionata nella tecnologia pone le proprie basi nel 1989 e nella caduta del

muro di Berlino. Mentre in quel caso i manifestanti erano dotati di fotocopiatrici per stampare

volantini, fax e radio, nel 2009 i manifestanti fanno girare le proprie rivendicazioni attraverso

gli smartphones: << Allo stato attuale la dottrina Google deve meno all’avvento di Twitter e

dei social network che all’inebriante senso di superiorità provato da molti occidentali nel 1989,

quando dalla sera alla mattina è crollato il sistema sovietico. Molti pensavano che la storia

fosse finita e che la democrazia non avesse alternative. Si riteneva che la tecnologia, con la sua

abilità unica nell’alimentare lo zelo consumistico (anch’esso visto come una minaccia per

qualsiasi regime autoritario) e nel risvegliare e mobilitare le masse contro i loro dominatori,

sarebbe stata la liberazione definitiva>> (Morozov 2011 pag. 8). L’analogia tra il presente e il

1989 viene ripreso anche in un discorso di Hillary Clinton14 che paragona i libelli che i ribelli

stampavano e diffondevano in funzione anti sovietica ai post multimediali dei moderni

attivisti. Come quei libelli furono importanti per l’abbattimento del muro di Berlino, la rete e i

social media hanno il compito di abbattere i muri virtuali e diffondere una libera informazione

14 Discorso sulla libertà di internet tenuto al Newseum il 21 gennaio 2010. (Discorso contenuto in Morozov 2011)

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globale. Gli sforzi statunitensi nell’esaltare le virtù liberatrici degli strumenti sociali forniti dalla

rete assomiglia molto ad una moderna riproposizione della Guerra Fredda. In un momento in

cui gli Stati Uniti hanno perso una grossa fetta di credibilità a causa delle recenti disastrose

campagne militari, i politici statunitensi hanno trovato nella rete, anziché nelle bombe e

nell’occupazione militare, lo strumento per potere diffondere democrazia, ma soprattutto la

propria egemonia culturale ed economica. Non è un caso che uno dei primi atti pubblici di

George W. Bush, una volta lasciata la Casa Bianca, fu quello di promuovere un convegno sulla

libertà di internet a cui presero parte politici neoconservatori, alcuni blogger provenienti da

paesi non alleati con gli USA, grandi esperti della rete e veterani e conoscitori delle dinamiche

della Guerra Fredda. Questi ultimi, in particolare, riproponevano una visione manichea

dividendo il fronte dei paesi buoni da quelli che vanno democratizzati. L’opera di

democratizzazione non deve più agire esclusivamente grazie alla forza armata ma sfruttando,

come teste di ponte, i dissidenti del web di quei paesi. A differenza dei cyber-utopisti, i

neoconservatori sono consapevoli del fatto che anche la rete è un campo di battaglia in

quanto può essere utilizzato dagli attivisti quanto lo può essere dai governi autoritari che si

possono servire degli stessi strumenti utilizzati per aprire varchi di libertà proprio per

richiuderli e punire chi ci ha provato. Proprio per questo le parole di Hillary Clinton che

paragona i libelli fotocopiati ai post sui social network sono concettualmente sbagliate. Il

grosso errore consiste nel paragonare due strumenti come una fotocopiatrice e il web. Mentre

la prima svolge il semplice compito di copiare e rendere quindi più agevole la diffusione di

alcuni documenti, la rete è molto più complessa. Internet può essere usato per diffondere

materiale antigovernativo ma allo stesso tempo il governo può scendere sullo stesso campo di

battaglia e combattere i dissidenti con la censura o promuovendo nuove forme di propaganda

e distrazione. Paragonare i blog e post dei moderni dissidenti alle fotocopiatrici e ai libelli

distribuiti durante la Guerra Fredda contribuisce a costruire quel mito della rete liberatrice che

Morozov non condivide. Inoltre questo paragone è figlio di una lettura oltremodo esaltante

della Guerra Fredda, nella realtà il discorso storico sul non conflitto tra Unione Sovietica e Stati

Uniti è ricco di incongruenze e polemiche. Questo rende la Guerra Fredda un inutilizzabile

termine di paragone.

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Diverse forme di censura del web

La Russia è uno dei

paesi con i quali gli

Stati Uniti

intraprendono

rapporti non del

tutto amichevoli.

Anche in questo caso

i problemi di democratizzazione e di libertà dell’ex paese sovietico rappresentano un grosso

problema per un paese come gli Stati Uniti che, all’interno della visione manichea in cui si è

soliti dividere Occidente e Oriente, rappresenta il campione assoluto di democrazia. Scesa sul

campo di battaglia virtuale, la Russia ha però utilizzato una tattica diversa da quella di altri

paesi (Cina e Iran, per esempio) che hanno optato per una severa censura del web. La strategia

russa conta sul fatto che i giovani russi collegati ad internet parlino il meno possibile di

politica, in questo caso non ci sarebbe bisogno di alcun tipo di censura. La maggior parte del

traffico virtuale in Russia viene speso in intrattenimento e social media. Il governo si fa forte

promotore di questa tendenza andando, egli stesso, ad investire sull’intrattenimento online.

Mentre le autorità hanno sempre avuto il totale controllo dei messaggi che passavano dalla

televisione, nel momento in cui la rete ha sostituito i programmi tv il governo è dovuto

intervenire per contrastare un mezzo che godeva della quasi totale anarchia. La capacità di

offrire un intrattenimento online di grande qualità ha permesso di allontanare gli utenti del

web russi dai temi di maggior criticità per le autorità del paese. Se internet ha potuto mettere

le basi dell’allargamento alla partecipazione politica creando una nuova generazione di

dissidenti virtuali impegnati a diffondere i valori e gli stili di vita delle democrazie occidentali,

allo stesso modo si è creato un luogo dove è possibile annullare il discorso politico e “stordire”

gli utenti con una serie illimitata di nuovi intrattenimenti. Una moderna rivisitazione del detto

romano: panem et circenses.

Figura 4.2 Russia.Ru è un esperimento di internet television portato avanti dal Cremlino. Grazie a questo portale il governo russo offre agli internauti del paese una grande quantità di intrattenimento, anche quando si parla di politica lo si fa in maniera frivola. Grazie a questo il cremlino è in grado di orientare gli interessi degli utenti del web russi.

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Anche quando sul web nascono delle fonti di critica ai regimi autoritari, queste possono non

tramutarsi automaticamente ad elementi di pericolo per la stabilità del governo ma, al

contrario, possono rafforzarlo. Un blogger che critica, per esempio, la corruzione del proprio

paese può, invece di essere censurato, essere innalzato a simbolo del governo della lotta

contro la corruzione. Molti degli utenti di spicco del web sono persone che hanno studiato,

sono colte e spesso specializzate in determinati settori. Non sarebbe lungimirante da parte di

un governo non sfruttare queste personalità, invece di reprimerle e censurarle. Oltretutto, la

promozione di questi personaggi può essere utile, dal punto di vista strategico, in politica

estera in quanto allontanerebbe le accuse di censura. Proprio per questo alcuni stati autoritari

si sono mossi per istituzionalizzare i blog. Questo rappresenta quindi il secondo fronte di

resistenza all’ingerenza occidentale. Mentre da una parte si cerca di annullare il dibattito

politico e si ampliano le distrazioni per i cittadini, dall’altra parte, quando il dibattito politico è

già emerso e non può più

essere sotterrato si cerca di

istituzionalizzarlo. In

questo modo i governi

dimostrano di considerare i

blogger come dei soldati

che combattono in un

campo di battaglia virtuale

in cui a scontrarsi sono i

valori delle democrazie

occidentali contro quelli

degli stati autoritari.

Sarebbe sbagliato

pensare che tutti i

blogger di uno Stato autoritario, anche quelli critici col suddetto Stato, rappresentino delle

minacce alla legittimità politica delle autorità. I governi autoritari per continuare ad essere tali

devono avere la capacità costante di rinnovarsi e adeguarsi ai moderni cambiamenti. Il

proliferare di internet e dei suoi strumenti ha creato la necessità nelle autorità di interagire con

quello spazio per poter conservare il proprio dominio.

Figura 2.3 Questa vignetta sintetizza la censura che il motore di ricerca Google ha dovuto subire da parte del governo cinese. Fonte: http://frontierenews.it/wp-content/uploads/2011/07/Censura-Cina.gif

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Le forme di censura attuate sul web da stati come la Cina sono molto più ragionate di un

semplice blackout della rete. In un momento storico in cui si vede lo sviluppo del capitalismo

finanziario che muove i suoi fili essenzialmente per via telematica, uno Stato non può

permettersi di vietare l’accesso in rete perché da questo ne deriverebbe una definitiva uscita

dal panorama economico globale. Per questo i metodi di censura sono molto capillari e

ruotano attorno al blocco di siti e documenti che riportano alcune parole chiavi scomode per il

regime. Tra le mosse più importanti del governo cinese in termini di censura in rete bisogna

certamente citare le pressioni che questo fece affinché Google chiudesse nel paese asiatico15.

Quando i dirigenti del colosso della rete decisero di abbandonare la Cina questo fu salutato

come un importante gesto politico simbolico di denuncia delle violazioni dei diritti umani

all’interno del paese. E’ molto più plausibile che il gesto sia di natura economica visto che negli

anni precedenti, quando Google funzionava senza problemi in Cina, nessun dirigente si è

speso per la lotta dei diritti umani nel paese asiatico.

Nel suo testo, Morozov arriva ad ipotizzare una << personalizzazione della censura>>.

(Morozov 2011, pag. 92). Considerato il fatto che gli accessi ad internet sono costantemente

monitorati, sarà possibile l’accesso a un certo tipo di siti e documenti, per esempio che trattino

il tema dei diritti civili, solo agli utenti che si sono dimostrati poco attenti all’argomento. Un

utente che risulta essere vicino agli ambienti virtuali in cui si discute di libertà e democrazia

sarà maggiormente controllato e gli potrà essere precluso l’accesso ad un certo tipo di

contenuti del web. In realtà, questo già avviene a livello commerciale. Infatti le pubblicità che

compaiono sul nostro computer sono mirate e adattate in base ai nostri dati di navigazione.

Ci sono svariate modalità di censura. Molti paesi hanno deciso di “appaltare” la censura ad

aziende esterne. I governi fanno monitorare i siti che appartengono a determinate aziende e

questi si occupano di cancellare contenuti e commenti sgraditi al governo che, dalla sua parte,

si limita solamente ad indicare alcune direttive e parole chiave. In questo modo sono le stesse

aziende a pagare i costi della censura, sia in termini economici che in termini di immagine. Per

questo sono spesso le aziende locali a operare in questo modo visto che le grandi

multinazionali difficilmente possono permettersi di portare, a livello internazionale,

l’immagine di un’azienda che spalleggia la censura dei paesi autoritari. Il problema è che molto

15 La decisione di Google arrivò in seguito alle censure del governo cinese e dopo aver subito una serie di attacchi informatici, portati da hacker anonimi che non hanno rivendicato l’azione, alla propria proprietà intellettuale.

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spesso gli utenti preferiscono proprio i servizi locali, che più si adattano alle loro esigenze, ai

servizi offerti dalle aziende internazionali, questo nonostante la censura. Un altro

stratagemma che i governi usano per limitare la libertà del web conta sulla partecipazione

attiva dei propri cittadini. Infatti, alcuni paesi come la Thailandia o l’Arabia Saudita hanno

creato delle community che danno l’opportunità agli utenti di denunciare siti e contenuti

ritenuti inaccettabili. In Cina questo sistema conta di un compenso monetario a chi scova dei

siti sfuggiti alla censura.

I nuovi mezzi grazie ai quali i governi autoritari limitano la libertà di internet ha messo bene in

chiaro che i governi occidentali, se interessati alla promozione della democrazia in questi

paesi, non possono limitarsi a ragionare con gli schemi obsoleti della Guerra Fredda. I vecchi

schemi portano una rappresentazione di una macchina della censura costosa e appannaggio

delle autorità. In un sistema in cui, invece, la censura viene decentralizzata, diventa anche

difficile poter accusare un governo di cancellare determinati contenuti se poi concretamente il

lavoro sporco viene svolto da alcune aziende locali o da hacker anonimi, in questo modo molti

governi possono facilmente smarcarsi dall’accusa di censura.

In particolare l’uso dei social network per l’attività politica può rappresentare un’arma a

doppio taglio. Se, da una parte, siti come Facebook o Twitter aumentano le possibilità di

organizzarsi e coordinarsi da parte dei gruppi, e permettono di fare tutto questo con una spesa

minima in termini di soldi e tempo, dall’altra parte rappresentano uno strumento in più nelle

mani della repressione. Infatti, è molto facile monitorare i profili web dei dissidenti politici e di

chi li segue e interagisce con loro, in questo modo è possibile ricostruire una buona parte della

rete che organizza le proteste. Per molto tempo l’uguaglianza che si fa tra paesi autoritari e

arretratezza culturale, e quindi tecnologica e informatica, ha permesso il diffondersi dell’idea

che lo spazio dei social network fosse liberamente utilizzabile dalle opposizioni in quanto le

autorità non disponevano dei mezzi necessari per contrastarli. Il caso dell’Iran, dove diversi

simpatizzanti delle proteste furono identificati grazie al monitoraggio dei social network,

dimostra come tutto ciò è falso e l’eccessivo entusiasmo nel potere delle nuove tecnologie può

portare a sottovalutare i mezzi repressivi dei governi. La soluzione più logica a questo sarebbe

l’utilizzo di profili anonimi. Sui social network chiunque può fingere di essere qualcun altro. Il

problema è che la strategia dell’anonimato depotenzia il processo di mobilitazione. Infatti,

una delle caratteristiche principali perché un movimento possa spostarsi dal virtuale al reale

delle piazze è che si crei un rapporto di reciproca fiducia tra gli utenti. Naturalmente non

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sapere con chi si discute non permette la creazione del rapporto di fiducia, anche perché

dietro ogni profilo potrebbe nascondersi la polizia o qualche attivista filo governativo.

Non va sottovalutato il fatto che, anche se si riuscissero a creare delle zone del web

completamente liberate dal controllo dei governi e in cui fosse possibile il libero scambio di

opinioni e documenti, la rete funziona grazie a dei supporti fisici. Computer, cellulari e altri tipi

di supporti possono essere semplicemente messi sotto controllo dalle polizie segrete e

politiche di ogni paese. Per questo il processo di democratizzazione non può essere calato

dall’alto della rete web ma deve essere sostenuto concretamente nelle strade e nelle piazze. Il

web può essere un mezzo utile alle manifestazioni di protesta e al processo di liberazione di un

popolo da un regime oppressivo ma non ne può essere il fine.

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CAPITOLO 3

Egitto 2011: “La Rivoluzione dei Social Network”

La Rivoluzione che nel 2011 ha portato alla destituzione del presidente egiziano Mubarak ha

mostrato l’importanza e i limiti dei media mainstream e dei social media nel ruolo di appoggio

alle proteste. Le manifestazioni partite il 25 gennaio 2011 hanno trovato ampio spazio sulle

televisioni satellitari arabe e l’ampio utilizzo, da parte dei manifestanti, dei social network ha

dato un grosso contributo al coordinamento e all’organizzazione delle proteste, questo

nonostante la censura imposta dal regime.

I canali satellitari arabi.

Il 2011 è l’anno delle rivolte che hanno sconvolto il

Medioriente. Il TIME, settimanale d’informazione

statunitense, dedica la copertina di “Persona dell’anno

2011”16 alla figura del manifestante, “The Protester”,

riferendosi ai giovani ribelli protagonisti della “Primavera

Araba”.

Una delle caratteristiche delle rivolte arabe che più ha colpito

e di cui gli esperti di movimenti sociali più hanno discusso è

stata la velocità con cui le proteste sono dilagate

dall’epicentro nordafricano a tutta la regione mediorientale.

Un ruolo importante, nella diffusione delle manifestazioni, lo

hanno giocato i media. Le immagini e le rivendicazioni delle

proteste nordafricane hanno trovato spazio nelle televisioni

satellitari arabe, Al Jazeera e Al Arabiya su tutte, e nei moderni mezzi di comunicazione

informatici, i social network. E’ innegabile il ruolo fondamentale che, soprattutto, Al Jazeera

ha avuto nella costruzione della mitologia della Rivoluzione, prima in Tunisia e poi negli altri

paesi della regione, e nel mantenere un costante flusso di informazioni che viaggiasse dal

Medioriente al resto del mondo. La divulgazione delle immagini delle piazze tunisine ed

16 Copertina del TIME di Dicembre 2011

Figura 3.5. La copertina "Person of the year 2011" del TIME. Fonte:http://img.timeinc.net/time/magazine/archive/covers/2011/1101111226_400.jpg

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egiziane ha permesso il crearsi di un effetto domino che prima ha colpito molti paesi della

regione araba e, in seguito, si è esteso in altre aree del mondo. I canali satellitari arabi, grazie

al tratto comune della lingua, hanno permesso il diffondersi di un sentimento diffuso in molti

strati della società araba. Anche paesi caratterizzati da un regime stabile, come l’Oman, sono

stati attraversati dall’ondata di proteste che si è diffusa in Medioriente e che si è diversamente

declinata a seconda delle specifiche situazioni statuali.

<< E’ però indubbio che Al Jazeera è stata capace di unire, di avere nell’unire, sul piano

simbolico ed emotivo, le proteste che in queste settimane stanno infiammando il mondo

arabo, rafforzando nei giovani (e non solo) arabi la percezione di un’identità comune, fatta di

simboli e di un linguaggio condivisi a cui ricorrere nell’affrontare i medesimi problemi – un

presente fatto di oppressione – verso una meta comune – la lotta per la libertà>> (Colleoni

2011 pag. 202). Le immagini diffuse in diretta tv, dalle emittenti arabe, hanno funzionato da

innesco di situazioni già esplosive. L’esempio dei giovani tunisini ed egiziani ha raggiunto le

televisioni e i cellulari di molti coetanei arabi, accendendo così la miccia delle proteste in tutta

la regione.

La nascita di Al Jazeera17 ebbe da subito un effetto spiazzante per il pubblico e per i governi

dell’area. Si candidò da subito ad essere un forum per la libertà d’espressione ospitando

approfondimenti, notiziari e dibattiti politici in diretta. L’avvento di Al Jazeera aprì la strada

alla nascita di molti altri canali satellitari della regione, un esempio è Al Arabiya18. Tra questi

due importanti canali satellitari si venne a creare una concorrenza che permise l’ampliamento

dell’offerta televisiva generale aumentando gli spazi di dibattito politico e di libertà di

espressione. La diffusione di questi canali satellitari ha permesso ai cittadini arabi di ascoltare

opinioni diverse rispetto alle notizie fatte circolare dalle tv di Stato, spesso soggette a censura

o alla forte influenza dei governi. Questo ha favorito il crearsi di un sentimento critico diffuso e

che non fosse appiattito sulle posizioni dei regimi.

In un articolo comparso sulla rivista Limes, Mirko Colleoni descrive come Al Jazeera si sia

sempre mostrata piuttosto critica nei confronti del governo di Mubarak e come l’emittente

abbia creato uno stretto legame con i manifestanti anti regime. Spesso, negli studi del canale

17 Nato nel 1996, è stato il primo canale arabo dedicato alla diffusione delle notizie 24 ore su 24. Al Jazeera nasce su idea dell’Emiro del Qatar Hamad bin Khalifa al-Thani e per volontà di questo di ampliare l’influenza qatarina sulla regione. 18 Al Arabiya nasce nel 2003. E’ un’emittente televisiva degli Emirati Arabi Uniti e anch’essa è dedicata alla diffusione di notizie 24 ore su 24.

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satellitare, sono stati invitati esponenti di movimenti e partiti antagonisti al governo egiziano.

Inoltre, grazie alla presenza negli studi di attivisti per i diritti civili è stato possibile affrontare,

svariate volte, criticità interne all’Egitto come le persecuzioni delle minoranze, in particolar

modo dei Cristiani Copti. Le discussioni sul non rispetto dei diritti umani in Egitto hanno

concorso a gettare discredito sul regime di Mubarak e hanno favorito la promozione della

democrazia nel paese. Per esempio, Al Jazeera diede ampio spazio alla storia di Khaled Said. Il

giovane filmò e caricò su Internet un video che mostrava la polizia egiziana dividersi quanto

era stato sequestrato durante una retata antidroga. Per questo fu prelevato e massacrato di

botte da alcuni agenti di polizia. Il canale satellitare qatarino documentò le proteste che si

scatenarono ad Alessandria ed attaccò la polizia catalogando l’episodio come l’ennesimo

sopruso da parte delle forze dell’ordine che trovano legittimazione nella legislazione

d’emergenza19. Inoltre l’emittente ribaltò la narrazione ufficiale del regime. Mentre i

comunicati del ministero dell’Interno e del medico legale trovavano nella droga la causa della

morte, il canale mostrava le foto del volto tumefatto del ragazzo. Gli attacchi di Al Jazeera al

regime di Mubarak non si limitarono alla politica interna ma toccarono anche affari di politica

estera. Soprattutto, ad essere biasimato fu l’atteggiamento critico del governo de Il Cairo

rispetto alla situazione palestinese e i rapporti diplomatici ed economici con Israele. In

particolare, durante la Seconda Intifada del 2000 l’emittente satellitare mostrò le immagini dei

manifestanti palestinesi bruciare delle bandiere egiziane mentre, fino ad allora, il governo di

Mubarak veniva presentato come difensore delle istanze palestinesi. Da questo momento Al

Jazeera divenne il capro espiatorio della situazione esplosiva nel paese e fu diverse volte

attaccato dalla stampa locale egiziana.

Lo scontro tra l’emittente satellitare e il governo di Mubarak si è fortemente riacceso nel

gennaio 2011, cioè con lo scatenarsi della rivolta nelle strade delle città egiziane. Al Jazeera ha

dato una copertura integrale degli eventi mandando in onda, 24 ore su 24, dirette dall’Egitto.

La scelta editoriale dell’emittente qatarina, durante i giorni della rivolta, dimostra, una volta di

più, l’avversione verso il regime di Mubarak. Il palinsesto venne quasi completamente

occupato dalla diretta degli eventi in corso, il poco spazio lasciato libero venne riempito con

documentari che trattavano temi molto critici, per il governo egiziano, come la pratica delle

torture effettuate dalla polizia e la censura dell’informazione. Bisogna sottolineare come

19 In vigore dal 1958, permette l’incarcerazione e la tortura di chiunque sia anche solamente sospettato di cospirare contro lo Stato

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questi documenti vennero mandati in onda in un momento in cui Al Jazeera registrava

impressionanti picchi di ascolto, questo determinò un ulteriore colpo alla legittimità del

governo di Mubarak. Oltretutto, il canale ha mostrato di saper interagire con gli strumenti del

web 2.0, in questo modo ha messo a disposizione del grande pubblico racconti e contenuti

multimediali che erano stati realizzati direttamente nelle piazze. Allo stesso modo, a sua volta,

Al Jazeera ha utilizzato i social media per condividere le proprie notizie e tenere informate le

giovani generazioni egiziane impegnate a cambiare il paese. Nella notte del 27 gennaio 2011 il

governo egiziano impose il blocco di Internet nel paese20. Nonostante, tra i militanti,

circolassero mail su come scavalcare il blocco ed, effettivamente, alcuni ci riuscirono, la

circolazione delle notizie sul web venne fortemente limitata. In questo frangente le televisioni

arabe all news come Al Jazeera e Al Arabiya assunsero ancora più importanza in quanto

rappresentavano la sola fonte informativa alternativa alla televisione di Stato egiziana. Anche

se, Al Arabiya durante le giornate di protesta si è distinta per le sue posizioni conservative e

controrivoluzionarie. A proposito delle posizioni di questa emittente, Amira Salah-Ahmed,

giornalista egiziana, racconta: << I telegiornali di Al Jazeera e Al Arabiya fornivano dei

resoconti assolutamente diversi, l’una indipendente, l’altra un’emittente filo governativa. Ho

chiamato personalmente entrambe per raccontare cosa stava succedendo, sentendomi poi

una scema per aver chiamato la seconda>> (AA. VV. 2011 pag. 103). Compreso l’importante

ruolo che le televisioni stavano giocando nello scontro tra manifestanti e autorità, il 28

Gennaio, data in cui la repressione poliziesca si fece ancora più violenta nei confronti dei

manifestanti, il governo decise di oscurare Al Jazeera. Fu l’unica emittente a subire una misura

repressiva di questo genere. Immediatamente dopo quest’attacco, i tecnici del canale si

misero a lavoro per cambiare frequenze e bucare il satellite egiziano. Un ‘altra contromisura fu

quella di stringere accordi con diversi canali arabi che si impegnarono a ritrasmettere i

programmi di Al Jazeera sul satellite egiziano. La vendetta del regime di Mubarak non si limitò

all’oscuramento televisivo, durante gli scontri che scoppiarono a Il Cairo, le forze di polizia

attuarono una vera e propria caccia all’uomo nei confronti dei giornalisti stranieri, in

particolare nei confronti dei giornalisti di Al Jazeera. Alcune testimonianze ci descrivono il

clima di caccia alle streghe che si respirava per le vie de Il Cairo, Sarah El Sirgany, giornalista di

20 Solamente un provider minore di nome Nour rimase attivo fino al 1 Febbraio. Era il provider utilizzato dalle banche e dal mercato azionario. Grazie a questo alcune fonti di informazione, come Daily News Egypt, riuscirono a condividere all’esterno notizie sulla situazione nel paese.

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Daily News Egypt racconta: << Mercoledì (3 febbraio n.d.r.) i giornalisti stranieri sono diventati

un bersaglio. (…) Chiunque avesse una macchina fotografica era diventato un bersaglio. (…) Il

giorno successivo i bersagli non erano più semplicemente le persone con una macchina

fotografica, ma chiunque sembrasse anche lontanamente uno straniero. La tv di Stato e delle

telefonate mandate in onda da tv satellitare private hanno incolpato gli stranieri per aver

fomentato i manifestanti di Tahrir, mettendoli contro il loro stesso paese>> (AA. VV. 2011 pag.

149). Anche questa volta, le misure repressive più forti colpirono Al Jazeera che oltre a subire

l’arresto di alcuni dei suoi giornalisti, fu l’unica emittente costretta a chiudere gli uffici presenti

in Egitto.

E’ chiaro che tra la televisione del

Qatar e i manifestanti egiziani si

venne a creare un forte

legame. Ciò è testimoniato, per

esempio, dalla scelta delle

immagini delle piazze

contrapposte alle forze di polizia e

dall’uso di musiche con forte

valenza simbolica, che richiamano

al risorgimento dell’Egitto e alla

resistenza all’oppressione,

utilizzate, in quei giorni, negli spot

che venivano mandati in onda dal

canale. Questi spot che

solitamente hanno esclusivamente valenza pubblicitaria, in questo caso hanno una precisa

connotazione politica ed emotiva. Il messaggio dell’emittente è quello che le sue telecamere

non abbandonano la piazza, documentano la repressione e le violenze di polizia e celebrano la

rivoluzione che vince. Dalla loro parte, i manifestanti installarono, in una piazza Tahrir

occupata, dei maxischermi che vennero sintonizzati proprio su Al Jazeera.

L’emittente qatarina non è la causa scatenante delle rivolte ma ha giocato un ruolo

fondamentale per la diffusione e la longevità dei movimenti. Vedere in televisione i giovani

tunisini scendere in piazza e cambiare le sorti del proprio destino ha scatenato un effetto

domino che per primi ha colpito l’Egitto e ha dato il via alla cacciata di Mubarak.

Figura 3.6 Questo cartello dimostra il legame formatosi tra manifestanti e Al Jazeera. Fotografo: Dylan Martinez/Reuters. Fonte: http://static.guim.co.uk/sys-images/Guardian/About/General/2011/10/7/1318005956848/Al-Jazeera-007.jpg

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La crescita del dissenso in Egitto e il ruolo del web 2.0

Gli studiosi dei movimenti sociali che hanno analizzato la Primavera egiziana come Paolo

Gerbaudo e chi l’ha vissuta in prima persona come Hossam el-Hamalawy, blogger e attivista

politico egiziano, concordano nel ritenere la Rivoluzione egiziana, scoppiata il 25 gennaio

2011, come il frutto di un lungo processo, durato almeno 10 anni, che ha visto concretizzarsi

l’erosione della legittimità politica di Hosni Mubarak. Il regime egiziano, nonostante la natura

autoritaria e repressiva, ha sempre mantenuto una facciata liberale permettendo l’esistenza di

diversi partiti di opposizione21. Questo nonostante le elezioni venissero sempre vinte, grazie ai

brogli, dal partito di Mubarak. Veniva permessa anche l’esistenza di alcuni giornali di

opposizione come: Masry Al-Youm e el-Shorouq nonostante questi fossero spesso oggetto di

denunce legali e intimidazioni. Quello che le forze repressive del regime hanno sempre

combattuto è la dimostrazione di piazza che avrebbe potuto creare dei legami, pericolosi per il

regime, tra attivisti dell’opposizione e le classi subalterne. Non è quindi un caso che, durante il

governo Mubarak, sia stata fortemente limitata la libertà d’assemblea e che sia stata

mantenuta la legislazione d’emergenza, sospesa solo in rarissimi casi. Nelle strade le critiche al

governo venivano solo sussurrate per paura della polizia segreta, mukhabarat, impegnata a

scovare i nemici del regime. Rapimenti, torture, violenze e uccisioni arbitrarie erano pratiche

comuni nella tattica repressiva del governo egiziano.

Il 2000 segna un anno importante nel processo di erosione della legittimità politica del

governo di Mubarak. Con l’inizio della Seconda Intifada in Palestina, migliaia di egiziani

cominciano a scendere nelle piazze per manifestare la propria solidarietà con i palestinesi. Le

manifestazioni cominciarono a delineare dei caratteri di protesta anti governativa, nonostante

quello del Presidente Mubarak fosse ancora un argomento tabù, e benché fossero pacifiche

furono ugualmente disperse dalla polizia. Era dal 1977, anno della rivolta del pane, che delle

manifestazioni di tale portata non scuotevano le piazze egiziane. E’ nel 2002, ancora ad

iniziative a sostegno del popolo palestinese, che si iniziano a sentire i primi slogan contro

Mubarak, più precisamente i manifestanti paragonavano il presidente egiziano a quello

israeliano, Ariel Sharon, denunciando i rapporti di amicizia tra Egitto e Israele. I contrasti tra la

piazza e il governo diventarono sempre più aspri. Nel 2003, subito dopo l’inizio della guerra in

Iraq, violenti scontri si accesero tra polizia e dimostranti per le strade de Il Cairo. I manifestanti

21 Alcuni esempi sono: il liberale el-Wafd, il socialdemocratico Tagamma e il nasseriano el-Karama.

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in quell’occasione riuscirono ad occupare piazza Tahrir, qui si palesò lo scollamento che stava

avvenendo tra le piazze egiziane e il presidente, infatti, durante l’occupazione della piazza,

venne dato alle fiamme un cartellone con l’immagine di Mubarak. In pochi anni si passò dal

sussurrare il nome del presidente e le critiche al suo governo al compiere pubblicamente atti di

disprezzo verso le autorità e al superare la paura delle ritorsioni e della repressione. Un’altra

tappa importante nel processo di crescita del dissenso in Egitto è stata la creazione del

movimento politico Kefaya22. Questa piattaforma politica aveva dei connotati chiaramente

anti regime. La sua attività si concretizzava nella denuncia della corruzione, della scarsa

democratizzazione delle istituzione e degli stretti rapporti economici e diplomatici con Israele

e Stati Uniti. Il ruolo fondamentale giocato da questo movimento politico è stato quello di

smuovere ulteriormente le coscienze degli egiziani, sempre più sfiduciati dal governo e dai

partiti tradizionali. E’ stata importante la capacità di Kefaya di utilizzare i mezzi di

comunicazione per diffondere le proprie idee. In particolare, a questo scopo, è stato fatto un

abbondante utilizzo di internet e dei social network. Grazie al sapiente utilizzo dei mezzi di

comunicazione è stato possibile diffondere, nelle case degli egiziani, i video degli attivisti del

movimento che portavano striscioni e cantavano cori ricchi di slogan antigovernativi che solo

qualche anno prima era impensabile poter sentire pubblicamente. Il 2006 segna, in Egitto, il

risveglio delle classi subalterne del paese e rappresenta una tappa fondamentale del processo

che porta alla rivoluzione partita nel gennaio 2011. La repressione del regime e le misure

economiche di stampo neoliberista volute dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca

Mondiale avevano completamente anestetizzato le lotte dei lavoratori. La ripresa delle lotte

avvenne con lo sciopero di Mahalla, città in cui è posizionato il più grande polo industriale

tessile del Medio Oriente. Le istanze e le azioni dei lavoratori di Mahalla ebbero un’importante

copertura da parte dei mezzi di comunicazione. In tutto il paese gli altri lavoratori potevano

vedere come quei lavoratori del tessile stessero portando avanti la propria lotta. Quando lo

scioperò risultò efficace e vincente si scatenò un effetto domino all’interno del paese. Infatti,

anche altri operai, di altre industrie, prendendo esempio da ciò che avevano potuto vedere in

tv, iniziarono a protestare per chiedere gli stessi diritti che gli operai di Mahalla erano riusciti a

conquistare. La vittoria dello sciopero e le immagini trasmette in tv e su internet innescarono

un processo che scosse profondamente le fondamenta del paese. I lavoratori ricominciarono

22 Il movimento nasce nel 2004 grazie alla spinta di attivisti propalestinesi ed esponenti della società civile.

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ad utilizzare lo strumento sciopero e altre forme di lotta per rivendicare i proprio diritti, senza

la paura delle ripercussioni e della repressione del regime. La città di Mahalla è stato uno degli

epicentri del dissenso in Egitto. Qui, nel 2008, è scoppiata una rivolta popolare contro

l’aumento del prezzo del pane. Le manifestazioni di quei giorni ebbero un grosso sostegno

anche dal web. Giovani della classe media cairota e alessandrina, molti disillusi fuoriusciti dal

movimento Kifaya, guidati da un ingegnere civile, di nome Ahmed Maher, diedero vita al

movimento 6 Aprile, che è la data dell’indizione dello sciopero generale a Mahalla,

sperimentando il ruolo dei social network nell’organizzazione di una manifestazione. Il

movimento rilanciò, dalla sua pagina Facebook, un flashmob a Il Cairo in sostegno allo

sciopero dei lavoratori del tessile. La partecipazione non fu particolarmente numerosa, ma le

forze di polizia approfittarono dell’occasione per arrestare Israa Abdel Fattah, l’admin della

pagina Facebook del movimento 6 Aprile. Se, prima, il movimento Kifaya aveva rotto il tabù

del dissenso pubblico mostrando che si può scendere nelle strade e urlare che il popolo

egiziano ne ha abbastanza del Presidente Mubarak, in quel momento, il movimento 6 Aprile

ha dimostrato come il web 2.0 sia uno spazio importante per l’organizzazione di quel dissenso

pubblico. Le manifestazioni, a Mahalla, furono duramente represse dalle forze di polizia e,

durante gli scontri con i manifestanti, si registrano anche alcune vittime. La gente scesa in

piazza durante questa cosiddetta “intifada di Mahalla” contestava apertamente il regime

distruggendo i simboli del Partito nazionale democratico e le immagini del Presidente

Mubarak. Quanto è avvenuto può essere considerato come una prova generale delle proteste

di massa che hanno invaso il paese nel 2011. Le elezioni per il rinnovo del Parlamento, nel

2010, hanno visto la vittoria del partito di Mubarak. La vittoria fu duramente contestata, anche

in questo caso i cittadini egiziani scesero in piazza e non era difficile, nella capitale, trovarsi di

fronte, quasi tutti i giorni, a scioperi, picchetti, sit-in e dimostrazioni di rabbia verso il regime.

Nonostante l’attenzione della polizia segreta nello scovare i nemici del regime e nel mettere a

tacere il dissenso, la rabbia verso il governo aumentava e questo lo si percepiva nella vita di

strada delle città egiziane dove sempre più spesso, nelle conversazioni in privato, si potevano

sentire le critiche a Mubarak. Il dissenso pubblico rimaneva nelle mani di militanti politici,

attivisti di Organizzazioni Non Governative e mediattivisti che utilizzavano blog e social media

per diffondere le proprie critiche. Le manifestazioni, a parte alcune eccezioni, erano per la

maggior parte poco partecipate e si limitavano ad azioni simboliche che spesso terminavano

con il circondamento degli attivisti da parte della polizia. Per molto tempo il timore della

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repressione ha bloccato l’esplosione della rabbia popolare. Se si tiene presente questa scarsa

disponibilità al dibattito critico della piazza pubblica egiziana, allora si può capire come

Internet e, soprattutto, Facebook siano diventati degli strumenti tanto importanti ed utilizzati

dai giovani egiziani. Infatti, la piattaforma permette di poter creare uno pseudonimo per poter

svicolare dalle attenzioni delle autorità e dei censori e, allo stesso tempo, poter avanzare ogni

tipo di critica nei confronti del regime. Dal 2005 al 2010, in Egitto, il tasso di penetrazione della

rete internet nel paese è cresciuto dal 9% al 24%23, questi sono dati non particolarmente alti se

confrontati con i paesi occidentali, ma mostrano la grande crescita d’importanza che il web ha

avuto in questi anni. Internet non fu posto a censura dal regime che si era impegnato, con i

propri alleati occidentali, a promuovere una serie di politiche sulle libertà individuali e

collettive. Questa situazione creò terreno fertile per gli oppositori del regime che iniziarono a

creare blog dove postavano le proprie critiche a Mubarak. Le contromisure del governo si

mossero su due piani: da una parte i blogger nemici del regime venivano spesso accusati dalla

polizia e arrestati, dall’altra parte il Partito Nazionalista Democratico organizzò al proprio

interno un comitato che si occupasse di monitorare la rete e il governo sponsorizzò alcuni

blogger e utenti di Facebook perché condividessero dei post a favore del regime.

Il processo di erosione dell’autorità di Mubarak e del suo partito è durato circa dieci anni. I

problemi strutturali dell’Egitto (la scarsa democratizzazione, l’immobilismo politico, l’alto

tasso di corruzione, la disoccupazione giovanile, l’aumento dei prezzi di prima necessità),la

violenta repressione del dissenso da parte delle forze di polizia e il ruolo di Al Jazeera e dei

social media nel mostrare le immagini delle rivolte tunisine che sono state da esempio per

l’Egitto hanno portato gli egiziani a scavalcare ogni timore fino allo scoppio della rivoluzione, il

25 gennaio 2011, che ha portato alla destituzione di Mubarak.

We are all Khaled Said

Il 6 6iugno del 2010, Khaled Said, un giovane blogger alessandrino di 28 anni, fu trascinato

fuori da un internet caffè da due agenti della polizia segreta e picchiato a morte per strada da

questi per aver pubblicato su internet un video in cui si vedono le immagini di alcuni poliziotti

implicati in un affare di droga. Le immagini del volto del giovane, sfigurato dal pestaggio,

23 Dati contentuti in Gerbaudo 2012

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fecero il giro del web dando l’ennesima prova del regime repressivo e del clima di terrore

instaurato dalla polizia di Mubarak. L’onda emozionale colpì la rete, molti blogger

cominciarono a scrivere degli

articoli che denunciavano

l’accaduto, mentre su Facebook

nascevano pagine di solidarietà, tra

queste c’era: “We are all Khaled

Said24” che divenne subito un punto

di ritrovo virtuale importante per i

giovani egiziani anti regime ed ebbe

un ruolo importante nello sviluppo

della coscienza politica di molti. Già

dal primo giorno online la pagina

registrò trentaseimila likes, questo

la fece diventare lo spazio di

riferimento per gli attivisti anti

regime che si raccoglievano sul

web. Mustafa Shamaa, giovane

studente universitario de Il Cairo racconta come il suo interesse politico sia nato dopo essersi

unito alla pagina Facebook: << Era l’estate del 2010 e non ero particolarmente interessato alla

politica. Stavo leggendo le notizie e capitava che scrivessi qualcosa su Facebook. Ma tutto qui.

Non mi interessavo molto di politica. Poi è stata pubblicata la pagina su Khaled Said e si è

diffusa molto velocemente. Un mio amico mi mandò l’invito… così ho iniziato a leggere le

notizie e interessarmi a quello che stava avvenendo nel mio paese>> (Gerbaudo 2012 pag. 54).

Così come per Mustafa Shamaa, anche per molti altri giovani egiziani le pagine Facebook che

si crearono dopo l’episodio di Khaled Said contribuirono ad avvicinare molti giovani alla vita

politica del paese.

24 Le versioni ufficiali indicano Wael Ghonim, dirigente di Google e attivista, come il creatore e amministratore della pagina Facebook. Questo nonostante egli stesso neghi. Infatti, ufficialmente la pagina è amministrata dallo pseudonimo “elshaheed” (il martire), e la stessa pagina, ad oggi, scrive di non rappresentare la famiglia di Khaled Said e di non essere amministrata dal dirigente di Google, residente a Dubai.

Figura 7.3 Questa vignetta di Carlos Latuff mostra Khaled Said, che indossa una felpa con l’hashtag della rivoluzione #JAN25, mentre tiene nella propria mano il Presidente Hosni Mubarak. Fonte:http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/f/f8/Khaled_Mohamed_Saeed_holding_up_a_tiny,_flailing,_stone-faced_Hosni_Mubarak.png

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Gran parte del merito per il successo che la pagina ha avuto va dato alle conoscenze e agli

studi di Wael Ghonim che da esperto del web ha saputo sponsorizzare la propria pagina e

usarla come strumento per le mobilitazioni di strada. Una caratteristica fondamentale è stata

quella di un linguaggio semplice e di un utilizzo massiccio di materiale multimediale per poter

così attirare anche quella fetta di popolazione non politicizzata e di bassa alfabetizzazione. Un

altro punto importante è stato l’utilizzo, nello scrivere i post su Facebook, della prima persona,

come se fosse lo stesso Khaled Said, dalla tomba, a scrivere i propri pensieri. Questo ha

contribuito a creare l’immaginario dell’esempio, del martire e dell’eroe. In particolare, questo

processo è entrato in atto per la giovane classe media egiziana che poteva totalmente

riconoscersi nella vittima ed esclamare: “potevo essere io”. La comunità creatasi attorno a

questa pagina ha mostrato come il regime di Mubarak non fosse così forte come lo si credeva

e ha segnato un importante passo verso la liberazione dalla paura della repressione delle forze

di polizia. We are all Khaled Said divenne il punto di incontro dove si poteva dire tutto ciò che

non andava del governo di Mubarak. In un primo momento il nemico comune venne

individuato nella polizia che rappresentava tutto ciò che di male c’era nel regime. Si unirono gli

ultras che criticavano le forze dell’ordine per i frequenti scontri fuori dagli stadi, i giovani che

puntualmente ricevevano soprusi ed erano testimoni di abusi di potere, gli autisti di microbus

che erano spesso soggetti a multe che andavano ad aumentare i salari dei poliziotti. Inoltre

cominciarono ad essere pubblicati sulla pagina diversi video delle torture compiute dalle forze

dell’ordine. Non è un caso che la rivoluzione scoppiò proprio il 25 gennaio, questa era infatti la

giornata preposta alle celebrazioni delle forze di polizia, in questo giorno convogliarono in

piazza tutte quelle persone che sia a bassa voce nei bar delle città o all’interno della comunità

del web si erano dimostrate stufe degli abusi della polizia di Mubarak.

In un primo momento, attraverso la pagina, gli organizzatori rilanciarono alcuni flashmob nelle

città egiziane. Queste manifestazioni simboliche e pacifiche mostrarono la partecipazione di

poche centinaia di persone rispetto ai numeri ben maggiori di aderenti all’evento ufficiale su

Facebook. Questo dimostra come non sia automatico, per i movimenti che utilizzano i social

network per diffondere le proprie idee e le proprie iniziative, il passaggio da adesione virtuale

a reale. Nonostante questo, fu una prima prova di come sia possibile far scendere in piazza

delle persone partendo da una mobilitazione virtuale. La decisione di organizzare una

manifestazione di piazza proprio il 25 gennaio fu presa autonomamente da Wael Ghonim.

Quando questi propose l’idea alla comunità della pagina Facebook, questa rispose

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positivamente ma non era particolarmente entusiasta. La situazione cambiò decisamente

quando la stessa proposta venne rilanciata all’indomani della fuga del dittatore tunisino Ben

Ali e venne accolta con particolare entusiasmo dalla comunità web. Quando, su Facebook, fu

creato l’evento ufficiale della manifestazione del 25 gennaio (contro torture, povertà,

corruzione e disoccupazione), la pagina raggiunse, quattro giorni prima delle proteste, i

centomila partecipanti, e molti altri si sarebbero aggiunti in seguito. Molti, però, annunciarono

sul web la propria partecipazione ma solamente in maniera simbolica, come gesto di

solidarietà verso i manifestanti. Il timore della repressione e la sfiducia reciproca tra utenti dei

social network costituiva un grosso ostacolo alla riuscita della manifestazione. Conscio di un

rischio flop, Wael Ghonim, attraverso la pagina We are all Khaled Said, pubblicò diversi appelli

provocando e giocando sull’orgoglio degli egiziani e della cosiddetta “generazione Facebook”,

capace solamente di commentare e mettere “mi piace” ai post ma non abbastanza coraggiosa

da scendere in piazza. Poche ore prima della manifestazione sulla pagina comparse un post

che sapeva di sfida generazionale: << Oggi proveremo che noi non siamo i ragazzi di

“commenta e metti mi piace” come dicono. Noi siamo realtà sulla terra, stiamo chiedendo i

nostri diritti e parteciperemo tutti>> (Gerbaudo 2012 pag. 63).

L’organizzazione della manifestazione del 25 Gennaio e, in seguito, dei successivi 18 giorni di

rivoluzione, non si è svolta solamente su Facebook. Fu necessario un lavoro parallelo nelle

strade per pubblicizzare il corteo. Nonostante l’indice di penetrazione di internet non tenga

conto del grande utilizzo che in Egitto si fa degli internet caffè, sono ancora molte le persone

che non si connettono in rete e che, quindi, dovevano essere informate a voce. Inoltre, molto

importante fu il lavoro svolto nelle strade dai militanti politici per cercare di unire i diversi

gruppi dell’opposizione. In questo frangente la funzione della pagina di Wael Ghonim divenne

quella di megafono. Attraverso Facebook venivano comunicate le decisioni prese dalle

assemblee e dagli attivisti nelle strade. Se i social network sono stati determinanti per

l’organizzazione e la comunicazione alla vigilia del 25 gennaio, quando è definitivamente

scattato il meccanismo della rivoluzione, il ruolo fondamentale è stato giocato dalla

comunicazione faccia a faccia. Se i giovani digitalizzati della classe media egiziana sono stati la

scintilla di questa rivoluzione, i giovani delle classi subalterne ne sono stati la benzina. Questi

potevano essere raggiunti esclusivamente attraverso la propaganda in strada, tenendo

considerato che i tre quarti della popolazione egiziana non ha un accesso ad internet. Coloro

che erano stati mobilitati attraverso i social network ebbero la capacità di coinvolgere la loro

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rete di conoscenze. Inoltre, quando le proteste partirono, fu importante la penetrazione nei

quartieri popolari e l’uso di un linguaggio semplice, agibile anche ai meno alfabetizzati ma che,

comunque, sentivano l’oppressione del regime. Se nei primi giorni nella composizione sociale

dei cortei spiccava maggiormente la presenza della classe media egiziana, dal 28 gennaio in

poi si può dire che tutto l’Egitto, anche le classi sociali meno abbienti, sia sceso in piazza per

protestare contro il tiranno Hosni Mubarak. Inoltre, il 28 Gennaio, Wael Ghonim fu arrestato

dalle forze di polizia egiziane25. Il movimento anti Mubarak, pur essendo bene organizzato, era

diviso in diverse anime che non riconoscevano un’unica figura di spicco. L’arresto trasformò

Ghonim nel leader e nell’emblema dietro il quale si poté riunire tutto il malcontento e la rabbia

che gli strati popolari stavano portando in piazza.

Se è vero che la rabbia popolare in Egitto sarebbe esplosa anche senza Facebook, benché

questo abbia avuto un ruolo sicuramente importante, lo stesso si può dire, a maggior ragione,

dell’altro social network che viene sempre citato quando si parla delle rivoluzioni del 2011:

Twitter. Il numero di iscritti, in Egitto, su Twitter è molto inferiore rispetto a quelli di

Facebook. L’uso di questo social network è strettamente legato al fatto di possedere uno

smartphone. I cellulari di ultima generazione sono una merce fuori dalla portata della maggior

parte della popolazione egiziana. Inoltre, l’uso di Twitter presuppone un alto livello di

scolarizzazione in quanto è pressoché necessario un buon livello di conoscenza della lingua

inglese per comunicare con la comunità virtuale. Infatti, durante i 18 giorni della rivoluzione, i

tweet che contenevano notizie e materiale multimediale dalle piazze, che si raccoglievano

attorno agli hashtag #Jan25, #Egypt, #Tahrir, erano per la maggior parte scritti in inglese.

Solo dopo la caduta di Mubarak e l’incremento di popolarità avuto da Twitter, gli attivisti

cominciarono a scrivere dei tweet anche in arabo. Il ruolo principale giocato da questo social,

durante le proteste, è stato quello di collegamento con l’esterno. Durante le giornate della

rivoluzione alcuni account hanno raggiunto una certa popolarità, tanto da diventare dei punti

di riferimento, con i loro racconti e le loro notizie, per gli attivisti in giro per il mondo solidali

con la causa egiziana e per i giornalisti che, a causa della censura, non potevano ricevere

notizie di prima mano da altre fonti. Oltre a questo il social network ha coperto un ruolo

importante dal punto di vista tattico. Twitter è stato usato durante gli scontri con la polizia per

25 Con l’andare avanti delle proteste il dirigente di Google decise di tornare in Egitto da Dubai; la repressione non si lasciò sfuggire l’occasione di arrestare chi, materialmente, era tra i maggiori fomentatori e organizzatori delle manifestazioni antigovernative in corso nel paese.

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segnalare agli attivisti quali strade e quali piazze potessero essere percorse e quali, invece,

erano già occupate dalle forze dell’ordine. Oltre a questo, poteva essere utilizzato per

segnalare di cosa la gente in piazza avesse bisogno, durante gli scontri di Mohammed

Mahmoud street (in quest’occasione 70 persone persero la vita) gli attivisti sul campo

lanciarono l’hashtag #TahrirNeeds per segnalare di quale materiale e di quali medicine ci fosse

bisogno in quel momento.

Censura

<< Il 28 gennaio è stato il primo giorno in cui noi egiziani abbiamo dovuto affrontare per la

prima volta il totale blackout delle comunicazioni. L’accesso alla messaggistica e a internet era

stato ridotto fin dalla notte precedente. Dalle 6 del mattino, sono stati sospesi tutti i servizi di

telecomunicazione, lasciandoci completamente al buio>> Tarek Shalaby, blogger egiziano

(AA. VV. 2011 pag. 56).

Nella nottata del 27 gennaio il governo di Mubarak prese una decisione senza precedenti nel

tentativo di creare un argine alla ribellione che si stava diffondendo in tutto l’Egitto, decise di

staccare la rete internet e

quella telefonica in tutto

il paese. Il 28 gennaio

mattino nessuno dei

maggiori provider

funzionava e anche le

maggiori reti telefoniche

risultavano inutilizzabili.

Liberandosi dalle colpe, il

governo accusò

ufficialmente una serie di problemi infrastrutturali come la causa del quasi totale blackout che

il paese stava vivendo. Soltanto un piccolo provider, Noor Data Networks, utilizzato

prevalentemente dalle banche e da altri attori finanziari, rimase attivo. Questo permise ad

alcuni giornali di poter comunque collegarsi e aggiornare il resto del mondo su ciò che

avveniva in Egitto. Il governo, in questo modo, sperava di poter fermare le manifestazioni

intaccando il meccanismo di organizzazione di queste e aumentando il tiro della repressione.

Nonostante un primo momento di disorientamento vissuto dal movimento rispetto all’azione

Figura 3.4 La tabella sul traffico internet egiziano mostra il blackout voluto dal governo. Fonte:http://www.google.com/transparencyreport/traffic/explorer/?r=EG&l=EVERYTHING&csd=1294957800000&ced=1297377000000

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del regime, era la prima volta che questo spegneva internet nel paese, si era ormai innescato

un meccanismo per cui la gente continuava a scendere in strada e a raggiungere piazza Tahrir.

Addirittura, dopo la mossa del governo, ancora più gente decise di rispondere scendendo in

strada a manifestare. Il centro organizzativo delle proteste si spostò dal non luogo virtuale dei

social network a piazza Tahrir che venne occupata dai manifestanti e dove venne allestito un

sit in permanente. Uno dei fattori che aumentò la presenza in piazza in queste giornate fu la

presa di coscienza delle falsità che il governo diffondeva attraverso i media di Stato. Infatti, la

versione del regime negava le proteste di massa nel paese, ma se questo fosse stato vero non

ci sarebbe stato nemmeno bisogno di bloccare la linea internet. Questo atteggiamento di

negazione delle mobilitazione fece arrabbiare molti egiziani che, ancora di più, decisero di

prendere parte alle manifestazioni. Inoltre, per molti, non poteva resistere una rivoluzione che

venisse organizzata prevalentemente attraverso i social network, il blocco della rete ha, in

qualche modo, reso le proteste “reali” e non solo virtuali. In definitiva, la scelta di chiudere

internet ha permesso una maggiore importanza dei rapporti faccia a faccia e il rafforzamento

del movimento rivoluzionario. Il blocco della rete deciso dal regime si è totalmente ritorto

contro a questo e ha aumentato di molto i numeri dei cortei e dei presidi. Questa scelta ha

impedito a molti egiziani di rimanere, semplicemente, dei sostenitori virtuali della rivoluzione

e li ha obbligati a prendere “fisicamente” parte. Molti, durante quelle giornate, raggiunsero

piazza Tahrir per poter comunicare con i propri parenti e conoscenti e per vedere come

stavano questi, in questo modo la presenza in piazza si fece sempre più massiccia. A proposito

di questo meccanismo, sempre il giovane studente Mustafa Shamaa racconta: << Alcuni dei

miei amici si unirono alle proteste perché i telefoni erano fuori uso e non potevano mettersi in

contatto con i propri fratelli e sorelle. Così vennero alle manifestazioni per cercarli e fecero

salire i numeri. Conosco molte persone che hanno fatto così… mio cugino per esempio venne

alle proteste per cercare me. Questo ha effettivamente fatto la differenza>> (Gerbaudo 2011

pag. 69). Il blocco di internet ha spostato il dibattito dalla rete, luogo frequentato per la

maggior parte dalla classe media egiziana, alle strade dove anche i giovani delle classi

subalterne hanno potuto effettivamente giocare un ruolo fondamentale nella rivoluzione.

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CONCLUSIONE

I giornalisti che nel 2011 descrivevano con entusiasmo le piazze del mondo piene di attivisti

hanno contribuito a fare di quei movimenti dei veri e propri simboli dell’azione collettiva anti

governativa. L’impatto di quelle proteste in Europa e negli Stati Uniti è stato pressoché nullo.

E’ fallita la speranza di creare un movimento transnazionale, allargato e partecipato da diversi

strati della società, che andasse a contestare i soggetti indicati come causa della crisi

economica. Gli unici effetti visibili oggi in Europa sono dovuti all’istituzionalizzazione di una

parte di quei movimenti. Il primo partito greco e il partito che oggi viene indicato come

favorito in Spagna, Syriza e Podemos, sono figli delle proteste anti austerity scoppiate nel

2011.

Con ancora più entusiasmo venivano viste e raccontate le rivolte della Primavera Araba. Il

rovesciamento di regimi autoritari pluridecennali veniva letto come il primo passo del

processo di democratizzazione della penisola araba. La verità è che, ad oggi, quella zona è

tutt’altro che pacificata o stabilizzata. Nel grande calderone delle primavere arabe sono state

paragonate situazioni che in realtà si sono dimostrate molto differenti tra loro. Non è possibile

paragonare le esperienze egiziane o tunisine con quelle libiche o siriane. Inoltre la già precaria

situazione della regione viene oggi ulteriormente scossa dalle mire espansionistiche del nuovo

soggetto politico dell’area e cioè l’ISIS. Proprio il Califfato di al-Baghdadi è nato e ha mosso i

suoi primi passi all’interno di alcuni movimenti armati anti governativi che hanno combattuto

in Siria o in Libia.

L’instabilità caratterizza anche la situazione egiziana post Mubarak. Il colpo di stato militare

guidato da al-Sisi dimostra come sia stata la controrivoluzione ad uscire vittoriosa dal contesto

egiziano. Nonostante questo, la situazione è tutt’altro che pacificata. Molti dei militanti che

hanno lottato e che si sono formati politicamente all’interno delle giornate di rivolta del 2011

continuano a far sentire la propria voce nelle strade e sui social network (nell’hashtag

#anticoup si raccolgono le immagini e i racconti di chi protesta contro il colpo di stato e contro

il governo di al-Sisi). Le odierne manifestazioni sono di tutt’altra intensità rispetto a quelle del

2011 ma non sono scomparse. Sono invece scomparse dalle narrazioni dei media mainstream.

Il governo di al-Sisi ha conquistato la legittimità politica internazionale e viene visto come uno

degli ultimi argini all’avanzata dell’ISIS. Fare dell’Egitto un alleato dell’occidente potrebbe

essere il motivo per cui i media internazionali evitano di rilanciare gli episodi di repressione e

violenza da parte della polizia egiziana. C’è solo un episodio recente che ha mostrato quel

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meccanismo ponte di cui parlo in questa tesi. L’episodio è quello dell’uccisione, da parte delle

forze dell’ordine, di Shaimaa El-Sabbagh militante socialista. I video e le immagini riprese dai

cellulari e postate sui social network ebbero un forte impatto emotivo capace di penetrare i

media mainstream internazionali che da tempo avevano messo da parte la situazione

egiziana.

Due studiose inglesi, Anne Alexander e Miriyam Aouragh, hanno analizzato in che modo i 18

giorni della rivoluzione che ha destituito Mubarak hanno influito sul modo di comunicare dei

movimenti socialisti egiziani. Secondo le due studiose l’esperienza rivoluzionaria avrebbe

determinato nuove esigenze a livello comunicativo. Per questo i movimenti hanno tentato,

sempre di più, di distaccarsi dai vecchi mezzi di comunicazione per avvicinarsi maggiormente

ai social media e autogestirsi la divulgazione delle proprie notizie. Questo è stato possibile

anche grazie alla crescita esponenziale, partita dopo le rivolte del 2011, dell’uso dei social

network. Dopo il 2011, la regione Araba è la regione che maggiormente ha contribuito alla

crescita di utenti dei social media. Dopo la cacciata di Mubarak l’ambiente virtuale ha

cominciato a rispecchiare le divisioni interne al movimento. Mentre prima il web era

esclusivamente uno strumento del fronte anti regime, in seguito è diventato anche strumento

controrivoluzionario. Infatti, chi ha preso il potere dopo Mubarak (Morsi prima e in seguito al-

Sisi) aveva vissuto la Rivoluzione e conosceva le potenzialità dei social che così sono diventati

terreno di scontro tra le diverse anime del movimento.

La caduta del regime ha concesso un maggior spazio d’azione alle organizzazioni dei

lavoratori. A questo va sommato il fatto che i 18 giorni della prima fase della Rivoluzione

hanno avvicinato molte persone all’azione politica e sindacale. In questo contesto va letta la

grande crescita, in termini di numeri, che i movimenti organizzati dei lavoratori hanno avuto.

Questo ha fatto nascere la necessità di sperimentare nuove forme di comunicazione per

portare avanti la propaganda. L’esperienza fatta con i social network durante la Rivoluzione è

risultata positiva, questo ha permesso di distaccarsi dai media tradizionali per ricorrere invece

a mezzi comunicativi autoprodotti e autogestiti. L’ambiente politico e quello virtuale si sono

influenzati a vicenda nel corso degli anni, questo ha determinato dei grandi cambiamenti nelle

strutture politiche che oggi reputano tradite le speranze di piazza Tahrir e che lavorano per un

Egitto realmente libero e democratico. Le organizzazioni dei lavoratori, dopo l’esperienza del

2011, hanno capito quanto può essere importante dotarsi di videocamere e smartphone per

poter filmare le proprie azioni e per poter fare del web un campo di battaglia dove sfidare il

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regime militare di al-Sisi e il quasi totale silenzio dell’informazione internazionale. La sfiducia

nei confronti dei media tradizionali e la necessità di sostituirsi a questi ha trasformato la

pratica del giornalismo in una pratica rivoluzionaria.

Le nuove tecnologie e il web 2.0 hanno cambiato e stanno cambiando il mondo della

comunicazione. I movimenti sociali hanno sfruttato questa situazione per aprirsi una finestra e

poter entrare nei notiziari di tutto il mondo. Oltre a questo hanno fatto dei social media un

terreno di scontro in cui sfidare la forza statuale. Il 2011 ha rappresentato la grande ripresa

dell’azione collettiva, agevolata anche dai nuovi strumenti sociali. Mentre la grande crisi

economica apre di continuo nuovi spazi di conflittualità, vedremo se i social media torneranno

a ricoprire un ruolo importante all’interno di mobilitazione di massa o se i movimenti

abbandoneranno questo mezzo di comunicazione perché troppo vulnerabile alla censura e alla

repressione.

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BIBLIOGRAFIA

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