Vocabolario etimologico SOMMARIO romagnolo

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La ludla 1 Gilberto Casadio Vocabolario etimologico romagnolo La collana della “SchĂŒrr” Tradizioni popolari e dialetti di Romagna si Ăš quest’anno arricchita di una nuova unitĂ : la settima da quando fu varata nel 2001. E si tratta di un’opera che si ri- volge, stavolta, a quel versante della collana – i dialetti di Romagna – finora meno coltivato delle “tradizioni”. Sempre con l’apporto della Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna, sempre insieme a «La Mandragora» di Imola, sempre sotto lo sguardo benevolo ma attento e severissimo di Giuseppe Bellosi, Ăš nato questo vocabolario etimologico, il primo realizzato in Romagna, e il merito va a Gilberto Casadio, redattore “storico” della «Ludla», che i lettori da tempo conoscono e apprezzano per i suoi articoli, nonchĂ© per la rubrica Appunti di grammatica storica del dialetto romagnolo che giunge in questo numero alla XXV puntata; a riprova che la nostra Associazione, anche sul piano scientifico, cerca di onorare il nome di quel Friedrich SchĂŒrr che ottativamente fu preso ad eponimo nel 1996. L’opera raccoglie un migliaio di etimologie romagnole, selezionate sulla base del loro interesse dal punto di vista fonetico o semantico. Sono perciĂČ registrate solo le voci dialettali che si discostano in maniera sensibile dai loro corrispettivi nella lingua nazionale o per l’ùtimo o per l’evoluzione fonetica. Sono cioĂš esclusi quei termini dei quali Ăš facile rintracciare l’etimologia attraverso il loro corrispondente italiano, consultando la parte etimologica di un qualsiasi buon dizionario. Pur non trattandosi quindi di un vocabolario completo, i criteri di selezione suesposti fanno sĂŹ che gli oltre mille lemmi etimologizzati coprano di fatto un’alta percentuale dell’intero patrimonio [continua a pagina 7] SOMMARIO p. 2 Intervista a Cino Pedrelli rilasciata a Radio Cesena negli anni ’70 p. 4 L’ù mĂŽrt Riflessione sulla stato del dialetto romagnolo di Maurizio Balestra p. 5 “Al Bon fĂ«st” ad Ferdinando Pelliciardi e ad Sergio Celetti p. 6 Due inediti di Tolmino Baldassari di L. Mariani e G. Zaccherini p. 8 BĂągn ad NadĂȘl di Antonio Sbrighi (Tunaci) p. 9 Gli auguri di Mafalda e Gianni Fucci Al ĆŸanĆŸarĂ uni di Rino Salvi p. 10 Appunti di grammatica storica del dialetto romagnolo - XXV Rubrica di Gilberto Casadio p. 11 Parole in controluce Rubrica di Addis Sante Meleti p. 12 De ’44, al Tor de’ MĆŸĂąn di Pier Giorgio Bartoli p. 13. “E’ PatĂšr di lulot” di Giuseppe Galli p. 14 Minghin e la Piligrena di Gianfranco Camerani p. 16 E’ NadĂšl ch’l’à prissia di Leo Maltoni «SocietĂ  Editrice «Il Ponte Vecchio» – Anno XII – Dicembre 2008 – n. 10

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La ludla 1

Gilberto Casadio

Vocabolario etimologico romagnolo

La collana della “SchĂŒrr” Tradizioni popolari e dialetti di Romagna si Ăš quest’anno arricchita di una nuova unitĂ : la settima da quando fu varata nel 2001. E si tratta di un’opera che si ri-volge, stavolta, a quel versante della collana – i dialetti di Romagna – finora meno coltivato delle “tradizioni”. Sempre con l’apporto della Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna, sempre insieme a «La Mandragora» di Imola, sempre sotto lo sguardo benevolo ma attento e severissimo di Giuseppe Bellosi, Ăš nato questo vocabolario etimologico, il primo realizzato in Romagna, e il merito va a

Gilberto Casadio, redattore “storico” della «Ludla», che i lettori da tempo conoscono e apprezzano per i suoi articoli, nonchĂ© per la rubrica Appunti di grammatica storica del dialetto romagnolo che giunge in questo numero alla XXV puntata; a riprova che la nostra Associazione, anche sul piano scientifico, cerca di onorare il nome di quel Friedrich SchĂŒrr che ottativamente fu preso ad eponimo nel 1996. L’opera raccoglie un migliaio di etimologie romagnole, selezionate sulla base del loro interesse dal punto di vista fonetico o semantico. Sono perciĂČ registrate solo le voci dialettali che si discostano in maniera sensibile dai loro corrispettivi nella lingua nazionale o per l’ùtimo o per l’evoluzione fonetica. Sono cioĂš esclusi quei termini dei quali Ăš facile rintracciare l’etimologia attraverso il loro corrispondente italiano, consultando la parte etimologica di un qualsiasi buon dizionario. Pur non trattandosi quindi di un vocabolario completo, i criteri di selezione suesposti fanno sĂŹ che gli oltre mille lemmi etimologizzati coprano di fatto un’alta percentuale dell’intero patrimonio

[continua a pagina 7]

SOMMARIO p. 2 Intervista a Cino Pedrelli rilasciata a Radio Cesena negli anni ’70

p. 4 L’ù mîrt Riflessione sulla stato del dialetto romagnolo di Maurizio Balestra

p. 5 “Al Bon fĂ«st” ad Ferdinando Pelliciardi e ad Sergio Celetti

p. 6 Due inediti di Tolmino Baldassari di L. Mariani e G. Zaccherini

p. 8 BĂągn ad NadĂȘl di Antonio Sbrighi (Tunaci)

p. 9 Gli auguri di Mafalda e Gianni Fucci

Al ĆŸanĆŸarĂ uni di Rino Salvi

p. 10 Appunti di grammatica storica del dialetto romagnolo - XXV Rubrica di Gilberto Casadio

p. 11 Parole in controluce Rubrica di Addis Sante Meleti

p. 12 De ’44, al Tor de’ MĆŸĂąn di Pier Giorgio Bartoli

p. 13. “E’ Patùr di lulot” di Giuseppe Galli

p. 14 Minghin e la Piligrena di Gianfranco Camerani

p. 16 E’ Nadùl ch’l’à prissia di Leo Maltoni

«SocietĂ  Editrice «Il Ponte Vecchio» – Anno XII – Dicembre 2008 – n. 10

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2 la Ludla

Il testo che segue ù desunto da un’in-tervista rilasciata da Cino Pedrelli verso la metà degli anni ‘70 a Radio Cesena, che tuttavia non la trasmise mai, nono-

stante il grande interesse che presenta Domanda 1. Quando Ăš diventato poeta dialettale? Risposta. Posso dire di essermi incon-trato con la poesia dialettale roma-gnola in due momenti distinti. Il primo incontro prende il nome da Bruchin e risale, all’incirca, al 1930, cioĂš al momento in cui stavo per fini-re il liceo. Affascinato dalla freschezza e dalla vivacitĂ  di quegli ottonari, di quel vernacolo, feci allora le mie pri-me prove di scrittura, in chiave natu-ralmente satirica, ad uso dei miei “compagneros”, studenti e non stu-denti. Diciamo che fu un qualcosa di goliardico (o di semigoliardico), fine a se stesso. Non vidi, cioĂš, in allora, la possibilitĂ  che il dialetto offriva per lo sviluppo di altre e piĂč varie temati-che. Poi c’ù stato il secondo incontro, quello determinante. E questo prende nome da Spallicci. Non avvenne in Romagna. Avvenne a Napoli, in una stanza di o-spedale militare, dove mi trovavo rico-verato, alla fine del 1941, reduce, con qualche osso rotto, dalla guerra in Afri-ca settentrionale. Per ringraziare un parente che si era interessato delle mie vicende ospeda-liere, e che sapevo appassionato di poesia romagnola, mi ero procurato una copia della MadunĂȘ (Madonnina), in allora la raccolta piĂč importante che Spallicci avesse pubblicato, e che, fino a quel momento, mi era nota so-lo di nome. Fu sbirciando fra i sedicesimi intonsi di quel libro che mi imbattei in due versi del sonetto E’ zĂłcar (Lo zucche-ro), un sonetto della collana dedicata ad Ada, la primogenita del poeta. Il poeta ha in collo la bambina, in etĂ , a quel che si capisce, di circa un anno. La bambina non ha voluto il semoli-no che la nonna le ha preparato: ha voluto invece la zolla di zucchero che

ha visto fra le dita del padre. E i due versi erano questi: [...] E me, testa cun testa, a sent l’armor di dintĂŹn ch’i sgaroia e’ su palot [...] (Ed io, testa con testa, sento il rumore / dei dentini che sgherigliano il suo pal-lotto) Devo dire che ricevetti, da quei due versi, una specie di urto, nel quale erano presenti diverse cose. C’era l’urto di una poesia realistica, che rompeva l’atmosfera carducciana, dannunziana, pascoliana cui ero as-suefatto: le prime due a misura di e-roe e non di uomo; la terza a misura d’uomo, ma un uomo sempre un po-co idealizzato. Qui trovavo l’uomo vero, l’uomo di tutti i giorni, coi suoi sentimenti nativi, ruvidi fuori e teneri dentro, interamente vissuti, intera-mente spontanei, senza niente di co-struito o di selezionato. Poi c’era l’urto del mezzo dialettale: un mezzo espressivo talmente immediato e familiare che non era possibile dubitare della sua sinceritĂ . Infine, c’era la scoperta che in dialetto si potevano sviluppare anche tematiche diverse dalla satira e dal riso, si poteva-no cioĂš trattare argomenti che andava-no a toccare corde piĂč intime, piĂč gelo-se, piĂč preziose. C’era in questo secondo incontro una suggestione, un invito, che cer-cai, da allora, di assecondare. 2. Che cosa ha pubblicato? Una sola raccolta, nel 1949: La cume-ta (L’aquilone) Poi componimenti sparsi, piĂč che al-tro in riviste, e piĂč che altro ne «Il let- tore di provincia» e ne «La PiĂȘ».

*

3.. Quali sono le sue piĂč importanti fonti di ispirazione? Ne La cumeta sono evidenti: il paesag-gio inteso soprattutto come comunione con la natura; l’amore; gli affetti fami-liari, la guerra d’Africa, in qualche momento saliente; la satira. Dopo Ăš nata una nuova dimensione: onirica, surreale. Qualcosa Ăš uscito sul «Lettore di provincia», qual-cos’altro su «La PiĂȘ». E sono le cose, cui, in definitiva, tengo di piĂč: come quelle che portano alla superficie i turbamenti piĂč remoti ed enigmatici, le domande piĂč sofferte, i drammi che hanno avuto in me gli echi meno manifesti, piĂč soffocati, piĂč chiusi. 4. PerchĂ© il “dialetto” per la sua poesia? Per le ragioni che ho dette in prin-cipio. Il bisogno di rappresentare “la vita” con immediatezza, per me e per gli altri. Siglandola con un “marchio di ga-ranzia”, con un sigillo di autenticitĂ , riconoscibile da chiunque (da chiun-que conosca il nostro dialetto, s’intende). C’ù in questo, ovviamente, anche una rinuncia: la rinuncia a far-si leggere “dai molti”. In cambio di una maggiore intensitĂ , che si va cer-cando. 5. Note biografiche. Sono nato a Cesena, nel 1913, in una famiglia di piccoli artigiani. Ho frequentato a Cesena il Ginnasio e il Liceo classico. Mi sono laureato in legge a Pavia. Poi la guerra, l’ospedale militare, il ma-trimonio, il passaggio del fronte. Un impiego di fortuna durante la guerra, presso il comune. Poi un al-tro, provinciale. Poi di nuovo in Co-mune. Dal 1959, la libera professione.

Intervista

a Cino Pedrelli

rilasciata a Radio Cesena negli anni ’70

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La ludla 3

6. Pier Paolo Pasolini, nel suo volume “Poesia dialettale del Novecento”, affer-ma, a proposito del suo componimento piĂč noto, “La stradlina” (La stradina), che esso ascende direttamente alla poesia di Nino Massaroli: “L’ù ’na stradlena bianca, bianca, bianca” (È una stradina bianca, bianca, bianca). Condivide questo collegamento? Per la veritĂ , la poesia di Massaroli me la sono andata a cercare dopo a-ver letto l’annotazione di Pasolini: prima non la conoscevo. Qualche punto di contatto – fuggevole – c’ù, ma la “chiave” dei due compo-nimenti Ăš totalmente diversa. Ho co-sĂŹ scoperto un’altra cosa: che Pasolini certe poesie dialettali di cui parla (di-co: “certe”, non dico “tutte”) nell’antologia che lei ha citato, non le leggeva nell’originale ma nella tra-duzione. Se avesse letto, infatti, La stradlina nell’originale, non gli sareb-be fuggita, appunto, la “chiave” del componimento: che Ăš tutta nel rit-mo, tutta nell’armonia imitativa del treno in corsa, dal quale chi scrive osserva il correre parallelo della stra-dina, sullo sfondo mutevole dei campi; e alla fine, l’improvviso “sui-cidio” della stradina. L’ottonario, il giuoco incalzante di certe lettere so-no chiamati proprio a rappresentare acusticamente (musicalmente, se pos-so dirlo) la corsa martellante e sibi-lante del convoglio. Tutte cose di cui Nino Massaroli (che descrive una strada di campagna vista da un pe-done o, al piĂč, da un ciclista, e nean-che in un solo momento ma in piĂč momenti dell’anno) non c’ù, e non poteva esserci, alcuna traccia. 8. Altro rilievo critico. In un suo saggio sulla Letteratura roma-gnola dal ’45 ad oggi, Claudio Marabini afferma che, nella poesia dialettale di Pe-drelli «l’idillio non solo si riflette sul mon-do degli affetti e della famiglia ma addir-titura avvolge e stempera la materia bel-lica. Nella poesia di Pedrelli una lumina-ria di bengala foriera di bombardamenti diviene luminaria da festa di paese alla quale il poeta “si incanta”. Una compia-cenza tutta visiva, addirittura geniale, in

una sorta di tipica immagine altalenante [...] sparge sulla guerra, veduta sull’altra sponda mediterranea, una sensibilitĂ  in alcuni punti persino turistica. E non sor-ge alcuna problematica. A guerra finita sĂšguita l’idillio degli affetti nel quale la guerra non ha inciso piĂč dello scorrere d’una goccia d’acqua (altra limpida im-magine pedrelliana) lungo il vetro di una corriera [...]». È d’accordo con questo giudizio? D’accordissimo, con qualche riserva. È vero che, nel gruppo delle poesie d’Africa (La gazĂšla – La gazzella) ci so-no componimenti che sviluppano un tema esclusivamente paesaggistico (Marabini dice turistico), in cui il cli-ma della guerra non compare. Devo precisare questo: in Africa, le entitĂ  inusitate e, come tali capaci di destare in me delle emozioni, erano due: una era la guerra; l’altra era l’Africa stessa, come ambiente. Un cielo all’alba per metĂ  nero come la pece, per metĂ  d’oro, in Italia non lo avevo mai visto. In Africa l’ho visto, mi ha turbato, ho cercato di dire questo mio turbamen-to, ne Ăš nata la poesia MitĂ  dĂš mitĂ  nĂČ-ta (MetĂ  giorno metĂ  notte). Non mi dispiace affatto, neanche ora di averla scritta. Del resto, non sono solo in situazioni del genere. È accaduto ad esempio a Ungaretti di scrivere, al fronte, nella guerra ’15-’18, la sua poesia piĂč nota (e curiosamente nota, perchĂš costitui-ta di un solo verso) in chiave paesaggi-stica. La guerra vi Ăš totalmente as-sente: la poesia Ăš Mattina. Il verso Ăš:

«M’illumino d’immenso». Un’alba nella quale il poeta Ăš rapito, quasi assorbito, da una luce improv-visa, da un cielo purissimo che lo so-vrasta. La poesia Ăš infatti datata da S. Maria La Longa: una localitĂ  friulana nei pressi del fronte. Marabini mi rimprovera l’assenza del dramma nel sonetto Iluminazion (Il-luminazione). È vero. Non c’ù dram-ma. È in corso un bombardamento sul porto di Bengasi, e io mi estranio dalla guerra, mi faccio prendere inve-ce dal giuoco dei colori e delle traiet-

torie: dalla luce abbagliante dei ben-gala, dai traccianti delle mitragliere che disegnano archi multicolori nel cielo, dalla pioggia di scintille che e-rompono dagli spezzoni incendiari: come fosse uno spettacolo di fuochi artificiali. Ma che ne sa Marabini della guerra? Per fortuna sua, nel ’40-’41 Marabini era un ragazzo di 10 anni, e stava in Italia. Non puĂČ sapere che anche in momenti di tensione estrema ci sono delle evasioni, delle fughe dalla real-tĂ : potrebbero anche essere delle for-me di paura mascherata, di autodife-sa, che si realizza in un estraniamen-to. Non Ăš in quei momenti la storia, nĂš (tantomeno) la filosofia della sto-ria. C’ù tutt’al piĂč un frammento di cronaca, di autobiografia, non c’ù nessuna moralitĂ  sulla guerra. C’ù un attimo di vita, non classificabile. Comunque se manca in MitĂ  dĂš mitĂ  nĂČta, se manca in Iluminazion, il dramma, o almeno la tensione, credo sia presente in altre poesie del grup-po: in Spezun incendieri (Spezzoni in-cendiari), per esempio. In El–Abiar, (che Ăš in qualche modo il mio “Zi-denti a chi m’to sĂČ!” (Accidenti a chi mi prende su!) in la NĂšva bianca (La nave bianca). In A ca’ (A casa). Quanto poi all’idillio campestre, o amoroso, o familiare, direi che la guerra non c’entra. Da che mondo Ăš mondo, le guerre ci sono sempre sta-te. E dopo, l’umanitĂ  Ăš tornata a fare l’amore, Ăš tornata a consolarsi negli affetti familiari, Ăš tornata a contem-plare la natura. Se tutto Ăš questo Ăš idillio, ben venga l’idillio. Ma non Ăš idillio ogni com-ponimento breve, anche un compo-nimento breve puĂČ avere una sua in-tensitĂ . È questa, in definitiva, che conta. Se Marabini mi dice che componi-menti come E’ ragn (Il ragno) o come Bab, mama e Stuvanin (Babbo, mam-ma e Stefanino) non lo toccano in nessun modo (idillio o non idillio) io lo lascio nella sua convinzione e resto nella mia: quelle poesie tornerei a scriverle anche ora, a 30 anni e piĂč di distanza.

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4 la Ludla

Da profano, ho provato a riflettere sul limite temporale (se tale limite e-siste) del nostro dialetto, argomento che ne implica anche l’attuale vitalitĂ . La conclusione, che spero venga sconfessata da chi ne sa di piĂč (e sono tanti), Ăš stata sconfortante. Il dialetto di cui tutti ormai cono-sciamo il rapido declino a partire dal secondo dopoguerra, oggi sembra es-sere ormai definitivamente morto. Sembra ancora vivo. Si presenta bene. Ma siamo di fronte al capezzale di un cadavere. Quando muore una lingua Ăš difficile accorgersene, eppure anche le lingue muoiono. Che il latino sia ormai una lingua morta mi pare assodato. Eppure scommetto che da qualche parte qual-cuno che non se n’ù ancora accorto ci sia ancora. Ma come? Non si studia anche a scuola? E i preti? I preti in Vaticano non parlano in latino? Non Ăš in latino che la chiesa cattolica redi-ge i propri atti ufficiali? Ci sono an-che dei siti internet completamente in latino! Certo. Ma che continui ad essere utilizzata da qualcuno o in qualche particolare situazione non fa del latino una lingua meno morta di quello che Ăš. Ma quando muore una lingua? Quando non Ăš piĂč usata per comuni-care nella quotidianitĂ . E questo per il latino Ăš successo da un pezzo. Certo una lingua non muo-re veramente, si trasforma in qualcosa di altro, alcune parti od aspetti di essa continuano a vivere sotto altre forme. È vero. Ma quella lingua non Ăš piĂč la stessa. È un’altra cosa. Lo stesso Ăš successo al nostro dialetto. Certo, noi che continuiamo ad usarlo tutti i giorni facciamo fatica ad accor-gercene. Ma Ăš cosĂŹ. Ma quando Ăš morto? (e dire che ultimamente sem-brava anche stare anche meglio del solito). Io credo attorno alla metĂ  de-gli anni ’70 (forse la stima Ăš per ecces-so). Ma come puĂČ essere morto se continuiamo ad usarlo? (anzi, io mi sforzo di farlo apprendere anche a mia figlia e credo che voi facciate o

abbiate fatto altrettanto). Il fatto Ăš che a partire da quel periodo (ricor-diamo che a quegli anni risalgono importanti fenomeni sociali quali la diffusione capillare della televisione, la scolarizzazione di massa, una im-ponente migrazione dal sud dell’Italia verso il nord) il dialetto Ăš diventato inutile/superfluo alla normale comu-nicazione quotidiana. Non Ăš stato piĂč capace di adattarsi al rapido (troppo rapido) mutare della realtĂ . Di inven-tare parole nuove capaci di descriver-la. Questo semplicemente perchĂ© le pa-role c’erano giĂ . Adatte e comprensi-bili a tutti (e se non proprio a tutti, comunque ai piĂč e fra questi, chia-ramente, i piĂč giovani). Ricordo che in prima elementare – e-ra il lontano 1966 – fra le preoccupa-zioni della maestra c’era quella di in-segnarci a parlare correttamente l’ita-liano. Questo perchĂ© molti di noi ri-sentivano ancora dei modi del dialet-to che parlavano a casa (o che senti-vano parlare dai loro genitori). Per noi era normale dire “il zucche-ro”. In dialetto non c’ù distinzione fra il e lo. Oppure dire “ci mettiamo in sedere” (italianizzando “a s’ mitam in ĆĄdĂ©i”). Credo perĂČ che nel giro di un anno, due, o poco piĂč, il problema si sia risolto da solo (io parlo per noi cittadini, in campagna probabilmente c’ù voluto un po’ piĂč di tempo), per-chĂ© a favore delle maestre e con mag-giore successo, stava nel frattempo, lavorando la televisione. Se andiamo a cercare le ultime parole che il dialetto ha fatto proprie, pren-dendole comunque a prestito dall’italiano, ci fermiamo ancora prima.

Fra gli anni ’20 e ’30, cominciano a diffondersi automobili e motociclette. Al machini e i mutur. Pur rifacendosi all’italiano, in questi anni il dialetto ha ancora una funzione creativa. Non ci si limita a dialettizzare i termini ita-liani, ma dei relativi oggetti si cerca di cogliere la caratteristica principale. Anche se definita da parole che nel dialetto esistono giĂ  e che vengono adattate alla nuova situazione. L’automobile, che Ăš una macchina che cammina, diventerĂ  semplicemente la machina (quasi la macchina per eccel-lenza) e la motocicletta, e’ mutor, per-chĂ© ciĂČ che colpisce di piĂč in una moto Ăš chiaramente il suo motore. Anche per quanto riguarda gli aero-plani, j aparec, Ăš l’aspetto tecnico meccanico a colpire e a prevalere. Il dialetto perĂČ si arrende di fronte all’ autocarro, che sarĂ  semplicemen-te e’ camion, parola che (se non sba-glio) viene dal francese (e che giĂ  ave-va prevalso anche in italiano). CosĂŹ come, in precedenza, si era arreso di fronte al treno, alla bicicletta (a cui ci si limita a togliere la doppia, che suo-na male) ma anche alla radio, alla cel-luloide (anche questa senza doppia) eccetera. Se consideriamo i popoli che nel tem-po si sono avvicinati al nostro orizzon-te concettuale possiamo ricondurre al dialetto solamente quelli con cui ab-biamo avuto rapporti da piĂč tempo. In dialetto possiamo parlare dei nostri vicini: francesi, tedeschi, inglesi (fran-ziĆĄ, tedesch, ingliĆĄ); cosĂŹ come dei piĂč lontani americani e russi ( j americhen e i ros); ma anche degli africani, degli in-diani o degli asiatici con cui, se non fosse per altro, abbiamo comunque avuto dei rapporti nelle due ultime

L’ ù mîrt

Riflessione sullo stato del dialetto romagnolo di Maurizio Balestra

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5 la Ludla

guerre mondiali (indiin, africhen, cinis, giapunis). Ma avvi-cinandoci al dopoguerra e alla guerra fredda giĂ  tradur-re con cuben i cubani non ci suona piĂč troppo bene. CosĂŹ come tradurre con cureen i coreani (cureen o cu-rein?). Non c’ù problema per i vietnamiti, che restano tali e tali restano e resteranno gli arabi, gli slavi, i croati, gli sloveni, per non parlare dei bulgari, dei rumeni, ecc. Anche i nuovi prodotti che nel dopoguerra diventeran-no il simbolo della nuova civiltĂ  del consumo di massa rimangono indigesti, quando non del tutto estranei, al nostro dialetto. La parola italiana radio, l’abbiamo giĂ  detto, era stata accettata e incamerata, cosĂŹ com’era (quando non era stata, veniva/viene storpiata in aradio). Felice Ăš la contra-zione di frigorifero in frigo, ma Ăš anche dell’italiano. E-sclusive del dialetto television e ziradesch al posto di tele-visione/televisore e di giradischi, ma chiaramente deri-vate da queste ultime. Abbiamo poi una valanga di pa-role che restano tali e quali: lavatrice, aspirapolvere, lu-cidatrice
 la plastica, la formica, il nylon (nailon), il ra-yon (raion)


Il gioco potrebbe andare avanti all’infinto, anzi, nella spe-ranza di venire smentito, vi consiglio proprio di giocarlo, se non altro per riuscire a cogliere e definire con maggiore chia-rezza questo limite/confine su cui il nostro dialetto sembra volersi arrestare.

Autunno '44. I primi indiani, entrati in Romagna al seguito delle truppe inglesi, guadano il Marecchia sotto Verucchio.

Al bon fĂ«st ad Ferdinando d'PlizĂȘra e ad Sergio Celetti

RĂČma, NadĂȘl 2008 – An NĂŽv 2009 S’a fos un strölgh a vrĂšb dì’ che st’ ĂȘtr’ an u s pĂČ lighĂȘr i chen cun e salam, j afĂ©ri i farĂ  ardusr’ un sach d’ cvatren, salut, ligrĂšza e zugh par grĂšnd e znen. MĂČ chi ch’al sa se l’an ch’e ven e srĂ  bon? Tot cvĂšnt i l spĂ©ra, mĂČ
 e dipĂšnd da nĂ”. ElĂłra, sĂČ, curag!, che la partida la s pĂČ dì’ venta sĂłl cvand ch’l’ù finida.

Verso Betlemme, Xilografia di Sergio Celetti.

Se io fossi un veggente vorrei [poter] dire che l’anno prossimo / si potranno realizzare anche gli obiettivi piĂč fantasiosi, /gli affa-ri faranno accumulare un sacco di soldi, / salute, allegria e divertimenti per grandi e piccoli. Ma chi lo sa se l’anno che sta per arrivare sarĂ  buono? / Tutti quanti lo sperano, ma
 dipende da noi./ E allora, sĂč, coraggio!, che la partita / si puĂČ considerare vinta solo alla fine.

Ferdinando Pelliciardi

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6 la Ludla

Un incontro con Tolmino Balassari Ăš sempre ricco di u-na comunicazione, non solo culturale e letteraria, ma an-che emotiva, per lo stigma della sua personalitĂ , che, na-turalmente, si riverbera sui suoi interlocutori, oltre che nel suo “sentire” poetico. Nella sua villa di Cannuzzo, tra l’ansa del Savio e i campi di frutteti, accanto alla fedele compagna Giuliana, ab-biamo chiacchierato di poesia romagnola e non, mentre le sue “arzdore” ci mostravano orgogliose la poesia dei loro cappelletti e tagliatelle estratti da un monumentale congelatore. Tolmino, poi, ci ha mostrato i suoi ultimi studi e ricerche che sono incentrati sulla “riscoperta” di un “grande” ro-magnolo che non Ăš mai stato pienamente riconosciuto nel suo valore, Dino Campana, e in una ricerca sui piĂč comuni errori della grafia di vocaboli italiani, che ha me-ticolosamente trascritto e corretto con la relativa esau-riente spiegazione. “Non Ăš una questione di perfezionismo – ha detto – la precisione, la cura dei particolari espressivi fanno parte della cultura anche del poeta; oggi - ha aggiunto – mi ar-rivano testi letterari, in italiano o in dialetto, che oltre a rivelare, spesso, uno squallore di contenuti, “brillano” per la sciatteria formale e il peggio Ăš che gli stessi autori non se ne rendono conto.” Da qui il poeta prende lo spunto per citare Giuseppe Valen-tini, uno che di dialetto sembrava che ne masticasse poco perchĂ© per la sua formazione professionale di diplomatico aveva dovuto privilegiare un italiano classico e anche per-chĂ© era stato spesso lontano dal suo San. Zaccaria: eppure non sbagliava un accento o una grafia. Ma l’ opera di Valen-tini Ăš anche da rileggere e rimeditare per l’ assoluta ricchezza delle sue immagini e delle sue riflessioni. Altro esempio di rigore esemplare nel campo dello studio e della ricerca nella filologia romagnola Ăš, per Tolmino, Giuseppe Bellosi che da decenni puntualizza aspetti della cultura popolare e colta romagnola, di altissimo livello, e per salvare la nostra identitĂ  questa Ăš l’ unica via. Inevitabilmente, il discorso cade sulla “Ludla” a cui rico-nosce un ruolo importante di critica e divulgazione e che dovrebbe selezionare e segnalare sempre i prodotti mi-gliori della nostra letteratura, senza paura di essere giudi-cata troppo esigente o “elitaria”. È a questo punto che, proprio riallacciandoci al suo invito a mantenere sempre alto il livello culturale, abbiamo avuto l’“ardire” di chie-dergli se puĂČ regalare ai lettori della “Ludla” qualche i-nedito della sua ultima produzione e il poeta, con imme-diatezza, sceglie da un fascicoletto, fresco di macchina da scrivere, due liriche e me le consegna: “Saranno il mio regalo di Natale agli amici della "SchĂŒrr" e della “Ludla”.

Sta puiĆĄĂŹ La m’ù vnuda cvĂąnt a durmiva mo adĂ«s an m’arcĂŽrd piĂČ

cvel ch’la gĂ©va ad cvel ch’la scurĂ©va l’éra una parĂŽla bĂ«la ch’a n’avĂ©va mai det e adĂ«s an so cum ch’ĂČ da fĂȘ mo s’u m’avnes cla parĂŽla e’ sareb la piĂČ bĂ«la ch’a j Ă©pa mai det

Questa poesia. M’ù venuta quando dormivo / ma adesso non mi ricordo piĂč / quello che diceva di quel che parlava / era una parola bella / che non avevo mai detto / e adesso non so come devo fare / ma se mi venisse quella parola / sarebbe la piĂč bella che abbia mai detto

J Ăšn J Ăšn j Ăš dalĂČngh e me an m’Ăčn so dĂȘ j Ăš arivĂ© d’böta ad sĂČra e d’dentar mo cvi ch’faĆĄĂ©va i faicun int e’ mi fiun CuciarĂŽl VarĆŸi Guidoni Fagiöli e nisun is arcĂŽrda ai so sĂłl me mo u j Ăš Ăčn mur ad ĂȘria ch’Ăčn s’pö pasĂȘ Gli anni. Gli anni sono lontani e io non me ne sono accorto / sono arri-vati all’improvviso sopra e dentro / ma quelli che facevano i tuffi nel mio fiume / CuciarĂŽl Varzi Guidoni Fagiöli / e nes-suno piĂč li ricorda / ci sono solo io ma c’ù un muro d’aria / che non si puĂČ passare Tolmino Baldassari, con questi intensi inediti, ci apre lo scenario di un sogno, rendendoci cosĂŹ partecipi di un’ esperienza intima e lasciandoci penetrare nella parte piĂč aurorale di sĂš , quella che si situa al confine tra la sensa-zione del corpo e la formulazione del pensiero, la sfera emozionale generativa della poesia. Assistiamo alla germinazione dell’ immagine poetica, ci incantiamo alla comparsa della “parĂŽla bĂ«la” come atto magico della mente, la vediamo affascinare, toccare emo-tivamente il poeta, ma poi, leggera, eccola fluttuare nell’ etere e, dispettosa, dileguarsi.

Un regalo per la “SchĂŒrr” e «la Ludla»

Due inediti di Tolmino Baldassari

di Luisa Mariani e Giovanni Zaccherini

Page 7: Vocabolario etimologico SOMMARIO romagnolo

7 la Ludla

È sfuggente, imprendibile e, alla fine del sogno, evapore-rĂ  lasciando la scia del suo profumo, la sensazione strug-gente di un bello, ma cosĂŹ bello che Ăš inafferrabile dalla mente e che puĂČ solo lasciare una sensazione, quasi un’ impronta affettiva indelebile, una nostalgia di pienezza, una vaghezza di felicitĂ  come l’ aver toccato la veritĂ  ul-tima, quel sentirsi all’ unisono nella relazione primordia-le con la vita agli albori dell’ esistere
 E da quel momento primitivo, quasi senza accorgersene, sono trascorsi tanti anni, “j Ăšn j Ăš dalĂČngh e me an m’ un

o Tolmino Baldassari fotografato dagli autori nella sua casa

so dĂȘ
”, anni che hanno attraversato il dentro e il fuori, che sono stati vissuti con intensitĂ , che sono pieni di ri-cordi, che hanno contenuto una storia. E cosĂŹ come nel sogno di “Sta puisì” era apparsa la “parĂŽ-la bĂ«la”, nella lirica “J Ăšn” fa capolino la consapevolezza dello scorrere del tempo, della solitudine, del contatto sĂ© con sĂ© e, infine, dell’ attesa dell’ ultima poesia da sogna-re, quella che dipingerĂ  la visione fantastica del “mur ad ĂȘria” finalmente attraversato.

L. M. [email protected] G. Z. [email protected]

e mentre legge le sue poesie accanto alla moglie Giuliana

[Segue dalla prima] Gilberto Casadio, Vocabolario Etimologico Romagnolo

linguistico romagnolo. L’autore, faentino, riporta prevalentemente termini dell’area romagnola nord-occidentale, ma sono numerosi anche quelli dell’area centrale e riminese. Sono presenti, oltre alle parole dell’uso, anche diversi vocaboli, oggi desueti, desunti dai di-zionari ottocenteschi (Morri, Mattioli, Tozzoli). Le singole voci si articolano in tre sezioni. Nella prima viene presentato il lemma, affiancato dalla categoria grammaticale, dalla traduzione o dalla spiegazione del significato ed eventualmente dalle sue forme alterate e derivate, quando ritenute significative. Nella seconda viene fornita l’etimologia dei singoli termini, con particolare attenzione al processo di evoluzione fonetica che di fre-quente Ăš indicato passo per passo perchĂ© possa essere compreso an-che dai non specialisti. La terza sezione, presente solo in un numero limitato di lemmi, ri-porta la citazione dei passi delle opere di alcuni autori romagnoli dell’ultimo secolo nei quali Ăš presente in forma ‘italianizzata’ il termine in questione.

Frontespizio del primo Vocabolario Romagnolo – Ita-liano pubblicato a Faenza da Antonio Morri nel 1840.

Page 8: Vocabolario etimologico SOMMARIO romagnolo

La ludla 8

BĂągn ad NadĂȘl

Versi di Antonio Sbrighi (Tunaci) illustrati da Giuliano Giuliani

E’ s-ciöca e’ zöch d’NadĂȘl sĂłra i cavdon; i grend i s’ù lavĂ©: u j Ăš e’ paciugh in tĂ«ra; l’ù dvintĂȘda stila la pala de’ savon e e’ foma l’acva chĂȘlda int la mastĂ«la.

E’ gat sĂłra l’urĂŽla u s’azambĂ«la; e’ canavaz l’ù rud, l’ù ad tela caĆĄalena: e’ suga e e’ raza nench la prĂšma pĂ«la. Bagno di Natale Schiocca il ciocco di Natale sopra gli alari; / gli adulti si sono lavati: c’ù il guazzo sul pavimento / Ăš diventata sottile la palla del sapone / e fuma l’acqua calda nella mastella. // Il gatto sopra l’arola si acciambella; / il canovaccio Ăš ruvido, Ăš di tela fatta in casa / asciuga e porta via la prima pelle. Una nĂŽta pr’e’ gat Il gatto acciambellato sull’arola al tepore del ciocco sembrerebbe rientrare nella norma. Forse oggi, chĂ© gli scaffali dei supermerca-ti traboccano di confezioni di cibi per cani e gatti
 Un tempo per la cena del gatto c’era appena qualche scarto; dopo di che il domestico felino “sgattaiolava” (chi la ricorda la gattaiola?) fuori a cercare di che riempire il ventre. PiĂč tardi, quando tutti erano a letto, rientrava in casa ad appostare i topi che uscivano dai loro pertugi per cercare anch’essi qualche rimasuglio
 Per questo si tenevano i gatti: per prendere i topi! Solo nel clima festoso della vigilia di Natale, persino nelle case dei braccianti c’era di che sfa-marsi anche per il gatto di casa.

Page 9: Vocabolario etimologico SOMMARIO romagnolo

9 la Ludla

Gli Auguri di Mafalda e Gianni Fucci

NadĂȘl da sĂ©mpra


FĂ©rum e’ zil tla sĂ ira, s’che brilĂ© ad tĂłtt cal stĂšli sĂČra e’ davanzĂȘl. DalĂČngh, dalĂČngh, apena un susurĂ© ’d vĂČĆĄi ormai pĂ©rsi. T’un inchĂȘnt totĂȘl

a sint ch’a l tĂČurna, a l tĂČurna a bugarĂ© ti mi pensĂŹr d’un tĂ©mp che ancĂČura i vĂȘl ĂȘnca s’u s’ù fat strach ste caminĂ©. Mo l’ù la vĆŸĂ©iglia e dmĂȘn l’ù ĆŸa NadĂȘl!

E’ fugarĂšl de cĂłr l’à una sperĂȘnza: ch’e’ vĂ©nga un mĂČnd ad pĂȘĆĄa pr’i “cri-is-cĂ©n” si Ăš ĆŸal, o nir, o rĂłss u n’à impurtenza!

basta ch’u s tĂČurna tĂłtt a stĂȘ piĂČ insĂ©n spuiandsi dl’egoĂ©iĆĄmi e dl’arughĂȘnza. NadĂȘl, da sĂ©mpra, e’ vu dĂ©i vlĂ is bĂ©n! Natale da sempre. Fermo il cielo della sera, con quel brillare \ di tutte le stelle sopra il davanzale. \ Lontano, lontano, appena un sussurrare \ di voci ormai perse. Nell’incanto totale \\ sento che tornano, che tornano a parlottare \ nei miei pensieri di un tempo che ancora vale \ anche s’ù ormai stanco il camminare. \ Ma Ăš vigilia e domani Ăš giĂ  Natale! \\ Il focherello del cuore ha una speranza: \ che venga un mondo di pace per i “cristiani”\ se gialli. o neri, o rossi non ha importanza! \\ basta che si torni tutti a stare piĂč insieme \ spogliandosi dell’egoismo e dell’arroganza. \ Natale, da sempre, vuol dir volersi bene.

Al zanzarĂ uni

Un racconto di Rino Salvi nel dialetto di Santarcangelo QuĂ nt che i cĂčdli ad LĂŽi e parĂČiva ch’i fumĂ©ss da e’ cĂŠld e la tĂšra dĂ© mi santĂŹr la scutĂŠva sĂČta i pi nĂ©ud, u j’éra snĂČ un pĂČst duv’ù che t putĂŹvi zughĂš in pĂŠsa mĂ© frischĂŹn, la fĂČsa, pina ad ombra e ad aqua ch’la m’arvĂ©va mi znĂŽcc se e’ mulĂČin ’d SapignĂčl e masnĂŠva, s’l’éra fĂ©rmi invĂŹci u i n’éra ’na cavĂ©ja tra sĂš e nĂČ. E’ sĂ ul, filtrĂ©nd apĂšna tra al fĂČi fĂ©ti, e fĂ©va dal mĂ ci ad luce sĂ ura ch’l’aqua vĂČirda e, at ch’al mĂ ci ch’l’i n stĂšva mai fermi, u s dundulĂŠva lizĂŹri al zanzarĂ uni. L’éra mal zanzarĂ uni che mĂš a dĂ©va la cĂ za. A strissĂ©va piĂ nin piĂ nin i pi per nĂČ spavantĂŠli parchĂš quĂšli agl’era bĂŽni ad caminĂ© s l’aqua cmĂ© CrĂ©st e, quant ch’a s’éra a lĂš dri, a i dĂ©va ’na grĂ n bĂČta sla palĂšta dla stĂčfa.. MĂČ l’éra fadĂŽiga ciapĂŠli, al sguitrĂ©va vi cmĂš di razz e, pa-ciaciĂ ff, un’énta bĂČta e pu un’énta e un’énta ancĂ ura e ogni bĂČta a m’arabiĂŠva sĂ©mpra ad piĂČ... a la fĂČin a m’artruvĂŠva incazĂŠd dĂ©ur e tĂŽt mĂČl.

Li n’éra ’na mĂ sa quĂšli ch’a ciapĂŠva, a gl’éra invĂŹci un sach al bĂČti ch’l a m dĂ©va la mi ma. E, intĂŠnt ch’l’a m mnĂŠva la giĂČiva: – MĂš a dĂ©gh che t’ci sĂ©mo.-

Idrometra

Page 10: Vocabolario etimologico SOMMARIO romagnolo

10 la Ludla

[continua dall numero precedente]

LE DECLINAZIONI Delle cinque declinazioni latine quelle meglio conservate sono la prima (in -a), la seconda (in -o), in parte la terza (in -e), mentre la quarta Ăš quasi del tutto scomparsa e la quinta lo Ăš totalmente. Prima declinazione A questa declinazione, che accoglieva nomi uscenti in -a prevalentemente femminili, si sono aggiunti diversi nomi in -e della terza. Esempi: CALIGINE ‘fumo nero’ â€ș caleĆŸna ‘fuliggine’; APE â€ș ĂȘva ‘ape’; GLANDE â€ș genda ‘ghianda’, AXE â€ș ĂȘsa ‘asse’, CI-

MICE â€ș zemĆŸa o zemza ‘cimice’, PULICE â€ș polĆĄa ‘pulce’; FAL-

CE â€ș fĂȘlza ‘falce’; LEPORE â€ș levra o livra ‘lepre’; PULVERE â€ș porbia ‘polvere’; VITE â€ș vida ‘vite’; RADICE â€ș radiĆĄa ‘radice’; CARNE â€ș chĂȘrna ‘carne’ ecc.

Seconda declinazione A questa declinazione caratterizzata dall’uscita in -u (in italiano -o) si sono aggiunti gran parte dei nomi della quarta ed un buon numero dei neutri della terza, previa caduta della consonante finale come TEMPUS â€ș temp ‘tempo’; CORPUS â€ș cĂŽrp ‘corp’; MARMOR â€ș mĂȘrum ‘marmo’ ecc. In romagnolo, in veritĂ , stante la caduta delle vocali finali diverse da -a, non Ăš sempre possibile verificare se siano avvenuti tali passaggi ed in quale misura. Ad esem-pio dal lat. SORICE ‘topo’ abbiamo in italiano sorcio (anti-camente sorco) che presuppone un evidente passaggio alla seconda declinazione: *SORICU. Anche per il romagnolo sorgh Ăš probabile questo passaggio intermedio in quanto da SORICE ci saremmo aspettati un *sorĆŸ.

Terza declinazione Come abbiamo visto sopra, numerosi nomi femminili di questa declinazione in -e sono passati a quella in -a. Que-sto passaggio non Ăš perĂČ regola in tutte le parlate roma-gnole: sono numerosi i termini in -e che nelle parlate del-la Romagna centro-orientale sono passati in -a, mentre sono rimasti tali nella parte piĂč occidentale del territorio. Negli esempi che seguono la prima forma Ăš quella occi

dentale, la seconda quella centro-orientale. VULPE â€ș vojp / vojpa ‘volpe’; NOCTE â€ș nöt / nöta ‘notte’; CRUCE â€ș cróƥ / cróƥa ‘croce’; PELLE â€ș pĂ«l / pĂ«la; SAEPE â€ș siv / seva ‘siepe’; TUSSE â€ș tos / tosa ‘tosse’; SEMENTE â€ș sment / smen-ta ‘semente’; GENTE â€ș ĆŸent / ĆŸenta ‘gente’; VOCE â€ș vóƥ / vóƥa ‘voce’; RETE â€ș red / reda ‘rete’; NIVE â€ș nev / neva ‘neve’ ecc.

Quarta declinazione In generale si puĂČ dire che i femminili appartenenti a questa declinazione sono passati alla prima (NURU â€ș *NĆźRU â€ș *NĆźRA â€ș nĂŽra ‘nuora’), i maschili alla seconda (FRUCTU â€ș frot ‘frutto’). Fa eccezione, come in italiano, il femminile MANU che non passa ad -a: man ‘mano’.

Quinta declinazione Dato che la quasi totalitĂ  dei nomi di questa declinazione (in -e) erano femminili si Ăš avuto per molti il passaggio alla declinazione in -a, come per FACIE â€ș faza ‘faccia’. In altri casi assistiamo agli esiti dei femminili in -e della terza come per FIDE ‘fede’ che passa a fĂ©d nel romagnolo occi-dentale, a fĂ©da in quello centro-orientale. Un’eccezione, che Ăš presente del resto anche in italiano, Ăš data da GLA-

CIE ‘ghiaccio’ che passa regolarmente a ghiaccia solo nell’italiano antico. In romagnolo abbiamo, come per l’italiano moderno ghiaccio, il maschile, difficilmente spiegabile, giaz.

[continua nel prossimo numero]

Appunti di grammatica storicadel dialetto romagnolo

XXV

di Gilberto Casadio

Page 11: Vocabolario etimologico SOMMARIO romagnolo

La ludla 11

Rubrica curata da

Addis Sante Meleti

Caval: ital. cavallo, (franc. cheval, spagn. caballo) lat. CABALLUS. Nei testi antichi CABALLUS ovviamente compare un po’ meno di EQUUS, da cui poi sono stati poi ripescati i deri-vati ital. equino, equestre, equitazione
 Ma EQUUS era il cavallo dei signori, della cavalleria, mentre CABALLUS era il cavallo da fatica, talora castrato, piĂč quieto e docile. C’era da aspet-tarsi che fosse quest’ultimo il vocabo-lo destinato a sopravvivere. Varrone, Sat. Men. LXI: alium caballum arboris ramo in humili adligatum relinquit (la-scia un altro cavallo legato al ramo basso d’un albero) 1 Petronio Satyri-con CXXXIV: mollis, debilis, lassus, tamquam caballus in clivo: (molle, de-bole, stanco come un cavallo in un pendio). Con la sola sostituzione di caval /‘cavallo’ ad equus, l’antichitĂ  ci ha lasciato vari traslati o modi di dire. Uno – un po’ osceno – ci Ăš fornito da Orazio, Sat. II 7: 
agitavit equum lasciva supinum
 ([la prostituta] agitĂČ lasciva il cavallo supino), dove il ‘ca-

vallo’ Ăš la biforcazione delle gambe del pigro cliente occasionale; ma var-rebbe anche per calzoni e brache, se Orazio li avesse indossati2. Sti bragon i t fa l’uvaron int e’ caval, diceva mia nonna, quando i pantaloni passavano dal nipote troppo cresciuto all’altro non cresciuto abbastanza, dove l’uvaron Ăš la mammella gonfia della mucca, in lat. UBER. Leggiamo poi in San Gerolamo: Equi donati dentes non inspiciuntur (‘non s’ispezionano i denti del cavallo donato’): ovvero, “a caval donato non si guarda in bocca”. Era quel che si vedeva fare finchĂ© in ogni paese si svolsero le fiere: compratori e mediatori aprivano la bocca di bovini ed equini in vendita per valutarne l’etĂ  dall’usura dei denti. 1) Se, anzichĂ© adligatum relinquit (‘lo la-scia legato’), usando il cosiddetto partici-pio congiunto, avesse scritto adligatum tenet e, infine, habet (‘lo tiene legato’, ‘l’ha le-gato’), come qualcuno anche allora avrĂ  detto alla buona, avrebbe mostrato la genesi del passato prossimo che nel lat. scritto non compare. Si noti che il passa-to prossimo prevale nei dialetti setten-trionali, come nel caso del romagn. s’ël stĂȘ? Nel meridione invece si restĂČ fedeli all’uso del passato remoto, come nel sici-liano, ch’u fu? 2) In un’altra situazione (di fronte a un uomo che, mutato in lupo, s’aggirava di notte tra le tombe) anzichĂ© ‘cavallo’ compare in lat. direttamente bifurcum (‘biforcazione’), la furzĂ©la (dal gambi): Petronio, Satyricon LXII, sudor mihi per bifurcum volabat (il sudore mi volava lun-go la biforcazione). Sembra persino lati-no maccheronico da cui basta poco per passare alla triviale espressione nostrana: u-m fumĂ©va i quaiĂłn. L’accenno casuale all’uomo mutato in lupo rivela l’antichi-tĂ  della credenza – che risaliva al mito greco e che qua e lĂ  riaffiora ancor oggi – nel “lupo mannaro”, corruzione di LU-

PUS *HOMINARIUS, calco o quasi sul gre-co antico lykĂ nthrƍpos. BĂłls, imbulsĂŹ: in ital. bolso, imbol-sito. Aggettivo normalmente riferito ad un cavallo gonfio, spossato, che respiri a fatica: ma che puĂČ riferirsi pure ad altri animali, uomini com-presi. Deriva dal part. pass. lat. vul-

su[m], dal verbo vĂšllere, ‘strappare’ (detto dei ‘peli’). Nell’accezione no-strana di caval bĂłls l’uso probabil-mente si diffuse piuttosto tardi, giac-chĂ© in questo senso si ritrova solo a partire da Vegezio (IV/V sec. d. C.), che scrisse di arte militare e di vete-rinaria1. Prima vulsus o uolsus era sta-to usato in senso proprio, per indica-re lo sbarbatello o anche solo chi si presentasse azzimato o depilato, la-sciando supporre una scarsa virilitĂ  (un gran difetto, almeno in un caval-lo). Un cuoco, in Plauto, Aulularia 402, dice all’aiutante: Tu istum gallum, si sapis, glabriorem reddes quam volsus ludiu’st (E tu, se sai farlo, riportami codesto galletto piĂč spelacchiato di quant’ù un ballerino depilato2). I rudi plebei latini del suo tempo dovevano ridere molto per una battuta che tirava in ballo un ballerino ambiguo nelle movenze, per di piĂč volsus, depilato.

1) Il Diz. etim. Cortelazzo-Zolli ne ripor-ta la citazione: i cavalli sono tussientes et vulsi. Dobbiamo intendere giĂ  ‘bolsi’, come s’intende oggi, o solo cavalli che, quale effetto secondario dei loro malan-ni, non avevano piĂč il bel pelo che di-stingue quelli sani? In ogni caso, il cam-bio di significato, da vulsus (‘col pelo strappato, o caduto, o sciupato’) a uolsus (‘fiacco, indebolito’) Ăš avvenuto dopo che il significato originario s’era perso del tutto; ma, tanto per cominciare, giĂ  tra Plauto e Vegezio intercorre mezzo millennio. 2) Quam volsus ludiu’st (o, meglio, nell’ordine quam [non] est volsus ludius), spiega il dialettale ch’u n’ Ăš che introdu-ce il secondo termine di paragone con la sola aggiunta rispetto al latino dell’av-verbio di negazione ridondante, pleona-stico; com’ù, ad esempio: l’ù ormai piĂČ grĂąnd ch’u n’ Ăš e’ su ba; l’ù piĂČ fĂ cil a dil ch’u n’ Ăš a fĂȘl.

Page 12: Vocabolario etimologico SOMMARIO romagnolo

la Ludla 12

Cla matena al si [alle sei] la zeja la fo la prĂšma a dĂȘ’ fura d’in ca, o mej, da la Tor, pr’andĂȘr a fĂȘ’ e’ su bĆĄogn, parchĂš ilĂ  u-n gn’j Ă©ra e’ lucomud. Mo la turnĂš sĂČbit indrĂŹ tota agitĂȘda, dgĂšnd che u j Ă©ra dal padĂ«l ĆĄmaltĂȘdi atachĂȘdi a la muraja. Agli Ă©ra dal men [mine]. Döp un pĂŽ i vens di tudesch a cazĂȘs vi, parchĂš j avĂ©va da fĂȘ’ saltĂȘr igna-cvĂ«l: l’ùra i cvĂ tar d’dizĂšmbar de’ cvaranta-cvĂ tar. La Tor l’éra tot cvel ch’l’éra armast dl’antigh castĂ«l di Raspon, fat – u-s diĆĄ – de’ mel-e-tarĆĄĂšnt, e che alĂłra l’avĂ©va cvĂ tar tor. NujĂ©tar, da RavĂšna, a sema andĂ© ilĂ , sfulĂ©, i diĆĄ ad ĆŸogn, cvĂąnt che la zitĂȘ la fo survulĂȘda da i reuplĂąn americĂąn ch’j andĂ©va a bumbardĂȘ’ FrĂȘra; e pu u-s dgĂ©va che e’ sareb tuchĂȘ a nĂł. Da bas int la Tor u s’éra sistemĂȘ a la mej la mi fameja e cvela dla surĂ«la d’mi mĂȘ [madre]. SĂłra da nĂł u j Ă©ra dagli ĂȘtri famej e, a la veta d’pösta, u j Ă©ra i tudesch cun l’uservatĂŽri e e’ telĂ©graf. A cumplitĂȘ l’asurtiment u j Ă©ra nench di renitent che i staĆĄĂ©va bĂšn

nascost in di buĆĄ e che i daĆĄĂ©va fura sĂłl la sĂ©ra, prĂšma de’ copri-fugh, in-vstĂŹ da dĂČna, par ciapĂȘ ’na buchĂȘ d’ĂȘrja. Nenca e’ bab e e’ zej, simben ch’j a-ves e’ parmes par ĆŸirĂȘ' in bicicleta parchĂš j avĂ©va l’ufizena a RavĂšna, i s’aĆĄluntanĂ©va pĂŽch da la Tor in cvĂąnt l’éra fĂ zil truvĂȘs pu in ferji in GermĂą-gna, e sĂłl par andĂȘr a pol e a fĂȘ le-gna par la stuva. Ad sĂČlit i staĆĄĂ©va gnascost tra la cĂąna dri e’ Lamon, in mĂŽd che i tudesch i pinses ch’j Ă©ra a lavurĂȘ’. Da che sid u-s putĂ©va aducĂȘ’ cvel ch’e’ putĂ©va Ă«sar bon par sopravĂŹvar, e un dĂš j avdĂš una bĂ«la zöca sterĂȘda da ’na bomba ch’la putĂ©va sarvĂŹ pr’e’

fugh ad piĂČ dĂš.Cla nöt, a la faza de’ copri-fugh, j andĂš a tula cun la cariĂŽ-la. Sota a che pĂ©ĆĄ la rĂŽda la gnichĂ©va da mĂ«t, mo do pisĂȘdi int e’ moz i la fĆĄĂš stĂȘ zeta! A truvĂȘs cla sistemazion d’emergenza e’ fo e’ fradĂ«l de’ marid ad mi zeja ch’l’éra, da un Ăąn, caplĂąn a e’ ĆŸĂąn. Ste prit, ch’l’éra fjĂŽl ad sucialesta e u-s dgĂ©va che su mĂȘ da ĆŸovna l’andes a mnĂȘr adös a i tabĂ«ch ch’j’andĂ©va in ciĆĄa, i l’avĂ©va mandĂȘ ilĂ  in che sid ros par rimigĂȘ’ al röbi gvastĂȘdi da e’ pĂ roch. Stu chi cve, ch’l’éra stĂȘ int e’ mĂ«ĆŸ a la “stmĂąna rosa”, u s’éra lighĂȘ a i fasesta e e tnĂ©-va par i tudesch. Compit de’ caplĂąn l’éra d’avĆĄinĂȘs a i partigiĂąn par ridĂȘ’ crĂ©dit a la CiĆĄa. Ste caplĂąn, ch’l’éra impunent, cun la scuĆĄa ad purtĂȘr i sacrament a i muribĂČnd, e’ ĆŸirĂ©va tot e’ su teritĂŽri, mitra a tracöla e pistĂŽla in saca, par zarchĂȘ’ i frid e purtej in dal ca ami-ghi, e nenca par purtĂȘ’ dagl’ùrom e de’ magnĂȘ a i partigiĂąn. U-s conta che, avu un arnĂ©ĆĄ par fĂȘr i macaron, e’ mites a la manuvĂ«la un nazesta grĂąnd e grös, ch’l’éra bon ad fĂȘ’ diĆĄ chilo d’amnĂ«stra a e’ dĂš, “pr’i puret e i babin ch’i murĂ©va ad fĂąm in zitĂȘ”; icĂš e’ caplĂąn u i avĂ©va fat crĂ©dar


Il fronte Ăš appena passato e la famiglia rac-coglie accanto alla casa diroccata quanto la separa dalla completa rovina: qualche sacco di granaglie, qualche collo di biancheria e qualche legaccia di indumenti; qualche masserizia (un bgonz) che il caso ha voluto salvare
 La foto si riferisce al Cesenate, ma puĂČ ben essere presa ad emblema della condizione di rovina materiale cui la Ro-magna dovette piĂč o meno sottostare nel ’44.

De’ cvaranta-cvĂ tar al Tor de’ MĆŸĂąn

Un racconto di Pier Giorgio Bartoli nel dialetto di Ravenna

Page 13: Vocabolario etimologico SOMMARIO romagnolo

la Ludla 13

Leggendo i racconti autobiografici che Fiorenzo Minghetti, oggi maestro in pensione, propone nel suo libro E PatĂšr di lulĂČt?, ciĂČ che colpisce Ăš la vi-vezza dei ricordi dell’infanzia. Sem-bra quasi che il bambino di allora prenda in mano la penna dell’autore e si incarichi di descrivere le scene nei minimi particolari. “Nel letto, con le lenzuola tirate fin quasi agli occhi, a proteggermi dalla mia innata paura delle tenebre, ripensavo a quanto accaduto, mentre tendevo l’orecchio ai suoni provenienti dall’esterno. Il canto dei grilli della campagna circostante era sovrastato ogni tanto dal rumore, provocato dall’impatto delle bocce fra di loro o contro il fondale di legno del campo da gioco, nel vicino Circolo dei Re-pubblicani. Grida di soddisfazione o di disappunto seguivano immedia-tamente questi colpi. Il tutto creava una situazione di compagnia che calmava le mie paure e mi cullava all’inseguimento dei miei pensieri
 Nel sonno, che mi stava avvolgendo, sentivo ora il tutto sempre piĂč sfu-mato. Le palpebre appesantite si chiudevano sugli occhi fino ad allora sgranati ad indagare il buio attorno a me: ma, ormai, ero completamente immerso nel mondo dei sogni». Le descrizioni sono centrate non solo sul protagonista ma anche sull’am-biente dove il bambino vive: La mi ca, E pont nuov, A l’ombra de campanil, ecc. un ambiente particolare Ăš quello del fiume vicino. “Con mia sorella avevo accompagnato al fiume la mamma che spingeva una carriola

carica di mastĂ©la, banchet, pann e lin-zĂčl. Una di quelle giornate dedicate al bucato, che noi bambini sognava-mo ed aspettavamo con impazienza e frenesia. GiĂč nel fiume, poco oltre le macerie del vecchio ponte bombar-dato, avevamo trovato compagnia. Per un po’ avevamo osservato la mamma e le altre, mentre sbattevano violentemente contro il banchetto le lenzuola precedentemente insapona-te con il sapone casalingo, costruito dal “fai da te” dei poveri con gli scar-ti grassi di macelleria e soda caustica. Poi, mentre loro stendevano man mano le lenzuola ad asciugarsi sull’erba dell’argine e davano stura alle chiacchiere fra una strizzata e l’altra, noi – rimasti in mutande – ci eravamo inoltrati nell’acqua del fiume, sguazzando e spruzzandoci». Vengono anche descritti gli appun-tamenti davanti alle prime trasmis-sioni TV in bianco e nero nel corti

le de ZĂŹrcul o int l’UstarĂŹ dla Flora e le emozioni degli spettatori in attesa della risposta del concorrente di "La-scia o Raddoppia." Un altro aspetto che coglie il lettore Ăš la serenitĂ  che traspare dalle varie scene sia pure raccontate con nostal-gia: La prima bici, E prem dĂš dl’ñn, BĂČ dĂš e bĂČn Ăąn, E cergh, La paghetta. Una serenitĂ  che sorprende chi, come me, Ăš vissuto nello stesso luogo ma nel decennio precedente con l’esperienza della guerra, delle distruzioni e delle angosce relative. Un ultimo aspetto che vorrei sottoli-neare Ăš l’atteggiamento di ricono-scenza che traspare dai racconti. Ra-gone, nel primo dopoguerra, come tutti i paesi grandi e piccoli intorno: un’emergenza continua, al limite del-la sopravvivenza; una gran voglia di risorgere dalle macerie materiali e spirituali; un immenso desiderio di riscatto, che si traduceva in tanto impegno singolo e soprattutto in una solidarietĂ  senza limiti! Quanti gli aiuti reciproci a ricostruire per so-pravvivere
! La caritĂš la va fura dala porta e la torna par la finestra! La Gigia lo ripeteva spesso e la Sunta ribadiva a mia ma-dre: Me a so’ la pruvidenza, con una frase piĂč esplicativa di un intero Trattato di Catechesi Cristiana. Noi bambini, cresciuti in quest’atmo-sfera, abbiamo mangiato, respirato e vissuto questa fraternitĂ  di intenti e di aiuti.” La gratitudine Ăš soprattutto rivolta alle donne: “Come tutti i bambini di Ragone ho avuto tante seconde mamme: prodighe di carezze, consigli e di ammonizioni. Ma come tutti i bambini, non sempre accoglievo con gradimento i “suggerimenti”. PerĂČ in-vece di scrollare le spalle come gli al-tri, me ne restavo mogio chino farfu-gliando chissĂ  cosa tra i denti
 Sen-tivo allora la Gigia gridare: «S’a dit: e PatĂšr di lulot?»

“E Patùr di lulot?”

Un libro autobiografico di Fiorenzo Minghetti

di Giuseppe Galli

Page 14: Vocabolario etimologico SOMMARIO romagnolo

14 la Ludla

La Piligrena, o ancora piĂč spesso, la Loma. Ora questo fuoco fatuo (‘da poco’, di apparenza ma di scarsa consistenza) si vede raramente; alcuni dicono addi-rittura piĂč; ma chi gira piĂč le campa-gne di notte a piedi? Per di piĂč con “l’inquinamento luminoso” che ci ritroviamo? Un tempo, quando le bonifiche in atto trasformavano progressivamente in “larghe” le nostre valli e una gran quantitĂ  di vegetali (soprattutto tifee) veniva ogni anno interrata dal vome-re, c’era gran “fermento” sotto il li-vello del suolo e non era impossibile che emissioni gassose trovassero sfo-go all’aperto determinando quei fe-nomeni luminosi che la notte enfa-tizzava con raccapriccio di chi in essi si imbatteva
 dal momento che ve-nivano sempre associati a cadaveri in putrefazione. Ma la fantasia popolare andava oltre. Io stesso da bambino sono stato erudito sulle “pellegrine”: “Puren, cvesti agli Ăš Ăąnum ad ĆĄgraziĂ© [sventurati] che j Ă  mazĂ© e pu i j Ă  splĂŹ alù
 E adĂ«s a-n trĂŽva pĂȘĆĄ parchĂš al n’ù stĂȘdi splidi int e’ cĂąmp-sĂąnt e nison i j Ă  fat giustizia
 E al cuntenva a ĆŸirĂȘr e a

zirĂȘ indo’ ch’i gli Ă  mazĂȘdi
” C’era invero (si era negli anni ’40) anche chi avanzava spiegazioni meno sovrannaturali, cui ero piĂč incline a credere, ma lĂŹ, nel tepore umidiccio della stalla, immerso nella protezione dei famigliari; se mi fossi perĂČ trova-to di fronte alla Piligrena in piena “malanotte” in una landa desolata
 beh, non so proprio quale ipotesi a-vrei presa per buona: se fosse preval-sa la curiositĂ  o il terrore. J Ăš cvel ch’i-n-s pö dĂŹ prĂšma, ammonivano i saggi. E Minghin, classe 1885, se io insiste-vo e insistevo, magari tirava fuori il suo fatto, accaduto molti anni prima, nel 1911 o giĂč di lĂŹ. A quel tempo era un giovanotto ben piantato, saldo nel morale come nel fisico e nella parola, ormai rispettato dagli adulti e ammirato dai pescatori

che come lui praticavano la nobile pesca all’anguilla... mo in realtĂȘ, di bu-ratel, parchĂš da nĂł l’ingvela la j Ă©ra sĂłl la grösa. L’éra ĆŸa brĂȘv, parchĂš e’ su bab u-l tulĂ©va dri a pes ch’l'Ăšra incĂłra un tabach. Forse un giorno racconterĂČ per filo e per segno come si svolgeva la pesca cun e’ bcon (sinistra Bevano) ovvero cun la muscĂ«la (dlĂ  de’ DbĂąn). Per ora se non l’avete mai praticata – e in questo caso quanto avete perso! – fa-tevene un’idea attraverso il disegno di Giuliano Giuliani, che l’ha eseguito secondo le indicazioni del collaborato-re della «Ludla» Armando Venzi (Pace), decano autorevolissimo dei superstiti (rari nantes
) “muscellari” di Castiglio-ne di Ravenna. Insoma, Minghin, int e’ döp-mĂ«ĆŸ-dĂš, l’éra andĂȘ a buratel int l’AcvĂ«ra e u j Ă©ra andĂȘ a pe, ad travĂ©rs i chemp, parchĂš la su ca l’éra l’utma de’ paĂ©s, cvela ch’la cunfinĂ©-va cun la lĂȘrga. IntĂąnt ch’u-n s’éra fat nöt, i buratel, un cvejch bĂ«ch d’ögni tĂąnt, mo pu j’avĂ©va cmenz a dej, a bichĂȘ sĂšmpar piĂČ spes. L’éra nench avnĂč so la lona, mo la lus la-n putĂ©va miga bastĂȘ pr’avdĂ© e' fil dla cĂąna a mĂŽvar cvĂąnt che e’ buratĂ«l e’ bi-chĂ©va! BĆĄugnĂ©va tnĂ© sĂšmpar la mĂąn sĂłra la cĂąna par sintĂŹ e’ tarmon che li la dĂ  cvĂąnt che lo e’ bĂ«ca; e alĂłra u-s tira so, sperĂšnd ad bĂČtal int l’umbrĂ«la. Int e’bur u-s fa tot a mimĂŽria
 CvĂąnt che t’ al tir fura da l’acva e’ buratĂ«l e’ dĂ  un bĂ«l sa-gvazon, mo t’fĂ© fadiga a capĂŹ s’e’ sia fnĂŹ int l’umbrĂ«la o s’l’épa mulĂȘ prĂšma
 Mo se i buratel i i dĂ , e’ buratlĂȘr un möla miga, e e’ nöst Minghin u-s dicidĂš a spjantĂȘ ch’l’éra scvĂ©ĆĄi mĂ«za-nöta. AdĂ«s a mĂ«ĆŸanöta pr’i ĆŸĂčvan e’ cmenza la “vita” e al discutĂ©chi agli arves, mo par on ch’l’éra stĂȘ so prĂšma de’ dĂš par dĂȘ’ cvĂ«l [dar da mangiare] al besti e ĆĄgum-brĂȘ’ la stala l’éra pröpi un’ĂȘta röba
 Mo

Minghin e la Piligrena

di Gianfranco Camerani

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la Ludla 15

Minghin u-l tnĂ©va so e’ murĂȘl. I buratel i vĆĄĂ©va rĂ«sar tri chilo e piĂČ e e’ sachet ad tarliĆĄ l’impinĂ©va tot la spĂŽrta ad pavira arpasĂȘda sia int e’ d’ fura.che int e’ d’dentar cun dla tĂ©la vĂ«cia. Minghin e’ lighĂš insen la cĂąna ad bambĂč, e’ baston e l’umbrĂ«la, mo prema d’ mĂštas tot int la spala u j infilĂš i mengh dla spĂŽrta che, caminend, u la jarep sintida [l’avrebbe sentita] contra la spala
 Una spĂŽrta che da par li la bĆĄĂ©va tri chilo, tri chilo e mĂ«ĆŸâ€Š giost cvĂąnt ch’j Ă©ra i chilomitar da fĂȘ’ pr’arivĂȘr a ca, pasend ad travĂ©rs, u s capes, parchĂš par la VjaĆŸa la jĂ©ra piĂČ longa. Cvel ch’i fos i pinsir che i j pasĂ©va par la tĂ«sta a n’e’ puten savĂ©, mo fĂłrsi im-maĆŸinĂȘ’, s’a pinsen l’etĂȘ ch’l’avĂ©va, che u n’éra maridĂȘ e, sĂłra tot, che u n’éra incĂł-ra avnĂč la gvĂ«ra a bagatĂȘj la vita e ĆĄba-

Minghin a 65 anni nella foto-tessera della licenza di pesca

rachĂȘ la su fameja
 Insoma, l’éra ĆŸa arivĂȘ int e cĂąmp d’ Fa-trin che tot i savĂ©va ch’l’éra stĂȘ un cĂąmp-sĂąnt di rumen d’una vĂŽlta, e ogni tĂąnt, da sota la lĂȘga, e’ vnĂ©va fura dagli ös ad s-ciĂąn, di cop e dal tĂ©gul lĂȘrghi lĂȘrghi, mo nenca dal bajöchi e parfĂšna di gos ad ĂŽv d’galĂ©ni intighi
 che parĂČ j ’éra so par ĆŸo cuma cvi dal nösti
 Minghin dla pavura di murt u n’avĂ©va pröpi, mo ad un zĂ©rt pĂČnt l’alzĂš la tĂ«sta e u la vest! DavĂąnti a lo, un pĂŽ int la stĂąn-ca, e miga tĂąnt ĂȘlta
 la jĂ©ra pröpi li, la Piligrena, nench se lo prĂšma u n’avĂ©va sĂłl sintĂŹ scĂČrar, mo vesta mai. L’éra una luĆĄ bjĂąnca, ch’la parĂ©va balinĂȘ’
 o batar coma ch’ù fos un cĂŽr
 o un’ Ăąmna. Lo dagl’ñman u n’avĂ©va mai vest, mo u i parĂ©va ad Ă«sar sicur che agli Ăąman al fos pröpi acsĂš. La Piligrena la-s muvĂ©va apĂšna apĂšna cĂČma se la tnes d’astĂȘ pröpi lo, Minghin
 La prĂšma imprision, ciapĂȘ acsĂš a la spru-vesta, la fo cvesta, mo döp u s’arciapĂš. Lo pu u n’éra miga un scvaciarĂ«l: l’éra un ripublicĂąn Ăš i j avĂ©va det i su dirigent ĆŸĂč-van cuma lo che u-n-s pö savĂ© ignacvĂ«l e ad böta, mo ch’ l’ù da cvajon invintĂȘ’ dal spjegazion superstizióƥi indo’ che dal spje-gazion sientĂšfichi u n’i n’ù incĂłra. L’avĂ©va pinsĂš ad fĂȘr una bĂ«la ĆŸiravĂŽlta, mo pu, rinfranchĂȘ da e’ su raĆĄunament, e’ vlĂš tirĂȘ’ dret e pasĂȘj adiritura dacĂąnt, mo cvĂąnt ch’e’ fo a lĂš dri u-n putĂš fĂȘ’ d’ mĂąnch ad ĆĄlunghĂȘr e’ pas
 E la Piligrena, dri! Lo u-s mitĂš a caminĂȘ’ piĂČ fĂŽrt ch’e’ putĂ©va, mo li la i jĂ©ra sĂšmpar d’drida e’ cul, la la javĂ©va pröpi cun lo che scvĂ©ĆĄi zenza adĂȘsan, u s’a- truvĂš a cĂČrar piĂČ ch’e’ putĂ©va, cun tot cla

röba ch’l’avĂ©va adös, mo la Piligrena la j Ă©ra sĂšmpar a le. E’ curĂ©va e’ curĂ©va,zenza lintĂȘ’, nench s’e’ sintĂ©va ch’u n’avĂ©va piĂČ e’ rispir e e’ cĂŽr u i staĆĄĂ©va par s-ciu-pĂȘ’, cvĂąnt ch’u-s n’adaĆĄĂš ch’l’éra arivĂȘ in chĂȘv de’ cĂąmp d’ Fatrin e dlĂ  u j Ăšra al tĂ«r dla su famĂŹ. Ël ch’e’ pinsĂš che l’anma la n’aves e’ parmes ad travarsĂȘr e’ fös de’ su cĂąmp-sĂąnt? Fato sta che cun al su Ăčtum fĂŽrz e’ ciapĂš e’ ĆĄlanz par saltĂȘ dlĂ  da e’ fös d’cunfen, mo Ăš pe’ u s’afarmĂš int la riva e Minghin e’ daĆĄĂš una vigliaca ad ĆĄgnachĂȘ int la tĂ«ra seca e pu e’ ruzlĂš ĆŸo cun tot i sacrament adös. Mo intĂąnt ch’e’ cadĂ©va e’ sintĂš sĂłra d’lo cĂČma un «pop»: un armĂłr che u n’avĂ©va mai sintĂč prĂšma e ch’e’ sintĂš sĂłl mĂŽlt döp, cvĂąnt che, sĂ«t–öt Ăšn döp a l’utma gvĂ©ra, l’ arivĂš la luĆĄ nenca a BaĆŸĂąn: un armĂłr cĂČma cvel d’na lampadena che la-s fulmines. StĂ©ĆĄ int e’ fĂČnd de’ fös, tnĂšnd d’astĂȘ che u i turnes e’ rispir e che al ĆŸnöc al ĆĄmites ad tarmĂȘ’, Minghin l’artruvĂš nench la su chĂȘlma e e’ pinsĂš che la Piligrena che prĂšma scvĂ©ĆĄi la-n-s muvĂ©va int l’ĂȘrja fĂ©rma (u-n tirĂ©va gnĂąnch una fofla d’vent) la s’éra infi-lĂȘda d’drida a lo parchĂš cun la cĂąna e e’ baston u i tajĂ©va l’ĂȘria d’davĂąnti; e cvĂąnt che lo l’éra cadĂč, li, ĆĄbatĂšnd int l’ĂȘria fĂ©r-ma, la jĂ©ra sciupĂȘda. Minghin u-s vargugnĂ©va un pĂŽ d’avĂ© avu acsĂš una cagona, [terrore] mo e’ savĂ©va nench che “l’óra de’ pataca” prĂšma o döp la ven par tot. Cvel che invĂ©ci u-n-s pardunĂš mai e’ fo ad nös Ă«sars farmĂȘ a gvardĂȘla cun chĂȘlma, cvel ch’la faĆĄĂ©va, magari tuchĂȘla
 Insoma l’avĂ©va pĂ©rs un’ucaĆĄion
 e un’u-caĆĄion che int la vita la-n capitĂš piĂČ


j avguri dla “SchĂŒrr” e dla « Ludla»

Page 16: Vocabolario etimologico SOMMARIO romagnolo

I frequentatori della Ludla sono da ritenersi lettori peculiari cui non necessita certo l'avvento del Nata-le per rammentarsi di beni universali ed autentici (quanto, purtroppo, inflazionati) quali la tolleran-za, l'attenzione per il prossimo, la pace


Dando tutto ciĂČ per scontato, non Ăš quindi con intenti trasgressivi che nell'ultimo numero di que-st'anno la Ludla propone una poesia di Leo Malto-ni, nella quale la festivitĂ  Ăš preannunciata sempli-cemente dall'improvviso suonare delle campane, accompagnato da un accendersi a festa di luci e fa-nali sulle barche del porto canale di Cesenatico finchĂ©, nell'icastico verso conclusivo, ecco infine l'incanto, lo stupore del Natale, un Natale con un unico inconveniente: piĂč ci s'addentra negli anni e piĂč sembra giungere tanto, forse troppo spesso


p.b. E’ NadĂšl ch’l’à prissia E’ passa in prissia e’ temp da invĂ©rn a istĂšda e int la schina a m’sint e’ pĂ is di an e sempra a d’piĂČ e’ casĂ in u m’dĂ  de dan che dal vĂłlti a n’vagh gnĂ©nca par la strĂšda.

StasĂ ira a m’so decĂŹs d’andĂš a fĂš un zir e a m’so inviĂ© da "e’ Mont" zo pr’e’ canĂšl in du che int j an l’ù cambjĂ© gnaquĂšl e sol i scaf de’ Museo l’ù quji ad jir.

L’ù mis ch’j Ăš senza vĂ il lĂšnzi e batĂ©l cal vĂ ili ch’ l’ù i su sti dla stasĂłn bĂłna cun i culĂčr di sti di dĂ© burdĂ©l,

ma a sint d’un trat che al campĂšni a l’sĂłna e tot al bĂšrchi al s’azĂ©nd d’lusi e d’fanĂšl. "L’ù za NadĂšl?" ... E temp l’ù un lĂšmp ch’u n’ tĂłna... IL NATALE FRETTOLOSO. Trascorre in fretta il tempo dall’inverno all’estate/ e sulle spalle sento il peso degli anni/e sempre maggiormente la confusione mi dĂ  fastidio/ tanto che spesso non scendo neppure in strada.// Stasera ho deciso di andare un po’ in giro/ e mi sono avviato dal "Monte" lungo il porto/ dove negli anni tutto Ăš cambiato/e solamente le bar-che del Museo sono quelle di ieri// Sono mesi che sono senza vele lance e battelli/ quelle vele che sono i loro abiti della cal-da stagione/ coi colori dei vestiti dei giorni bambini,// ma d’improvviso odo il suono delle campane/ e tutte le barche s’ illuminano di luci e fanali/ "E’ giĂ  Natale?"... Il tempo Ăš un lampo senza tuono....

E' NadĂȘl ch'l'Ă  prissia

di Leo Maltoni