Vocabolario etimologico SOMMARIO romagnolo
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La ludla 1
Gilberto Casadio
Vocabolario etimologico romagnolo
La collana della âSchĂŒrrâ Tradizioni popolari e dialetti di Romagna si Ăš questâanno arricchita di una nuova unitĂ : la settima da quando fu varata nel 2001. E si tratta di unâopera che si ri-volge, stavolta, a quel versante della collana â i dialetti di Romagna â finora meno coltivato delle âtradizioniâ. Sempre con lâapporto della Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna, sempre insieme a «La Mandragora» di Imola, sempre sotto lo sguardo benevolo ma attento e severissimo di Giuseppe Bellosi, Ăš nato questo vocabolario etimologico, il primo realizzato in Romagna, e il merito va a
Gilberto Casadio, redattore âstoricoâ della «Ludla», che i lettori da tempo conoscono e apprezzano per i suoi articoli, nonchĂ© per la rubrica Appunti di grammatica storica del dialetto romagnolo che giunge in questo numero alla XXV puntata; a riprova che la nostra Associazione, anche sul piano scientifico, cerca di onorare il nome di quel Friedrich SchĂŒrr che ottativamente fu preso ad eponimo nel 1996. Lâopera raccoglie un migliaio di etimologie romagnole, selezionate sulla base del loro interesse dal punto di vista fonetico o semantico. Sono perciĂČ registrate solo le voci dialettali che si discostano in maniera sensibile dai loro corrispettivi nella lingua nazionale o per lâĂštimo o per lâevoluzione fonetica. Sono cioĂš esclusi quei termini dei quali Ăš facile rintracciare lâetimologia attraverso il loro corrispondente italiano, consultando la parte etimologica di un qualsiasi buon dizionario. Pur non trattandosi quindi di un vocabolario completo, i criteri di selezione suesposti fanno sĂŹ che gli oltre mille lemmi etimologizzati coprano di fatto unâalta percentuale dellâintero patrimonio
[continua a pagina 7]
SOMMARIO p. 2 Intervista a Cino Pedrelli rilasciata a Radio Cesena negli anni â70
p. 4 LâĂš mĂŽrt Riflessione sulla stato del dialetto romagnolo di Maurizio Balestra
p. 5 âAl Bon fĂ«stâ ad Ferdinando Pelliciardi e ad Sergio Celetti
p. 6 Due inediti di Tolmino Baldassari di L. Mariani e G. Zaccherini
p. 8 BĂągn ad NadĂȘl di Antonio Sbrighi (Tunaci)
p. 9 Gli auguri di Mafalda e Gianni Fucci
Al ĆŸanĆŸarĂ uni di Rino Salvi
p. 10 Appunti di grammatica storica del dialetto romagnolo - XXV Rubrica di Gilberto Casadio
p. 11 Parole in controluce Rubrica di Addis Sante Meleti
p. 12 De â44, al Tor deâ MĆŸĂąn di Pier Giorgio Bartoli
p. 13. âEâ PatĂšr di lulotâ di Giuseppe Galli
p. 14 Minghin e la Piligrena di Gianfranco Camerani
p. 16 Eâ NadĂšl châlâĂ prissia di Leo Maltoni
«SocietĂ Editrice «Il Ponte Vecchio» â Anno XII â Dicembre 2008 â n. 10
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Il testo che segue Ăš desunto da unâin-tervista rilasciata da Cino Pedrelli verso la metĂ degli anni â70 a Radio Cesena, che tuttavia non la trasmise mai, nono-
stante il grande interesse che presenta Domanda 1. Quando Ăš diventato poeta dialettale? Risposta. Posso dire di essermi incon-trato con la poesia dialettale roma-gnola in due momenti distinti. Il primo incontro prende il nome da Bruchin e risale, allâincirca, al 1930, cioĂš al momento in cui stavo per fini-re il liceo. Affascinato dalla freschezza e dalla vivacitĂ di quegli ottonari, di quel vernacolo, feci allora le mie pri-me prove di scrittura, in chiave natu-ralmente satirica, ad uso dei miei âcompagnerosâ, studenti e non stu-denti. Diciamo che fu un qualcosa di goliardico (o di semigoliardico), fine a se stesso. Non vidi, cioĂš, in allora, la possibilitĂ che il dialetto offriva per lo sviluppo di altre e piĂč varie temati-che. Poi câĂš stato il secondo incontro, quello determinante. E questo prende nome da Spallicci. Non avvenne in Romagna. Avvenne a Napoli, in una stanza di o-spedale militare, dove mi trovavo rico-verato, alla fine del 1941, reduce, con qualche osso rotto, dalla guerra in Afri-ca settentrionale. Per ringraziare un parente che si era interessato delle mie vicende ospeda-liere, e che sapevo appassionato di poesia romagnola, mi ero procurato una copia della MadunĂȘ (Madonnina), in allora la raccolta piĂč importante che Spallicci avesse pubblicato, e che, fino a quel momento, mi era nota so-lo di nome. Fu sbirciando fra i sedicesimi intonsi di quel libro che mi imbattei in due versi del sonetto Eâ zĂłcar (Lo zucche-ro), un sonetto della collana dedicata ad Ada, la primogenita del poeta. Il poeta ha in collo la bambina, in etĂ , a quel che si capisce, di circa un anno. La bambina non ha voluto il semoli-no che la nonna le ha preparato: ha voluto invece la zolla di zucchero che
ha visto fra le dita del padre. E i due versi erano questi: [...] E me, testa cun testa, a sent lâarmor di dintĂŹn châi sgaroia eâ su palot [...] (Ed io, testa con testa, sento il rumore / dei dentini che sgherigliano il suo pal-lotto) Devo dire che ricevetti, da quei due versi, una specie di urto, nel quale erano presenti diverse cose. Câera lâurto di una poesia realistica, che rompeva lâatmosfera carducciana, dannunziana, pascoliana cui ero as-suefatto: le prime due a misura di e-roe e non di uomo; la terza a misura dâuomo, ma un uomo sempre un po-co idealizzato. Qui trovavo lâuomo vero, lâuomo di tutti i giorni, coi suoi sentimenti nativi, ruvidi fuori e teneri dentro, interamente vissuti, intera-mente spontanei, senza niente di co-struito o di selezionato. Poi câera lâurto del mezzo dialettale: un mezzo espressivo talmente immediato e familiare che non era possibile dubitare della sua sinceritĂ . Infine, câera la scoperta che in dialetto si potevano sviluppare anche tematiche diverse dalla satira e dal riso, si poteva-no cioĂš trattare argomenti che andava-no a toccare corde piĂč intime, piĂč gelo-se, piĂč preziose. Câera in questo secondo incontro una suggestione, un invito, che cer-cai, da allora, di assecondare. 2. Che cosa ha pubblicato? Una sola raccolta, nel 1949: La cume-ta (Lâaquilone) Poi componimenti sparsi, piĂč che al-tro in riviste, e piĂč che altro ne «Il let- tore di provincia» e ne «La PiĂȘ».
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3.. Quali sono le sue piĂč importanti fonti di ispirazione? Ne La cumeta sono evidenti: il paesag-gio inteso soprattutto come comunione con la natura; lâamore; gli affetti fami-liari, la guerra dâAfrica, in qualche momento saliente; la satira. Dopo Ăš nata una nuova dimensione: onirica, surreale. Qualcosa Ăš uscito sul «Lettore di provincia», qual-cosâaltro su «La PiĂȘ». E sono le cose, cui, in definitiva, tengo di piĂč: come quelle che portano alla superficie i turbamenti piĂč remoti ed enigmatici, le domande piĂč sofferte, i drammi che hanno avuto in me gli echi meno manifesti, piĂč soffocati, piĂč chiusi. 4. PerchĂ© il âdialettoâ per la sua poesia? Per le ragioni che ho dette in prin-cipio. Il bisogno di rappresentare âla vitaâ con immediatezza, per me e per gli altri. Siglandola con un âmarchio di ga-ranziaâ, con un sigillo di autenticitĂ , riconoscibile da chiunque (da chiun-que conosca il nostro dialetto, sâintende). CâĂš in questo, ovviamente, anche una rinuncia: la rinuncia a far-si leggere âdai moltiâ. In cambio di una maggiore intensitĂ , che si va cer-cando. 5. Note biografiche. Sono nato a Cesena, nel 1913, in una famiglia di piccoli artigiani. Ho frequentato a Cesena il Ginnasio e il Liceo classico. Mi sono laureato in legge a Pavia. Poi la guerra, lâospedale militare, il ma-trimonio, il passaggio del fronte. Un impiego di fortuna durante la guerra, presso il comune. Poi un al-tro, provinciale. Poi di nuovo in Co-mune. Dal 1959, la libera professione.
Intervista
a Cino Pedrelli
rilasciata a Radio Cesena negli anni â70
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6. Pier Paolo Pasolini, nel suo volume âPoesia dialettale del Novecentoâ, affer-ma, a proposito del suo componimento piĂč noto, âLa stradlinaâ (La stradina), che esso ascende direttamente alla poesia di Nino Massaroli: âLâĂš âna stradlena bianca, bianca, biancaâ (Ă una stradina bianca, bianca, bianca). Condivide questo collegamento? Per la veritĂ , la poesia di Massaroli me la sono andata a cercare dopo a-ver letto lâannotazione di Pasolini: prima non la conoscevo. Qualche punto di contatto â fuggevole â câĂš, ma la âchiaveâ dei due compo-nimenti Ăš totalmente diversa. Ho co-sĂŹ scoperto unâaltra cosa: che Pasolini certe poesie dialettali di cui parla (di-co: âcerteâ, non dico âtutteâ) nellâantologia che lei ha citato, non le leggeva nellâoriginale ma nella tra-duzione. Se avesse letto, infatti, La stradlina nellâoriginale, non gli sareb-be fuggita, appunto, la âchiaveâ del componimento: che Ăš tutta nel rit-mo, tutta nellâarmonia imitativa del treno in corsa, dal quale chi scrive osserva il correre parallelo della stra-dina, sullo sfondo mutevole dei campi; e alla fine, lâimprovviso âsui-cidioâ della stradina. Lâottonario, il giuoco incalzante di certe lettere so-no chiamati proprio a rappresentare acusticamente (musicalmente, se pos-so dirlo) la corsa martellante e sibi-lante del convoglio. Tutte cose di cui Nino Massaroli (che descrive una strada di campagna vista da un pe-done o, al piĂč, da un ciclista, e nean-che in un solo momento ma in piĂč momenti dellâanno) non câĂš, e non poteva esserci, alcuna traccia. 8. Altro rilievo critico. In un suo saggio sulla Letteratura roma-gnola dal â45 ad oggi, Claudio Marabini afferma che, nella poesia dialettale di Pe-drelli «lâidillio non solo si riflette sul mon-do degli affetti e della famiglia ma addir-titura avvolge e stempera la materia bel-lica. Nella poesia di Pedrelli una lumina-ria di bengala foriera di bombardamenti diviene luminaria da festa di paese alla quale il poeta âsi incantaâ. Una compia-cenza tutta visiva, addirittura geniale, in
una sorta di tipica immagine altalenante [...] sparge sulla guerra, veduta sullâaltra sponda mediterranea, una sensibilitĂ in alcuni punti persino turistica. E non sor-ge alcuna problematica. A guerra finita sĂšguita lâidillio degli affetti nel quale la guerra non ha inciso piĂč dello scorrere dâuna goccia dâacqua (altra limpida im-magine pedrelliana) lungo il vetro di una corriera [...]». Ă dâaccordo con questo giudizio? Dâaccordissimo, con qualche riserva. Ă vero che, nel gruppo delle poesie dâAfrica (La gazĂšla â La gazzella) ci so-no componimenti che sviluppano un tema esclusivamente paesaggistico (Marabini dice turistico), in cui il cli-ma della guerra non compare. Devo precisare questo: in Africa, le entitĂ inusitate e, come tali capaci di destare in me delle emozioni, erano due: una era la guerra; lâaltra era lâAfrica stessa, come ambiente. Un cielo allâalba per metĂ nero come la pece, per metĂ dâoro, in Italia non lo avevo mai visto. In Africa lâho visto, mi ha turbato, ho cercato di dire questo mio turbamen-to, ne Ăš nata la poesia MitĂ dĂš mitĂ nĂČ-ta (MetĂ giorno metĂ notte). Non mi dispiace affatto, neanche ora di averla scritta. Del resto, non sono solo in situazioni del genere. Ă accaduto ad esempio a Ungaretti di scrivere, al fronte, nella guerra â15-â18, la sua poesia piĂč nota (e curiosamente nota, perchĂš costitui-ta di un solo verso) in chiave paesaggi-stica. La guerra vi Ăš totalmente as-sente: la poesia Ăš Mattina. Il verso Ăš:
«Mâillumino dâimmenso». Unâalba nella quale il poeta Ăš rapito, quasi assorbito, da una luce improv-visa, da un cielo purissimo che lo so-vrasta. La poesia Ăš infatti datata da S. Maria La Longa: una localitĂ friulana nei pressi del fronte. Marabini mi rimprovera lâassenza del dramma nel sonetto Iluminazion (Il-luminazione). Ă vero. Non câĂš dram-ma. Ă in corso un bombardamento sul porto di Bengasi, e io mi estranio dalla guerra, mi faccio prendere inve-ce dal giuoco dei colori e delle traiet-
torie: dalla luce abbagliante dei ben-gala, dai traccianti delle mitragliere che disegnano archi multicolori nel cielo, dalla pioggia di scintille che e-rompono dagli spezzoni incendiari: come fosse uno spettacolo di fuochi artificiali. Ma che ne sa Marabini della guerra? Per fortuna sua, nel â40-â41 Marabini era un ragazzo di 10 anni, e stava in Italia. Non puĂČ sapere che anche in momenti di tensione estrema ci sono delle evasioni, delle fughe dalla real-tĂ : potrebbero anche essere delle for-me di paura mascherata, di autodife-sa, che si realizza in un estraniamen-to. Non Ăš in quei momenti la storia, nĂš (tantomeno) la filosofia della sto-ria. CâĂš tuttâal piĂč un frammento di cronaca, di autobiografia, non câĂš nessuna moralitĂ sulla guerra. CâĂš un attimo di vita, non classificabile. Comunque se manca in MitĂ dĂš mitĂ nĂČta, se manca in Iluminazion, il dramma, o almeno la tensione, credo sia presente in altre poesie del grup-po: in Spezun incendieri (Spezzoni in-cendiari), per esempio. In ElâAbiar, (che Ăš in qualche modo il mio âZi-denti a chi mâto sĂČ!â (Accidenti a chi mi prende su!) in la NĂšva bianca (La nave bianca). In A caâ (A casa). Quanto poi allâidillio campestre, o amoroso, o familiare, direi che la guerra non câentra. Da che mondo Ăš mondo, le guerre ci sono sempre sta-te. E dopo, lâumanitĂ Ăš tornata a fare lâamore, Ăš tornata a consolarsi negli affetti familiari, Ăš tornata a contem-plare la natura. Se tutto Ăš questo Ăš idillio, ben venga lâidillio. Ma non Ăš idillio ogni com-ponimento breve, anche un compo-nimento breve puĂČ avere una sua in-tensitĂ . Ă questa, in definitiva, che conta. Se Marabini mi dice che componi-menti come Eâ ragn (Il ragno) o come Bab, mama e Stuvanin (Babbo, mam-ma e Stefanino) non lo toccano in nessun modo (idillio o non idillio) io lo lascio nella sua convinzione e resto nella mia: quelle poesie tornerei a scriverle anche ora, a 30 anni e piĂč di distanza.
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Da profano, ho provato a riflettere sul limite temporale (se tale limite e-siste) del nostro dialetto, argomento che ne implica anche lâattuale vitalitĂ . La conclusione, che spero venga sconfessata da chi ne sa di piĂč (e sono tanti), Ăš stata sconfortante. Il dialetto di cui tutti ormai cono-sciamo il rapido declino a partire dal secondo dopoguerra, oggi sembra es-sere ormai definitivamente morto. Sembra ancora vivo. Si presenta bene. Ma siamo di fronte al capezzale di un cadavere. Quando muore una lingua Ăš difficile accorgersene, eppure anche le lingue muoiono. Che il latino sia ormai una lingua morta mi pare assodato. Eppure scommetto che da qualche parte qual-cuno che non se nâĂš ancora accorto ci sia ancora. Ma come? Non si studia anche a scuola? E i preti? I preti in Vaticano non parlano in latino? Non Ăš in latino che la chiesa cattolica redi-ge i propri atti ufficiali? Ci sono an-che dei siti internet completamente in latino! Certo. Ma che continui ad essere utilizzata da qualcuno o in qualche particolare situazione non fa del latino una lingua meno morta di quello che Ăš. Ma quando muore una lingua? Quando non Ăš piĂč usata per comuni-care nella quotidianitĂ . E questo per il latino Ăš successo da un pezzo. Certo una lingua non muo-re veramente, si trasforma in qualcosa di altro, alcune parti od aspetti di essa continuano a vivere sotto altre forme. Ă vero. Ma quella lingua non Ăš piĂč la stessa. Ă unâaltra cosa. Lo stesso Ăš successo al nostro dialetto. Certo, noi che continuiamo ad usarlo tutti i giorni facciamo fatica ad accor-gercene. Ma Ăš cosĂŹ. Ma quando Ăš morto? (e dire che ultimamente sem-brava anche stare anche meglio del solito). Io credo attorno alla metĂ de-gli anni â70 (forse la stima Ăš per ecces-so). Ma come puĂČ essere morto se continuiamo ad usarlo? (anzi, io mi sforzo di farlo apprendere anche a mia figlia e credo che voi facciate o
abbiate fatto altrettanto). Il fatto Ăš che a partire da quel periodo (ricor-diamo che a quegli anni risalgono importanti fenomeni sociali quali la diffusione capillare della televisione, la scolarizzazione di massa, una im-ponente migrazione dal sud dellâItalia verso il nord) il dialetto Ăš diventato inutile/superfluo alla normale comu-nicazione quotidiana. Non Ăš stato piĂč capace di adattarsi al rapido (troppo rapido) mutare della realtĂ . Di inven-tare parole nuove capaci di descriver-la. Questo semplicemente perchĂ© le pa-role câerano giĂ . Adatte e comprensi-bili a tutti (e se non proprio a tutti, comunque ai piĂč e fra questi, chia-ramente, i piĂč giovani). Ricordo che in prima elementare â e-ra il lontano 1966 â fra le preoccupa-zioni della maestra câera quella di in-segnarci a parlare correttamente lâita-liano. Questo perchĂ© molti di noi ri-sentivano ancora dei modi del dialet-to che parlavano a casa (o che senti-vano parlare dai loro genitori). Per noi era normale dire âil zucche-roâ. In dialetto non câĂš distinzione fra il e lo. Oppure dire âci mettiamo in sedereâ (italianizzando âa sâ mitam in ĆĄdĂ©iâ). Credo perĂČ che nel giro di un anno, due, o poco piĂč, il problema si sia risolto da solo (io parlo per noi cittadini, in campagna probabilmente câĂš voluto un poâ piĂč di tempo), per-chĂ© a favore delle maestre e con mag-giore successo, stava nel frattempo, lavorando la televisione. Se andiamo a cercare le ultime parole che il dialetto ha fatto proprie, pren-dendole comunque a prestito dallâitaliano, ci fermiamo ancora prima.
Fra gli anni â20 e â30, cominciano a diffondersi automobili e motociclette. Al machini e i mutur. Pur rifacendosi allâitaliano, in questi anni il dialetto ha ancora una funzione creativa. Non ci si limita a dialettizzare i termini ita-liani, ma dei relativi oggetti si cerca di cogliere la caratteristica principale. Anche se definita da parole che nel dialetto esistono giĂ e che vengono adattate alla nuova situazione. Lâautomobile, che Ăš una macchina che cammina, diventerĂ semplicemente la machina (quasi la macchina per eccel-lenza) e la motocicletta, eâ mutor, per-chĂ© ciĂČ che colpisce di piĂč in una moto Ăš chiaramente il suo motore. Anche per quanto riguarda gli aero-plani, j aparec, Ăš lâaspetto tecnico meccanico a colpire e a prevalere. Il dialetto perĂČ si arrende di fronte allâ autocarro, che sarĂ semplicemen-te eâ camion, parola che (se non sba-glio) viene dal francese (e che giĂ ave-va prevalso anche in italiano). CosĂŹ come, in precedenza, si era arreso di fronte al treno, alla bicicletta (a cui ci si limita a togliere la doppia, che suo-na male) ma anche alla radio, alla cel-luloide (anche questa senza doppia) eccetera. Se consideriamo i popoli che nel tem-po si sono avvicinati al nostro orizzon-te concettuale possiamo ricondurre al dialetto solamente quelli con cui ab-biamo avuto rapporti da piĂč tempo. In dialetto possiamo parlare dei nostri vicini: francesi, tedeschi, inglesi (fran-ziĆĄ, tedesch, ingliĆĄ); cosĂŹ come dei piĂč lontani americani e russi ( j americhen e i ros); ma anche degli africani, degli in-diani o degli asiatici con cui, se non fosse per altro, abbiamo comunque avuto dei rapporti nelle due ultime
Lâ Ăš mĂŽrt
Riflessione sullo stato del dialetto romagnolo di Maurizio Balestra
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guerre mondiali (indiin, africhen, cinis, giapunis). Ma avvi-cinandoci al dopoguerra e alla guerra fredda giĂ tradur-re con cuben i cubani non ci suona piĂč troppo bene. CosĂŹ come tradurre con cureen i coreani (cureen o cu-rein?). Non câĂš problema per i vietnamiti, che restano tali e tali restano e resteranno gli arabi, gli slavi, i croati, gli sloveni, per non parlare dei bulgari, dei rumeni, ecc. Anche i nuovi prodotti che nel dopoguerra diventeran-no il simbolo della nuova civiltĂ del consumo di massa rimangono indigesti, quando non del tutto estranei, al nostro dialetto. La parola italiana radio, lâabbiamo giĂ detto, era stata accettata e incamerata, cosĂŹ comâera (quando non era stata, veniva/viene storpiata in aradio). Felice Ăš la contra-zione di frigorifero in frigo, ma Ăš anche dellâitaliano. E-sclusive del dialetto television e ziradesch al posto di tele-visione/televisore e di giradischi, ma chiaramente deri-vate da queste ultime. Abbiamo poi una valanga di pa-role che restano tali e quali: lavatrice, aspirapolvere, lu-cidatrice⊠la plastica, la formica, il nylon (nailon), il ra-yon (raion)âŠ
Il gioco potrebbe andare avanti allâinfinto, anzi, nella spe-ranza di venire smentito, vi consiglio proprio di giocarlo, se non altro per riuscire a cogliere e definire con maggiore chia-rezza questo limite/confine su cui il nostro dialetto sembra volersi arrestare.
Autunno '44. I primi indiani, entrati in Romagna al seguito delle truppe inglesi, guadano il Marecchia sotto Verucchio.
Al bon fĂ«st ad Ferdinando d'PlizĂȘra e ad Sergio Celetti
RĂČma, NadĂȘl 2008 â An NĂŽv 2009 Sâa fos un strölgh a vrĂšb dĂŹâ che stâ ĂȘtrâ an u s pĂČ lighĂȘr i chen cun e salam, j afĂ©ri i farĂ ardusrâ un sach dâ cvatren, salut, ligrĂšza e zugh par grĂšnd e znen. MĂČ chi châal sa se lâan châe ven e srĂ bon? Tot cvĂšnt i l spĂ©ra, mĂČ⊠e dipĂšnd da nĂ”. ElĂłra, sĂČ, curag!, che la partida la s pĂČ dĂŹâ venta sĂłl cvand châlâĂš finida.
Verso Betlemme, Xilografia di Sergio Celetti.
Se io fossi un veggente vorrei [poter] dire che lâanno prossimo / si potranno realizzare anche gli obiettivi piĂč fantasiosi, /gli affa-ri faranno accumulare un sacco di soldi, / salute, allegria e divertimenti per grandi e piccoli. Ma chi lo sa se lâanno che sta per arrivare sarĂ buono? / Tutti quanti lo sperano, ma⊠dipende da noi./ E allora, sĂč, coraggio!, che la partita / si puĂČ considerare vinta solo alla fine.
Ferdinando Pelliciardi
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Un incontro con Tolmino Balassari Ăš sempre ricco di u-na comunicazione, non solo culturale e letteraria, ma an-che emotiva, per lo stigma della sua personalitĂ , che, na-turalmente, si riverbera sui suoi interlocutori, oltre che nel suo âsentireâ poetico. Nella sua villa di Cannuzzo, tra lâansa del Savio e i campi di frutteti, accanto alla fedele compagna Giuliana, ab-biamo chiacchierato di poesia romagnola e non, mentre le sue âarzdoreâ ci mostravano orgogliose la poesia dei loro cappelletti e tagliatelle estratti da un monumentale congelatore. Tolmino, poi, ci ha mostrato i suoi ultimi studi e ricerche che sono incentrati sulla âriscopertaâ di un âgrandeâ ro-magnolo che non Ăš mai stato pienamente riconosciuto nel suo valore, Dino Campana, e in una ricerca sui piĂč comuni errori della grafia di vocaboli italiani, che ha me-ticolosamente trascritto e corretto con la relativa esau-riente spiegazione. âNon Ăš una questione di perfezionismo â ha detto â la precisione, la cura dei particolari espressivi fanno parte della cultura anche del poeta; oggi - ha aggiunto â mi ar-rivano testi letterari, in italiano o in dialetto, che oltre a rivelare, spesso, uno squallore di contenuti, âbrillanoâ per la sciatteria formale e il peggio Ăš che gli stessi autori non se ne rendono conto.â Da qui il poeta prende lo spunto per citare Giuseppe Valen-tini, uno che di dialetto sembrava che ne masticasse poco perchĂ© per la sua formazione professionale di diplomatico aveva dovuto privilegiare un italiano classico e anche per-chĂ© era stato spesso lontano dal suo San. Zaccaria: eppure non sbagliava un accento o una grafia. Ma lâ opera di Valen-tini Ăš anche da rileggere e rimeditare per lâ assoluta ricchezza delle sue immagini e delle sue riflessioni. Altro esempio di rigore esemplare nel campo dello studio e della ricerca nella filologia romagnola Ăš, per Tolmino, Giuseppe Bellosi che da decenni puntualizza aspetti della cultura popolare e colta romagnola, di altissimo livello, e per salvare la nostra identitĂ questa Ăš lâ unica via. Inevitabilmente, il discorso cade sulla âLudlaâ a cui rico-nosce un ruolo importante di critica e divulgazione e che dovrebbe selezionare e segnalare sempre i prodotti mi-gliori della nostra letteratura, senza paura di essere giudi-cata troppo esigente o âelitariaâ. Ă a questo punto che, proprio riallacciandoci al suo invito a mantenere sempre alto il livello culturale, abbiamo avuto lââardireâ di chie-dergli se puĂČ regalare ai lettori della âLudlaâ qualche i-nedito della sua ultima produzione e il poeta, con imme-diatezza, sceglie da un fascicoletto, fresco di macchina da scrivere, due liriche e me le consegna: âSaranno il mio regalo di Natale agli amici della "SchĂŒrr" e della âLudlaâ.
Sta puiĆĄĂŹ La mâĂš vnuda cvĂąnt a durmiva mo adĂ«s an mâarcĂŽrd piĂČ
cvel châla gĂ©va ad cvel châla scurĂ©va lâĂ©ra una parĂŽla bĂ«la châa nâavĂ©va mai det e adĂ«s an so cum châĂČ da fĂȘ mo sâu mâavnes cla parĂŽla eâ sareb la piĂČ bĂ«la châa j Ă©pa mai det
Questa poesia. MâĂš venuta quando dormivo / ma adesso non mi ricordo piĂč / quello che diceva di quel che parlava / era una parola bella / che non avevo mai detto / e adesso non so come devo fare / ma se mi venisse quella parola / sarebbe la piĂč bella che abbia mai detto
J Ăšn J Ăšn j Ăš dalĂČngh e me an mâĂčn so dĂȘ j Ăš arivĂ© dâböta ad sĂČra e dâdentar mo cvi châfaĆĄĂ©va i faicun int eâ mi fiun CuciarĂŽl VarĆŸi Guidoni Fagiöli e nisun is arcĂŽrda ai so sĂłl me mo u j Ăš Ăčn mur ad ĂȘria châĂčn sâpö pasĂȘ Gli anni. Gli anni sono lontani e io non me ne sono accorto / sono arri-vati allâimprovviso sopra e dentro / ma quelli che facevano i tuffi nel mio fiume / CuciarĂŽl Varzi Guidoni Fagiöli / e nes-suno piĂč li ricorda / ci sono solo io ma câĂš un muro dâaria / che non si puĂČ passare Tolmino Baldassari, con questi intensi inediti, ci apre lo scenario di un sogno, rendendoci cosĂŹ partecipi di unâ esperienza intima e lasciandoci penetrare nella parte piĂč aurorale di sĂš , quella che si situa al confine tra la sensa-zione del corpo e la formulazione del pensiero, la sfera emozionale generativa della poesia. Assistiamo alla germinazione dellâ immagine poetica, ci incantiamo alla comparsa della âparĂŽla bĂ«laâ come atto magico della mente, la vediamo affascinare, toccare emo-tivamente il poeta, ma poi, leggera, eccola fluttuare nellâ etere e, dispettosa, dileguarsi.
Un regalo per la âSchĂŒrrâ e «la Ludla»
Due inediti di Tolmino Baldassari
di Luisa Mariani e Giovanni Zaccherini
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Ă sfuggente, imprendibile e, alla fine del sogno, evapore-rĂ lasciando la scia del suo profumo, la sensazione strug-gente di un bello, ma cosĂŹ bello che Ăš inafferrabile dalla mente e che puĂČ solo lasciare una sensazione, quasi unâ impronta affettiva indelebile, una nostalgia di pienezza, una vaghezza di felicitĂ come lâ aver toccato la veritĂ ul-tima, quel sentirsi allâ unisono nella relazione primordia-le con la vita agli albori dellâ esistere⊠E da quel momento primitivo, quasi senza accorgersene, sono trascorsi tanti anni, âj Ăšn j Ăš dalĂČngh e me an mâ un
o Tolmino Baldassari fotografato dagli autori nella sua casa
so dĂȘâŠâ, anni che hanno attraversato il dentro e il fuori, che sono stati vissuti con intensitĂ , che sono pieni di ri-cordi, che hanno contenuto una storia. E cosĂŹ come nel sogno di âSta puisĂŹâ era apparsa la âparĂŽ-la bĂ«laâ, nella lirica âJ Ăšnâ fa capolino la consapevolezza dello scorrere del tempo, della solitudine, del contatto sĂ© con sĂ© e, infine, dellâ attesa dellâ ultima poesia da sogna-re, quella che dipingerĂ la visione fantastica del âmur ad ĂȘriaâ finalmente attraversato.
L. M. [email protected] G. Z. [email protected]
e mentre legge le sue poesie accanto alla moglie Giuliana
[Segue dalla prima] Gilberto Casadio, Vocabolario Etimologico Romagnolo
linguistico romagnolo. Lâautore, faentino, riporta prevalentemente termini dellâarea romagnola nord-occidentale, ma sono numerosi anche quelli dellâarea centrale e riminese. Sono presenti, oltre alle parole dellâuso, anche diversi vocaboli, oggi desueti, desunti dai di-zionari ottocenteschi (Morri, Mattioli, Tozzoli). Le singole voci si articolano in tre sezioni. Nella prima viene presentato il lemma, affiancato dalla categoria grammaticale, dalla traduzione o dalla spiegazione del significato ed eventualmente dalle sue forme alterate e derivate, quando ritenute significative. Nella seconda viene fornita lâetimologia dei singoli termini, con particolare attenzione al processo di evoluzione fonetica che di fre-quente Ăš indicato passo per passo perchĂ© possa essere compreso an-che dai non specialisti. La terza sezione, presente solo in un numero limitato di lemmi, ri-porta la citazione dei passi delle opere di alcuni autori romagnoli dellâultimo secolo nei quali Ăš presente in forma âitalianizzataâ il termine in questione.
Frontespizio del primo Vocabolario Romagnolo â Ita-liano pubblicato a Faenza da Antonio Morri nel 1840.
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BĂągn ad NadĂȘl
Versi di Antonio Sbrighi (Tunaci) illustrati da Giuliano Giuliani
Eâ s-ciöca eâ zöch dâNadĂȘl sĂłra i cavdon; i grend i sâĂš lavĂ©: u j Ăš eâ paciugh in tĂ«ra; lâĂš dvintĂȘda stila la pala deâ savon e eâ foma lâacva chĂȘlda int la mastĂ«la.
Eâ gat sĂłra lâurĂŽla u sâazambĂ«la; eâ canavaz lâĂš rud, lâĂš ad tela caĆĄalena: eâ suga e eâ raza nench la prĂšma pĂ«la. Bagno di Natale Schiocca il ciocco di Natale sopra gli alari; / gli adulti si sono lavati: câĂš il guazzo sul pavimento / Ăš diventata sottile la palla del sapone / e fuma lâacqua calda nella mastella. // Il gatto sopra lâarola si acciambella; / il canovaccio Ăš ruvido, Ăš di tela fatta in casa / asciuga e porta via la prima pelle. Una nĂŽta prâeâ gat Il gatto acciambellato sullâarola al tepore del ciocco sembrerebbe rientrare nella norma. Forse oggi, chĂ© gli scaffali dei supermerca-ti traboccano di confezioni di cibi per cani e gatti⊠Un tempo per la cena del gatto câera appena qualche scarto; dopo di che il domestico felino âsgattaiolavaâ (chi la ricorda la gattaiola?) fuori a cercare di che riempire il ventre. PiĂč tardi, quando tutti erano a letto, rientrava in casa ad appostare i topi che uscivano dai loro pertugi per cercare anchâessi qualche rimasuglio⊠Per questo si tenevano i gatti: per prendere i topi! Solo nel clima festoso della vigilia di Natale, persino nelle case dei braccianti câera di che sfa-marsi anche per il gatto di casa.
9 la Ludla
Gli Auguri di Mafalda e Gianni Fucci
NadĂȘl da sĂ©mpraâŠ
FĂ©rum eâ zil tla sĂ ira, sâche brilĂ© ad tĂłtt cal stĂšli sĂČra eâ davanzĂȘl. DalĂČngh, dalĂČngh, apena un susurĂ© âd vĂČĆĄi ormai pĂ©rsi. Tâun inchĂȘnt totĂȘl
a sint châa l tĂČurna, a l tĂČurna a bugarĂ© ti mi pensĂŹr dâun tĂ©mp che ancĂČura i vĂȘl ĂȘnca sâu sâĂš fat strach ste caminĂ©. Mo lâĂš la vĆŸĂ©iglia e dmĂȘn lâĂš ĆŸa NadĂȘl!
Eâ fugarĂšl de cĂłr lâĂ una sperĂȘnza: châeâ vĂ©nga un mĂČnd ad pĂȘĆĄa prâi âcri-is-cĂ©nâ si Ăš ĆŸal, o nir, o rĂłss u nâĂ impurtenza!
basta châu s tĂČurna tĂłtt a stĂȘ piĂČ insĂ©n spuiandsi dlâegoĂ©iĆĄmi e dlâarughĂȘnza. NadĂȘl, da sĂ©mpra, eâ vu dĂ©i vlĂ is bĂ©n! Natale da sempre. Fermo il cielo della sera, con quel brillare \ di tutte le stelle sopra il davanzale. \ Lontano, lontano, appena un sussurrare \ di voci ormai perse. Nellâincanto totale \\ sento che tornano, che tornano a parlottare \ nei miei pensieri di un tempo che ancora vale \ anche sâĂš ormai stanco il camminare. \ Ma Ăš vigilia e domani Ăš giĂ Natale! \\ Il focherello del cuore ha una speranza: \ che venga un mondo di pace per i âcristianiâ\ se gialli. o neri, o rossi non ha importanza! \\ basta che si torni tutti a stare piĂč insieme \ spogliandosi dellâegoismo e dellâarroganza. \ Natale, da sempre, vuol dir volersi bene.
Al zanzarĂ uni
Un racconto di Rino Salvi nel dialetto di Santarcangelo QuĂ nt che i cĂčdli ad LĂŽi e parĂČiva châi fumĂ©ss da eâ cĂŠld e la tĂšra dĂ© mi santĂŹr la scutĂŠva sĂČta i pi nĂ©ud, u jâĂ©ra snĂČ un pĂČst duvâĂš che t putĂŹvi zughĂš in pĂŠsa mĂ© frischĂŹn, la fĂČsa, pina ad ombra e ad aqua châla mâarvĂ©va mi znĂŽcc se eâ mulĂČin âd SapignĂčl e masnĂŠva, sâlâĂ©ra fĂ©rmi invĂŹci u i nâĂ©ra âna cavĂ©ja tra sĂš e nĂČ. Eâ sĂ ul, filtrĂ©nd apĂšna tra al fĂČi fĂ©ti, e fĂ©va dal mĂ ci ad luce sĂ ura châlâaqua vĂČirda e, at châal mĂ ci châlâi n stĂšva mai fermi, u s dundulĂŠva lizĂŹri al zanzarĂ uni. LâĂ©ra mal zanzarĂ uni che mĂš a dĂ©va la cĂ za. A strissĂ©va piĂ nin piĂ nin i pi per nĂČ spavantĂŠli parchĂš quĂšli aglâera bĂŽni ad caminĂ© s lâaqua cmĂ© CrĂ©st e, quant châa sâĂ©ra a lĂš dri, a i dĂ©va âna grĂ n bĂČta sla palĂšta dla stĂčfa.. MĂČ lâĂ©ra fadĂŽiga ciapĂŠli, al sguitrĂ©va vi cmĂš di razz e, pa-ciaciĂ ff, unâĂŠnta bĂČta e pu unâĂŠnta e unâĂŠnta ancĂ ura e ogni bĂČta a mâarabiĂŠva sĂ©mpra ad piĂČ... a la fĂČin a mâartruvĂŠva incazĂŠd dĂ©ur e tĂŽt mĂČl.
Li nâĂ©ra âna mĂ sa quĂšli châa ciapĂŠva, a glâĂ©ra invĂŹci un sach al bĂČti châl a m dĂ©va la mi ma. E, intĂŠnt châlâa m mnĂŠva la giĂČiva: â MĂš a dĂ©gh che tâci sĂ©mo.-
Idrometra
10 la Ludla
[continua dall numero precedente]
LE DECLINAZIONI Delle cinque declinazioni latine quelle meglio conservate sono la prima (in -a), la seconda (in -o), in parte la terza (in -e), mentre la quarta Ăš quasi del tutto scomparsa e la quinta lo Ăš totalmente. Prima declinazione A questa declinazione, che accoglieva nomi uscenti in -a prevalentemente femminili, si sono aggiunti diversi nomi in -e della terza. Esempi: CALIGINE âfumo neroâ âș caleĆŸna âfuliggineâ; APE âș ĂȘva âapeâ; GLANDE âș genda âghiandaâ, AXE âș ĂȘsa âasseâ, CI-
MICE âș zemĆŸa o zemza âcimiceâ, PULICE âș polĆĄa âpulceâ; FAL-
CE âș fĂȘlza âfalceâ; LEPORE âș levra o livra âlepreâ; PULVERE âș porbia âpolvereâ; VITE âș vida âviteâ; RADICE âș radiĆĄa âradiceâ; CARNE âș chĂȘrna âcarneâ ecc.
Seconda declinazione A questa declinazione caratterizzata dallâuscita in -u (in italiano -o) si sono aggiunti gran parte dei nomi della quarta ed un buon numero dei neutri della terza, previa caduta della consonante finale come TEMPUS âș temp âtempoâ; CORPUS âș cĂŽrp âcorpâ; MARMOR âș mĂȘrum âmarmoâ ecc. In romagnolo, in veritĂ , stante la caduta delle vocali finali diverse da -a, non Ăš sempre possibile verificare se siano avvenuti tali passaggi ed in quale misura. Ad esem-pio dal lat. SORICE âtopoâ abbiamo in italiano sorcio (anti-camente sorco) che presuppone un evidente passaggio alla seconda declinazione: *SORICU. Anche per il romagnolo sorgh Ăš probabile questo passaggio intermedio in quanto da SORICE ci saremmo aspettati un *sorĆŸ.
Terza declinazione Come abbiamo visto sopra, numerosi nomi femminili di questa declinazione in -e sono passati a quella in -a. Que-sto passaggio non Ăš perĂČ regola in tutte le parlate roma-gnole: sono numerosi i termini in -e che nelle parlate del-la Romagna centro-orientale sono passati in -a, mentre sono rimasti tali nella parte piĂč occidentale del territorio. Negli esempi che seguono la prima forma Ăš quella occi
dentale, la seconda quella centro-orientale. VULPE âș vojp / vojpa âvolpeâ; NOCTE âș nöt / nöta ânotteâ; CRUCE âș cróƥ / cróƥa âcroceâ; PELLE âș pĂ«l / pĂ«la; SAEPE âș siv / seva âsiepeâ; TUSSE âș tos / tosa âtosseâ; SEMENTE âș sment / smen-ta âsementeâ; GENTE âș ĆŸent / ĆŸenta âgenteâ; VOCE âș vóƥ / vóƥa âvoceâ; RETE âș red / reda âreteâ; NIVE âș nev / neva âneveâ ecc.
Quarta declinazione In generale si puĂČ dire che i femminili appartenenti a questa declinazione sono passati alla prima (NURU âș *NĆźRU âș *NĆźRA âș nĂŽra ânuoraâ), i maschili alla seconda (FRUCTU âș frot âfruttoâ). Fa eccezione, come in italiano, il femminile MANU che non passa ad -a: man âmanoâ.
Quinta declinazione Dato che la quasi totalitĂ dei nomi di questa declinazione (in -e) erano femminili si Ăš avuto per molti il passaggio alla declinazione in -a, come per FACIE âș faza âfacciaâ. In altri casi assistiamo agli esiti dei femminili in -e della terza come per FIDE âfedeâ che passa a fĂ©d nel romagnolo occi-dentale, a fĂ©da in quello centro-orientale. Unâeccezione, che Ăš presente del resto anche in italiano, Ăš data da GLA-
CIE âghiaccioâ che passa regolarmente a ghiaccia solo nellâitaliano antico. In romagnolo abbiamo, come per lâitaliano moderno ghiaccio, il maschile, difficilmente spiegabile, giaz.
[continua nel prossimo numero]
Appunti di grammatica storicadel dialetto romagnolo
XXV
di Gilberto Casadio
La ludla 11
Rubrica curata da
Addis Sante Meleti
Caval: ital. cavallo, (franc. cheval, spagn. caballo) lat. CABALLUS. Nei testi antichi CABALLUS ovviamente compare un poâ meno di EQUUS, da cui poi sono stati poi ripescati i deri-vati ital. equino, equestre, equitazione⊠Ma EQUUS era il cavallo dei signori, della cavalleria, mentre CABALLUS era il cavallo da fatica, talora castrato, piĂč quieto e docile. Câera da aspet-tarsi che fosse questâultimo il vocabo-lo destinato a sopravvivere. Varrone, Sat. Men. LXI: alium caballum arboris ramo in humili adligatum relinquit (la-scia un altro cavallo legato al ramo basso dâun albero) 1 Petronio Satyri-con CXXXIV: mollis, debilis, lassus, tamquam caballus in clivo: (molle, de-bole, stanco come un cavallo in un pendio). Con la sola sostituzione di caval /âcavalloâ ad equus, lâantichitĂ ci ha lasciato vari traslati o modi di dire. Uno â un poâ osceno â ci Ăš fornito da Orazio, Sat. II 7: âŠagitavit equum lasciva supinum⊠([la prostituta] agitĂČ lasciva il cavallo supino), dove il âca-
valloâ Ăš la biforcazione delle gambe del pigro cliente occasionale; ma var-rebbe anche per calzoni e brache, se Orazio li avesse indossati2. Sti bragon i t fa lâuvaron int eâ caval, diceva mia nonna, quando i pantaloni passavano dal nipote troppo cresciuto allâaltro non cresciuto abbastanza, dove lâuvaron Ăš la mammella gonfia della mucca, in lat. UBER. Leggiamo poi in San Gerolamo: Equi donati dentes non inspiciuntur (ânon sâispezionano i denti del cavallo donatoâ): ovvero, âa caval donato non si guarda in boccaâ. Era quel che si vedeva fare finchĂ© in ogni paese si svolsero le fiere: compratori e mediatori aprivano la bocca di bovini ed equini in vendita per valutarne lâetĂ dallâusura dei denti. 1) Se, anzichĂ© adligatum relinquit (âlo la-scia legatoâ), usando il cosiddetto partici-pio congiunto, avesse scritto adligatum tenet e, infine, habet (âlo tiene legatoâ, âlâha le-gatoâ), come qualcuno anche allora avrĂ detto alla buona, avrebbe mostrato la genesi del passato prossimo che nel lat. scritto non compare. Si noti che il passa-to prossimo prevale nei dialetti setten-trionali, come nel caso del romagn. sâĂ«l stĂȘ? Nel meridione invece si restĂČ fedeli allâuso del passato remoto, come nel sici-liano, châu fu? 2) In unâaltra situazione (di fronte a un uomo che, mutato in lupo, sâaggirava di notte tra le tombe) anzichĂ© âcavalloâ compare in lat. direttamente bifurcum (âbiforcazioneâ), la furzĂ©la (dal gambi): Petronio, Satyricon LXII, sudor mihi per bifurcum volabat (il sudore mi volava lun-go la biforcazione). Sembra persino lati-no maccheronico da cui basta poco per passare alla triviale espressione nostrana: u-m fumĂ©va i quaiĂłn. Lâaccenno casuale allâuomo mutato in lupo rivela lâantichi-tĂ della credenza â che risaliva al mito greco e che qua e lĂ riaffiora ancor oggi â nel âlupo mannaroâ, corruzione di LU-
PUS *HOMINARIUS, calco o quasi sul gre-co antico lykĂ nthrĆpos. BĂłls, imbulsĂŹ: in ital. bolso, imbol-sito. Aggettivo normalmente riferito ad un cavallo gonfio, spossato, che respiri a fatica: ma che puĂČ riferirsi pure ad altri animali, uomini com-presi. Deriva dal part. pass. lat. vul-
su[m], dal verbo vĂšllere, âstrappareâ (detto dei âpeliâ). Nellâaccezione no-strana di caval bĂłls lâuso probabil-mente si diffuse piuttosto tardi, giac-chĂ© in questo senso si ritrova solo a partire da Vegezio (IV/V sec. d. C.), che scrisse di arte militare e di vete-rinaria1. Prima vulsus o uolsus era sta-to usato in senso proprio, per indica-re lo sbarbatello o anche solo chi si presentasse azzimato o depilato, la-sciando supporre una scarsa virilitĂ (un gran difetto, almeno in un caval-lo). Un cuoco, in Plauto, Aulularia 402, dice allâaiutante: Tu istum gallum, si sapis, glabriorem reddes quam volsus ludiuâst (E tu, se sai farlo, riportami codesto galletto piĂč spelacchiato di quantâĂš un ballerino depilato2). I rudi plebei latini del suo tempo dovevano ridere molto per una battuta che tirava in ballo un ballerino ambiguo nelle movenze, per di piĂč volsus, depilato.
1) Il Diz. etim. Cortelazzo-Zolli ne ripor-ta la citazione: i cavalli sono tussientes et vulsi. Dobbiamo intendere giĂ âbolsiâ, come sâintende oggi, o solo cavalli che, quale effetto secondario dei loro malan-ni, non avevano piĂč il bel pelo che di-stingue quelli sani? In ogni caso, il cam-bio di significato, da vulsus (âcol pelo strappato, o caduto, o sciupatoâ) a uolsus (âfiacco, indebolitoâ) Ăš avvenuto dopo che il significato originario sâera perso del tutto; ma, tanto per cominciare, giĂ tra Plauto e Vegezio intercorre mezzo millennio. 2) Quam volsus ludiuâst (o, meglio, nellâordine quam [non] est volsus ludius), spiega il dialettale châu nâ Ăš che introdu-ce il secondo termine di paragone con la sola aggiunta rispetto al latino dellâav-verbio di negazione ridondante, pleona-stico; comâĂš, ad esempio: lâĂš ormai piĂČ grĂąnd châu nâ Ăš eâ su ba; lâĂš piĂČ fĂ cil a dil châu nâ Ăš a fĂȘl.
la Ludla 12
Cla matena al si [alle sei] la zeja la fo la prĂšma a dĂȘâ fura dâin ca, o mej, da la Tor, prâandĂȘr a fĂȘâ eâ su bĆĄogn, parchĂš ilĂ u-n gnâj Ă©ra eâ lucomud. Mo la turnĂš sĂČbit indrĂŹ tota agitĂȘda, dgĂšnd che u j Ă©ra dal padĂ«l ĆĄmaltĂȘdi atachĂȘdi a la muraja. Agli Ă©ra dal men [mine]. Döp un pĂŽ i vens di tudesch a cazĂȘs vi, parchĂš j avĂ©va da fĂȘâ saltĂȘr igna-cvĂ«l: lâĂšra i cvĂ tar dâdizĂšmbar deâ cvaranta-cvĂ tar. La Tor lâĂ©ra tot cvel châlâĂ©ra armast dlâantigh castĂ«l di Raspon, fat â u-s diĆĄ â deâ mel-e-tarĆĄĂšnt, e che alĂłra lâavĂ©va cvĂ tar tor. NujĂ©tar, da RavĂšna, a sema andĂ© ilĂ , sfulĂ©, i diĆĄ ad ĆŸogn, cvĂąnt che la zitĂȘ la fo survulĂȘda da i reuplĂąn americĂąn châj andĂ©va a bumbardĂȘâ FrĂȘra; e pu u-s dgĂ©va che eâ sareb tuchĂȘ a nĂł. Da bas int la Tor u sâĂ©ra sistemĂȘ a la mej la mi fameja e cvela dla surĂ«la dâmi mĂȘ [madre]. SĂłra da nĂł u j Ă©ra dagli ĂȘtri famej e, a la veta dâpösta, u j Ă©ra i tudesch cun lâuservatĂŽri e eâ telĂ©graf. A cumplitĂȘ lâasurtiment u j Ă©ra nench di renitent che i staĆĄĂ©va bĂšn
nascost in di buĆĄ e che i daĆĄĂ©va fura sĂłl la sĂ©ra, prĂšma deâ copri-fugh, in-vstĂŹ da dĂČna, par ciapĂȘ âna buchĂȘ dâĂȘrja. Nenca eâ bab e eâ zej, simben châj a-ves eâ parmes par ĆŸirĂȘ' in bicicleta parchĂš j avĂ©va lâufizena a RavĂšna, i sâaĆĄluntanĂ©va pĂŽch da la Tor in cvĂąnt lâĂ©ra fĂ zil truvĂȘs pu in ferji in GermĂą-gna, e sĂłl par andĂȘr a pol e a fĂȘ le-gna par la stuva. Ad sĂČlit i staĆĄĂ©va gnascost tra la cĂąna dri eâ Lamon, in mĂŽd che i tudesch i pinses châj Ă©ra a lavurĂȘâ. Da che sid u-s putĂ©va aducĂȘâ cvel châeâ putĂ©va Ă«sar bon par sopravĂŹvar, e un dĂš j avdĂš una bĂ«la zöca sterĂȘda da âna bomba châla putĂ©va sarvĂŹ prâeâ
fugh ad piĂČ dĂš.Cla nöt, a la faza deâ copri-fugh, j andĂš a tula cun la cariĂŽ-la. Sota a che pĂ©ĆĄ la rĂŽda la gnichĂ©va da mĂ«t, mo do pisĂȘdi int eâ moz i la fĆĄĂš stĂȘ zeta! A truvĂȘs cla sistemazion dâemergenza eâ fo eâ fradĂ«l deâ marid ad mi zeja châlâĂ©ra, da un Ăąn, caplĂąn a eâ ĆŸĂąn. Ste prit, châlâĂ©ra fjĂŽl ad sucialesta e u-s dgĂ©va che su mĂȘ da ĆŸovna lâandes a mnĂȘr adös a i tabĂ«ch châjâandĂ©va in ciĆĄa, i lâavĂ©va mandĂȘ ilĂ in che sid ros par rimigĂȘâ al röbi gvastĂȘdi da eâ pĂ roch. Stu chi cve, châlâĂ©ra stĂȘ int eâ mĂ«ĆŸ a la âstmĂąna rosaâ, u sâĂ©ra lighĂȘ a i fasesta e e tnĂ©-va par i tudesch. Compit deâ caplĂąn lâĂ©ra dâavĆĄinĂȘs a i partigiĂąn par ridĂȘâ crĂ©dit a la CiĆĄa. Ste caplĂąn, châlâĂ©ra impunent, cun la scuĆĄa ad purtĂȘr i sacrament a i muribĂČnd, eâ ĆŸirĂ©va tot eâ su teritĂŽri, mitra a tracöla e pistĂŽla in saca, par zarchĂȘâ i frid e purtej in dal ca ami-ghi, e nenca par purtĂȘâ daglâĂšrom e deâ magnĂȘ a i partigiĂąn. U-s conta che, avu un arnĂ©ĆĄ par fĂȘr i macaron, eâ mites a la manuvĂ«la un nazesta grĂąnd e grös, châlâĂ©ra bon ad fĂȘâ diĆĄ chilo dâamnĂ«stra a eâ dĂš, âprâi puret e i babin châi murĂ©va ad fĂąm in zitĂȘâ; icĂš eâ caplĂąn u i avĂ©va fat crĂ©darâŠ
Il fronte Ăš appena passato e la famiglia rac-coglie accanto alla casa diroccata quanto la separa dalla completa rovina: qualche sacco di granaglie, qualche collo di biancheria e qualche legaccia di indumenti; qualche masserizia (un bgonz) che il caso ha voluto salvare⊠La foto si riferisce al Cesenate, ma puĂČ ben essere presa ad emblema della condizione di rovina materiale cui la Ro-magna dovette piĂč o meno sottostare nel â44.
Deâ cvaranta-cvĂ tar al Tor deâ MĆŸĂąn
Un racconto di Pier Giorgio Bartoli nel dialetto di Ravenna
la Ludla 13
Leggendo i racconti autobiografici che Fiorenzo Minghetti, oggi maestro in pensione, propone nel suo libro E PatĂšr di lulĂČt?, ciĂČ che colpisce Ăš la vi-vezza dei ricordi dellâinfanzia. Sem-bra quasi che il bambino di allora prenda in mano la penna dellâautore e si incarichi di descrivere le scene nei minimi particolari. âNel letto, con le lenzuola tirate fin quasi agli occhi, a proteggermi dalla mia innata paura delle tenebre, ripensavo a quanto accaduto, mentre tendevo lâorecchio ai suoni provenienti dallâesterno. Il canto dei grilli della campagna circostante era sovrastato ogni tanto dal rumore, provocato dallâimpatto delle bocce fra di loro o contro il fondale di legno del campo da gioco, nel vicino Circolo dei Re-pubblicani. Grida di soddisfazione o di disappunto seguivano immedia-tamente questi colpi. Il tutto creava una situazione di compagnia che calmava le mie paure e mi cullava allâinseguimento dei miei pensieri⊠Nel sonno, che mi stava avvolgendo, sentivo ora il tutto sempre piĂč sfu-mato. Le palpebre appesantite si chiudevano sugli occhi fino ad allora sgranati ad indagare il buio attorno a me: ma, ormai, ero completamente immerso nel mondo dei sogni». Le descrizioni sono centrate non solo sul protagonista ma anche sullâam-biente dove il bambino vive: La mi ca, E pont nuov, A lâombra de campanil, ecc. un ambiente particolare Ăš quello del fiume vicino. âCon mia sorella avevo accompagnato al fiume la mamma che spingeva una carriola
carica di mastĂ©la, banchet, pann e lin-zĂčl. Una di quelle giornate dedicate al bucato, che noi bambini sognava-mo ed aspettavamo con impazienza e frenesia. GiĂč nel fiume, poco oltre le macerie del vecchio ponte bombar-dato, avevamo trovato compagnia. Per un poâ avevamo osservato la mamma e le altre, mentre sbattevano violentemente contro il banchetto le lenzuola precedentemente insapona-te con il sapone casalingo, costruito dal âfai da teâ dei poveri con gli scar-ti grassi di macelleria e soda caustica. Poi, mentre loro stendevano man mano le lenzuola ad asciugarsi sullâerba dellâargine e davano stura alle chiacchiere fra una strizzata e lâaltra, noi â rimasti in mutande â ci eravamo inoltrati nellâacqua del fiume, sguazzando e spruzzandoci». Vengono anche descritti gli appun-tamenti davanti alle prime trasmis-sioni TV in bianco e nero nel corti
le de ZĂŹrcul o int lâUstarĂŹ dla Flora e le emozioni degli spettatori in attesa della risposta del concorrente di "La-scia o Raddoppia." Un altro aspetto che coglie il lettore Ăš la serenitĂ che traspare dalle varie scene sia pure raccontate con nostal-gia: La prima bici, E prem dĂš dlâĂąn, BĂČ dĂš e bĂČn Ăąn, E cergh, La paghetta. Una serenitĂ che sorprende chi, come me, Ăš vissuto nello stesso luogo ma nel decennio precedente con lâesperienza della guerra, delle distruzioni e delle angosce relative. Un ultimo aspetto che vorrei sottoli-neare Ăš lâatteggiamento di ricono-scenza che traspare dai racconti. Ra-gone, nel primo dopoguerra, come tutti i paesi grandi e piccoli intorno: unâemergenza continua, al limite del-la sopravvivenza; una gran voglia di risorgere dalle macerie materiali e spirituali; un immenso desiderio di riscatto, che si traduceva in tanto impegno singolo e soprattutto in una solidarietĂ senza limiti! Quanti gli aiuti reciproci a ricostruire per so-pravvivereâŠ! La caritĂš la va fura dala porta e la torna par la finestra! La Gigia lo ripeteva spesso e la Sunta ribadiva a mia ma-dre: Me a soâ la pruvidenza, con una frase piĂč esplicativa di un intero Trattato di Catechesi Cristiana. Noi bambini, cresciuti in questâatmo-sfera, abbiamo mangiato, respirato e vissuto questa fraternitĂ di intenti e di aiuti.â La gratitudine Ăš soprattutto rivolta alle donne: âCome tutti i bambini di Ragone ho avuto tante seconde mamme: prodighe di carezze, consigli e di ammonizioni. Ma come tutti i bambini, non sempre accoglievo con gradimento i âsuggerimentiâ. PerĂČ in-vece di scrollare le spalle come gli al-tri, me ne restavo mogio chino farfu-gliando chissĂ cosa tra i denti⊠Sen-tivo allora la Gigia gridare: «Sâa dit: e PatĂšr di lulot?»
âE PatĂšr di lulot?â
Un libro autobiografico di Fiorenzo Minghetti
di Giuseppe Galli
14 la Ludla
La Piligrena, o ancora piĂč spesso, la Loma. Ora questo fuoco fatuo (âda pocoâ, di apparenza ma di scarsa consistenza) si vede raramente; alcuni dicono addi-rittura piĂč; ma chi gira piĂč le campa-gne di notte a piedi? Per di piĂč con âlâinquinamento luminosoâ che ci ritroviamo? Un tempo, quando le bonifiche in atto trasformavano progressivamente in âlargheâ le nostre valli e una gran quantitĂ di vegetali (soprattutto tifee) veniva ogni anno interrata dal vome-re, câera gran âfermentoâ sotto il li-vello del suolo e non era impossibile che emissioni gassose trovassero sfo-go allâaperto determinando quei fe-nomeni luminosi che la notte enfa-tizzava con raccapriccio di chi in essi si imbatteva⊠dal momento che ve-nivano sempre associati a cadaveri in putrefazione. Ma la fantasia popolare andava oltre. Io stesso da bambino sono stato erudito sulle âpellegrineâ: âPuren, cvesti agli Ăš Ăąnum ad ĆĄgraziĂ© [sventurati] che j Ă mazĂ© e pu i j Ă splĂŹ alÚ⊠E adĂ«s a-n trĂŽva pĂȘĆĄ parchĂš al nâĂš stĂȘdi splidi int eâ cĂąmp-sĂąnt e nison i j Ă fat giustizia⊠E al cuntenva a ĆŸirĂȘr e a
zirĂȘ indoâ châi gli Ă mazĂȘdiâŠâ Câera invero (si era negli anni â40) anche chi avanzava spiegazioni meno sovrannaturali, cui ero piĂč incline a credere, ma lĂŹ, nel tepore umidiccio della stalla, immerso nella protezione dei famigliari; se mi fossi perĂČ trova-to di fronte alla Piligrena in piena âmalanotteâ in una landa desolata⊠beh, non so proprio quale ipotesi a-vrei presa per buona: se fosse preval-sa la curiositĂ o il terrore. J Ăš cvel châi-n-s pö dĂŹ prĂšma, ammonivano i saggi. E Minghin, classe 1885, se io insiste-vo e insistevo, magari tirava fuori il suo fatto, accaduto molti anni prima, nel 1911 o giĂč di lĂŹ. A quel tempo era un giovanotto ben piantato, saldo nel morale come nel fisico e nella parola, ormai rispettato dagli adulti e ammirato dai pescatori
che come lui praticavano la nobile pesca allâanguilla... mo in realtĂȘ, di bu-ratel, parchĂš da nĂł lâingvela la j Ă©ra sĂłl la grösa. LâĂ©ra ĆŸa brĂȘv, parchĂš eâ su bab u-l tulĂ©va dri a pes châl'Ăšra incĂłra un tabach. Forse un giorno racconterĂČ per filo e per segno come si svolgeva la pesca cun eâ bcon (sinistra Bevano) ovvero cun la muscĂ«la (dlĂ deâ DbĂąn). Per ora se non lâavete mai praticata â e in questo caso quanto avete perso! â fa-tevene unâidea attraverso il disegno di Giuliano Giuliani, che lâha eseguito secondo le indicazioni del collaborato-re della «Ludla» Armando Venzi (Pace), decano autorevolissimo dei superstiti (rari nantesâŠ) âmuscellariâ di Castiglio-ne di Ravenna. Insoma, Minghin, int eâ döp-mĂ«ĆŸ-dĂš, lâĂ©ra andĂȘ a buratel int lâAcvĂ«ra e u j Ă©ra andĂȘ a pe, ad travĂ©rs i chemp, parchĂš la su ca lâĂ©ra lâutma deâ paĂ©s, cvela châla cunfinĂ©-va cun la lĂȘrga. IntĂąnt châu-n sâĂ©ra fat nöt, i buratel, un cvejch bĂ«ch dâögni tĂąnt, mo pu jâavĂ©va cmenz a dej, a bichĂȘ sĂšmpar piĂČ spes. LâĂ©ra nench avnĂč so la lona, mo la lus la-n putĂ©va miga bastĂȘ prâavdĂ© e' fil dla cĂąna a mĂŽvar cvĂąnt che eâ buratĂ«l eâ bi-chĂ©va! BĆĄugnĂ©va tnĂ© sĂšmpar la mĂąn sĂłra la cĂąna par sintĂŹ eâ tarmon che li la dĂ cvĂąnt che lo eâ bĂ«ca; e alĂłra u-s tira so, sperĂšnd ad bĂČtal int lâumbrĂ«la. Int eâbur u-s fa tot a mimĂŽria⊠CvĂąnt che tâ al tir fura da lâacva eâ buratĂ«l eâ dĂ un bĂ«l sa-gvazon, mo tâfĂ© fadiga a capĂŹ sâeâ sia fnĂŹ int lâumbrĂ«la o sâlâĂ©pa mulĂȘ prĂšma⊠Mo se i buratel i i dĂ , eâ buratlĂȘr un möla miga, e eâ nöst Minghin u-s dicidĂš a spjantĂȘ châlâĂ©ra scvĂ©ĆĄi mĂ«za-nöta. AdĂ«s a mĂ«ĆŸanöta prâi ĆŸĂčvan eâ cmenza la âvitaâ e al discutĂ©chi agli arves, mo par on châlâĂ©ra stĂȘ so prĂšma deâ dĂš par dĂȘâ cvĂ«l [dar da mangiare] al besti e ĆĄgum-brĂȘâ la stala lâĂ©ra pröpi unâĂȘta röba⊠Mo
Minghin e la Piligrena
di Gianfranco Camerani
la Ludla 15
Minghin u-l tnĂ©va so eâ murĂȘl. I buratel i vĆĄĂ©va rĂ«sar tri chilo e piĂČ e eâ sachet ad tarliĆĄ lâimpinĂ©va tot la spĂŽrta ad pavira arpasĂȘda sia int eâ dâ fura.che int eâ dâdentar cun dla tĂ©la vĂ«cia. Minghin eâ lighĂš insen la cĂąna ad bambĂč, eâ baston e lâumbrĂ«la, mo prema dâ mĂštas tot int la spala u j infilĂš i mengh dla spĂŽrta che, caminend, u la jarep sintida [lâavrebbe sentita] contra la spala⊠Una spĂŽrta che da par li la bĆĄĂ©va tri chilo, tri chilo e mĂ«ĆŸâŠ giost cvĂąnt châj Ă©ra i chilomitar da fĂȘâ prâarivĂȘr a ca, pasend ad travĂ©rs, u s capes, parchĂš par la VjaĆŸa la jĂ©ra piĂČ longa. Cvel châi fos i pinsir che i j pasĂ©va par la tĂ«sta a nâeâ puten savĂ©, mo fĂłrsi im-maĆŸinĂȘâ, sâa pinsen lâetĂȘ châlâavĂ©va, che u nâĂ©ra maridĂȘ e, sĂłra tot, che u nâĂ©ra incĂł-ra avnĂč la gvĂ«ra a bagatĂȘj la vita e ĆĄba-
Minghin a 65 anni nella foto-tessera della licenza di pesca
rachĂȘ la su fameja⊠Insoma, lâĂ©ra ĆŸa arivĂȘ int e cĂąmp dâ Fa-trin che tot i savĂ©va châlâĂ©ra stĂȘ un cĂąmp-sĂąnt di rumen dâuna vĂŽlta, e ogni tĂąnt, da sota la lĂȘga, eâ vnĂ©va fura dagli ös ad s-ciĂąn, di cop e dal tĂ©gul lĂȘrghi lĂȘrghi, mo nenca dal bajöchi e parfĂšna di gos ad ĂŽv dâgalĂ©ni intighi⊠che parĂČ j âĂ©ra so par ĆŸo cuma cvi dal nösti⊠Minghin dla pavura di murt u nâavĂ©va pröpi, mo ad un zĂ©rt pĂČnt lâalzĂš la tĂ«sta e u la vest! DavĂąnti a lo, un pĂŽ int la stĂąn-ca, e miga tĂąnt ĂȘlta⊠la jĂ©ra pröpi li, la Piligrena, nench se lo prĂšma u nâavĂ©va sĂłl sintĂŹ scĂČrar, mo vesta mai. LâĂ©ra una luĆĄ bjĂąnca, châla parĂ©va balinĂȘâ⊠o batar coma châĂš fos un cĂŽr⊠o unâ Ăąmna. Lo daglâĂąman u nâavĂ©va mai vest, mo u i parĂ©va ad Ă«sar sicur che agli Ăąman al fos pröpi acsĂš. La Piligrena la-s muvĂ©va apĂšna apĂšna cĂČma se la tnes dâastĂȘ pröpi lo, Minghin⊠La prĂšma imprision, ciapĂȘ acsĂš a la spru-vesta, la fo cvesta, mo döp u sâarciapĂš. Lo pu u nâĂ©ra miga un scvaciarĂ«l: lâĂ©ra un ripublicĂąn Ăš i j avĂ©va det i su dirigent ĆŸĂč-van cuma lo che u-n-s pö savĂ© ignacvĂ«l e ad böta, mo châ lâĂš da cvajon invintĂȘâ dal spjegazion superstizióƥi indoâ che dal spje-gazion sientĂšfichi u nâi nâĂš incĂłra. LâavĂ©va pinsĂš ad fĂȘr una bĂ«la ĆŸiravĂŽlta, mo pu, rinfranchĂȘ da eâ su raĆĄunament, eâ vlĂš tirĂȘâ dret e pasĂȘj adiritura dacĂąnt, mo cvĂąnt châeâ fo a lĂš dri u-n putĂš fĂȘâ dâ mĂąnch ad ĆĄlunghĂȘr eâ pas⊠E la Piligrena, dri! Lo u-s mitĂš a caminĂȘâ piĂČ fĂŽrt châeâ putĂ©va, mo li la i jĂ©ra sĂšmpar dâdrida eâ cul, la la javĂ©va pröpi cun lo che scvĂ©ĆĄi zenza adĂȘsan, u sâa- truvĂš a cĂČrar piĂČ châeâ putĂ©va, cun tot cla
röba châlâavĂ©va adös, mo la Piligrena la j Ă©ra sĂšmpar a le. Eâ curĂ©va eâ curĂ©va,zenza lintĂȘâ, nench sâeâ sintĂ©va châu nâavĂ©va piĂČ eâ rispir e eâ cĂŽr u i staĆĄĂ©va par s-ciu-pĂȘâ, cvĂąnt châu-s nâadaĆĄĂš châlâĂ©ra arivĂȘ in chĂȘv deâ cĂąmp dâ Fatrin e dlĂ u j Ăšra al tĂ«r dla su famĂŹ. Ăl châeâ pinsĂš che lâanma la nâaves eâ parmes ad travarsĂȘr eâ fös deâ su cĂąmp-sĂąnt? Fato sta che cun al su Ăčtum fĂŽrz eâ ciapĂš eâ ĆĄlanz par saltĂȘ dlĂ da eâ fös dâcunfen, mo Ăš peâ u sâafarmĂš int la riva e Minghin eâ daĆĄĂš una vigliaca ad ĆĄgnachĂȘ int la tĂ«ra seca e pu eâ ruzlĂš ĆŸo cun tot i sacrament adös. Mo intĂąnt châeâ cadĂ©va eâ sintĂš sĂłra dâlo cĂČma un «pop»: un armĂłr che u nâavĂ©va mai sintĂč prĂšma e châeâ sintĂš sĂłl mĂŽlt döp, cvĂąnt che, sĂ«tâöt Ăšn döp a lâutma gvĂ©ra, lâ arivĂš la luĆĄ nenca a BaĆŸĂąn: un armĂłr cĂČma cvel dâna lampadena che la-s fulmines. StĂ©ĆĄ int eâ fĂČnd deâ fös, tnĂšnd dâastĂȘ che u i turnes eâ rispir e che al ĆŸnöc al ĆĄmites ad tarmĂȘâ, Minghin lâartruvĂš nench la su chĂȘlma e eâ pinsĂš che la Piligrena che prĂšma scvĂ©ĆĄi la-n-s muvĂ©va int lâĂȘrja fĂ©rma (u-n tirĂ©va gnĂąnch una fofla dâvent) la sâĂ©ra infi-lĂȘda dâdrida a lo parchĂš cun la cĂąna e eâ baston u i tajĂ©va lâĂȘria dâdavĂąnti; e cvĂąnt che lo lâĂ©ra cadĂč, li, ĆĄbatĂšnd int lâĂȘria fĂ©r-ma, la jĂ©ra sciupĂȘda. Minghin u-s vargugnĂ©va un pĂŽ dâavĂ© avu acsĂš una cagona, [terrore] mo eâ savĂ©va nench che âlâĂłra deâ patacaâ prĂšma o döp la ven par tot. Cvel che invĂ©ci u-n-s pardunĂš mai eâ fo ad nös Ă«sars farmĂȘ a gvardĂȘla cun chĂȘlma, cvel châla faĆĄĂ©va, magari tuchĂȘla⊠Insoma lâavĂ©va pĂ©rs unâucaĆĄion⊠e unâu-caĆĄion che int la vita la-n capitĂš piĂČâŠ
j avguri dla âSchĂŒrrâ e dla « Ludla»
I frequentatori della Ludla sono da ritenersi lettori peculiari cui non necessita certo l'avvento del Nata-le per rammentarsi di beni universali ed autentici (quanto, purtroppo, inflazionati) quali la tolleran-za, l'attenzione per il prossimo, la paceâŠ
Dando tutto ciĂČ per scontato, non Ăš quindi con intenti trasgressivi che nell'ultimo numero di que-st'anno la Ludla propone una poesia di Leo Malto-ni, nella quale la festivitĂ Ăš preannunciata sempli-cemente dall'improvviso suonare delle campane, accompagnato da un accendersi a festa di luci e fa-nali sulle barche del porto canale di Cesenatico finchĂ©, nell'icastico verso conclusivo, ecco infine l'incanto, lo stupore del Natale, un Natale con un unico inconveniente: piĂč ci s'addentra negli anni e piĂč sembra giungere tanto, forse troppo spessoâŠ
p.b. Eâ NadĂšl châlâĂ prissia Eâ passa in prissia eâ temp da invĂ©rn a istĂšda e int la schina a mâsint eâ pĂ is di an e sempra a dâpiĂČ eâ casĂ in u mâdĂ de dan che dal vĂłlti a nâvagh gnĂ©nca par la strĂšda.
StasĂ ira a mâso decĂŹs dâandĂš a fĂš un zir e a mâso inviĂ© da "eâ Mont" zo prâeâ canĂšl in du che int j an lâĂš cambjĂ© gnaquĂšl e sol i scaf deâ Museo lâĂš quji ad jir.
LâĂš mis châj Ăš senza vĂ il lĂšnzi e batĂ©l cal vĂ ili châ lâĂš i su sti dla stasĂłn bĂłna cun i culĂčr di sti di dĂ© burdĂ©l,
ma a sint dâun trat che al campĂšni a lâsĂłna e tot al bĂšrchi al sâazĂ©nd dâlusi e dâfanĂšl. "LâĂš za NadĂšl?" ... E temp lâĂš un lĂšmp châu nâ tĂłna... IL NATALE FRETTOLOSO. Trascorre in fretta il tempo dallâinverno allâestate/ e sulle spalle sento il peso degli anni/e sempre maggiormente la confusione mi dĂ fastidio/ tanto che spesso non scendo neppure in strada.// Stasera ho deciso di andare un poâ in giro/ e mi sono avviato dal "Monte" lungo il porto/ dove negli anni tutto Ăš cambiato/e solamente le bar-che del Museo sono quelle di ieri// Sono mesi che sono senza vele lance e battelli/ quelle vele che sono i loro abiti della cal-da stagione/ coi colori dei vestiti dei giorni bambini,// ma dâimprovviso odo il suono delle campane/ e tutte le barche sâ illuminano di luci e fanali/ "Eâ giĂ Natale?"... Il tempo Ăš un lampo senza tuono....
E' NadĂȘl ch'l'Ă prissia
di Leo Maltoni