Vittorio Strada - Dalla Metafisica Fichtina Di Lukacs All'Empiria Deformante Di Stalin

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Tra la fine del 1934 e l’inizio del 1935 all’Istituto di filosofia dell’Accademia comunista a Mosca si svolse una discussione sulla relazione di György Lukács Problemi di teoria del romanzo. Il testo della relazione era lo schema della voce «Il romanzo come epopea borghese» che Lukács pubblicò nel nono volume dell’Enciclopedia letteraria sovietica, uscita a Mosca nel 1935. Questi scritti di Lukács, e le discussioni che suscitarono, presentano molti aspetti attuali di interesse teorico e storico, e costituiscono l’inizio di quel dibattito che intorno al pensiero di Lukács, e di altri suoi compagni di idee, si svolse nell’Unione Sovietica negli anni trenta, fino alla chiusura della rivista Literaturnyj kritìk, e poi proseguì in altra forma fuori dell’URSS e perdura tuttora. Degno d’attenzione è il modo in cui oggi Lukács, nella autobiografia spirituale posta a prefazione della nuova edizione di Storta e coscienza di classe, interpreta la parte da lui svolta negli anni trenta nella URSS (e, con lui, da suoi compagni come Michail Lifscits e Elena Usievic), presentandosi nel ruolo di oppositore interno dello stalinismo. Interpretazione retrospettiva che un’analisi critica dello sviluppo del pensiero di Lukács non può convalidare. Di tutti questi problemi noi ne prenderemo ora in considerazione solo due: 1) il rapporto tra la teoria Lukácsiana del romanzo negli anni venti e negli anni trenta e 2) la prima formulazione estetico-politica che Lukács diede ai principi del «realismo socialista». La nostra analisi non intende semplicemente appurare un momento, fondamentale e sconosciuto, dell’evoluzione delle idee del filosofo ungherese, ma vuole suggerire un modo nuovo di analisi storica della formazione del «realismo socialista». Questa dottrina, infatti, in Occidente è riguardata come un insieme di principi imposti esclusivamente da una centrale di produzione ed erogazione ideologica superiore ed estranea alla concreta vita letteraria sovietica, cioè dal partito, mentre nell’URSS è presentata come il naturale coronamento di tutto lo sviluppo letterario russo e mondiale, per cui le teorizzazioni enunciate dal partito sarebbero valse non come arbitrarie direttive, bensì come massima espressione di consapevolezza teorica rispetto a un processo oggettivo giunto a maturazione. Che il «realismo socialista» abbia avuto, e abbia, alle sue spalle potentissimi strumenti extraletterari che ne garantivano l’assoluto trionfo, è oggi cosa di tale evidenza da non meritare argomentazione. Altrettanto evidente sembra il fatto che la stessa dottrina del «realismo socialista» sia stata un non secondario strumento ideologico del potere staliniano. Tutto questo fa

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Tra la fine del 1934 e l’inizio del 1935 all’Istituto di filosofia dell’Accademia comunista a Mosca si svolse una discussione sulla relazione di György Lukács Problemi di teoria del romanzo. Il testo della relazione era lo schema della voce «Il romanzo come epopea borghese» che Lukács pubblicò nel nono volume dell’Enciclopedia letteraria sovietica, uscita a Mosca nel 1935. Questi scritti di Lukács, e le discussioni che suscitarono, presentano molti aspetti attuali di interesse teorico e storico, e costituiscono l’inizio di quel dibattito che intorno al pensiero di Lukács, e di altri suoi compagni di idee, si svolse nell’Unione Sovietica negli anni trenta, fino alla chiusura della rivista Literaturnyj kritìk, e poi proseguì in altra forma fuori dell’URSS e perdura tuttora. Degno d’attenzione è il modo in cui oggi Lukács, nella autobiografia spirituale posta a prefazione della nuova edizione di Storta e coscienza di classe, interpreta la parte da lui svolta negli anni trenta nella URSS (e, con lui, da suoi compagni come Michail Lifscits e Elena Usievic), presentandosi nel ruolo di oppositore interno dello stalinismo. Interpretazione retrospettiva che un’analisi critica dello sviluppo del pensiero di Lukács non può convalidare. Di tutti questi problemi noi ne prenderemo ora in considerazione solo due: 1) il rapporto tra la teoria Lukácsiana del romanzo negli anni venti e negli anni trenta e 2) la prima formulazione estetico-politica che Lukács diede ai principi del «realismo socialista».La nostra analisi non intende semplicemente appurare un momento, fondamentale e sconosciuto, dell’evoluzione delle idee del filosofo ungherese, ma vuole suggerire un modo nuovo di analisi storica della formazione del «realismo socialista». Questa dottrina, infatti, in Occidente è riguardata come un insieme di principi imposti esclusivamente da una centrale di produzione ed erogazione ideologica superiore ed estranea alla concreta vita letteraria sovietica, cioè dal partito, mentre nell’URSS è presentata come il naturale coronamento di tutto lo sviluppo letterario russo e mondiale, per cui le teorizzazioni enunciate dal partito sarebbero valse non come arbitrarie direttive, bensì come massima espressione di consapevolezza teorica rispetto a un processo oggettivo giunto a maturazione.Che il «realismo socialista» abbia avuto, e abbia, alle sue spalle potentissimi strumenti extraletterari che ne garantivano l’assoluto trionfo, è oggi cosa di tale evidenza da non meritare argomentazione. Altrettanto evidente sembra il fatto che la stessa dottrina del «realismo socialista» sia stata un non secondario strumento ideologico del potere staliniano. Tutto questo fa dubitare che si possa parlare del «realismo socialista» negli stessi termini in cui si parla delle comuni correnti letterarie e fa pensare che la struttura estetica di tale dottrina sia nettamente subordinata alla sua struttura politica.Ma, sul piano della storia delle idee, il problema non si esaurisce qui. Perché, a differenza di quanto sostengono banalmente gli storici occidentali della letteratura sovietica, il «realismo socialista» non fu solo calato «dall’alto» ma salì anche «dal basso». Per lo storico l’aspetto più interessante della formazione del «realismo socialista» sta proprio nel seguire le vie individuali lungo le quali alcuni scrittori e intellettuali di notevole rilievo, da Gorkij a Lukács, giunsero al «realismo socialista» sulla base di un naturale sviluppo di tutta la loro antecedente esperienza. In alcuni casi, come quello di uno scrittore di prim’ordine come Olescia, il nucleo etico-politico del «realismo socialista» fu anticipato di alcuni anni, quando tale dottrina non si era ancora non dico codificata, ma neppure formulata e tanto meno denominata (per Olecsia rimando al mio saggio di recente apparso in appendice all’edizione einaudiana di Invidia e I tre grassoni).Visto in questa luce il «realismo socialista» cesa di essere l’occasione per stucchevoli (ma non ingiustificate) geremiadi sulla irreggimentazione staliniana dell’arte e si trasforma in una delle vive pagine della storia intellettuale europea del Novecento. Prima che la coscrizione nei reggimenti letterari staliniani diventasse obbligatoria, vari intellettuali si arruolarono volontariamente, senza comprendere affatto chi fosse il generale e dove li conducesse. La storia del «realismo socialista» prima d’essere la storia di una coercizione, è la storia di un’illusione, che rientra integralmente nella sfera d’azione della marxiana critica delle ideologie. Il caso di Lukács è particolarmente illuminante.La storia del saggio di Lukács Teoria del romanzo è riassunta brevemente dall’autore nella recente prefazione a una sua ristampa (la si può leggere nell’edizione francese apparsa presso l’editore

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Gonthier; in seguito, pur traendo le nostre citazioni dall’edizione italiana della Teoria del romanzo [Sugar], abbiamo tenuto presente anche questa edizione francese). Lo studio fu scritto tra il 1914 e il 1915, apparve in una rivista di estetica nel 1916 e, in un volume, nel 1920 a Berlino. In Russia, dove il nome di Lukács era noto già prima della rivoluzione, troviamo la prima menzione critica di questo libro nella prefazione del libro di B. S. Griftsov Teoria del romanzo (il libro è del ’27, ma la prefazione è datata «settembre 1925»): «...la Teoria del romanzo di György Lukács ha posto con sufficiente chiarezza il problema dell’opposizione di epos e romanzo e ha risposto in modo convincente che ha risposto in modo convincente che “a maggior diritto di ogni altra, la forma del romanzo può essere riconosciuta come l’espressione di un’assenza di patria trascendentale”; tuttavia non sembra che Lukács abbia intitolato con esattezza il suo piccolo libro. Attraverso pochi esempi in esso viene considerato un unico principio piuttosto astratto. Questa non è una teoria del romanzo, nel senso in cui esistono le teorie di altre arti, bensì una metafisica del romanzo o, più esattamente, una serie di riflessioni metafìsiche su uno solo dei suoi principi, per quanto essenziale e indicato con esattezza». Il problema, tuttavia, è quello di individuare il carattere fondamentale e la fonte teorica di questa «metafisica». Vediamo, prima di tutto, gli essenzialissimi tratti della costruzione Lukácsiana.Lukács, continuando una tradizione della cultura tedesca, assume come criterio di misura del divenire della cultura europea la grecità, e l’ideale ellenico diventa il solo sfondo possibile per intendere il significato del genere letterario del romanzo. Fin dalle prime pagine della Teoria del romanzo, in connessione con la caratteristica che egli dà del mondo greco, Lukács introduce quella che sarà la categoria fondamentale anche di tutto il suo pensiero del periodo marxista: la categoria della totalità. Il mondo greco si presenta a Lukács come il mondo della totalità realizzata, e il mondo moderno (borghese) come la perdita di tale armoniosa e totale sostanzialità. Scrive Lukács: «Il nostro mondo è diventato infinitamente grande, e in ogni suo angolo più ricco di doni e di pericoli di quanto non fosse il mondo greco: ma questa ricchezza non fa che mettere in risalto il senso basilare e positivo della vita dei Greci: la totalità. Chè totalità, in quanto premessa formativa di ogni singola manifestazione, significa che può venir compiuto alcunché di conchiuso: compiuto, dal momento che in quell’alcunché tutto accade, nulla ne è escluso e nulla accenna ad altro, superiore ed esterno; compiuto, dal momento che, in quell’alcunché tutto matura a propria compiutezza e, conseguendo se stesso, si conforma al complesso».Trascurando tutta la ricchezza di osservazioni che Lukács fa sullo sviluppo comparato dei vari generi letterari e riducendo all’essenziale il suo schema, si può dire che a questi due mondi – il mondo greco della totalità compiuta e il mondo moderno (borghese) della totalità perduta – corrispondono le due oggettivazioni della grande letteratura epica: l’epopea e il romanzo. La loro differenza non riguarda le disposizioni interiori dello scrittore, ma due dati storico-filosofici che s’impongono alla sua creazione: «Il romanzo è l’epopea di un’epoca, per la quale la totalità estensiva della vita non è più data sensibilmente, per la quale l’immanenza vitale del senso si è fatta problematica, e che tuttavia ha l’anelito alla totalità». E più avanti: «L’epopea raffigura una totalità vitale compiuta in se stessa; il romanzo cerca, con le sue raffigurazioni, di scoprire e ricostruire la nascosta totalità della vita». Il romanzo è il genere proprio a un mondo abbandonato da Dio, e si fa ricerca problematica della perdute patria trascendentale in questo mondo degradato e scisso, dove essere e dover essere celebrano un insuperabile divorzio. L’ironia diventa la caratteristica fondamentale dell’atteggiamento del romanziere, poiché lo scrittore, a differenza del suo eroe, conosce già tutta la vanità della ricerca, della quale, tuttavia, rende la tensione (altrimenti, s’intende, non si avrebbe romanzo). L’ironia «comprende non soltanto la profonda, disperata inutilità di questa lotta, bensì anche l’ancor più profonda inanità della rinuncia a essa, il basso fallimento del tentativo di adeguarsi al mondo estraneo all’ideale, della rinuncia all’irreale idealità dell’anima e di una sottomissione di sé alla realtà».Nella seconda parte del suo libro Lukács delinea una «tipologi dela forma romanzesca», tipologia fondata sul diverso rapporto che, nel mondo abbandonato da Dio, si stabilisce tra l’anima e il mondo, tra di loro rescissi. Rispetto al mondo l’anima gravata d’ideali si sente o troppo piccola o troppo grande. La prima forma porta all’idealismo astratto, che si ha quando l’eroe persegue con

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tirannica pervicacia il proprio ideale, incurante della complessità e dell’inadeguatezza della realtà in cui agisce. L’esempio che Lukács indaga è, naturalmente il Don Chisciotte. All’idealismo astratto si oppone il romanticismo della disillusione, proprio al romanzo del XIX secolo, che si ha quando il mondo interiore dell’eroe è più ricco e ampio delle possibilità di realizzazione offerte dal mondo reale esterno. Gli esempi che Lukács reca sono l’Oblomov di conciarov e, soprattutto, L’educazione sentimentale di Flaubert. La terza forma, sintetica, di romanzo è il cosiddetto romanzo d’educazione (Bildungsroman), di cui è esempio massimo il Whilelm Meister goethiano. Qui l’eroismo sublime dell’idealismo astratto e la pura interiorità del romanticismo sono ammesse come tendenze che vanno superate e integrate in un ordine superiore: l’eroe di queto tipo di romanzo attraverso la sua maturazone etica arriva a un compromesso saggio col mondo.

Nella Teoria del romanzo vi sono due punti sui quali conviene richiamare l’attenzione. Il primo riguarda il posto speciale che Lukács riserva a Tolstoj e Dostoevskij. La radice della differenza di queste due opere rispetto a quelle europeo-occidentali è, per Lukács, di natura storica. Nel romanzo europeo-occidentale l’aspirazione al metaproblematico, cioè alla epopea, rimane soltanto un ideale utopico e immanente alle forme e alle strutture sociali date. Il trascendimento a epopea è, però, inevitabile quando il «rifiuto utopico» del mondo convenzionale si oggettivizza in una realtà altrettanto esistente e tale rifiuto polemico ottiene così la forma di una raffigurazione. Questa possibilità, prosegue Lukac, non p daa al processo di sviluppo europeo-occidentale. Qui l’«esigenza utopica» s’orineta verso qualcosa che è inauttabile in partenza. Persno in Rousseau, la cui visione romantica del mondo ha per contenuto il rifiuto di ogni struttura sociale legata alla cultrua, il rifuto assume una forma meramente «polemica», cioè «retorica, lirica, riflessiva». E altrimenti non potrebbe essere: «Il mondo della cultura europea occidentale ha così profonde radici nell’inevitabilità delle strutture sociali che lo costituiscono, da non essere mai in grado di contrapporvisi, se non polemicamente». Usando la terminologia del Lukács degli anni trenta, potremo dire che il romanzo europeo-occientale è il romanzo del «realismo critico». La contestazione che la grande letteratura russa del XIX secolo ha fatto della realtà sociale, è invece «creatrice», poiché diversa era la situazione storico-oggettva in cui essa operava: «Soltanto la maggior vicinanza alle condizioni primordiali organico-naturali, che costituivano il sostrato sentimentale e raffigurativo della letteratura russa del XIX secolo, te reso possibile una simile polemica creativa». Turgenev resta sostan-ate nell’ambito del ro-occidentale, col suo romanticismo della disillusione, mentre Tolstoj ha intriso questa forma di romanzo della più forte trascendenza a epopea L’arte di Tolstoj è «realmente epica, lontana da ogni forma di romanzo». Lukács da poi un’analisi della opera di Tolstoj che diverge in parte da quella che svolgerà negli anni trenta.

A Dostoevskij Lukács dedica il breve paragrafo finale del suo libro. Solo nella sua opera, dichiara Lukács, la e nuova epoca del mondo», di cui in Tolstoj era evidente il presagio, viene indicata • come una realtà semplicemente osservata» e non «come lotta contro quella sussistente». Per cui Dostoevskij, secondo Lukács, «non ha scritto alcun romanzo» e il sentimento raffigurativo delle sue opere non ha nulla a che fare, ne in senso affermativo nè in senso negativo, col romanticismo europeo del XIX Secolo. Solo l’analisi formale, conclude Lukács, potrà definire il vero significato di questa grande opera, e «solo allora potrà essere compito di un’interpretazione storico-filosofica dei segni celesti, quello di dire ss noi siamo davvero sul punto di abbandonare la posizione della assoluta peccaminosità, ovvero se son soltanto mere speranze ad annunciare l’avvento del nuovo: segni di un avvento, i quali ancora cosi deboli sono, da poter essere schiacciali a capriccio, per gioco, dall’infruttuosa potenza di ciò che semplicemente è».e lo stesso Lukács, nella sua recente prefazione, inalate sul fatto che fu l’hegelismo a fornirgli i princloi generali del suo metodo. Hegel, nell’estetica, aveva sostenuto la tesi, pei ripresa diversamente de Marx, che il progresso e il regresso sono interconnessi, e che al progresso sociale, dispiegato nella società borghese, corrisponde una decadenza dell’arte, la cui vera patria è in un passato irrecuperabile. Per Hegel il romanzo, definito «epopea borghese», è il genere letterario che meglio sfrutta questa nuova situazione di regresso dell’arte. Il romanzo, infatti, raffigura il

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contrasto tra la «poesia del cuore» e 1 rapporti sociali che le si contrappongono e trasforma l’impossibilità dell’arte nella società borghese in un’estrema forma di arte, consistente nella presa di coscienza, da parte dell’eroe, della fine irreparabile del mondo della poesia e della necessità di giungere a un compromesso col mondo operoso della «prosaica» vite, il romanzo ohe Hegel teorizza corrisponde, quindi, alla terza forma di romanzo della tipologia lu-kacsiana, il «romanzo d’educazione», di cui il Wilhelm Meister di Goethe era l’esempio più alto. Questi principi hegeliani, nella Teoria del romanzo, sono in realtà superati da una concezione del tempo storico e da una prospettiva utopica che ad Hegel sono estranei. Nel passo finale, già citato, della Teoria del romanzo Lukács parla della possibilità imminente di «abbandonare la posizione dell’assoluto peccaminosità» e di entrare in una epoca nuova del mondo. La espressione «epoca della totale peccaminosità» è di Fichte, che la usa nella sua filosofia della storia quale è esposta nelle lezioni dal tìtolo Caratteri fondamentali del nostro tempo- In queste leziosi Fichte distingue cinque età dello sviluppo storico umano: età dell’innocenza o della ragione come istinto; età dell’incipiente peccato 0 delle regione parzialmente libere; età delle totale peccaminosità o della negazione della ragione; età dell’incipiente redenzione o della ragione come scienza; età della totale redenzione o della ragione come arte. Alla fine della quinta età si ritrova quello che già c’era all’inizio, realizzando una sorta di

Come si vede, la Teoria del romanzo si chiude su una nota alta di attesa utopica di una «nuove epoca del mondo» (nota che è cosi familiare a chi conosca la cultura russa prerivoluzionaria), e il problema dell’utopia è, in realtà, il Leitmotiv segreto di tutta la ricerca metafisica del Lukács di quegli anni. Ma prime di vedere meglio quali forme assuma, in sede di teoria di romanzo, li tema dell’utopie, e di passare quindi al Lukács degli anni trenta teorico del «realismo socie-lista», conviene stabilire la ascendenze della sua filosoie del romanzo. 81 potrebbe pensare che la derivazione sia prettamente hegeliane.

età dell’ore. L’età contemporanea ( borghese 1 è, per Fichte, l’età delta peccaminosità totale, dominata dall’egoismo, dall’Individualismo, dolio scetticismo. Anche il Lukácsiano concetto di totalità sembra, nella Teoria del romanzo, risentire fortemente dell’Impronta flchtlnna. Nelle sue lesioni citate Fichte espone une «idea di un plano dell’universo a e afferma: «E’ chiaro che 11 filosofo per caratterizzare esaltamente anche una sola età e, se vuole, le sua, deve avere compreso assolutamente a priori e penetrato a fondo II significato della totalità del tempo e di tutte le sue possibili epoche)». Cioè, «anzitutto abbiamo un’idea unitaria della totalità della vita, la quale si scinde In varie poche che solo sono comprensibili le une con le altre o le une mediante le altre; poi ognuna di queste «incole cuoche è a sua volta l’idea unitaria di una età determinata e si monile sta in molteplici fenomeni» (trad. di A. Cantoni). La com prensione della «totalità del tempo», come ogni compren sione «filosofica», suppone, insomma, «un’idea di un compimento anticipatamente determinato del tempo», ovvero un «plano dell’univer so» appunto, da cui dedurre passato. Dissente e futuro. Nel laboratorio mentale de) filosofo che R’"ccupa di storia la «storia empirica» avrà una funzione nettamente subordinata: «Il filosofo che come tale si occupa della storia, segue questa traccia a priori del piano del mondo, che è chiara per sè senza storia alcuna. E se si serve della storia, non è per provare qualche cosa mediante essa, perché i suoi principi sono già ornvati indipendentemente dalla storia: ma solo se ne serve per illustrare e rappresentare nella vita viva della storia quel che già si comprende sen/a essa».E’ facile vedere come tutta l’ossatura della Teoria del romanzo si sostanzi di questi concetti fichtiani di «piano dell’universo» e «totalità del tempo». Coerentemente con questa concezione, che suppone si «un’idea di un compimento an ti Rinatamente determinato del tempo», ma sa che l’epoca della «redenzio ne» è di là da venire, per il Lukács degli anni venti, anzi degli anni dieci utopia e romanzo non possono fondersi: «...la grande epica è una forma legata all’empiria del momento storico, e ogni tentativo di raffigurare l’utopico come effettivamente esistente finisce per distruggere

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la forma, non già col creare una realtà».In Storia e coscienza di classe, pubblicata tre anni dopo l’edizione in volume di Teoria del romanzo, Lukács, inserisce l’esperienza della rivoluzione russa e del partito bolscevico nella sua grande metafisica della storia. Non è nostro compito toccare la ricchezza categoriale di quest’opera e il successivo sviluppo nolitico di Lukács fino all’inizio degli anni trenta, quando si apre una sua nuova fase d’attività, organicamente cresciuta dalle precedente. Ma riteniamo necessario precisare, di sfuggite, che non condividiamo l’interpretazione i politico-filosofica che Merleau-Ponty, nelle sue Avventure della dialettico, diede di Storia e eoi denta di classe e che poi si affermò come luogo comune in ricercatori successivi. Non possiamo, infatti, con Merleau-Ponty fare di quest’opera Lukácsiana una sorta di Bibbia di un «marxismo occidentale» radicalmente contrapposto a un «marxismo russo», quando proprio il Lukács di Storia e coscienza di classe, con strumenti Intellnt-tun.ll personalissimi, compie quell’operazione di assoluti» «azione metafisica dell’esperienza rivoluzionarla russe che subite dopo, con strumenti indubbiamente meno raffinati (anche se più efficaci) e culturalmente diversi, Stalin avrebbe realizzato. In luogo del concretamente e storicamente universale pensiero-azione di Marx e di Lenin si arrivò alla costruzione astrattamente universale (corrispondente, sul piano organizzativo, alla «bolscevizzazione» del partiti comunisti) del marxismo-leninismo di stampo staliniano, al quale 11 Lukács degli anni trenta aderì in modo più organico di quanto non si creda, senza sostanziali sacrifici, ma, s’intende, con una profonda «ritraduzione» della sua filosofia nel nuovo «linguaggio». A ciò Lukács era confortato da quel flchtìano (idealistico) modo «filosofico» di occuparsi della storia che segue «la traccia a priori del piano del mondo, che è chiara per sè senza storia alcuna».La nuova teoria del romanzo che Lukács esDOse nel 1934 all’Accademia comunista, a Mosca, presenta una sostanziale continuità con la vecchia teoria, ideata ventanni addietro, anche se Lukács adesso definisce il romanzo hegelianamente come «epopea borghese» e non si serve più dell’espressione fichtia-na «epoca dell’assoluta peccaminosità». Tutta la discussione che allora si svolse a Mosca intorno alla relazione di Lukács risente, da una parte, del fatto che la stragrande maggioranza dagli studiosi sovietici presenti ignoravano la Teoria del romanzo e, dall’altra, del fatto che la teoria dì Lukács, nuova e vecchia ad un tempo, ore tendeva ora di essere la sola teoria marxista ortodossa del romanzo, tanto ohe i s IOÌ oppositori furono duramente tacciati (a Mosca, nel *34!) di menscevismo.Il più fermo oppositóre della teoria del romanzo di Lukács fu, in quella discussione, Valer’jan Pereverzev, che aggredito con accuse di anti-marxismo e menscevismo, dovette pronunciare, nel corso stesso delle sedute, quella ohe forse fu la prima «autocritica» di un letterato del periodo staliniano II Pereverzev, che negli anni venti era già stato oggetto degli attacchi della RAPP (Associazione russa degli scrittori proletari) e poi fu denigrale con l’appellativo di «sociologo volgare», nel 1988 fini in un campo di concentramento. Quando nel 1958 fu «riabilitato» e potè ritornare agli studi letterari, dicono che si dichiarasse sempre convinto che la vera teoria marxista del romanzo era la sua e non quella di Lukács. Non rientrando tra i nostri compiti un’analisi della teoria di Pereverzev e della discussione del 1934-’35, lasciamo il problema della «marxisticità» delle due teorie irrisolto,A noi interessa ora vedere le prime formulazioni Lukácsiane della dottrina del «realismo socialista», cui egli giunse grazie a un originale e coerente sviluppo della sua antica teoria. Naturalmente, data l’evoluzione politica di Lukács e dato il tipo di accettazione (metafisica, «filosofica») dell’espe-

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