Visual Arts at IUAV, Venezia 2001-2O11 · un’attività di laboratorio nel settore delle Visual...
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Cosa dovrebbe essere una scuola d’arte?
What an Art SchoolShould Be?
Visual Artsat IUAV,Venezia2001-2O11
Colophon/Imprint
Premessa/Preface
Cosa dovrebbe essere una scuola d’arte?/What an Art School Should Be?
Day by Day2001-2011
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COLOPHON
FACOLTÁ
L’Università IUAV di Venezia, fondata come Istituto Universitario di Architettura di Venezia (I.U.A.V.) nel 1926, diviene Università IUAV di Venezia nel 2001. In quest’anno è rettore dell’ateno Marino Folin (in carica dal 1993), al quale succede Carlo Magnani nel novembre del 2006. Nel novembre del 2009 a Magnani succede Amerigo Restucci, attuale rettore in carica.L’Università IUAV di Venezia è articolata nelle tre facoltà di Architettura, Design e Arti, Pianificazione del Territorio.La facoltà di Design e Arti viene fondata nel 2000, anno in cui viene eletto preside Marco de Michelis, che rimane in carica sino al giugno 2008 quando gli succede Medardo Chiapponi, attuale preside in carica.La facoltà di Design e Arti, partita con un diploma di Design e i due corsi di Laurea Specialistica in Progettazione e Produzione delle Arti Visive (clasAV) e in Scienze e Tecniche del Teatro (clasT), si è articolata negli anni aggiungedo a questi tre corsi di laurea triennale in Arti Visive e dello Spettacolo (claVES), Disegno Industriale (claDIS), Design della Moda (claDEM) e negli ulteriori corsi di laurea specialistica in Disegno Industriale del Prodotto (clasDIP), Comunicazioni Visive e Multimediali (clasVEM), Design e Teoria della Moda (clasTEM). Nel tempo alcuni di questi corsi sono stati accorpati diventando indirizzi di un medesimo corso di laurea.
FACULTIES
The IUAV University of Venice, established as the Istituto Universitario di Architettura di Venezia (I.U.A.V.) in 1926, acquired its current name in 2001. At the time of this change, Marino Folin was rector (holding this position since 1993) and in November 2006 he was succeeded by Carlo Magnani. In November 2009 Magnani was in turn succeeded by Amerigo Restucci, who is rector today.The IUAV University of Venice is divided into three departments: Architecture, Arts and Design, and Urban and Regional Planning.The Department of Arts and Design was established in 2000 and Marco de Michelis was chosen to head it; he held this position until June 2008, when he was succeeded
by the current dean, Medardo Chiapponi.The Department of Arts and Design started with a undergraduate courses in Design and with two graduate programmes in Visual Arts (clasAV) and Theatre (clasT). Over the years it has expanded, adding three undergraduate programmes, namely in Visual and Performing Arts (claVES), Industrial and Communication Design (claDIS), and Fashion Design (claDEM), and – most recently – graduate programmes in Product Design (clasDIP), Visual Communication and Multimedia (clasVEM), and Fashion Design and Theory (clasTEM). Several of these programmes have gradually been grouped together to become part of a single degree programme.
IL SETTORE ARTI VISIVE DELLA FACOLTà DI DESIgN E ARTI
Il settore Arti Visive si compone di due corsi di laurea: claVES (undergraduate) e clasAV (graduate). Le attività didattiche della facoltà di Design e Arti vengono inagugurate nel 2001 con gli insegnamenti del corso di laurea magistrale in Produzione e Progettazione delle Arti Visive (clasAV) di cui Angela Vettese è direttore dal 2001 a oggi. giulio Alessandri è stato vicedirettore dal 2003 al 2009. Dal 2010 clasAV e clasT costituiscono un unico corso di laurea magistrale in Visual and Performing Arts, di cui sono co-direttori Walter Le Moli e Angela Vettese (vicedirettori: Claudio Longhi e Paolo garbolino).Dal 2002 al 2008 il corso di laurea in Arti Visive e dello Spettacolo (claVES) è stato diretto dal preside Marco De Michelis. Dal 2008 è direttore del corso di laurea Laura Corti.
THE VISUAL ARTS SECTOR OF THE DEPARTMENT OF ARTS AND DESIgN
The Visual Arts sector is composed of two degree programmes: claVES (undergraduate) and clasAV (graduate). The teaching activities of the Department of Arts and Design were inaugurated in 2001 with the graduate programme in Visual Arts (clasAV), which Angela Vettese has directed since 2001. giulio Alessandri was vice director from 2003 to 2009. As of 2010 clasAV and clasT have been combined into a single graduate programme in Visual and Performing Arts, co-directed by Walter Le Moli and Angela Vettese (vice directors: Claudio Longhi and Paolo
garbolino).From 2002 until 2008 the graduate programme in Visual and Performing Arts (claVES) was headed by Marco De Michelis; Laura Corti became director in 2008.
Tra il 2001 e il 2011 hanno insegnato presso il clasAV e claVES/clasAV and claVES professors 2001-2011:
CORSI TEORICI/CLASSES
giorgio Agambengiulio AlessandriCarmelo Alberti (clasT)Franco AmendolagineEmanuele Arielli (clasVEM)Lucia BarsottiAlberto Bassi (clasDIP)Marco BertozziCinzia BigliosiIrene Bignardi (clasT)Elisa BizottoFrank BoehmFrancesco BonamiFiorella Bulegato (clasVEM)Roberto CasatiFrancesca CastellaniAndrea CavallettiMedardo Chiapponi (clasDIP)Massimiliano Ciammaichella (clasVEM)Claudio Coloretti (clasT)Laura CortiDaniele Del giudice (clasT)Marco Della TorreMarco De MichelisPaolo FabbriRoberto Favaroguido Ferilligiacomo FestiLuca Fontana (clasT)Oberdan Forlenza (clasT)Susanne Franco (clasT)Antonello FrongiaPaolo garbolinogiulio giorello (clasDIP)Vittorio girotto (clasDIP)Carlo grassiLino guancialeJennifer KnaebleMarlene KleinAgnes KohlmeyerRosella LauberPaolo LegrenziClaudio Longhi (clasT)Mario Lupano (clasDIP)Patrizia MagliCarlo Majer (clasT)Tomás Maldonado (clasDIP)Roberto ManciniAnthony MarascoVera Marzot (clasT)Roberto MasieroSusanna MatiStefano Mazzanti (clasVEM)Mario Messinis (clasT)Tiziana Migliore (clasVEM)giulia Parovel (clasVEM)Alberto Pasetti (clasVEM)
Sabrina PedriniMarina PellandaSergio Polano (clasVEM)Alessandro Polistina (clasVEM)Andrea Porcheddu (clasT)Franco RellaDavide Riboli (clasVEM)Raimonda Riccini (clasDIP)giorgio Ricchelli (clasT)Dina Riccò (clasVEM)Davide Rocchesso (clasVEM)Piercarlo Romagnoni (clasT)Pierre RosenbergRosaria RuffiniPier Luigi SaccoTiziana SerenaCarlo Severi (clasT)giorgio Tavano BlessiEzio ToffoluttiCamillo Trevisan (clasVEM)Angela VetteseCarlo Vinti (clasVEM)
CORSI LABORATORIALI/LABS & WORKSHOPS
Mario Airògiovanni Anceschi (clasVEM)Csaba Antal (clasT)Stefano ArientiMonique Arnaud (clasT)Karina ArutyunyanMauro Avogadro Lewis BaltzCarlos BasualdoMaja BajevicValerio Binasco (clasT)Francesco BonamiNicolas BourriaudTania BrugueraEnrico Camplani (clasVEM)Lawrence CarrolRoberto Cavosi (clasT)Sandro Chiagillian Crampton Smith (clasVEM)Luigi Dall’AglioEnrico DavidPaola DonatiJimmie DurhamRene gabriAlberto garuttiguido guidiOlafur EliassonFrédéric Flamand (clasT)Mona HatounRuna IslamJoseph KosuthMarta KuzmaCornelia LaufArmin LinkeDavide Livermore (clasT)Massimo MagrìEva MarisaldiBjarne MelgaardAntoni Muntadasgloria MoureKlaus ObermaierHans Ulrich ObristJorge OrtaAdrian PaciRenato Padoan (clasT)
Margherita Palli (clasT)giulio PaoliniCesare PietroiustiPierluigi Pizzi (clasT)Marjetica PotrcElisabetta Pozzi (clasT)Rob PruittTobias RehbergerDavide RiboliLorenzo RomitoRemo SalvadoriNicolò ScibiliaLeonardo Sonnoli (clasVEM)Tim Stark Philip Tabor (clasVEM)Rirkrit Tiravanijagrazia ToderiEzio Toffolutti (clasT)Camillo TrevisanFrancesco VezzoliBenjamin WeilMiro Zagnoli (clasVEM)Edoardo Zanon (clasVEM)Marco Zantagilberto Zorio
COSA DOVREBBE ESSERE UNA SCUOLA D’ARTE/WHAT AN ART SCHOOL SHOULD BE:
Per la sezione “Cosa dovrebbe essere una scuola d’arte?” sono state riportate le risposte dei soli docenti che hanno svolto un’attività di laboratorio nel settore delle Visual Arts o affini. Non sono state date indicazioni di lunghezza, e ciascuno ha risposto con la massima libertà.
The section entitled “What an Art School Should Be?” contains only the answers of professors who conducted laboratory activities in the visual arts or related fields.They were not given any requirements as to length and each one answered freely.
IMPRINT
Visual Arts at IUAV 2001-2011
a cura di/edited by Chiara Vecchiarellicon/withAngela Vettese
published by: Mousse
progetto grafico/graphic design: Studio Mousse - Marco Fasolini, Fausto giliberti, Elena Mora, Francesco Valtolina
coordinamento editoriale/editorial coordination: Carlotta Poli
editing: Chiara Leoni
proofer: Stephen Piccolo
traduzioni/translation: Catherine Bolton, Stefano Asperti, Lucia Pietroiusti
stampa/printing: Artigianelli Spa
Tutti i diritti dei testi sono riservati agli autori/All rights reserved by the authors of the texts
Crediti fotografici/Photo credits: Mara Ambrožic, Riccardo Banfi, Cristina Barbiani, Marco Bertozzi, Michele Brunello, Eleonora Charans, Marco De Michelis, Donatello De Mattia, Chiara Di Stefano, Andrea galiazzo, Paul geurtz, Stefano graziani, Marguerite Kahrl, Cornelia Lauf, Laura Lovatel, Elena Mazzi, Corinne Mazzoli, Laura Pante, Andrea Pertoldeo, Marjetica Potrc, Caterina Rossato, Iacopo Seri, Richard Saxton, Tommaso Speretta, Diego Tonus, Nataša Vasiljevic , Chiara Vecchiarelli, Angela Vettese
locandine IUAV a cura del/Poster IUAV by: Servizio Comunicazione e Stampa IUAV
Si ringraziano la Fondazione FASA e il suo direttore Paolo Legrenzi per i finanziamenti dati a molti artisti e studiosi e per aver reso possibile questo volume/We are grateful to the FASA Foundation and its director, Paolo Legrenzi, for funding many artists and scholars, and for making this book possible.
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Una scuola d’arte dovrebbe essere una scuola libera da impicci, da gelosie accade-miche, da leggi meschine, da regolamenti fatti da burocrati inconsapevoli, da procedu-re imposte da politici arroganti, da vincoli voluti da ministri che hanno fatto carriera per meriti inconfessabili.
Dovrebbe essere una scuola ricca ab-bastanza da non considerare sprechi l’orga-nizzazione di una mostra dei suoi allievi, la pubblicazione di un catalogo, l’acquisto di una semplice attrezzatura, la riparazione di un apparecchio fotografico, la firma di un contratto d’insegnamento con uno dei grandi artisti del nostro tempo.
Dovrebbe essere il luogo in cui gli artisti condividono, con altri rappresentanti del sapere contemporaneo – filosofi, sociologi, antropologi, semiologi, psicologi, storici... – l’idea che all’arte del tempo moderno è affi-dato il compito di costruire forme originali di conoscenza complessa del mondo; di met-tere le cose del mondo in relazione tra loro.
Dovrebbe essere la scuola dove studenti, motivati ed entusiasti, provenienti da tutto il mondo, esercitano le proprie capacità critiche e progettuali, piuttosto che quelle tecniche.
Dovrebbe essere come il corso di laurea magistrale in arti visive dello IUAV, quando, dieci anni fa, ha incominciato la sua storia ancor breve, ma già straordinaria.
An art school should be a school with-out hindrances, academic jealousy, petty laws, regulations drawn up by uninformed bureaucrats, procedures imposed by arro-gant politicians, limitations demanded by ministers whose careers are built on inef-fable merits.
An art school should be rich enough not to consider wasteful the organization of an exhibition for its students, the publication of a catalogue, the purchase of some simple apparatus, repair of photographic equip-ment, the offer of a teaching contract to one of our leading contemporary artists.
An art school should be the kind of place where artists and other representa-tives of contemporary culture – philoso-phers, sociologists, anthropologists, semi-ologists, psychologists, historians – share the idea that the art of today is entrusted with the task of constructing original forms of complex knowledge of the world and of interrelating the aspects of the world.
An art school should be where motivat-ed, enthusiastic students from all over the world hone their critical and creative abili-ties, rather than their technical skills.
It should be like the teacher training degree in visual arts that the IUAV offered ten years ago, when this institute began its existence: short as yet short, but already amazing.
Se le arti visive debbano essere inse-gnate all’interno delle università, è una questione aperta: il modello americano le ha inserite da tempo nei migliori atenei, dalla UCLA di Los Angeles, al MIT di Boston, mentre in Germania, in Francia e in Europa in generale permane la consuetudine di for-mare i futuri artisti e curatori nelle Accade-mie di Belle Arti. La principale differenza tra le prime e queste ultime è che nelle università si prevede l’alternanza di molti approcci e di diversi docenti anche per i laboratori di carattere pratico e progettuale, consentendo allo studente una formazione assai diversificata; nelle Accademie, invece, vige quasi sempre la presenza di un maestro solo che segue gli studenti per tutti gli anni della loro formazione, anche se coadiuvato da altri per alcune materie specifiche.
Un secondo interrogativo saliente riguarda la rilevanza delle tecniche: ha importanza, per esempio, immaginare dei corsi di disegno? Ha senso non immaginare alcuna formazione preliminare di carattere tecnico, lasciando l’aspetto del “fare” alla discrezione dei singoli docenti? La de-materializzazione dell’arte dagli anni Ses-santa in poi e il divaricarsi delle maniere di concepire un’opera rende queste domande molto simili a sfide, quasi scommesse su cosa si debba o si possa intendere come arte. Un quesito, peraltro, che molti teorici ci hanno insegnato a lasciare aperto, come aperta e sovente imprevedibile è stata la storia dell’arte dall’inizio del Novecento con le rivoluzioni tecniche, appunto, prima ancora che teoriche, iniziate da autori come Picasso, Kandinskij, Braque, Duchamp e tutti i maestri dada-surrealisti.
La facoltà di Design e Arti dell’Univer-sità IUAV di Venezia è nata dal presupposto che l’arte visiva possa essere un momento formativo importante negli atenei univer-sitari e che non sia necessario insegnare tecniche specifiche, ma consapevolezza e capacità di progetto. Si è ritenuto che anche ciò che deriva, oggi, dalla storia della pit-tura e della scultura, e che si è andato ride-finendo in modo tanto radicale dal secondo Novecento, possa e debba essere insegnato in un contesto dove trovano posto anche il teatro, il design del prodotto, la comunica-zione e la moda.
Questo modello formativo era già sta-to segnato, del resto, da esperienze in cui l’arte visiva era considerata un campo del sapere e non una mera attività decorativa o deputata al tempo libero. Tra queste, è stato fondativo il breve volo del Bauhaus, quel politecnico capace di raccogliere uno spet-tro di discipline che andava dalla pittura di Paul Klee al design di Breuer all’archiet-tura di Gropius e di Mies Van der Rohe; centri come il Black Mountain College nel North Carolina, dove l’artista Josef Albers esercitò il suo magistero, hanno cercato di raccoglierne l’eredità. Per quanto possibile, anche a Venezia si è cercato di seguire la stessa rotta, ricordando come in Laguna abbia sede l’unica Biennale d’arti che si sia data una struttura polidisciplinare abbrac-ciando arte, architettura e design, cinema, danza, musica e teatro. Il territorio stesso ha chiamato e permesso la nascita di una simile facoltà.
Ciò che si è cercato di fare in questi dieci anni è stato portare lo spirito dei ten-tativi iniziati con il Bauhaus anche in Italia, mettendo al contempo il nostro Paese al passo con le più recenti esperienze interna-zionali del campo. Il sistema di norme che regolano la vita universitaria mette parzial-mente in discussione la rotta fin qui seguita, in particolare per ciò che riguarda il contri-buto dei docenti a contratto, professionisti che IUAV ha saputo e voluto raccogliere per realizzare la propria scommessa: un unicum in Italia che rischia di andare perso. Anche per questo, in vista di un rinnovamento che si pone come cesura, è necessario fare un bilancio del già fatto; nella speranza di poter mettere a frutto il cambiamento non come la chiusura di un’esperienza, ma come un’opportunità per passi nuovi e per rispon-dere meglio alle domande formulate sopra.
Medardo Chiapponipreside della facoltà di design e arti università iuav di venezia dal 2008
Marco De Michelisdean of the faculty of arts and design iuav university of venice from 2000 to 2008
Marco De Michelispreside della facoltà di design e arti università iuav di venezia dal 2000 al 2008
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Whether or not the visual arts must be taught at universities is still an open ques-tion. The American model has long included them at the best universities, from UCLA to MIT in Boston, whereas in Germany, France and Europe it is still customary to train fu-ture artists and curators at academies of the fine arts. The main difference between the former and the latter is that at universities there is an alternation of many approaches and different professors also for practi-cal and design workshops, offering the student a rather diversified education. At most academies, however, there is just one teacher who follows the students throughout their entire education, although he/she may be assisted by others for certain specific subjects.
Another key question involves the importance of techniques. For example, is it important to imagine drawing courses? Does it make sense not to imagine any sort of preliminary training on a technical level, leaving the aspect of “doing” to the discre-tion of the individual teachers? The dema-terialization of art from the Sixties on and the divergence of the ways of conceiving a work make these questions akin to a chal-lenge, wagers on what one should or may consider as art. Moreover, it is a question that many theoreticians have taught us to leave open, just as art history from the turn of the 20th century was open and often un-predictable, with the theoretical and, above all, the technical revolutions launched by artists such as Picasso, Kandinsky, Braque, Duchamp and all the Dada-Surrealist mas-ters.
The Faculty of Arts and Design at the IUAV University of Venice was established based on the assumption that visual art can be an important educational moment at universities and that it is not necessary to teach specific techniques but, rather, design awareness and abilities. The thinking was that everything derived today from the his-tory of painting and sculpture, which was radically redefined in the late 20th century, can be taught in a setting in which there is also room for theatre, product design, com-munication and fashion.
This educational model had already been marked by experiences in which visual
art was considered a field of knowledge and not a mere decorative or leisure activity. One of the most fundamental was the brief flight of the Bauhaus, the polytechnic insti-tute that covered an array of fields ranging from the painting of Paul Klee to Breuer’s design and the architecture of Gropius and Mies van der Rohe; centres such as Black Mountain College in North Carolina, where the artist Josef Albers taught, attempted to grasp his legacy. At Venice, too, the uni-versity strives to follow this same path as much as possible, cognizant of the fact that the city is home to the only art biennial with a multidisciplinary structure embrac-ing art, architecture and design, cinema, dance, music and theatre. The territory itself has convoked and permitted the estab-lishment of such a faculty.
The aim over this decade has been to bring to Italy the spirit of the attempts initi-ated with the Bauhaus, while also ensur-ing that our country is up to date with the most recent international experiences in this field. The system of rules regulating university life partially calls into question the path followed so far, in particular re-garding the contribution of contract profes-sors, professionals whom IUAV has chosen to welcome in order to achieve its aim: a unique scenario in Italy that runs the risk of falling by the wayside. For this as well, in view of a renewal that can emerge as a caesura, it is essential to take stock of what has already been done, in the hope of being able to profit from change, not as the end of an experience but as an opportunity to take new steps and respond better to the ques-tions formulated here.
Medardo Chiapponidean of the faculty of arts and designiuav university of venice since 2008
A cosa serve una scuola d’arte?Forse una scuola per artisti non serve.
Molti tra i pittori e gli scultori più interes-santi, come Van Gogh o Cézanne, non ne hanno volute frequentare o non sono riusciti a farlo. La formazione può essere fondata su presupposti così rigidi da non essere d’aiuto a chi intende portare parole nuove. D’altro canto, è raro che l’innovazione non nasca come ribellione a una regola, e in nessun luogo si impara la regola più facil-mente che a scuola.
Forse le scuole servono proprio perché quello che vi s’impara venga tradito dagli studenti migliori: alcuni tra i momenti più significativi che hanno cambiato la storia dell’arte nel Novecento sono nati dentro a contesti formativi in cui qualche allievo ha saputo superare i maestri, dall’Accademia di Monaco al Bauhaus, dal Black Mountain College del North Carolina alla scuola di Ulm, fino alla New School for Social Re-search di New York; le giovani generazioni di artisti si sono formate in centri quali l’accademia di Düsseldorf, la Hochschule di Francoforte, la UCLA di Los Angeles, la Cal Arts, l’Art Institute di Chicago, il Goldsmiths College e Central Saint Martin di Londra.
Un tempo, l’Accademia di Belle Arti era un luogo chiaro: vi s’imparavano scul-tura, pittura, decorazione e altre tecniche vagliate dal tempo, come l’illustrazione o l’incisione. La ricerca non faceva parte del bagaglio necessario dei diplomati. Peral-tro, dai tempi di Leonardo gli artisti hanno combattuto per sostenere che il loro lavoro “è cosa mentale” e che la loro divinità non è solo Mercurio, dio del fare e del comuni-care, ma anche Saturno, dio del pensiero e del sapere1. Anche se i loro luoghi di for-mazione li hanno sempre relegati al mondo della decorazione, del bello e delle abilità manuali. È una concezione dura a morire.
Oggi le pratiche correnti manifestano un carattere multimediale tale per cui il valore di un’opera non è legato al tipo di medium utilizzato, ma al dispositivo con-cettuale con il quale lo si utilizza. Ogni insistenza dell’insegnamento su skill tec-niche è fuori luogo, quindi, che si tratti del disegno o di abilità informatiche.
Ciò non significa che l’attività artistica
non richieda competenze. Paradossalmente, ne chiede troppe perché una scuola possa insegnarle tutte. Dato un progetto di lavoro, occorre spesso saper dipingere, fotografare, filmare, montare, mettere in piedi un’opera ambientale sfociando nel territorio architet-tonico o anche nella storia del paesaggio; occorre, a volte, sapere influenzare lo stato d’animo degli spettatori, cosa che richiede un background psicologico e anche qual-che lettura sociologica. Occorre essere al corrente di quanto è già stato fatto, cioè di quanto è andato concretizzandosi come “tradizione del nuovo”, secondo una defi-nizione di Harold Rosenberg. Una scuola d’arte dovrebbe oggi insegnare – come si è già detto – sia la norma sia il modo per ribaltarla. Nonché a fallire e a saper supe-rare prima di tutto le ferite dell’autostima: “Fail Again, Fail Better”, s’intitola un sag-gio illuminante di Roland Jones sui metodi dell’insegnamento artistico2.
Il problema di quali metodi insegna-re resta, comunque, appariscente. Che si parli di smaterializzazione dell’opera o di era postmediale, che s’insista sulle prati-che concettuali o performative, lo statuto dell’opera d’arte ne risulta problematizzato e per questo difficile da inserire in un piano di formazione. Per di più, il ruolo della teo-ria diventa sempre più importante riguardo a cosa significhi essere un autore, a quali siano i rapporti con altre discipline, a cosa si intenda per “conoscenza” in questo speci-fico ambito3, che comunque continua a in-cludere il fare e dunque l’imprecisione della techne rispetto alla sicurezza dell’episteme.
Non è un caso, quindi, che un secolo dopo la maggiore rivoluzione della tec-nica, il tema dell’insegnamento artistico sia ancora e anzi sempre più discusso in simposi e libri4; tenendo conto per inciso come numerosi tra i critici e gli artisti più noti abbiano offerto alla scuola molto del loro impegno, quasi che fosse un modo per dedicarsi veramente all’ambito intellettuale, abbandonando i meccanismi promozionali che connotano una carriera curatoriale fon-data su competitività, strategie, abilità or-ganizzative e di fund raising5. L’attività di sedi espositive collegate alle scuole d’arte, in questo contesto, emerge come mai prima, perché queste ultime si dimostrano centri
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slegati dalla necessità d’approvazione da parte di un mondo dell’arte vincolato a ri-svolti di carattere mercificato.
Così, critici come Ute Meta Bauer, Boris Groys, Daniel Birnbaum, Jens Hof-fmann, Hou Hanrou vi hanno trovato un rifugio; molti artisti, da Joseph Kosuth a Jannis Kounellis a Rebecca Horn, hanno portato a termine la loro carriera di docenti senza mai scinderla veramente da quella di “produttori”; altri, come Michelangelo Pistoletto e Olafur Eliasson, hanno deciso di trasformare in una scuola il luogo stesso dove vivono e lavorano, oppure, come Ma-rina Abramović, hanno preso sulle proprie spalle l’onere di creare una scuola ex novo: esperimenti tanto più radicali quanto meno protetti dal riconoscimento legale del titolo di studio che possono rilasciare. Guardan-do la cosa dal punto di vista di un sistema sempre più coercitivo, le scuole servono a liberarsi, almeno in parte, dei suoi lacci.
Probabilmente, comunque, la loro fun-zione resta tramandare uno stile rodato, an-che quando lo si presenti come nuovo. Ciò che dovrebbe essere chiaro, a noi tutti che ne facciamo parte, è che le scuole possono nascere sperimentali nei metodi ma sono, per definizione, luoghi in cui si tramanda una tradizione, che sia solo quella sedimen-tata nel Novecento o che si spinga più in-dietro. Dietro ai centri in cui oggi si fa for-mazione artistica, non c’è alcuna volontà di provocare o stupire: come ha notato ancora Rosenberg, il novero delle pratiche artisti-che che si seguono oggi è stato ampiamente definito prima del 19126. Non possiamo che cercare di svolgere al meglio il compito di trasmettere un sapere in modo onesto. Nelle parole di Robert Storr, un altro critico che ha scelto l’insegnamento, “il genio non manca di nulla”7 ma i geni sono rari e quin-di “il proposito delle scuole d’arte è quello di fornire agli studenti ciò che sanno essere loro mancante, e le modalità per capire le cose che non sanno essere loro mancanti”8. Inutile chiedersi che cosa manchi e cosa no a uno studente d’arte: deve scoprirlo da solo, anche se, di solito, il punto è dargli una base di conoscenze comuni da cui parti-re, per non scoprire l’acqua calda ripercor-rendo esperienze di altri.
Un altro punto che deve essere ribadito
è che una scuola d’arte non insegna cosa sia l’arte: le peripezie di questo concetto e le pratiche che l’arte ha adottato nei secoli sono talmente cambiate che ogni periodo storico ha ridefinito il termine a posteriori, sulle tracce di ciò che, in concreto, hanno fatto gli artisti. Su questo punto, vale il rasoio di Nigel Warburton, che ci ha invita-to a non perdere tempo sulle definizioni e a occuparci direttamente delle opere9. Qual-siasi cosa essa sia, l’arte è un’entità scivo-losa, fatta per mettere nervosismo a chiun-que cerchi di infilarla in una tassonomia e in una catalogazione anelastica, un settore in cui la conoscenza certa non ha spazio. Dunque, di nuovo, davvero insegnarla ha un senso?
Nell’affermarlo ci aiuta il fatto che, in quasi tutti i centri di formazione più avan-zati, il design viene insegnato accanto alle cosiddette Fine Arts; come a dire che le soluzioni migliori per problemi di carattere pratico si trovano anche frequentando la tradizione delle forme inutili, quelle che hanno un carattere votivo o totemico, o di riconoscimento simbolico di una collettività culturalmente coesa. La storia delle forme, finalizzate o meno alla vita corrente, dise-gna una “forma del tempo” – secondo una nota definizione di George Kubler10 – e mai come in questo secolo accelerato è neces-sario avere strumenti per seguire i cambia-menti maggiori.
A nessuno può sfuggire il ruolo che le immagini, cioè le forme che hanno un legame particolare con la visualità, hanno assunto in questi decenni di galoppata tec-nologica e comunicativa: mai come ora, la maggior parte delle idee prende corpo sotto forma di figure per poi tradursi in parola, mentre un tempo sembrava naturale il per-corso inverso. Ritenere che l’area dell’im-magine – anche di quelle in movimento o tridimensionali o ambientali – non abbiso-gni di una preparazione adeguata è quindi un anacronismo: quando una civiltà inizia a esprimersi secondo certi sistemi, non impa-rare a comprenderli e a dominarli significa anche perdere il dominio dell’espressione medesima.
Tutto ciò vale anche per il campo delle arti visive, un sottoinsieme delle immagini senza finalità pratiche. Il successo di musei,
mostre, aste, mercato e scuole, dimostra già di per sé la loro rilevanza, nonostan-te continuino ad avere detrattori che non ne condividono o non ne comprendono o non desiderano capirne il linguaggio. Esse comunicano il benessere, la liberalità, la democrazia vera o presunta raggiunta da un territorio e veicolano in maniera sintetica e non verbale dei contenuti condivisi. In que-sto senso, per inciso, poiché a diffondersi è stata una tradizione che nasce dal “canone occidentale” (secondo la dicitura discussa ma efficace di Harold Bloom), la sua espan-sione è stata forse un ultimo atto di colonia-lismo culturale.
Al giro di boa rappresentato dagli anni Dieci, sappiamo che sarà l’Asia a dominare e che comunque la certezza delle potenze già coloniali si è disfatta dopo un lungo periodo post-bellico, post-pace e post-capitalismo avanzato. Tuttavia, difficilmen-te si potrà ritornare indietro rispetto agli investimenti fatti nel tentativo di rubare a New York, Londra, Parigi la supremazia nel dettare legge non solo nell’arte, ma anche riguardo al modo di vivere. Di conseguen-za, difficilmente si ritornerà indietro anche riguardo al modo di concepire cosa sia una scuola d’arte visiva: un luogo dove non si trasmette un mestiere ma un’attitudine men-tale, peraltro in opposizione a un sistema scolastico che cerca di porsi sempre più come professionalizzante e non meramente umanistico.
Date queste premesse, veniamo alla storia e al perché della scuola di cui que-sto volume riassume dieci anni di attività. Quando l’Università IUAV si chiamava ancora Istituto Universitario di Architettura di Venezia, glorioso centro in cui avevano insegnato Manfredo Tafuri, Carlo Scarpa, Aldo Rossi e molti altri, sembrò al rettore e ad alcuni altri componenti del corpo docen-te che, appunto, l’insegnamento di discipli-ne progettuali come l’architettura, la pia-nificazione urbanistica, il design potessero e dovessero affiancarsi a una formazione anche nel campo delle arti visive e perfor-mative. Era un processo a ritroso rispetto a quello compiuto dal Bauhaus, dove si giun-se al primato dell’architettura, toccato con la direzione di Mies van der Rohe, dopo che i primi anni erano stati dominati da pittori
quali Johannes Itten, Vasilij Kandinskij e Paul Klee. Del resto, lo IUAV era nato nel 1926 in parte “contro” i pittori, cioè da una scissione rispetto all’Accademia di Belle Arti. E questo spiega una parte delle resi-stenze che gli architetti hanno continuato ad avere rispetto alla nuova ala dell’insegna-mento universitario.
Nel 1998 venni dunque invitata da Marino Folin a pensare un corso di laurea innovativo; insieme a lui si trovarono a lavorare sul medesimo tema, in tempi di-versi, Marco De Michelis, Germano Celant, Sergio Polano per il design, Walter Le Moli per il teatro e alcuni altri; Lucia Barsotti mise a disposizione la propria competen-za per dare un profilo legale alle idee. La normativa vigente sembrava aprire spiragli verso nuovi corsi di laurea. In Italia la for-mazione artistica avveniva allora all’esterno dell’Università, in Accademie, che cercava-no da anni di rinnovarsi, oppure nei DAMS, corsi di laurea che davano una preparazione teorica ma che non includevano l’aspetto pratico e laboratoriale.
La proposta fu un corso di arti visive all’interno dell’Università, quindi con un pieno riconoscimento del settore come am-bito del sapere, ma in cui si congiungessero finalmente pratica e teoria; il progetto fu confortato da numerosi esempi anglosassoni e dal modello del Corso Superiore di Arti Visive della Fondazione Antonio Ratti, una summer school nata nel 1995, di solo 21 giorni ma che in nuce riassumeva alcune delle premesse su cui s’intendeva lavorare: laboratori molto liberi nei metodi, affidati a visiting professor esterni, congiunti a una parte strutturata di lezioni frontali e confe-renze teoriche; nessun limite tecnico; nes-sun orientamento politico, tranne quello che si incarna nelle famose parole di Gertrude Stein: “Ciascuno di noi, a modo proprio, è tenuto a esprimere cosa stia facendo il mon-do nel quale viviamo”11.
Il Corso di Laurea Specialistica in Pro-gettazione e Produzione delle Arti Visive venne inaugurato, insieme al suo gemello dedicato al teatro, l’8 giugno 2001 con un’opera di Joseph Kosuth e una rappre-sentazione di teatro-danza con la regia di Frédéric Flamand e la scenografia di Zaha Hadid. Il palco era sul fascinoso panora-
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ma delle Zattere, laddove l’archeologia industriale sembra mischiare Rotterdam a Venezia. Gli edifici erano ancora in fase di restauro, ma l’entusiasmo fu tale da sospingerci avanti, nonostante i pavimenti non completati, l’ascensore mancante e la carenza di aule. Erano i primi mattoni di una Facoltà di Design e Arti che si affianca-va a quelle di Pianificazione Urbanistica e di Architettura. Contestualmente, l’Istituto Universitario di Architettura di Venezia diventava Università IUAV, chiudendo per sempre il suo acronimo e cambiando, con un concorso, il suo logo: il leone circolare di un tempo veniva sostituito da una scritta semplice, che gioca sulla simmetria di ogni lettera e che consente flessibilità e un uti-lizzo versatile.
Dapprima nacquero, dunque, i due corsi di laurea specialistica, uno volto alle arti visive e l’altro al teatro; poi vennero i corsi di laurea triennali e, nel tempo, la piattafor-ma è arrivata a comprendere scuole di base e magistrali di design del prodotto, della moda e della comunicazione, fino a comple-tare il progetto di una facoltà intera. Che in effetti non è mai stata accettata dalle altre due e che è stata tenuta in vita solo perché a basso costo. Anche l’Accademia ci vide come un rivale e rifiutò all’inizio qualsiasi permeabilità tra i corsi di studio. Né le rivi-ste d’arte, né il contesto istituzionale – che pure hanno assorbito molti dei nostri allievi in posizioni di rilievo, come artisti o cura-tori – hanno mostrato particolari tenerezze per questo esperimento.
Niente di cui stupirsi, comunque: in tutto il mondo si registrano fenomeni simili, tra l’approvazione senza tentennamenti per l’arte in generale e il distacco da essa quan-do si presenti come competitor nei finanzia-menti. Quasi ovunque, come sostiene Brad Buckley dal suo osservatorio australiano, il settore “non è riconosciuto come un cam-po legittimo per la ricerca finanziata […] Dal tempo di Oscar Wilde, l’arte è stata anche riconosciuta come uno strumento per criticare la società; questo precetto oggi è assiomatico nelle arti visive. La ricerca finanziata di livello universitario non do-vrebbe riflettere questo? In qualche modo, il lessico di che cosa costituisca una ricerca valida esclude ancora tutto ciò”12.
Le difficoltà incontrate sono state del resto un segno chiaro che l’iniziativa è stata di alta visibilità, nonché figlia di una logica stringente: la Venezia della Biennale, terri-torio dell’arte per eccellenza, non può non dotarsi di strutture formative che seguano la sua vocazione primaria e che sappiano porsi al suo servizio, così come si è cer-cato di fare collaborando il più possibile con altre entità dedicate alle arti contem-poranee. Ricordiamo la mostra presso la Biennale svoltasi nel 2003, con studenti di 13 scuole da tutto il mondo13, i rapporti con la Fondazione Bevilacqua La Masa e con il museo MAXXI14 – che nel 2008 ha dedicato al corso un suo primo resoconto pubblico a Roma –, le rassegne di studenti e docenti presso la Fondazione Buziol, le lezioni del ciclo L’Opera Parla presso Palazzo Grassi, gli incontri al centro alternativo S.A.L.E. – nato, peraltro, anche da nostri allievi e da considerarsi uno dei risultati più tangibili della scuola stessa. Progetti europei come Radar (2003) e Becoming Bologna (2009) insieme alla rete di scuole d’arte europee EARN, l’inserimento nella rete comuni-taria SHARE, la partecipazione a progetti internazionali come Real Presence sono stati altrettanti momenti di riconoscimento internazionale.
Gli ostacoli incontrati sulla via, del re-sto, sono un segno di cui andare orgogliosi dal punto di vista ideale: nonostante la loro inedita popolarità e il fatto di essere diven-tate sempre più istituzionali, le arti visive sembrerebbero conservare un elemento sovversivo capace d’infastidire; forse la componente più inquietante sta proprio nella difficoltà di definirle appieno, dando loro un preciso posto nel mondo. Non sono ambiti professionalizzanti, nel senso pieno del termine, e uno studente che esca da un corso di Visual and Performing Arts non può, quasi per definizione, aspirare ad ave-re un’occupazione stabile e subordinata: un artista o un independent curator non timbra il cartellino, se non quando è fallito. Un fat-to scomodo, ma sul quale riflettere.
Di una cosa l’esperimento che, da al-lora, ha potuto vivere tra procelle diverse per dieci anni, parla con sicurezza: della necessità di essere legati a un territorio e alle domande che pone, ma al contempo
anche di lavorare in una prospettiva in-ternazionale. C’è bisogno di sconfinare in ogni senso, senza dogmi nella scelta della tipologia dei docenti e senza limiti geogra-fici rispetto alla loro provenienza. Nei corsi d’arte IUAV si è sempre insegnato anche in inglese. Si è sentita la necessità di tradurre il più raramente possibile. Si è avvertita l’opportunità di mettere in piedi una piat-taforma capace di attrarre professionisti veri – tra i primi generosi che hanno cre-duto nell’esperimento ci sono stati Lewis Baltz, Guido Guidi, Joseph Kosuth, Giulio Paolini, Grazia Toderi, Hans Ulrich Obrist che insegnò in tandem con Stefano Boeri, Rirkrit Tiravanija che affittò una casa in Campo Santa Margherita per potere ospi-tare gli studenti la sera; l’anno dopo Mario Airò, Stefano Arienti, Lawrence Carroll, Alberto Garutti; e poi ancora Maja Bajevic, Carlos Basualdo, Nicolas Bourriaud, Jim-mie Durham, Rene Gabri, Mona Hatoum, Runa Islam, Marta Kuzma, Armin Linke, Eva Marisaldi, Gloria Moure, Adrian Paci, Cesare Pietroiusti, Marjetica Potrč, Tobias Rehberger, Remo Salvadori, Benjamin Weil e molti altri, di cui si ritroveranno i nomi in questo volume, con una permanenza che è andata, a loro scelta, da un semestre a molti anni. Accanto al loro contributo, si è avuto quello dei docenti di ruolo, scelti con una grande attenzione alle discipline di matrice filosofica, psicologica e comunque teorica: tra questi non possiamo non nominare alme-no coloro – da Giorgio Agamben a Marco De Michelis a Patrizia Magli – che hanno spesso accompagnato i ragazzi, persino a cena, e che si sono impegnati in programmi anche di dottorato. Alcuni dei docenti, da Carlos Basualdo a Antoni Muntadas, da Olafur Eliasson a Bjarne Melgaard, hanno coinvolto gli studenti nella realizzazione dei padiglioni nazionali che erano stati loro affidati alla Biennale. In molti altri casi, è stata la Biennale medesima a chiedere ai nostri studenti di collaborare alla realizza-zione delle opere di artisti vari. E ancora, istituzioni diverse hanno aperto tirocini e bandi per i nostri studenti: dal Philadelphia Museum of Art alla Serpentine Gallery di Londra, dalla New York University alla Fondazione Spinola Banna, dal Pierogi a New York all’Institute for Contemporary
Art di Oslo, fino alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino e al Museo d’Arte Contemporanea del Castello di Rivoli. E alcune mancheranno senz’altro a questo ap-pello. Le relazioni hanno portato relazioni e la possibilità, per gli studenti più volitivi, di sfruttare la scuola per andarsi a formare anche altrove, è stata sempre incoraggiata. Una sorta di miracolo italiano ci ha aiutato, nonostante le ristrettezze in cui la scuola ha vissuto per la maggior parte dei suoi anni. Così anche si dica per i convegni, organiz-zati spesso al limite delle forze, ma quasi tutti sfociati in pubblicazioni. All’interno della facoltà, iniziative condotte dal gruppo di semiotici riuniti nel LISaV, capitanato da Paolo Fabbri, così come quelle dei teorici dell’economia, guidati da Pierluigi Sacco e degli psicologi, organizzati da Paolo Le-grenzi, hanno generato ricerche significati-ve. Le relazioni con il gruppo dei docenti di cinema – da Irene Bignardi a Paolo Costa a Marco Bertozzi – come quelle con il gruppo di design della comunicazione – da Gior-gio Camuffo a Wolfgang Sheppe a Sergio Camplani – sono state fertili, soprattutto nel ciclo di workshop intitolati Teach Me. E prego di non offendersi chi non sia stato nominato: questo testo diventerebbe un elenco.
Ad alcuni docenti che hanno fatto par-te del percorso è stato chiesto, per questo libro, “cosa dovrebbe essere una scuola d’arte”, perseguendo le riflessioni impo-state sopra. Qualcuno non ha risposto. La maggioranza ha offerto spunti brevi, ma profondi e sentiti, sulla base della propria esperienza. La domanda vuole essere rivolta a una prospettiva futura e non a un racconto dell’accaduto, perché comunque si fa sem-pre troppo poco.
I loro statement, così come gli elenchi che seguono, vanno visti come un riassunto delle attività svolte e come una dichiarazio-ne d’intenti per il futuro. Ci sono stati mille errori e indubbie mancanze: non avere un bar, non avere tecnici di laboratorio suffi-cientemente numerosi, non potere tenere la scuola aperta la sera, non essere in grado di pagare gite collettive e nemmeno borse di studio, non avere potuto sviluppare un pro-gramma di dottorato per artisti e, comun-que, un vero terzo livello nel ciclo di studi;
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alcune lacune sono state risolte dagli stessi studenti, rivelatisi una forza motrice attivis-sima, capace di trovarsi la sera per lavorare, di organizzarsi per andare a vedere e a fare mostre anche all’estero, di inventarsi occa-sioni di confronto anche in luoghi impensati come case private, circoli per anziani, vec-chi centri sociali, con un’invasione soffice ma volitiva della città intera. Si darà atto a loro e ai docenti che hanno seguito i loro desideri, di avere agito assertivamente, del tentativo di affidarsi a buone pratiche sor-rette da una visione teorica di fondo.
Nata grazie alle pieghe di una riforma, la scuola d’arti visive IUAV dovrà voltare pagina a causa di un’altra riforma, con la quale si diminuisce drasticamente il nu-mero di ore consentite di insegnamento a contratto – l’unica formula per avere buoni professionisti – e con cui si limita anche la possibilità di avere docenti stranieri. Così facendo, almeno per quanto attiene alle arti visive, la legge Gelmini restituisce l’Uni-versità a se stessa e torna quindi a conce-pirla come un mondo autoreferenziale. Fare un bilancio di dieci anni di attività significa anche questo: non celebrare il già fatto ma capire il da farsi, vedendo con lucidità che difficilmente potrà ripetersi qui, nelle forme che ha avuto; sperando che l’esperienza fatta possa comunque aiutare altre scuole d’arte a trovare la loro strada.
NOTE
1) Il riferimento è ovviamente a Raymond Klibansky, Fritz Saxl e Erwin Panofsky, Saturno e la Melanconia, trad. it. Einaudi, Torino 1986.
2) In Steven Henry Madoff (ed.), Art Schools (Proposi-tions for the 21st century), MIT, Cambridge/London 2009, pp. 151-164.
3) Cfr. Jan Kaila, “The Artist As a Producer of Knowl-edge”, in The Artist’s Knowledge 2, Research at the Finn-ish Academy of Fine Arts, Helsinki 2008, pp. 6-9.
4) Tra gli altri, cfr. Mary Jane Jacob and Jacquelynn Baas, Learning Mind – Experience into Art, School of the Art In-stitute of Chicago, University of California Press, Berke-ley/Los Angeles/London, 2009; Brad Buckley and John Conomos (eds.), Rethinking the Contemporary Art School – The Artist, the PhD, and the Academy, The Press of the Nova Scotia College of Art and Design, Canada 2009.
5) Cfr. Ute Meta Bauer, Zones of Activities, in Jacob and Baas, op. cit., p. 137.
6) Cfr. Harold Rosenberg, The Anxious Object: Art Today and its Audience, Horizon Press, New York 1964, p. 20.
7) “Genius lacks nothings that it needs”, in “No problem but a problematic”, in Maddoff 2009, op. cit., p. 54-65, p. 65.
8) “The purpose of art schools is to provide students with the things they know they lack and ways of finding the things they don’t know they lack”, ibidem.
9) Cfr. Nigel Warburton, La questione dell’arte, trad. it. Einaudi, Torino 2004.
10) George Kubler, La Forma del tempo, trad. it Einaudi, Torino 2002.
11) “Each of us in our own way is bound to express what the world in which we are living is doing” (da “Portraits and repetitions”, citato da Ann Hamilton nel saggio “Mak-ing not Knowing” in Jacob and Baas 2009, op. cit., pp. 66-73, p. 69).
12) “[Art] is not recognized as a legitimate field for funded research. [...] Since Oscar Wilde’s time, art has also been acknowledged as a tool for criticizing society; this precept is axiomatic in the visual arts today. Shouldn’t funded research at university level reflect this? Somehow, the lexicon of what constitutes valid research still ex-cludes all this”, in Buckley and Conomos, “The Australian Research Council Funding Model Condemns Art Schools to a Bleak Future”, in Conomos 2009, op. cit., p. 87-88.
13) Cfr. il catalogo Angela Vettese (a cura di), Recycling the Future. Vivere Venezia 2, Marsilio, Venezia 2003.
14) Cfr. il catalogo a cura di Cornelia Lauf e Angela Vette-se, IUAV al MAXXI, Venezia 2008.
What Is the Purpose of an Art School?Perhaps a school for artists serves no
purpose at all. Many of the most interesting painters and sculptors, such as Van Gogh and Cézanne, did not want or manage to attend one. Training can be based on as-sumptions so rigid they cannot be of help to those who intend to introduce new words. On the other hand, innovation rarely occurs without being a rebellion against rules, and there is no easier place to learn rules than at school.
Perhaps we need art schools precisely so that what is learned there will be be-trayed by the best students. Some of the most significant moments that changed art history in the 20th century occurred in educational settings in which several pupils surpassed their teachers, from the Munich Academy to the Bauhaus, from Black Mountain College in North Carolina to the Ulm School of Design and on to the New School for Social Research in New York. The young generations of artists were trained at centres such as the Düsseldorf Art Academy, the Hochschule in Frankfurt, UCLA, Cal Arts, the Art Institute of Chi-cago, and Goldsmiths College and Central Saint Martin in London.
The Academy of Fine Arts was once an obvious place where one could learn sculp-ture, painting, decoration and other tech-niques sanctioned by time, such as illustra-tion or engraving. Research was not part of the background required by graduates. At the same time, since Leonardo’s era artists have battled to sustain that their work is “a mental thing” and that their deity is not only Mercury, the god of doing and commu-nicating, but also Saturn, the god of thought and knowledge.1 And this despite the fact that the places where they have trained have always been relegated to the world of deco-ration, beauty and manual skills. It is an enduring conception.
Current practices now manifest a mul-timedia character so that the value of a work is not tied to the type of medium that is used, but to the conceptual device with which it is employed. Any insistence of teaching on technical skills is thus inap-propriate, regardless of whether it has to do with drawing or computer abilities.
This does not mean that artistic activity does not require capabilities. Paradoxically, it needs so many that a school is unable to teach them all. A given work project often requires the ability to paint, photograph, film, edit or set up an environmental work that leads to the architectural territory or even the history of landscape; at times, one must be able to influence the spectators’ mood, and this requires a background in psychology as well as a smattering of soci-ology. One must be familiar with what has already been done, i.e. with what has been implemented as the “tradition of the new”, according to Harold Rosenberg’s definition. As we have already noted, an art school should teach the rule as well as how to overturn that rule. And it should also teach how to fail and how to overcome the ensu-ing damage to self-esteem: “Fail Again, Fail Better” is the title of an enlightening essay by Roland Jones on the methods of artistic teaching.2
The problem of which methods to teach is still striking nonetheless. Regardless of whether we are talking about dematerializa-tion of the work or the post-media era, the statute of the work of art has been problem-atized and is thus difficult to insert into an educational programme. Moreover, the role of theory becomes increasingly important in terms of what it means to be an author, the relations that exist with other disciplines, what is meant by “knowledge” in this spe-cific field,3 which nevertheless continues to include doing and thus the imprecision of techne with respect to the certainty of episteme.
Therefore, it is no accident that a century after the greatest revolution of technique, the subject of teaching art continues to be discussed increasingly in symposia and books,4 incidentally bearing in mind that many of the best-known crit-ics and artists have devoted much of their time to schools, as if it were a way to give themselves fully to the intellectual milieu, abandoning the promotional mechanisms that distinguish a curatorial career based on competitiveness, strategy, and or-ganizational and fundraising skills.5 In this context, the activity of exhibition venues connected with art schools has emerged as
Angela Vettesedirettore del corso di laurea magistrale in teatro e arti visiveindirizzo progettazione e produzionedelle arti visive
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never before, because the latter have proven themselves to be centres that are not limited by the need to be approved by an art world bound to commoditization.
Critics such as Meta Bauer, Boris Groys, Daniel Birnbaum, Jens Hoffmann and Hou Hanrou have thus found refuge there; many artists, from Joseph Kosuth to Jannis Kounellis and Rebecca Horn, have finished their career as teachers without ever truly separating it from that of “pro-ducers”. Others, such as Michelangelo Pis-toletto and Olafur Eliasson, have decided to transform where they live and work into a school, or, like Marina Abramović, they have taken on the burden of creat-ing a brand-new school: the less they are protected by the legal recognition of the diploma they can issue, the more radical they are. Looking at this from the viewpoint of an increasingly coercive system, schools serve the purpose of getting rid of their own shackles, at least in part.
In any case, their function probably continues to be that of handing down a well-oiled style, even when they are pre-sented as something new. What should be clear to all those who are part of them is that schools may be experimental in method, but by definition they are places in which a tradition is handed down, be it sim-ply the one that arose in the 20th century but also those that go further back. The cen-tres where artistic training takes place today are not distinguished by any desire to pro-voke or astonish: as Rosenberg observed, the category of artistic practices followed today was amply defined before 1912.6 We can only try to perform the task of convey-ing knowledge honestly and as best as we can. In the words of Robert Storr, another critic who chose to teach, “genius lacks nothings that it needs”,7 but geniuses are rare and thus “the purpose of art schools is to provide students with the things they know they lack and ways of finding the things they don’t know they lack”.8 It would be pointless to ask an art student what he lacks and what he doesn’t: he must discover this on his own, although as a rule the idea is to provide him with a foundation of com-mon knowledge as a starting point, to avoid reinventing the wheel by tracing the experi-
ences of others.Another point that must be emphasized
is that an art school does not teach what art is: the vicissitudes of this concept and the practices that art has adopted over the centuries have changed so much that each historical period has redefined the term a posteriori, in the wake of what artists have actually done. On this point, we can cite the razor of Nigel Warburton, who asks us not to waste time on definitions and to deal directly with the works.9 Regardless of what it may be, art is a slippery entity that aims to upend anyone who tries to pigeonhole it into a taxonomy or inelastic category, a sector in which there is no room for sure knowledge. So, again, is there really any point in teaching it?
In stating this we are aided by the fact that at nearly all of the most advanced edu-cational institutions design is taught along-side the so-called Fine Arts, as if to say that the best solutions for practical problems can also be found by examining the tradi-tion of useless forms, those that are votive or totemic in nature, or are the symbolic recognition of a culturally cohesive commu-nity. The history of forms, whether aimed at current life or not, sketches out a “shape of time” – according to George Kubler’s well-known definition10 – and never as in this accelerated century has one needed instru-ments to follow the biggest changes.
Nevertheless, no one can fail to grasp the role that images, i.e. the forms that have a particular tie with visual quality, have acquired in these decades of technological and communicational haste: never before have most ideas materialized in the form of figures and then been translated into words, whereas the opposite process once seemed natural. Deeming that the area of images – even those in motion or three-dimensional or environmental – does not require ad-equate preparation is thus an anachronism: when a civilization starts to express itself according to certain systems, not learning and mastering them means losing command of the expression itself.
All of this also applies to the field of the visual arts, a subset of images without practical aims. The success of museums, exhibitions, auctions, markets and schools
intrinsically demonstrates their relevance, despite the fact that they continue to have denigrators who do not share or understand or desire to understand their language. They communicate the well-being, liberality and real or presumed democracy achieved by a territory, and they succinctly and nonver-bally convey shared contents. Incidentally, in this sense – because what circulated was a tradition that arose from the “West-ern canon” (according to Harold Bloom’s controversial but effective term) – its ex-pansion may well have been a final act of cultural colonialism.
At the turning point represented by the 1910s, we know that Asia came to domi-nate and that, regardless, the confidence of former colonial powers crumbled after a long post-war period, after peace and after advanced capitalism. Nevertheless, it would be hard to go back with respect to the in-vestments made in the attempt to purloin the supremacy of New York, London and Paris in laying down the law not only in art, but also lifestyles. Consequently, it is un-likely that we will also revert regarding the way of conceiving what a visual arts school is: a place where what is transmitted is not a trade but a mental attitude, moreover in opposition to a scholastic system that in-creasingly attempts to present itself as pro-fessionalizing and not merely humanistic.
Given these premises, we can get to the history and reasons behind the school for which this book summarizes a decade of ac-tivity. When the IUAV University still went by the name of Istituto Universitario di Ar-chitettura di Venezia, the glorious centre at which Manfredo Tafuri, Carlo Scarpa, Aldo Rossi and many others taught, the rector and several other faculty members felt that the teaching of disciplines such as architec-ture, urban planning and design could – and should – be flanked by classes in the visual and performing arts. It was a reverse proc-ess with respect to the one conducted by the Bauhaus, where the primacy of architecture was achieved with Mies van der Rohe at the helm, after the early years dominated by painters such as Joannes Itten, Wassily Kandinsky and Paul Klee. Indeed, the IUAV had originally been established in 1926 in part “against” painters, when it split from
the Academy of Fine Arts. And this helps explain some of the hostility that architects continued to feel with respect to the new wing of university teaching.
Thus, in 1998 Marino Folin asked me to come up with an innovative degree programme; along with him, and at differ-ent times, other figures ended up working with him on the same concept: Marco De Michelis, Germano Celant and Sergio Po-lano for design, Walter Le Moli for theatre, and several others; Lucia Barsotti offered her expertise to outline these ideas from a legal standpoint. The regulations in force seemed to offer an opening towards new degree programmes. At the time, artistic training in Italy took place outside the university, at academies that had tried to modernize themselves for years, or within the DAMS courses, degree programmes in Arts, Music and Entertainment Studies that examined theory but did not envisage prac-tical preparation and workshops.
The proposal was a visual arts course within the university, and thus with full rec-ognition of the sector as a field of knowl-edge, but in which theory and practice were finally combined. The project was corrobo-rated by numerous English and American examples, and by the model of the Course of Higher Learning in Visual Arts of-fered by the Antonio Ratti Foundation, a summer-school programme of just 21 days established in 1995 that, in an embryonic form, encapsulated some of the premises on which the proposal intended to work: work-shops that were very free in terms of meth-ods, entrusted to visiting professors, along with a structured part offering face-to-face lessons and lectures on theory. No techni-cal limitations were envisaged save the one embodied by the famous words of Gertrude Stein: “Each of us in our own way is bound to express what the world in which we are living is doing”.11
The Graduate Programme in Visual Arts was inaugurated – along with its twin dedicated to theatre – on 8 June 2001 with a work by Joseph Kosuth and a theatre/dance performance directed by Frédéric Flamand; Zaha Hadid designed the set. The stage overlooked the fascinating panorama of the Zattere, where industrial archaeol-
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At first two graduate programmes were established, one in the visual arts and the other in theatre. They were followed by three-year undergraduate programmes and, over the years, the platform also came to include undergraduate and graduate schools in product, fashion and communication design, finally rounding out the project with an entire department. In effect, this department was never accepted by the other two and was kept going strictly because it was a low-cost venture. The Academy also viewed us as a rival and rejected at the beginning any permeability between our study programmes. Likewise, despite the fact that they have absorbed many of our students in important positions as artists or curators, art journals and the institutional milieu have shown little sympathy for this experiment.
There is really nothing surprising about this. Similar trends can be found around the world, between the unwavering approval of art in general and the sense of detach-ment from it when it starts competing for funding. As Brad Buckley sustains from his Australian observatory, virtually every-where “[Art] is not recognized as a legiti-mate field for funded research...
Since Oscar Wilde’s time, art has also been acknowledged as a tool for criticiz-ing society; this precept is axiomatic in the visual arts today. Shouldn’t funded research at university level reflect this? Somehow, the lexicon of what constitutes valid re-search still excludes all this”.12
Indeed, the difficulties that have been encountered are a clear sign that the initia-tive was one of great visibility, yet it was also the daughter of a compelling logic: the city that hosts the Biennale, the quintessen-tial land of art, has no choice but to equip itself with educational structures that follow its primary vocation and can put themselves at its service, as has been attempted by col-laborating as closely as possible with other organizations devoted to the contemporary arts. We can recall the exhibition at the Bi-ennale in 2003, with students from thirteen schools around the world;13 the relations with the Bevilacqua La Masa Foundation and the MAXXI museum,14 which in 2008 in Rome devoted its first public account of the programme; the exhibition by students and professors at the Buziol Foundation; the lessons in the cycle entitled L’Opera Parla at the Palazzo Grassi; the meetings at S.A.L.E., an alternative centre established – notably – by our students and representing one of the school’s most tangible results. Moreover, European projects such as Ra-dar (2003) and Becoming Bologna (2009), along with the EARN network of European art schools, inclusion in the European Un-ion’s SHARE network, and participation in international projects such as Real Presence represent moments of international recogni-tion.
After all, the obstacles encountered along the way are signs of which one can be proud from an ideal standpoint: despite their unprecedented popularity and the fact that they have become increasingly institu-tional, the visual arts seem to have main-tained a subversive element that manages to irritate people. Perhaps the most troubling aspect lies precisely in the difficulty in ful-ly defining them and giving them a specific place in the world. They are not profession-alizing milieus in the full sense of the term, and almost by definition a student from a Visual and Performing Arts programme can-not aspire to stable employment: the only artists or independent curators who punch a timecard are those who have failed. Dis-comfiting as it may be, it is a fact worth considering.
The experiment, which since then has weathered a number of storms over the
past decade, can speak confidently about one thing: the need to be tied to a territory and to the questions it poses, while also working on an international scenario. It is important to cross boundaries in every sense, without dogmas in the choice of the type of professors and without geographi-cal restrictions as to their provenance. The IUAV art courses have always been taught in both Italian and English. We felt the need to translate as rarely as possible. And we sensed the opportunity to set up a platform capable of attracting real professionals: the first generous people who believed in this experiment included Lewis Baltz; Guido Guidi; Joseph Kosuth; Giulio Paolini; Grazia Toderi; Hans Ulrich Obrist, who taught together with Stefano Boeri; Rirkrit Tiravanija, who rented a house in Campo Santa Margherita in order to host students in the evening. Mario Airò, Stefano Arienti, Lawrence Carroll and Alberto Garutti ar-rived the following year, followed by Maja Bajevic, Carlos Basualdo, Nicolas Bour-riaud, Jimmie Durham, Rene Gabri, Mona Hatoum, Runa Islam, Marta Kuzma, Armin Linke, Eva Marisaldi, Gloria Moure, Adrian Paci, Cesare Pietroiusti, Marjetica Potrc, Tobias Rehberger, Remo Salvadori, Ben-jamin Weil and many others whose names can be found in this book, and who chose to stay from a semester to many years. Along-side their contribution we can cite those of tenured professors, chosen with great atten-tion for the areas of philosophy, psychology and theory: among them, we must mention at least those – from Giorgio Agamben to Marco De Michelis and Patrizia Magli – who often accompanied the students even to supper and were also involved in doc-toral programmes. Some of the professors, from Carlos Basualdo to Antoni Muntadas, Olafur Eliasson and Bjarne Melgaard, got the students involved in setting up the national pavilions for which they were responsible at the Biennale. In many other cases, it was the Biennale itself that asked our students to collaborate on the works of various artists. Moreover, a number of in-stitutions opened internships and competi-tions to our students: from the Philadelphia Museum of Art to the Serpentine Gallery in London, New York University, the Spinola
Banna Foundation, the Pierogi Gallery in New York, the Institute for Contemporary Art in Oslo, and the Sandretto Re Rebau-dengo Foundation in Turin and the Castello di Rivoli Museum of Contemporary Art. And several are undoubtedly missing from this list. These relations led to relations, and the opportunity for the most headstrong students to take advantage of the school to learn elsewhere has always been encour-aged. A sort of Italian miracle helped us, despite the financial straits faced by the school for most of its history. The same thing holds true for conventions, often or-ganized at the very limit of resources, but also always resulting in publications. With-in the department, initiatives conducted by the group of semiotics professors who were part of LISaV, led by Paolo Fabbri, and those of economic theorists headed by Pier-luigi Sacco and of psychologists organized by Paolo Legrenzi, have generated impor-tant studies. Relations with the group of cinema professors – from Irene Bignardi to Paolo Costa and Marco Bertozzi – and those with the information design group – from Giorgio Camuffo to Wolfgang Sheppe and Sergio Camplani – have been fruitful, above all in the cycle of workshops entitled Teach Me. And I beg those who have not been named not to be offended: this essay would become a list.
For this book, the professors who were part of this path were asked what they thought an art school should be, pursuing the reflections laid out here. Some didn’t answer, but most offered brief but profound and emotional insights, based on personal experience. The question addresses a future prospect and not an account of what has happened, because – regardless – we always do too little.
Their statements, like the lists that fol-low, should be viewed as a summary of the activities that have been conducted and as a statement of intents for the future. There have been thousands of mistakes and indu-bitable oversights: not having a café, not having enough laboratory technicians, not being able to keep the school open at night, not being able to pay for class trips or even scholarships, not having been able to de-velop a doctoral programme for artists or
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a true third level in the study programme. Some of these lacunae have been addressed by the students themselves, who have proven to be a motivated and active driving force, organizing evening meetings in order to work, making arrangements on their own to go see and stage exhibitions, some of which abroad, and inventing opportunities to engage with each other even in the most unthinkable places, such as private homes, senior citizens’ clubs and old social centres, gently but wilfully invading the entire city. We must acknowledge that they and their professors, who followed their desires, acted with a strong will in an attempt to embrace good practices sustained by a basic theoretical vision.
Established thanks to the twists and turns of a reform, the IUAV school of visual arts must now turn over a new leaf because of another reform that has drasti-cally reduced the number of hours in teach-ing contracts – the only way to obtain good professionals – and has thus also limited the opportunity to attract foreign professors. By doing so, at least as far as the visual arts are concerned, the Gelmini Law has restored the university to itself and has thus made it revert to conceiving it as a self-referential world. Taking stock of ten years of activ-ity implies something else: not celebrating what has already been done but understand-ing what must be done, clearly grasping that it will probably not be repeated here in its previous form, and hoping that this experi-ence can somehow help other art schools chart their own course.
Angela Vettesedirector of the graduate programme in visual and performing arts
NOTES
1) The reference is obviously to Raymond Klibansky, Fritz Saxl and Erwin Panofsky, Saturn and Melancholy: Studies in the History of National Philosophy, Religion and Art (Edinburgh: Thomas Nelson and Sons, 1964).
2) In Steven Henry Madoff (ed.), Art Schools (Proposi-tions for the 21st century) (Cambridge/London: MIT, 2009, pp. 151-64).
3) Cf. Jan Kaila, “The Artist As a Producer of Knowl-edge”, in The Artist’s Knowledge 2, Research at the Finn-ish Academy of Fine Arts (Helsinki, 2008, pp. 6-9).
4) Among others, see Mary Jane Jacob and Jacquelynn Baas, Learning Mind – Experience into Art (Berkeley/Los Angeles/London: School of the Art Institute of Chicago, University of California Press, 2009); Brad Buckley and John Conomos (eds.), Rethinking the Contemporary Art School – The Artist, the PhD, and the Academy (Halifax: The Press of the Nova Scotia College of Art and Design, 2009).
5) Cf. Ute Meta Bauer, Zones of Activities, in Jacob and Baas, op. cit., p. 137.
6) Cf. Harold Rosenberg, The Anxious Object: Art Today and its Audience (New York: Horizon Press, 1964, p. 20).
7) In “No problem but a problematic”, in Maddoff 2009, op. cit., pp. 54-65, p. 65.
8) Ibid.
9) Cf. Nigel Warburton, The Art Question (London: Routledge, 2003).
10) George Kubler, The Shape of Time: Remarks on the History of Things (New Haven: Yale University Press, 1962).
11) From “Portraits and Repetitions”, quoted by Ann Ham-ilton in “Making not Knowing” in Jacob and Baas 2009, op. cit., pp. 66-73, p. 69.
12) In Brad Buckley and John Conomos, “The Australian Research Council Funding Model Condemns Art Schools to a Bleak Future”, in Buckley and Conomos 2009, op. cit., pp. 87-88.
13) Cf. the catalogue edited by Angela Vettese, Recycling the Future. Vivere Venezia 2 (Venice: Marsilio, 2003).
14) Cf. the catalogue edited by Cornelia Lauf and Angela Vettese, IUAV al MAXXI (Venice, 2008).
S C U O L A C O M E F O R M A E V E N T I C A
On peut ansi rêver une société d’émancipés qui serait une société d’artistes. Une telle société répudierait le partage entre ceux qui savent et ceux qui ne savent pas, entre ceux qui possèdent ou ne possèdent pas la propriété de l’intelligence. – j a c q u e s r a n c i è r e
Dalla bottega all’università le arti sono state oggetto di una trasmissione partico-lare le cui forme, andate ridefinendosi nel tempo, ci hanno di volta in volta segnalato trasformazioni della stessa nozione di arte: di un fare dell’uomo che, tenendosi in rap-porto con la sua trasmissione, non può che riflettere in essa i propri stessi cambiamen-ti. Non solamente è possibile risalire alle trasformazioni del paradigma artistico per via genealogica, passando per un’analisi del rapporto tra le forme dell’arte e quelle del suo insegnamento ma se pensiamo all’arte come al luogo in cui si rende visibile la tonalità emotiva nella quale principalmente ci teniamo, la maniera particolare in cui gli elementi in gioco in tale paradigma sono andati articolandosi ha molto da dirci sul nostro tempo.
Tra le evidenti trasformazioni degli ultimi decenni vanno certamente annoverati il fatto che pratiche e modalità discorsive sono diventate territorio di indagine artisti-ca e che al contempo due figure sono andate delineando in maniera sempre più netta i due poli di un articolato campo di tensioni. L’artista e il curatore individuano senza dubbio i corrispondenti estremi di questo sistema polare. Dove alcune istituzioni sono andate specializzandosi verso l’uno o l’altro polo, procedendo verso la professionalizza-re delle due figure, il caso di Venezia – di un corso di laurea nel quale non solo coesi-stono corsi teorici e laboratoriali, ma labo-ratori di arte e di curatela sono ugualmente accessibili a tutti gli studenti – ha costituito sin qui il complesso tentativo di pensare e praticare un’indecidibilità sia tra pratica artistica e curatoriale che tra teoria e prati-ca. Lungi dal generare indistinzione, l’in-decidibilità rende al contrario possibile una forma particolare dell’individuazione nella quale l’atto artistico e quello curatoriale risuonano l’uno nell’altro pur mantenendo ciascuno la propria singolarità. Il muoversi in quanto artisti nella vita contestuale e
discorsiva dell’opera, il volgersi verso la curatela avendo fatto esperienza del terreno aperto e recettivo in cui l’opera incontra il proprio momento germinale costituiscono due diverse distribuzioni, due diverse ma-niere di intendere il rapporto tra i due punti focali di uno stesso campo tensivo.
Abitata da un’identica dinamica, polare e non dicotomica, è anche la distribuzione dei corsi teorici e laboratoriali che, tenen-dosi in una vicinanza spaziale e temporale, sono andati nel corso degli anni contami-nandosi in misura sempre maggiore sino a intrecciarsi in un risultato in cui il momento della teoria non viene mai posto come già sempre separato dalla possibilità della sua attuazione, in un prima che preceda prope-deuticamente un passaggio all’atto che sa-rebbe altrimenti sempre posticipato. Qui le categorie aristoteliche di vita contemplativa e vita activa, riproposte da Hannah Arendt in un’antitesi funzionale al pensiero della prassi politica1, tendono a sfumare l’una nell’altra in un’indecidibilità che costitu-isce, ancora una volta, un tratto peculiare del caso veneziano.
È interessante notare come la possibi-lità di una contemplazione interna all’atto, che non si esaurisca nel momento del suo passaggio in esso, sia stata nella storia del pensiero intuita da un filosofo quale Spino-za, che ha brillantemente pensato la potenza in rapporto al comune, compiendo così un gesto che è centrale a molte tra le pratiche artistiche contemporanee e degli ultimi de-cenni. Identica all’essenza, la potenza co-stituisce per Spinoza una realtà immanente al mondo fisico. In quanto tale: essenziale e non accidentale, essa è comune a tutti e può solamente essere accresciuta o diminuita sulla base dell’incontro tra i corpi. Si tratta dunque di organizzare questi incontri, di far sì che essi siano incontri gioiosi, tali da accrescere la potenza che già possediamo in quanto viventi. Questo, precisamente, è ciò che può e deve fare una scuola che sia capa-
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ce di tenere conto delle più decisive acqui-sizioni del pensiero, filosofico e artistico.
In un saggio del 1803 dedicato all’uso del coro nella tragedia attica, Schiller scrive che tutta l’arte non è che dedicata che alla gioia (Alle Kunst ist der Freude gewidmet)2. Non è senza rilevanza il fatto che siano stati gli stessi artisti – che si tengono per eccel-lenza nel luogo dell’opera, questo stesso luogo che da Aristotele a oggi è stato l’og-getto di riflessioni cruciali sul rapporto tra potenza e atto – a intendere proprio la scuo-la, il luogo dove si organizzano incontri di corpi e di saperi, come una forma da far propria e nella quale individuare e pensare, collettivamente, il luogo della padronanza formale della nostra stessa potenza d’agire.
Se intesa come luogo della potenza e del suo accrescimento gioioso, la scuo-la non può che abbandonare l’idea di un’astratta predicabilità per cessare di esse-re nella pratica lo strumento di trasmissione di un contenuto univoco ed elettivo, sia esso un tema, un medium, un metodo sopra un altro. Individuabile ma non-predicabile il comune, come ricorda Paolo Virno nella sua analisi della moltitudine, costitui-sce precisamente ciò che si sostituisce all’Universale, che è invece un predicabile non-individuabile3. E giacché predicato è tutto ciò che, riferibile in quanto tale a un soggetto, può esser fatto oggetto di predica, dovrà ben comprendersi come un insegna-mento che si tenga nel luogo del comune dovrà anche rivedere il rapporto dei suoi soggetti al sapere. Inappropriabile, il sapere sarà allora da intendersi, nell’atto del suo dispiegamento, come il luogo nel quale insegnante e allievo, in quanto partecipano di una identica intelligenza – quella stessa intelligenza che è in opera nei testi studiati – si trovano in un’eguale posizione. “L’artiste a besoin de l’égalité comme l’ex-plicateur a besoin de l’inégalité,”4. nota Jacques Rancière nel raccontare la vicenda di Joseph Jacotot, un docente di letteratura francese vissuto nell’Ottocento, che mise in discussione le stesse basi dell’insegnamento in auge ai suoi tempi prendendo a insegnare con successo non solamente ciò che non co-nosceva, ma a insegnare al contempo in una lingua che a lui, l’insegnante, era scono-sciuta. Dato che per Jacotot a essere inegua-
le non è mai l’intelligenza ma il grado di attenzione prestata alle cose, secondo il suo metodo al fine di apprendere sarà sufficien-te applicare un potere comune, procedendo se necessario a tastoni, nella più grande prossimità possibile con il proprio oggetto, sia esso un testo o un gesto. Apprendere e comprendere, scrive Rancière, non sono che due maniere di intendere lo stesso atto di traduzione del sapere giacché nulla vi è “all’in qua” dei testi che possa essere fatto oggetto di rivelazioni esterne. Come peral-tro ricorda Deleuze nelle sue dense note su Spinoza, per il filosofo olandese la potenza di pensare si prolunga nella potenza di pen-sare tutto ciò che è stato prodotto5. Ed è qui che l’insegnamento abbandona il terreno della spiegazione per farsi pratica di eman-cipazione, giacché quello della trasmissione del sapere di poter fare è probabilmente il più grande saper fare insegnabile.
Nella misura in cui si fa incontro felice capace di agire sulla potenza che, comune, è soggetta a continue variazioni, la stessa scuola può essere pensata come una forma in movimento, performativa ovvero eventica, per impiegare un’espressione che riassuma i due poli di evento e forma tenuti insieme da Carlo Diano in un saggio dal titolo “For-ma ed evento”6. Che sia l’insegnamento che l’apprendimento abbiano un carattere per-formativo non è sfuggito a un artista come Robert Filliou, che pubblica nel 1970 quella che definisce la prima bozza di un testo che intitola Teaching and Learning as Perfor-ming Arts7.
La scuola, se intesa come il campo di tali tensioni, può dunque essere declinata come una forma tutta particolare, attraver-sata da un movimento interno, una sorta di poliritmia di cui l’istituzione costituisca l’involucro ritmico. L’idea di un muoversi è a ben vedere già presente nel termine arte, nella cui etimologia si tiene la radice “ar”, che in sanscrito-zendo ha il significato di un un andare, di un mettere in moto. Il termine scuola deriva invece com’è noto dal greco σχολή, un lemma che nel suo significato originario non indica ancora un’istituzione ma l’agio, l’ozio e il riposo e che nella sua forma verbale, σχολαζειν, significa in principio l’aver tempo di occu-parsi di una cosa per divertimento. Se vero
è che nell’ozio si tiene l’idea di un partico-lare rapporto al tempo è anche vero che una scuola d’arte non può esimersi dal prendere una posizione rispetto alla propria tempora-lità e alla temporalità che va proponendo.
I corsi di laurea in arte dell’Università IUAV di Venezia hanno declinato il proprio rapporto al tempo attraverso l’avvicendarsi e il variare dei corsi, aspetti l’uno e l’altro resi possibili grazie a un ridotto numero di docenti strutturati e un’ampissimo numero di professori a contratto. Pensata per durare nel tempo, la facoltà si è dunque al contem-po dotata di strumenti tali da consentirle di ripetere se stessa in maniera differente, decentrando sempre – quanto più le è stato possibile in un sistema restio alle variazio-ni – il proprio centro. D’altronde, dove non esiste un durevole oggetto da trasmettere, dovrà anche pensarsi il rapporto all’imper-manenza. Lo hanno variamente declinato gli artisti, con le loro scuole temporanee che hanno fatto segno verso ciò che l’arte, un impredicabile, può portare alla scuola.
Si pensi in particolare gli esperimenti di Unitednationsplaza (2006-07), una mostra in forma di scuola della durata di un anno realizzata da Anton Vidokle con la colla-borazione di un gruppo di artisti e teorici, pensata come un luogo non gerarchico, di elaborazione collettiva e in divenire e all’École Temporaire (1989-99) di Pierre Huyghe, Dominique Gonzalez-Foerster e Philippe Parreno, allievi a loro volta, gli ultimi due, presso l’Institut des Hautes Étu-des en Arts Plastiques (1988-1995) creato da Pontus Hultén, curatore tra i più vicini al processo dell’opera, e Daniel Buren8. Scuole iniziate da artisti, che trovano pre-cedenti storici in università indipendenti quale l’Uniwersytet Latający o “università fluttuante” di Varsavia fondata nel 1883 ma anche nello studio di Gustave Moreau a Parigi, hanno veicolato diverse modalità dell’apertura che si sono date nelle forme adottate se non già nel loro stesso nome, a partire dalla Free International University of Creativity and Interdisciplinary Research fondata da Joseph Beuys nel 1974 a, per fare solo alcuni degli esempi possibili, la Copenhagen Free University (2001-2007) di Henriette Heise e Jakob Jakobsen, la School of Missing Studies fondata a Belgrado nel
2002, The Mountain School of Arts aperta da Piero Golia e Erik Wesley nel 20059.
Ciò che tali esperienze hanno accarez-zato ed esposto è stata un’interna capacità di variare e differire, e variabile e transi-tiva, all’interno della durata, è stata intesa proprio la potenza d’agire. Essa diventa autoaffezione o gioia attiva quando venga posseduta nelle nozioni comuni, in quelle stesse idee adeguate che come Deleuze ricorda10 – e come gli artisti non cessano di mostrare – anche l’immaginazione può suscitare. Anche in un’università.
Chiara Vecchiarelli
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1) Hannah Arendt, The Human Condition, University of Chicago Press, Chicago 1998 [1958]
2) Friederich Schiller, “Über den Gebrauch des Chors in der Tragödie”, 1883, dalla prefazione alla tragedia Die Braut von Messina oder Die feindlichen Brüder. Ein Trau-erspiel mit Chören, Reclam Verlag, Stoccarda 1997 [1883]
3) Si veda Palolo Virno, “Gli Angeli e il General Intellect” in Multitudes, n. 18, 3 maggio 2005, e per un ulteriore approfondimento, dello stesso autore, Grammatica della moltitudine. Per una analisi delle forme di vita contempo-ranee, Rubettino Editore, Catanzaro 2001
4) Jacques Rancière, Le maître ignorant. Cinq leçons sur l’émancipation intellectuelle,10x18, Parigi 2004, p. 120 [Librairie Anthème Fayard, Parigi 1987]
5) Gilles Deleuze, Spinoza. Philosophie pratique, Les Éditions de Minuit, Parigi 2003 [Presses Universitaires de France, Parigi 1970]
6) Carlo Diano, Forma ed evento. Principi per una inter-pretazione del mondo greco, Marsilio, Venezia 1994 [Neri Pozza, Venezia 1952]
7) Robert Filliou, Teaching and Learning as Performing Arts, Verlag Gebr. König, Köln-New York, 1970. In prima di coperina, il titolo è accompagnato da una specifica con-cernente gli autori: “Teaching and Learning as Performing Arts by Robert Filliou and the Reader if he wishes, with the participation of John Cage, Benjamin Patterson, Geor-ge Brecht, Allan Kaprow, Marcelle, Vera and Bjoessi and
Karl Rot, Dorothy Iannone, Diter Rot, Joseph Beuys. It is a Multi – Book. The space provided for the reader’s use is nearly the same as the author’s own.” Suscettibile di ulte-riori pubblicazioni, ogni nuova versione del testo avrebbe contenuto i contributi per i quali era stato lasciato tanto margine. Recita la quarta di copertina: “Further editions will include developments and modifications suggested by readers – co-authors. We’ll see. Let’s get it out first. It is a long short book to keep writing at home, It is a work of love.” Si noti l’impiego del termine “co-author”, veicolan-te la stessa idea di un comune tenersi nello stato performa-tivo evidente nell’espressione “I am your co-performer”, con la quale Filliou si presenta al suo pubblico nel corso della performance “Teaching and Learning as Performing Arts Part II” (1979).
8) Daniel Buren, Serge Fauchereau, Pontus Hultén, Sarkis, Quand les artistes font école. 24 journées de l’Institut des Hautes Etudes en Arts Plastiques, tomo I e II, Éditions du Centre Pompidou, Parigi 2004
9) Non sfuggano anche i progetti non realizzati, indica-tivi di un desiderio diffuso, quali il Potteries Thinkbelt, un centro abitativo e di ricerca progettato nei primi anni Sessanta dell’architetto Cedric Price come un flessibile dispositivo mobile funzionale tanto all’abitare che all’ap-prendere intesi in quanto gesti comuni e concomitanti, e il centro per le arti immaginato da George Maciunas nel 1967 come una comunità nella quale ricerca, produzione e sperimentazione si sarebbero tenute insieme nel villaggio di New Marlborough, Massachusetts.
10) Op. cit., Deleuze [1970]
From the workshop to the university, the arts have been subject to a special kind of transmission whose forms have gradually changed over the years, each evolution mark-ing a transformation in the concept of art it-self: a human activity that maintains a relation to the way it is conveyed, and whose changes, therefore, cannot help but be reflected in it. Not only is it possible to retrace the trans-formations of the artistic paradigm by way of genealogy, analyzing the relationships be-tween the forms of art and those of its teach-ing, but if we think of art as the sphere that makes visible the emotive state we primarily inhabit, then the specific manner in which the elements at work in this paradigm have articu-lated themselves over time has a lot to tell us about these present times.
Among the most evident transformations of the recent decades is certainly the fact that discursive practices and methods have become a realm of artistic enquiry, while at the same time, two figures have begun to delineate, ever more clearly, two poles within a complex field of tension. The artist and the curator un-questionably inhabit the two extremes within this system. While some institutions have tended to specialize in one of these two polari-ties, moving towards the professionalization of each figure, the degree course in Venice – where theory courses and workshops coexist, and what’s more, art and curating workshops are equally open to all students – has consti-tuted a complex attempt to conceive of and practice a mode of undecidability, as much between artistic and curatorial practice as between theory and practice themselves. Far from generating indistinction, undecidability makes possible a particular form of individu-ation, in which artistic and curatorial acts resonate within each other while maintaining their own singularities. Exploring, as an artist, the contextual and discursive life of the work; turning towards curating after having experi-enced that open, receptive terrain where the work encounters its moment of germination – these are two different ways of looking at, and understanding, the relationship between the two hubs of the same field.
The same dynamics – polarized, not dichotomic – can also be found in the distri-
bution of theory and practice courses, held in both spatial and temporal vicinity, whose reciprocal influence has become stronger and stronger over the years, to the point that they have become interwoven. As a result, the phase of theory is never posited as always already separate from the possibility of its implementation, in a “before” that lays the groundwork for a turn to action that would otherwise always be deferred. Here Aristo-tle’s categories of vita contemplativa and vita activa, which Hannah Arendt contrasts in for-mulating her theory of political praxis1 tend to blend into each other, with an undecidability that once again constitutes a unique feature of the course in Venice.
It is interesting to note how in the his-tory of thought, the possibility of a form of contemplation that lies within action, rather than being exhausted by its passage into the latter, was glimpsed by a philosopher like Spinoza, who brilliantly framed the idea of potentia (power, to be understood as potency/potential) in relation to the commons, taking a step that has been central to many among the artistic practices of recent decades. Spinoza sees potentia as identical to essence, a reality immanent to the physical world. As something essential and not accidental, it is common to all and can only be increased or diminished by encounters between bodies. It is thus a ques-tion of organizing these encounters so that they will be joyful ones, increasing the power we already possess as living beings. This is precisely what a school can and should do if it is to be capable of reckoning with the most crucial acquisitions of philosophical and artis-tic thought.
In an essay of 1803 that examined the use of the chorus in Greek tragedy, Schiller wrote that all art is dedicated to joy (Alle Kunst ist der Freude gewidmet).2 There is some signifi-cance in the fact that it was artists themselves – who inhabit, by definition, the sphere of the ἔργον (the space of the “work”, that very space which, since Aristotle, has been the object of crucial reflection on the relation-ships between potentia and act) who precisely understood the school, that place which or-ganizes the encounters between bodies and knowledge, as a model to embrace, and within
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through temporary schools that have hinted at what art, a non-predicable element, can bring to the school.
Specifically, one could point to the ex-periments of Unitednationsplaza (2006-07), an exhibition in the form of a one-year school, organized by Anton Vidokle in collaboration with a group of artists and theorists, as a non-hierarchical, evolving space for collective analysis; or the École Temporaire (1989-99) organized by Pierre Huyghe, Dominique Gonzalez-Foerster and Philippe Parreno, the latter two of whom, in turn, studied at the Institut des Hautes Études en Arts Plastiques (1988-1995) created by Pontus Hultén, one of the curators most in touch with artistic proc-esses, and Daniel Buren.8 Schools started by artists – which find their historical precedent in independent universities like Uniwersytet Latający, the “flying university” founded in Warsaw in 1883, or even Gustave Moreau’s studio in Paris—have expressed various kinds of openness in the forms they adopted, if not in their very names, from the Free International University of Creativity and Interdisciplinary Research, founded by Joseph Beuys in 1974, all the way – to cite just a few examples – to the Copenhagen Free University (2001-2007) created by Henriette Heise and Jakob Jakobsen, the School of Missing Studies founded in Belgrade in 2002, or the Mountain School of Arts opened by Piero Golia and Erik Wesley in 2005.9
What such experiments have brushed against, and revealed, is an inner capacity for variation and diversification, and this is precisely how the potentia of action has been perceived: as variable and transitive over its duration. This becomes self-affection or ac-tive joy when it is possessed within notions of the commons, within those “adequate ideas” which as Deleuze reminds us10 – and as artists continue to demonstrate – the imagination is capable of generating. Even in a university.
Chiara Vecchiarelli
NOTES
1) Hannah Arendt, The Human Condition. University of Chicago Press: Chicago, 1998 [1958].
2) Friedrich Schiller, “Über den Gebrauch des Chors in der Tragödie”, 1883, from the preface to the tragedy Die Braut von Messina oder Die feindlichen Brüder. Ein Trauerspiel mit Chören. Reclam Verlag: Stuttgart, 1997 [1883].
3) See Paolo Virno, “Gli Angeli e il General Intellect” in Multitudes, no. 18, May 3, 2005, and for further elaboration, by the same author, Grammatica della moltitudine. Per una analisi delle forme di vita contemporanee; Rubettino Editore: Catanzaro, 2001.
4) Jacques Rancière, Le maître ignorant. Cinq leçons sur l’émancipation intellectuelle.10x18: Paris, 2004, p. 120 [Librairie Anthème Fayard: Paris, 1987].
5) Gilles Deleuze, Spinoza. Philosophie pratique. Les Édi-tions de Minuit: Paris, 2003 [Presses Universitaires de France: Paris, 1970].
6) Carlo Diano, Forma ed evento. Principi per una interpre-tazione del mondo greco. Marsilio: Venice, 1994 [Neri Pozza, Venice 1952].
7) Robert Filliou, Teaching and Learning as Performing Arts. Verlag Gebr. König: Köln-New York, 1970. On the front cover, the title is accompanied by a note on author-ship: “Teaching and Learning as Performing Arts by Robert Filliou and the Reader if he wishes, with the participation of John Cage, Benjamin Patterson, George Brecht, Allan Kaprow, Marcelle, Vera and Bjoessi and Karl Rot, Dorothy Iannone, Diter Rot, Joseph Beuys. It is a Multi – Book. The space provided for the reader’s use is nearly the same as the author’s own.” Conceived for republication, each new version of the text was meant to contain the contributions for which so much margin had been left. The back cover reads: “Further editions will include developments and modifications sug-gested by readers – co-authors. We’ll see. Let’s get it out first. It is a long short book to keep writing at home. It is a work of love.” Note the use of the term “co-author”, which conveys the same concept of co-inhabiting the performative state that can be found in the expression “I am your co-performer,” which Filliou used to introduce himself to his audience in the performance “Teaching and Learning as Performing Arts Part II” (1979).
8) Daniel Buren, Serge Fauchereau, Pontus Hultén, Sarkis, Quand les artistes font école. 24 journées de l’Institut des Hautes Etudes en Arts Plastiques, volume I and II. Éditions du Centre Pompidou: Paris, 2004.
9) It is also important to remember other, unrealized, projects such as architect Cedric Price’s Potteries Thinkbelt, conceived in the early Sixties as a spacious apparatus on tracks, which would host spaces for both living and learning, which he understood as concurrent activities. Or the center for the arts that George Maciunas developed in 1967, as a community space in New Marlborough, in which research, production and experimentation could be held simultaneously.
10) Op. cit., Deleuze [1970].
which to collectively individuate and think through the space of our formal mastery over our own potential to act.
If it is seen as the locus of potentia and of its joyful development, the school cannot help but abandon the idea of abstract predica-bility, ceasing to essentially be an instrument for transmitting univocal, elective content, be it one theme, one medium, one method over another. Individual but non-predicable, the notion of the commons is precisely – as we are reminded by Paolo Virno in his analysis of the multitude – that which replaces the Uni-versal, which is instead predicable and non-individual.3 And since everything predicated with reference to a subject can in turn be made into an object of predication, it follows that a teaching process which takes place in the sphere of the commons must also re-examine the relationship of its subjects to knowledge. Knowledge will thus be non-appropriable, and will be understood, in its unfolding, as the place in which teacher and student, sharing a single intelligence – that same intelligence which is at work in the texts they study – find themselves on equal footing.
“L’artiste a besoin de l’égalité comme l’explicateur a besoin de l’inégalité,”4 notes Jacques Rancière in telling the story of Joseph Jacotot, a French literature teacher in the 19th century who called into question the funda-mental ideas of education in vogue at the time, undertaking the task of successfully teaching not only what he did not know, but in a lan-guage he did not know. Jacotot believed that people were never unequal in intelligence, but rather in the degree of attention that they paid to something; according to his method, in order to learn one merely needed to apply a common power, feeling one’s way along if necessary, in the closest possible proximity to one’s subject, be it a text or an gesture. Learning and grasping, Rancière writes, are but two ways of understanding the same act of translating knowledge, since there is nothing “on this side of” a translation that can make texts into an object of external revelation. Moreover, as Deleuze reminds us in his dense notes on Spinoza, the Dutch philosopher saw the power of thinking as extending into the power of thinking all that has been produced.5 And this is the point at which teaching leaves the realm of explication to become a practice
of emancipation, since transmitting the aware-ness of having the power to do something is probably the greatest element of know-how that can be taught.
To the degree in which it creates situations of felicitous encounter, capable of affecting a power that is common and thus subject to constant variation, the school itself could be thought of as a form in movement, a performa-tive form or an event-in-the-form, to use an ex-pression that sums up the two polarities (event and form) linked together by Carlo Diano in an essay titled “Forma ed evento”.6 The fact that both teaching and learning have a perfor-mative aspect has not escaped artists such as Robert Filliou who, in 1970, published what he called the first draft of a text titled Teaching and Learning as Performing Arts.7
The school, when understood as the field in which such forces are played out, thus be-comes a completely unique form, thrumming with an inner movement, a sort of polyrhythm for which the institution is the rhythmic con-tainer. Upon closer examination, the concept of movement is already to be found in the etymology of the term “art”, which preserves the Sanskrit root “ar”: to go, to put in mo-tion. The term “school” derives instead, as we know, from the Greek σχολή, a word that did not originally imply an institution, but rather the ideas of ease, leisure and rest, and which as a verb, σχολαζειν, initially meant hav-ing the time to devote oneself to something for pleasure. If it is true that leisure entails a unique relationship to time, it is also true that an art school cannot avoid taking a position in regard to its own temporal mode and the tem-poral mode it is proposing.
The degree courses in art at IUAV Univer-sity in Venice have defined their relationship with time through the alternation and variation of courses, an approach made possible by a very small tenured faculty and a very large number of visiting and adjunct professors. Designed to be lasting, the department has equipped itself with resources that allow it to reiterate itself in different variations, always – insofar as it is possible in a system resistant to change – decentering its own center. For that matter, when there is no lasting subject to transmit, it is also necessary to address one’s relationship with impermanence. This has been explored by artists in various ways,
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Mario AiròITA Al momento i punti focali delle mie riflessioni sull’arte visiva sono il pensiero “operativo” e l’invenzione di lin-guaggio.Per pensiero operativo intendo un pensiero non puro, ma applicato: pensiero impegna-to a delineare e costruire forma, figura e visione.Pensiero che non si accontenta di formu-lazioni visive didascaliche dell’idea, ma è volto alla ricerca della perfetta sintonia tra questa e la materia e la forma che la costituiscono.L’insegnamento in questo caso diventa attitudinale poiché prevede la trasmissione di una metodologia, di un’intensità dell’at-tenzione e della consapevolezza nell’azio-ne, piuttosto che di un sapere specifico e definito, e il luogo ideale per il suo inse-gnamento è il laboratorio, la condizione di trovarsi a contatto contemporaneamente con le cose, le idee e la nostra intenzionalità.Credo che questa sia anche la condizione migliore affinché scaturiscano le doti d’in-venzione e le capacità di formulare nuove possibilità per significare.Il laboratorio non è solo il luogo della realizzazione, ma anche la fucina di nuovi strumenti mentali e visivi: ci richiede di rendere adoperabile il sapere che abbiamo.
ENg At this moment in time, my reflections on visual art focus on “practical thought” and the invention of language. By “practical thought” I mean applied thought as opposed to simple thinking, committed to defining and constructing form, figure and vision.I am referring to thought that will not be content merely with instructive visual inter-pretations of the idea, but will seek perfect synchronization with the material and form of which it is constituted.In this case, teaching becomes an approach that involves conveying methodology, intense awareness and conscious action, rather than the communication of specific defined knowledge. A workshop is thus the ideal place for its teaching, succeeding in creating a condition of simultaneous contact
with things, ideas and our intentions.I believe this to be the best-case scenario for stimulating powers of invention and abilities for developing new opportunities for meaning.The workshop is not just a location for creating: it is the forge for new mental and visual instruments, and demands that we render our knowledge operational.
Bruce Altshuler ENg I think of an art school in the same terms that philosopher Nelson Good-man used to describe the aesthetic attitude, something that is “restless, searching, testing – it is less attitude than action.” Es-tablishing and maintaining an environment where such an attitude, and such action, can flourish is the job of art educators, and of art students. But in all this let’s not forget the words of another philosopher, Ludwig Wittgenstein: “If people never did silly things nothing intelligent would ever get done.”
ITA Penso a una scuola d’arte negli stessi termini usati dal filosofo Nelson Goodman per descrivere l’atteggiamento estetico, qualcosa di “irrequieto, indagatore, difficile – più che un atteggiamento è azio-ne”. Creare e mantenere un ambiente in cui un simile atteggiamento e una simile azione possano prosperare è compito degli edu-catori nel campo dell’arte e degli studenti d’arte. Ma in tutto ciò, non dimentichiamo le parole di un altro filosofo, Ludwig Witt-genstein: “Se gli uomini non commettessero talvolta delle sciocchezze, non accadrebbe assolutamente nulla di intelligente”.
Stefano Arienti ITA Trasmissione solo d’impressioni e giudizi che possono essere già in opera in una comunità ancora sfuggente e non diret-tamente individuabile. Quindi un indirizzo a una vita possibile di relazioni, di senso e metri di valutazione. Ma si può decidere assieme, perché il giudizio futuro è aperto e non ancora stabilito.
ENg Communication only of impres-sions and opinions that may well already be at work in a community that is still fleeting and not directly identifiable. It is thus towards a plausible life of relation-ships, meaning and measure of assessment. But we can decide together, because future judgement is still open and not yet defined.
Maja Bajevic ENg If we agree that a contemporary art school is not only about achieving a particular craftsmanship, and if we take commonplaces we all agree upon like the development of autonomous thinking and the questioning of established sets of values as given, what else is there that could be of particular importance?During my periods of teaching at the IUAV (2004-2008) and other art schools like the MA program at ENBA Lyon (2001) and the MA of the Bauhaus University (2010) I have asked myself that question often. The conclusion was: joy.At first glance that might seem like sim-plification, but if you consider it seriously you realize it is the most difficult task for a teacher and for a school: to awaken joy, curiosity and courage in the students. The model of the Bauhaus that IUAV was built upon benefited from that joy of creation and innovation, so much so that it is still seen as an exemplary case. Without joy, the courage might be missing to treat the joy found in knowledge as a resource and not as a dogma, and to treat media as tools, not academic forms. Joyful, playful think-ing can lead to surprises and unexpected discoveries that are unleashed through a certain overcoming of the self. When I say joy I am not thinking of joyful themes; on the contrary, I have always tried to tackle themes that are quite difficult, in my artistic work and in my work as a teacher. But the way to tackle them, through the pleasure found in play, the excitement in front of the unknown combined with respect for the work of others who have traveled that road before brought me, as an artist and as a teacher, brings a lot of joy. I hope that is the case for my students as well.
So the role of a school of art, in my opinion, is that of creating the space and time for that joy and curiosity to unfold, protected in the realm of the school.
ITA Se concordiamo che una scuola d’arte non si occupa solo del raggiungimen-to di una particolare perizia tecnica e se assumiamo che vi siano dei luoghi comuni su cui tutti siamo d’accordo, come lo svi-luppo di un pensiero autonomo e la messa in discussione dei sistemi di valori che ci vengono trasmessi e che sono dati per na-turali e scontati, cos’altro c’è che potrebbe
risultare di particolare importanza?Durante i miei periodi d’insegnamento allo IUAV (2004-2008) e in altre scuole d’arte come il Master dell’ENBA di Lione (2001) e quello dell’Università Bauhaus (2010) mi sono posta spesso tale domanda. La conclusione è stata: la gioia.A un primo sguardo questa potrebbe sem-brare una semplificazione, ma riflettendoci seriamente sopra, ci si rende conto che que-sto è l’obiettivo più difficile da raggiungere per un insegnante e per una scuola: risve-gliare negli studenti la gioia, la curiosità e il coraggio. Il modello del Bauhaus su cui lo IUAV è stato costruito beneficiava della gioia della creazione e dell’innovazione, al punto tale che è ancora considerato un caso esemplare. Senza la gioia potrebbe venir meno il coraggio di trattare la gioia della conoscenza alla stregua di una risorsa e non di un dogma e di trattare i media come strumenti e non come forme accademiche. Il pensiero gioioso e giocoso può condurre a sorprese e scoperte inattese, che possono manifestarsi grazie a un certo superamento del sé. Quando parlo di gioia non intendo temi gioiosi; al contrario, nelle mie opere
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e nel mio lavoro di insegnante ho sempre cercato di affrontare temi piuttosto difficili. Ma il fatto di affrontarli attraverso il piacere del gioco e attraverso il piacere che si prova di fronte all’ignoto, combinato con il rispetto per gli altri che hanno percorso quella strada prima di me, mi ha portato, come artista e come insegnante, molta gioia. Spero che questo valga anche per i miei studenti.Il compito di una scuola d’arte, dunque, è quello di creare lo spazio affinché quella gioia e quella curiosità possano dispiegarsi, protette all’interno dell’ambiente della scuola.
Lewis Baltz ENg I think what a good graduate art program should offer is a non-hierarchical meeting ground between student artists and working art professionals; a place where it is possible to have an intelligent conversa-tion. It doesn’t sound like much... but it is. And it is rare, too.
ITA Penso che un buon programma di studi nel campo dell’arte dovrebbe offrire un terreno d’incontro non gerarchico tra artisti-studenti e professionisti nel campo dell’arte; un luogo dove sia possibile avere una conversazione intelligente. Non sembra molto... ma lo è. Ed è anche raro.
(ITA) AUSPICI
FRASARIO MINIMO PER UN LOCUS DI FORMAZIONE D’ARTISTA
dove potereunire profondità ad estensioneper riassemblare criticamente il passato, verso il progetto futuro
illuminare scie di ricerca capaci di accogliere l’instabile e il fluttuante della tecnologia liquida
curare il demone intravisto nel tempo sospesosino a sostenere il lusso della creazione verso il calvario della realizzazionecullare tremende libertàgrazie all’intensità della trasmissione, all’apprendimento del gesto, alla voluttà del gioco
varcare, con poca luce e piena responsabilità, alcuni sotterranei del mondoper affrontare collisioni di campo, nello sguardo che brucia e che fa male
tentare, e ripartire, e piangere e conoscere ancora, sulla pelle, meglio di chiunque altro, quella piccola cosa lì
poter lavorare solo su di sé, perdutie poi solo per il mondo, ritrovato.
(ENG) HOPES TOKEN PHRASEBOOK FOR THE ARTIST’S PLACE OF LEARNING
where it is possibleto unite depth and distancefor a critical reconstruction of the past, towards a future objective
highlighting roads to explore adept at embracing the unstable and wavering of liquid technology
tending to the demon glimpsed in time sus-pendedguiding the luxury of creation towards the ordeal of realizationcradling incredible freedomsthanks to the intensity of communication, learning of actions, rapture of play
crossing some earthly underworlds in dim light and full responsibility to encounter colliding domains, in burning, hurtful eyes
trying, then starting again, and weeping and, better than anyone, recognizing again the physical sensation of that tiny thing there
being able to work only on oneself, lostand then only for the world, refound.
Marco Bertozzi
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ENg The Academy - a question of space
Inside the metropolis the academy consti-tutes a special place. It consists of a con-glomerate of different rooms. In the atrium the members of the affiliated community (students and staff) merge with the pub-lic. Here it is possible to experiment with the exhibition of research results. In other rooms the worksphere is more intimate, enabling direct and concentrated exchange and offering individual work situations. Different kinds of media connect the insti-tution to other diverse realities. Although this description is specifically concerning the idea of an academy it could eventually also be applied to a museum, a company or a private home. The primary source deter-mining the quality of the academy will be the people inhabiting it.
ITA L’Accademia – una questione di spazio
All’interno della metropoli l’accademia costituisce un luogo speciale. Consiste di un conglomerato di stanze differenti. Nell’atrio i membri della comunità affi-liata (studenti e staff) si fondono con il pubblico. Qui è possibile sperimentare con l’esposizione dei risultati della ricerca. In altre stanze la sfera lavorativa è più intima, consente uno scambio diretto e concentrato e offre situazioni di lavoro individuali. Di-versi tipi di media connettono l’istituzione ad altre realtà diversificate. Sebbene questa descrizione riguardi specificamente l’idea di un’accademia potrebbe essere applicata anche a un museo, una società o una casa privata. La fonte principale per la determi-nazione della qualità dell’accademia saran-no le persone che la abitano.
ENg Education transmits elements of consensus; art disrupts them. Education is the transmission and memorizing of ele-ments that make us a collective based on a sense of truth previously agreed, or based on some majority. Art is a space leading into new organization of meanings, some-times done through chaos or by confront-ing an established sense of truth. Art and education are both procedures to convince people about something we believe in (data or ideas). Education through a com-mon ground of understanding, of refer-ences, that makes us fundamentally equal (at a very basic level of commonality); art through finding it amidst the achievement of individualized differences (and becom-ing an equal though difference). Educa-tion is about the ethics of knowledge. Art explores ways by which things become ar-tistic, creating its own context and set of rules by which it should be experienced. In education, what is new is related to the excitement of founding something that is understood, that we have understood. In art what is new is discovering what we do not know, what we do not understand (even discovering that we are not sure we want to). Schools can be isolated labo-ratories where the safety of the structure can provide disengagement with the real challenges the professional world brings. So non-mystification of professional knowledge vs professionalization of edu-cation is not a bad thing. What’s challeng-ing about the inherited contradictions in teaching and art is their mutual need to exist as a pair.
ITA L’educazione trasmette gli ele-menti del consenso, l’arte li distrugge. L’educazione è la trasmissione e memoriz-zazione di elementi che fanno di noi una collettività che si fonda su un senso della verità preventivamente concordato o su una certa maggioranza. L’arte è uno spazio che conduce verso una nuova organizzazione dei significati, talvolta attraverso il caos o il confronto con un senso prestabilito della verità. L’arte e l’educazione sono entrambi procedimenti per convincere le persone riguardo a qualcosa in cui crediamo (dati o idee). L’educazione lo fa attraverso un ter-reno comune di conoscenze, di riferimenti, che ci rende fondamentalmente uguali (a un livello molto basilare di comunità); l’arte, invece, compie questo percorso attraverso il conseguimento di differenze individualizza-te (il diventare uguali grazie alla differen-za). L’educazione ha a che vedere con l’eti-ca della conoscenza. L’arte esplora i modi in cui le cose diventano artistiche, creando il proprio contesto e l’insieme di regole per mezzo del quale esperirla. Nell’educazione la novità è legata all’eccitazione di trovare qualcosa che è comprensibile, che abbiamo capito. Nell’arte il nuovo è scoprire quello che non sappiamo, che non comprendia-mo (perfino scoprire di non essere sicuri di volerlo fare). Le scuole possono essere laboratori isolati dove la sicurezza della struttura può svincolarci dalle vere sfide che il mondo professionale porta con sé. Così la non mistificazione della conoscenza professionale contro la professionalizzazio-ne dell’educazione non è una cosa negativa. Quello che è stimolante nelle contraddizioni che abbiamo ereditato dell’insegnamento e dell’arte è il loro reciproco bisogno di esi-stere come coppia.
Frank Boehm
Francesco Bonami
ITA UnA SCUoLA D’ArTe è Dove S’IMPArA CoSA non SI Deve FAre e Dove CI vIene InSegnATo IL MoDo MIgLIore DI FALLIre. L’ArTe è FALLIMenTo, Se UnA SCUoLA non InSegnA qUeSTo è
UnA SCUoLA FALLIMenTAre.
eng An ArT SChooL IS Where yoU LeArn WhAT noT To Do AnD Where We Are TAUghT The BeST WAy To FAIL. ArT IS FAILUre,
AnD IF A SChooL DoeSn’T TeACh ThIS, Then IT hAS FAILeD.
Tania Bruguera
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Lawrence Carrol
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An ArT SChooLShoULD gUIDe The STUDenTSWIThoUT An AgenDA,WITh PUrPoSe AnD reSPeCTFor The ProCeSS oF MAkIng ArT,eITher ALone or WITh oTherS,For There IS noT one WAy.
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UnA PerSonA DovreBBe eSSere LIBerADI vAgAre,DI rACCogLIere,DI MeTTere In DISCUSSIone,e DI CoMPrenDere LA ProPrIA nATUrA.
In qUeSTo MoDo LUI o LeI CAPIràDI Che CoSA hA BISognoPer CreAre LA SUA ArTe,A MoDo SUo,neI SUoI TeMPI,Con LA ProPrIA voCe.
UnA SCUoLA D’ArTeDovreBBe gUIDAre gLI STUDenTISenzA Un ProgrAMMA PreFISSATo,MA DI ProPoSITo e Con rISPeTToPer IL ProCeSSo DI CreAzIone ArTISTICA,DA SoLI o Con gLI ALTrI,PerChé non eSISTe Un UnICo MoDo.
ENg The purposes of an art school are several: to allow young people to reach their potential in an area that interests them; to sustain in its country a strong and vigorous artistic activity; to prepare students to be independent – intellectually, artistically and economically.Art schools must teach students to be brave and have the courage of their convictions. It must teach them how to take a critical stance, to judge their own work and that of others. And, coming from England, where art and design education is deeply rooted in the Arts and Crafts tradition of William Morris (and where art and design are taught in the same school) I am convinced of the importance of craft, not just thinking and drawing but im-mersing oneself in the medium. When you see something you have made, its materiality speaks to you: new ideas emerge which could not have been generated by thought alone. We think with our bodies, not just our minds.But art school doesn’t only train artists. In Britain in the 1980s, realizing that only a tiny percentage would succeed at making their liv-ing as artists, it was decided that art education also needed to provide something for those who would not be part of that elite, some-thing that would prepare them for a much wider range of careers in the arts. In London today 12% of people work in the “creative industries” – art, communication media, mu-sic, design, architecture, advertising, video games, etc. The education of many young people in art schools to be both creative and entrepreneurial has fueled this growth. The view of the Italian Minister of Finance – “con la cultura non si mangia” (culture doesn’t fill mouths) – is statistically mistaken.Unusually in Italy, and appropriately for Venice, city of the Biennale, IUAV’s Faculty of Design and Arts embraces this plurality of approach.
ITA Gli scopi di una scuola d’arte sono molteplici: consentire ai giovani di sviluppare il proprio potenziale in un set-tore che interessa loro; sostenere, nel suo paese, un’attività artistica forte e vigo-rosa; preparare gli studenti a essere indi-
pendenti intellettualmente, artisticamente ed economicamente.Le scuole d’arte devono insegnare agli studenti a essere intrepidi e ad avere il coraggio delle loro opinioni. Deve inse-gnare loro come assumere una posizione critica, a giudicare il proprio lavoro e quello degli altri. E, provenendo io dall’Inghilterra, dove l’arte e il design sono profondamente radicati nella tradi-zione delle Arti e dei Mestieri di William Morris (e dove l’arte e il design sono in-segnati nella stessa scuola), sono convin-ta dell’importanza del mestiere, che non cansiste solo nel pensare e nel disegnare, ma nell’immergersi nel medium. Quando vedi una cosa che hai costruito, la sua materialità ti parla: emergono idee nuove che non avrebbero potute essere generate dal pensiero solamente. Pensiamo con il corpo, non soltanto con la mente.Ma la scuola d’arte non prepara solo gli artisti. Negli anni Ottanta, in Gran Breta-gna, rendendosi conto che solo una minu-scola percentuale degli studenti sarebbe riuscita a guadagnarsi da vivere facendo arte, si decise che l’istruzione artistica avrebbe dovuto offrire qualcosa anche a coloro che non avrebbero fatto parte di quella élite, qualcosa che li preparasse per una gamma molto più ampia di pro-fessioni nel campo delle arti. A Londra, al giorno d’oggi, il 12% delle persone lavora nei “settori creativi”: arte, mezzi di comunicazione, musica, design, archi-tettura, pubblicità, videogiochi, ecc. L’in-segnamento a essere tanto creativi quanto imprenditoriali, ricevuto da molti giovani nelle scuole d’arte, è stato uno stimolo per questa crescita. L’opinione del Mi-nistro italiano dell’Economia – “con la cultura non si mangia” – è statisticamente errata.Cosa insolita per l’Italia, ma appropriata per Venezia, città della Biennale, la Fa-coltà di Design e Arti dello IUAV abbrac-cia questa pluralità di approcci.
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gillian Crampton Smith
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Luigi Dall’AglioITA La definizione di “scuola d’arte” ispira risposte metaforiche, provocazioni e paradossi che, per fortuna, la stanchezza prodotta dall’amore cinico e modaiolo delle iperboli ci consiglia di lasciar cadere.Parliamone, quindi, con serietà e passione, utili e traducibili in formule didattiche an-che se, in questa sede, si possono annuncia-re solo dei principi di base.
Procedo sinteticamente per punti:1 Conoscenza sia delle tecniche (manuali, industriali, virtuali) – così come si sono storicamente determinate – sia della misura in cui, e delle varianti con cui, sono arrivate a noi.2 Conoscenza sia delle regole (poe-tica, forme, strutture estetiche e pubbliche) - così come si sono storicamente definite - sia del peso che rivestono attualmente e delle mu-tazioni con cui sono arrivate a noi.3 Sperimentazione, verifica e ac-quisizione pratica dei punti 1 e 2, sotto il controllo e la guida di competenze ricono-sciute, nel corso di un lavoro intorno a uno specifico oggetto predeterminato (commis-sione).Il punto 3 serve per offrire gli strumenti affinché i punti 1 e 2 possano abituare la mente a filtrare, con tecniche e regole, la materia commissionata ma, più in generale, a costruire la capacità di rivivere, attraverso questi filtri, l’intera materia delle esperien-ze esistenziali che i soggetti discenti vivono e cercano nella loro quotidianità.Nel corso del terzo punto, con lo studio, la tenacia, l’applicazione, il rigore, la pas-sione, l’analisi dell’errore e la ricerca del rimedio, si può perseguire l’obbiettivo della ragione necessaria (non sufficiente) per costruire il trampolino da cui tentare l’az-zardo dell’arte.La ragione sufficiente invece è campo del “quid”, dell’“aura”, forse solo dell’incon-scio. Ma non per questo deve essere ignora-to in una scuola che si prefigga come scopo, già nel nome, la creazione d’arte.Nel mio campo di lavoro e di conoscenza, cioè nel Teatro (che solo nella definizione del suo oggetto – lo spettacolo – riesco a
collocare come “arte”), si è consolidato un sistema che molti applicano per abitudine, ma che ha una sua verificabile ragione teo-rica. Mi spiego: l’atto ludico teatrale (gesto, parola, ecc.) nasce, in virtù della sua stessa origine, diviso in modo schizofrenico, tra un lavoro tecnico, razionale e analitico, e una sorta di possessione fatta di pulsioni in-dividuali, stimolate inconsapevolmente dal modo in cui ci si colloca all’interno della materia trattata. La preparazione (le prove) è una costruzione razionale, ma è poi pro-prio nell’abitarla durante il rituale pubblico che si manifestano pulsioni inconsce, non programmabili (per la stessa definizione d’inconscio), ma che traggono stimoli e libertà dal modo in cui è stata realizzata la costruzione precedente. Ora, i punti 1, 2, 3, quelli della ragione necessaria, corrispon-dono alla fase della preparazione. Essi sono garanzia di professionalità e di qualità. Ma in una scuola d’arte, arrivati a questo punto, bisogna:4 offrire, anche solo a titolo esem-plificativo, un’opportunità strutturata come reale, concreta, assolutamente libera, direi quasi “non protetta” dove lo studente, con il patrimonio acquisito di conoscenza e d’esperienza, si metta in discussione con la totalità della sua persona, sia quella che co-nosce e che perfeziona nell’esperienza, sia quella che non conosce e che si palesa solo attraverso quella risposta che il destinatario del suo impegno (nel caso del Teatro, il pubblico) gli restituisce.
ENg The definition of “art school” inspires metaphorical responses, provoca-tions and paradoxes that – fortunately – the weariness engendered by the cynical and voguish love for hyperbole advises us to drop. Therefore, let’s talk about it with ear-nestness and passion, which are useful and can be translated into educational formulas even though here we can merely state some basic principles.I will proceed concisely with a series of points:1 knowledge of techniques (manual, industrial, virtual) – precisely as they have been determined historically – and also of the extent to which and the variations with which they have been handed down to us;
2 knowledge of the rules (poetics, forms, aesthetic and public structures) – precisely as they have been determined historically – and also of their current importance and of the mutations with which they have been handed down to us;3 experimentation, verification and practical acquisition of points 1 and 2, under the control and guidance of acknowledged experts, as part of the work on a specific predetermined object (commission).The purpose of point 3 is to provide instruments to allow points 1 and 2 to accustom the mind to filtering the commissioned material (using techniques and rules) and, on a more general level, to constructing the ability to use these filters to relive the whole of the existential experiences that the students undergo and seek in their everyday lives.In the course of the third point, through study, tenacity, application, rigour, passion, the analysis of error and the search for remedies one can pursue the goal of the necessary (not sufficient) reason to build the springboard from which to attempt the risk of art.Sufficient reason is instead the realm of “quid”, of “aura”, perhaps only of the unconscious. But this is no reason for it to be ignored at a school whose goal – according to its very name – is the creation of art.In my field of work and knowledge, i.e. theatre (which I can rank as “art” solely in the definition of its object, namely spectacle), there is an entrenched system that many apply out of habit, but that has its own verifiable theoretical reason. Let me explain. The playful theatrical action (gesture, word, etc.) arises by virtue of its very origin, divided schizophrenically between a technical, rational and analytical work and a sort of possession composed of individual drives, stimulated unconsciously by how we position ourselves within the subject being examined. The preparation (rehearsal) is a rational construct, but then it is precisely by residing in it during the public ritual that unconscious drives are manifested, drives that cannot be planned (because of the very definition
of unconscious) but that derive stimuli and freedom from the way the previous construction was made. Points 1, 2 and 3, those of necessary reason, thus correspond to the preparation phase. They are the guarantee of professionalism and quality. Having reached this point, however, at an art school we must:4 offer – even simply by way of example – an opportunity structured as real, concrete, absolutely free and, I would venture to say, almost “unprotected” where, with the legacy of knowledge and experience that has been acquired, the student can challenge himself with the totality of his persona, not only the one he knows and perfects through experience, but also the one he does not know and that is manifested solely through the response received from the target of his commitment (i.e. the audience in the case of theatre).
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Jimmie Durham ENg There are “basics” that must be learned in engineering schools and medi-cal schools. If there are such in art schools, then I think they must have to do not with method and technique, but with morals. We must learn that art should be serious, in the same way we demand that writing be serious. Therefore, it seems to me an art school ought to strive to act like an academy of friends, of colleagues who are all searching, whether student or teacher.
ITA Ci sono degli “elementi fondamen-tali” che devono essere appresi nelle scuole di ingegneria e in quelle di medicina. Se ce ne sono nelle scuole d’arte, allora penso che non abbiano a che vedere con il metodo e con la tecnica, ma con la morale. Dobbiamo impara-re che l’arte dovrebbe essere seria, nello stes-so modo in cui esigiamo che la scrittura sia seria. Perciò mi sembra che una scuola d’arte dovrebbe fare di tutto per funzionare come un’accademia di amici e di colleghi, che sono tutti impegnati in una ricerca, che si tratti di studenti o insegnanti.
olafur eliasson
eng To learn how to learn. ITA Imparare come imparare.
rene gabriENg Short notes on what an art school can become (2011).
If art is that which makes life more in-teresting than art, then the school of art should first and foremost make life inter-esting.If art is a science of freedom, then a school for art should explore what would be meant by such a notion and in what ways the no-tion of freedom itself remains unfree.If art is that which does not find a home to any discipline proper, then a school devoted to art would be home and open to everything queer, everything improper, everything tangent, everything homeless.If art is the public visibility of the private principle of work, then a school devoted to art would relentlessly interrogate what we mean by this notion of work.If art is an experience of dissolution be-tween subjects and objects, then a school devoted to art would be without fixations on subjects or objects. Thus, it would find itself questioning the subjects and objects produced in a school of art.A school of art is perpetually in motion. It is not catching up with anything but is itself a line of flight. It is not a school ex-ploring a particular discipline called art, involving certain ways of doing and think-ing, but a time frame conjoining individu-als interested in exploring how this space or idea called art can be used. We live in a time which recognizes that variability can produce profits. And thus, art, which is tied somehow to innovation is also connected to the variable. But the variable, as we know, also opens up and unsettles constants, and constants are what keep things in their place. In a paradigm in which monetary profit exists as a cen-tral motive for many social and political decisions, only a particular variability is sought. That is, the variability that will yield innovation for the sake of profit. The kind of aberrant line or variability that would unsettle the constants is, on the other hand, highly troublesome for those who seek order.
Thus, today, more than ever, art is divided between experiments of a variability be-longing to two very distinct orders. Vari-ability that is sanctioned and only seeks to reproduce the same in the image of the new. And variability that may or may not be sanctioned, that outlines the contours for a shift in the sensible perceptible world and existing order.Let the art school become a place that fights to distinguish these different orders of the variable, these two types of frivolity which come from and go toward different hori-zons. Let the art school become a site for the kind of variability that shifts constants, and introduces and opens to different ideas of productivity, to laziness, to inoperosity, to play, to non-functionality, to inutility, to profitlessness, to different ideas of value or use, to difference, and to friendship.An art school cannot be a preparation for a profession, it must instead be a preparation to render meaningless any ‘profession’ or professed ‘end’ that would separate us from what calls us in life. And what calls us in life? And how will we share this life with others? And where and with whom, and how will we find a voice to respond to this calling? Here an art school would have to distin-guish what the English speakers fail to distinguish when they utilize the words job, profession, trade and the word vocation, as if they were synonymous.
ITA Brevi appunti su che cosa una scuola d’arte può diventare (2011).
Se l’arte è ciò che rende la vita più inte-ressante dell’arte stessa, allora una scuola d’arte dovrebbe occuparsi prima di tutto e soprattutto di rendere la vita interessante.Se l’arte è una scienza della libertà, allora una scuola d’arte dovrebbe indagare sul che cosa si intenda con tale nozione e in quali modi il concetto di libertà rimanga esso stesso privo di libertà.Se l’arte è ciò che non trova una collocazio-ne per una disciplina vera e propria, allora una scuola pensata per l’arte dovrebbe ospitare ed essere aperta a tutto ciò che è eccentrico, improprio, tangente, senza una collocazione.
Se l’arte è la visibilità pubblica del prin-cipio privato del lavoro, allora una scuola dedicata all’arte si interrogherà incessante-mente sul significato di questa nozione di lavoro.Se l’arte è un’esperienza di dissolvenza tra soggetti e oggetti, allora una scuola che si occupa di arte non si fisserà sui soggetti e sugli oggetti. In questo modo si troverà a mettere in discussione i soggetti e gli og-getti prodotti in una scuola d’arte.Una scuola d’arte è perennemente in movi-mento. Non insegue nulla, ma è essa stessa una linea di fuga. Non è una scuola che esplora una disciplina particolare che si chiama arte e che implica determinati modi di agire e di pensare, ma una cornice tem-porale che racchiude individui interessati a esplorare il modo in cui questo spazio o quest’idea che si definisce arte possono essere utilizzati. Viviamo in un’epoca che riconosce la varia-bilità come potenziale produttrice di profit-ti. Perciò l’arte, che si lega in qualche modo all’innovazione, è connessa anche a ciò che è variabile. Ciò che è variabile, però, come sappiamo, apre dei varchi e destabilizza le costanti e le costanti mantengono le cose al loro posto. In un paradigma dove il profitto economico costituisce il movente principale per molte decisioni sociali e politiche, si richiede solo un tipo particolare di variabi-lità, cioè la variabilità che produrrà inno-vazione in nome del profitto. La linea o la variabilità aberranti, che destabilizzano le costanti, dall’altro lato sono altamente pro-blematiche per coloro che cercano l’ordine.
Per questo motivo, oggi più che mai, l’arte si divide in esperimenti di variabilità che appartengono a due ordini nettamente di-stinti. La variabilità autorizzata, che cerca solamente di riprodurre le stesse cose dando loro l’apparenza della novità e la variabili-tà, che può essere approvata oppure no, che delinea i contorni di un cambiamento nel mondo sensibile, percettibile, e nell’ordine esistente.Lasciamo che la scuola d’arte diventi un luogo che lotta per distinguere questi di-versi ordini di variabilità, questi due tipi di frivolezza che provengono da e si dirigono verso orizzonti differenti. Lasciamo che la
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scuola d’arte diventi il luogo di quel ge-nere di variabilità che rimuove le costanti e che introduce e si apre a diverse idee di produttività, alla pigrizia, all’inoperosità, al gioco, alla non funzionalità, all’inutilità, all’assenza di profitto, a differenti conce-zioni del valore e dell’uso, alla differenza e all’amicizia.Una scuola d’arte non può essere la pre-parazione a una professione; deve, invece, preparare a rendere priva di senso qualun-que “professione” o “fine” dichiarato che ci distolga dalle vocazioni della nostra vita. E quali sono le vocazioni della nostra vita? E come condivideremo questa nostra vita con gli altri? E dove e con chi e come troveremo una voce per rispondere a questa chiamata?Una scuola d’arte dovrebbe distinguere quello che i madrelingua inglesi non riesco-no a distinguere quando usano i termini job (lavoro), profession (professione) e trade (mestiere) e la parola vocation (vocazione, ma anche occupazione, professione) come se fossero sinonimi.
Alberto garuttiITA Penso sempre che ci si dedichi all’arte per “vocazione”. Uso questa paro-la, nonostante abbia subito un processo di obsolescenza negli ultimi decenni, perché conserva, nella sua origine etimologica, un significato appropriato per descrivere la fase iniziale di un percorso così carico di responsabilità come quello di chi desi-dera fare l’artista. Realizzare un’opera significa consegnare un pensiero al mondo e quindi assumersi la responsabilità storica di confrontarsi con il presente attraverso uno sguardo che definisco critico, etico e poetico. Critico perché analizza la società, etico poiché necessariamente si confronta con ciò che è altro da sé, e poetico perché senza una dimensione “sensibile” l’opera non può esistere. La natura poetica dell’opera d’arte risiede proprio nella misteriosità dell’evento visivo che questa produce e che si manifesta allo spettatore. L’opera è indecifrabile e inafferrabile: si realizza nell’andare verso di essa.
Ed è forse proprio per questo che ritengo impossibile insegnare a fare un’opera d’arte, quanto necessario allenare gli stu-denti alla sensibilità. In questo senso, penso alla mia esperienza di docente e guardo alla processualità che caratterizza i miei corsi esattamente come alla metodologia di genesi di un lavoro. Tutto muove necessariamente dall’idea che l’opera è l’occasione per sviluppa-re un processo di conoscenza ed è essa stessa portatrice di pensiero. Per questo motivo, il nucleo del corso non può che essere strutturato come una serie di si-stematiche conversazioni con gli studenti il cui centro è certamente il confronto sul terreno comune dell’opera, ma non solo. La riflessione teorica è insieme un moto centrifugo e centripeto costituito da continue diversioni, di “altrove”, di cambiamenti di rotta che creano spazi del pensiero. Insomma tutto si apre su tutto, in un mutamento che genera un “rumore di fondo”, un modo di sentire il mondo che ci porta all’opera. Ciò che m’interessa sottolineare attraver-so il racconto di questa processualità è la costruzione di un’atmosfera, non di un percorso didattico. Quello che io faccio in sostanza non è altro che costruire un set, un contesto, un’atmosfera, dove ha luogo un incontro di pensieri. Lavoriamo nell’imperfezione, alla ricerca di punti deboli e fragilità in un percorso lungo ma necessario. Non costituire una processualità precisa, ma dare vita, appunto, a un’atmosfera, fa sì che il corso possa auto-generarsi: il confronto continuo e la discussione producono una reazione a catena. Esatta-mente come succede nel processo di pro-duzione di un lavoro: un’opera, nella sua forma, crea una teoria, un metodo, che produce una seconda opera che a sua volta crea una nuova teoria per la costruzione di una terza opera e così via, in un’alter-nanza che non termina mai, che la rende inafferrabile.Il racconto degli studenti diventa così una bussola per il futuro, è attraverso di loro che il docente può provare a immaginare il futuro, scoprire nuovi orizzonti e sce-nari.
ENg I have always thought that art requires a “vocation”. I choose this word, despite the fact that over recent decades it has fallen into disuse, because its etymo-logical origins retain a meaning suitable for describing the initial phase of the path dense with responsibility followed by anyone who wants to be an artist. Producing a work of art means offering a thought to the world and thereby assum-ing the historical responsibility of facing the present with an outlook that I define as critical, ethical and poetic. It is criti-cal because it analyses society; ethical because there is no option but to deal with what exists apart from oneself; poetical because without a “sensitive” dimension, the opus cannot exist. The poetic nature of the artwork lies precisely in the mys-tery of the visual event it generates and which is seen by the observer. The opus is unintelligible and elusive: it material-izes when it is approached. This is probably why I think it is impos-sible to teach how to make a work of art, though it is necessary to make students enhance their sensitivity. In this sense I remember my experience as a teacher and I see the set of processes characterizing my courses precisely as the methodology that initiates a work. Everything must begin from the notion that the work is an opportunity to de-velop a learning process and is, in itself, a carrier of thought. For this reason the core of the course can only be structured as a series of routine conversations with students and whose centre is certainly – but not only – the discussion of the work’s common ground. The theoretical reflection is both a centrifugal and cen-tripetal motion comprised of continual diversions, “elsewhere”, route changes that bring spaces for thought. Basically, everything opens to everything, in a mu-tation that produces “background noise”, a way of hearing the world that leads us to the opus.What I am interested in achieving by stressing the description of this set of processes is the creation of an atmos-phere, not a teaching course. In essence
what I do is nothing more than build a set, a context, an atmosphere, where a meeting of minds takes place. We work in imperfection, seeking weak and fragile points on a long but essential path.Avoiding the construction of a precise set of processes and breathing life into an atmosphere instead means that the course can self-generate: ongoing encounter and discussion produce a chain reac-tion, which is exactly what happens in the processes for production of a work. The form of an opus creates a theory, a method that produces a second work, which in turn creates a new theory for the construction of a third work and so on, in a never-ending rotation that makes it elusive.The students’ story thus becomes a com-pass for the future and, through them, a teacher can try to imagine the future, dis-cover new horizons and new scenarios.
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runa Islam
ENG Exchange of ideas, experiments in methods and materials of work-ing, discussions and conversations, experiences and travels that are en-countered in art school should be in-tense enough to provide sufficient fuel to take you a great distance in your journey as an artist.
ITA Lo scambio d’idee, gli esperimen-ti nei metodi e nei materiali di lavoro, le discussioni e le conversazioni, le esperienze e i viaggi che hanno luogo in una scuola d’arte dovrebbero esse-re sufficientemente intensi da fornire abbastanza carburante per portarti lontano nel tuo viaggio come artista.
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guido guidi
1 Prendere le distanze dalla cosiddetta Arte che si auto-qualifica.2 Non incoraggiare il riparo del gelo pretenzioso del museo d’Arte.3 Coltivare il sospetto nei confronti della galleria d’Arte, la cui gestione troppo spesso è accompagnata dal fruscio del registratore di cassa.4 Introdurre nel piano di studi alcune discipline inspiegabilmente assenti; per prima la genesi o psicogenesi dell’alfabeto.5 Incoraggiare lo studio degli antichi maestri.6 Considerare maggiormente alcuni “nuovi” media come la fotografia, che continua a essere considerata con diffidenza e trattata con ignoranza.
1 Keep your distance from so-called “Art” that is self-qualifying.2 Don’t encourage the art museum’s icily pretentious shelter.3 Do encourage suspicion of art galleries, all too often managed to the soundtrack of money changing hands.4 Introduce some inexplicably absent disciplines to the curriculum, starting with the genesis or psychogenesis of the alphabet.5 Encourage study of Old Masters.6 Ensure greater consideration of “new” media, like photography, which continue to be treated with diffidence and ignorance.
ITA ALCUNE INDICAZIONI AI MARGINI DI UNA SCUOLA PER L’ARTE. ENg SOME POINTERS IN THE MARGIN OF AN ART SCHOOL.
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avessero sognato o immaginato di vivere e lavorare, almeno per un breve periodo, in questa città strana, bellissima e misteriosa.Fin dal principio è stato chiaro che questo favoloso progetto di fondare una scuola di Design e Arti, che permettesse agli artisti, ai professionisti di tutte le discipline arti-stiche e ai teorici di partecipare e d’inse-gnare secondo il loro punto di vista, avreb-be probabilmente avuto un successo molto maggiore e una risposta molto più positiva a Venezia che nella maggior parte di altri luoghi del mondo.Il fatto che questa scuola d’arte venis-se fondata a Venezia e che fosse possibi-le insegnarvi anche per un solo trimestre o – se uno lo desiderava – ripetutamente ogni anno, di nuovo per un periodo breve, rappresentava un’offerta e una possibilità notevole e, per molti miei colleghi, molto allettante.Questo è il motivo per cui questa scuola po-teva – e ancora può – offrire ai suoi studenti una varietà così ampia e, ovviamente, così affascinante di approcci. Allo stesso tem-po, la necessità degli studenti di avere una certa continuità con determinati docenti po-teva essere soddisfatta grazie al fatto che sempre più spesso molti insegnanti deside-ravano tornare a Venezia, anno dopo anno.Una scuola come questa, nelle dirette vici-nanze della Biennale e della sua produzione continua di arte ai massimi livelli interna-zionali, una scuola in mezzo a una realtà che appare più difficoltosa e fragile che altrove, ma al tempo stesso più umana e immediata, molto più bella e preziosa che in altre parti del mondo, è probabilmente capace di tra-smettere una sensazione piuttosto forte di privilegio ai suoi studenti e, si spera, anche un maggior senso di responsabilità nei con-fronti della loro scelta di diventare artisti e verso il resto del mondo.
Joseph kosuthENg Ten Points for an Art Academy“The reflective assimilation of tradition is something else than the unreflected conti-nuity of tradition.” – Rolf Ahlers 1. Perhaps the greatest danger to art in our politics of culture at the end of the 20th Century is the populist idea that by reduc-ing art to its most common, popularly accessible level – usually justified as tradi-tion – one is being ‘democratic.’ And while the subject sells itself as ‘universal and timeless,’ the cultural reality is that, ap-peals to tradition notwithstanding, the work produced by such prescriptions is usually culturally rootless in any real country and homeless in the history of ideas. 2. One must pause to think what would happen in other spheres of specialization within our culture – such as science and technology – if this principle of populism were applied there. Our political leaders acknowledge that the free flow of ideas and experimentation is essential for creativity in this sphere and these specialists are thereby funded, treated with respect and their in-tegrity is left intact. Isn’t it paradoxical, however, that in the arena virtually synony-mous with ‘creativity,’ art, the opposite is usually the case? Put simply, the reasons for this are the following. The university system has internalized the values of the exact sciences, and the currency of its ad-ministration is ‘facts.’ This works fine with the hard sciences, but with social sciences it is less successful – and with art it can have disastrous results. It often seems that the very concept of an art academy is seen as a threat by the educational structure; to those outside it appears chaotic, anarchistic, and it seems difficult to establish standards, or quality and control. The art historians can be organized to appear better in line with science, having nominal ‘facts’: dates, fixed objects with historical pedigree and paper-work, technical knowledge to be learned in relation to connoisseurship, and so on. (This, by the way, is why the artist is often in conflict with the art historian, the artist’s experience of art as a process is directly at odds with such a presentation of it.) It is in
Agnes kohlmeyerENg On that question I would like to answer with a short reflection around “HOW an art school CAN be in a very special place”, and obviously I mean our art school fDA, the faculty of Design and Arts of the IUAV in Venice. Because I am firmly convinced that it makes a decisive difference WHERE this art school was founded and under which circumstances.I think the fact that the school is situated in Venice is a big factor for having been able to make it so special and alive, as not many other schools are, for sure not in Italy.Well, since I came to Venice, nearly 30 years ago now, I had the impression that Venice had an enormous potential which is probably much more seen outside of Italy than inside, and it always seemed to me that this was even less seen in the town itself.I mean here very clearly the potential of attraction which this town has for all for-eigners is all its beauty and all its art, and also its fame, for more than hundred years now, in the production of contemporary art – if we think of the Biennale, for example.Over the years I have not met many artists who would not have dreamt or imagined to live and work at least for a while in this strange, beautiful and mysterious town.It was clear from the beginning of this fabulous project to found a school for Design and Arts here in Venice that this would have had a much bigger success and positive response, to participate and to teach from the viewpoint of artists and other professionals from all artistic disci-plines, as well as theorists, than in most other places in the world, probably.The fact that this art school was to be founded in Venice and that it was also pos-sible to teach only one single term of three months or – if wanted – repeatedly every year, again for one short period, was a very strong and for many of my colleagues extremely seductive offer and possibility.That’s the reason why this school could – and still can – offer such a big variety of different and obviously also very fascinat-
ing approaches to its students. At the same time, the other need of students to have a certain continuity with certain teachers could be satisfied by the steadily grow-ing fact that more and more teachers liked come back to Venice year after year.A school like this one, in the direct vicin-ity of the Biennale and its ongoing art pro-duction on the highest International level, a school in the middle of a reality which seems much more difficult and fragile than elsewhere but at the same time also much more human and immediate, much more beautiful and precious than in many other places of the world, is probably able to transmit quite a high sense of privilege to its students and hopefully also a greater sense of responsibility towards their own choice of becoming an artist, and with re-spect to the rest of the world.
ITA A questa domanda vorrei rispon-dere con una breve riflessione su “COME una scuola d’arte POSSA essere in un posto molto speciale” e ovviamente con ciò intendo la nostra scuola d’arte fDA, la Facoltà di Design e Arti dello IUAV di Venezia. Questo perché sono fermamente convinta che il DOVE questa scuola d’arte è stata fondata e in quali circostanze faccia la differenza in modo decisivo.Penso che il fatto che la scuola si trovi a Venezia abbia contribuito notevolmente a renderla così speciale e così viva, come non accade per molte altre scuole, di certo non in Italia.Da quando sono venuta a Venezia, quasi 30 anni fa, ho avuto subito l’impressione che Venezia avesse un enorme potenziale, un potenziale probabilmente percepito molto di più all’estero che in Italia. Inoltre, mi è sempre sembrato che nella stessa città di Venezia tale potenziale fosse ancora meno avvertito che nel resto della nazione.Con questo intendo ovviamente il potenzia-le di attrazione di questa città nei confron-ti degli stranieri, dato dalla sua bellezza, dalla sua arte e anche dalla sua fama come produttrice, da ormai cent’anni, di arte con-temporanea, se pensiamo alla Biennale, per esempio.Nel corso degli anni sono pochi gli artisti che ho incontrato che non sognassero o non
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the context of the need to replicate scien-tific ‘controls’ and ‘quality’ that one often finds the kind of ultra-conservative agenda being proposed, with which you are famil-iar. Such measures, however, are always proposed out of fear, fear of what is not understood, fear of that which constitutes, for that speaker, the ‘unknown.’ For some-one outside the current battles over ideas in art, such populist proposals must seem rea-sonable: that’s what everyone believes art is, right? The scientists can be left to their specializations, but the complex and subtle issues which have been forming, fought, and played out over this century by artists are to be rejected and dismissed in favor of the comfortably superficial, the myopically formal, and the traditionally banal: all this is acceptable as long as art takes its ‘ap-propriate’ known institutionalized form. But one must ask: isn’t the art academy, along with the university, supposed to be an insti-tution of higher learning?Doesn’t that suggest the kind of specializa-tion and focus, which the advanced study of a subject normally demands? Are students to be penalized for doing what they are there to do, simply because it is not under-stood by the non-specialist? 3. Since a democracy permits everyone to have opinions about art, most people do, whether they are informed, thoughtful, ‘specialist’, or not. It is, however, another matter when such opinions are able to take an affective form simply because of the power of any such individual holding such a point of view, particularly as is so often the case, when it is done without a full ap-preciation of the long-term implications of those comments on both the lives of artists or the society they help to shape.4. The reality is that to reduce the mission of art to the level of market forces (and who is more popular than that master of figura-tive art, Walt Disney?) for the purposes of infotainment, decoration, escapist narrative, or historicized formal nostalgia is the most direct route to the kind of long-term cultur-al poverty which will deprive the future of a meaningful past, one which is experienced in the authentic, and often problematic, works made by individuals intellectually engaged with and committed to their own
time. One fact cannot ever be abrogated: it is the responsibility of artists, and their responsibility alone, to produce that form of meaning which art takes. Historically, in our time (finally the only viable refer-ence) attempts to prescribe and legislate for artists what they shall make have only pro-duced bad art and worse politics. If we want to cite history we should be willing to learn from it. No one now hearing or reading this would want to live in a society in which art has ever been successfully legislated from above, rather than coming from the concrete and lived reality of the artists themselves, as reflected in their choice of the work they make. It is such a connection, which gives the works of art in our museums the power of their authenticity, a power that tran-scends the difference of centuries because it is authentically connected to its own.5. There is no location where artists, both as students and teachers, are more vulner-able to the ‘prescriptions’ mentioned above than art academies. An art academy, simply put, is a representation of the institution-alization of art. It is also, thereby, the front line within which one can change those practices, which form the consciousness of a society. It represents the world as an inherited collection of rules, practices, and traditions, habits – about art – that are afloat at any given moment within a society. While some may find a political advantage in promoting a 19th century romantic for-mula for the education of artists, the reality of daily life is formed as much by the inter-national culture of a global market economy as it is through local traditions. Artists must be free to have a critical and constructive relationship with both, and younger stu-dents of art all the more so. 6. The presumptions and prescriptions that are taught in the academy are a de facto de-scription of what art is. When you describe art you are also describing how meaning is produced and subjectivity is formed. In other words, in describing how reality is represented, you are, in that act, forming it. By teaching a description of reality you are engaged in constructing it, and in this sense an art academy is a political institu-tion as much as a cultural one. If there ever was an appropriate place in which
one would find, then, in a free society, the maximum amount of tolerance, of free play, of a respect for the unbridled limits of the questioning process, it should be the art academy.7. An artist’s political responsibility cannot be separated from his or her cultural role. We need to understand the mechanisms of our culture if we are to ever politically evaluate the world we are helping to pro-duce. Understanding art through re-con-ceptualizing it for the living, and not just utilizing inherited forms, is how we begin to understand that production. This po-litical responsibility begins with the artist questioning the nature of art itself. Indeed, without that fundamental beginning one cannot, as artists, change our conception of art, culture or society. Those institutional mechanisms that resist change in our con-ceptions of culture are one and the same as those that resist change in our society.8. If one has a deep understanding of the art of our century, it is impossible to not conclude that artists make meaning, not simply forms and colors. For this reason, the teaching of art is an important part of the production of art. In many ways it is the tableau where society, in practical terms, makes visible the limits of its conception of art as it attempts to regenerate the institu-tional forms that depict its self-conception. When our view of art is limited, so is our view of society. If questions aren’t asked in art academies, away from the pragmatizing and conforming influence of an art market, where then? If the social responsibility of cultural reflection (the why) is not taught along with a knowledge of the history of how artists have made meaning, then we are doomed to be oppressed by our traditions rather than informed by them. The teacher of art, as a teacher and as an artist, can do no more than participate with the students in asking the questions. This, rather than attempting to provide the answers as art academies traditionally do, realigns the priorities from the beginning. The first les-son, taught by example, is that what is to be learned is a process of thinking and not a dogma in craft or theory.9. The teacher is not the representative of the institution, but one artist among several
sharing a conversation. What is said has its own weight. If a teacher is any good he or she learns as much as the students. The ‘answers’, if there are any, are formed by all of the participants in the conversation within the context of their own lives, and their practical effect is only within that larger conversational process: the shared discourse of a community. It is in the mak-ing of meaning – art – as a discourse that art students experience themselves as they begin the process of making the world. Be-cause art is the teaching of art (art extends belief, making further production possible), description is in danger of quickly becom-ing prescription. What the concept of art I am proposing really reflects is the respon-sibility of the artist to be a whole person: a political being as well as a social and cultural one.10. While no one has problems with the authority of works now represented as ‘masterpieces’, the cultural power that so legitimizes them flows directly from the provocative nature of the history of ideas as experienced through the lives of real men and women. Beyond any individual’s opin-ion of what ‘obscene’ may be, or, for that matter what art may be, it is the responsi-bility of our society not just to protect, but also to nourish, the conditions within which the free flow of ideas will flourish. In many ways art history is the residue, the record, of these human conditions. As a process itself, art protects as it empowers the right to self-expression. Its history is the his-tory of the capacity of all of our freedoms to put consciousness to form, and thereby manifest their self-perception. Protecting this consciousness that art produced is an important part of the protection of our po-litical liberty.
ITA Dieci punti per un’accademia d’arte“L’assimilazione riflessiva della tradizione è qualcosa di diverso dalla continuità non riflessa della tradizione.” – Rolf Ahlers 1. Forse il maggior pericolo per l’arte nella nostra politica culturale alla fine del Ven-tesimo Secolo è l’idea populista che ridu-cendo l’arte al suo livello popolarmente più accessibile – solitamente giustificato come tradizione – si sia “democratici”.
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E mentre il soggetto si vende come “uni-versale e senza tempo”, la realtà culturale è tale che, nonostante gli appelli alla tradizio-ne, il lavoro prodotto da tali prescrizioni di solito non ha radici culturali in alcun paese reale e non trova alcuna collocazione nella storia delle idee.2. Bisogna soffermarsi a pensare che cosa accadrebbe in altre sfere di specializzazione all’interno della nostra cultura – come la scienza e la tecnologia – se vi fosse appli-cato questo principio di populismo. I nostri leader politici riconoscono che il libero flusso di idee e la sperimentazione sono essenziali per la creatività in questa sfera e questi specialisti sono perciò finanziati e trattati con rispetto e la loro integrità è lasciata intatta. Non è paradossale, tuttavia, che nell’arena che di solito è sinonimo di “creatività”, l’arte, il contrario sia, normal-mente, il caso? Per dirla in modo semplice, le ragioni di ciò sono le seguenti. Il sistema universitario ha introiettato i valori delle scienze esatte e la moneta di scambio della sua amministrazione è rappresentata dai “fatti”. Questo va bene con le scienze dure, ma con le scienze sociali non ha altrettanto successo – e con l’arte può avere risultati disastrosi. Sembra spesso che il concetto stesso di un’accademia d’arte sia conside-rato una minaccia da parte del sistema edu-cativo; a coloro che la vedono dal di fuori essa appare caotica, anarchica e sembra difficile fissare degli standard di qualità e di controllo. Gli storici dell’arte possono organizzarsi in modo da sembrare più in linea con la scienza, disponendo di “fatti” nominali: date, oggetti fissi corredati di pedigree storico e di documenti, conoscenza tecnica da apprendere in rapporto alla co-noscenza specialistica, e così via. (Questo, a proposito, è il motivo per cui l’artista è spesso in conflitto con lo storico dell’arte; l’esperienza che l’artista ha dell’arte come processo è direttamente in contrasto con una simile presentazione.) È nel contesto della necessità di replicare i “controlli” e la “qualità” scientifici che si trova spesso il genere di programma ultraconservatore proposto, con il quale avete familiarità. Tali misure, tuttavia, sono sempre proposte per paura, paura di ciò che non si comprende, paura di ciò che costituisce, per colui che
parla, l’“ignoto”. Per qualcuno che vive al di fuori delle attuali battaglie sulle idee nell’arte, tali proposte populiste devono apparire ragionevoli: è questo che si pensa che sia l’arte, giusto? Gli scienziati possono essere lasciati alle loro specializzazioni, ma le questioni complesse e delicate che si vanno formando nell’arte, le stesse idee per cui gli artisti hanno combattuto e che sono da essi messe in campo, devono essere ri-fiutate e messe da parte in favore di ciò che è comodamente superficiale, miopemente formale e tradizionalmente banale: tutto ciò è accettabile nella misura in cui l’arte assume la sua forma “appropriata”, nota e istituzionalizzata. Ma bisogna chiedersi: l’accademia d’arte, accanto all’universi-tà, non dovrebbe essere un’istituzione di alta educazione? Questo non suggerisce il genere di specializzazione e di focus che normalmente si richiede agli studi avanzati di una materia? Gli studenti devono essere penalizzati per il fatto di fare ciò che sono lì per fare, semplicemente perché ciò non è compreso dal non specialista? 3. Poiché una democrazia permette a chiun-que di esprimere delle opinioni sull’arte, la maggior parte delle persone le esprimono, che si tratti di persone informate, riflessive, “specialiste” o meno. Tuttavia, è tutt’altra questione quando tali opinioni riescono ad assumere una forma efficace, semplicemen-te a causa del potere di un qualsiasi indi-viduo di questo genere, che abbia un punto di vista di questo tipo, in particolar modo, perché così accade frequentemente, quando ciò avviene senza un pieno apprezzamento delle implicazioni a lungo termine di quei commenti sulla vita degli artisti o sulla so-cietà che contribuiscono a modellare.4. La realtà è che ridurre la missione dell’arte al livello delle forze di mercato (e chi è più popolare del maestro dell’arte figurativa, Walt Disney?) ai fini dell’info-tainment, della decorazione, della narrativa escapista o della nostalgia formale storiciz-zata è la strada più diretta verso il genere di povertà culturale a lungo termine che priverà il futuro di un passato significativo, un passato esperito nelle opere autentiche e spesso problematiche di individui intellet-tualmente interessati al loro tempo e impe-gnati in esso. Un fatto non potrà mai essere
abrogato: è responsabilità degli artisti, e solo loro, produrre quella forma di signifi-cato che l’arte porta con sé. Storicamente, nel nostro tempo (alla fine l’unico riferi-mento possibile) i tentativi di prescrivere o di imporre per legge quello che gli artisti avrebbero dovuto fare hanno prodotto sola-mente della brutta arte e della politica anco-ra peggiore. Se vogliamo citare la storia do-vremmo essere disposti a imparare da essa. Nessuno che senta o che legga ciò vorrebbe vivere in una società in cui l’arte sia stata regolata con successo dall’alto piuttosto che venire dalla realtà concreta e vissuta degli artisti stessi, così come riflessa nella loro scelta dell’opera da realizzare. È una simile connessione che conferisce alle opere d’arte nei nostri musei il potere della loro auten-ticità, un potere che trascende la differenza di secolo, perché autenticamente connesso al proprio tempo.5. Non vi è alcun luogo in cui gli artisti, sia studenti sia insegnanti, siano più vulnerabili alle “prescrizioni” summenzionate che nelle accademie d’arte. Un’accademia d’arte, per dirla in modo semplice, è una rappresenta-zione dell’istituzionalizzazione dell’arte. Perciò è anche la linea del fronte entro cui è possibile cambiare quelle pratiche che for-mano la coscienza della società. Rappresen-ta il mondo come una collezione di regole, pratiche, tradizioni e abitudini – riguardanti l’arte – che sono in circolazione in una società in ogni dato momento. Sebbene qualcuno possa trarre un vantaggio politico dalla promozione di una formula romantica ottocentesca per l’educazione degli artisti, la realtà della vita quotidiana è formata tan-to dalla cultura internazionale di una eco-nomia del mercato globale quanto lo è dalle tradizioni locali. Gli artisti devono essere liberi di avere un rapporto critico e costrut-tivo con entrambe queste componenti, e gli studenti di arte più giovani lo fanno. 6. Le congetture e le prescrizioni insegnate nell’accademia sono una descrizione de facto di ciò che è l’arte. Quando si descri-ve l’arte si descrive anche il modo in cui è prodotto il significato e come è formata la soggettività. In altre parole, nel descri-vere come è rappresentata la realtà si sta, in effetti, formandola. Nell’insegnare una descrizione della realtà, si è impegnati nella
sua costruzione e, in tal senso, un’accade-mia d’arte è al tempo stesso un’istituzione politica e un’istituzione culturale. Se vi è mai stato, quindi, un luogo appropriato in cui trovare, in una società libera, il massi-mo della tolleranza, del gioco libero, di un rispetto della libertà senza limiti del pro-cesso d’indagine, questo dovrebbe essere l’accademia d’arte.7. La responsabilità politica di un artista non può essere separata dal suo ruolo cultu-rale. Dobbiamo comprendere i meccanismi della nostra cultura se vogliamo essere in grado di valutare politicamente il mondo che stiamo contribuendo a produrre. Per cominciare a capire quella produzione dob-biamo comprendere l’arte attraverso una sua riconcettualizzazione per le persone e non limitarci a utilizzare forme ereditate. Questa responsabilità politica comincia con gli artisti che mettono in discussione la natura stessa dell’arte. Difatti, senza quel fondamentale inizio non si può, come artisti, cambiare la propria concezione dell’arte, della cultura o della società. Quei meccanismi istituzionali che resistono al cambiamento nelle nostre concezioni della cultura sono tutt’uno con quelli che resisto-no al cambiamento nella società.8. Se si ha una comprensione profonda dell’arte del nostro secolo è impossibile non concludere che gli artisti creano signi-ficati e non semplicemente forme e colori. Per questo motivo l’insegnamento dell’arte è una parte importante della produzione artistica. Per diversi aspetti si tratta di un tableau dove la società, in termini pratici, rende visibili i limiti della sua concezione dell’arte nel momento in cui cerca di rige-nerare le forme istituzionali che ritraggono la concezione che ha di sé. Se la nostra vi-sione dell’arte è limitata, lo è anche la no-stra visione della società. Se non si pongo-no gli interrogativi nelle accademie d’arte, lontani dall’influenza pragmatizzante e con-formante del mercato dell’arte, dove allora? Se la responsabilità sociale della riflessione culturale (il perché) non viene insegnata in-sieme alla conoscenza della storia di come gli artisti hanno creato i significati, allora siamo condannati a essere oppressi dalle nostre tradizioni piuttosto che informati da esse. L’insegnante di arte, come insegnante
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e come artista, non può fare altro che parte-cipare con gli studenti al porre le domande. Questo, piuttosto che tentare di fornire le risposte, come fanno di solito le accademie d’arte, riallinea le priorità fin dal principio. La prima lezione, da insegnarsi con l’esem-pio, consiste nel fatto che ciò che deve essere appreso è un processo di pensiero e non un dogma tecnico o teorico.9. L’insegnante non è il rappresentante dell’istituzione, ma un artista tra tanti im-pegnati in una conversazione. Ciò che viene detto ha il suo peso. Se un insegnante è bravo, impara quanto i suoi studenti. Le “ri-sposte”, se esistono, sono formate da tutti coloro che partecipano alla conversazione, nel contesto delle loro vite, e il loro effetto pratico si trova solo entro quel processo conversazionale più ampio: il discorso con-diviso di una comunità. È nella creazione del significato – l’arte – come discorso che gli studenti d’arte fanno esperienza di sé nel momento in cui danno inizio al proces-so di creazione del mondo. Poiché l’arte è l’insegnamento dell’arte (l’arte estende la fede, rendendo possibile un’ulteriore pro-duzione), la descrizione corre il pericolo di trasformarsi rapidamente in prescrizione. Quello che il concetto di arte che sto propo-nendo riflette realmente è la responsabilità dell’artista di essere una persona completa: un essere politico oltre che un essere socia-le e culturale.10. Sebbene nessuno abbia problemi con l’autorità delle opere ora rappresentate come “capolavori”, il potere culturale che le legittima fluisce direttamente dalla natu-ra provocatoria della storia delle idee come esperite attraverso le vite dei veri uomini e delle vere donne. Al di là dell’opinione di qualunque individuo su che cosa possa essere “osceno” o, se è per quello, su che cosa possa essere arte, è responsabilità del-la nostra società non solo proteggere, ma anche rafforzare le condizioni entro le quali il libero flusso di idee potrà prosperare. Per molti aspetti la storia dell’arte è il resi-duo, la testimonianza, di queste condizioni umane. Come processo, l’arte protegge e al tempo stesso dà forza al diritto all’espres-sione di sé. La sua storia è la storia della capacità di tutte le nostre libertà di dar for-ma alla coscienza, e perciò di manifestare
la loro auto-percezione. Proteggere questa coscienza che l’arte ha prodotto è una parte importante della protezione della nostra libertà politica.
Cornelia LaufENg An art school is a place that trains people to think in three dimensions. This is a skill that can be useful for all kinds of lives. Ideally, art school could be a training ground for engineers, teachers, bankers, political leaders, lawyers, writers, and philosophers, not to speak of chefs, musicians, advertising directors, or other professions more readily termed “crea-tive.” Art schools could have kitchens, knitting nooks and finance courses. Film-making and wood-carving can be taught. Music studio can be provided. There is no limit as to what can be taught in an art school. As disciplines increasingly merge, and as the dance between patron and client becomes faster (with the patrons setting the tune for commissions), it is time to be more practical, and to train students with skills they can apply in the world. A practice-based and in some ways pre-professional program should be fused with courses that teach a poetic or philosophical or historical model for approaching visual culture. This fusion can lead to projects in book publishing; the role of the concept in the status of the art work; the possibili-ties of an art that deals with organized faith; the tradition of crafts; art and social design; poetry; ecology and land use is-
sues; political art; and areas that relate art to fashion and graphic design. Art schools should offer courses in art and law, art and business, art and faith. An art school can and should offer all the mechanical means to make visual culture as well. An art school that enlists active profes-sionals – people who make a living on the practice they are teaching – offers some of the best lessons of all.
ITA Una scuola d’arte è un luogo che insegna alle persone a pensare in tre dimen-sioni. Questa è un’abilità che può tornare utile per tutti i tipi di vita. Idealmente, una scuola d’arte potrebbe essere un campo d’addestramento per ingegneri, insegnanti, banchieri, leader politici, avvocati, scrittori e filosofi, per non parlare di chef, musici-sti, direttori pubblicitari, o altre professioni che vengono più facilmente definite come “creative”. Le scuole d’arte potrebbero avere cucine, angoli per lavorare a maglia e corsi di finanza. Si possono insegnare ci-nematografia e intaglio del legno. Si può mettere a disposizione uno studio di regi-strazione. Non vi sono limiti per ciò che può essere insegnato in una scuola d’arte. Mentre le discipline si fondono sempre più
tra loro e la danza tra mecenate e cliente si fa sempre più veloce (con i mecenati che definiscono il tenore delle commissioni), è giunto il momento di diventare più pratici e di insegnare agli studenti abilità e com-petenze che possano essere applicate nel mondo esterno.Un programma basato sulla pratica e, in qualche modo, pre-professionale dovrebbe fondersi con corsi che insegnino un model-lo di approccio alla cultura visiva poetico, filosofico o storico. Questa fusione può portare a dei progetti editoriali: il ruolo del concetto nello status dell’opera d’arte; la possibilità di un’arte che si occupi della fede organizzata; la tradizione dei mestieri; l’arte e il design sociale; la poesia; l’ecolo-gia e le questioni legate all’uso della terra; l’arte politica e, infine, i settori che metto-no in relazione l’arte con la moda e con il design grafico. Le scuole d’arte dovrebbero offrire corsi d’arte e diritto, arte ed econo-mia, arte e fede. Una scuola d’arte, inoltre, può e dovrebbe offrire tutti gli strumenti meccanici per produrre cultura visiva. Una scuola d’arte che assuma dei profes-sionisti attivi – gente che si guadagna da vivere con l’attività che insegna – offre alcune delle migliori lezioni in assoluto.
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Armin LinkeENg An Art School should be a col-lective production structure where each person can test knowledge procedures in an exchanging environment. It is a place that provides the opportunity to take risks, were it is possible to do research, to build up a network, to interact with other institutions, not only of the art world. ITA Una Scuola d’Arte dovrebbe es-sere una struttura di produzione collettiva dove ogni persona può mettere alla prova procedimenti di conoscenza in un ambiente di scambio. È un luogo che offre l’opportu-nità di prendere dei rischi, dove è possibile fare ricerca, costruire una rete, interagire con altre istituzioni, non solo del mondo dell’arte.
Massimo MagrìITA Come vorrei una scuola d’Arte?La vorrei a Venezia. Senza dubbio.E, a dirigerla, metterei una donna sensi-bile, alta, con gli occhiali. Capace di leg-gere, insieme agli studenti, la tradizione e l’innovazione, di portare “dentro” la facoltà tutto il bene che c’è “fuori”, d’im-portare professori ed esportare studenti.Come adesso? Quasi.Vorrei naturalmente che si seguisse di più e meglio la mia materia, il video. Perché tutti, critici e curatori, sovrintendenti, galleristi e artisti devono prendere confi-denza con un linguaggio che si troveranno davanti lungo tutta la loro vita professio-nale.Vorrei che ci fosse un po’ più d’attenzione alla “committenza”. Ai datori di lavoro arroganti, conservatori, decisionisti che gli studenti incontreranno, comunque, all’uscita dall’università e con le cui pre-tese dovranno imparare a fare i conti.Vorrei che noi insegnanti insegnassimo un po’ meno quello che abbiamo fatto, un po’ più quello che c’è da fare. Adesso, o da adesso.Vorrei che si comunicassero di più e meglio, dentro e fuori la facoltà, il no-
stro progetto e i nostri risultati. Perché un’identità forte esiste se è comunicata. Per rispondere con numeri e fatti a chi ci chiede ragione della nostra esistenza. Perché tutti gli studenti hanno il diritto di essere informati e di dialogare su quello che gli si insegna e su come lo si inse-gna. Ma anche perché tutti, insegnanti e studenti, capiscano meglio dove sono e perché sono qui. Magari con l’orgoglio di essere a Venezia allo IUAV.
ENg What is my idea of art school?I’d like it to be in Venice. Definitely.I’d have a tall woman in charge. A thoughtful bespectacled woman. One ca-pable of reading tradition and innovation with the students. One who will bring into the faculty all the good things “outside” it: who will import teachers and export students.The way it is now? More or less.Of course, it would be nice if my subject, video, were given a bigger and better role. Because everyone – critics and curators, superintendents, gallery owners and art-ists – all have to become familiar with a language they will encounter throughout their professional lives.I’d like more attention on “patrons of the arts”. Arrogant, conformist, domineering employers that students will nonethe-less meet when they leave university, and whose demands they will have to take into account.I’d like for us, the teachers, to teach a lit-tle less about what’s been done and a bit more about what needs to be done. Now or from now on.I’d like our plans and results to be bet-ter publicized in and out of the faculty. Because a strong identity will exist if it is conveyed. Using facts and figures to reply to those who want us to justify our existence. Because students have the right to be informed and to discuss what they are being taught and how it is taught. But also because everyone – teachers and stu-dents – will have a better understanding of where they are and why. And perhaps be proud of being in Venice, at the IUAV.
Antoni MuntadasENg I think dialogue is the word that best sums up the experience of art and art schools. Art is a necessity and a conviction, and we are always experimenting and learning. The art school is a institution that has its own rules and dis-ciplines. Basically, the combination is paradoxical. Perhaps dialogue is the only way of bringing these experiences and functions together. Dialogue as exchange, information, de-bate and critique.
ITA Penso che “dialogo” sia la parola che meglio riassu-me l’esperienza dell’arte e delle scuole d’arte. L’arte è una necessità e una convinzione, e noi sperimentiamo e apren-diamo continuamente. La scuola d’arte è un’istituzione che ha le proprie regole e le proprie discipline.Fondamentalmente, la combinazione è paradossale. Forse il dialogo è l’unico modo per mettere insieme queste esperien-ze e queste funzioni. Il dialogo come scambio, informazione, dibattito e critica.
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hans Ulrich obristENg My dream is an art school that is not isolated, but embedded with all the other disciplines. An art school that goes beyond the fear of pooling knowledge, re-sponding to the necessity of connecting dis-ciplines and different practitioners within changing parameters. As Cedric Price said, an art school of the future would utilize un-certainty and conscious incompleteness, and could produce a catalyst for invigorating change whilst also enabling the harvest of the quiet eye.
ITA Il mio sogno è una scuola d’arte che non sia isolata, ma un tutt’uno con le altre discipline. Una scuola d’arte che superi la paura di condividere la conoscenza, rispon-dendo alla necessità di mettere in contatto le discipline e i diversi professionisti in un contesto in cui i parametri stanno cambiando. Come ha affermato Cedric Price, una scuola d’arte del futuro si servirebbe dell’incertezza e della consapevole incompletezza e funge-rebbe da catalizzatore per dare vigore al cam-biamento, consentendo al tempo stesso all’oc-chio silenzioso di mietere il suo raccolto.
Adrian PaciITA Una scuola d’arte dovrebbe es-sere un luogo dove agli studenti vengono offerti stimoli e strumenti per trasformare gli sguardi e le esperienze vitali in un codice di linguaggio. Una volta costituiti questi codici, per evitare che si entri in un circuito di com-piacimento formale, credo che sia necessario mettere in discussione i codici stessi attra-verso la continua esposizione del linguaggio all’irruenza imprevedibile della vita.
ENg An art school should be a place where students find stimuli and tools for transforming attitudes and life experiences into a language code. To avoid entering a circuit of formal complacency once these codes have been established, I think they need to be challenged through the continu-ous exposure of their language to the unpre-dictable impetus of life.
giulio PaoliniITA Artisti non si nasce e non si diventa? L’unico e lontano traguardo dello studio e della formazione artistica è situato oltre la linea dell’orizzonte. Appena tentiamo di av-vicinarlo, eccolo spostarsi in avanti... non riusciremo mai a toccarlo. Non si tratta insomma d’imparare, come si usa dire, a tenere la matita in mano: la matita sa come muoversi da sola o anche, al caso, non muoversi affatto.In arte non esistono leggi, verità... Ma po-tremmo anche dire che ne esistono troppe, ciascuna però ha validità limitata (o relati-va) a seconda delle epoche e dei cicli che si alternano nel tempo. Se a prima vista sem-bra venire a sostituire, a oscurare quelle che l’avevano appena preceduta, ciascuna delle opere che via via affluiscono ad accrescere quel vasto consesso o assemblea permanen-te che chiamiamo Storia dell’Arte in verità ne confermerà l’indiscutibile e spesso inat-tesa attualità.Detto questo, resta comunque da appurare come e perché sempre si rinnovi la sfida di colmare, o almeno ridurre, la distanza tra la fase di apprendimento e il conseguimento di un risultato. Credo occorra capire se ancora esistano legittime differenze tra chi si trovi a insegnare e chi, in un certo senso, non debba o non possa imparare la lezione… Esiste tutt’oggi una gerarchia di ruoli, quando a prevalere sembra essere la voce del grande numero, una volontà plebisci-taria?
ENg So artists are not born and not made? Study and training in the arts have a single, distant aim and it lies beyond the horizon. As soon as we even try to approach it, it will shift ahead... we will never manage reach it. So it is not a case of learning to hold the pen-cil, as they say: the pencil knows how to move itself or, when necessary, not move at all.In art there are no laws or truths... But we could also say there are too many, although each has limited (or relative) validity, depend-ing on the periods and cycles that recur over time. At first glance the new period may seem to replace and obscure the preceding period, when in reality each of the works that gradu-
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ally enters and expands the vast assembly or permanent gathering that is known as art history will confirm an undeniable and often unexpected actuality.That said, it still has to be ascertained why the challenge to fill or at least reduce the gap between the learning phase and the attainment of a result continues to recur. I believe we have to determine whether there are still le-gitimate differences between those who teach and those who, in a sense, should not or can-not learn the lesson... Is there still a hierarchy of roles today, when the voice of the majority, a plebiscite resolve, seems to prevail?
Cesare PietroiustiITA Ho cominciato a fare l’insegnan-te nelle scuole superiori quando avevo 29 anni, pochi anni dopo la laurea in medicina. All’inizio, fondamentalmente, fu un modo per potere smettere di fare il medico, cosa che non mi piaceva e che mi sembrava di non essere capace di fare, pur continuando a fare un lavoro “vero”, un lavoro che mi avrebbe lasciato tempo per fare l’artista, cosa che invece mi piaceva, e che comincia-vo a credere di poter fare davvero. Anche se per anni ho insegnato cose che non c’en-travano nulla con l’arte, l’insegnamento è stato quindi sempre legato alla possibilità della ricerca artistica, come una sorta di passaporto per accedere agli spazi di libertà offerti da questa strana professione da eter-no dilettante che è quella dell’artista.Poco tempo dopo aver cominciato a inse-gnare, su proposta di Angela Vettese, nel nuovo corso di laurea in arti visive allo IUAV, le raccontavo delle mie precedenti esperienze da “professore”, e Angela mi disse qualcosa come: “Beh, adesso per la prima volta insegni quello che ti piace e che è appropriato per te”. Quella considerazione in effetti mi restituiva con precisione una sensazione e uno stato d’animo. I labo-ratori del corso di arti visive dello IUAV rappresentavano proprio un tipo di attività che s’integrava bene con il mio lavoro di artista, con le modalità della mia ricerca, e anche con la mia attitudine. Il contrario di quel che si esperisce come “lavoro alie-
nato”. I laboratori che ho condotto – con l’aiuto determinante di straordinari as-sistenti come Rene Gabri, Filipa Ramos, Hajnalka Somogyi, Sophie Hope e Sarah Carrington – sono stati sempre faticosi e intensi, densi di senso e di scoperte, profon-damente gratificanti.Intensità, significati, sorprese e gratifica-zioni sono ovviamente legati, in particolare, ai rapporti con gli studenti, e a quanto, in termini di entusiasmo e passione, giovani artisti e curatori possono prendere e dare, acquisire e fare circolare, assorbire e fare uscire fuori, trasformato e moltiplicato. E ciò vale tanto per i singoli (dove chiara-mente incidono e producono differenze le corrispondenze individuali, le “empatie” e le affinità) quanto, e direi soprattutto, per il gruppo nel suo insieme. Una cosa per me sempre molto gratificante è stata la sensa-zione, durante e alla fine di ciascun labora-torio, di un lavoro fatto fondamentalmente in comune, una situazione nella quale, pur nelle inevitabili diversità qualitative dei contributi individuali, tutti, nessuno esclu-so, partecipassero alla riuscita della “cosa” (progetti estemporanei, presentazioni, mo-stre di fine corso ecc.) nel suo insieme ed in cui l’apporto di ognuno fosse importante e condiviso, offerta all’impresa comune e scambio con la generosità altrui. Un tale modello laboratoriale, di messa in comune di idee, critiche, lavoro ed entusiasmo è un modello prezioso, che probabilmente risul-terà assai raro nel prosieguo dell’attività dei “nostri” artisti o curatori; sta a loro non farlo diventare – da grandi – il pensiero no-stalgico di un tempo speciale dedicato a sé, alla propria formazione (quello degli studi universitari) e di una comunità paritaria e collaborativa perduta (quella dei compagni di corso), ma un’opportunità reale, difficile ma possibile, una praticabile alternativa “professionale” all’isolamento, all’aliena-zione, a ogni idea banale, mediatica e mer-cantile, di successo.
ENg I started teaching in high schools when I was 29, a few years after graduating in medicine. At the beginning it was basically a way to be able to stop being a doctor, which I didn’t like being and which I didn’t think I was capable of being. I needed a “real”
job that would leave me time to be an artist, which I rather liked and which I was starting to think I really could be. Although for years I have taught things that have nothing to do with art, teaching has nevertheless always been a link to the opportunity of doing some artistic research, a sort of passport for access-ing spaces of freedom offered by this strange profession of artist and eternal amateur.Shortly after beginning to teach IUAV’s new degree course in visual arts, suggested by Angela Vettese, I was talking to her about my previous “teaching” experiences, and she said something like: “Well, for the first time you are now teaching a subject you like and that is suitable for you.” In effect, that comment gave me back a precise sensation and state of mind. The IUAV visual arts course work-shops represented just the type of activity that meshed with my work as an artist, with my method of research, and also with my abili-ties. The opposite of what is accomplished with “alienated labour”. The workshops I have taught – with the decisive help of fantas-tic assistants like Rene Gabri, Filipa Ramos, Hajnalka Somogyi, Sophie Hope and Sarah Carrington – have always been demanding and intense, dense with meaning and discov-ery, deeply rewarding.Intensity, meanings, surprises and rewards are obviously and especially related to rela-tionships with students, and to how much, in terms of enthusiasm and passion, young artists and curators can give and take, capture and circulate, absorb and restore, transformed and multiplied. And this applies both to the person (where clearly individual matches, “empathies” and affinities have effect and produce differences) and also – I’d say above all – to the group as a whole. One thing that was always very gratifying for me was the feeling, during and at the end of each work-shop, that the job had basically been done together. This was a situation that, despite inevitable quality differences in individual contributions, allowed everyone – without exception – to contribute to the overall suc-cess of the “thing” (extemporary projects, presentations, end-of-course exhibitions, etc.). Everyone’s contribution was important, shared, offered to a common commitment and generous exchanges in the group. This sort of workshop model, pooling ideas, criticism,
work and enthusiasm, is a valuable prototype, which will probably become very rare in the future careers of “our” artists or curators. It is up to them, as adults, to prevent it becom-ing a nostalgic memory of a special time dedicated to themselves, to their education (university studies), and of a lost community of equality and cooperation (with their fellow students, of course). It must be seen as a real opportunity, difficult but possible, a workable “professional” alternative to isolation, aliena-tion, to every trivial, media-hyped and com-mercially successful idea.
Marjetica Potrc
ENg I love the Laboratory class. Cross-disciplinary practice is at its very heart. Dur-ing my Lab courses in 2008 and 2010, the students and I went outside the classroom to explore the Venice Lagoon. Theory was bal-anced by hands-on experience as we played on a farm on Sant’Erasmo Island. What is art and what is the role of the artist today? What is architecture and what needs must it address in the challenged environment of the Lagoon? Our response to such ‘traditional’ questions was to learn from the environment itself. The students explored their surroundings. In the process, they learned from one another and, equally important, they learned things together. They learned to think ‘outside the box’, articulating their ideas and developing their projects. For all of us, the time we spent together was one of intense creativity. In my view, the Laboratory is one of IUAV’s most inspiring legacies at a time when universities are struggling to find ways to adopt cross-disciplinary practices in their curricula.
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ITA Amo le lezioni di laboratorio. La pratica interdisciplinare ne costituisce il nucleo profondo. Durante i miei corsi di laboratorio nel 2008 e nel 2010, io e gli stu-denti siamo usciti per esplorare la laguna di Venezia. La teoria è stata controbilanciata dall’esperienza diretta nel momento in cui abbiamo giocato in una cascina sull’Isola di Sant’Erasmo. Che cos’è l’arte e qual è il ruo-lo dell’artista oggi? Che cos’è l’architettura e a quali bisogni deve far fronte nell’ambiente a rischio della laguna? La nostra risposta a tali domande “tradizionali” è consistita nell’ap-prendere dall’ambiente stesso. Gli studenti hanno esplorato lo spazio che li circondava. Nel corso del processo hanno imparato l’uno dall’altro e, cosa altrettanto importante, hanno imparato delle cose insieme. Hanno imparato a pensare “fuori dagli schemi”, articolando le loro idee e sviluppando i loro progetti. Per tutti noi il tempo trascorso insieme è stato ca-ratterizzato da un’intensa creatività. Per come la vedo io, il laboratorio è uno dei lasciti del-lo IUAV che può essere maggiormente d’ispi-razione in un’epoca in cui le università stanno lottando per trovare dei modi per inserire nei propri programmi pratiche interdisciplinari.
Tobias rehberger
ENg An art school should be a place where people are protected, in order to find and develop their own private madness and make it accessible to others, if they can.
ITA Una scuola d’arte dovrebbe essere un luogo dove le persone sono protette, affin-ché possano scoprire e sviluppare la propria pazzia e renderla accessibile agli altri, se ci riescono.
Davide homitsu riboli A glasshouse.
remo SalvadoriITA Non posso che pensare alla poesia! Mi sono venute incontro le parole di Paul Celan:“La funzione che, fra tante, rimane pri-maria per ogni poesia è quella del puro e semplice esser disponibile. La poesia esorta all’incontro con le molteplici razionalità e con l’infinità delle verità, la sua singolarità intellettuale consiste nell’essere irriducibile a qualsiasi altra modalità di pensiero, ma al tempo stesso nell’essere disponibile nei riguardi di ciascuna di esse...”Unisco un appunto, un’indicazione, “sette passi” per i temi legati alla creatività e all’arte, e non solo.Una teoria pratica per gli incontri, verifica-ta al Cantiere di San Quirico d’Orcia 2003, alla Casa di Giotto, Vicchio del Mugello,
2005, allo IUAV, 2005-2007, in Lives and Works a Istanbul, 2008-2009, e in altri se-minari.
ENg I can’t help but think of poetry! Paul Celan’s words thus come to my aid. “The function that, among many, remains primary for each poem is that of purely and simply being available. Poetry exhorts the encounter with multiple rationalities and the infinity of truths, and its intellectual singularity consists in its being irreducible to any other way of thinking, while also be-ing open to each of them . . . .”I can add a note, an indication, “seven steps” for the themes related to creativity and art, and much more.A practical theory for encounters, verified at the Cantiere di San Quirico d’Orcia, 2003; the Casa di Giotto, Vicchio del Mugello, 2005; IUAV, 2005–07; “Lives and Works in Istanbul”, 2008–09; and other seminars.
Philip TaborENg An art school teaches students to swim, then to fly. They swim first in art’s past and present. Then, making many coura-geous mistakes, they learn to transcend this past, this present and their teachers. They fly into art’s uncharted future. It is difficult and dangerous.
ITA Una scuola d’arte insegna agli studenti a nuotare e poi a volare. Prima di tutto nuotano nel presente e nel passato dell’arte. Poi, commettendo molti corag-giosi errori, imparano a trascendere questo passato, questo presente e i loro insegnanti. Volano nel futuro inesplorato dell’arte. È difficile e pericoloso.
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Francesco vezzoliITA Sono praticamente sicuro che le scuole non siano i posti migliori dove inse-gnare o imparare l’Arte.Sarebbe già molto se le scuole d’Arte fos-sero dei reali luoghi di aggregazione, dove gruppi di giovani che condividono le stesse ambizioni e idee possano incontrarsi, con-frontarsi e studiare insieme strategie per almeno sfiorare i propri sogni.
ENg I’m pretty sure that schools aren’t the best places to teach or learn art.It would already be a great deal if art schools were really meeting places, where groups of young people who share the same ambitions and ideas can gather, discuss and study strategies together that will allow them at least to approach their dreams.
Benjamin WeilENg What should an art school be? Gee, so many things! But in any event, it should be a place where a heterogeneous group of people with the same interests congregates: whether teachers, visiting professionals or students. Some of those students would like to be artists, and will be, while others may take other profes-sional directions, but keep this level of a rigorous yet flexible way of thinking that art school provides, a mix of practical and theoretical information. Some would like to be curators, or work alongside artists in other guises. Learning to do so in the institutional framework of the art school, they are building communities that will later prove essential to the way they de-velop professionally. Being with artists, curators and other agents (critics, galler-ists, and all others who support artists) are maintained at a level of intimacy with the artistic process that is essential for them to be able to work creatively with those artists in the future. It should be a place where the highest level of intellectual involvement and crea-tive thinking should be balanced with very practical matters. The world of contem-
porary art is no longer an unruly, small microcosm with just a few very dedicated participants, whether artists, curators, gal-lerists or collectors. Rather, in the past decades, it has become a field that has grown, becoming more like an industry, and it is equally affected by the general tendencies of culture and the economy. It is now a global stage, an environment where enthusiasts coexist with investors (they are sometimes the same people), where the market is a vital force that should be acknowledged and understood, even if at times it seems to function in a very reductive fashion. One could say the world of art today is a place where com-mercial super-productions coexist with more experimental matters. Artists and all the agents of this world – curators, galler-ists, auctioneers, critics or others – need to know how this “industry” functions in order to make informed decisions as to where and how they would like to partici-pate. The art school should provide that frame of thought and help these soon-to-be pro-fessionals to understand the challenges and the opportunities at stake, and to be able to take a realistic – and intellectu-ally rigorous – approach to the building of a professional career. In other words, it is place where one learns that it is as important to know how to formalize ideas and produce projects as it is to be creative and intellectually sharp; a place where one is given the opportunity to know how to elaborate thoughts and conceive strategies to disseminate those thoughts, in manners that are compelling and viable.Art school should be a place in which to experiment, to produce projects that will extend and expand the notion of art, which in itself has become an incredibly open platform of operation. Art is, and should always remain, a space for culture that is equivalent to fundamental research in the field of science.
ITA Che cosa dovrebbe essere una scuola d’arte? Cielo, dovrebbe essere così tante cose! Ma, a ogni modo, dovrebbe essere un luogo dove si aggrega un gruppo eterogeneo di persone con gli stessi inte-
grazia Toderi
ITA eSSere ProFonDAMenTe LIBerA neLLA SUA SPeCIFICITà.eSSere LIBerA DI oCCUPArSI DI ArTe PrIMA DI TUTTo.eSSere LIBerA D’InSegnAre Le oPere D’ArTe ATTrAverSo LA STorIA. eSSere LIBerA D’InSegnAre IL DISegno.eSSere LIBerA D’InSegnAre Le TeCnIChe.eSSere LIBerA D’InSegnAre Che L’ArTe non hA TeMPo. non CreAre FALSe ILLUSIonI.
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ressi: che si tratti d’insegnanti, di profes-sionisti in visita o di studenti. Ad alcuni di quegli studenti piacerebbe diventare artisti, mentre altri potranno intraprende-re altri percorsi professionali, ma man-terranno sempre questo modo di pensare rigoroso ma flessibile che è offerto loro dalla scuola d’arte, una combinazione d’informazioni pratiche e teoriche. Ad alcuni piacerebbe diventare curatori o lavorare accanto agli artisti in altre for-me. Imparando a far ciò nella cornice istituzionale della scuola d’arte, essi costruiscono comunità che, in seguito, si riveleranno essenziali per il loro sviluppo professionale. Stando con gli artisti, i cu-ratori e gli altri agenti (critici, galleristi e tutti gli altri che sostengono gli artisti) mantengono un livello di intimità con il processo artistico che è fondamentale affinché possano lavorare creativamente con quegli stessi artisti in futuro. Una scuola d’arte dovrebbe essere un luo-go dove il più alto livello di coinvolgi-mento intellettuale e di pensiero creativo dovrebbe essere bilanciato da questioni molto pratiche. Il mondo dell’arte con-temporanea non è più un piccolo micro-cosmo sregolato con solamente alcuni partecipanti animati dal massimo impe-gno ed entusiasmo, sia che si tratti di artisti, di curatori, di galleristi o di col-lezionisti. Piuttosto, negli scorsi decenni, il settore è andato crescendo, diventando quasi un’industria, influenzata anch’essa, come tutti gli altri settori, dalle tendenze generali della cultura e dell’economia. Ora è un palcoscenico globale, un am-biente dove gli entusiasti coesistono con gli investitori (a volte sono le stesse per-sone), dove il mercato è una forza vitale che dovrebbe essere riconosciuta e com-presa, anche se a volte sembra funzionare in modo molto riduttivo. Si potrebbe af-fermare che il mondo dell’arte, oggi, sia un luogo dove le superproduzioni com-merciali coesistono con le produzioni più sperimentali. Gli artisti e tutti gli agenti di questo mondo – curatori, galleristi, banditori d’aste, critici, ecc. – devono sapere come funziona questa “industria” per prendere decisioni ponderate su dove e come vorrebbero dare il proprio con-
tributo. La scuola d’arte dovrebbe fornire la cor-nice di pensiero per aiutare questi futuri professionisti a capire le sfide e le oppor-tunità sul piatto e per permettere loro di assumere un approccio realistico – e in-tellettualmente rigoroso – alla costruzio-ne di una carriera professionale. In altre parole, è il luogo dove apprendere che è altrettanto importante sapere come forma-lizzare delle idee e produrre dei progetti quanto essere creativi e intellettualmente acuti; un luogo dove si ha l’opportunità di imparare a elaborare dei pensieri e a concepire delle strategie per disseminarli, secondo modalità percorribili e capaci di suscitare interesse.La scuola d’arte dovrebbe essere un luogo dove sperimentare, dove produrre progetti che estenderanno ed espanderan-no la nozione di arte, che è diventata, di per sé, una piattaforma operativa incre-dibilmente aperta. L’arte è e dovrebbe sempre rimanere uno spazio per la cultura equivalente alla ricerca fondamentali nel campo della scienza.
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Visual Arts at IUAV, Venezia2001-2011
Forse una scuola per artisti non serve. Ma l’innovazione tende a nascere come ribellione a una regola, e in nessun luogo si impara la regola più facilmente che a scuola.Questo libro percorre i dieci anni di un tentativo unico in Italia: portare l’arte visiva nell’Università, concependola a pieno titolo come un ambito del sapere.
Perhaps a school for artists serves no purpose.But innovation tends to occur as a rebellion against rules, and there is no easier place to learn rules than at school.This book examines a decade-long attempt that is unique in Italy: bringing the visual arts to the University, by considering it as a field of knowledge in its own right.
ISBN 9788896501559 € 18