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AUTOPRODOTTOA FIRENZEQUESTA PUBBLICAZIONENONHA SCOPODILUCRO

Edito da “Associazione Culturale Mostro” - Direttore Responsabile: Marzio Fattucchi

Reg. Trib. di Firenze n. 5217 del 25/11/2002 - Stampato da “Grafiche Panico” 73013 Galatina (LE)

Disegno in copertina di Francesco D’Isa

Redazione: Dario Honnorat - Francesco D’Isa - Gregorio Magini - Matteo Salimbeni

* Galleria/Biblioteca: L’archivio di tutte le opere che ci mandate

e-mail: [email protected]

RaccontiA Silvana.

di Matteo Salimbeni

Ai margini dell’azione

di Dario Honnorat

Enciclopedia Asistematica del Tutto - PARTEIV

di Gregorio Magini

Riders

di Gregorio Magini

Una vita.

di Matteo Salimbeni

Editoriale Inattualedi Dario Honnorat

CinemaA cura di Daniela Raddi

Arti VisiveOpere di Alessandro Bavari

PoesiaOpere di Margherita Bertoli, Arancia N.

Lisa Massei, Yzu Selly, Giulio Bogani

FumettoCaosdi Francesco D’Isa

Altre illustrazioni di Stefania Pinsone,

Michele Rizzo, Luca Mauceri (‘Casa’)

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Visita il nostro sito internet: www.inventati.org/mostro

* Documenti e link all’universo delle autoproduzioni

* Tutti gli arretrati interamente consultabili e scaricabili

* Forum aperti per discussioni su cultura letteratura e altro

Informazioni su Abbonamenti e Arretrati a pagina 27

Editoriale Inattuale

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GENERAZIO NIDEGLIANNI 80

Questa rivista è nata senza aver fissato i suoi pre-supposti culturali, estetici e politici. È nata nel2000, tre anni fa, mettendo insieme il materialeche ci sembrava migliore tra gli scritti e i disegnidei quattro che ora compongono la redazione, eabbiamo continuato a cercare di proporre ciò checi pareva degno, cominciando pian piano a capireperché. Dunque il processo di confronto con ilmondo contemporaneo, la nostra collocazionenella società e nella storia non è ancora per nien-te chiarita. E questo difetto, se compreso eaffrontato con consapevolezza, pensiamo possadiventare un punto di forza.Questi editoriali, che si nutrono di discussioni

portate avanti durante incontri settimanali tra re-dattori e collaboratori, cercano gradualmente dirispecchiare le nostre prese di coscienza, le no-stre maturazioni e prese di posizione. Procediamoun poco alla volta nella costruzione della nostraidentità collettiva, tastando il terreno, rinforzandoprogressivamente e cementando le nostre deci-sioni.Nello scorso editoriale avevo tratteggiato som-

mariamente alcuni fondamenti che secondo noidovrebbero valere per l’azione di ogni individuoche voglia lavorare per una cultura migliore nelcontesto attuale. Qui invece cerchiamo di muo-vere qualche altro passo avanti confrontando lacondizione della generazione che nasce intornoal 1980 (a cui apparteniamo e facciamo riferimen-to), e quella che nasce attorno al 1880: è unespediente per cominciare a scoprire come il pe-riodo storico ci influenzerà, a individuare alcunitratti comuni alle generazioni di intellettuali e arti-sti di altre epoche e alcune differenze di cui lanostra crescita dovrà tenere conto. Maturare pernoi significa acquistare consapevolezza del passa-

to e del presente, del fatto che viviamo in unadeterminata epoca, del fatto che il presente hacerte caratteristiche e non altre, del fatto che leforme di azione intellettuale cambiano e che sia-mo stati gettati in un certo contesto culturale nellospazio e nel tempo, in Italia intorno agli anni ‘80.Ma per sviluppare in un modo serio e duraturo inostri presupposti dobbiamo evitare di lanciarcisubito in balia dell’attualità, dobbiamo affilare lecategorie con cui comprenderla e criticarla. Perquesto, e per alcune analogie e differenze che cipaiono interessanti confrontiamo il nostro conte-sto con quello di cento anni fa senza pensareneanche lontanamente di esaurire o schematizza-re un argomento così complesso.Nel 1889 con il crollo psichico di Nietzsche si

chiude la sua opera che segna il passaggio dallafilosofia moderna a quella contemporanea. Conl’ottocento era stato portato a termine un proces-so di critica radicale del pensiero cristiano1 cheera stato punto di riferimento per ogni pensatore -sia per chi tentava di opporglisi che per coloroche lo accettavano - e ci si affacciava al ‘900 checon i suoi eventi storici catastrofici avrebbe mes-so in serie difficoltà ogni idea di storia comepercorso progressivo tipicamente moderna (illu-minista hegeliana, marxista). La generazione deglianni ’80 dell’ottocento è la prima a nascere in uncontesto che non è più moderno.

1 Si veda “Da H egel a Nietzsche - la fratturarivoluzionaria nel pensiero del XIX secolo” in cui KarlLow ith esamina il periodo 1830-1889, cioè ladissoluzione del sistema H egeliano visto come l’ultimogrande mediatore degli ideali cristiani con la società ela cultura moderna.

“Di chi era la frase: «Mai uomo si innalza come quando non sa dove possa condurlo la sua strada»?”Dalla III considerazione inattuale: Schopenhauer come educatore, Nietzsche

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Nel 1989, con l’abbattimento del muro diBerlino comincia a venire in primo piano la cri-si dell’economia e delle società socialiste cheha avuto come ripercussione il crollo della fi-ducia nel più grande sistema di valori moderniche fosse sopravvissuto fino a quel punto. Giàprima di questo evento si era preso a parlare dipostmoderno, come epoca, fase o clima intel-lettuale in cui non si riscontrano o secondoalcuni addirittura non possono più emergere,grandi sistemi di valori e di conoscenza conpretese unitarie e universali. La generazionedegli anni ’80 del novecento è la prima a na-scere in un contesto culturale che – almeno inparte – si autodefinisce postmoderno.

Secondo alcuni teorici del postmoderno,dopo la modernità comincia ad aprirsi il perio-do della postmodernità in cui si possonopronunciare solo mezze verità, è caduta ognivolontà unificatrice in campo teorico, regna ilpluralismo, il multiculturalismo, si è dissolta lafiducia nel progresso (che sia guidato dalla prov-videnza divina, dalla dialettica ideale omateriale, dalla ricerca scientifica), il nichilismonon può che essere accettato e l’uomo si deveaccontentare di un’esistenza più o meno insen-sata e, come massima aspirazione, senzanevrosi.

Che si voglia accettare o no questa analisidel presente, la categoria del postmoderno èsempre più usata per definire l’attualità: “Dalneorealismo al postmoderno” recitano i sotto-titoli degli ultimi tomi dei manuali di storia dellaletteratura, “dal postimpressionismo al postmo-derno” è scritto sull’ultimo volume di unmanuale di storia dell’arte, e il manuale di filo-sofia più adottato nei licei mette la tematica delpostmoderno al centro del dibattito filosoficocontemporaneo.

Quindi, se la generazione dei futuristi è laprima a non vivere più un contesto culturalemoderno, la generazione degli anni ottanta del‘900 è la prima a vivere un clima che possaessere detto prevalentemente postmoderno. Ladifferenza fondamentale non è molta, non si

sono imposte, in questo secolo, nuove grandiideologie o nuovi sistemi di valori, si è accen-tuato il distacco dalla modernità, sono statedelegittimate tutte le grandi autorità culturali esi è arrivati all’autocoscienza di questo distac-co. È questa autocoscienza della distanza dalmoderno, la vera differenza del nostro perio-do rispetto a quello vissuto dalla generazioneche ci precede di 100 anni.

E si potrebbe sostenere, ad avere lo spazioe la voglia per farlo in modo approfondito, chel’intero novecento sul piano artistico intellet-tuale, con le sue avanguardie, neo-avanguardie,scuole e movimenti, è tutto un graduale pren-der le distanze (pur con continui tentativi direstaurazione) dalle ideologie e dai valori dellamodernità per negarli. Fino al punto attuale incui sembra difficile immaginare una negazionepiù radicale (e per questo meno propositiva),una maggiore distanza e una maggiore assenzadi caratteri propri della nuova epoca – e que-sto è evidenziato dalla categoria di postmodernoche è ottenuta con una morbida negazione dellacategoria del moderno e per questo ne dipen-de ancora.

Secondo quanto scrive Eco in una delle po-stille a “Il nome della rosa” intitolata “ilpost-moderno, l’ironia, il piacevole”, siamo inun’epoca di perduta innocenza, è molto diffici-le dire qualcosa di nuovo (lui porta l’esempiodell’espressione “ti amo disperatamente”, co-niata da Liala) e proprio per non fingere uninnocenza che non c’è concessa ci consiglia dicitare esplicitamente le fonti (nel caso del-l’esempio ci consiglia - se fossimo posseduti daun amore disperato - di dichiararci con la fra-se: “come direbbe Liala «T i amodisperatamente»”). Citare e compiacercene inun piacevole, colto intrattenimento. A stare alsuo consiglio, per essere onesti intellettualmentescrittore e lettore sono ormai condannati ad unrapporto distaccato in cui si infila sempre unaLiala a stemperare o annullare i disperati senti-menti che tentano di scatenarsi.

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Partendo da queste considerazioni, alla nostragenerazione, in una simile cornice, pare si apranotre strade:

Accettare i modesti presupposti del postmoder-no e limitare la nostra azione intellettuale ad ungioco più o meno colto, più o meno responsabilee raffinato, senza più cercare un orizzonte se nonuniversale quantomeno non così miseramente tem-poraneo e limitato, insomma vagare nel limbo delgià detto - dove si aprono infiniti itinerari di ap-profondimento per ogni argomento che tocchiamoe ogni percorso intellettuale ci pone continuamentedavanti ad un bivio senza darci criteri per sceglie-re - citando, attualizzando, reinterpretando leopere precedenti.

Ritentare la strada che ebbe maggiore succes-so 100 anni fa, con i futuristi, passando da unnichilismo passivo paralizzante ad un nichilismoattivo che si scaglia contro ogni costruzione cultu-rale che ci voglia gravare con la sua autorità. Mascopriremmo immediatamente in che deserto dirovine, in quale mancanza di punti di riferimentosiamo capitati. Ci potremmo scagliare solo controlo stesso postmodernismo, che, come ho sostenu-to, non è esattamente un edificio intellettuale, mauna nube, una metacultura che spazia su tutte leculture e di tutto si interessa senza portare in pri-mo piano nulla. E a nulla servirebbe scagliarsicontro questa autorità così poco pesante, più for-te ci metteremmo ad urlare, più facilmente, nellasocietà dei consumi, troverebbero una nuova eti-chetta per trasformarci in una moda di stagione.Buttar lì qualche affermazione provocatoria è oggitanto facile quanto inutile, solo gli idioti ormai siscandalizzano. Manca la libertà di sviluppare lenostre idee e il nostro mondo, non quella di espri-merle.

La terza strada che noi scegliamo e proponia-mo è lavorare alla realizzazione di un movimentoculturale costruttivo che si crea da se i suoi puntidi riferimento, i suoi autori, i suoi pensatori, cer-cando di seguire la propria strada, di rimanerefedele a se stesso, di unire tutti i migliori artisti eintellettuali della nostra generazione. Lavorare il

terreno da cui possano nascere opere più duratu-re e più degne.

Sulla prima pagina del primo numero della ri-vista “Leonardo” una delle prime voci dellagenerazione del 1880, nel 1903 appariva un pro-gramma sintetico che inizia così: “U n gruppo digiovini, desiderosi di liberazione, vogliosi d’uni-versalità, anelanti ad una superior vita intellettualesi son raccolti in Firenze sotto il simbolico nomeaugurale di “Leonardo” per intensificare la pro-pria esistenza, elevare il proprio pensiero, esaltarela propria arte.”

Questi sono certamente, sciolti dal clima e daltono dell’epoca, aspetti che ci sentiamo di far no-stri e che dovrebbero essere aspirazioni di ognivolontà che possa ancora chiamarsi tale, nono-stante l’immenso pessimismo della ragione chedovrà accompagnarla.

Ma per appagare la nostra “voglia di universa-lità” oggi non serve una carica negativa, di questeè pieno il mondo; non servono il nazionalismo, ilbellicismo, l’esaltazione polemica dell’inumano etutti i caratteri provocatori della generazione di100 anni fa. Si son viste fin troppe scimmiottaturedei metodi avanguardistici, serve una posizionepropositiva autentica che cresca, migliori, maturie dia frutti, serve la forza di creare un nucleo at-torno al quale si condensino individui non ancorapersi nell’indistinto mondo impersonale della so-cietà massificata, serve la volontà di compiere ilnostro percorso proprio perché non sappiamodove possa portare, proprio perché abbiamo ilsentore che non porti a niente di radicalmentenuovo, vogliamo che porti a qualcosa di migliore,migliore possibile.

(di Dario Honnorat, sulla base di idee discusse econdivise nelle riunioni settimanali con

Francesco D’Isa, Gregorio Magini, MatteoSalimbeni)

Editoriale Inattuale

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Racconto di Matteo Salimbeni

Prima che tu inizi a leggere ti imploro: lasciami almeno la carta con cui scrivo questa lettera, non la gettaree se proprio credi nel furore di stracciarla conservane con premura i cocci che ne verranno; ti prego,lascia che ti sia prossima, lasciami arrancare.Lasciami almeno quest’ultimo anatema della ragione �

A Silvana.Per la facilità di conoscerti ringrazio tutti, nes-

suno escluso; salvo imprevisti mi hanno dato tutti,nessuno escluso, una bella mano.

Ce la siamo poi cavata con non poche difficol-tà, la mia parsimonia, la tua sagacia e tante altrecose sono state dolorosamente attaccate: io di-ventai un po’ meno parsimonioso, tu prendesti aessere un po’ più sciocca.

E tutto: il mescolarci il ritoccarci le scherma-glie le tenere zuffe non ci sembrarono che ungioco, un gioco di cui presto scordammo gli ingra-naggi così che tutto perse il senso del tempo edelle stagioni e prese ad essere naturale.

Come se sempre, fin dalla nascita, avessimotenuto diletto alle nostre consuetudini ed adesso,per somma noncuranza, non potessimo più com-prenderne le ragioni, pretendere spiegazioni dallaloro inespressiva avidità.

I dì di festa prendemmo a ritrovarci seduti adun tavolo con l’aria ovoidale dello sperduto e del-la sperduta: così, per sopravviverci (ogni terroredella vita apprendemmo ad aggirarlo in tono mi-nore), diventammo degli ottimi costruttori di ominidi pane e di stecchini; loro a muoversi e a parlarsisul desco apparecchiato, noi a modularne i con-tatti presso le giare di vino, le risa accanto lazuccheriera, mentre le ricadute d’ira, come in ognibuona compagine coniugale, andarono occupan-do (con insospettabile cognizione di causa) imargini della tovaglia inzaccherata.

Nei giorni di lavoro rientravamo a casa stanchie il gelo ci accoglieva.

Il camino fu la salvezza su cui riversare ogninostra aspirazione: diventò uno strano comple-mento della natura e della scienza, l’edera loavvolgeva interamente sfogliando dal posamollefino allo sfiatatoio, non aveva bisogni di soffionicasalinghi per accendersi, sapeva bene quandodestarsi al mattino, quando tacere la grassa cor-teccia incandescente a fine serata, ma la dedizione– fosti tu, fu la tua più grande conquista ad inse-gnarmela – che gli accordammo, granaio ai piedie fiume al fianco, fu cura che merita solo il bambi-no appena giunto al mondo.

Sapesti appunto convertire la mia più innocuadisattenzione nel tuo più gran trionfo: un giornodopo la mietitura abbandonai un silo di frumentoaccanto al fuoco, la combustione del grano avreb-be potuto nuocerci un poco, tutta al più provocarciun lungo sonno – e chissà se davvero di dimenti-canza e disattenzione fui vittima – ma tu, avvezzain lungimiranza, staccasti un corso d’acqua dolceda non so quale massiccio dolomitico (penninimontuosi non ne avevo mai visti nelle vicinanze) econ deliziosa malizia lo passasti intorno al caminocosì come si passa un panno fresco sulle tempiedell’accaldato.

Da quel momento e per il breve tempo di uninverno il camino non cessò di proteggerci: quan-do tu non mi capivi ed io parlavo a bassa voce cisoccorreva e poneva in sé l’attenzione crepitan-do, squadrando sinistro il granaio, poi subitosfrigolando pianti bollenti sull’acqua del fiume.

Divenne il più grande sostenitore del nostrorapporto: sapeva ben dissuaderci da noi.

Sopraggiunta la stagione della legna verde loscrutammo sconcertati piegarsi umido a singhioz-zare sulle ultime stecche baluginanti.

La sua morte azzurrognola fu il primo presenti-mento dell’orrore al quale ci avrebbe costretto ildoverci di nuovo occupare di noi. Volesti, di lì apoco, con insolente perfidia, lasciarmi sotto solle-cito del mio malumore e col silenzioso, eccepibilebeneplacito della maggior parte di coloro che ciavevano dato una mano, ma nonostante questohai stupito tutti: tutti, nessuno escluso dissimula-rono meraviglia nell’apprendere la notizia.

Da più parti si alzò un greve stupore. Noi stessisu questo generale stupore indugiammo stupiti.

Prima che t’accingessi ad inventarmi un epilo-go mi convinsi, fu una nitida e passeggera mortedisperata, che le cose le riassumevi indistintamen-te, unicamente e tendenziosamente dal tuo puntodi vista e che questo era di per certo cagionevolee che ci saremmo ormai senza dubbio abbando-nati per tua fraterna ingiunzione;

ma, giunto che fu il tuo affabile delicato dolcis-simo addio, non ebbi da darti che un sussurro eapersi la bocca di poco, di nulla poiché fui subito,

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Così io vivevo: senza intendere.Spesso, credimi e perdonami, mi assale il dub-

bio d’averti usurata soltanto, d’aver consunto quelche di te mi rimaneva, ma dovrei essere io a per-donare quest’infondata, folle accusa che volgo ame stesso.

Da lunghi anni ti chiamo Silvana e ho perso iltuo nome; avevo paura di spedirti troppe lettereindi scelsi senza indugio di smarrire il tuo nome eguadagnar Silvana. (astuto sotterfugio che ho cer-to acquisito da te)

Oggi bramo ciò che volli trascurare, mi sentopiù forte, diverso, diversamente propenso a te.Quindi oggi, oggi che credo d’averti superato senon in velocità perlomeno in immaginazione, chepenso che Silvana non sia più tu o almeno “tu” acui scrivevo, oggi che mi sento pronto alla parolati domando di restituirmi ciò che ho perso(volutamente) (o per caso) e cioè il tuo nome.

Spero sinceramente, la nostra antecedente, vivafrequentazione te lo impone, che tu accolga l’in-vito così che io possa scriverti e tu possa leggereogni nostra lettera.

I baci di sempre,Alfredo.

‘Felice in controluce’ di M ichele Rizzo

l’attimo successivo al tuo primo suono, storditodallo scoprirti infinitamente, delicatamente, stra-ordinariamente, tremendamente parsimoniosa,similare alla dimora da cui mi avevi ricavato; tem-po del tempo per te accantonato dal nostro giococrudele.

Neanche potei credere di parlare con te, conte! quindi tu non mi lasciasti (mi dissi) (una con-vinzione che mi fu di sollievo durante i moltiinterminabili giorni a venire).

Posi a malapena i termini del dissenso, strasci-cai una frase che neanche giunse a fine, un “oibò”,un “non so che” di poco conto e rumore.

Lo so, non ho mai amato terminare le frasi e tunon hai mai amato che io non riuscissi a terminarele frasi, tu che sei donna risoluta e molto sciocca,ma credo che soltanto poche frasi meritino di es-sere terminate. Perciò mugolo.

Forse hai sofferto di questo più che di ogni al-tra cosa.

Negli anni che adesso ci separano ho preso ascriverti spesso e volentieri; dalla notte stessa delnostro addio non ho cessato di scriverti neancheun momento poiché non potevo più sopportare lasensazione che vi fosse un’idea tanto triste dei mieimugolii.

O forse che loro ci avessero allontanato cosìtanto.

Mai ti ho scritto per chiarire l’immagine di te,mai per complicarti, e se t’avvicinavo col pensieroera con la levità che prelude ad una distrazioneche t’avvicinavo; tuttavia, sempre e comunque,volontà a me ulteriore ed ineludibile, ti ho avutosolo per complicazione.

Non diventasti per me l’ideale, bensì l’idea nonintesa, l’altrove in me, vigorosa e bencelataassertrice d’ogni mio disgusto e colpa e riflessio-ne.

Per questo scelsi di conservarti a lungo, perchésentivo – ma, certo, non lo intendevo ancora –fosse assolutamente necessario ai miei slittamenti,ad ogni mio sospetto ad ogni incredula passioneed alle mie fughe: non altrimenti t’avrei mantenu-to in vita.

Credermi amante capace, possibilità apparen-te d’amante e d’uomo era il non inteso intento;ciononostante sempre giungeva un tempo oscuroonde ti potessi depositare sulle mie povere fugheper consegnarmi, senza ch’io intendessi nulla, l’in-capacità, la fallibilità, la vacuità.

Continuavi a essere bella, tanto.

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Una rubrica di cinema non può, per limiti manifesti, riprodurre nello spazio di tre pagine l’opera di cui tratta.Essa per riuscire chiara deve svolgere un lavoro assai arduo: rendere comune fra lettore e redattore ciò di cui siva parlando, inventarsi una formula stimolante ed accessibile anche per chi non ha avuto il tempo nella breve suavita di vedere tutti i film possibili, di apprendere il gergo speciale e specialistico del critico, o che magari non haavuto voglia di fare del cinema l’interesse primario delle proprie passioni ed energie.

Per questo la rubrica che oggi inauguriamo non potrà limitarsi alla classica presentazione-descrizione dialcuni film, ma queste sue scelte le giustificherà con un uno specifico punto di vista introdotto da un brevesaggio, il quale per sua intrinseca limitazione chiederà di moltiplicarsi in un dibattito, esigerà critiche e commentiche il nostro sito internet, senza esclusioni di sorta, ospiterà ben volentieri. In questo numero dunque, comeesperimento, vi proponiamo questa “introduzione al tema”, mentre nel prossimo analizzeremo nel dettaglio trefilm scelti per affinità all’argomento, secondo una logica di linguaggio e un’estetica di mercato.

“Here I am like a penitent in a confessional. I want to tell you how I feel, but there’s nobody on theother side of the screen.” (Jeanette W interson – The Powerbook)

CYBERLETTERATURA: EVOLUZIONE (IN)NATURALE DI

UN MORPHING LETTERARIO

La Rete Internet, per come la conosciamo oggi, èil diretto e naturale sviluppo di una letteraturacombinatoria come quella Cyberpunk.

Non solamente come archivio vivente diinformazioni, teoria, pratica e immaginario di untipo di scrittura che trova nella rete il suo fulcro didiscussione e sviluppo più naturale, quanto per lepossibilità offerte dai sistemi di interazionepubblica più popolari sul W eb: il sistema dellachat e del forum di discussione permettono, infatti,di creare sessioni di dialogo praticamente in temporeale, con la particolare configurazione che gliutenti di tale conversazione sono celati fra loro, equindi potenziali “scrittori” di un racconto ognivolta diverso.

Può sembrare un’analisi forzata e paradossale,ma ha delle suggestioni ben precise nelle radicistesse di un genere letterario che, in un certosenso, consacra le sue origini nel segno dellacontaminazione e della derivazione da altri generi,e soprattutto nella possibilità concettuale diconfigurare un testo che si crei attraversonumerose varianti di scrittura a contatto tra di loro.Esattamente come per il Noir nella sua evoluzionecinematografica, il Cyberpunk si trova a fare i conticon un’originalità costruita e strappata ad altriuniversi letterari, ma che diventa effettivaattraverso la capacità di inventare uno spazio

semantico inedito e vertiginoso identificato nelloscontro tra più livelli di realtà.

Gli esperimenti Ipertestuali di Jay David Bolterrappresentano l’archeologia linguistica dellaCyberletteratura: “W riting Space: a Hypertext” èla versione embrionale ed elettronica perpiattaforme Mcintosh e W indows di uno scrittopoi pubblicato nel 1991 che analizza il rapportotra linguaggi macchina e testo, con l’entusiasmo diavere a che fare con la teorizzazione di una formadi scrittura completamente nuova che reinventa lafigura dell’autore inteso come soggetto onniscente,in favore di un gioco di trasformazioni del“racconto” realizzato con gli interventi attivi dellettore stesso.

Si potrebbe obbiettare che il termineCyberspace, come sigla di un (non) luogomaterializzato da “allucinazioni consensuali”,prende forma per la prima volta dalla fantasia delloscrittore americano W illiam Gibson, circa sette anniprima delle ricerche di Bolter, all’interno delromanzo “Neuromante”. In realtà Gibson si trovanel posto giusto al momento giusto per sperimentarela sua capacità di sintesi di numerosi linguaggiapparentemente inconciliabili tra di loro.

Stabilire un origine della Cyberletteratura èquindi un’operazione arbitraria come la definizionestessa del genere che la rappresenta. Partire alloradagli esperimenti di Bolter (assolutamente ingenuie probabilmente superati) è un segnale curioso di

Oltre le spalle della realtàtracce per un nuovo cinema virtuale (1/2)

appunti di cinema a cura di Daniela Raddi

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come alcuni generi, Cyberpunk al centro, si trovinonella condizione storica di potenziare, arricchire etravestire da un punto di vista estetico, ricercheche su un piano più strettamente linguistico sonogià state intuite e probabilmente affrontate.

In questa prospettiva, ad esempio, i primiromanzi di William Gibson vivonodi una instabilità costante: non soloattingono dalla fantasia nera nellaversione codificata attorno agli anni’40 dal cinema made in USA, marielaborano la fantascienza el’informatica per adolescenti con unlinguaggio che in un certo senso in-troduce il collante necessario per farparlare di “novità”, ovvero la rete.Difficile stabilire se la struttura dellospazio virtuale si sia lentamenteplasmata sulle intuizioni letterarie diGibson o di altri scrittori in modo dafiltrare con la tecnologia delmomento intuizioni che potevanoesser presenti nelle opere di fictiondi questi autori. E’ certo che nellapratica dialettica tra corpo e identitàche viene sperimentata ogni giornoda chi frequenta canali di Chatinterrelata, o mailing list più o meno interattive,l’esperienza del cyberspace lascia forse molti piùsegni e scissioni di una letteratura importantissima,ma che probabilmente si sta assestando all’internodel codice che avrebbe voluto evitare: il genere.

Non resta che tracciarne un percorso(anti)storico, sicuramente personale e arbitrario,per potersi muovere nei codici della finzioneletteraria e cinematografica di un’estetica giuntaad un livello di forte riconoscibilità.

PERSONALITY CRISIS: LA NARRATIVA DI PAT CARDIGAN

Se da un punto di vista storico può sembrarearbitrario introdurre un viaggio attraverso i piccolie grandi varchi della cybercultura servendosi diPat Cadigan, è altrettanto corretto localizzare nella

scrittrice Americana il punto dimaggior libertà nel riconfigurarecontinuamente concetti e idee leg-ate al Cyberpunk.

Questo perché, rispetto aWilliam Gibson, i giochi su identità,genere (letterario e sessuale pocoimporta, o forse molto) sonoaffrontati dall’autrice di“Mindplayers” con delle strategielinguistiche che allargano i confiniormai standardizzati delle varie Ar-tificial Reality.

Difficile e impossibile aprire uncapitolo sull’influenza dei vari Wom-en’s studies (studi delle donne, oneofemminismo, in una traduzioneveloce e “volgare”) nell’opera dellaCadigan, più facile identificare neisuoi romanzi una capacitàsorprendente nello slittare il

rapporto tra varie soggettive con un procedimentoche non è semplicemente un gioco virtuoso ovirtuale, ma con l’intento di mettere continuamentein crisi la configurazione delle identità femminile-maschile del lettore.

“Mindplayers”, il suo primo romanzo,pubblicato nel 1987 dopo una lunga serie di shortstories, affronta la Rete senza la tentazione diricorrere a matrici, scenari tecnologiciimmediatamente riconoscibili o stati di apparenteNirvana; riassumere gli scambi e i giochi di ruolo

…ma il cinema possiamo immaginare diavvicinarlo anche tramite altre operazioni:quella che ci è più prossima, in quantoredazione di una rivista nata come “rivista diracconti e disegni”, è l’operazione dellascrittura… non sarà un lavoro di traduzione,non lo crediamo possibile, sarà un’evocazione,un racconto autonomo, letterario, nato daltragitto che ogni proiezione, morendo, halasciato sedimentare su noi… germoglierannoopere da altre opere…

CASABLANCACASABLANCACASABLANCACASABLANCACASABLANCA«Apprezzi il canto?»«Non ho mai mandato a memoria un motivetto.»«Che esagerazione!»«Sì, è una vera e propria provocazione.»«Alla musica?»«Sì, alla musica, un’incondizionata provocazione alla musica.»«E pensare che hai dei modi così armoniosi.»«Non me lo aveva mai detto nessuno.»«Attendevi che venissi a dirtelo io?»«No. Qualcuno prima o poi me lo avrebbe detto, si diconotante cose.»

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del team di psicanalisti (Mindplayers) connessidirettamente ai loro pazienti tramite il nervo ottico,è impossibile e ridurrebbe l’impatto visionario diquesto romanzo. E se giocare con le ossessioni ele psicosi è il centro del primo sforzo completodella Cadigan, le tappe successive reinventanopersino il concetto di spazio virtuale condiviso.

“Synners”, secondo capitolo di questa tracciaanalitica sull’identità, amplia il concetto di retepartendo dall’idea di Mindplayers: veri e proprisintetizzatori umani, capaci di catturare leossessioni di più utenti connessi e di confezionarlecome se fossero un pacchetto vendibile, fruibileda persone diverse, che non hanno vissutodirettamente gli incubi pazientemente sintetizzatida questi hacker di attacchi di panico. La Cardi-gan, in questo modo, si orienta su un territorioapparentemente meno tecnologico eindubbiamente più visionario, soprattutto seconfrontato con l’introduzione massiccia diinformatica per grafici o smanettatori divideogames, presente in buona parte dellaproduzione di genere attuale. E’ un segno evidenteche Gibson, in “Neuromante” (suo primoromanzo), introduca non-luoghi complessi qualila senso-rete, la matrice o altro, e Pat inMindplayers utilizzi locations immaginarietradizionali come una piscina (the pool),dimensione assolutamente virtuale e potente perscatenare uno scambio interattivo tra infinite realtàmentali.

“Fools”, terzo romanzo pubblicato nel 1992,un anno dopo l’uscita di Synners, e non ancoratradotto in Italia, è un passo ulteriore verso ilcommercio delle identità e lo scambio dei generi.Le più recenti produzioni di David Cronenberg ,“Existenz” e “Spider” , sembrano la citazionecinematografica più aderente a questa realtà difollia, soprattutto nell’approccio rizomorfico e

‘nero’ (sia nel senso di Noir che in quello diumorismo). Lo slittamento continuo di senso e diinterpretazione è il gioco attivo a cui Pat Cadigansottopone il lettore; “Tea from an empty cup”, ul-timo capitolo a tutt’oggi prodotto dalla fantasia diPat Cadigan, è ormai datato 1998 e ancora ineditonel nostro paese. L’identità in crisi in questo casoè rappresentata dall’idea di un’intera nazione, ilGiappone. Quello “vero” distrutto da unviolentissimo terremoto, in modo da causare unasorta di neo Shoà della sua popolazione; e quello“virtuale”, ologramma del vecchio Giappone,accessibile solo attraverso un livello segreto direaltà; a conferma del fatto che il virtuale non habisogno di utilizzare tecniche di morphing letterarioper manifestarsi in tutta la sua possibilità.

WILLIAM GIBSON: NARRATIVA E SIMULACRI

Impossibile scrivere dei maestri, o ancora piùsemplicemente difficile localizzarli nella societàdello spettacolo. Codificatore di una serie di ter-mini chiave, lo scrittore di Myrtle Beach si trova aconfrontarsi con la fusione di generi e linguaggidesunti o modificati. Prima del 1984 (riferimentosuggestivo e chiave distopica per una narrativapassata/futura), data di pubblicazione del ‘culto’“Neuromante”, cos’era il Cyberspace?

O sarebbe più efficace dire: l’esperienza di unospazio fittizio, sperimentato attraversoun’allucinazione collettiva e consensuale, avevagià le sue forme di realizzazione nell’esperienzatecnologica, seppur embrionale, delle primeconfigurazioni di una rete delle reti, o Gibson si ètrovato a preconizzare una realtà che avrebbemodificato i confini di corpo e identità in un modomeno spettacolare ma più radicale dell’universodescritto nei suoi romanzi?

Nel 1981 William Gibson scrive “Il continuumdi Gernsback”, dove un fotografo attratto da

«Eppure a vedere come ti muovi mentre parli e comeparli mentre cammini e queste due cose assieme sono frale più delicate che si possano osservare. Sembra quasiche tu canti.»«E’ una questione di sensibilità. »«Tu comprendi le cose che ti si vorrebbero nascondere.»«Lo so. Alla lunga diventa una croce.»«Diventa un tormento anche parlarti. Sembra che nienteti meravigli...»«Molti la pensano così: ogni volta che me lo vengono araccontare mi stupisco…»«Vuoi che te lo ripeta ancora?»

FESTENFESTENFESTENFESTENFESTENPapà e mamma andavano a teatro quella sera. La miasorellina mi attendeva in fondo al corridoio davantial bagno. Appena papà e mamma uscirono noientrammo dentro. Avevamo allentato il rubinetto tregiorni prima: una piccola e manifesta perdita di cuinessuno sembrò accorgersi.

La vasca era appena riscaldata e con tanta diquell’acqua che quasi non toccavamo.

Ci siamo lavati e carezzati fino a tarda notte, ma

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soggetti bizzarri comincia a impressionare gliinterstizi degli stessi oggetti fotografati, catturandorealtà alternative nascoste all’obbiettivo. Un suocollega gli rivela che questo universo parallelo altronon è che l’immaginario collettivo che separatodalla realtà empirica e fisica ha acquistatoun’autonomia propria.

L’idea di un testo e di un immagine che si faracconto autonomo, minando il concetto diidentità, sembra attraversare anche i primiesprimenti dello scrittore americano, che lungo ilpercorso di una rilettura estrema del genere neroamericano, una passione per la culturaGiapponese, una traccia obliqua e apocrifa sullaFantascienza e un uso sfacciato e di tendenza dellinguaggio informatico, approda alla creazione diun’architettura immaginaria come quella delCyberspace descritto in “Neuromante”.

Potremmo fare la lista dei debiti e dei crediti,ma sarebbe un’operazione pericolosa comecercare di convincere (uscendone incolumi) gliappassionati di Videogames e nuove tecnologie didefinizione digitale che un film come “Matrix” hauna struttura narrativa desunta dall’uso simultaneodei set tipica di molti film prodotti a Honk Kongalmeno dieci anni fa.

Eppure anche le mutazioni di Keanu Reeveshanno già una collocazione storica assolutamente

Alcune indicazioni di reperibilità:1) “Strange Illusion” (Edgar G. Ulmer, Usa 1945. DVD Region 1 reperibile presso amazon.com)2) “Matrix” (saga) (Wachowski Bros, Usa 1999-2003)3) Tsukamoto Shinja - Filmografia sintetica di riferimento:

· “Tetsuo” (Tsukamoto Shinja, Jap 1988 – Vhs Rarovideo - rarovideo.com )· “Tetsuo II: The body hammer (Tsukamoto Shinja, Jap 1992, Vhs Rarovideo - rarovideo.com)· “Tokyo Fist” (Tsukamoto Shinja, Jap 1995, Vhs Rarovideo, rarovideo.com)·“Ichi The Killer” (Miike Takashi, Jap 2001 – DVD Region 2 reperibile presso play.com)

inattaccabile, per lo meno dal punto di vista dellagerarchia di comunicazione e linguaggio comesistema di influenze e risonanze.

Gibson stesso è vittima di “saccheggi” più omeno interessanti. Tra gli adattamenticinematografici più suggestivi presi in prestito dallasua produzione, “New Rose Hotel” di AbelFerrara da un punto di vista estetico è il piùtecnologicamente vicino agli anni ’70, nel suo usodi solarizzazioni, effetti monodimensionali edemulsioni forzate, ma è anche il piu’ avanzato(anche rispetto al racconto originale) nel giocaresugli slittamenti di identità, lavorandosemplicemente e allo stesso tempo in modocomplessissimo, sui corpi maschio/femmina.Ma, facendo un salto indietro alle origini deputatedell’invenzione della cultura Cyberpunk,”Neuromante”, il romanzo di Gibson che hadirezionato il mercato della nuova Fantascienza,spiega la sua genesi tra le sue stesse pagine:“Neuromante... Il sentiero che porta alla terra deimorti...Neuro dai nervi, i sentieri dorati, enegromante. Io evoco i morti.”

La traccia di un sistema nervoso traumatizzatocostruttore di morti, di simulacri, di immagini eculture prese in prestito, archeologia di unanarrativa già percorsa, rinnovata e lucidata per laX-generation.

quando papà e mamma tornarono noi eravamo nel loroletto abbracciati, la punta del mio naso poggiata sullabocca di mia sorella, quella del suo a scaldarmi lesopracciglia, i corpi in silenzio, ancora un poco bagnati enudi. Costretti ad altri materassi, papà al mio, mammasu quello della mia sorellina, non riuscirono a prendersonno. Il giorno dopo avevano tremendi ed assordantiaccessi di emicrania, ma finsero di aver ben riposato.Questo bigliettino azzurro l’ho lasciato nella vasca a

galleggiare, poi si è appesantito ed è corso sul fondo.Il giorno in cui papà ha tolto la catenella del tappo èsceso nelle tubature che era stinto e macero.

Io ero abbastanza grande da averlo dimenticato.

Ai margini dell’azionedi Dario Honnorat

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Non ricordo se ero stato invitato o no a questafesta, certo non era una vera festa, più una sera-ta, una trentina di persone, cose che accadonocosì, un po’ di gente si telefona – venite pure, lacasa di Marianna è grande –. Si stava in una salacon un grosso tavolo di legno scuro che non do-veva essere molto alto visto che ero seduto a terratra le gambe di un amico che mi faceva da schie-nale. Il fatto che quest’amico fosse un collega eramolto confortante, la cosa aiutava a farmi inqua-drare subito per quello che ero da chi non miconosceva e dava alla mia presenza tutta l’indiffe-renza di cui avevo bisogno per ambientarmi esentirmi a mio agio.

Dunque ci accalcavamo intorno a questo tavo-lo, da un lato ammassati a sedere a terra, dall’altroin piedi, più sciolti e sfuggenti: c’era un amico delmio collega, magro e basso con gli occhi azzurri apalla che si era vestito in camicia, giacca e pan-taloncini corti – tutta roba molto colorata – ed eraaccompagnato da altri due compagnoni altrettan-to variopinti – questi tre credo venissero da unmatrimonio – c’era il gruppetto delle poetesse, lapoltrona dei barbuti col sigaro, la coppiad’ingegneri ben rasati, il piccolo bivacco dei pit-tori – coperti di schizzi di colore – c’era ilcapannello degli architetti che bevevano sangriae discutevano di speculazioni edilizie, l’angolo degliocchialuti, io e il mio collega e altri. Tutti ordinatiper categorie.

Seguendo geometrie precise che lì per lì mi sfug-girono, i gruppetti interagivano compatti e simuovevano e cambiavano sede, finché successeche rimasi solo col collega, il che era completa-mente assurdo perché tutti sanno che coi colleghisi parla di lavoro e che alle feste non si parla dilavoro. Accorgendoci di questo paradosso, legger-mente imbarazzati, accorgendoci reciprocamentedel fatto che ce ne fossimo entrambi accorti, sen-za dir parola ce ne andammo in direzioni opposte.

A quel punto scoprii che la casa di Mariannaera decisamente enorme, tanto che quella trenti-

na di persone probabilmente vi si era sparpagliataoppure era ancora raggruppata in poche stanze,ma vai a sapere dove. Presi un corridoio, evitai disalire per una scala verso l’alto – farlo avrebberappresentato, non so perché, l’abbandono di ognisperanza di ritrovare il centro dell’azione – infilaila porta di una stanza con le pareti coperte di librifino al soffitto, resistetti alla tentazione di vederedi che libri si trattasse – non volevo certo esserequello che se ne sta in un angolo a leggere mentregli altri si divertono – uscii dall’altra parte in unnuovo corridoio o in una nuova stanza. Diventavasempre più difficile essere disinvolti, l’idea di in-contrare qualcuno, magari uno sconosciuto,cominciava a darmi fastidio, cominciavo a sentireil bisogno di giustificare la mia presenza, senzacontare che non sapevo se ero stato invitato o no.

Ormai non sarei riuscito a tornare fino alla pri-ma stanza o a raggiungere l’uscita e andarmene:mi trovavo davanti ad una scala e stava scenden-do Marianna. Compresi che quella Marianna nonera la Marianna padrona di casa, ma un’altraMarianna, omonima. Le dissi qualcosa come:

– Ehilà, questa casa è così grande che devoessermi perso, è strano, sai dove posso trovare unpo’ di gente? –

E lei non rispose alla mia domanda ma, moltoallegra, scese dalla scala come sciando sul bordoliscio e inclinato accanto agli scalini – si divertivaa far fischiare le suole di gomma – e mi invitò asalire e scendere allo stesso modo. Marianna erapiacevole e carina ed era bello stare lì appartatinelle zone nascoste e male illuminate della casa afare giochi ingenui, camminare col taglio del piedelungo le linee delle mattonelle facendo a gara achi arrivava primo o girare un angolo e appostarsipronti a gettare un urlo per farci paura. Mi lasciaiguidare divertendomi ad esplorare quell’atmosferasospesa, in penombra, a volte interrotta da unagrande finestra che faceva irrompere tutta la luna,tutta la notte e le sue nuvole.

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Con un rapido scatto del corpo edell’immaginazione la bella Marianna si lanciavaridendo in una direzione con i seni che le balla-vano sul petto, ma tuttavia agile, si infilava in unaporticina a quattro zampe e io la seguivo in quelpercorso a ostacoli. E con un simile guizzo, cheera anche un guizzo della memoria, prese a salirein fretta le scale chiamando Sara, come se si fossericordata che in una stanza c’era Sara ad aspetta-rla. Credetti – e avevo ragione di crederlo, comeverificai poco dopo – che Sara fosse una Sara cheio conosco di vista, la Sarina, così seguii la stradache aveva percorso la mia guida un momento pri-ma, abbandonandomi. Addirittura aveva lasciatosbattere la porta dietro di sé.

Per un attimo ero nuovamente solo, e di frontealla porta chiusa l’imbarazzo di non essere nelposto giusto, di essere o poter essere inopportunomi prese nuovamente, ma, non sapendo che altrofare, girai la maniglia – c’era appesa una cordicel-la rossa, ciondolante – ed entrai.

In fondo alla stanza – scura, profonda, senzamobilio e col soffitto bassissimo – le due ragazzestavano in piedi, lontane più di un metro e voltatein due direzioni diverse: facevano una specie diangolo con i loro sguardi che si incrociavano nel

vuoto. Stavano in silenzio, probabilmente avevanosmesso di parlare proprio perché ero entrato io adar fastidio. Comunque, avvicinandomi, salutai laSarina che ricambiò il saluto con un tono di vocemolto rassicurante e leggero, intanto le andavoincontro per darle un bacio sulla guancia, comefacevamo sempre. Ci misi un po’ a colmare la dis-tanza e l’idea di adempire con tanta caparbietà alrito di quel piccolo contatto fisico con una ragaz-za che appena conoscevo mi parve pessima, ma aquel punto non potevo certo fermarmi in mezzo aquella stanza lugubre e buia, nemmeno potevotornare indietro, né avvicinarmi e stare zitto e im-mobile nel silenzio. Ancora non arrivavo e alloradissi – vengo a darti il bacino – e lei sembrò trem-are un poco, poi le fui davanti e mi piegai perpoggiarle le labbra sulla guancia e lei si ritrasse, –un bacio sulla guancia per salutarti – ripetei im-barazzatissimo e in quel momento, avvicinando lafaccia alla sua, mi accorsi che era livida e san-guinante.

Non la baciai, non seppi dir niente.Appoggiata al muro nero – di fianco alla nostra

scena – Marianna scoppiò in singhiozzi.

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Arti Visive

“Mostro” ha da sempre ospitato immagini: in copertina, unite ad un testo o per illustrare lo spazio dedicato airacconti. Da questo numero però nasce una rubrica rivoltaesclusivamente all’ arte visiva, in cui il testo avrà soltantoil silenzioso ruolo dell’ ubbidiente aiutante.Auspichiamo comunque una sua rivincita sul sitointernet, dove lo spazio non ha limiti, e dunque potrannonascere discussioni e dibattiti sia sugli artisti presentatiche su argomenti più generali. Qua sulla rivista cartaceala rubrica avrà - almeno per ora - la semplice forma diuna proposta di autori di cui pubblicheremo alcune operee delle brevi indicazioni per chi voglia approfondirne laconoscenza.Apriamo questo spazio con l’arte digitale, un difficilecampo parzialmente emerso di cui sembra che spesso lacritica ufficiale preferisca celebrare i giocattoli rispettoalle vere opere, certo troppo pericolose per un rilassanteparco giochi dell’Arte. Ma non sarà recriminando chesvezzeremo la neonata rubrica: consapevoli che lemigliori eccezioni alle regole sono le eccezioni alleregole stupide, apriremo con i lavori di AlessandroBavari, uno tra i migliori artisti italiani nel settore,giustamente riconosciuto anche all’estero e a nostroparere piacevolissima eccezione a questa triste regola.Trovate le opere di Alessandro Bavari a:www.alessandrobavari.com.Per approfondimenti: www.inventati.org/mostro.

opere di Alessandro Bavari

‘Città di Sodoma’, 2000

‘Ritratto di Bera, Re di Sodoma,’ 2000

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Arti Visive

Una decina di fotografie della serie “Sodoma e Gomorra” saranno esposte nella Galleria d’arte contemporaneaArtealcontrario, Via Carteria n.60-60/a - Modena. L’inaugurazione dell’esposizione avrà luogo Sabato 4 ottobre2003, dalle ore 18 alle 21. La mostra durerà fino al 22 Novembre. (Orari: dal Martedì al Sabato: 10/13 - 16/19:30Orari e giorni diversi su appuntamento, tel.: (+39) 059217898, fax: (+39) 0594399844, e-mail:[email protected], web : www.artealcontrario.com)

‘Decostruzione di un Eroe e ricostruzione dell'Uomo’, 2001

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Enciclopedia Asistematica del Tutto - PARTE IV

di Gregorio Magini

L’unica Legge perfetta è quella che non contem-

pla (non ammette) delitto. Essa promulga l’Ordi-

ne e s’identifica perciò col Peccato Originale (l’ul-

timo delitto).

***

Noi andiamo per la terra come portando la scato-

la della verità: alcuni, sinceramente convinti, ne

spacciano il contenuto, che nessuno, forse nem-

meno loro, ha mai visto, per gioielli. Questo va a

disonore del loro intendimento. Altri si stupisco-

no una volta per tutte di non essere periti all’istante

nel caos universale che procedette dall’apertura

della scatola. Di questo stupore fanno una ban-

diera di timido orgoglio: a meno d’un suicidio,

andranno come esempi dell’impossibilità del mon-

do, forti della speranza e del ridicolo di questo

pensiero: «Eppure un ordine, da qualche parte,

deve esistere. E se anche non c’è è imperativo

crearlo, anche limitato, anche rosicchiato, anche

mutilato, ma tale, perdio, che non sia vana ogni

legge.»

***

Ogni volta che ripeti un’azione (ciò è a dire:

commetti nuovamente lo stesso delitto, ricordi di

aver già spento la luce, ti convinci che ciò che

percepisci è reale, rivedi Tempi M oderni) ti pare

di aver aggiunto meno alla realtà che quando fai

qualcosa, in qualche modo, di nuovo. Domandarsi

se esistano diverse quantità del reale è una

ripetizione comune. Da questo, è meno comune

dedurre che ogni domanda presuppone una

ripetizione; ed è praticamente inusitato considerare

la realtà come funzione inversa delle quantità di

domande che ci poniamo. M a ti lascio il tempo di

rileggere.

***

Certamente è possibile descrivere la speranza

come un arco (con un tocco di colore, potremmo

dirla addirittura arcobaleno – dove “colore” è

inteso nel senso figurato di “decorazione di

carattere giocoso ma familiare e confortevole”).

La vergogna invece somiglia più a un precipitare

d’iperboli, con, per x = 0, y tendente a - 8 da

sinistra e da destra, la curva goffamente rivolta

verso l’alto.

***

Non vedemmo che la luce.

***

Il banditore decantava i pregi di oggetti ben strani.

Nessuno ne aveva mai visti di consimili; non se

ne poteva immaginare l’uso, o tantomeno

decretare l’inutilità. U no di questi, l’unico che

ricordi con precisione, era una membrana

circolare, di colore nero, ripiegata attorno al suo

centro come l’anamorfosi dell’ala di un pipistrello.

Il centro era attraversato da un foro, da cui passava

un legno vagamente appuntito (o svogliatamente

smussato, non si capiva) da un lato, ricurvo

dall’altro. U n’armatura metallica sosteneva la

membrana e la teneva tesa. Acquistai l’oggetto per

trenta scellini, ma tornato a casa mi accorsi con

stizza di averlo dimenticato sul tram.

***

Ci sono, tra gli altri, due modi opposti di scrivere:

si può cercare di dare bellezza alla realtà, come si

affresca una parete, intessendo in architetture

inusitate parole ed espressioni comuni, confidan-

do nelle innumerevoli permutazioni consentite

dalla raffinatissima sfaccettatura di ciò che rende

possibile la comunicazione; oppure si può cerca-

re la realtà nella propria silenziosa, gorgogliante,

intimità, costruendo tessuti di rimandi tra cose,

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forme, essenze sconosciute, a sé come agli altri,sperando che il senso nasca da questo intreccio difantasmi ribollenti, fidando che l’incanto del nuo-vo linguaggio sia in sé tale da sembrare, come lelingue tradizionali, reale, ed emerga finalmente labellezza come una balena dal profondo.

***

Un pavone passeggiava per sentieri di ciottoli. Unafarfalla si impigliò nella sua ampia ruota. Il pavonenon se ne accorse e proseguì la sua passeggiata.Giunse di presso a una vasca di acqua muschiosain cui nuotavano pesci rossi. Inciampòdistrattamente e cadde in acqua. Così la farfallamorì.

***

Se la natura non accetterà il nostro ordine saremocostretti a farle violenza. Ci macchieremo certodi un crimine, ma la nostra innocenza deve cessa-re ad ogni costo, il peccato originale, una buonavolta, deve essere commesso. L’insensata deva-stazione deve cedere il passo a una metodica tor-tura.

***

In periferia diventa difficile esprimere i proprisentimenti, non possiamo negarcelo, tant’è chespesso le prostitute vengono stuprate. In centro èmolto più facile, così ci si limita a sputare in facciaai loro presunti consanguinei.

***

Ero sulla collina, sottovento per fortuna,pietrificato dall’orrore udii e vidi: gli ululati dei lupimannari, un branco di dodici o quattordici bestie,le donne svenire quando si seppero perdute, ipianti dei neonati, altro non riesco a dire, a cheservirebbe?

***

Si immaginava spesso libero. Si vedeva passeggia-re dando il braccio alla madre, ossequiando concenni del cappello vicini e conoscenti, sorridendoe stringendo gli occhi per il gran caldo, quello stes-so caldo che anni prima l’aveva costretto là den-tro, finalmente sopportabile nell’immaginazione,la mia nemesi, diventare godimento, da distruttoa distruttore, se solo potessi riandare con le manigiunte sul tuo collo, maledetta troia, e strappartiquella testa di cagna che pensò più al panettiere,al parroco e al barbiere che a me, mia calda ma-dre, lurida fica.

***

Jean e Claude furono amici tanti anni. Nonparlarono neanche una volta del loro rapporto conla Francia in quanto Nazione e Patria. Tuttavia ungiorno, al bistrot, quasi sfiorarono l’argomento:scacciando tranquillamente col piede un piccione,Jean indicò un titolo del giornale: MADREBESTIALE ABBANDONA IL FIGLIO PERCHÉALBINO. Claude commentò con discreto inter-esse: «Pensa se ti nascesse un figlio nero.» «Intendinegro?» fraintese Jean. «No, no, intendo con lefattezze di un bianco, solo tutto nero, come questacozza,» rispose Claude, e pedantemente mostròun guscio di cozza all’amico: «tutto così, compresi

‘Into the Labyrinth’ di Stefania Pinsone

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gli occhi e le unghie». «Mah,» rispose Jean,«purché faccia il suo dovere». « Concordo,»concluse Claude.

***

Dopo tre giorni, l’impiccato prese ad agitarsi. Fi-nalmente riuscì a sollevarsi abbracciando il tron-co con le gambe. Dopo una complicata contorsio-ne, fu in grado di mettersi a cavalcioni sul ramo,trai fiori lilla. Slegò la corda e così fu in grado disciogliersi il cappio dal collo. Corse ridendo giùdalla collina, spogliandosi, infine buttandosi inacqua, schizzando iridescenze sopra e intorno,obliando nella gioia la solitudine.

***

Guardò la finestra, questa divenne prima opaca,poi aprì su un paesaggio sottomarino. Si lasciòcadere e il pavimento si gonfiò all’istante peraccoglierlo, modellandosi morbidamente. Pensò auna musica leggera che subito si diffuse perl’appartamento, modulandosi come un animale.Un carrello che reggeva un cocktail ghiacciato glisi avvicinò rispettosamente e si mise in attesa. Lasfera geolografica gli mostrò con delicatezza unabreve serie di soddisfazioni. «Sempre la stessaroba,» pensò.

***

Giuro che se mi abbandoni farò in modo che tudebba implorarmi con gran copia di lacrime la li-berazione del tuo futuro amante, al che ti rispon-derò ridendo che non solo ho buttato via la chia-ve della sua cella, ma che non mi ricordo nean-che la segreta in cui lo feci rinchiudere. Seguiràun silenzio imbarazzato.

***

Cercò per anni la linea perfetta che descrivesse ilseno di lei. Provò molte tecniche, chiese molti

consigli, intraprese molte ricerche: disegnò coralli,nuvole, colline, pesche, cipressi, ombrelli,impiccati, melodie, scoppi d’ira. Infine pensò chele disperate correzioni, le incertezze del tratto,erano come l’incedere del tempo, l’avvizzimentodi quel seno, e smise di disegnare. Quando lei loincolpò della propria vecchiaia, lui non poté darletorto.

***

Ogni opera enciclopedica contiene articoli che noncontribuiscono affatto ad arricchire l’insieme del-le conoscenze ivi raccolte, ma sono necessari persoddisfare i criteri scelti dagli autori per organiz-zarla. Meta-articoli, insomma, articoli strutturali,fughe nell’assurdo.

***

O il Nuovo Ordine sorgerà come il Sole dal Mare,tutto insieme, oppure lo edificheremo come il Tem-pio, Pietra per Pietra. Nel primo Caso nessunaAurora sarà mai nostra (l’aspetteremo immobili),nel secondo Caso l’Edificio crollerà.

Poesia

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La poesia è sempre stata in Mostro e per i suoi redattori un ambito oscuro: difficile trovare gli strumenti peranalizzarne la complessità ed il forte e condensato aspetto emotivo, impossibile usare quegli stessi strumenti diapproccio alla narrativa su di un testo poetico. Poco individuabile nelle sue altezze, ci è sempre apparso difficilemotivare con nuove ed aderenti formule d’analisi le espressioni poetiche più alte; troppo frequenti le poesie didubbio e improvvisato stile ci è sempre sembrato naturale sospendere il discorso. Per questo la rubrica che oggiinauguriamo cercherà di essere tanto un luogo di “presentazione” quanto, soprattutto, l’apertura ad un pianoimmaginario di approfondimento che andrà ad articolare un vasto settore del sito. Lo spazio cartaceo che cipossiamo permettere è poco ed in questa sede, per ora, ci limiteremo a ospitare testi, preferibilmente inediti, dinuovi (o vecchi) autori.L’invito è quello di vedere questo luogo come il passaggio verso una discussione più ampia che dal testospecifico passi al generale alimentando così un dibattito continuamente vivo attraverso le voci che vorrannoparteciparvi. Nel presentare le prime quattro poesie ed i primi autori invitiamo tutti coloro fossero interessatia un’eventuale pubblicazione o ad arricchire in altro modo queste due pagine a inviarci il loro materiale.([email protected]) .

“CUPA BIANCA… ”

Cupa biancaPersona snellaHai troppi capelli e troppi pensieri

[pubbliciTi aggrappi al fiato di angeli suicidiIn un calvario di impotenza e maestosa

[voluttàCercando il buio di crateri vulcanici dove

[far esplodere l’ansia di ricordareRicordareRicordareRicordareMa non c’è più nulla da temere dai

[ricordiPerché non c’è più nulla da calcolareMi getto esausta ai piedi dell’innocenzaErano belle le sue ceneri, l’altra sera.Bianche.

POESIA

La corda delle carrucolee quella delle scarpela corda spessa brevedi ferro e di setaquella mortae di serpente.La corda solaquella delle navila corda freddamutala corda dei tendini

e poi la retese non la rete dei pesciquella dei lettila rete quadratache impiglia i tuoi occhila linea stessadella mia mano.

GIULIO BOGANI

Nato nel 1983 a Firenze, dove vive. Studente alliceo Machiavelli, un suo testo è apparso sullarivista “Semicerchio”.

MARGHERITA BERTOLI

In crisi d’alta quotadisamore mi vorresti unasempre zucchero e albume a neveleggera, e aperta anche di notte,il cancello inutile di un cimitero senza visitedove, a riposare dall’odiosenza testimoni buttartisenza antenati a chiedertisenza parenti a trovarti.E alludi a una donna che ho vistotrionfante convinta di essere primae mentre ne parli la vedopiantarsi le stelle negli occhiquante più riesce a fargliene stareperché mentre guarda vuol farsi guardare;e sbrodolare un sorriso spiasimile al fiorire di una muffa, all’oscuro.

Eremo estremoisola durala mia spalla ha setenon esce a cercarti.Ti aspetto nel tempo che darà torto a

[entrambia pubblico arreso e sala deserta,faccia a faccia di fulmini e pioggia.

BUONA NOTTE

Notte dalla dolce vita:un letto fra le gambeed un cuscino dietro allo sguardo.Mi cingo da solaadesso che hanno dato poco piùdi un mese al mio senoprima che si ritiri su se stesso.Un anno appena a questi capelliche mi lasceranno glabrada ogni pensiero.Poco dopo le ossachiederanno di usciredai muscoli a ventosa.

ESSERE

Mi piacerebbescrivere da uomo,da uomo magro.Buttare giù credenze costruite,e con un nome d’arte fingermimaschio.Essere un cavallosconosciuto e indomabile.

ARANCIA N.Ha ventisei anni e vive nella città delle ceramiche,delle porcilaie e dei kiwi. L’unico movimento incui si riconosce totalmente è quello degliSlandroni, persone pigre, approssimative edisordinate, ma anche accomodanti e socievoli,che non concludono quasi mai niente. Amatroppe cose.

LISA MASSEI

24 anni, livornese, ha pubblicato alcune raccolteautoprodotte di poesie e racconti, collaborandoanche con altri scrittori e disegnatori. Ha appenafinito di scrivere il suo primo romanzo “Insomnia”ed è alla ricerca di una casa editrice perpubblicarlo.

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Poesia

… DALLO SPECCHIO DENTRO LA CARNE

25 novembre, casa dell’amore

sì! così! … sbattimi! – con te ho imparato a – [sì! –

negare – me – tutto me stesso – trovandonuove movenze, la curiosità di sempreormai inattesa, l’incoscienza priva dialcuna

[difesa –il piacere fatto finalmente – così! – mio;e mi piace imparare ad amare te – ancora! –giorno dopo giorno – non posso negarmi – te –

mi guardavi in principio dallo specchio –baciavi, abbracciavi carne, e mi guardavi –ti sentivo davvero – mio – soltantoattraverso rifrazioni riflessi angoli –mi hai costretto ad amare la tua durezza,a fiaccarmi la schiena sbattendole contro –

io – ti venivo vicino, bevevol’umore, il tuo sudore – di te – m’impazzivae smanie iniettava nella carneil sorriso asperso in gettate di malizia –

[rannicchiatoal tuo fianco m’accoccolavo per coglieretutto il calore possibile, per serbarlo –vestale ex voto ansiosa di fartene dono;

ma doveva arrivare, come un calcio –d’un’imago fra le dita l’evanescenza –l’imposizione della tua autonomia:l’ho subìto, l’ho preso, ne ho fatto altrocalore per calmare il tuo freddo costante –e nel fondo del tuo sguardo mi specchio:

mi hai scopata davanti a uno specchio,e nello specchio – stavo dentro – mi guardavi –menavo colpi furiosi e tu lentasvanivi – una mano, l’altra arabeschi traccia

[su una schiena,poggiata contro il muro biancastro, ti guardogli occhi pulsare fissi nei miei – gioiaimmensache si fa strazio nella mia carne più fonda –

e senza sfiorarmi te ne sei andatalasciando, fra la porta e la mano, uno

[sguardo –mi hai sbattuto – non carezze, parole –solo gemiti e dentro e colpi e stilettate –e vai via con la mia passione estorta:concedi in grazia un lancinante sorriso –

poi hai – nudo – scopato col mio specchio –metà di me e mio tutto, t’odierei se solone fossi capace – e io a te vicinissimopiù di quanto – tu – possa immaginare, sto lì,

[senza fiato,attenta a carpire – di te – ogni fremito,l’affanno, l’umido schioccare della carne –pazza! a non volermi negare nemmeno

un gemito, stupido!, il mesto frusciaredelle lenzuola subissato dal frastuonodell’amplesso parole evanescentimorsi dal letto lo stridulo scivolareil cicalare languido dei baci –immaginare le mani! – ti amo! crudele! –

poggiata la mia testa a uno stipite,in carne, – metà doppia di me, vorrei i sensiobliarne – la mia immagine riflessaesultante godi – di un dio il ridere distante,

[atroce! –e godendo la tua voce dentro mi guardavain picchiata contro le schegge d’uno specchiopiombare dal limite d’un margine.

YZU S.Nasce il 13 Agosto di un non meglio precisatoanno - da ragazzino fa il pastorello - da tredicianni vive la condizione di libero - oggi è un monaco- si autodefinisce schizopoeta, ma non sa perché.

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Ridersdi Gregorio Magini

Una vita.di Matteo Salimbeni

«Avvertimi prima di uscire.»Ma lui, la zazzera ed un largo sorriso a spasso

nel vento, uscì di gran lena e di molto soprappen-siero e non le disse nulla.

Rugiada mutò paonazza in volto quando sentìla porta sbattersi, poi echeggiare per la casa in-tera annunciandole il disastro, ma non fece intempo a rincorrerlo tanto era veloce, tanto erasoprappensiero e sordo ad ogni grido.

Riposando e sonnecchiando, ogni tanto bron-tolando lo attese sul ciglio dell’uscio fino a sera.

Soltanto all’imbrunire Giada ed il suo compag-no ebbero di che conciliarsi, issarono con bacil’armistizio della notte, stapparono a perdifiato imolti fiaschetti di vino, le fragili ampolle rosate equelle più scure – proibite – poi il tanto cham-pagne tenuto in mansarda e bevvero forte e senzaritegno ed ebbri si rotolarono sui tappeti damas-cati che lei teneva in soffitta poiché avevano inteso

quant’è stupido dannarsi l’anima per un simile, nonmolto originale, quiproquo.

Giunse il mattino e Giada uscì di soffitta tuttarossa ed eccitata.

Qualcosa, un suono un pensiero un monitoprudente, alle spalle le sfumò.

Repentina, irraggiungibile e di gran passo sigettò in strada.

I capelli, lunghi boccoli fioriti, le ondeggiavanobriosi nel ricordo della notte già trascorsa.

Qualcosa, un corteggio di suoni, delle urla sof-focate, svaporava dietro lei lungo gli orli dissennatidel tragitto.

Alfio, stremato assorto immobile sul giacigliodella porta, corse all’anta della madia da cucina ecadendo (profondissimamente) scuro in volto ac-ciuffò, immantinente presagio, il tirabusciò.

Smontarono dalle motociclette. Ridendo si eranogoduti il viaggio. Con cattiveria avevano superatoi cazzoni, sulla strada, che se ne andavano a casa.

Rumorosi, pestarono sugli stivali, si buttarononel locale.

Da bere, fanculo. Da ridere grassi e rochi. Fan-culo, ci hanno provato a tirarlo nel culo, ma eccohanno resistito e tirato qualche schianto, nessunoti viene a rompere i coglioni.

Interi e ancora vivi si urlarono che erano anco-ra vivi, si mostrano i muscoli e i tatuaggi, sui tavoli,sano legno. Dentro non si bruciava come fuori, lebottiglie cozzavano tra loro.

Un frik non sarebbe entrato lì dentro, non ciprovasse, come quello sulla strada, che voleva,un passaggio, cazzone. I frik sono froci. A forza diguardarsi nudi non gli tira più il cazzo. «La pelle,»urla uno, «gli serve un’altra pelle sopra.» Te lascoperesti una di quelle? Mi si rizza meglio con leliceali, che con quelle.

Uno salì sul tavolo. Si tirò fuori il cazzo, tenen-doselo in mano: «Guardate, penso ai fiori,» erestava moscio. Tutti ridevano e sbattevano le manie se le passavano sui bicipiti, «Una fica che se latira, con i tacchi a spillo, sulla moto me lo fa ve-nire duro,» a poco a poco il suo cazzo si ingrossò.Gli altri urlarono e fischiarono, ci versarono so-pra birra per raffreddarlo, finché non se lo rimisedentro.

Le voci erano forti, i corpi grossi e sudati, leborchie sbattevano tra loro.

Durò a lungo, ma non spaccarono il locale: c’erada partire. Se ne andarono cantando gonna kickyour ass.

Uno però, si era addormentato nel cesso. Ri-mase a dormire. Il padrone lo buttò fuori. Quasimattino. Sputò, montò sul suo mezzo e partì rom-bando. Fu un grande viaggio, il sole basso alle suespalle, la luna davanti risucchiata dall’azzurro sbi-adiva, la strada era diritta e lunga, c’era fresco.

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