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1 VINCENZO IANNI Il concorso esterno in associazione mafiosa: un alone chiaroscurale delle discipline penalistiche. « La mafia io la definirei: la speculazione che uno fa sopra la viltà di un altro allo scopo di spogliarlo delle sue sostanze sotto minaccia di morte, o d’imporgli con simile minaccia qualunque azione o omissione che torni a profitto di esso speculante. La prima origine già di tutti i mali (sempre secondo il mio modo di vedere) dell’ex- reame di Napoli, e specialmente di queste province di qua dal Faro, è l’abborrimento che si ha alle fatiche del lavoro e la conseguente avidità di procurarsi il mezzo di vivere senza esso: onde la camorra e la mafia, tendenti a spogliare il proprio simile per rivestire se stesso colla intimidazione e colla frode, purché si eviti l’abborrito lavoro. Parte questo di un abbassamento morale che ha radice da soprapposizioni di razze e da vicende politiche e sociali che ebbero principio dalla più remota antichità, e che ricordano la dominazione punica, la romana, la bizantina, la saracena, la spagnuola, ecc. Lo spirito, insomma, di soverchieria e di prepotenza, unito a quello della rapacità e dell’inerzia, sono i coefficienti della mafia » (così nel 1875 si esprimeva Guido Fortuzzi, Prefetto di Caltanissetta. Si veda il volume di MARINO, Storia della mafia, Newton Compton Editori, 2008, pp. 43-44). Indice. 1. La nuova mafia come Giano bifronte. 2. L’art. 416-bis c.p. e la figura del partecipe. 3. Il dibattito sulla configurabilità del concorso esterno in associazione mafiosa. 3.1. La tesi negazionista. 3.2. La tesi mediana. 3.3. La tesi possibilista. 4. La figura del concorrente esterno: una sostanziale valenza giuridica. 5. La contiguità “indotta”. 6. L’art. 416-ter c.p.

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VINCENZO IANNI

Il concorso esterno in associazione mafiosa: un alone chiaroscurale delle

discipline penalistiche.

« La mafia io la definirei: la speculazione che uno fa sopra la viltà di un altro allo scopo di spogliarlo delle sue sostanze sotto minaccia di morte, o d’imporgli con simile minaccia qualunque azione o omissione che torni a profitto di esso speculante. La prima origine già di tutti i mali (sempre secondo il mio modo di vedere) dell’ex-reame di Napoli, e specialmente di queste province di qua dal Faro, è l’abborrimento che si ha alle fatiche del lavoro e la conseguente avidità di procurarsi il mezzo di vivere senza esso: onde la camorra e la mafia, tendenti a spogliare il proprio simile per rivestire se stesso colla intimidazione e colla frode, purché si eviti l’abborrito lavoro. Parte questo di un abbassamento morale che ha radice da soprapposizioni di razze e da vicende politiche e sociali che ebbero principio dalla più remota antichità, e che ricordano la dominazione punica, la romana, la bizantina, la saracena, la spagnuola, ecc. Lo spirito, insomma, di soverchieria e di prepotenza, unito a quello della rapacità e dell’inerzia, sono i coefficienti della mafia » (così nel 1875 si esprimeva Guido Fortuzzi, Prefetto di Caltanissetta. Si veda il volume di MARINO, Storia della mafia, Newton Compton Editori, 2008, pp. 43-44).

Indice. 1. La nuova mafia come Giano bifronte. 2. L’art. 416-bis c.p. e la figura del partecipe. 3. Il dibattito sulla configurabilità del concorso esterno in associazione mafiosa. 3.1. La tesi negazionista. 3.2. La tesi mediana. 3.3. La tesi possibilista. 4. La figura del concorrente esterno: una sostanziale valenza giuridica. 5. La contiguità “indotta”. 6. L’art. 416-ter c.p.

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1. La nuova mafia come Giano bifronte.

La mafia storicamente nasce come fenomeno associazionistico tendenzialmente

ermetico, in quanto restio a commistioni con le altre componenti della società1.

In quest’ottica gli affiliati rappresentano una cerchia di soggetti “eletti”,

contestualizzati in una trama di rapporti sorretti dall’esclusività.

Presentemente la sistematica ricerca di cointeressenze e di complicità impone una

rimeditazione dei costrutti relazionali tipici in tema di criminalità mafiosa.

Questa revisio è imposta dal fatto che la vieta mafia rurale segna il passo in nome di

condotte sociali assai sofisticate, che le consentono in maniera silente ed efficace di

compenetrarsi nel tessuto politico, economico e sociale del Paese.

Pur mantenendo inalterate le sue connaturate caratteristiche, improntate ad una

violenta logica di dominio, la societas sceleris si evolve, divenendo capace di

rapportarsi con la società in contesti e con modalità che esulano dalle proprie arcaiche

metodologie operative.

Nell’evo moderno sovente accade che le organizzazioni criminali, disattendendo

ancestrali dogmi, per il perseguimento delle proprie finalità si avvalgono della

collaborazione di soggetti estranei al sodalizio.

Le motivazioni di tali cooperazioni possono essere dettate dal fatto che questi

“avvicinati” sono dotati di particolari competenze (anche in virtù del ruolo

istituzionale ricoperto) o, più semplicemente, perché “insospettabili”.

Può dunque trattarsi, indistintamente, di professionisti, politici, ovvero di semplice

manovalanza.

Ci si rivolge in ottica “contrattualistica” (do ut des) a questi soggetti, più che per

necessità (piuttosto che richiedere agli stessi la collaborazione, l’organizzazione

mafiosa potrebbe provvedere altrimenti o “costringere” a quella cooperazione,

facendo ricorso ai propri efficaci metodi persuasivi), per convenienza2.

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Anziché imporsi sulla società, la mafia si relaziona con essa per assumere una

facciata di “perbenismo”, che le consente di acquisire perigliose aderenze con il

tessuto “civile”, ed intriderlo pervasivamente.

Significativa a proposito di queste dinamiche è l’analisi di quella dottrina la quale

osserva che la nuova mafia denota la tendenza « a mimetizzare le proprie reali

dimensioni tra le pieghe di espressioni sociali consentite dall’ordinamento »3.

Strumentale a questa strategia di sommersione, rectius, commistione, è il ricorso a

collaborazioni esterne.

Queste fungono da silente collante tra le componenti non delinquenziali della

società ed i sodalizi criminali.

Più in particolare, siffatti contributi permettono a questi ultimi di innestarsi nel

tessuto sociale con un impatto meno eclatante, grazie ad un “cuscinetto” che

garantisce un’interfaccia insospettabile.

Da quanto detto emerge il quadro di una mafia come Giano bifronte,

inveteratamente spietata da un lato, e rispettabile, nell’accezione non distorta del

termine, dall’altro.

Questa nuova strategia operativa delle consorterie di natura mafiosa comporta il

proliferare di condotte non agevolmente inquadrabili in una puntuale normazione e,

pertanto, suscettive di interpretazioni assai opinabili, anche perché sovente viziate da

vistose pregiudiziali “sociologiche”.

In considerazione dell’emersione di queste nuove tipologie comportamentali, la

giurisprudenza ha elaborato e sviluppato una categoria penalistica di notevole

complessità, ossia la “contiguità” alla mafia.

Si tratta di un concetto i cui confini, seppure tratteggiati in diversi decisa, restano

laconici di determinatezza attesa la congerie di esiti interpretativi che essi sottendono.

Quest’ultimo stilema, paradossalmente, non è privo di utilità: si è osservato, difatti,

che ricondurre le interazioni tra mafia e società entro schemi rigidi potrebbe

ostacolare un compiuto inquadramento dell’agere mafioso4.

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Tanto premesso, in via di estrema sintesi può dirsi che il concorso esterno nel reato

di cui all’art. 416-bis c.p. riguarda la condotta di “chi appoggia la mafia non

facendone parte”.

Si tratta di un fenomeno che interessa in particolar modo il Sud Italia, come emerso

da una recente analisi i cui esiti sono stati illustrati nel corso di un convegno

internazionale tenutosi a Palermo nei giorni 29 e 30 novembre 2007, ed avente ad

oggetto il seguente tema: “Le mafie oggi in Europa: politiche penali ed extrapenali a

confronto”.

Esaminando i dati inerenti ai procedimenti per concorso esterno in associazione

mafiosa, e relativi agli anni 1991-2007, è risultato che su 7100 indagati, 6275

(l’88,3% del totale) sono riconducibili a queste Regioni: Calabria, Sicilia, Campania,

Puglia e Basilicata.

L’odierna temperie disvela che la poliedricità del fenomeno mafioso, capace di

insinuarsi in ogni contesto produttivo fonte di reddito, impone la predisposizione di

incisivi strumenti repressivi di tutte quelle condotte che gravitano intorno ad esso.

Allo stato l’eterogeneità delle ricostruzioni prospettate sul tema, rende labili ed

incerte, nella prassi, le direttrici applicative della fattispecie di concorso esterno in

associazione mafiosa.

Una problematica, questa, in relazione alla quale si registra una “collettività

giuridica” ideologicamente composita, ben lungi dal maturare una piattaforma

disquisitiva universalmente condivisa ed affrancata da proclami retorici.

La presente trattazione si prefigge lo scopo di illustrare i termini essenziali della

disputa sulla configurabilità del concorso esterno in associazione per delinquere di

stampo mafioso.

A tal fine soccorre la disamina dei più significativi decisa giurisprudenziali in

materia, in uno ai contributi della dottrina più accreditata.

Preliminarmente occorre fare luce sugli stilemi che caratterizzano la fattispecie di

cui all’art. 416-bis c.p. e definire, così, la figura del partecipe, un prius logicamente

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necessario per verificare la possibilità di individuare un autonomo spazio entro cui

innestare una cooperazione eventuale.

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2. L’art. 416-bis c.p. e la figura del partecipe.

L’art. 416-bis c.p. disciplina la fattispecie delittuosa dell’associazione di tipo

mafioso, previsione normativa impostasi per l’entità della perturbazione dell’ordine

sociale, registratasi in talune zone del Mezzogiorno d’Italia5.

La norma, introdotta dalla legge 13 settembre 1982, n. 646 (cd. legge Rognoni-La

Torre), è volta a sopperire alle difficoltà di inquadrare compiutamente il fenomeno

mafioso all’interno del reato di associazione per delinquere contemplato dall’art. 416

c.p.6

Nella relazione alla proposta di legge n. 1581 (presentata il 31 marzo 1980 dai

deputati Pio La Torre ed altri), da cui è scaturita la normativa in commento, a

proposito delle finalità perseguite con la novella si legge: « Con questa previsione si

vuole colmare una lacuna legislativa già evidenziata da giuristi e operatori del diritto,

non essendo sufficiente la previsione dell’art. 416 del codice penale (associazione per

delinquere) a comprendere tutte le realtà associative di mafia che talvolta prescindono

da un programma criminoso secondo la valenza data a questo elemento tipico dall’art.

416 del codice penale, affidando il raggiungimento degli obiettivi alla forza

intimidatrice del vincolo mafioso in quanto tale: forza intimidatrice che in Sicilia e in

Calabria raggiunge i suoi effetti anche senza concretarsi in una minaccia o in una

violenza negli elementi tipici prefigurati nel codice penale »7.

Una volta chiarito il substrato della riflessione giuridica che ha connotato la

gestazione della norma di cui all’art. 416-bis c.p., può passarsi alla disamina del dato

letterale dell’articolo, che sanziona la condotta del far parte di un’associazione di tipo

mafioso.

Il terzo comma illumina sugli stilemi che caratterizzano tale aggregato malavitoso

(formato da almeno tre elementi): « L’associazione è di tipo mafioso quando coloro

che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e

della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti,

per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di

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attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per

realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri, ovvero al fine di impedire od

ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione

di consultazioni elettorali »8.

In virtù della precisazione di cui all’ottavo comma, la previsione normativa

ricomprende anche fenomeni delinquenziali (camorra, ‘ndrangheta, sacra corona

unita e stidda) non riconducibili sotto le insegne della mafia strictu sensu intesa, ossia

di quella complessa realtà fenomenica storicamente radicata in Sicilia, nota anche con

la denominazione di “Cosa nostra”.

Una scelta, questa, volta a reprimere qualsiasi entità associativa che, a prescindere

dalle sue connotazioni sociologiche e dal suo radicamento in un dato contesto

territoriale, persegue « scopi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo

mafioso », e similarmente a queste si avvale in maniera sistematica degli strumenti

dell’intimidazione, dell’assoggettamento e dell’omertà.

Al di là del differente dato terminologico delle associazioni di cui supra, si tratta di

espressioni delinquenziali che, pur non smarrendo le peculiarità che le caratterizzano,

sembrano suscettive di reductio ad unitatem sul versante repressivo.

Il fatto che il legislatore faccia precipuo riferimento terminologico alla “mafia”

(vocabolo storicamente riferibile alle congreghe malavitose operanti in Sicilia, ed

oggi utilizzato anche per designare in generale il fenomeno delle mafie), può essere

dettato dal dato che tradizionalmente è questo il fenomeno associazionistico cui è

stata dedicata maggiore attenzione.

Ciò si traduce in una maggiore conoscenza delle dinamiche che presiedono

all’agere delle consorterie criminali mafiose.

È di tutta evidenza che siffatta circostanza risulta di ausilio per tracciare le

coordinate entro cui inquadrare associazioni similari ed approntare, così, una loro

efficace repressione sul piano normativo.

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Probabilmente, se il legislatore avesse adottato come paradigma quello

camorristico, la formulazione letterale della norma di cui all’art. 416-bis c.p. sarebbe

risultata più vaga e comunque di difficile praticabilità.

L’archetipo dei potentati mafiosi siculi ha permesso al legislatore di attingere ad

una vasta letteratura sul tema (nonché ad una significativa attività di “monitoraggio”

effettuata nel corso degli anni da parte della Magistratura e delle Forze di polizia), da

cui trarre precisi addentellati definitori, suscettivi di trovare un sufficiente grado di

conferma empirica sul piano della prassi giuridica.

Preme sottolineare un altro dato che potrebbe spiegare la scelta del legislatore: vale

a dire quello per cui solo in tempi relativamente recenti è stato possibile assimilare

alla “mafia” tradizionale (siciliana) quelle associazioni che ne ricalcano in maniera

più o meno pedissequa le fattezze, e ne mutuano la definizione.

Queste fino a qualche lustro addietro si caratterizzavano come esperienze criminali

assimilabili a fenomeni di delinquenza comune più che ad aggregati con stilemi di

“mafiosità”.

Forme di devianza situabili in uno stadio pre-mafioso, che solo una volta ingentilita

l’“arte brigantesca” hanno mutato la loro caratterizzazione di “piccolo cabotaggio”.

Benché l’origine del “comportamento mafioso” si perda nella notte dei tempi, la

predisposizione di un’organizzazione espressione di quel “sentire”, è un fenomeno

che in punto scaturigine appare ascrivibile alla mafia siciliana.

È in quest’ultima che il culto del “cumannari”, con i corollari che esso sottende, è

elevato a canone supremo di vita.

In virtù di quanto affermato può dirsi che in un certo qual modo tra la mafia

“storica” e le altre organizzazioni consimili (genericamente definite “mafie”) vi è un

rapporto contenente – contenuto, che aldilà dell’attuale livellamento resterà tangibile,

a meno di non volere incorrere in astratte e fuorvianti generalizzazioni.

Chiusa questa parentesi sulla “originarietà” della “mafia” per antonomasia (quella

siciliana), e venendo ai fini che maggiormente interessano, può dirsi che la

disposizione di cui all’art. 416-bis c.p. presuppone la stabile compenetrazione del

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partecipante nel tessuto organizzativo del sodalizio, nel cui ambito egli profonde un

impegno costante ed assiduo, se non addirittura quotidiano.

Impegno che, funzionalmente orientato all’attività dell’organizzazione, può

risultare finanche circoscritto ad un determinato settore operativo (estorsioni,

danneggiamenti, omicidi, rapine, traffico di sostanze stupefacenti, di rifiuti tossici, di

armi, contrabbando di tabacchi, riciclaggio, corse clandestine, sfruttamento della

prostituzione, usura, truffa, etc…), o concretarsi in una semplice attività di

intermediazione9 10.

Il Tribunale di Reggio Calabria in una recente pronuncia ebbe così a delineare la

figura del partecipe: « In tema di associazione di tipo mafioso, la condotta di

partecipazione è riferibile a colui che si trova in rapporto di stabile ed organica

compenetrazione con il tessuto organizzativo del sodalizio, tale da implicare, più che

uno status di appartenenza, un ruolo dinamico e funzionale, in esplicazione del quale

l’interessato « prende parte » al fenomeno associativo, rimanendo a disposizione

dell’ente per il perseguimento dei comuni fini criminosi »11.

Icastica è la definizione che si rinviene in alcuni decisa della Suprema Corte: il

partecipe « è colui senza il cui apporto quotidiano o, comunque, assiduo

l’associazione non raggiunge i suoi scopi o non li raggiunge con la dovuta speditezza

»12.

Ciò detto, al fine di fugare equivoci è bene rammentare, come rilevato dalla

giurisprudenza, che il paradigma partecipativo è configurabile anche nell’ipotesi in

cui l’operato dell’extraneus si sia estrinsecato in un arco temporale circoscritto13.

Circa i sentori dell’inserimento nell’organigramma criminoso, significativa è quella

pronuncia della Corte di cassazione in cui si legge che « sul piano della dimensione

probatoria della partecipazione rilevano tutti gli indicatori fattuali dai quali, sulla

base di attendibili regole di esperienza attinenti propriamente al fenomeno della

criminalità di stampo mafioso, possa logicamente inferirsi il nucleo essenziale della

condotta partecipativa, e cioè la stabile compenetrazione del soggetto nel tessuto

organizzativo del sodalizio. Deve dunque trattarsi di indizi gravi e precisi (tra i quali

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le prassi giurisprudenziali hanno individuato, ad esempio, i comportamenti tenuti

nelle pregresse fasi di “osservazione” e “prova”, l’affiliazione rituale, l’investitura

della qualifica di “uomo d’onore”, la commissione di delitti-scopo, oltre a

molteplici, variegati e però significativi “facta concludentia”) dai quali sia lecito

dedurre, senza alcun automatismo probatorio, la sicura dimostrazione della costante

permanenza del vincolo nonché della duratura, e sempre utilizzabile, “messa a

disposizione” della persona per ogni attività del sodalizio criminoso, con puntuale

riferimento, peraltro, allo specifico periodo temporale considerato dall’imputazione

»14.

Sulla “messa a disposizione” i Giudici di legittimità insistono anche in un altro

decisum: « In tema di associazione di tipo mafioso, la permanente disponibilità al

servizio dell’organizzazione mafiosa a porre in essere attività delittuose, anche se di

bassa manovalanza (tagli di alberi, incendi ecc.) ma pur sempre necessarie per il

perseguimento dei fini dell’organizzazione, indipendentemente dalla prova di una

formale iniziazione, rappresenta univoco sintomo di inserimento strutturale nel

sodalizio e, quindi, di vera e propria partecipazione, ad un livello pur minimale, al

sodalizio delinquenziale »15.

Ai fini del presente discorso spiega valenza anche quell’ordinanza in cui il

Tribunale di Palermo ebbe a precisare: « Il riferimento esplicito a conversazioni con

causali illecite, espressive del potere di intimidazione e di controllo delle attività

economiche, come ad esempio l’esazione del pizzo o la quantificazione del medesimo

in base a valori percentuali sui singoli affari, nonché il riferimento ad argomenti

squisitamente emblematici della solidarietà mafiosa, come quello dell’assistenza ai

detenuti, costituiscono già sicuri indici di un pieno e qualificato inserimento nel

sodalizio mafioso »16.

Indizio dell’incardinamento nella societas criminum potrà anche ricavarsi dal

prendere parte alle riunioni della stessa, in cui si pianificano le strategie operative

della compagine.

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In definitiva può affermarsi che benché solitamente vi sia una precisa liturgia di

ammissione, perché un soggetto agisca uti socius « Non occorrono atti formali o

prove particolari dell’ingresso nell’associazione, che ovviamente, a seconda delle

regole di questa, può avvenire nei modi più diversi, ed anche solo mediante

un’adesione di qualunque genere ricevuta dal capo; ma occorre che un ingresso ci

sia stato, che cioè una persona sia divenuta “parte” dell’associazione, e non è

sufficiente che con l’associazione essa sia entrata in rapporto, trovandone

giovamento o fornendo un contributo fattivo ad alcuni associati »17.

Per divenire “parte”, indipendentemente dalla cd. “punciuta”, è necessario che il

partecipe sia percepito come “affiliato” dagli altri esponenti del clan, e come tale sia

accettato18.

In una decisione degli Ermellini si legge al proposito: « l’adesione deve trovare un

riscontro da parte dell’associazione, nel senso che questa, a sua volta, deve

riconoscere la qualità di associato alla persona che ha manifestato l’adesione »19.

Per quanto concerne l’elemento soggettivo, l’agere dell’affiliato è sorretto « dal

dolo specifico, ovvero dalla cosciente volontà di partecipare a detta associazione con

il fine di realizzarne il particolare programma »20.

Assoluta centralità nella disamina della figura del partecipe riveste la cd. affectio

societatis, ossia la volontà di questi di far parte della congrega criminosa21.

E proprio questo elemento, come vedremo, è un quid che da un punto di vista

psicologico consente una vistosa differenziazione dell’accolito rispetto al concorrente

esterno22.

Una volta delineati gli stilemi definitori del partecipe, può speditamente passarsi al

vaglio della configurabilità, accanto alla figura sopra delineata, di un autonomo

spazio per il compartecipe ab externo.

È la problematica della cooperazione eventuale nei reati associativi.

Un tema, questo, intorno al quale da anni si agita una costante riflessione dottrinale

e giurisprudenziale23, che prese avvio durante l’emergenza legata al terrorismo di

matrice politica e, segnatamente, nell’ambito della fattispecie di banda armata24.

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3. Il dibattito sulla configurabilità del concorso esterno in associazione

mafiosa.

3.1. La tesi negazionista.

Per quanto concerne il tema del concorso esterno nel reato di cui all’art. 416-bis

c.p., un risalente orientamento negava la possibilità che nell’ambito di tale fattispecie

delittuosa potesse configurarsi una cooperazione eventuale25.

In primis, si osservava che a mente dell’art. 110 c.p. i concorrenti dovessero «

realizzare il medesimo reato », il che sottende una pluralità di condotte «

finalisticamente orientate verso l’evento tipico di ciascuna figura criminosa »26.

Questa univoca direzionalità implica necessariamente la coincidenza dell’elemento

psicologico nei soggetti agenti.

Secondo la corrente di pensiero in commento, la particolare tipologia di dolo

sottesa al reato associativo di cui all’art. 416-bis c.p. sarebbe ostativa ad una

partecipazione esterna.

Difatti, o si pongono in essere condotte che nel loro articolarsi pedissequamente

ricalcano la previsione normativa (ed in tal caso diviene impossibile sceverare la

figura del partecipe da quella del concorrente eventuale), o si sarà in presenza di

attività di favoreggiamento ovvero di agevolazione che, comunque, esulano dalla

fattispecie oggetto della presente disamina27.

Sul versante oggettivo si negava autonomia concettuale al concorrente ab externo,

sulla scorta del rilievo della sovrapponibilità (da un punto di vista qualitativo e

finanche quantitativo) del suo apporto con l’ausilio offerto dall’accolito28.

Fondamentalmente si è detto che la partecipazione esterna casualmente rilevante si

risolve nel fatto tipico della partecipazione punibile, non distinguendosi da questa.

Così, ad esempio, si sono espressi i Giudici di Piazza Cavour: « l’aiuto portato

all’associazione nei momenti di crisi o di fibrillazione integra, sotto il profilo

oggettivo e soggettivo, la condotta del « far parte » del sodalizio criminoso »29.

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In un’altra decisione la Suprema Corte ha osservato che il concorrente “eventuale”

« non soltanto deve realizzare una condotta […] o, quanto meno, deve contribuire

con il suo comportamento alla realizzazione della medesima, ma pur anche deve

agire con la volontaria consapevolezza che detta sua azione contribuisce

all’ulteriore realizzazione degli scopi della societas sceleris: il che, di tutta evidenza,

non differisce dagli elementi - soggettivo ed oggettivo - caratterizzanti la

“partecipazione”»30.

In altri termini, seguendo questa traiettoria interpretativa, coloro che da esterni

apportano il proprio significativo e consapevole contributo a favore del clan, solo

“formalisticamente” possono definirsi “estranei” all’associazione.

Da qui il rischio, a volere forzatamente sostenere la configurabilità della categoria

del concorrente esterno, di ritenere sussistenti tale figura e quella del partecipe a

seconda che il soggetto attenzionato, per il suo stile di vita sia riconducibile entro il

paradigma del “mafioso-tipo” ovvero del “colletto bianco-tipo”.

Venendo al tenore letterale della norma contemplata dall’art. 416-bis c.p., si è

sostenuto che la locuzione “fa parte” sarebbe eloquente del dato che la condotta

penalmente rilevante, ai sensi della predetta disposizione, è unicamente quella

partecipativa.

Partendo da questo elemento definitorio, le altre condotte che in qualche modo si

innestano nell’operato dell’organizzazione, sarebbero eventualmente riconducibili a

differenti previsioni normative (il favoreggiamento aggravato, l’assistenza agli

associati, l’aggravante di cui all’art. 7 della legge n. 203/1991, le varie forme di

istigazione).

E proprio la sussistenza di tali fattispecie, che censurano una serie di apporti esterni

all’associazione di tipo mafioso, disvelerebbe in maniera lapalissiana la superfluità

della figura del concorso eventuale, in quanto le condotte ausiliatrici ab externo

risulterebbero sufficientemente coperte da sanzionabilità31.

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A supporto di quanto detto sopra si è anche osservato che laddove il legislatore ha

inteso attribuire specifica rilevanza penale a condotte di appoggio da parte di soggetti

non incardinati nel sodalizio mafioso, lo ha fatto in maniera espressa.

Da ciò sarebbe dato ricavarsi che tutte le tipologie comportamentali esulanti dalle

previsioni normative surrichiamate, non risentirebbero della vis attrattiva delle

discipline penalistiche, e potrebbero collocarsi niente più che in uno stadio di

disvalore pregiuridico.

La suesposta soluzione sarebbe imposta dalla necessità di rispettare

quell’imprescindibile referente ordinamentale rappresentato dal principio di legalità

(con i corollari che ne derivano).

In particolare si è osservato che anche a volere superare le suesposte obiezioni, non

potrebbe misconoscersi che la punibilità del concorso esterno deriverebbe pur sempre

dalla combinazione di norme, quali quelle di cui agli artt. 110 e 416-bis c.p.,

caratterizzate da un elevato tasso di genericità, in spregio al principio di configurare

le condotte punibili con un sufficiente grado di determinatezza.

L’interazione tra le disposizioni implicherebbe il conferire una perniciosa latitudine

semantica alla condotta ausiliatrice ab externo, con il rischio parossistico di censurare

ogni comportamento che presenti semplici, per quanto ambigue, interferenze

relazionali con fenomeni delinquenziali.

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3.2. La tesi mediana.

In relazione alla cooperazione eventuale nel reato di associazione mafiosa, un

orientamento minoritario, attestandosi in una posizione intermedia, riconosceva

unicamente la configurabilità di un concorso morale.

Frequente era l’esempio di un padre, ex reggente di una cosca, che istigava il figlio

ad entrare nell’organizzazione criminosa di cui per anni ne aveva retto le redini32.

Nel caso di specie si riteneva, e abbastanza pacificamente (per lo meno in

giurisprudenza), che potessero ravvisarsi gli estremi di un concorso eventuale, in una

dimensione psicologica, del padre nel reato di cui all’art. 416-bis c.p. commesso dal

figlio.

Relativamente alla previsione contemplata dall’art. 416 c.p. si legge in una

pronuncia della Suprema Corte: « l’ipotesi concorsuale ai sensi dell’art. 110 c.p. non

trova ingresso nello schema dell’art. 416 c.p. al di là del concorso morale e

limitatamente ai soli casi di determinazione od istigazione a partecipare od a

promuovere, costituire, organizzare l’associazione per delinquere. Pertanto, una

condotta che concretamente favorisce le attività ed il perseguimento degli scopi

sociali, posta in essere da un soggetto esterno al sodalizio, non potrà essere ritenuta

condotta di partecipazione al reato associativo ove non sia accompagnata, non dalla

mera connivenza, bensì dalla coscienza e volontà di raggiungere attraverso quegli

atti, anche se di per se stessi leciti, pure i fini presi di mira dall’associazione e fatti

propri, trattandosi, in tal caso non già di concorso nel reato di associazione, bensì di

attività che realizza, perfezionandosi l’elemento soggettivo e quello oggettivo, il fatto

tipico previsto dalla norma istitutiva della fattispecie associativa »33.

In un’altra decisione del Massimo Consesso capitolino si osserva: « al di fuori

dell’ipotesi del concorso morale consistente nel determinare o, comunque, rafforzare

la volontà altrui di partecipare a un’associazione per delinquere o di promuoverla o

dirigerla od organizzarla, non è configurabile il concorso eventuale, ex art. 110 c.p.,

nell’associazione per delinquere, sia essa di tipo mafioso o non »34.

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16

Nello stesso decisum, poi, si precisa: « affinché una condotta sia ritenuta punibile a

titolo di concorso in un determinato reato, ai sensi dell’art. 110 c.p., sono necessari

un contributo causale (materiale o semplicemente morale o psichico), e il dolo

richiesti per il reato medesimo. Ne consegue che quando tali condizioni si siano

verificate in relazione al delitto di associazione per delinquere sono integrati gli

estremi della partecipazione a detta associazione; mentre, allorché le dette

condizioni non si siano verificate, il fatto potrà integrare gli estremi di altri reati

(corruzione, favoreggiamento o altro), ma non quello di concorso in associazione per

delinquere ».

In via di estrema sintesi può dirsi che fino a qualche lustro addietro l’ammissibilità

di un concorso materiale era osteggiata dal momento che in tale evenienza le condotte

dell’affiliato e del concorrente, da un punto di vista quantitativo e pur anche

qualitativo, presentavano vistosi elementi di coincidenza.

Epperò, da più parti si è osservato come non possa negligersi il dato per cui sul

piano logico un fattivo apporto alle fortune del sodalizio possa giungere anche da un

soggetto non inserito nell’organigramma della societas criminum.

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17

3.3. La tesi possibilista.

Alla luce degli approdi giurisprudenziali e dottrinali in materia, può dirsi ormai

incontroversa in giurisprudenza e pressoché unanimemente asseverata dalla dottrina,

l’astratta configurabilità, accanto al partecipe, di un autonomo spazio per il

concorrente esterno35.

L’orientamento, ormai imperante, muove dalla premessa che le due figure (del

partecipe e del concorrente esterno) siano discernibili.

In un decisum degli Ermellini si legge: « la situazione di chi entra a far parte di

una organizzazione condividendone vita e obiettivi, e quella di chi pur non entrando

a farne parte apporta dall’esterno un contributo rilevante alla sua conservazione e al

suo rafforzamento sono chiaramente distinguibili »36.

In primis, la differenziazione deriverebbe dal dato per cui il dolo del partecipe è

arricchito di quell’affectio societatis che, invece, risulta estranea alla figura del

concorrente esterno.

In secundis, si ritiene sia nulla più che un bizantinismo argomentare dalla lettera

dell’art. 110 c.p. per escludere la configurabilità della fattispecie del concorso

esterno.

Risulta ormai convincimento radicato l’ammissibilità della cooperazione di un

soggetto animato da un dolo generico in un reato che sottende un dolo specifico,

quale quello di cui all’art. 416-bis c.p.37

E ciò purchè l’agere di almeno uno dei concorrenti sia sorretto dalla finalità ulteriore

richiesta dalla norma incriminatrice di parte speciale.

A corredo motivazionale di questa ricostruzione si osserva che il disinteressarsi dei

fini specifici perseguiti dal sodalizio criminale non significa contribuire ad un reato

differente.

Sembra utile far notare che anche qualora il concorrente esterno fosse mosso

dall’intento di far perseguire all’associazione il suo programma, non per ciò solo

muterebbe la sua qualifica di “esterno”.

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È questo un profilo significativamente colto dalla storica sentenza n. 16 del 1994

della Suprema Corte38.

Nell’occasione i Giudici del Massimo Consesso hanno sostenuto che il concorrente

esterno potrebbe avere solo una parte del dolo specifico del partecipe, e cioè la

volontà di perseguire i fini propri dell’associazione, ma non anche quella di “far

parte” dell’organizzazione.

Chi scrive concorda sul fatto che il concorrente esterno possa anche essere mosso

da un dolo specifico “menomato”, ossia scevro di quell’affectio societatis che

caratterizza la figura del partecipe.

Tanto detto, uno degli argomenti sulla cui base fino ad un recente passato si

escludeva la configurabilità del concorso esterno, era quello della sostanziale

coincidenza degli apporti, da un punto di vista materiale, dell’accolito e

dell’extraneus.

Orbene, non sembra corretto sovrapporre le due condotte sulla base della

semplicistica osservazione che entrambe producono il medesimo risultato.

La partecipazione dell’intraneus è colorata, a monte, di altri connotati quali

l’ affectio societatis, la rituale iniziazione secondo le regole e la prassi del sodalizio, il

percepimento del suo ruolo all’interno dell’associazione da parte degli altri

consociati, l’accettazione da parte di questi39.

Elementi ultronei rispetto ad una condotta ausiliatrice ab externo, pur se

significativa al pari dell’attività del partecipe.

Proprio l’investitura ufficiale assume una portata dirompente in quelle pronunce in

cui si è ritenuto che la stessa affiliazione costituisce, ex se, contributo

eziologicamente rilevante nei confronti del sodalizio, atteso che l’ampliato numero

degli accoliti importa automaticamente un aumento della potenzialità lesiva della

cosca40.

Solo per il partecipe vale il dato per cui l’integrità dell’ordine pubblico è violata

dall’esistenza e dall’operatività del sodalizio, così come dal diffuso pericolo di

attuazione dei delitti-scopo in cui si articola il programma criminoso41.

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Per l’extraneus, invece, occorre il compimento di attività positive, come rilevato dai

Supremi Giudici: « Un atteggiamento di mera passività, di sopportazione della

presenza di un notissimo capo mafia latitante nella tenuta di campagna posseduta

insieme al fratello, non è sufficiente a integrare in capo all’imputato gli estremi del

concorso esterno in associazione mafiosa, poiché difettano sia l’elemento oggettivo

della compartecipazione criminosa, e cioè il concreto e fattivo apporto al

mantenimento e rafforzamento dell’associazione mafiosa, sia quello soggettivo, e

cioè una precisa volontà di agevolare l’associazione illecita nel suo complesso pur

non facendone parte »42.

Posti tali rilievi può dirsi che « Se la partecipazione è (anche) apporto potenziale, il

concorso eventuale è necessariamente contributo in atto »43.

Si è dunque in presenza di un elemento di differenziazione piuttosto significativo.

A confutare quella corrente di pensiero per cui la figura della “contiguità” sarebbe

superflua alla luce del dettato normativo, è intervenuta la Suprema Corte ritenendo

che « L’esistenza del delitto di concorso esterno in associazione mafiosa non è

esclusa dalla presenza nell’ordinamento del reato di cui all’art. 378, comma 2 c.p.

(favoreggiamento personale aggravato), che concerne solo una particolare forma di

aiuto, prestato per agevolare l’elusione delle investigazioni e la sottrazione alle

ricerche dell’autorità, né da quella del reato di cui all’art. 418 c.p., che incrimina

solo l’assistenza agli associati, né, infine, dalla previsione dell’art. 7 d.l. 13 maggio

1991 n. 152, che è circostanza relativa ai singoli reati, diversi da quello associativo

»44.

Il quadro sopra tracciato disvela prima facie che la normativa surrichiamata si situa

in una dimensione diversa rispetto a quella della cooperazione eventuale.

Il che rende quest’ultima suscettiva di autonomia concettuale, come rilevato in

alcuni decisa degli Ermellini45.

Per quanto concerne la censura di elusione del principio di tassatività, il Supremo

Consesso romano ha ritenuto che « tale principio è rispettato, quando la fattispecie

raggiunga il grado di determinatezza necessario e sufficiente a consentire di

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individuare, ad interpretazione compiuta, il tipo di fatto dalla norma disciplinato. E

il grado di determinatezza, nel caso dell’art. 416 bis, è tutto sommato raggiunto,

perché il legislatore, lungi dal limitarsi a rimandare ad un generico concetto di

consorteria mafiosa, individua condotte sufficientemente tipizzate (quelle di cui al

primo e al secondo comma della disposizione), onde la vocazione estensiva propria

della norma di cui all’art. 110 c.p. appare pur sempre ancorata a precisi riferimenti

normativi »46.

Tanto detto, chi scrive opina nel senso che non si possa limitare la sussumibilità

nell’alveo dell’art. 416-bis c.p. alle sole condotte partecipative.

Occorre dare un più ampio respiro alla norma, valorizzando tutte quelle tipologie

comportamentali che risultano funzionali all’attuazione del programma criminoso

dell’associazione.

Quella del concorrente esterno non è una “superfetazione” giurisprudenziale, bensì

la presa di coscienza che l’impianto normativo, così come predisposto, non è

sufficiente a coprire l’eterogeneità delle condotte che gravitano intorno al fenomeno

mafioso.

Da qui la necessità di sopperire a tale perigliosa vacatio, “attenzionando” quelle

condotte sul cui sfondo si stagliano equivoche aderenze alle consorterie criminali47.

Allo stato attuale della normazione, da un punto di vista tecnico la punibilità della

contiguità alla mafia è affidata alla combinazione dell’art. 110 c.p., norma generale

sul concorso di persone nel reato, con la previsione di cui all’art. 416-bis c.p.

Una soluzione, questa, che in sede applicativa genera non poche distonie,

richiedenti un significativo sforzo di mediazione da parte della Magistratura, al fine

di dare coerenza ordinamentale al composito quadro argomentativo che la figura del

concorrente esterno sottende.

Di questa attività ermeneutica si darà compiutamente conto nel successivo

paragrafo, in cui si prospetterà una panoramica della torma di opzioni interpretative

che la riflessione sul tema involge.

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4. La figura del concorrente esterno: una sostanziale valenza giuridica.

La fattispecie del concorso esterno nel reato di cui all’art. 416-bis c.p. si configura

quando un soggetto, non inserito stabilmente nella struttura organizzativa del

sodalizio e privo dell’affectio societatis, fornisce all’associazione mafiosa un «

concreto, specifico, consapevole, volontario »48 apporto causale, volto alla

conservazione od al rafforzamento delle capacità operative della compagine49.

L’operato, sorretto dalle suesposte connotazioni, secondo quanto precisato da

talune pronunce della Suprema Corte deve innestarsi nella realizzazione, anche

parziale, del programma criminoso del sodalizio50.

Sostanzialmente, occorre che l’apporto dell’extraneus si inserisca in un mosaico di

condotte, espressione tutte di un agere concertato e funzionale all’operatività della

societas criminum.

Nel mentre pone in essere un comportamento giovevole agli interessi

dell’associazione, è necessario che il soggetto agente sia consapevole dei metodi e

dei fini della stessa, potendo poi atteggiarsi indifferentemente con un dolo generico o

finanche specifico, per l’ipotesi che si prefigga la realizzazione delle particolari

finalità del consorzio criminoso 51.

In un significativo decisum degli Ermellini si legge: « Dal punto di vista oggettivo,

la mera “contiguità compiacente” o la “vicinanza” o la disponibilità nei riguardi del

sodalizio o dei suoi esponenti, devono essere necessariamente accompagnate da

positive attività che forniscono uno o più contributi utili al rafforzamento o al

consolidamento dell’associazione, secondo gli stessi parametri usati per riconoscere

la partecipazione »52.

In un’altra pronuncia si fa riferimento alla valenza, in ottica probatoria, delle

dichiarazioni dei collaboratori di giustizia: « La prova del concorso nell’associazione

mafiosa non può fondarsi solo su dichiarazioni di pentiti che riferiscano della

“vicinanza” dell’extraneus all’associazione, ma esige la dimostrazione di attività

concrete di supporto all’associazione da parte del suddetto extraneus »53.

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Posta la necessità di porre in essere un comportamento funzionale agli interessi del

sodalizio, quella del concorso esterno in associazione mafiosa si configura come una

fattispecie a forma libera, nel senso che il contributo del compartecipe ab externo può

realizzarsi in forme e contenuti diversi, purchè si sostanzi in un apporto non risibile,

ma apprezzabile per l’agere dell’organizzazione54.

Una volta che siano realizzati tutti gli elementi del fatto tipico di reato descritto

dalla norma incriminatrice di parte speciale, occorre che la condotta di concorso sia

soggettivamente collegata con quegli elementi.

Venendo alla disamina della dimensione psicologica del concorrente esterno,

sembra da escludersi la ricorribilità al dolo eventuale, ossia la « mera accettazione da

parte del concorrente esterno del rischio di verificazione dell’evento, ritenuto

solamente probabile o possibile insieme ad altri risultati intenzionalmente perseguiti

»55.

È necessario che il concorrente esterno, sprovvisto dell’affectio societatis, agisca

con la consapevolezza e la volontà di interagire, sinergicamente, con le condotte

altrui.

Il tutto avendo contezza delle metodologie operative e dei fini della compagine

criminosa, potendosi prescindere dalla condivisione, avversione, disinteresse od

indifferenza per siffatti metodi e fini.

Dunque, riassumendo: la mera consapevolezza dell’altrui finalità criminosa è un

dato non bastevole ai fini della sussistenza dell’elemento psichico.

Occorre, difatti, che il soggetto si renda compiutamente conto dell’efficacia causale

della sua attività di sostegno, vantaggiosa per la conservazione od il rafforzamento

dell’associazione56.

Nell’ambito del concorso esterno viene in rilievo un dolo generico, come emerso in

esito ad una copiosa elaborazione giurisprudenziale57, che sembra avere abbandonato

quella traiettoria interpretativa per cui si richiedeva la sussistenza del dolo specifico58.

Può ricordarsi, inoltre, che talune recenti pronunce pare abbiano posto l’accento

sulla necessità che l’agere del concorrente eventuale sia mosso da un dolo diretto59.

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Tanto premesso, può adesso ripercorrersi attraverso scorci diacronici l’evoluzione

giurisprudenziale circa gli elementi definitori cui ancorare la configurabilità del

concorso esterno in associazione mafiosa.

Riduttivo ed ormai superato appare quel risalente orientamento

giurisprudenziale, che limitava la configurabilità del concorso esterno alle

contingenze di crisi della compagine.

Significativa di tale percorso interpretativo è quella pronuncia in cui si legge che il

concorrente eventuale è colui che non intende far parte dell’associazione e che

quest’ultima non vuole attrarre nella propria orbita, ma che viene contattato

allorquando il sodalizio versi in una situazione per cui si renda necessario attingere a

risorse esterne, al fine di superare un momento di difficoltà (dettato, ad esempio, dal

bisogno di sopperire alla vacanza di un determinato ruolo).

Il contributo fornito dall’extraneus può essere anche soltanto episodico, purchè

risulti determinante per la vita della congrega60.

Quello prospettato è un filone ermeneutico inaugurato dalla Suprema Corte con la

sentenza n. 16 del 1994, e seguito dai Giudici di Piazza Cavour in altre sporadiche

decisioni, intervenute nella seconda metà degli anni 90’61.

I surriferita decisa lasciano insoluta la seguente questione: quando il clan può dirsi

in emergenza? Quali sono i parametri sintomatici di una simile evenienza?

Censurabile è quella pronuncia giurisprudenziale in cui si è ritenuto che lo stato

patologico potesse dirsi integrato per il semplice fatto che il clan si fosse rivolto

all’esterno62.

I Giudici nel caso di specie trascurano che l’apporto esterno sovente è giustificato

da ragioni di convenienza più che di stretta necessità.

Non meno discutibile è quella traiettoria interpretativa per cui potrebbe valorizzarsi

la severa repressione investigativa e processuale cui è sottoposto il sodalizio in

determinate contingenze63.

Opinando in tal senso sembra negligersi il dato che la compagine criminale è

fisiologicamente predisposta ad affrontare simili momenti, perché nel momento in cui

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viene costituita è consapevole che potrà essere “attenzionata” dalle Forze dell’Ordine

e dalla Magistratura.

In relazione al profilo di cui si discorre può richiamarsi quella dottrina la quale

osserva che la previsione di cui all’art. 110 c.p. si raccorda con la fattispecie

delittuosa contemplata dall’art. 416-bis c.p.

Dalla caratterizzazione di quest’ultima come reato permanente, ne deriva « la

prospettabilità che l’agevolazione esterna possa verificarsi durante tutte le fasi della

vita dell’associazione e non soltanto in alcuni momenti particolari. Altra cosa è,

semmai, riconoscere che le ipotesi in cui l’apporto esterno possa assumere questa

forza causale di fatto s’accrescono durante i momenti particolarmente critici

dell’associazione, o ancora nella sua fase di formazione e di consolidamento »64.

Adesivamente al pensiero dello scrivente si sono espressi i Giudici della Corte di

cassazione ad avviso dei quali: « la fattispecie concorsuale sussiste anche

prescindendo dal verificarsi di una situazione di anormalità nella vita

dell’associazione »65.

Vieppiù, sembra proprio questa la situazione tradizionale, ossia quella in cui il

soggetto esterno alla compagine non interviene in una situazione di crisi della

congrega.

È questa una linea interpretativa che ormai i Giudici di legittimità sembrano avere

fatto propria, e che si impone anche alla luce del dato per cui la tecnica redazionale

dell’art. 110 c.p. non contempla limite alcuno all’operatività del meccanismo

concorsuale.

Tanto detto, non sembra condivisibile quella ricostruzione ermeneutica per cui «

per integrare gli estremi del concorso esterno è indispensabile accertare che

l’extraneus abbia fornito un contributo effettivo e non solo potenziale alla vita

dell’associazione mafiosa talchè esso, pur se occasionale o episodico, possa ritenersi

infungibile e cioè frutto di una prestazione altrimenti non ottenibile mediante le

risorse interne dell’organizzazione criminale »66.

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In sintonia sul terreno metodologico con la suesposta decisione è quella pronuncia

in cui si legge: « nell’ipotesi di concorso, anche nella forma cosiddetta eventuale o

esterno, nel reato di cui all’art. 416 bis c.p. esiste una cointeressenza che, pur se

occasionale, deve presentare il carattere di una rilevante importanza, tale da

comportare l’assunzione di un ruolo esterno ma essenziale, ineliminabile ed

insostituibile, particolarmente nei momenti di difficoltà dell’organizzazione criminale

»67.

L’orientamento surriferito pare misconoscere il dato che l’organizzazione mafiosa

spesso si giova di contributi esterni non perché ciò risulta necessario ma perché, più

semplicemente, maggiormente conveniente68.

Si pensi al caso di un sodalizio criminoso che ricorre a “terzi” per ridurre il rischio

di attirare l’attenzione sui propri accoliti.

Quando affermato porta a ritenere che l’apporto dell’extraneus non sempre possa

qualificarsi “essenziale”, come correttamente rilevato dagli Ermellini i quali hanno

ritenuto, ai fini della configurabilità del concorso esterno, « non […] necessario che

lo stato di difficoltà nel quale l’associazione può trovarsi sia tale, che senza

quell’aiuto esterno, il sodalizio andrebbe inevitabilmente incontro all’estinzione »69.

Significativamente, in un’altra occasione la Suprema Corte ebbe a precisare che

l’attività del concorrente esterno può anche essere di importanza secondaria o di

semplice intermediazione70.

Dunque, alla luce di quanto affermato occorre che l’apporto di una cooperazione

eventuale sia apprezzabile, tangibile, e non già fondamentale.

Il contributo del concorrente esterno è suscettivo di spiegare valenza

indipendentemente dalla frequenza con cui è arrecato, non mutando la

caratterizzazione “esterna” al variare dell’arco temporale in cui si innesta.

In relazione al tema oggetto della presente trattazione non sembra obliterabile

quell’ermeneutica per cui la configurabilità del concorso esterno risulta ancorata

all’evenienza che l’extraneus apporti il proprio contributo in via sporadica71.

È questa una traiettoria interpretativa che chi scrive ritiene di non poter far propria.

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Difatti, a stretto rigore si può essere estranei al sodalizio criminale pur se si fornisce

la propria collaborazione in maniera ripetuta72.

Il dato temporale non è un criterio valorizzabile in ottica distintiva tra partecipe e

concorrente esterno.

Solo in via presuntiva può ipotizzarsi che apportare il proprio contributo in via

reiterata sottenda la qualifica di partecipe.

Il concorso esterno attiene ad una condotta al più “tendenzialmente” occasionale, e

non già “esclusivamente”.

Mi rendo conto che una simile ricostruzione presta il fianco all’obiezione per cui

potrebbero qualificarsi “esterne” condotte che hanno una valenza ben più pregnante

di alcuni apporti interni.

Ma ragionare diversamente significherebbe avallare un’ipotesi che sul piano

argomentativo è giustificabile solo in termini probabilistici.

Di quanto detto sembra abbiano tento conto quei Giudici del Supremo Consesso i

quali in una significativa decisione hanno sottolineato chiaramente che l’intervento

del concorrente esterno può sostanziarsi anche in un’attività continuativa e ripetuta73.

Nel decisum si legge: « il contributo richiesto al concorrente esterno deve poter

essere apprezzato come idoneo, in termini di concretezza, specificità e rilevanza, a

determinare, sotto il profilo causale, la conservazione o il rafforzamento

dell’associazione.

Ne deriva che non ha peso decisivo la circostanza che sia stata posta in essere

un’attività continuativa o comunque ripetuta, ovvero un intervento occasionale e non

istituzionalizzato.

Si tratti di attività continuativa o ripetuta, si tratti invece di una singola

prestazione, dovrà valutarsi esclusivamente se la pluralità o l’unica attività posta in

essere, per il grado di concretezza e specificità che la distingue e per la rilevanza

causale che esprime, possa ritenersi idonea a conseguire il risultato sopra

menzionato ».

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In definitiva, secondo la Corte il contributo del concorrente esterno può essere « a

carattere indifferentemente occasionale o continuativo ».

Risulta di palmare percezione che tale ermeneutica, condivisa da chi scrive, palesa

l’assottigliamento delle differenze tra intraneus ed extraneus all’associazione,

rendendone labili i confini discretivi e richiedendo di tal guisa uno sforzo

interpretativo suppletivo.

Ma attenzione: che l’apporto sia continuo od occasionale, si tratta di una distinzione

indifferente al fine della configurabilità del concorso esterno.

Quello che conta è che l’extraneus si sia concretamente attivato per il

mantenimento in vita od il rafforzamento del sodalizio.

Altra cosa, poi, è se quel contributo abbia effettivamente perseguito le finalità ad

esso sottese.

Una quaestio, questa, che si raccorda ad un concetto di ampio respiro quale quello

dell’accertamento del nesso causale.

Come notorio costituisce imprescindibile referente ordinamentale ancorare la

punibilità di un dato accadimento al suo legame di derivazione con una condotta.

Questa connessione è sintetizzata nell’espressione “nesso causale”.

È questo un profilo delle discipline penalistiche intorno al quale si agitano rilevanti

questioni interpretative, di cui per ragioni di economia espositiva in questa sede non

si darà conto.

Qui basti considerare che la sua connaturata problematicità è accentuata nell’ambito

del concorso esterno, in cui la causalità sembra declinarsi secondo una particolare

accezione.

Significativo è il dato che tra le argomentazioni sulla cui base si era propensi ad

escludere la configurabilità del concorso esterno, vi era quella per cui assumeva le

fattezze di una probatio diabolica quella tesa a dimostrare la reale incidenza di una

singola condotta od anche di più condotte, sulle sorti di un’associazione criminale,

soprattutto quando questa presentava una struttura complessa.

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Sul punto si registra una significativa presa di posizione da parte dei Giudici di

piazza Cavour: « l’accertamento del nesso causale nel concorso esterno non

comporta di per sé difficoltà maggiori di quanto può comportare la individuazione di

un caso di condotta interna o, più in generale, la individuazione di una condotta

idonea ed univoca agli effetti del tentativo o la ricostruzione dei presupposti delle

singole responsabilità colpose individuali nel quadro dell’esercizio di attività

complesse, e via dicendo.

Anche sotto il profilo in esame, quella della configurabilità della concorrenza

esterna in un reato associativo, è pertanto una operazione interpretativa sicuramente

compatibile con gli standard attuali, riconosciuti legittimi de jure condito, dei

margini di determinatezza ed elasticità degli istituti giuridicopenali previsti nel

nostro ordinamento »74.

Posto ciò, discusso è se l’accertamento del nesso causale debba effettuarsi

ricorrendo o meno ad un giudizio ex post, ancorato alla reale incidenza,

oggettivamente percepibile, della condotta del concorrente esterno nella produzione

dell’evento lesivo.

In ambito giurisprudenziale è invalsa la prassi di un giudizio volto a verificare se la

condotta dell’extraneus nel momento in cui è stata posta in essere fosse “idonea” a

perseguire i fini ad essa sottesi75.

Il presente dato, se sussistente, è spesso ritenuto bastevole ad integrare gli estremi

di una responsabilità penale a titolo di cooperazione eventuale, indipendentemente

dall’effettivo incidere dell’operato del concorrente esterno sulla realtà fenomenica.

In una pronuncia emessa dal Tribunale di Palermo si è osservato che in tema di

causalità occorre vagliare la sussistenza di « un apporto obiettivamente adeguato e

soggettivamente diretto a rafforzare la struttura organizzativa che caratterizza il

fenomeno associativo »76.

Quella prospettata è una soluzione criticata da parte della dottrina, che evidenzia

come un simile opinare sembri negligere i principi su cui si fonda la causalità77.

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Perplessità in merito alla giustezza di prescindere dall’effettiva incidenza della

condotta del concorrente esterno, sono state espresse dai Giudici di legittimità in una

pronuncia risalente al 200578.

Nel decisum gli Ermellini hanno osservato che « trattandosi in ogni caso di

accertamento di natura causale che svolge una funzione selettiva delle condotte

penalmente rilevanti e per ciò delimitativa dell’area dell’illecito, ritiene il Collegio

che non sia affatto sufficiente che il contributo atipico – con prognosi di mera

pericolosità ex ante – sia considerato idoneo ad aumentare la probabilità o il rischio

di realizzazione del fatto di reato, qualora poi, con giudizio ex post, si riveli per

contro ininfluente o addirittura controproducente per la verificazione dell’evento

lesivo. L’opposta tesi, che pretende di prescindere dal paradigma eziologico, tende

ad anticipare arbitrariamente la soglia di punibilità in contrasto con il principio di

tipicità e con l’affermata inammissibilità del mero tentativo di concorso ».

Proseguono i Giudici affermando che non può avallarsi la ricostruzione per cui « la

condotta atipica, se obiettivamente significativa, determinerebbe comunque nei

membri dell’associazione criminosa la fiduciosa consapevolezza di poter contare sul

sicuro apporto del concorrente esterno, e quindi un reale effetto vantaggioso per la

struttura organizzativa della stessa ».

La Suprema Corte, poi, ha osservato che « pretese difficoltà di ricostruzione

probatoria del fatto e degli elementi oggettivi che lo compongono non possono mai

legittimare – come queste Sezioni Unite hanno già in altra occasione affermato (sent.

10 luglio 2002, Franzese, Foro it., 2002, II, 601) - un’attenuazione del rigore

nell’accertamento del nesso di causalità e una nozione “debole” della stessa che,

collocandosi sul terreno della teoria dell’ “aumento del rischio”, finirebbe per

comportare un’abnorme espansione della responsabilità penale ».

I fautori di un accertamento ex post osservano che ad opinare diversamente il

concorso esterno assumerebbe le fattezze di fattispecie a consumazione anticipata,

deputata a censurare la creazione di una mera fonte di pericolo per l’ordine pubblico.

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30

Tanto detto, può ricordarsi che la pronuncia di cui supra era stata preceduta da

un’altra che aveva sollevato molte perplessità, e di cui si riportano i punti più salienti 79.

I Giudici della Corte di cassazione nel 2002 avevano puntualizzato che nell’ambito

del concorso eventuale nel reato di cui all’art. 416-bis c.p. « Ciò che conta […] non è

la mera disponibilità dell’esterno a conferire il contributo richiestogli

dall’associazione, bensì l’effettività di tale contributo, e cioè che a seguito di un

impulso proveniente dall’ente criminale il soggetto si è di fatto attivato nel senso

indicatogli ».

In tale passo la Corte sembrava richiedere, semplicemente, che il soggetto si fosse

prodigato “per”, potendosi prescindere dagli esiti della sua condotta, purchè

quest’ultima, però, fosse suscettiva di raggiungere i fini per cui era stata concepita,

ossia il mantenimento in vita od il rafforzamento del clan.

Difatti, si legge nella decisione: « il contributo richiesto al concorrente esterno

deve poter essere apprezzato come idoneo, in termini di concretezza, specificità e

rilevanza, a determinare, sotto il profilo causale, la conservazione o il rafforzamento

dell’associazione ».

Sennonchè, la predetta pronuncia introduceva una dicotomia, distinguendo una

condotta episodica, ancorata all’effettiva incidenza causale, ed una reiterata.

Con riferimento a quest’ultima nel decisum si legge: « Quando […] si tratti non di

un comportamento isolato, tendente cioè ad ottenere l’esito irregolare di un singolo

procedimento o di una singola decisione, ma di un’attività reiterata e costante di

intervento nell’ambito di una serie di procedimenti, specie se tutti dotati di

caratteristiche di particolare rilevanza per il sodalizio criminale, può risultare non

essenziale, ai fini della configurabilità del reato di concorso, l’esito favorevole delle

condotte, vale dire l’effettivo “aggiustamento” di ogni procedimento o di ogni

singola decisione, dal momento che è proprio nella reiterata e costante attività di

ingerenza sopra prospettata che va ravvisata l’idoneità del contributo apportato

dall’extraneus: non potendosi dubitare che la condotta posta in essere da

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quest’ultimo determina negli esponenti del sodalizio la consapevolezza di poter

contare sul sicuro apporto di un soggetto, qualificato, operante in istituzioni

giudiziarie e un tale effetto costituisce, di per se solo, un indiscutibile rafforzamento

della struttura associativa ».

La ricostruzione prospettata evidenziava vistose singolarità interpretative, atteso che

il “doppio binario” della causalità non presentava addentellati testuali.

La qual cosa ha fatto sì che la decisione sia stata sottoposta a numerose critiche in

quanto recante anodine ermeneutiche.

Tanto premesso, chi scrive ritiene che in tema di concorso esterno non possa

valorizzarsi l’“effettività” del contributo, perché si lascerebbe scoperta una vasta

gamma di condotte indicative di un agere criminale meritevole di censura80.

Ai fini della configurabilità del concorso esterno è sufficiente essersi concretamente

attivato “per” e non ha valenza, in ottica punitiva, la circostanza che l’apporto non si

sia rivelato utile o non sia stato utilizzato81.

Il contributo dell’extraneus deve essere concretamente ed idoneamente posto in

essere, percepibile, recepibile, ma non per forza “recepito”.

In tal senso militano ragioni che risultano di immediata percezione.

Se il contributo è stato recepito, esso ha spiegato valenza e in ottica oggettiva

(agevolazione materiale del clan) e in ottica soggettiva, in quanto ha rafforzato il

proposito criminoso.

Se l’apporto, pur essendo stato posto in essere, di fatto è stato trascurato o non è

risultato giovevole, non può negarsi che esso ha inciso perlomeno da un punto di

vista psicologico nei componenti del clan, i quali sapevano di poter fare

assegnamento su un’“opzione operativa” poi non percorsa.

Posta tale premessa, può adesso passarsi a definire il concetto di “rafforzamento”

del clan.

Il termine può essere inteso innanzitutto in senso soggettivo-psicologico (aumentato

prestigio, senso di impunità).

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In una recente pronuncia si è ritenuto che l’accresciuta autorevolezza del clan

derivasse per il solo fatto di vantare un « referente politico “vicino” »82.

Siffatta circostanza, si legge nella decisione, costituisce « agli occhi dei consociati

in qualche misura una sorta di (obliqua) legittimazione, a prescindere da vantaggi

economici più concreti e contingenti, che tuttavia era ragionevole pensare che

avrebbero fatto seguito alla acquisita maggiore contiguità con il potere politico ».

L’aumentato potere che discende dall’avere instaurato legami con un’esponente

politico, non manca di riverberare i propri effetti anche sugli altri gruppi criminali,

come rilevato dal Tribunale di Taranto83.

Il rafforzamento del clan può anche derivare dalla circostanza che un giudice abbia

assicurato il proprio voto favorevole ai fini dell’assoluzione degli imputati, affiliati ad

un sodalizio di natura criminosa84.

Uno dei nodi più problematici in ottica probatoria è quello afferente alla

dimostrazione dell’efficacia della condotta per il rafforzamento od il consolidamento

della compagine.

La complessità della quaestio risiede nella discussa possibilità di rinvenire

regolarità causali nell’ambito dei fenomeni psichici, atteso il caratterizzarsi degli

stessi in termini di irripetibilità ed imprevedibilità.

Proprio in considerazione di tali difficoltà, empiricamente più afferrabile sembra il

rafforzamento declinato in un’accezione oggettivo-organizzativa.

In tal caso il potenziamento dell’efficacia operativa del sodalizio può avvenire, ad

esempio, attraverso l’aumento delle dotazioni logistiche del clan.

In chiusura del presente paragrafo, volendo ricomporre in un quadro unitario quanto

precedentemente affermato, ad avviso di chi scrive può dirsi concorrente esterno

colui il quale, non inserito stabilmente nell’organigramma dell’organizzazione

(dunque estraneo ad una liturgia di ammissione e, comunque, di fatto non incardinato

nell’organigramma), apporta volontariamente e consapevolmente un qualsiasi

contributo, sia esso reiterato o episodico, che sappia essere funzionale all’attività del

sodalizio, di cui conosce la natura delinquenziale.

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L’apporto che la cooperazione dell’extraneus sottende può essere indistintamente

rivolto al mantenimento in vita, al rafforzamento, o finanche alla semplice

agevolazione dell’operatività della societas criminun.

Non occorre, poi, che questa abbia effettivamente recepito il contributo del

concorrente esterno, purchè questo fosse idoneo al raggiungimento dei fini per cui era

stato concepito.

In attesa di un auspicabile intervento legislativo, penso che quelle tracciate possano

essere coordinate sufficientemente ampie per sanzionare compiutamente quella

pletora di condotte di concorso esterno che gravitano nell’orbita mafiosa.

Ormai ritengo che quella della cooperazione eventuale nel reato di cui all’art. 416-

bis c.p. sia una categoria penalistica dotata quantomeno di “sostanziale” valenza

giuridica, e pertanto bisognosa di compiuto inquadramento nella sistemica

codicistica.

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5. La contiguità “indotta”.

Nell’ambito del concorso esterno nel reato di associazione mafiosa uno degli aspetti

più problematici è quello attinente alla volontarietà del contributo; un profilo, questo,

che mette in esponente la vexata quaestio della cd. “contiguità indotta”.

In talune decisioni giurisprudenziali, che hanno dato la stura ad un acceso dibattito,

si è posto l’accento sul fatto che non può integrare gli estremi del concorso esterno

nel reato di cui all’art. 416-bis c.p. la condotta dell’imprenditore spinto da

“circostanze ambientali” ad una “convivenza ravvicinata” con ambienti malavitosi.

Scorrendo in rapidi scorci diacronici le pronunce in merito, occorre muovere da

quella in cui il Tribunale di Catania nel 1991 ha affermato che in zone ad altissima

densità mafiosa « è da escludere che la “contiguità” tra imprenditori e sodalizi

mafiosi integri un’ipotesi di partecipazione esterna al reato di associazione per

delinquere o di associazione di tipo mafioso, ove tale contiguità sia imposta

dall’esigenza di trovare soluzioni di “non conflittualità” con la mafia, posto che

nello scontro frontale risulterebbe perdente sia il più modesto degli esercenti sia il

più ricco titolare di grandi complessi aziendali »85.

Nella motivazione della decisione dei Giudici etnei si legge che l’accettazione del

contratto di protezione « espone inevitabilmente l’imprenditore ad un rapporto di

materiale relazione con soggetti dei quali può apparire connivente o, addirittura,

complice, ma, sotto il profilo giuridico, non si potrà, sic et simpliciter, attrarre nello

schema dei reati associativi previsti degli artt. 416 e 416 bis c.p., qualunque

comportamento che, pur evidenziando la fisica contiguità tra mafia e impresa,

tuttavia non esprime una scelta autonoma dell’imprenditore, bensì una delle

soluzioni di non conflittualità sopra richiamate per una situazione non riconducibile

alla sua iniziativa ».

In un’altra pronuncia emessa dal Tribunale di Palermo si fa riferimento alla

“supervisione” di Cosa Nostra in merito al sistema di aggiudicazione degli appalti86.

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Il sottostare a questo “monitoraggio”, si legge nella pronuncia, viene definito da

taluni collaboratori di giustizia come una condizione essenziale per esercitare la

propria attività ed essere inseriti nell’oligopolio retto dai clan.

Posta questa premessa il Tribunale addiviene alla conclusione che l’imposta

acquiescenza a certe dinamiche « induce ad escludere che il consapevole

coinvolgimento nell’articolato sistema di relazioni imposto dall’organizzazione

mafiosa (raccomandazioni, aggiustamenti delle gare d’appalto, pagamento del pizzo,

protezione) possa essere valutato quale condotta (di partecipazione all’associazione

mafiosa) censurabile ai sensi dell’art. 416 bis; dovendosi, se così fosse, pervenire

alla paradossale conclusione che tutti gli imprenditori operanti nelle province

siciliane sottoposte al controllo mafioso si siano resi responsabili di analoghi

comportamenti illeciti ».

La decisione surriferita è stata ribaltata dai Giudici di seconda istanza, i quali hanno

optato per un sostanziale distacco dalla logica e dagli enunciati della sentenza di

primo grado87.

La Corte territoriale ha disatteso gli esiti interpretavi cui era giunto il Tribunale,

accogliendo le doglianze contenute nell’atto di appello in cui si metteva in rilievo la

pericolosità del ritenere scriminate talune condotte di vicinanza al fenomeno

delinquenziale88.

La Corte d’appello ha precisato che non ha valenza alcuna, in ottica giustificativa,

la circostanza che le clausole del rapporto siano state predisposte unilateralmente

dalla mafia.

Infine, la Corte puntualizza che le determinazioni del Tribunale sembrano dettate da

un’applicazione della esimente di cui all’art. 54 c.p., in spregio ai presupposti che

questa sottende.

I Giudici osservano al proposito: « a nulla rileva che l’alternativa data

all’imprenditore sia prendere o lasciare, perché sul piano giuridico (l’unico

parametro di valutazione lasciato al giudice) mai e poi mai poteva configurarsi uno

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stato di necessità. Anche ammesso, invero, che nessuno poteva lavorare senza quel

patto, nessuno lo obbligava a non cambiare mestiere ».

Tanto detto, in merito al presente discorso merita un cenno la pronuncia in cui la

Suprema Corte ebbe ad esprimersi in questi termini: « l’imprenditore che,

nell’attivarsi per l’acquisizione dell’appalto di un’opera pubblica di rilevantissimo

valore, abbia contemporaneamente instaurato rapporti col ceto politico-

amministrativo e con organizzazioni camorristiche (coi primi per assicurarsi

l’aggiudicazione del contratto e con le seconde per rimuovere preventivamente

ostacoli di carattere estorsivo all’esecuzione dei lavori, accollandosi in quest’ultimo

caso un programmato costo concordato sulla base di una sorta di accordo di non

conflittualità e di patto di protezione), può considerarsi vittima dell’estorsione

mafiosa soltanto nel caso in cui si dimostri nei suoi riguardi una condizione di

ineluttabile coartazione »89.

Contrariamente, precisano gli Ermellini, « la sua condotta deve ricondursi,

rispettivamente, all’art. 416-bis c.p. se vengono accertati la compenetrazione e

l’inquadramento nell’organismo criminale, oppure alla fattispecie del concorso

esterno se si riscontra l’esistenza di un contributo consapevolmente e

volontariamente prestato per il mantenimento e il consolidamento

dell’organizzazione mafiosa ».

Secondo i Giudici di legittimità nell’indagine volta ad individuare il discrimen tra

normalità e devianza soccorrono le massime di esperienza elaborate dalle discipline

sociocriminologiche.

Più di recente in una pronuncia si è affermato che nel vagliare la posizione

dell’imprenditore che opera in territori permeati dal condizionamento mafioso,

occorre tenere presente che questi si muove in un « contesto ove tutte le scelte

imprenditoriali devono tener conto degli interessi di Cosa nostra, in termini di

pagamento di pizzo, individuazione dei fornitori da privilegiare, nonché di acquirenti

dei materiali con cui poter entrare in affari, nel rispetto degli equilibri dettati dalle

regole mafiose »90.

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La qual cosa espone inevitabilmente l’imprenditore a fare riferimento,

nell’esplicazione della sua professione, « ora a questo ora a quel soggetto,

identificati da lui stesso come esponenti qualificati della consorteria mafiosa ».

Nell’apparato motivazionale della decisione si legge che nel quadro tracciato

l’interesse dell’imprenditore a « mantenere buoni rapporti con gli esponenti mafiosi

al fine di trarre vantaggi per la propria impresa o evitare possibili danni », non basta

a decretare una sua responsabilità per concorso esterno in associazione mafiosa.

Chiuso questo breve exursus giurisprudenziale, sembra doveroso osservare che la

tematica della cd. contiguità indotta richiederebbe un grado di approfondimento

maggiore di quello che la presente sede consente.

Tuttavia, brevemente può dirsi che pur trattandosi di condotte moralmente

discutibili, da un punto di vista tecnico occorre obiettivamente considerare che c’è

uno “scarto” tra il mantenere buoni rapporti per evitare possibili danni, ed il porre in

essere condotte penalmente rilevanti ex art. 416-bis c.p.

Il punto è che se quei buoni rapporti sono volti all’acquisizione di consistenti

vantaggi, o comunque forieri di tangibili facilitazioni (magari a danno di altri

operatori economici), risulta arduo sostenere che ci sia una semplice ed “indotta”

vicinanza incolpevole.

Nel caso di specie ben poca cosa sarebbe, in chiave giustificativa, far riecheggiare

la causa di giustificazione dello stato di necessità, edulcorandone i presupposti

applicativi con vistosi adattamenti91.

Volendo spendere qualche ulteriore riflessione, può dirsi che occorre evitare

aprioristiche generalizzazioni e verificare di volta in volta il grado di

compenetrazione e condivisione delle metodiche mafiose da parte di chi opera nel

mercato del lavoro.

A mio avviso possono distinguersi, fondamentalmente, due categorie di soggetti.

Una prima è costituita da quegli imprenditori che definirei “di riferimento” per la

cosca, nel senso che consentono a quest’ultima di inserirsi nelle gare d’appalto, e

conseguire rilevante quota dei proventi che ne derivano.

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Tali imprenditori da parte loro fruiranno di “segnalazioni” in merito

all’assegnazione di commesse, godendo di “coperture” nelle diverse zone in cui

opereranno, e pagando, in ipotesi, un “pizzo” simbolico o quantificato in misura

ridotta.

In tale evenienza si concreta più che uno stato di coartazione, un vero e proprio

operare sinergico.

La qual cosa fa sì che in relazione a tale tipologia di imprenditori più che di

concorso esterno possa parlarsi addirittura di quasi affiliazione, in quanto in un certo

qual modo essi sono contemplati nell’organigramma dell’associazione.

Una seconda categoria è costituita da quegli imprenditori i quali mantenendo una

certa autonomia dai sodalizi mafiosi, si adeguano alle “particolari logiche di mercato”

imposte loro, dando luogo a condotte che almeno secondo una valutazione per così

dire “sociale”, non mi sento di definire filo-mafiose e men che meno mafiose.

Sennonché, è da un punto di vista latu sensu giuridico che risulta arduo

giustificare, se non addirittura ontologicamente impossibile, condotte di tal fatta.

Si potrebbe sostenere che il fatto stesso che i soggetti costretti a sottostare a certi

condizionamenti, possano denunciare un simile stato di cose, rende la loro una

“scelta” e non già una “necessità”.

Orbene, fin quando lo Stato non riuscirà ad epurare in maniera incisiva il mercato

lavorativo da inquinamenti delinquenziali, le forme di “vicinanza” da ultimo citate,

che potremmo definire di secondo livello, assai difficilmente verranno meno.

Si tratta, sostanzialmente, di tipologie comportamentali di “contiguità” al fenomeno

mafioso, alla cui base vi sono motivazioni (scarsa fiducia nell’azione repressiva dello

Stato, timore per la propria incolumità, etc…) che non necessariamente sono dettate

da una fattiva e consapevole condivisione di un agere mafioso.

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6. Patto di scambio mafia-politica.

Nell’ambito dell’attuale realtà economica italiana assoluta centralità rivestono la

spesa pubblica e l’espansione del tessuto urbano, ambiti in cui le associazioni di

matrice mafiosa aspirano ad insinuarsi, al fine di divenire occulte operatrici

oligopoliste.

L’anelito impone alle congreghe criminali di tessere relazioni con esponenti del

potere politico-amministrativo, dando luogo ad una perigliosa commixtio di

cointeressenze.

In considerazione delle profonde alterazioni del tessuto socio-economico generate

dalla poliedricità del fenomeno mafioso, negli ultimi venti anni esso è stato

“attenzionato” nell’ambito di una significativa legislazione sostanziale e processuale.

Questa prolifica normazione assume le fattezze di un vero e proprio sottosistema,

congegnato per rispondere meglio alle esigenze della prassi repressiva.

Sullo sfondo del presente discorso si stagliano due interventi dettati dalla

consapevolezza del legislatore che un sodalizio criminoso può essere periglioso

patrocinatore di favori elettorali.

L’art. 11–bis del d.l. n. 306/1992 (conv. dalla l. n. 356/1992) ha inserito nel terzo

comma dell’art. 416-bis c.p., tra i fini dell’associazione, quello di « impedire od

ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione

di consultazioni elettorali »92.

Con lo stesso intervento normativo (art. 11-ter) è stata poi introdotta una nuova

fattispecie incriminatrice, l’art. 416-ter c.p., che estende la pena di cui al comma 1

dell’art. 416-bis c.p., a chi ottiene la promessa di voti « in cambio dell’erogazione di

denaro ».

Circa le finalità di tale ultima previsione, che taluna dottrina riconduce nell’alveo

dei cd. “reati contratto”93, può dirsi che con essa il legislatore ha arretrato la rilevanza

penale dell’intesa mafia-politica al momento in cui il soggetto che procede alla

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dazione di denaro, riceve la promessa di un orchestrato sostegno da parte di esponenti

di un sodalizio mafioso.

Proprio in virtù della peculiarità del profilo “attenzionato” dalla disposizione, non è

mancato chi ha osservato che la norma in commento sembra « priva di un reale

ambito di operatività, posto che, nella normalità dei casi, le controprestazioni

richieste dalla mafia al politico colluso non consistono in denaro, quanto piuttosto

nell’emanazione di provvedimenti amministrativi viziati o comunque favorevoli agli

interessi del sodalizio, nell’elargizione di finanziamenti per opere controllate e

realizzate da imprese mafiose, e così via »94.

Tanto detto, per inciso può ricordarsi che le norme da ultimo citate si innestano nel

solco tracciato dagli artt. 96 e 97 del d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361, e dall’art. 86 del

d.P.R. 16 maggio 1960, n. 570.

Sembra acconcio richiamare, inoltre, l’art. 294 c.p. che recita: « chiunque con

violenza, minaccia od inganno impedisce in tutto od in parte l’esercizio di un diritto

politico, ovvero determina taluno ad esercitarlo in senso difforme dalla sua volontà";

previsione questa generica e sussidiaria rispetto ai reati elettorali, ai quali è

destinata a cedere in virtù del principio di specialità ».

Tanto premesso, diverse volte i Giudici di Piazza Cavour sono stati chiamati a

vagliare l’ipotesi di quella particolare forma di contiguità alla mafia comunemente

definita come “patto di scambio politico-mafioso”95.

Fattispecie, che stando a quanto si legge in una decisione ricorre allorquando « il

personaggio politico, senza essere organicamente inserito come partecipe nelle

logiche organizzatorie del sodalizio criminoso, s’impegna a strumentalizzare i poteri

e le funzioni collegati alla posizione pubblica conseguente all’esito positivo

dell’elezione a vantaggio dello stesso sodalizio, assicurandone così dall’esterno

l’accesso ai circuiti finanziari e al controllo delle risorse economiche, ovvero

rendendo una serie di favori quale corrispettivo del richiesto procacciamento di voti

»96.

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Il sigillo della perversa intesa consente al sodalizio criminoso l’acquisizione di un

rapporto privilegiato con un referente istituzionale, strumentale per il consolidamento

ed il rafforzamento del livello di efficienza del sodalizio criminoso, quantomeno in

alcuni settori di influenza.

Nell’ambito delle relazioni mafia-politica una tendenza che va consolidandosi in

seno alla giurisprudenza è quella per cui « anche la promessa e l’impegno del politico

di attivarsi, una volta eletto, a favore della cosca mafiosa possano già integrare, di

per sé, gli estremi del contributo atipico del concorrente eventuale nel delitto

associativo, a prescindere dalle successive condotte di esecuzione dell’accordo

valutabili sotto il profilo probatorio »97.

Alla luce degli approdi giurisprudenziali in materia la semplice intesa tra il politico

ed il clan è suscettiva, di per sé, di configurare una responsabilità a titolo di concorso

esterno, allorché sussista l’idoneità del patto, in quanto legittimante una sorta di

“aspettativa”, ad assurgere ad elemento di rafforzamento dell’associazione o di sue

articolazioni settoriali.

Tale valutazione dovrà essere ancorata ai caratteri della promessa, alla caratura del

politico e, più in generale, al contesto in cui avviene il suggello dell’intesa98.

Nel quadro tracciato irrilevante risulta l’esito delle consultazioni elettorali99, e

l’adempimento degli impegni su cui poggia l’accordo spiega valenza unicamente in

ottica probatoria100.

Epperò, in una significativa decisione gli Ermellini, conformemente

all’orientamento tralatizio, hanno precisato che non risulta sufficiente la mera

manifestazione di disponibilità o vicinanza101.

I Supremi Giudici, inoltre, hanno osservato che deve rifuggersi anche

l’interpretazione per cui « in virtù del sostegno del politico, risulterebbero comunque,

quindi automaticamente, sia “all’esterno” aumentato il credito del sodalizio nel

contesto ambientale di riferimento (ove tuttavia non si accerti e si definisca

“occulto” l’accordo) che “all’interno” rafforzati i l senso di superiorità e il prestigio

dei capi e la fiducia di sicura impunità dei partecipi ».

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L’esecuzione del patto, dunque, costituisce un mero post-factum, come ribadito dal

Massimo Consesso capitolino in una recente pronuncia: « Basta il mero scambio

delle promesse tra esponente mafioso e politico per integrare il sinallagma

significativo del concorso esterno, a nulla rilevando, a tal fine, il rispetto da parte del

politico degli impegni assunti a patto che vi sia prova certa della conclusione

dell’accordo, perché è lo stesso accordo che di per sé avvicina l’associazione

mafiosa alla politica, facendola in qualche misura arbitro anche delle sue vicende

elettorali, e rendendola altresì consapevole della possibilità di influenzare perfino

l’esercizio della sovranità popolare, e cioè del suo potere »102.

Nel decisum la Corte osserva: « lo stesso accedere ad un rapporto sinallagmatico

che contempla la promessa di voti in cambio della disponibilità a futuri favori,

integra per il politico che ne sia parte la fattispecie di concorso esterno in

associazione mafiosa, ove si consideri la volontarietà e consapevolezza dell’accordo

e dei suoi effetti ».

[email protected]

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____________________________

1 Il termine “mafia” assai verosimilmente rinviene la propria etimologia nella parola araba “mahaˆfatˆ”, che significa “protezione, immunità, esenzione”. La locuzione fece la sua comparsa nell’opera di Giuseppe Rizzotto, dal titolo “I mafiusi di la Vicaria”, rappresentata per la prima volta nel 1862 (RIZZOTTO , I mafiusi di la Vicaria, Perino, Roma, 1885). Nel 1865 la dicitura “mafia” apparve per la prima volta in un documento ufficiale e, segnatamente, nella relazione annuale sulla vicenda giustizia in Sicilia con particolare riguardo al territorio palermitano, redatta dall’allora prefetto di Palermo, Filippo Antonio Gualtieri. Questi riferì il termine ad un’associazione dedita alla commissione di reati. 2 Massimo Rosario Paterna afferma che « L’interazione fra elementi mafiosi e fiancheggiatori vari dalla cosiddetta faccia pulita (professionisti, amministratori e imprenditori, certamente non impiegati in azioni militari ma in opera di fiancheggiamento e di copertura in attività solo apparentemente lecite) è stato un processo lento, graduale e ininterrotto, assolutamente indispensabile e necessario: ai mafiosi per meglio confondersi con il substrato della società benpensante; ai borghesi, per garantirsi la sopravvivenza di certe strutture di potere socio-economico » (PATERNA , 200 anni di mafia, Antares, 2000, p. 133). 3 NOTARO , Art. 416-bis e metodo mafioso, tra interpretazione e riformulazione del dettato normativo (nota a Cass. pen., sez. V, 19 dicembre 1997, n. 4307), in Riv. it. dir. e proc. pen., 1999, IV, pp. 1475 ss. L’Autore osserva: « la diffusione, a partire dalla metà degli anni ‘50, di un’economia di tipo industriale e l’occasione offerta dalla proliferazione di relazioni affaristiche ad ampio raggio, hanno consentito alla mafia di allargare la sfera dei suoi interessi: dall’assunzione di appalti pubblici al commercio di armi; dal traffico di droga ad attività di finanziamento ed intermediazione ai più svariati livelli ». 4 GROSSO, La contiguità alla mafia tra partecipazione, concorso in associazione mafiosa e irrilevanza penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1993, II, p. 1190. 5 La norma che contempla il reato di associazione mafiosa è stata preceduta da tragici momenti di tensione sociale. Pochi giorni prima dell’emanazione della legge, il 3 settembre 1982, a Palermo in via Carini venne ucciso il generale dell’Arma dei carabinieri, Carlo Alberto Dalla Chiesa, insieme alla moglie, Emanuela Setti Carraro, ed all’agente di P.S. addetto alla tutela, Domenico Russo. Sulla vicenda si vedano i volumi di seguito menzionati: AA. VV. , Morte di un generale. L’assassinio di Carlo Alberto Dalla Chiesa, la mafia, la droga, il potere politico, Mondadori, 1982; N. DALLA CHIESA , Delitto imperfetto, Il Generale. La mafia. La società italiana, Mondadori, 1984; FALZONE , La mafia. Dal feudo all’eccidio di Via Carini, Flaccovio, 1983. Sul sito web www.antimafiduemila.com è reperibile la decisione relativa all’omicidio Dalla Chiesa, emessa dalla Corte di assise di Palermo, sez. II, in data 22 marzo 2002.

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Per quanto concerne la bibliografia sul reato di associazione mafiosa, ex multis si segnalano i seguenti contributi: AA.VV. , I reati associativi (Atti del Convegno svoltosi a Courmayeur, 10-12 ottobre 1997), Giuffrè, 1998; ALBAMONTE , Prevenzione e repressione dei fenomeni mafiosi nei recenti provvedimenti legislativi, in Riv. pen., 1983, pp. 547 ss.; ALEO , Sistema penale e criminalità organizzata. Le figure delittuose associative, Giuffrè, 1999; DE FRANCESCO, voce “Associazione per delinquere e associazione di tipo mafioso”, in Dig. disc. pen., I, Utet, 1987, pp. 289 ss.; FIANDACA , Commento all’art. 1, legge 13 settembre 1982, n. 646, in Leg. pen., 1983, pp. 257 ss.; FIANDACA-MUSCO , Diritto penale, Parte speciale, I, Zanichelli, 1997, p. 357; FLICK , L’associazione a delinquere di tipo mafioso. Interrogativi e riflessioni su problemi proposti dall’art. 416-bis c.p., in Riv. it. dir. e proc. pen., 1988, pp. 859 ss.; GERACI , L’associazione di tipo mafioso nella legge 13 settembre 1982 n. 646, in Legisl. pen., 1986, pp. 569 ss.; INGROIA , L’associazione di tipo mafioso, Giuffrè, 1993; ID . Osservazioni su alcuni punti controversi dell’art. 416-bis c.p., in Foro it., 1989, parte II, col. 59; INSOLERA , Considerazioni sulla nuova legge antimafia, in Pol. dir., 1982, pp. 681 ss.; ID ., Diritto penale e criminalità organizzata, Il Mulino, 1996; MUSCO, Luci ed ombre della legge “Rognoni-La Torre”, in Legisl. pen., 1986, pp. 558 ss.; LI VECCHI , L’associazione di tipo mafioso attraverso il pensiero della dottrina e le decisioni della Suprema Corte, in Riv. pen., 1988, pp. 1031 ss.; NEPPI MODONA , Il reato di associazione mafiosa, in Dem. e dir., 1983, pp. 61 ss.; RUBIOLA , voce “Associazione per delinquere di tipo mafioso”, in Enc. Giur. Treccani, III, 1988; SPAGNOLO, L’associazione di tipo mafioso, Cedam 1997; TURONE, Le associazioni di tipo mafioso, Giuffrè, 1984; ID., Il delitto di associazione mafiosa, Giuffrè, 1995 (si veda l’edizione 2008, contenente approfondimenti in tema di concorso esterno); UCCELLA , L’associazione mafiosa tra Costituzione e legge penale, in Riv. pol., 1983, pp. 755 ss.; ZAGO , Reati di terrorismo e di mafia. La collaborazione dell’imputato dissociato o pentito, L’Autore Libri Firenze, 1997. 6 Circa l’inadeguatezza, in ottica di repressione del fenomeno mafioso, della previsione di associazione a delinquere, si veda, per tutti, CHINNICI , Magistratura e mafia, in Dem. e dir., 1982, n. 4, p. 87. Come rilevato da taluna dottrina, la norma di cui all’art. 416 c.p. era bastevole unicamente a reprimere fenomeni delinquenziali di piccolo cabotaggio (C. MACRÌ - V. MACRÌ , La legge antimafia, Jovene, 1983, p. 3). Il reato di cui all’art. 416 c.p. fu introdotto all’indomani dei maxiprocessi che costituirono il momento terminale delle « retate » del prefetto Cesare Mori (in merito si segnala il volume di PETACCO, Il prefetto di ferro, Mondadori, 2006). Mediante tale previsione normativa il regime fascista intese reprimere con incisività i centri di potere autonomi creati dalla criminalità organizzata. La sussistenza di questi, una sorta di “Stato nello Stato”, non poteva essere tollerata in alcun modo nel quadro della politica accentratrice attuata dal Duce Benito Mussolini.

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Ai suesposti rilievi relativi alla limitatezza, in ottica repressiva, dell’art. 416 c.p., si aggiunga il dato che nella legge n. 575/65 non vi era una definizione normativa di associazione mafiosa. Il che, intuitivamente, creava non poche difficoltà nella “gestione processuale” del fenomeno mafioso.

7 Atti preparatori della legge n. 646 del 1982, in Cons. Sup. Mag., 1982, n. 3, p. 244.

Nello stesso contesto si prospettava la necessità di misure che colpissero la mafia nel profilo patrimoniale, atteso che il lucro e l’arricchimento costituiscono l’obbiettivo di questa criminalità che si differenzia, per origini e funzione storico-politica, dalla criminalità comune e dalla criminalità politica strettamente intesa (ibidem, p. 243). 8 In relazione al reato contemplato dall’art. 416-bis c.p. il Tribunale di Bari ha osservato: « Perché sussista l’associazione di cui all’art. 416 bis c.p. è necessario, oltre alla creazione di un’organizzazione stabile, con esistenza di una struttura organizzata, più o meno complessa, e la predisposizione di mezzi necessari all’attuazione di un vasto programma criminoso, comune a tutti gli associati, anche che la stessa organizzazione abbia conseguito una reale capacità d’intimidazione e che gli aderenti si siano avvalsi in modo effettivo di tale forza, al fine di realizzare il loro programma criminoso » (Trib. Bari, 27 maggio 2003, Giurisprudenza locale - Bari 2004). 9 Cass. pen., S.U., 5 ottobre 1994, n. 16, Demitry, in Cass. Pen., 1995, IV, pp. 842 ss., con nota di IACOVIELLO , Il concorso eventuale nel delitto di partecipazione ad associazione per delinquere; in Foro it., 1995, II, pp. 422 ss., con nota di INSOLERA , Il concorso esterno nei delitti associativi: la ragione di Stato e gli inganni della dogmatica; in Arch. nuova proc. pen., 1995, pp. 63 ss.; in Giust. pen. 1995, II, pp. 129 ss.; in Riv. pen., 1995, pp. 326 ss. Si veda anche il contributo di SICILIANO , Il concorso eventuale nel reato associativo dopo la sentenza della Corte di cassazione, Sez. un. 5 ottobre 1994, in Giust. pen., 1995, II, c. 522 ss. 10 Anche una semplice condotta di intermediazione dalla Suprema Corte è stata ritenuta sufficiente ad integrare gli estremi della partecipazione (Cass. pen., sez. VI, 16 dicembre 1985, Spatola, in Cass. pen., 1987, pp. 49 ss.). La Corte di cassazione, inoltre, ha ravvisato il paradigma partecipativo nella semplice promessa di un esponente politico, una volta eletto, di favorire il clan (Cass. pen., sez. I, 8 giugno 1992, Battaglini, in Foro it., 1993, II, c. 133 ss.). 11 Trib. Reggio Calabria, 8 settembre 2006, ne Il merito, 2006, 12 69. Così in precedenza si era espressa la Corte di cassazione: « si definisce “partecipe” colui che, risultando inserito stabilmente e organicamente nella struttura organizzativa dell’associazione mafiosa, non solo “è” ma “fa parte” della (meglio ancora: “prende parte” alla) stessa: locuzione questa da intendersi non in senso statico, come mera acquisizione di uno status, bensì in senso dinamico e funzionalistico, con riferimento all’effettivo ruolo in cui si è immessi e ai compiti che si è vincolati a svolgere perché l’associazione raggiunga i suoi scopi, restando a disposizione per le attività organizzate della medesima » (Cass. pen., S.U., 12 luglio 2005, n. 33748, Mannino, in Cass. pen., 2005, pp. 3732 ss., con nota di BORRELLI ,

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Tipizzazione della condotta e nesso di causalità nel delitto di concorso in associazione mafiosa). 12 Cass. pen., S.U., 5 ottobre 1994, n. 16, Demitry, cit.; Cass. pen., 25 ottobre 2001, n. 37022. 13 Cass. pen., sez. I, 14 aprile 1995, Mastrantuono, in Cass. pen., 1996, p. 1781. La decisione è reperibile anche in M.C.P., 1995, VII, pp. 105 ss. Con riferimento al reato di cui all’art. 416 c.p. si veda Cass. pen., sez. I, 23 novembre 1992, n. 4805, Altomonte, in C.E.D. Cass., n. 192648. Nella pronuncia da ultimo citata si legge: « È punibile […] a titolo di partecipazione, colui che presti la sua adesione e il suo contributo all’attività associativa, anche per una fase temporalmente limitata ». 14 Cass. pen., S.U., 12 luglio 2005, n. 33748, Mannino, cit. 15 Cass. pen., sez. V, 21 novembre 2003, n. 6101, in Cass. pen., 2005, pp. 1234 ss. Più di recente v. Cass. pen., sez. II, 23 aprile 2008, n. 16802: « ai fini della sussistenza di gravi indizi di colpevolezza […] non interessa stabilire se la partecipazione si sia realizzata a pieno titolo come formale affiliazione o semplicemente nella veste di soggetto “vicino”, essendo, invece, rilevante accertare, quale che ne sia la forma, la stabile messa a disposizione della propria opera per i fini dell’organizzazione ». In precedenza si segnala Cass. pen., sez. I, 30 gennaio 1992, n. 6992, in Cass. pen., 1993, pp. 1680 ss. 16 Trib. Palermo, 6 febbraio 2003, in Giur. Merito, 2004, 108 (s.m.). 17 Cass. pen., sez. fer., 1 settembre 1994, n. 3663, Graci, in Cass. pen., 1995, pp. 539 ss., con nota di PACI , Osservazioni sull’ammissibilità del concorso eventuale nel reato di associazione a delinquere di tipo mafioso. 18 In tal senso si veda SPAGNOLO, cit., p. 87. Altra dottrina osserva: « Per far parte dell’associazione è necessario che la stessa, tramite i suoi organi, abbia accettato il soggetto come socio o comunque gli abbia riconosciuto, per facta concludentia, tale qualità » (SANTAMBROGIO , Il concorso eventuale di persone in delitto di tipo mafioso associativo, in Giur. merito, 2005, X, pp. 2272 ss.). La Suprema Corte in una significativa pronuncia così si è espressa: « tanto la costituzione dell’associazione quanto l’inserimento di un soggetto in una organizzazione già formata postulano sempre e necessariamente la volontà e l’agire di una pluralità di persone. Si deve perciò ritenere che tutti i reati associativi sono sempre reati a concorso necessario, vale a dire, fattispecie plurisoggettive proprie. Ciò posto, ne consegue che l’appartenenza di taluno ad una associazione criminale dipende anche dalla volontà di coloro che già partecipano all’organizzazione esistente. E a tal fine possono rilevare certamente le regole del sodalizio, anche se l’esistenza dell'accordo può risultare pure solo di fatto: purché da fatti indicativi di una volontà di inclusione del soggetto partecipe. Non si tratta di valorizzare esclusivamente le regole «statutarie» dell’associazione, ma di valutare in concreto

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l’effettiva volontà degli associati, come avviene in ogni reato doloso, anche quando questa volontà possa desumersi dal rispetto di regole o prassi criminali » (Cass. pen., S.U., 30 ottobre 2002, n. 22327, Carnevale, in Guida al diritto, 2003, fasc. 30, pp. 60 ss.; in Foro it., 2003, II, c. 453 ss., con note di FIANDACA e DICHIARA ; in Riv. it. dir. e proc. pen., 2004, pp. 322 ss., con nota di DENORA, Sulla qualità di concorrente “esterno” nel reato di associazione di tipo mafioso). In sostanza, secondo i Giudici « l’inclusione di taluno in un’associazione non può dipendere solo dalla volontà di colui che all’associazione intende aderire, ma richiede anche quella di tutti gli altri associati o di coloro che li rappresentano ». Per la descrizione del rito di affiliazione v. GAMBETTA , La mafia siciliana, Einaudi, 1992, pp. 366 ss.; PATERNA , cit., pp. 126-127. Per quanto concerne la ‘ndrangheta si segnala MALAFARINA , La ‘ndrangheta. Il codice segreto, la storia, i miti, i riti e i personaggi, Gangemi, 1986. In relazione alla mafia italo-americana si veda l’opera del giornalista RAAB , Le famiglie di Cosa Nostra americana. La nascita, il declino e la resurrezione della più potente organizzazione criminale americana, Newton Compton Editori, 2008, pp. 13 ss. 19 Cass. pen., sez. fer., 1 settembre 1994, n. 3663, Graci, cit. In tal senso si veda anche Cass. pen., S.U., 30 ottobre 2002, n. 22327, Carnevale, cit. 20 Cass. pen., sez. I, 18 maggio 1994, n. 2348, Clementi, in Foro it., 1994, II, c. 560 ss., con nota di VISCONTI , Il tormentato cammino del concorso “esterno” nel reato associativo; in Cass. pen., 1994, 11, pp. 2680 ss., con nota di CERASE, Brevi note sul concorso eventuale ai reati associativi; Cass. pen., S. U., 5 ottobre 1994, n. 16, Demitry, cit.; Cass. pen., sez. I, 14 ottobre 1994, Cavallari, n. 4342, in C.E.D. Cass., n. 199704. In una pronuncia i Supremi Giudici hanno osservato che l’elemento psicologico che caratterizza la figura dell’affiliato, consiste nella consapevolezza di far parte dell’associazione e nella volontà di apportare il proprio contributo per tenerla in vita e farle conseguire gli obiettivi che si è prefissata (Cass. pen., S.U., 27 settembre 1995, n. 30, Mannino, in Cass. pen., 1996, pp. 1087 ss.; in Riv. pen., 1996, pp. 632 ss.). Nel senso che nel partecipe viene in rilievo un dolo di tipo generico v. FLICK , cit., pp. 863 ss. 21 Ex multis: Trib. Palermo, sez. V, 23 ottobre 1999, Andreotti, in Foro it., 2001, II, pp. 96 ss., con nota di LEINERI e NICOSIA , Il processo Andreotti in primo grado, osservaz. a Trib. Palermo, 23 ottobre 1999; Cass. pen., sez. I, 13 giugno 1987, n. 3492, Altivalle, in Cass. pen., 1988, pp. 1812 ss.; Cass. pen., S.U., 30 ottobre 2002, n. 22327, Carnevale, cit. 22 Così, ex pluribus: Cass. pen., S.U., 30 ottobre 2002, n. 22327, Carnevale, cit. 23 Sul tema si vedano: ADAMI , Il concorso eventuale nei reati plurisoggettivi e, in particolare, nei delitti associativi, in Cass. pen., 1997, pp. 2291 ss.; BERTOROTTA , Concorso eventuale e reati associativi, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1998, IV, pp. 1273 ss.; COCO, Partecipazione in reato associativo e partecipazione a reato associativo: una distinzione problematica, in Giust. Pen., II, 1995, pp. 609 ss.; D’AGOSTINO , Il problema della configurabilità o non del concorso eventuale o

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esterno nei reati associativi, in Giust. pen., 1997, II, c. 321 ss.; DE LIGUORI , Concorso eventuale e reati associativi (nota a Cass. pen., sez. I, 19 gennaio 1987, Cillari), in Cass. pen., 1989, pp. 34 ss.; DE VERO, I reati associativi nell’odierno sistema penale, in Riv. it. dir e proc. pen., 1998, II, pp. 385 ss.; ID ., Tutela dell’ordine pubblico e reati associativi, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1993, pp. 93 ss.; MUSCATIELLO , Il concorso esterno nei reati associativi, Cedam, 1995; ID ., Per una caratterizzazione semantica del concorso esterno, in Riv. it. dir e proc. pen. 1999, vol. 42, I, pp. 184 ss.; FIANDACA , Il “concorso esterno” agli onori della cronaca, in Foro it., 1997, V, pp. 1 ss.; INSOLERA , Il concorso esterno nei delitti associativi: la ragione di Stato e gli inganni della dogmatica, in Foro it., 1995, II, c. 423 ss. Con precipuo riferimento al reato di cui all’art. 416-bis c.p. si segnalano: ARGIRÒ , Note dommatiche e politico-criminali sulla configurabilità del concorso esterno nel reato di associazione di stampo mafioso, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2003, pp. 768 ss.; CONTE, Concorso esterno nel reato d’associazione mafiosa ex art. 416-bis c.p., in Nuovo dir., 2004, pp. 179 ss.; DE LIGUORI , Concorso e contiguità nell’associazione mafiosa, Giuffrè, 1996; SESSA, Associazione di tipo mafioso e contiguità delittuosa: profili dogmatici e di politica criminale, in AA. VV., Criminalità organizzata e risposte ordinamentali (a cura di Moccia), Edizioni scientifiche italiane, 1999; VERRINA , Il concorso esterno e l’associazione per delinquere di stampo mafioso, in Giur. it., 1995, II, pp. 409 ss. 24 Cass. pen., sez. I, 23 gennaio 1984, n. 617, Arancio, in Giust. pen., 1984, II, pp. 652 ss.: « commette il delitto di concorso in banda armata, e non già quello di favoreggiamento, il difensore che svolge il ruolo di tramite fra i terroristi detenuti e quelli liberi, al fine di comunicare notizie utili all’esistenza della banda in quanto tale ». In relazione al reato associativo contemplato dall’art. 305 c.p. (cospirazione politica mediante associazione), in precedenza la Suprema Corte aveva affermato la configurabilità del concorso eventuale (Cass. pen., sez. I, 27 maggio 1969, n. 1569, Muther, in Arch. pen., 1970, II, pp. 7 ss.). Nella pronuncia si legge: « l’appartenente alla associazione prevista dall’art. 305 c.p. è l’accolito del sodalizio, cioè colui che, conoscendone l’esistenza e gli scopi, vi aderisce e ne diviene con carattere di stabilità membro e parte attiva, rimanendo sempre al corrente dell’interna organizzazione, dei particolari e concreti progetti, del numero dei consoci, delle azioni effettivamente attuate o da attuarsi, sottoponendosi alla disciplina delle gerarchie ed al succedersi dei ruoli. La figura del concorrente, invece, è individuabile nell’attività di chi - pur non essendo membro del sodalizio, cioè non aderendo ad esso nella piena accettazione dell’organizzazione, dei mezzi e dei fini - contribuisce all’associazione mercé un apprezzabile e fattivo apporto personale, agevolandone l’affermarsi e facilitandone l’operare, conoscendone la esistenza e le finalità, ed avendo coscienza del nesso causale del suo contributo ». 25 In dottrina negano la configurabilità del concorso esterno nel reato di cui all’art. 416-bis c.p.: CONTENTO , Il concorso di persone nei reati associativi e

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plurisoggettivi (1978-1980), in Scritti 1964-2000 (a cura di Spagnolo), Laterza, 2002, pp. 109 ss.; FIANDACA-MUSCO , Diritto penale. Parte generale, Zanichelli, 2001, p. 492; INSOLERA , cit., c. 423 ss.; MANNA , L’ammissibilità di un concorso “esterno” nei reati associativi, tra esigenze di politica criminale e principio di legalità, in Riv. it. dir e proc. pen., 1994, pp. 1189 ss.; SIRACUSANO, Il concorso esterno e le fattispecie associative, in Cass. pen., 1993, pp. 1870 ss. In giurisprudenza si vedano: Cass. pen., sez. I, 19 gennaio 1987, n. 8092, Cillari, in Riv. pen., 1988, pp. 392 ss. ed in Cass. pen., 1989, pp. 34 ss., con nota di DE LIGUORI , Concorso eventuale e reati associativi; G.I.P. Trib. Catania, 8 marzo 1994, Di Grazia ed altri, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1994, pp. 1187 ss.; Cass. pen., sez. I, 18 maggio 1994, n. 2348, Clementi, cit.; Cass. pen., sez. I, 30 giugno 1994, n. 2699, Della Corte, in Riv. pen., 1994, pp. 1114 ss., con nota di TENCATI , Fiancheggiamento e partecipazione nell’art. 416-bis c.p.; in Giur. it., 1995, II, pp. 283 ss. con nota di STEMPERINI , In tema di concorso esterno in associazione di tipo mafioso; Cass. pen., sez. II, n. 3635/1994; Cass. pen., sez. II, 14 ottobre 1994, n. 4342, Cavallari; Cass. pen., sez. VI, 23 gennaio 2001, n. 3299, Villecco, in Foro it., 2001, II, pp. 405 ss.; in Cass. pen., 2001, pp. 2064 ss., con nota di IACOVIELLO , Concorso esterno in associazione mafiosa: il fatto non è più previsto dalla giurisprudenza come reato; in Dir. e giustizia, 2001, VI, pp. 22 ss., con nota di GENOVESE, Vacilla di nuovo il concorso esterno nell’associazione di stampo mafioso. 26 Cass. pen., sez. II, n. 3635/1994. 27 Cass. pen., sez. I, 18 maggio 1994, n. 2343, Mattina, in Cass. pen., 1994, pp. 2685 ss.: « affinché una condotta sia ritenuta punibile a titolo di concorso in un determinato reato, ai sensi dell’art. 110 c.p., sono necessari un contributo causale (materiale o semplicemente morale o psichico), e il dolo richiesti per il reato medesimo. Ne consegue che quando tali condizioni si siano verificate in relazione al delitto di associazione per delinquere sono integrati gli estremi della partecipazione a detta associazione; mentre, allorché le dette condizioni non si siano verificate, il fatto potrà integrare gli estremi di altri reati (corruzione, favoreggiamento o altro), ma non quello di concorso in associazione per delinquere ». Nella decisione i Giudici ammettono unicamente la configurabilità di un concorso morale. In una pronuncia di qualche tempo posteriore rispetto alla precedente si legge: « nei reati di associazione e, segnatamente, nel reato di associazione per delinquere di tipo mafioso non è configurabile responsabilità a titolo di cosiddetto “concorso esterno” giacché o il presunto concorrente esterno, nel porre in essere la condotta oggettivamente vantaggiosa per il sodalizio criminoso, è animato anche dal dolo specifico proprio di chi voglia consapevolmente contribuire a realizzare i fini per i quali il detto sodalizio è stato costituito ed opera, e allora egli non potrà in alcun modo distinguersi dal partecipante a pieno titolo; ovvero, mancando in lui quel dolo specifico, la condotta favoreggiatrice o agevolatrice da lui posta in essere dovrà essere necessariamente riguardata come strutturalmente e concettualmente distinta e

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separata dal reato associativo » (Cass. pen., sez. I, 30 giungo 1994, n. 2699, Della Corte, cit.) 28 In tal senso si segnalano: CONTENTO , Il concorso di persone nei reati associativi e plurisoggettivi, dattiloscritto, contributo alla Ricerca C.N.P.D. e C.N.R., su La Riforma della parte generale del Codice penale, 1983; INSOLERA , Problemi di struttura del concorso di persone nel reato, Giuffrè, 1986, pp. 148 ss.; MANNA , cit., pp. 1189 ss. 29 Cass. pen., sez. VI, 23 gennaio 2001, n. 3299, Villecco, cit. In precedenza v. Cass. pen., sez. I, 19 gennaio 1987, n. 8092, Cillari, cit.: « la cosiddetta partecipazione esterna, che ai sensi dell’art. 110 c.p. renderebbe responsabile colui che pur non essendo formalmente entrato a far parte di una consorteria mafiosa abbia tuttavia prestato al sodalizio un proprio ed adeguato contributo con la consapevole volontà di operare perché lo stesso realizzasse i suoi scopi, si risolve, in realtà, nel fatto tipico della partecipazione punibile, la quale deve ritenersi integrata da ogni contributo apprezzabile effettivamente apportato alla vita dell’ente ed in vista del perseguimento dei suoi scopi, mediante una fattiva e consapevole condivisione della logica di intimidazione e di dipendenza personale propria del gruppo e nella consapevolezza del nesso causale del contributo stesso ». Nella decisione, inoltre, si legge: « ciò che ha rilevanza è che il contributo cosciente apportato dal singolo si innesti nella struttura dell’associazione ed in vista del perseguimento della sua finalità, divenuta, così, “causa comune” (civilisticamente intesa) dell’agire suo e dell’ente ». I Giudici, altresì, osservano: « la partecipazione “esterna”, che ai sensi dell’art. 110 c.p., renderebbe responsabile colui che abbia prestato al sodalizio un proprio ed adeguato contributo con la consapevole volontà di operare perché lo stesso realizzasse i suoi scopi, si risolve, in realtà, nel fatto tipico della partecipazione ». In relazione all’art. 416 c.p. in un’altra pronuncia della Suprema corte si afferma che la condotta dell’extraneus « non potrà essere ritenuta condotta di partecipazione al reato associativo ove non sia accompagnata - non dalla mera connivenza - bensì dalla coscienza e volontà di raggiungere attraverso quegli atti, anche se di per se stessi leciti, pure i fini presi di mira dall’associazione e fatti propri: ma in tal caso non si tratterà di concorso nel reato di associazione, bensì di attività che realizza, perfezionandosi l’elemento soggettivo e quello oggettivo, il fatto tipico previsto dalla norma istitutiva della fattispecie associativa » (Cass. pen., sez. I, 21 marzo 1989, n. 8864, Agostani, in C.E.D. Cass., n. 181637; in Riv. pen., 1990, pp. 382 ss.). 30 Cass. pen., sez. I, 18 maggio 1994, n. 2348, Clementi, cit. 31 SESSA, cit., pp. 192-193. 32 L’esempio ricorre in Cass. pen., sez. I, 18 maggio 1994, n. 2348, Clementi, cit. Limitano la configurabilità del concorso esterno in associazione mafiosa alla sola fattispecie morale: Cass. pen., sez. I, 13 febbraio 1990, Aglieri, in Giust. pen., 1991, II, pp. 147 ss.; in C.E.D. Cass., n. 145129; Cass. pen., sez. I, 18 maggio 1994, n. 2343, Mattina, cit. 33 Cass. pen., sez. I, 21 marzo 1989, n. 8864, Agostani, cit. 34 Cass. pen., sez. I, 18 maggio 1994, n. 2343, Mattina, cit.

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35 Nell’ambito della giurisprudenza della Suprema Corte, circa l’ammissibilità del concorso esterno in associazione mafiosa si vedano: Cass. pen., sez. fer., 31 agosto 1993, Di Corrado, in Cass. pen., 1994, pp. 1496 ss.; Cass. pen., S.U., 5 ottobre 1994, n. 16, Demitry, cit.; Cass. pen., sez. VI, 27 marzo 1995, Alfano, in C.E.D. Cass., n. 202163; in Cass. pen., 1997, pp. 983 ss., con breve osservazione di CERASE; Cass. pen., sez. V, 10 novembre 1995, Sibilla e altri, in Cass. pen. 1996, pp. 2515 ss.; Cass. pen., S.U., 27 settembre 1995, n. 30, Mannino, cit.; Cass. pen., sez. VI, 13 giugno 1997, n. 5649, Dominante ed altri, in Giur. it., 1998, pp. 1688 ss.; Cass. pen., sez. V, 23 aprile 1997, n. 4903, Montalto, in Giust. pen., 1998, II, pp. 411 ss.; Cass. pen., sez. VI, 7 marzo 1997, Necci; Cass. pen., sez. I, 5 gennaio 1999, Cabib, in Cass. pen., 2000, pp. 725 ss.; in Foro it., 1999, II, pp. 631 ss., con nota di VISCONTI Imprenditori e camorra: l’ineluttabile coartazione come criterio discretivo tra complici e vittime?; Cass. pen., sez. VI, 25 giugno 1999, Cusumano, in Gazz. giur., 1999, XXXV, pp. 58 ss.; Cass. pen., sez. VI, 25 giugno 1999, Trigili; Cass. pen., sez. I, 6 febbraio 2000, Frasca, in Foro it., 2001, II, pp. 80 ss., con nota di MOROSINI , Riflessi penali e processuali del patto di scambio politico-mafioso; Cass. pen., sez. VI, 15 maggio 2000, Pangallo, in Guida al dir., 2001, VI, pp. 117 ss., con nota di PALAMARA ; in Cass. pen., 2001, pp. 2684 ss.; Cass. pen., sez. V, 22 dicembre 2000, n. 6929, Cangialosi ed altri, in Foro it., 2001, II, pp. 404 ss. ed in Cass. pen., 2002, pp. 1694 ss.; Cass. pen., sez. I, 17 aprile 2002, n. 21356, Frasca, in Foro it., 2003, II, pp. 5 ss.; in Cass. pen., 2003, pp. 2297 ss.; Cass. pen., 30 ottobre 2002, n. 22327, Carnevale, cit.; Cass. pen., sez. V, 12 febbraio 2003, n. 20072, Graviano e altro, in D&G - Dir. e giust., 2003, pp. 2131 ss., con nota di MACCHIA ; Cass. pen., S.U., 12 luglio 2005, n. 33748, Mannino, cit. In dottrina si vedano: ARDIZZONE , Il concorso esterno di persone nel delitto di associazione di tipo mafioso e negli altri reati associativi, in RTDPE, 1998, pp. 745 ss.; GROSSO, La contiguità alla mafia tra partecipazione, concorso in associazione mafiosa ed irrilevanza penale, cit., pp. 1191 ss.; INGROIA , L’associazione di tipo mafioso, cit., pp. 96 ss.; LIGUORI , Concorso eventuale e reati associativi, in Cass. pen., 1989, pp. 38 ss.; PACI , Osservazioni sull’ammissibilità del concorso eventuale nel reato di associazione a delinquere di tipo mafioso, cit., pp. 545 ss.; SAGLIA , Osservazioni in tema di concorso eventuale nel reato di associazione mafiosa, in Giust. pen., 1992, II, c. 310 ss.; SPAGNOLO, cit., p. 138; VISCONTI , Il “concorso esterno” nell’associazione mafiosa: profili dogmatici ed esigenze politico-criminali, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1995, pp. 1328 ss. 36 Cass. pen., S.U., 30 ottobre 2002, n. 22327, Carnevale, cit. 37 Ex multis: Cass. pen., S.U., 5 ottobre 1994, n. 16, Demitry, cit.; Cass. pen., sez. VI, 27 marzo 1995, Alfano, cit.; Cass. pen., S.U., 27 settembre 1995, n. 30, Mannino, cit.; Cass. pen., 21 dicembre 1998, in Guida al diritto, 1999, VI, pp. 83 ss. In tal senso in dottrina si vedano: GALLO , Lineamenti di una teoria sul concorso di persone nel reato, Giuffrè, 1957, p. 99; FIANDACA-MUSCO , Diritto penale, Parte generale, Zanichelli, 1995, p. 457; INSOLERA , voce “Concorso di persone”, in Dig. disc. pen., Utet, 1988, II, p. 476; MANTOVANI , Diritto penale, Parte generale, Cedam, 1992, p. 533; PICOTTI , Il dolo specifico. Un’indagine sugli elementi

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finalistici delle. fattispecie penali, Giuffrè, 1993, p. 620; PROSDOCIMI , Dolus eventualis. Il dolo eventuale nella struttura delle fattispecie penali, Giuffrè, 1993, pp. 208-209; 38 Taluna dottrina ritiene che la soluzione accolta dalla Corte di cassazione sottende « una ricostruzione dell’elemento psicologico forse eccessivamente artificiosa e sicuramente poco afferrabile negli accertamenti processuali » (COLLICA, Scambio elettorale politico mafioso: deficit di coraggio o questione irrisolvibile?, in Riv. it. dir. e proc. pen. 1999, III, pp. 877 ss., nota 79). 39 Al fine di comprendere in che cosa si sostanzia l’essere incardinato nel sodalizio criminoso, significativa è la sentenza con cui si concluse il primo grado del cd. “maxi-processo” (Assise Palermo, 16 dicembre 1987, Abbate + 474, in Foro it., 1989, c. 77 ss., con nota di FIANDACA-ALBEGGIANI , Struttura della mafia e riflessi penalprocessuali). In essa si legge: « bisogna sgomberare il campo dall’equivoco che la […] qualità di “uomo d’onore” costituisca soltanto un modo d’essere. Nella parte in cui si è tratteggiata la struttura dell’organizzazione “cosa nostra” si è posto in risalto [...] che l’associazione mafiosa esiste; che se ne entra a far parte con il solenne rituale del giuramento; che il nuovo adepto in quel momento si dichiara disponibile a perseguire i fini associativi, tra cui quello di mutua solidarietà fra gli associati, nonché a sottostare ad una serie di regole di comportamento, tra cui, fondamentali, quella della cieca obbedienza ai capi, della segretezza, dell’omertà. Nel linguaggio peculiare degli associati, questa partecipazione al sodalizio, dal quale non si può uscire se non con la morte, la consapevole accettazione di tutte le regole, la piena condivisione del metodo da applicare nel perseguimento dei fini, certamente delittuosi, essendovi compreso quello della mutua solidarietà negli affari illeciti, si condensano nell’espressione “uomo d’onore”. Pertanto, con tale espressione non si indica, secondo lo stretto valore semantico, un’attribuzione di una qualità, di un modo di essere, ma si presuppone un’antecedente condotta, caratterizzata da un accordo di volontà, tendente all’instaurazione del vincolo associativo finalizzato all’illecito scopo comune ». Qualche dato numerico può dare contezza dell’imponenza del “maxi-processo” celebratosi nell’aula bunker costruita per l’occasione accanto al carcere dell’Ucciardone: 349 udienze per un totale di 1820 ore, 1314 interrogatori, 35 giorni di camera di consiglio prima che il Presidente della Corte, dott. Alfonso Giordano, desse lettura dei verdetti. Pesantissime le condanne: 2665 anni di carcere (5000 quelli richiesti dai P.M., Giuseppe Ayala e Domenico Signorino), 19 ergastoli (28 quelli richiesti dai P.M.), undici miliardi e mezzo di lire di multa. Le assoluzioni furono 114. Per ulteriori dettagli si rinvia a LODATO , Trent’anni di mafia, Rizzoli, 2006, pp. 218-223. 40 Si considerino le seguenti pronunce: Cass. pen., 30 gennaio 1982, Altadonna, in Cass. pen., 1993, pp. 1679 ss.; Assise Palermo, 16 dicembre 1987, Abbate + 474, cit.; Cass. pen., sez. I, 30 gennaio 1992, Abbate e altri, in Foro it., 1993, II, c. 15 ss.;

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Cass. pen., sez. I, 13 giugno 1987, Napoli, in Riv. pen., 1994, pp. 184 ss.; Cass. pen., 30 settembre 1994, Di Martino, in M.C.P., 1995, fasc. III, pp. 61 ss. Nel senso che l’affiliazione formale integrerebbe una condotta partecipativa si veda anche App. Palermo, 2 maggio 2003, n. 1564, Andreotti. Nella decisione si legge: « Se […] il gran numero degli associati costituiva essenziale punto di forza del sodalizio, che ha assicurato, tra l’altro, una costante capacità di rigenerazione, si deve convenire che le singole adesioni arrecavano già, di per sé, un notevole apporto all’organizzazione, a prescindere dalle specifiche attività individuali poste in essere in seno alla stessa ». Acciocchè possa dirsi integrata la condotta di partecipazione, in talune pronunce giurisprudenziali si richiede che l’adesione sia accompagnata da positive attività. In tal senso si vedano: Cass. pen., sez. I, 23 aprile 1985, Arslan, in Foro it., 1986, II, 595; Cass. pen., 27 gennaio 1986, Scala, in Giust. pen., 1987, III, pp. 156 ss.; Cass. pen., 13 giugno 1987, n. 3492, Altivalle, cit.; Cass. pen., 29 aprile 1988, Stabile, in Giust. pen., 1989, II, pp. 555 ss.; Cass. pen., 25 febbraio 1991, Grassonelli, in M.C.P., 1991, IX, pp. 33 ss.; Cass. pen., 15 aprile 1994, Matrone, in M.C.P., 1994, XI, pp. 38 ss. Taluna dottrina afferma: « una condotta, per essere considerata aderente al tipo previsto dall’art. 416 bis c.p., deve rispecchiare un grado di compenetrazione del soggetto con l’organismo criminale tale da potersi sostenere che egli, appunto, faccia parte di esso. E per provare questo « far parte » non vale porsi alla ricerca di formalismi d’iniziazione, che possono anche mancare in alcune aggregazioni mafiose e che rappresentano soltanto note di colore interne al gruppo, sicché, nella pratica giudiziaria, la dimostrazione dell’adesione avviene, spesso, attraverso la prova della partecipazione attiva nella quale ha trovato estrinsecazione lo status di associato mafioso » (SANTAMBROGIO , cit., pp. 2272 ss.). 41 In ambito dottrinale è stato osservato: « l’associazione rappresenta un potenziale criminoso stabile, capace di infliggere offese ripetute in forma seriale a un insieme indefinito di esemplari del medesimo bene » (FIANDACA , Associazioni per delinquere “qualificate”, in AA.VV., I reati associativi, cit., p. 67). 42 Trib. Palermo, 4 aprile 1998, Musotto, in Foro it., 1999, II, pp. 44 ss., con nota di VISCONTI , Sul concorso esterno nel reato di associazione di tipo mafioso. 43 CORVI , Partecipazione e concorso esterno: un’indagine sul diritto vivente, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2004, I, pp. 242 ss. 44 Cass. pen., sez. V, 22 dicembre 2000, n. 6929, Cangialosi, cit. « Il concorso esterno in associazione di tipo mafioso si distingue dal reato di favoreggiamento personale, in quanto nel primo caso i soggetto, pur non essendo stabilmente inserito nella struttura organizzativa dell’associazione, opera sistematicamente con gli associati, al fine di depistare le indagini di polizia volte a reprimere l’attività criminosa dell’associazione o a perseguire i partecipi di tale attività, in tal modo fornendo uno specifico e concreto contributo ai fini della conservazione o del rafforzamento dell’associazione medesima, mentre nel reato di favoreggiamento i soggetto aiuta in maniera episodica un associato, resosi autore di

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reati rientranti o non nell’attività prevista dal vincolo associativo, ad eludere le investigazioni della polizia o a sottrarsi alle ricerche di questa » (Cass. pen., sez. II, 3 aprile 2003, n. 15756, Contrada). In una pronuncia della Corte di cassazione si legge che « il concorso esterno in associazione di tipo mafioso si distingue dal reato di favoreggiamento personale, in quanto l’aiuto non solo è prestato ad uno o più partecipi mentre l’associazione è ancora in atto, ma è rivolto al singolo in quanto componente del gruppo criminale » (Cass. pen., sez. II, 23 ottobre 2003, n. 40375, Mazzurco). Parte della dottrina conferisce autonomia concettuale al concorso eventuale, osservando che la dicitura « fuori dei casi di concorso », che si rinviene negli artt. 378 e 418 c.p., sarebbe indicativa del dato che il codice penale ha previsto espressamente la cooperazione eventuale (GROSSO, cit., p. 1190; SAGLIA , cit., p. 310. È questa una ricostruzione che chi scrive non ritiene di non poter obliterare. Difatti, l’inciso potrebbe ben riferirsi ai casi di concorso necessario e non già a quello eventuale. 45 Per tutte si veda Cass. pen., sez. V, 22 dicembre 2000, n. 6929, Cangialosi, cit. I Giudici nella pronuncia mettono in rilievo che le disposizioni di cui agli artt. 307, 418 e 378 comma 2, c.p. attengono ad un rapporto dell’ extraneus con singoli esponenti del sodalizio criminale, e non già con l’intera organizzazione.

46 Cass. pen., S.U., 30 ottobre 2002, n. 22327, Carnevale, cit. 47 Con precipuo riferimento alla figura dell’avvocato si vedano, ex multis, i contributi di: GUALDI , Il concorso eventuale nel reato di associazione per delinquere con particolare riferimento alla figura del difensore, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1989, pp. 267 ss.; VALIANTE , L’avvocato dei mafiosi (ovvero il concorso eventuale di persone nell’associazione mafiosa), in Riv. it dir. e proc. pen., 1995, pp. 820 ss.; VISCONTI , Difesa di mafia e rischio penale, in Foro it., 1997, II, c. 611 ss. (nota a Trib. Palermo, 18 novembre 1996, Cordaro). 48 Cass. pen., S.U., 30 ottobre 2002, n. 22327, Carnevale, cit. Così anche Cass. pen., sez. I, 4 febbraio 2005, n. 11613; Cass. pen., S.U., 12 luglio 2005, n. 33748, Mannino, cit.; Cass. pen., sez. VI, 6 febbraio 2004, n. 13910, in C.E.D. Cass., n. 229213. Taluna dottrina paventa il rischio che questa perimetrazione della condotta di concorso esterno possa risolversi in una significativa difficoltà di ravvisarne gli estremi (ORMANNI , Concorso esterno: prova diabolica, nota a Cass. pen., sez. VI, 6 aprile 2005, n. 19395, in D&G - Dir. e giust., 2005, 27 83). 49 Cass. pen., S.U., 12 luglio 2005, n. 33748, Mannino, cit. In relazione alla condotta dell’extraneus è necessario « che tale apporto, valutato ex ante, e in relazione alla dimensione lesiva del fatto ed alla complessità della fattispecie, sia idoneo se non al potenziamento almeno al consolidamento ed al mantenimento dell’organizzazione criminosa » (Cass. pen., sez. I, 13 giugno 1987, n. 3492, Altivalle, cit.). Nella stessa pronuncia i Supremi Giudici hanno sottolineato che « il concorso non sussiste quando il contributo è dato ai singoli associati, ovvero ha ad oggetto

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specifiche imprese criminose e l’agente persegua fini suoi propri, in una posizione di assoluta indifferenza rispetto alle finalità proprie dell’associazione ». In un’altra decisione si legge: « La condotta di concorso cosiddetto « esterno » nel reato consiste in un apporto, apprezzabile per concretezza, specificità e rilevanza, di rafforzamento o di consolidamento dell’associazione o di un suo particolare settore » (Cass. pen., 20 febbraio 2004, n. 14541, in C.E.D. Cass., n. 229242). 50 In tal senso v. Cass pen., S.U., 30 ottobre 2002, n. 22327, Carnevale, cit.; Cass. pen., sez. VI, 6 febbraio 2004, n. 13910. In quest’ultima decisione si legge di un contributo « diretto alla realizzazione, anche parziale del […] programma criminoso ». La medesima impostazione è rinvenibile anche in Cass. pen., S.U., 12 luglio 2005, n. 33748, Mannino, cit. 51 Cass. pen., S.U., 5 ottobre 1994, n. 16, Demitry, cit. 52 Cass. pen., S.U., 30 ottobre 2002, n. 22327, Carnevale, cit. 53 Cass. pen., sez. VI, 6 aprile 2005, n. 19395, cit. Emblematica della necessità del compimento di attività positive è quella decisione in cui si è affermato: « La disponibilità a pianificare gare d’appalto, manifestata dal sindaco di un comune della provincia di Palermo nei confronti di un personaggio investito del ruolo di mediatore d’alto livello tra politica, imprenditoria e mafia (c.d. “ministro dei lavori pubblici di Cosa nostra”), non tradottasi però in atto e neppure in un progetto ben definito a causa del sopravvenuto arresto del predetto mediatore, non è sufficiente ad integrare gli estremi di un concorso esterno nell’associazione di tipo mafioso » (Trib. Palermo, 6 giugno 2001, Picone, in Foro it., 2002, II, pp. 202 ss.). 54 Cass. pen., sez. fer., 31 agosto 1993; Cass. pen., sez. I, 16 marzo 1988, n. 3492, in Cass. pen., 1988, pp. 1812 ss.; Cass. pen., sez. VI, 17 marzo 1997, n. 1120, in Cass. pen., 1998, pp. 1076 ss.; Cass. pen., 2 marzo 1999, n. 12. In una pronuncia della Suprema Corte si legge: « La […]condotta partecipativa si esaurisce […] con il compimento delle attività concordate, anche quando queste consistano nella semplice promessa di favori connessi alla carica o all’ufficio rivestiti dal concorrente ed alla contiguità, percepibile all’esterno, di costui con l’associazione mafiosa » (Cass. pen., sez. I, 17 aprile 2002, n. 21356, in Cass. pen., 2003, pp. 2297 ss.).

55 Cass. pen., S.U., 30 ottobre 2002, n. 22327, Carnevale, cit. In dottrina, tra gli altri, ritiene bastevole la sussistenza di un dolo eventuale GROSSO, cit., pp. 1192 ss.: « a fondare la responsabilità ex art. 110 c.p. sarà sufficiente, secondo i princìpi generali, che il concorrente esterno agendo per i suoi scopi personali, si rappresenti, quantomeno in termini di possibilità (dolo eventuale), di intrattenere rapporti con la mafia, e di apportare alla stessa un rilevante contributo sul terreno dell’aiuto prestato alla conservazione o al rafforzamento della sua organizzazione ». Rifuggono questa impostazione: SPAGNOLO, cit., p. 139; CERASE il quale nelle sue osservazioni alla pronuncia della Corte di cassazione, sez. VI, 27 marzo 1995, Alfano, cit., osserva che opinare il contrario significherebbe rendere i contorni del

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concorso esterno estremamente labili, cosa che decreterebbe un incondizionato arbitrium iudicis in relazione al suo accertamento. 56 Cass. pen., S.U., 30 ottobre 2002, n. 22327, Carnevale, cit. 57 Tra le tante: Cass. pen., S.U., 5 ottobre 1994, n. 16, Demitry, cit.; Cass. pen., S.U., 27 settembre 1995, n. 30, Mannino, cit.; Cass. pen., sez. VI, 27 marzo 1995, Alfano, cit.; Cass. pen., sez. V, 22 dicembre 2000, n. 6929, cit.; App. Catania, 3 ottobre 2001, Corona e altro, in Giur. merito 2002, pp. 1029 ss., con nota di REALE , Aggravante speciale di cui all’art. 7 l. n. 203 del 1991 e condotte associative di tipo mafioso c.d. esterne: concorso esterno in associazione mafiosa e favoreggiamento personale aggravato. 58 Si pensi alla pronuncia della Suprema Corte in cui escludeva la configurabilità del concorso esterno sulla base della motivazione che la necessità di un dolo specifico in capo al concorrente, non avrebbe consentito di differenziarlo dal partecipe (Cass. pen., sez. II, 14 ottobre 1994, n. 4342, Cavallari). Nella decisione si legge: « poiché i delitti di cui agli artt. 416 e 416 bis c.p. sono caratterizzati dal dolo specifico, e deve conseguentemente sussistere la volontà del concorrente di contribuire a realizzare gli scopi in vista dei quali è costituito ed opera il sodalizio criminoso, non può ipotizzarsi un concorso nel delitto associativo a titolo di dolo eventuale ». 59 In una significativa decisione della Corte di cassazione (Cass. pen., S.U., 30 ottobre 2002, n. 22327, Carnevale, cit.), in relazione al contributo dell’extraneus si legge che questo deve risultare « comunque diretto alla realizzazione, anche parziale del programma criminoso della medesima ». Ad avviso di taluna dottrina la pronuncia ha posto l’accento sulla necessità di un dolo diretto, nel senso che l’agere del concorrente deve involgere la realizzazione, quantomeno parziale, del programma criminoso dell’associazione (CORVI , cit., pp. 242 ss.). Una soluzione, questa, criticata dalla stessa dottrina la quale osserva: « Sulla reale efficacia selettiva di questo dolo diretto […] è lecito peraltro avanzare qualche dubbio. È noto come la giurisprudenza, in sede di accertamento dei reati associativi, faccia larghissimo uso di presunzioni: se è provato che il soggetto conosce gli scopi criminosi dell’associazione, e che è al contempo consapevole di aiutare la stessa, si dice, non può non volere la realizzazione di quei fini. Allo stesso modo, in sede di accertamento dell’elemento soggettivo del concorso esterno, così come configurato dalle ultime sezioni unite, sarà sufficiente dimostrare che l’agente conosceva la caratura criminale mafiosa dei suoi interlocutori -- consapevolezza che, a sua volta, può benissimo essere ricavata mediante l’uso di altre presunzioni -- per farne discendere, come logico corollario, la sua volontà di veder realizzato il programma del sodalizio ». In decisioni di poco posteriori a quella sopra indicata, la Corte di cassazione ha riproposto l’opzione interpretativa contenuta nella decisione intervenuta nel 2002, insistendo sulla necessità di un contributo diretto alla realizzazione, finanche parziale, del programma criminoso del sodalizio (Cass. pen., 6 febbraio 2004, n. 13910; Cass. pen., S.U., 12 luglio 2005, n. 33748, Mannino, cit.).

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60 Cass. pen., S.U., 5 ottobre 1994, n. 16, Demitry, cit. 61 In una pronuncia della Suprema Corte si legge: « in tema di concorso esterno materiale nel delitto di cui all’art. 416 bis c.p., la differenza tra l’ipotesi della partecipazione e l'ipotesi del concorso esterno va ravvisata nel fatto che chi pone in essere un comportamento nell'interesse dell’associazione deve intervenire in un momento in cui il sodalizio si trovi in una condizione di difficoltà, tendendo proprio a far sì che l'associazione venga, attraverso il suo contributo, “salvata”, purché il concorrente esterno sappia di questa situazione. Di conseguenza, il concorso vale a qualificare il reato posto in essere per salvare l'associazione non come reato-fine ma come reato-mezzo, realizzato per gli scopi del sodalizio, in mancanza della volontà di farli propri » (Cass. pen., sez. VI, 22 gennaio 1997, n. 5649, Dominante ed altri, cit.). « Il concorso esterno nel reato associativo è configurabile soltanto in rapporto a sporadiche eventuali situazioni di emergenza, in cui sia necessario il contributo temporaneo, limitato anche ad un unico intervento, di un soggetto esterno all’associazione stessa » (Cass. pen., sez., I, 20 novembre 1998, n. 5777, in Cass. pen., 2000, pp. 581 ss.). Nel senso sopra indicato si vedano anche Cass. pen., 25 giugno 1999, Cusumano, cit.; Trib. Palermo, sez. V, 23 ottobre 1999, Andreotti, cit.; Cass. pen., sez. VI, 4 settembre 2000, Pangallo, cit., in cui si richiede una « concreta attività collaborativa idonea a contribuire al potenziamento, consolidamento, mantenimento in vita del sodalizio mafioso, in correlazione a congiunturali esigenze del medesimo ». Più di recente in tema di provvedimenti cautelari si veda Cass. pen., sez. VI, 28 dicembre 2001, n. 39103. Taluna dottrina a proposito dell’elemento valorizzato da parte della giurisprudenza, così lo ha etichettato: « curioso criterio identificativo della condotta punibile agganciato a non meglio definiti stati « patologici » o di « fibrillazione » dell’associazione » (VISCONTI , La punibilità della contiguità alla mafia tra tradizione (molta) e innovazione (poca), in Cass. pen., 2002, I, pp. 1854 ss.). 62 Cass. pen., sez. V, 22 dicembre 2000, Cangialosi, cit. 63 Trib. Palermo, 27 gennaio 2001, Scalone, in Foro it., 2001, II, c. 88 ss. 64 COLLICA , cit., pp. 877 ss. 65 Cass. pen., S.U., 30 ottobre 2002, n. 22327, Carnevale, cit. Stando alle più recenti pronunce sul tema, l’apporto del concorrente eventuale non necessariamente deve innestarsi in una dimensione salvifica. In tal senso si vedano: Cass. pen., sez. V, 23 aprile 2002, Apicella; Cass. pen., sez. V, 12 febbraio 2003, n. 20072, Graviano e altro, cit. In precedenza v. anche Cass. pen., sez. V, 23 aprile 1997, n. 4903, Montalto, cit.

Con riferimento al contributo del concorrente eventuale taluna dottrina opina nel senso che « appare eccessivo pretendere che si riveli decisivo addirittura per il mantenimento in vita dell’associazione » (COLLICA , cit., pp. 877 ss.)

66 Trib. Palermo, 4 aprile 1998, Musotto, cit. In tal senso v. anche Trib. Palermo, 13 dicembre 1996, Scamardo ed altri, in Foro it., 1997, II, pp. 706 ss.; Trib. Taranto, 29 giugno 1999, Cito, in Foro it., 1999, II, c. 166 ss.

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In dottrina adotta il criterio della infungibilità della prestazione VISCONTI , Il concorso esterno in associazione mafiosa: profili dogmatici ed esigenze politico-criminali, cit., p. 1336. 67 Cass. pen., sez. IV, 3 settembre 1996, n. 2080, Blando, in C.E.D. Cass., n. 206454. 68 COLLICA , cit., pp. 877 ss.: « Quanto allo spessore del contributo del concorrente esterno appare eccessivo pretendere che si riveli decisivo addirittura per il mantenimento in vita dell’associazione. Attraverso lo strumento dell’art. 110 c.p. rilevano anche comportamenti minimali, ma che unitariamente considerati sprigionino una forza causale sul fatto associativo. Certamente però l’esigenza che l’apporto dell’extraneus debba rivelarsi utile per l’associazione nel suo insieme fa sì che, nella maggioranza dei casi, tale contributo debba denotare un certo spessore ». 69 Cass. pen., 20 febbraio 2004, n. 14541, in C.E.D. Cass., n. 229242. 70 Cass. pen., sez. fer., 31 agosto 1993, Di Corrado, in Cass. pen., 1994, pp. 1496 ss. Cass. pen., sez. I, 13 giugno 1987, Altivalle, cit. V. anche Cass. pen., sez. I, 14 ottobre 1994, n. 4342, Cavallari, cit. 71 Cass. pen., sez. I, 17 aprile 2002, n. 21356, Frasca, cit.: « Il concorso c.d. « esterno » o « eventuale » in associazione per delinquere di stampo mafioso è una forma di partecipazione saltuaria o sporadica all’attività del sodalizio criminoso ». La giurisprudenza della Suprema corte sembra attestata nel riconoscere la sporadicità del contributo come una semplice eventualità. Con riferimento all’attività del concorrente esterno in una pronuncia degli Ermellini si legge: « ancorchè occasionale e di importanza secondaria o di semplice intermediazione » (Cass. pen, sez. fer., 31 agosto 1993, Di Corrado, cit.). Nel senso che sia sufficiente “anche” l’occasionalità dell’apporto v. Cass. 22 dicembre 2000, n. 6929, Cangialosi, cit. 72 In una decisione la Corte d’appello di Catania ha affermato: « Commette il delitto di concorso esterno in associazione per delinquere di stampo mafioso (e non quello di favoreggiamento personale aggravato ex art. 7 l. n. 203 del 1991) il soggetto che con continuità e sistematicità opera con gli associati al sodalizio criminoso attraverso costanti supporti informativi relativi ad operazioni di polizia, informazioni agli associati concernenti dichiarazioni di soggetti intese a individuare i covi di appartenenti alle organizzazioni criminali, e infine attraverso attività di copertura agevolante in topici momenti di ricerca per la cattura di membri delle stesse, per depistare le indagini di polizia volte a reprimere l’attività criminosa » (App. Catania, 3 ottobre 2001, Corona e altro, cit.). 73 Cass. pen., S.U., 30 ottobre 2002, n. 22327, Carnevale, cit. In una precedente pronuncia si legge: « risponde del reato di concorso in associazione per delinquere di stampo mafioso il soggetto che, pur estraneo alla struttura organica del sodalizio, presti un contributo duraturo e consapevole all’attività delittuosa da questa svolta. La responsabilità può essere esclusa solo ove sia acquisita la prova positiva di una formale esclusione del soggetto dall'associazione secondo le regole interne, anche consuetudinarie, di questa. In assenza di tale dimostrazione, ove risulti che gli affiliati fanno preventivo affidamento sul contributo di taluno, la condotta di

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questi va considerata alla stregua di quella di qualsiasi partecipe » (Cass. pen., sez. V, 23 aprile 1997, n. 4903, Montalto, cit.). 74 Cass. pen., S.U., 30 ottobre 2002, n. 22327, Carnevale, cit. 75 In una pronuncia della Suprema Corte si legge: « comportamenti aventi idoneità causale per il conseguimento dello scopo sociale o per il mantenimento della struttura associativa » (Cass. pen., sez. I, 23 novembre 1992). Con specifico riferimento al concorso esterno in giurisprudenza si vedano: Cass. pen., sez. I, 13 giugno 1987, n. 3492, Altivalle, cit.; Cass. pen., sez. VI, 15 maggio 2000, Pangallo, cit.; Cass. pen., sez. VI, 25 giugno 1999, Cusumano, cit. 76 Trib. Palermo, 18 novembre 1996, Cordaro e Clementi, in Foro it., 1997, II, c. 611 ss. 77 CORVI , cit., pp. 242 ss. 78 Cass. pen., S.U., 12 luglio 2005, n. 33748, Mannino, cit. 79 Cass. pen., S.U., 30 ottobre 2002, n. 22327, Carnevale, cit. 80 Taluna dottrina, posta l’insufficienza di una mera disponibilità da parte dell’extraneus, nutre riserve in merito alla giustezza di richiedere che il contributo di questi abbia conseguito le finalità ad esso sottese, o comunque che l’associazione se ne sia giovata (VISCONTI , Il concorso « esterno » nell’associazione mafiosa: profili dogmatici ed esigenze politico criminali, cit., pp. 1303 ss.). 81 In una pronuncia della Suprema corte si sottolinea l’irrilevanza dell’effettivo raggiungimento dello scopo perseguito dal concorrente esterno, e si pone l’accento sul dato che il soggetto estraneo al sodalizio si è attivato per agevolare un clan mafioso (Cass. pen., sez. II, 5 luglio 2004, n. 33626). 82 Cass. pen., sez. V, 1 giugno 2007, n. 21648. Trib. Palermo, 27 gennaio 2001, Scalone, in Foro it., 2001, II, c. 68 ss.: « è naturale che le scelte criminali dell’organizzazione venissero rafforzate dalla convinzione di poter contare su una simile interfaccia politica ». Si veda anche Trib. Palmi, 25 marzo 1996, Mancini, in Foro it., 1997, II, c. 441 ss., con nota di VISCONTI , Patto politico – mafioso e i problematici confini del concorso esterno. 83 Trib. Taranto, 29 giugno 1999, Cito, in Foro it., 1999, II, c. 166 ss. 84 Cass. pen., sez. V, 20 aprile 2006, n. 1649, in C.E.D. Cass., n. 234457. 85 Trib. Catania, sentenza-ordinanza 28 marzo 1991, Amato + 64, in Foro it., 1991, II, pp. 472 ss., con nota di FIANDACA , La contiguità mafiosa degli imprenditori tra rilevanza penale e stereotipo criminale. 86 Trib. Palermo, sez. II, 21 marzo 2001, Napoli ed altri. 87 App. Palermo, sez. IV, Napoli ed altri, depositata in data 11 settembre 2002. 88 Procura della Repubblica di Palermo, Direzione distrettuale antimafia. Atto di appello – procedimento n. 1710/1999 nei confronti di Napoli Giovanni ed altri. Nell’atto si legge: « rischiano di costituire un precedente oggettivamente grave qualora si dovesse, sulla base di esse, giungere alla conclusione della “irrilevanza giuridica”, sotto il profilo penale, della condotta di quegli imprenditori che, per conseguire appalti pubblici, contravvenendo al principio fondamentale e costituzionalmente garantito della libera concorrenza, si rivolgono all’organizzazione criminale mafiosa (nel caso di specie al capo riconosciuto di Cosa

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Nostra) per eliminare preventivamente qualsivoglia (o anche soltanto taluno) degli ostacoli, anche solo potenzialmente frapposti all’aggiudicazione della gara d’interesse ». Nel medesimo contesto si osserva che ad accogliere le conclusioni cui è giunto in prima battuta il Tribunale, « si rischierebbe di legittimare la condotta di qualsivoglia imprenditore che, per il conseguimento dei propri interessi personali e patrimoniali, decidesse di rivolgersi a Cosa Nostra riconoscendole, di fatto, il ruolo di soggetto deputato alla gestione di quelle attività e quegli “interessi” che invece competono soltanto alle pubbliche amministrazioni ». 89 Così Cass. pen., sez. I, 5 gennaio 1999, n. 84, Cabib, cit. 90 Decisione emessa in data 18 luglio 2007 dal G.U.P. presso il Tribunale di Palermo, dott. Marco Mazzeo. 91 Cass. pen., sez. V, 22 dicembre 2000, n. 6929, Cangialosi, cit.: « In tema di cause di giustificazione, nella ipotesi in cui si sia verificata una cooperazione imprenditoriale tra gli appartenenti ad un sodalizio di stampo mafioso, da un lato, ed un soggetto non inserito nella predetta struttura delinquenziale, dall’altro, deve escludersi la ricorrenza della esimente dello stato di necessità in favore di quest’ultimo, che accogliendo la proposta proveniente dalla compagine criminosa, si giovi, al contempo, dell’esistenza dell’associazione e ne tragga benefici in termini di protezione e di finanziamento ». 92 In merito all’innovazione intervenuta nel 1992 si segnalano: ALBAMONTE , Le modifiche apportate all’art. 416-bis c.p. e la “mafia politica”, in Cass. pen., 1992, pp. 3165 ss.; DE FRANCESCO, Commento agli artt. 11-bis e 11-ter del d.l. 8 giugno 1992, n. 306 (antimafia), in Leg. pen., 1993, pp. 122 ss.; DE ROSE, La criminalità organizzata fra prevenzione e repressione, in Riv. pen. econ., 1993, pp. 260 ss.; DI NARDO , Le innovazioni di diritto penale della legge n. 356/1992, in Riv. pen., 1993, pp. 259 ss.; FORLENZA , I nuovi reati elettorali e contro l’amministrazione della giustizia nella legge n. 356/1992, in Riv. pen. econ., 1992, pp. 530 ss.; LI VECCHI , Mafia, politica, pentitismo, tangentopoli e loro trattamento processuale e penale, in Riv. pen., 1993, II, pp. 1187 ss. Sul tema più di recente si vedano: COLLICA , cit., pp. 877 ss.; FONZO – PULEIO , Lo scambio elettorale politico-mafioso: un delitto fantasma? (nota a Cass. pen., sez. VI, 19 febbraio 2004, n. 10785, in Cass. pen., 2005, 6, pp. 1908 ss.). Sui reati elettorali si rimanda a BERTOLINI , voce “Elezioni” (reati elettorali), in Enc. giur. Treccani, vol. XII, 1989, pp. 2 ss.; GARAVELLI , voce “Elezioni” (reati elettorali), in Dig. disc. pen., vol. IV, Utet, 1990, pp. 225 ss. La modifica del 1982 è stata tacciata di modesta incidenza applicativa, atteso che le finalità connesse all’esercizio del voto potevano ritenersi contemplate nel quadro dei « profitti o vantaggi ingiusti », formula con cui si chiudeva il terzo comma dell’art. 416-bis c.p. Così si sono espressi: INGROIA , L’associazione di tipo mafioso, cit., pp. 84 ss.; DE FRANCESCO, Gli artt. 416-bis, 416-ter, 417, 418 c.p., in AA. VV., Mafia e criminalità organizzata (a cura di Corso-Insolera-Stortoni), Utet, 1995, pp. 58 ss.; INSOLERA , Diritto penale e criminalità organizzata, Il Mulino, 1996, p. 80.

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È questa una linea interpretativa condivisa da chi scrive. Taluna dottrina ha osservato: « la modifica legislativa è encomiabile. Ben vengano […] nel rispetto del principio di tassatività, le esplicite tipizzazioni di condotte criminose allorquando, in mancanza, siano riconducibili solo forzosamente ad altre già formalizzate » (COLLICA , cit., pp. 877 ss.). In dottrina è stato ritenuto che le tre condotte di impedimento, di ostacolo del diritto di voto ovvero di procacciamento dei suffragi, sono sussumibili nell’alveo dell’art. 294 c.p. (che contempla la fattispecie delittuosa rubricata “Attentati contro i diritti politici del cittadino”) e della normativa in materia elettorale (FORLENZA , cit., p. 534). 93 VISCONTI , Il reato di scambio elettorale politico-mafioso, in Ind. pen., 1993, p. 299. 94 CORVI , cit., pp. 242 ss. 95 La Corte di cassazione più volte ha ritenuto che nel patto di scambio mafia-politica potessero configurarsi gli estremi del concorso esterno nel reato di associazione di tipo mafioso (tra le tante: Cass. pen., sez. V, 16 marzo 2000, Frasca, cit.; Cass. pen., sez. VI, 15 maggio 2000, Pangallo, cit.; Cass. pen., sez. V, 26 maggio 2001, Allegro; Cass. pen., sez. I, 17 aprile 2002, Frasca, cit.; Cass. pen., sez. V, 13 novembre 2002, Gorgone; Cass. pen., sez. I, 25 novembre 2003, Cito; Cass. pen., sez. I, 4 febbraio 2005, Micari; Cass. pen., S.U., 12 luglio 2005, n. 33748, Mannino, cit.; Cass. pen., sez. V, 6 febbraio 2007, n. 21648).

96 Cass. pen., S.U., sent. 12 luglio 2005 n. 33748, Mannino, cit. 97 Cass. pen., S.U., sent. 12 luglio 2005 n. 33748, Mannino, cit. In precedenza si vedano: Cass. pen., sez. V, 16 marzo 2000, n. 4893, Frasca, cit.; Cass. pen., sez. VI, 15 maggio 2000, Pangallo, cit.; Trib. Taranto, Cito, cit.; Trib. Palmi, 25 marzo 1996, Mancini, cit.; Trib. Palermo, 4 aprile 1998, Musotto, cit. Nel senso che la semplice promessa è suscettiva di integrare gli estremi della partecipazione v. Cass., sez. I, 8 giugno 1992, Battaglini, cit. 98 Cass. pen., S.U., sent. 12 luglio 2005 n. 33748, Mannino, cit. Nel decisum i Giudici sottolinenano la necessità che « gli impegni assunti dal politico, per l’affidabilità dei protagonisti dell’accordo, per i caratteri strutturali dell’associazione, per il contesto di riferimento e per la specificità dei contenuti, abbiano il carattere della serietà e della concretezza ». 99 In una decisione giurisprudenziale si è addirittura ritenuto integrato il patto di scambio anche nell’ipotesi in cui il politico non è risultato eletto (Trib. Palermo, 27 gennaio 2001, Scalone, in Foro it., 2002, II, c. 68 ss.). Nel senso dell’irrilevanza dell’esito delle consultazioni elettorali si veda App. Palermo, sentenza dell’11 maggio 2004.

100 Cass. pen., sez. V, 6 febbraio 2007, n. 21648: « una volta […] che si ritenga provata la partecipazione […] all’associazione mafiosa con le modalità del concorso esterno, non sono necessarie ulteriori e specifiche verifiche sul rispetto degli impegni assunti con il patto elettorale dal politico, che saranno necessarie solo nei casi in cui non vi sia esaustiva prova diretta del patto, e questo debba arguirsi dai suoi effetti ». 101 Cass. pen., S.U., 12 luglio 2005, n. 33748, Mannino, cit.

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102 Cass. pen., sez. V, 6 febbraio 2007, n. 21648.