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convegno di Rivoli del 1987 (gli atti non sono mai stati pubblicati, se non qualche relazione in “Vernissage”, supplemento interno al “Giornale dell’arte” del settembre 1991); incontro di Ferrara del 1991 (vedi L. RIGHI , a cura di, Conservare l' arte contemporanea, Nardini, Firenze 1992); convegno di Prato del 1994 (vedi S. ANGELUCCI , a cura di, Arte Contemporanea. Conservazione e restauro, Nardini, Firenze 1994); convegno di Venezia, 5 ottobre – 30 novembre 1996 (vedi Conservazione e restauro dell'arte contemporanea, a cura di E. DE MARTINO, Allemandi, Torino 2005; O. CHIANTORE, A. RAVA, Conservare l’arte contemporanea, Mondadori, Milano 2005. Afferma Christian Boltanski: «La maggior parte delle opere che faccio oggi sono un po’ come delle partizioni musicali che possono essere suonate e risuonate modificandole in funzione al luogo e allo spazio. Di conseguenza, non c’è realmente un oggetto che rimane: vengono applicate un certo numero di regole, mentre l’oggetto può essere distrutto e ricostruito. Ci sono due modi di comunicare: uno è piuttosto legato all’Occidente ed è una maniera di trasmettere attraverso l’oggetto; l’altro lo possiamo trovare in Giappone per esempio, dove i templi sono ricostruiti ogni dieci anni, i giardini zen ogni giorno, ma ci sono degli uomini che possiedono la conoscenza e che vengono considerati come dei monumenti nazionali. Esiste dunque una trasmissione attraverso l’oggetto e una che viene fatta tramite la conoscenza. Nel caso delle opere che faccio direttamente in situ, si tratta piuttosto di una trasmissione attraverso la conoscenza» Alessandro Conti, in apertura del suo Manuale di restauro (1996), scriveva: «Un’opera d’arte, si sa, è per definizione, unica. Diversamente da un testo letterario o poetico, si identifica con un oggetto; le sue riproduzioni sono qualcosa di diverso, fonti d’informazione che non si possono confondere con l’originale, con il suo formato, con I suoi materiali. La conoscenza di stesure autografe, di edizioni originali, di tutto ciò che riguarda la scrittura o l‘editoria di uno scrittore non è inutile alla sua conoscenza, e alla comprensione di un testo; ma

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• convegno di Rivoli del 1987 (gli atti non sono mai stati pubblicati, se non qualche relazione in “Vernissage”, supplemento interno al “Giornale dell’arte” del settembre 1991);

• incontro di Ferrara del 1991 (vedi L. RIGHI , a cura di, Conservare l' arte contemporanea, Nardini, Firenze 1992);

• convegno di Prato del 1994 (vedi S. ANGELUCCI , a cura di, Arte Contemporanea. Conservazione e restauro, Nardini, Firenze 1994);

• convegno di Venezia, 5 ottobre – 30 novembre 1996

(vedi Conservazione e restauro dell'arte contemporanea, a

cura di E. DE MARTINO, Allemandi, Torino 2005;

O. CHIANTORE, A. RAVA, Conservare l’arte contemporanea, Mondadori, Milano 2005.

Afferma Christian Boltanski:

«La maggior parte delle opere che faccio oggi sono un po’

come delle partizioni musicali che possono essere suonate e risuonate modificandole in funzione al luogo e allo spazio. Di conseguenza, non c’è realmente un oggetto che rimane: vengono applicate un certo numero di regole, mentre l’oggetto può essere distrutto e ricostruito.

Ci sono due modi di comunicare: uno è piuttosto legato all’Occidente ed è una maniera di trasmettere attraverso l’oggetto; l’altro lo possiamo trovare in Giappone per esempio, dove i templi sono ricostruiti ogni dieci anni, i giardini zen ogni giorno, ma ci sono degli uomini che possiedono la conoscenza e che vengono considerati come dei monumenti nazionali. Esiste dunque una trasmissione attraverso l’oggetto e una che viene fatta tramite la conoscenza. Nel caso delle opere che faccio direttamente in situ, si tratta piuttosto di una trasmissione attraverso la conoscenza»

Alessandro Conti, in apertura del suo Manuale di restauro (1996), scriveva:

«Un’opera d’arte, si sa, è per definizione, unica. Diversamente da un testo letterario o poetico, si identifica con un oggetto; le sue riproduzioni sono qualcosa di diverso, fonti d’informazione che non si possono confondere con l’originale, con il suo formato, con I suoi materiali. La conoscenza di stesure autografe, di edizioni originali, di tutto ciò che riguarda la scrittura o l‘editoria di uno scrittore non è inutile alla sua conoscenza, e alla comprensione di un testo; ma quest’ultimo sopravvive attraverso qualunque apografo, almeno fintanto che se ne segue e se ne comprende la lingua.

Affidata alla caducità della materia del mondo sublunare, un’opera d’arte ha invece una durata limitata»

«Di fatto, tutto il lavoro del restauratore è una continua sequenza di interpretazioni, che ne guida decisioni e modi di procedere. Egli ha il dovere di essere costantemente cosciente di ciò che scopre e di quello che accade in ogni momento del suo contatto ravvicinato con l’oggetto, contribuendo così ampiamente all’interpretazione dell’oggetto stesso»

da Hanna Jedrzejeska, Ethics in Conservation (1976), tr. it. Principi di restauro, a cura di A. Conti, Fiesole 1983

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Inevitabilmente, il restauro è sempre selettivo; a questo proposito le normative Ifla sul restauro nelle biblioteche sono molto chiare:

«Il restauro di un documento deteriorato appartenente ad una raccolta di biblioteca (…) comporta sempre un cambiamento: alcune proprietà dei materiali originali verranno conservate a spese di altre; spetta al bibliotecario decidere se tale cambiamento è o no accettabile. Scopo del restauro è fornire l’oggetto restaurato di qualità funzionali, visuali e tattili quanto più è possibile vicine all’originale»

(Ifla 1979, comma I)

Per la storia dell’arte e l’archeologia le fonti non sono solo testimonianze verbali ma soprattutto opere e manufatti, in cui autenticità e veridicità costituiscono un unico requisito

RESTAURO.

Una definizione generica:

«qualsiasi intervento volto a rimettere in buono stato e in condizioni di funzionalità un edificio o un manufatto»

dal Vocabolario Treccani della lingua italiana (1991)

Una definizione più precisa:

«l’operazione e il procedimento tecnico intesi ad assicurare la conservazione e a reintegrare, per quanto possibile e opportuno, gli aspetti compromessi di edifici e monumenti, di opere d’arte, di mobili e di altri oggetti di valore artistico, storico o antropologico, di libri e manoscritti»

dal Vocabolario Treccani della lingua italiana (1991)

«rifare ad una cosa le parti guaste e quelle che mancano, o per vecchiezza o per altro accidente simile»

Sub vocem, Vocabolario della Crusca (1612, 1623, 1691, 1729, 1738)

Restauro, dal latino restaurare, ossia reficere, instaurare, renovare – cioè rifare di nuovo, ristabilire.

da E. Viollet-Le-Duc, voce «Restauration», in Dictionnaire raisonné de l’architecture française, 1854-1868

Una definizione più precisa:

«l’operazione e il procedimento tecnico intesi ad assicurare la conservazione e a reintegrare, per quanto possibile e opportuno, gli aspetti compromessi di edifici e monumenti, di opere d’arte, di mobili e di altri oggetti di valore artistico, storico o antropologico, di libri e manoscritti»

dal Vocabolario Treccani della lingua italiana (1991)

Il restauro è un intervento di rallentamento dei processi di degrado patologici non altrimenti arginabili.

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Deve salvaguardare l’oggetto come testimonianza storica, dunque ne deve conservare la storia dei materiali di cui è costituito, le vicende di manutenzione e di restauro che ne rappresentano il percorso. E’ evidente che il risultato di tali interventi tende a restituire anche una migliore leggibilità all’oggetto e una sua specifica conoscenza.

Sub vocem, da C. Giannini, R. Roani, Dizionario del restauro e della diagnostica, Firenze 2004

Che cos’è, allora, la storia del restauro?

E’ la storia delle definizioni di restauro o, meglio, degli atteggiamenti delle diverse epoche storiche verso il passato in relazione al gusto e agli indirizzi artistici del proprio tempo.

D’altra parte, ogni intervento di restauro, per quanto consapevole, è espressione di una cultura storicamente circoscritta. E’ sempre, inevitabilmente, datato.

L’art.13 del Trattato di Tolentino (12 febbraio 1797) confermava l’art. 8 dell’Armistizio di Bologna (23 giugno 1796), in cui si stabiliva che il Papa dovesse consegnare ai francesi 100 opere d’arte e 500 manoscritti.

Le opere, scelte dalla commissione incaricata, furono imballate e spedite in Francia in quattro convogli.

Il viaggio, seguito da alcuni commissari, fu molto lungo: via terra fino a Livorno, poi per mare fino a Marsiglia e, quindi, risalenedo il Rodano, la Saône e la Senna fino a Parigi.

Nel 1798, le medesime prescrizioni furono allargata a tutt’Italia.

Un primo sistema organico di tutela è rappresentato dalla legge n.185 del 12.06.1902, presentata dal Ministro della Pubblica Istruzione Nunzio Nasi e integrata dal cosiddetto catenaccio (legge n.242 del 27.06.1903).

Con questa legge fu introdotto il principio secondo cui l’interesse pubblico fosse prevalente sulla proprietà privata.

Lo strumento di fondamentale discernimento era considerato il Catalogo nazionale.

«la tradizione e tutte le regole del nostro Diritto ci consentono di ritenere che una cosa d’arte e d’antichità, quando abbia un singolare pregio, se può essere oggetto di proprietà privata, rappresenta un alto e generale interesse dela nazione che si sovrappone all’esercizio del diritto privato»

dalla Relazione di Giovanni Rosadi alla Camera dei Deputati per la Legge n.364 del 20.06.1909

La legge del 1909 fu ripresa dalla legge n.1089 del

01.06.1939, di Giuseppe Bottai, Ministro dell’Educazione

Nazionale del governo fascista.

La legge non vide mai la pubblicazione del suo

regolamento, è rimasta in vigore fino al Testo Unico del

1999.

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Per celebrare la nuova condizione imperiale dell’Italia fascista (nel 1936 era stata conquistata l’Etiopia), a Roma venne condotta una vera e propria trasformazione urbanistica: alla costruzione di un nuovo quartiere, l’EUR, si aggiunsero demolizioni e sventramenti, volti a creare grandi arterie di comunicazione e scenari da parata, come via della Conciliazione, o a isolare monumenti notevoli, come il Mausoleo di Augusto a piazza Augusto imperatore.

«Le alte parti contraenti, constatando che I beni culturali hanno subito gravi danni nel corso degli ultimi conflitti e che, in conseguenza dello sviluppo della tecnica della guera, essi sono vieppiù minacciati di distruzione, [sono ] convinte che I danni arrecati ai beni culturali, a qualsiasi popolo essi appartengano, costituiscono un danno al patrimonio culturale dell’umanità intera, poichè ogni popolo contribuisce alla cultura mondiale»

Dalla Prem

Il restauro è un processo che comporta sempre un cambiamento: alcune proprietà dei materiali originali verranno conservate a spese di altre; il restauratore deve decidere se tale cambiamento è o no accettabile. essa della Convenzione per la protezione dei Beni Culturali in caso di conflitto armato, LAja 1954

I principi fondamentali del restauro:

• riconoscibilità

qualsiasi parte aggiunta durante l’intervento di restauro deve essere distinguibile da quelle originali

• reversibilità

qualsiasi intervento di restauro deve poter essere rimosso senza danneggiare l’originale

• compatibilità

I materiali impiegati nel restauro non devono recare danno né fisico né estetico ai materiali originali

Nel 1951, Roberto Longhi osservava:

«Perché non è giunto a noi neppure un dipinto dell’antichità classica? Non saranno stati solo i barbari a spezzarli; o i Cristiani a darli alle fiamme per la paganità del soggetto; fu la loro stessa antichità a consumarli.

Un millennio è la durata medio-massima della vita di un’opera d’arte “mobile”»

Raffaello,

Grand Saint Michel,

trasportato su tela da Robert Picault nel 1751 e trasportato su nuova tela nel 1777

Parigi, Museo del Louvre

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• convegno di Rivoli del 1987 (gli atti non sono mai stati pubblicati, se non qualche relazione in “Vernissage”, supplemento interno al “Giornale dell’arte” del settembre 1991);

• incontro di Ferrara del 1991 (vedi L. RIGHI , a cura di, Conservare l' arte contemporanea, Nardini, Firenze 1992);

• convegno di Prato del 1994 (vedi S. ANGELUCCI , a cura di, Arte Contemporanea. Conservazione e restauro, Nardini, Firenze 1994);

• convegno di Venezia, 5 ottobre – 30 novembre 1996

(vedi Conservazione e restauro dell'arte contemporanea, a

cura di E. DE MARTINO, Allemandi, Torino 2005;

• O. CHIANTORE, A. RAVA, Conservare l’arte contemporanea, Mondadori, Milano 2005.

• Afferma Christian Boltanski:

• «La maggior parte delle opere che faccio oggi sono un po’come delle partizioni musicali che possono essere suonate e risuonate modificandole in funzione al luogo e allo spazio. Di conseguenza, non c’è realmente un oggetto che rimane: vengono applicate un certo numero di regole, mentre l’oggetto può essere distrutto e ricostruito. Ci sono due modi di comunicare: uno è piuttosto legato all’Occidente ed è una maniera di trasmettere attraverso l’oggetto; l’altro lo possiamo trovare in Giappone per esempio, dove i templi sono ricostruiti ogni dieci anni, i giardini zen ogni giorno, ma ci sono degli uomini che possiedono la conoscenza e che vengono considerati come dei monumenti nazionali. Esiste dunque una trasmissione attraverso l’oggetto e una che viene fatta tramite la conoscenza. Nel caso delle opere che faccio direttamente in situ, si tratta piuttosto di una trasmissione attraverso la conoscenza»

• Alessandro Conti, in apertura del suo Manuale di restauro (1996), scriveva:

• «Un’opera d’arte, si sa, è per definizione, unica. Diversamente da un testo letterario o poetico, si identifica con un oggetto; le sue riproduzioni sono qualcosa di diverso, fonti d’informazione che non si possono confondere con l’originale, con il suo formato, con I suoi materiali. La conoscenza di stesure autografe, di edizioni originali, di tutto ciò che riguarda la scrittura o l‘editoria di uno scrittore non è inutile alla sua conoscenza, e alla comprensione di un testo; ma quest’ultimo sopravvive attraverso qualunque apografo, almeno fintanto che se ne segue e se ne comprende la lingua. Affidata alla caducità della materia del mondo sublunare, un’opera d’arte ha invece una durata limitata»

• «Di fatto, tutto il lavoro del restauratore è una continua sequenza di interpretazioni, che ne guida decisioni e modi di procedere. Egli ha il dovere di essere costantemente cosciente di ciò che scopre e di quello che accade in ogni momento del suo contatto ravvicinato con l’oggetto, contribuendo così ampiamente all’interpretazione dell’oggetto stesso»

da Hanna Jedrzejeska, Ethics in Conservation (1976), tr. it. Principi di restauro, a cura di A. Conti, Fiesole 1983

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• Inevitabilmente, il restauro è sempre selettivo; a questo proposito le normative Ifla sul restauro nelle biblioteche sono molto chiare:

• «Il restauro di un documento deteriorato appartenente ad una raccolta di biblioteca (…) comporta sempre un cambiamento: alcune proprietà dei materiali originali verranno conservate a spese di altre; spetta al bibliotecario decidere se tale cambiamento è o no accettabile. Scopo del restauro è fornire l’oggetto restaurato di qualità funzionali, visuali e tattili quanto più è possibile vicine all’originale» (Ifla 1979, comma I)

• Pietro Edwards (1786), volendo chiarire le cause principali di deperimento dei dipinti, ricordava che :«chi non si accomoda tranquillamente alle decisioni del popolo comprende benissimo che il tempo non nè causa material ed organica d’alcuna distruzione e ch’ei soltanto è misura della durazion dell’azione distruggitrice non meno che di quella con cui si preservan le cose»cfr. P. Edwards, Dissertazione preliminare al piano di custodia da istruirsi per la possibile preservazione e per il miglior mantenimento delle pubbliche pitture, Venezia, Biblioteca del seminario patriarcale, ms. 787, ins. 7 G.

Cesare brandi

«I sostenitori della pulitura a fondo cominciano con una critica al concetto di patina: l’accusano di essere un concetto romantico, di tradire cioè una sovrapposizione emozionale al dipinto, sovrapposizione che coinciderebbe con l’inclinazione romantica per i sentimentalismi per le rovine, per il mistero, per la luce del tramonto»

Cesare Brandi, Teoria del restauro (1963), Torino 1977

Patena: “voce usata da pittori, e diconla altrimenti pelle, ed è quella universale scurità che il tempo fa apparire sopra le pitture, che anche talvolta le favorisce”

da Filippo Baldinucci, Vocabolario toscano dell’arte del disegno (1681)

Patina: insieme dei processi di adattamento dei materiali della superficie di un manufatto nei confronti dell’ambiente, influenzato dall’età, implicante l’invecchiamento di materiali organici e inorganici di cui è costituita l’opera C. Giannini, R. Roani, Dizionario del restauro e della Diagnostica, Firenze 2003

Per Brandi, allora, «dal punto di vista storico, la conservazione della patina, come conservazione di quel particolare offuscamento che la novità della materia riceve attraverso il tempo ed è quindi testimonianza del tempo trascorso, non solo è auspicabile, ma tassativamente richiesta»

C. Brandi, «Il restauro», in Il restauro. Teoria e pratica, a cura di M. Cordaro, Roma 2005, p.29

Inoltre, dal punto di vista estetico, poichè la materia deve essere tramite all’immagine, la patina è «quell’impercettibile sordina posta dal tempo alla materia, che si vede costretta a tenere il suo rango più modesto in seno all’immagine»

C. Brandi, «Il restauro», in Il restauro. Teoria e pratica, a cura di M. Cordaro, Roma 2005, p.32.

Per Brandi, il problema della pulitura a fondo portava con sè anche la questione, storico-artistica, storica ed estetica, delle velature.

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La velatura è uno strato di colore oleoso diluito che si lega con lo strato pittorico asciugando rapidamente e formando con questo un insieme unico, che in genere contrasta con la vernice di finitura, di diversa consistenza materica.Però, le velature possono essere applicate anche sotto forma di vernici colorate, e in questo caso hanno la stessa solubilità delle vernici finali.

Operazioni di risanamento del supporto:

- rimozione dell’antica intelaiatura-rincollaggio delle assi e applicazione di innesti a farfalla- raddrizzamento delle assi attraverso incisioni con sverzature- nuova intelaiatura, con elementi fissi e scorrevoli

Ogni opera d’arte racchiude in sè il segreto e il procedimento del suo restauro, sopratutto per la pulitura»

C. Brandi, «Il restauro della Pietà di Sebastiano del Piombo», in Il restauro. Teoria e pratica, a cura di M. Cordaro, Roma 2005, p.99.

I punti della relazione di Argan erano, in definitiva:

● il restauro delle opere d’arte deve essere «un’attività rigorosamente scientifica e precisamente come indagine filologica diretta a ritrovare e rimettere in evidenza il testo originale dell’opera»;

● il restauro deve essere affidato a «tecnici specializzati, continuamente guidati e controllati da studiosi: a una competenza genericamente artistica si è così sostituita una competenza rigorosamente storicistica e tecnica»;

● un buon restauro deve essere condotto attraverso l’«esame critico e storico dell’opera» e l’analisi dei dati delle indagini tecniche e scientifiche.

Nel 1941, il direttore dell’ICR, Cesare Brandi, poteva pronunciare il discorso d’inaugurazione delle attività dell’Istituto, sistemato nei locali del convento di San Francesco di Paola

L’organigramma dell’ICR:

● Consiglio Direttivo o Tecnico (1 presidente, 2 storici dell’arte, 2 archeologi, 1 fisico, 1 chimico, 1 direttore dell’ICR)

● 2 assistenti del Direttore, che avrebbero dovuto essere comandati tra gli Ispettori delle Antichità e Belle Arti;

●2 chimici, 2 fisici, 1 meccanico preparatore, da comandare dagli Istituti medi superiori e dalle Università;

● 1 restauratore capo, 3 restauratori aggiunti, da reclutare anche fuori dalla pubblica amministrazione.

’organigramma e il reclutamento del personale dell’ICR:

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●1 insegnante di disegno, 1 operatore fotografico, 1 capotecnico.

Si trattava dunque di un “organico leggero”, come nei desideri di Argan e Brandi.

Il primo consiglio tecnico vedeva la presenza di tre generazioni di storici dell’arte:

- Pietro Toesca (1877-1962);

- Roberto Longhi (1890-1970);

- Cesare Brandi (1906-1987);

- Giulio Carlo Argan (1909-1992).

- L’Istituto Centrale doveva rispondere non solo alle esigenze di un quadro normativo unitario, ma soprattutto proporre un’unità di metodo nella differenza delle discipline:

- l’ICR come «gruppo creativo»

(cfr. L’emozione e la regola. I gruppi creativi in Europa dal 1850 al 1950, a cura di A. De Masi, Roma –Bari 1989)

Luci ed ombre dell’ICR vent’anni dopo in una relazione di Brandi per il nuovo direttore, Pasquale Rotondi:

● il problema del reclutamento del personale previsto in organico;

●la questione dell’amministrazione subordinata al Ministero (tale autonomia sarà ottenuta nel 1977, dopo l’istituzione del Ministero per i Beni Culturali)

●il restauro delle opere d’arte privata e la divisione dei proventi

●il difficile rapporto con le soprintendenze;

●il finanziamento delle attività di restauro all’estero

Durante la direzione di Brandi fu avviata una attiva collaborazione con l’Istituto Italiano per il Medio e l’Estremo Oriente :

la collaborazione intrapresa negli anni Novanta dai due istituti per la creazione del Centro di Restauro di Xi’an in Cina prosegue su questo percorso, che vedeva tra i collaboratori di Brandi l’attivissimo archeologo Michelangelo Cagiano de Azevedo.

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Primo principio del restauro:

Il restauro delle opere d’arte è momento metodologico del riconoscimento dell’opera d’arte nella sua consistenza fisica e nella sua duplice polarità estetico-storica, in vista della sua trasmissione al futuro.

«Si restaura solo la materia dell’opera d’arte»

secondo principio del restauro:

”Il restauro deve mirare al ristabilimento dell’unità potenziale dell’opera d’arte, purché ciò sia possibile senza commettere un falso artistico o un falso storico e senza cancellare ogni traccia del passaggio dell’opera d’arte nel tempo”.

Dal Carmine alla Teoria del restauro, il pensiero di Brandi si svolge dall’analisi della produzione artistica a quella della fruizione da parte dello spettatore.

Da questo punto, appare centrale il problema dell’integrazione delle lacune, che Brandi affronta dalla parte della teoria della percezione visiva o gestalt.

«(…) fu detto al papa che in una vigna presso a Snta Maria Maggiore s’era trovato certe statuemolto belle. El papa comandò a un palafreniere : Va, et di’ a Giuliano da Sangallo, che subito vadia di là a vedere. Et così subito si andò. Et perchè Michelangelo Buonarroti si trovava continuamente in casa, che mio padre l’haveva fatto venire, et gli haveva allogata la sepoltura del papa et volle che ancor lui andasse, ed io così in groppa amio padre, et andammo. Et scesi dove erano le statue: subiro mio padre disse: Questo è Hilaoconte, che fa menzione Plinio, et si fece crescere la buca per poterlo tirar fuora. Et visto ci tornammo a desinare et sempre si desinò di cose antiche»

Lettera di Francesco da Sangallo a Vincenzo Borghini, 28 febbraio 1567

«A Felice de Fredis, cittadino caro a noi in Cristo, salute eterna nel Signore. Essendoti da pocon con l più grande diligenza, fatica e spesa procacciate le statue di Laocoonte troiano e dei figli, le quali sa perchè erano state create da abilissimi scultori, sia perchè rispecchivano quell’antica grazia e maestà dei romani a tal punto piacquero a Sua Santità che comandò di collocare in Vaticano proprio quelle statue di Laocconte e dei figli a perpetua memoria dell’evento. E perchè non sembrasse nè che tu avessi faticato invano e che avessi rinunciato al rimborso delle spese, nè che I posteri si astenessero dal ricercare opere di tal fatta (…) ha ritenuto opportuno in remunerazione e premio per le suddette cose di affidare ate e atiuo filgio tutti gli introiti dei proventi della gabella di Porta Celimontana»

Breve del cardinal Riario, 23 marzo 1506

«Questa statua che insieme co’ I figliuoli, Plinio dice esser tuta d’un pezzo, Giavannangelo romano e Michel Cristofaro fiorentino, che sono I primi scultori di Roma, negano ch’ella sia d’un sol marmo, e mostrano circa quattro commettiture; ma congiunte in luogo tanto nascoso, e tanto bene saldate e ristuccate, che non si possono conoscere faclemnet s enon da persone peritissime in quest’arte. Però dicono che Plinio si ingannò, o volle ingannare gli altri per rendere quest’opera più ammirabile. (…) L’autorità di Plinio è grande

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ma I nostri artefici hanno le sue ragioni»Lettera di Cesare Trivulzio al fratello a Milano, 1 giugno 1506

E poichè la maggior parte delle sculture della collezione della Valle a Roma «non erano intere per essere senza braccia ed alcune senza gambe, ed insomma ciascuna con qualche cosa in meno, l’accomodò [Lorenzetto] nondimeno benissimo avendo fatto rifare a buoni scultori tutto quello che mancava: la qual cosa fu cagione che altri signori hanno poi fatto il medesimo, e restaurato molte cose antiche»

Giorgio Vasari, Le Vite (1568

GANIMEDE

“(…) che per un fanciulletto io non mi ricordo di aver mai veduto tra le anticaglie una così bella opera, né di così bella maniera; di modo che io mi offerisco a Vostra Eccellenza illustrissima di restaurarvela, e la testa e le braccia, i piedi. E gli farò una aquila, acciò che sia e’ sia battezzato per un Ganimede. E sebbene e’ non si conviene a me il rattoppar le statue, perché ell’è arte da ciabattini i quali la fanno assai malamente; in però l’eccellenza di questo gran maestro mi chiama a servirlo”

Benvenuto Cellini, Vita (1559-1562)

A Boselli stava a cuore la qualità, come dimostra il suo rimprovero a tanti collezionisti suoi contemporanei, il quali «per non spendere» si accontentavano dei più debili soggetti del mestiero», col risultato che che troppo spesso venivano ricostruite «statue […] simili alli mostri descritti nell’arte poetica di Orazio»

Gli interventi di Carlo Maratta nella Galleria Farnese e nella Loggia di Psiche alla Farnesina (1693-1695 c.) sono riferiti da:

Giovan Pietro Bellori, «Riparazione della Galleria del Carracci nel Palazzo Farnese e della loggia di Raffaelle d’Urbino alla Lungara», in Descrizzione delle immagini dipinte da Raffaelle d’Urbino nelle Camere del Palazzo Apostolico Vaticano, Roma 1695. Nel 1702, superando tutte le precedenti opposizioni, Clemente XI incaricava Carlo Maratti di restaurare le Stanze Vaticane: il pittore Bartolomeo Urbani – suo principale aiuto in quest’impresa- stese una relazione dei lavori, poi pubblicata in un ampliamento delle Vite di Bellori.

Carlo Maratta e il “restauro preventivo”: l’esperienza delle Stanze Vaticane.

Le critiche di Jonathan Richardson ai restauri di Maratta alla Farnesina:

«l’intenso blu dei nuovi cieli, che fa da sfondo a tutte le figure, sia nei grandi che nei piccoli riquadri, unito a ritocchi sfolgoranti e a ridipinture sparse ovunque (…) fa sì che questo lavoro com’è ora, sia lontano dal rispondere all’idea che ci si deve formare sul nome di Raffaello, sulla sua grandiosa fama e sulle riproduzioni a stampa delle sue opere. Al contrario, si rimane delusi e rattristati»

J. Richardson, sr.& jr., An account of Some of the Statues, Bas-riliefs, Drawings and Pictures in Italy, London, 1722

Le critiche di Luigi Crespi ai restauri di Maratta alla Farnesina (1756):

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●” sempre si deve riconoscere il rifatto dall’antico dipinto, e però giammai si otterrà l’intento di perfettamente uguagliare le tinte”

●”chi volesse ad una medaglia antica (…) o ripulirla o farle aggiungere quel pezzo che vi mancasse, non sarebbe da tutti gli antiquari ed intendenti condannato?”

● anche se “perito ed eccellente nella sua maniera”, non è detto che un pittore debba essere anche un bravo restauratore.