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Verrete trasportati in un mondoche esiste in larga misura nella memoria degli anziani o di coloro che

hanno un’età di potersi ricordare alcuni dei mestieri dei nostri avi, i

quali raccontano ai nipoti o agli allievi, il duro lavoro di uomini e

donne al quale dovevano applicarsi. Ricordare le mani rosse e grosse di

tante donne di tantissime stagioni fa, tormentate dai reumatismi che

andavano alla “Fiumara” per lavare i panni o la cosiddetta” Vucata” in

casa, che ai nostri giorni ci fa ripensare con simpatia e soddisfazione

al mondo attuale degli elettrodomestici (che a noi donne fanno

risparmiare del tempo prezioso da dedicare ad altro). Anche se la

modernità ci ha portato delle innovazioni (alle quali ci siamo adeguati

subito), si è perso quel sapore e gusto atmosferico di una volta che non

ha niente a che vedere del caricamento della lavatrice domestica col

ciarlare o canto delle lavandaie al fiume...

In quest’anno, 2017, riscopriremo alcuni dei mestieri di una volta: un

passato prossimo che è già remoto, le opere di chi s’industriava, estate

e inverno facendo del suo laboratorio un crocevia d’ incontri per

avventori che vanno e vengono, o facendo della strada la loro bottega.

In città, con le sue piazze e contrade o nelle case sparse per i campi,

uomini e donne, offrivano per case e mercati, le loro abilità, mediante

l’uso di strumenti abituali nelle mani di venditori di merci o di sevizi

(dal lattaio al cantastorie), quanto di artigiani ambulanti ( calzolaio,

carbonaio). Ognuno con le sue abilità e i suoi strumenti: i ferri del

maniscalco, il coltello del macellaio o venditore di formaggio.

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Compiti umili o di grande perizia, da svolgere nel silenzio attento o nel

fracasso degli attrezzi sbattuti contro la pietra da scolpire o il ferro

arroventato della fucina del fabbro. Il sibilo lieve della falce fienaia

sui prati o il paziente andare avanti e indietro dell’ago della donna che

ricama, rammenda o fa la sarta; la mola dell’arrotino che fa sprizzare

(per le strade) scintille dalla lama o le incitazioni del carrettiere, ad

alta voce ai cavalli, per spronarli a procedere controcorrente sulle vie

dei fiumi (come l’attraversamento del fiume Torbido) . I volti alterate

dal peso delle donne montanare che portavano sulla schiena le balle di

fieno essiccato o le fascine di legno indispensabili per il focolare di

casa. Gli spazzacamini, scendevano in primavera dalla montagna,

guadagnandosi su e giù per i camini o scrostando canne fumarie

(dov’era passato il fumo odoroso di minestre, polente e i vapori

d’intingoli delle famiglie agiate), un pezzo di pane fuligginoso. Questi

alcuni dei vecchi mestieri di ogni giorno e migrazioni stagionali d’altri

tempi. Pensandoci sopra, è incredibile la falcidia che la trasformazione

del nostro vivere ha inflitto a tante oneste occupazioni. Non sempre,

tutte da rimpiangere.

Molti mestieri come: fabbri, falegnami, fittavoli, materassai, capellai

(chi comprava le ciocche dei capelli tagliati), osti, sarti e sarte di

campagna, ricamatrice (a Gioiosa c’erano due sorelle famose), calzolai

(vivente c’è ancora Totino, di più di novantadue anni), molinanti (il

mulino Ieraci Francesco; Rocco e Ciccio Gatto- non più esistente),

muratori, lattai, balie da latte (una volta c’erano famiglie numerose

con più di dodici o quindici figli, per cui le mamme alla fine, per vari

motivi, non avevano più latte e si doveva ricorrere alla balia), salumai

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e formaggiai, pecorai (che passavano per le vie del paese con le loro

pecore), friggitori, stracciaioli, zingari (che vendevano oggetti di ferro

battuto), hanno concorso a formare l’universo dei valori nella società

prima dell’industria. Che ai suoi albori non fu tenera verso coloro che

tentavano di uscire dalle durezze della vita contadina. Lasciando a

lungo aperta solo la porta dell’emigrazione permanente in Europa, verso

le Americhe e gli altri continenti.

Con questo lavoro, che man mano si andrà sfogliando, abbiamo voluto

(io e i miei allievi), richiamare alla memoria i lavori dei nostri nonni

e genitori, presentando a voi tutti, con disegni, ricerche storiche e

descrizione di quelle attività, che essi hanno praticato in vita e sono

divenute il loro”mestiere”.Abbiamo voluto proporli (solo una parte per

mancanza di più ore) nonostante siano quasi tutti in estinzione,

perché hanno costituito una delle principali condizioni di sussistenza

delle generazioni che ci hanno preceduto, dei nostri antenati, i quali si

sono formati e cresciuti “vivendoli” giorno dopo giorno e divenendo così i

nostri maestri di vita. Ricordando cosa facevano, ricordiamo loro e

rafforziamo quei legami con le nostre radici, che ci aiutano a ricordare

la “verità di noi stessi”, chi siamo e dove andiamo.

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Per questa via un grande patrimonio di esperienze scelse di

trapiantarsi all’estero, arricchendo le altre culture, fiorite dalle mani

esperte di questi lavoratori.

E a coloro, ormai avanti negli anni, che hanno conosciuto il passaggio

dalla condizione umana nella società rurale a quella moderna della

realtà industriale e postindustriale contemporanea, non rimane altro

che tracciare un bilancio di quanto si è perso nelle forme e di quanto

invece si è conservato nelle esperienze e nelle prospettive.

Infinite generazioni hanno speso la loro intelligenza per alleviare la

fatica delle opere, impegnandosi nell’esperienza quotidiana. Ora gli

impieghi e gli strumenti (come la sega del boscaiolo, il tornio del

vasaio e tanti altri), sono sostituite mediante straordinarie macchine

elettroniche, robotiche e computerizzate, ma non resta immutata l’idea

e l’esigenza di chi se ne deve servire che sia guidato a fin di bene.

Il Mestiere, tradizionale o inedito, che appartenga alla vecchia o alla

nuova economia, è un’arte eterna che dona libertà e sollecita a scoprire

nuove vie per l’intelligenza creativa: a beneficio di sé e del mondo che

progredisce nello scambio di conoscenze, da parte di qualsiasi persona,

territorio o continente, dalla cultura dal quale proviene. Nella

vocazione del fare, e a fare bene, che muove le mani e la mente del

lavoratore all’antica, nonché della giovane esperta al computer, si

riconferma la medesima ansia di conquistare la dignità che è propria

della persona umana in ogni tempo.

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Come si sbarcava il lunario una volta…

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I VIMINI

I Vimini si ricavavano da alcune varietà di salice. Si raccoglievano in

autunno-inverno, a luna calante e si tenevano in ammollo per non

farli seccare. Potevano adoperarsi al naturale, per oggetti più grezzi, o

decorticati per lavori più delicati.

Si potevano far bollire per conferire un colore avana dato dal tannino

presente nella scorza. In ogni caso, prima di cominciare ad intrecciarli,

era necessario tenerli in ammollo ancora per qualche ora.

Con queste bacchette di varia dimensione e colore, si ottenevano

canestri per la vendemmia (infatti nei vigneti di Cessarè, quasi in

ogni cosiddetta ”rasula” (o terrazzamento) c’erano una o due piante

di salice che i proprietari del terreno, utilizzavano i rami per legare

le vite , per la raccolta delle olive e degli ortaggi, ceste per il

formaggio o formine per la ricotta, contenitori per il fieno e foraggi,

canestre per la biancheria, gerle con cinte di cuoio da collocare in

spalle (queste usate per lo più al nord), ceste per portare cibo

all’aperto (oggi pic-nic), cestini e persino borse (negli anni 60”

andavano molto di moda); contenitori di forme e dimensioni consone

alle tradizioni di ogni paese sia del sud che del nord.

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IL CESTAIO

Conosciuta fin dall’antichità, è l’arte di intrecciare vimini per

ricavarne contenitori utili al trasporto di prodotti di ogni genere, ma

in particolare agricole. Lo attestano le mitologie di molti popoli e

persino la Bibbia. Ci basti ricordare Mosè che, appena nato, fu deposto

in un cesto di vimini, spalmato all’esterno di bitume, e affidato alle

acque del Nilo, per essere salvato dalle ire del Faraone che aveva

decretato la morte dei primogeniti degli Ebrei (per paura che tra di

loro ci fosse il Salvatore che avrebbe salvato il suo popolo).

I Cestai, lavoravano per lo più all’aperto, sull’uscio di casa, o al riparo

di una semplice tettoia, per avere a portata di mano tutto l’occorrente

e poter poggiare la base dell’oggetto in lavorazione su un sostegno

piano o rigido.

Era molto importante, anche la scelta e la preparazione dei vimini, per

la riuscita dell’oggetto che s’intendeva realizzare. L’abilità

dell’artigiano permetteva di ottenere degli autentici capolavori dalle

forme più svariate. Per realizzare questi oggetti pratici e simpatici

venivano utilizzati rami giovani di salice (in luoghi palustri anche di

giunchi), tenuti a lungo in bagno e trattati in modo diverso per

ottenere gli effetti desiderati.

Questo mestiere, a Gioiosa Ionica, si è perso, solo qualche anziano per

diletto e proprio uso riesce ancora a realizzare qualche cesto o

cosiddetto ”panaru”.

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IL BARBIERE

L’arte di tagliare i capelli, è senza dubbio, una delle più antiche

professioni della storia dell’umanità. Nella società del Paleolitico

inferiore, coloro che tagliavano i capelli erano quelli con la più alta

autorità fra tutte le classi sociali. Si credeva che nei capelli abitasse

l’anima del popolo e che i pensieri si sviluppassero in forme fisiche.

Tagliare i capelli, era anche il modo di rimuovere l’essenza del male

accumulato e per rimuovere le energie. Quindi il compito era affidato

ai più saggi, i sacerdoti.

In Egitto, gli archeologi, hanno trovato rasoi fatti di pietre aguzze,

dell’età del bronzo, circa 3500 anni a: C. E proprio in Egitto, i

barbieri, venivano considerati le persone più illustri e rispettati. Il

barbiere era responsabile della rasatura dei sacerdoti del tempio di

Amon. Questo rito si ripeteva ogni tre giorni, e consisteva nella

rasatura di tutto il corpo, incluso il volto e la testa. Gli Egizi

credevano che fosse un contributo per purificare la funzione

sacerdotale.

Nella Grecia antica, questa professione era diventata molto popolare;

fu proprio qui che furono creati i primi negozi di barbiere, diventando

luoghi d’incontro, per gli uomini dove si riunivano per fare lunghe

conversazioni di filosofia, di politica o questioni comunali. Il compito

del barbiere, oltre alla rifilatura, pettinatura di capelli e barba, era

quello del massaggio, spazzolatura e lucentezza con lozioni, pomate e

cera d’api. Il colore naturale dei capelli dei greci era bruno, mentre la

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tinta bionda. Il tocco finale per i capelli, era profumarli con sentori di

fiori e olio di oliva. Le donne, invece, avevano il parrucchiere in casa,

assistite da servi o schiave.

Dopo la caduta dell’Impero Romano, gli uomini di Roma, usarono di

nuovo radere barba e baffi e i barbieri erano chiamati ”Tonsoni” e

anche qui la loro professione era molto rispettata. L’operazione di

rasatura della barba era fatta solo con acqua e rasoi di bronzo e

affilati con le pietre (questi rasoi erano chiamati ”Novaculae”) e la

depilazione con cera d’api e pinzette. I Romani, come i Greci, amavano

trascorrere lunghe ore dal barbiere per la cura dei capelli, massaggi

alla testa, servizio di manicure e pedicure, profumi e oli. Col passare

del tempo, praticavano anche estrazioni dentali.

La storia del barbiere è ancora molto lunga da raccontare, nel corso dei

secoli e luoghi diversi, ma arriviamo nel 1887 in Columbus, Ohio, dove

furono fondate diverse scuole di barbiere per garantire un buon livello

di lavoro e istruzione professionale. Nel 1980, cominciarono a vedersi i

primi barbieri unisex e nel 1990 tutti i saloni davano servizi a

entrambi i sessi.

A Gioiosa, una volta, i barbieri possedevano una piccola stanza con un

lavandino, una o due sedie e uno specchio; facevano sedere il cliente

sulla sedia avvolgendo una tovaglia attorno al collo, poi, insaponavano

la faccia con il pennello e con un rasoio a forma di coltello, rasavano la

barba togliendo il sapone e ogni tanto affilavano il rasoio su una

cinghia di cuoio andando su e giù. Il taglio dei capelli era effettuato

come oggi, solo che alla fine vi passavano sopra una sostanza oleosa che

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rendeva lucidi e appiccicaticci i capelli come se vi avessero passato la

lacca.

Oggi, esistono molti saloni unisex ben arredati (qua sono effettuate

cerette per labbra e viso, maschere, manicure, ecc.) e altri solo per

uomini: alcuni si trovano situati nel centro, e centro storico e altri in

periferia. Inoltre, vicino alla piazza, si trova un salone di bellezza dove

sono effettuate maschere, massaggi per il corpo e piedi, pedicure,

manicure, e tutto ciò che riguarda la cura e la bellezza del corpo.

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IL BOTTAIO

Anche questo, come gli altri, è un mestiere artigianale molto antico.

Attualmente a Gioiosa, c’è l’artigiano Nino Scopelliti, unico erede ad

esercitare questo mestiere e non solo. Le “Botti” sono costruite con

legno di castagno o di rovere, dove il vino buono può invecchiare e

migliorare col tempo; queste, sono realizzate con assi di legno ricurve

e tutt’intorno cerchiati con lamine di ferro circolari per tenere ben

saldi gli assi.

Quando il vino terminava, le botti erano lavate per bene per essere

pronte a contenere il mosto della nuova annata.

Oltre alle Botti venivano costruiti i Barili “bariju” (contenitori di olio

e vino), Tinozze per lavare i panni in casa, Tini per la vendemmia e i

“circhi” per appendere i salumi ricavati dal maiale.

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IL FALEGNAME

Uno dei mestieri più antichi e protagonista della Bibbia è stato il

falegname ( u falignami) S. Giuseppe sposo della beata S.S. Vergine

Maria. Una volta, a causa della mancanza di apparecchiature, il legno

era lavorato manualmente, impiegando più tempo ma con risultato

migliore e pregiato, perché realizzato artigianalmente.

Il falegname era chiamato ”mastru d’ascia” perché usava molto

quest’attrezzo per trasformare i tronchi degli alberi in legname,

sfruttava la sua creatività per creare mobilio di vario genere e

abbellire le case delle giovani coppie.

Oltre all’ascia, veniva usata la pialla di legno e la serra “a mano” per

segare. I migliori mastri d’ascia, da noi, venivano da Serra S. Bruno.

Ai nostri giorni, chi ha la fortuna di possedere del mobilio antico, lo

conserva in ricordo dei propri nonni o parenti, ma soprattutto come

oggetti d’antiquariato.

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IL CALZOLAIO (U SCARPARU)

Il mestiere del calzolaio, costituiva un’attività onorevole, se pure umile

ma capace di soddisfare le esigenze di vita di una famiglia e assolvere

una funzione sociale. Chi voleva esercitare questo mestiere, seguiva gli

insegnamenti del Maestro, con passione, rettitudine, e disponibilità

nell’assecondare le esigenze della clientela.

Era colui che si limitava, a riparare alla buona, le vecchie scarpe,

prima che diventassero per via dell’usura del tutto inservibili. Nel

mondo agricolo di un tempo, le famiglie dei contadini “affittavano ad

annate”, il calzolaio che era pagato in natura a ogni stagione di

raccolto di grano, olio, vino e formaggio ed è così che nacque la figura

del cosiddetto ciabattino a stajo. Un modo di dire, ”scarparo con le

spese”, giacché all’artigiano, che garantiva di riparare in una giornata,

dall’alba al tramonto, tutte le scarpe dei componenti della famiglia,

spettavano colazione, pranzo e cena.

Oggi di maestri calzolai, capaci di realizzare delle scarpe su misura

non esistono quasi più, perché visto il tempo necessario per produrre un

paio di scarpe eleganti, quest’ultime verrebbero a costare molto rispetto

a quelle prodotte dalle fabbriche con tecniche industriali.

Inoltre, sono cambiati la moda, la produzione e i mercati delle

calzature che sono invasi da scarpe provenienti dall’Oriente, perché

costano poco (durano poco) e non solo, ma oggi si usa calzare scarpe da

ginnastica (in tela o gomma) usa e getta proprio perché non si possono

riparare.

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In qualche città, resiste l’artigiano della riparazione, che con qualche

macchina moderna, riesce a riparare le scarpe in meno di mezz’ora,

magari alla presenza del cliente che ha appena il tempo di leggere i

titoli del giornale e può già calzare le sue scarpe riparate.

A Gioiosa, c’erano diversi “Scarpari”, quasi tutti nel cento del paese, ad

eccezione di uno che aveva il suo laboratorio tra la stradina che porta

alla Chiesa dell’Annunziata e il Viale delle Rimembranze (Libero

Trichilo, morto qualche decennio fa). Sul prolungamento del Corso

Garibaldi, un pochino dopo l’Arco detto ”Gafiu” c’era Mazzone, situato

in un piccolissimo laboratorio adiacente alla strada; proseguendo

ancora, per dei cento metri scarsi, c’era Sasà Rodinò (panciuto e

dall’aspetto simpatico e bonario). Il calzolaio Ciccio Ieraci aveva la sua

bottega, in uno spiazzo di fronte al negozio di alimentari Martora.

Ora, vivente, c’è Rocco Totino, che ha raggiunto la veneranda età di

novantadue anni. Questo ”scarparu” le scarpe le confezionava a mano

impiegando molto tempo. Per prima cosa prendeva la misura del piede,

poi disegnava la sagoma su un foglio di cartone e così la ritagliava.

Sotto questa sagoma, il ”maestro” metteva il cuoio per formare la base

della scarpa, mentre la parte superiore era fatta con la pelle che lui

stesso ritagliava e poi cuciva con la “lisina.” Inseriva questo scheletro

in una forma di piede fatta di legno e la lasciava per due o tre giorni

perché prendesse forma. Trascorsi questi giorni, la scarpa era tolta

dalla forma e il calzolaio metteva i “tacchi”, la rifiniva e la lucidava

con la cera per mezzo di uno straccio di lana. Le scarpe, dopo questo

lavoro, che richiedeva del tempo, erano pronte per essere indossate.

Erano comode, resistenti e riparabili.

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IL CARBONAIO

Questa parola vuol indicare chi trasforma la legna in carbone. Lavoro

molto diffuso fino alla metà del secolo scorso nelle nostre zone boscose

di collina e di montagna. Mestiere molto duro che costringeva a stare

lunghi periodi e per luoghi impervi, lontani da casa, in grotte o

capanne più o meno arrangiate, spesso con moglie e figli appresso,

esposti ai capricci meteorologici delle stagioni.

Per allestire una carbonaia, si cominciava predisponendo sul terreno

delle piattaforme aperte di circa 4-5 metri di diametro pali. Al centro

si piantavano 3-4 robusti lunghi all’incirca tre metri, fissati a breve

distanza tra loro e avvolti esternamente con rami sottili in modo da

funzionare da camino. Attorno a questo primo elemento si cominciava a

collocare la legna precedentemente tagliata a pezzi di circa un metro di

lunghezza, cominciando dai più grossi ai più sottili, poggiando i pezzi

in verticale, un accostato all’altro e badando di non lasciare spazi vuoti.

A impianto ultimato, si provvedeva alla copertura della singolare

“catasta” di legna con rami verdi, foglie secche, terra battuta e zolle

erbose. Infine, con il sostegno di una scala a pioli, si accedeva alla

carbonaia, gettandovi all’interno, attraverso il “camino”, rami di erba

secca, paglia e carboni ardenti.

Il carbonaio più esperto sorvegliava il tutto affinché la combustione

all’interno della carbonaia avvenisse senza fiamma, lentamente, in

condizioni di scarsa ossigenazione. Se necessario apriva alla base della “

costruzione” dei piccoli cunicoli per il tiraggio dell’aria e fori verso la

sommità per la fuoruscita del fumo.

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Quando, dopo 6-7 giorni, il fumo diventava turchino e trasparente, il

carbone era pronto. Si smantellava allora la carbonaia, si lasciava

freddare il carbone, si metteva nei sacchi e si portava a destinazione a

dorso di mulo.

Anche a Gioiosa abbiamo avuto dei carbonai che si recavano nelle

montagne di S. Giovanni o Fabrizia per bruciare la legna. I

capifamiglia, oggi, sono defunti e ne rimane solo qualche erede, mentre

i nipoti hanno intrapreso altre attività.

Una nota importante è quella del comune di Bondone, in provincia di

Trento, che ha dedicato al mestiere del carbonaio un monumento posto

nella piazza principale del paese. Nella peste del 1628-1630, di

manzoniana memoria, i carbonai del luogo avevano fatto voto di erigere

una statua alla Madonna se fossero sopravvissuti alla peste. Così le

otto famiglie scampate al contagio fecero scolpire una statua lignea che

rappresenta la Vergine santa con il Bambino in braccio. La ricorrenza

si festeggia tuttora il 9 settembre. Inoltre, fecero dipingere sulla

facciata delle loro case delle immagini sacre che ancor oggi è possibile

ammirare.

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IL CARRETTIERE

Il carro nasce dopo la scoperta della ruota, e la sua origine si perde

nella preistoria, anche se si è certi che risalga dopo il passaggio

dall’epoca dei cacciatori nomadi a quella dei pastori-coltivatori.

Nell’Asia Minore, il carro era conosciuto almeno fin dal IV millennio a.

C.

In origine le ruote erano piene e fissate all’asse centrale. Con l’avvento

dell’era del ferro, fu introdotta la ruota a raggi, con i cerchioni di

ferro perforati. Il perfezionamento del carro progredì di pari passo con

le esigenze dello sviluppo dell’agricoltura, del commercio, delle

migrazioni e delle guerre. In Grecia ebbe sviluppo il ”carro da guerra”

e nell’antica Roma presero piede molti modelli dai popoli con i quali le

sue armate venivano in contatto.

Il “Plaustrum”, per esempio, capostipite dei nostri carri agricoli

trainati dai buoi, era un pesante carro agricolo a ruote piene. Verso la

fine del Medioevo la rinascita delle attività di Arti e Mestieri, diedero

un nuovo impulso a questo mezzo di trasporto, mentre l’epoca moderna

assistette allo sbizzarrirsi della fantasia in forme, rifiniture e decori

di carrozze adibite al trasporto di personaggi dell’alta società, di

principi e regnanti, spesso oggetti da mostrare durante le feste e

cortei, spazzati via dall’avvento dell’automobile.

Se si parla del Carro, non si può fare a meno di parlare di colui che lo

costruisce, lo ripara, lo conduce. Infatti, il Carradore, indica il

mestiere di chi costruisce o ripara carri, carretti /e, carrozze e simili.

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Il vocabolo deriva dal latino ”Carpentarius”, con il significato di

costruttore o riparatore di carri. Mestiere molto difficile e complesso,

perché chi vi metteva mano, doveva essere un po’ fabbro, con

attrezzature e competenze specifiche per quest’attività; un po’

falegname, con conoscenza del legno nelle sue varietà, prerogative e

modalità di trattamento; un po’ maestro d’ascia, per dare al legno le

forme e le movenze dovute. Costruire un carro in tutti i modelli più

svariati e per le diverse necessità, non costituiva un problema da poco,

ma esigeva abilità, precisione, talento e conoscenze tecniche. Il carro

può collocarsi tra i simboli principali della civiltà contadina. Il suo

impiego era di una versatilità unica e costituiva un elemento

indispensabile per i lavori della campagna durante tutto l’arco

dell’anno.

A cominciare dal periodo invernale, quando era utilizzato per la

sistemazione di strade, la ripulitura dei campi dai sassi, o il trasporto

di legna o di altri materiali. In primavera, era usato, per smistare il

letame e altri concimi; in estate, invece, per il trasporto di foraggio, la

rimessa dei covoni di grano e la sistemazione dei preziosi chicchi,

sementi, legna e altri prodotti, ma soprattutto per celebrare, con le sue

tradizioni e i suoi riti, il più gioioso lavoro della campagna: la

Vendemmia. Insomma, questo prezioso strumento, scandiva lo scorrere

delle stagioni con i prodotti che trasportava. Senza parlare dei

momenti nei quali rimaneva inutilizzato, quando diveniva il luogo più

ricercato dai bambini per i loro giochi innocenti.

A Gioiosa, c’erano molti carri e carrettieri, che venivano dalle

campagne vicine e da fiume Torbido. Questi carretti erano utilizzati

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per gli usi più svariati e per assolvere le necessità delle famiglie: quelli

che abitavano di là del fiume Torbido, venivano in città (quando le

acque non erano troppo alte), attraversando il fiume con il carretto e

spesse volte arrivava la piena all’improvviso, capovolgendo il mezzo con i

suoi passeggeri. Con l’arrivo delle prime automobili, cominciarono a

diminuire fino a scomparire. E’ rarissimo, ai giorni d’oggi, vedere in

città un carretto; se esiste qualcuno, in qualche agriturismo o

campagna, è solo messo in mostra come un mezzo di trasporto antico.

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IL COLTELLO

L’uso del coltello risale all’età della pietra, quando l’uomo primitivo

confezionava utensili (lame per tagliare, punte di lance per le frecce.)

scheggiando pietre silicee o di ossidiana, una pietra lavica di colore

nero, composta di una pasta vetrosa.

Con l’Età del Bronzo, le lame divennero di metallo e cominciarono ad

assumere le forme di oggi, sempre comprese di manico fatto dallo

stesso materiale della lama o di altri, quali: il legno, l’osso, l’avorio, la

madreperla, la porcellana, ecc., sempre più accuratamente decorate. I

Greci e i Romani usavano coltelli per ogni diversa attività: per usi

domestici, per la caccia, per i sacrifici, per la pulizia delle unghie.

Erano con lame fisse o ripiegabili all’interno del manico, semplici o con

il manico decorato.

Con il Medioevo queste decorazioni si affinarono sempre di più e col

Rinascimento divennero vere e proprie opere d’arte.

Ai nostri giorni, ai diversi coltelli destinati agli usi più svariati, si è

aggiunto il tagliacarte, con le sue squisite decorazioni. Per la loro

bellezza e valore, questi oggetti hanno richiamato l’attenzione dei

collezionisti permettendo così un interesse non indifferente al mercato.

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L’ARROTINO

“Donne, donneee, arriva l’Arrotino….!” Con questo richiamo, che

risuonava nelle viuzze dei piccoli borghi di campagna, o in prossimità

di abitazioni rurali, l’Arrotino annunziava la sua presenza creando uno

scompiglio nelle case ed un accorrere frettoloso delle donne attorno alla

sua bicicletta.

Arrivava con calma, con gesti sicuri e misurati metteva in funzione i

suoi attrezzi, e tra una battuta e l’altra, cominciava ad arrotare

forbici e coltelli di tutte le grandezze e di ogni tipo. Il suo era un

mestiere ambulante, spesso tramandato di padre in figlio. Spesse volte,

era un secondo lavoro esercitato nei mesi invernali, per integrare lo

scarso bilancio famigliare. Arrivava da zone povere e disagiate.

All’inizio, giungeva a dorso di un” mulo” trascinando il suo carretto

con la mola e gli arnesi del mestiere; poi in bicicletta o “biciclo-

carretta”, per potersi spostare più velocemente con la mola e arrotare.

Quando si fermava, rovesciava il carretto dotato di una grossa ruota di

legno cerchiata in ferro, agganciava qualche cinghia che metteva in

moto la ruota, versava un po’ d’acqua in un secchio che sgocciolava

sopra la mola e cominciava ad affilare le lame, girando la mola con la

forza delle gambe.

Di solito mangiava all’asciutto con qualcosa portato da casa. Di rado

accettava un piatto caldo. Quando la giornata volgeva al termine, si

cercava un posto per dormire in un fienile o una stalla. All’alba, si

alzava, si lavava alla fonte pubblica (non c’era acqua nelle case) o al

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ruscello e ripartiva, da dov’era venuto, senza disturbare; se invece, gli

era rimasto del lavoro da fare o completare, si rimetteva alla mola,

terminava il lavoro, riscuoteva quanto gli era dovuto riponendolo in una

cassetta di legno, salutava e ...via. Rimaneva solo l’eco della sua voce.

Col passare degli anni, non si presentava più con la bicicletta, ma con

un motorino o un furgone arrugginito. Adesso, con l’era moderna,

questa figura non c’è più. I coltelli quando non funzionano, si buttano

via per comprarne di nuovi o degli affila-coltelli per uso domestico.

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IL CONTADINO

Il mestiere di coltivare la terra è uno dei più antichi del mondo ed ha

costituito il passaggio da una cultura di cacciatori-raccoglitori di

frutti spontanei a quella di coltivatori-allevatori. Con la parola

“contadino” possono essere definiti tutti gli operatori dell’agricoltura,

con una sottolineatura speciale per tutti coloro che facevano la

“mezzadrìa”.

E questo per rendere giustizia a un’attività poco apprezzata, spesso

percepita come un’inferiorità sociale, mentre è stata da sempre

sostanziale per l’esistenza umana e vissuta eroicamente, spesso al

limite della sopravvivenza. Questo mestiere, nell’arco dell’anno,

diventava un concentrato di attività che richiedeva intelligenza,

prontezza, abilità, forza fisica, pazienza….

A secondo della successione stagionale erano fatte le seguenti

operazioni: spargimento del letame caricandolo e scaricandolo a mano;

aratura con i buoi e attrezzature poco più che rudimentali e da

completare a mano; raccolta e molitura delle olive (a Novembre e

Dicembre); potatura di viti, olivi e alberi da frutto (Febbraio e

Marzo); falciatura e fienagione (a primavera, sempre a mano);

mietitura, trebbiatura (Giugno e Luglio); raccolta e sgranatura del

mais; vendemmia e vinificazione (Settembre – Ottobre - Novembre), e

lavori complementari per tutti i momenti di tregua. Da non

dimenticare gli animali domestici che richiedevano una cura e una

continua attenzione….

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Non parliamo poi di coloro che possedevano dei terreni collinari, spesso

scoscesi, pieni di sassi e magri di sostanze, fatti di piccoli

appezzamenti, quasi sempre strappati al bosco, spesse volte coltivati a

gradoni, lavorando sotto l’inclemenza di ogni clima e abitando in case

fatiscenti…. Nonostante ciò, si andava avanti, ci si aiutava

scambiandosi la manodopera per le faccende più importanti, si cantava

in un clima gioioso, aperto, burle e tanta allegria (specie quando si

vendemmiava), che faceva dimenticare la fatica e le ristrettezze di ogni

giorno. Questi nostri avi, anche se analfabeti, sono stati degli

autentici maestri di vita ricordandoci sempre di essere orgogliosi di

appartenere a loro (anche se non in modo diretto) e che quel che siamo

è dovuto ai loro sacrifici.

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IL LIUTO

La Liuteria è l’arte della progettazione, della costruzione e del restauro

di strumenti a corda, ad arco (quali Violini, Violoncelli, Viole,

Contrabbassi, ecc.) e a pizzico (Chitarre, Bassi, Mandolini). Il nome

deriva dal Liuto, strumento a pizzico molto usato fin dall’epoca

barocca. Questa è un’arte tecnica artigianale rimasta quasi immutata

dall’epoca classica della Liuteria (XVI, XVII sec.).

Nel Rinascimento, in Italia, l’attività liuteria fu in grande fermento.

Nella prima metà del”500”, la città di Brescia fu famosa per le sue

numerose e varie botteghe, alcune delle quali risalenti alla fine

del”4oo” come quella del liutaio anonimo Maestro delle Viole, oppure

quelle dei Della Corna e dei Micheli, attivissimi fin dai primi decenni

del Cinquecento, seguita nella seconda metà, dai Cremona, con Andrea

Amati e i suoi figli, che ospitò tra fine “600” e “700”, tra le altre, le

botteghe di Antonio Stradivari e Giuseppe Guarnieri del Gesù,

probabilmente i più grandi liutai della storia assieme ai bresciani

Gasparo da Salò e Giovanni Paolo Mazzini, attivi circa da ottanta a

cinquant’anni prima. Da Brescia a Cremona, e da altri centri come

Lione e Füssen, la liuteria, per la sua tecnica costruttiva nuova si

diffuse in tutta Europa dando luogo a varie scuole nazionali.

Oggi, esistono industrie produttrice di strumenti che affidano la

costruzione dei loro prodotti alla catena di montaggio risparmiando sui

costi della produzione seriale e producendo così strumenti a basso

prezzo. Nonostante questo, la liuteria, rimane una delle poche arti a

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preservare la tradizionale lavorazione manuale per la produzione di

strumenti ad alto livello. Gli strumenti artigianale di liuteria hanno

prezzi più alti rispetto a quelli di produzione industriale, ma la

qualità sonora e la finitura dello strumento artigianale sono

proporzionalmente di livello superiore.

La produzione artigianale permette, inoltre, varie personalizzazioni,

impossibili nella produzione seriale. Gli strumenti di produzione

industriale sono utilizzati solo nei primi anni di studio, non essendo

possibile con essi riuscire a eseguire adeguatamente brani impegnativi

sia tecnicamente sia musicalmente.

In alcune città Europee, come Cremona, Granada, Mizecourt, la liuteria

è considerata un settore dell’economia locale molto importante e

tradizionale.

Tantissimi anni fa, in uno dei vicoli di Gioiosa (a Vinejia),

s’incontrava un famoso liutaio che visse per più di cinquanta anni

nella sua modesta casa, costruendo a mano, con pazienza, amore e

grande maestria incredibili violini di eccezionale sonorità. Con le sue

mani esperte e con l’uso di poche e semplici attrezzi riusciva a

realizzare dei veri e propri capolavori e le musiche che producevano

questi strumenti erano una dolce melodia per le orecchie. Era il

Maestro Vincenzo Totino.

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IL SARTO

Il sarto (o sarta) è un mestiere dell’artigianato e la persona che lo

svolge viene chiamato anche”sartore” o “sartora”.Questa parola deriva

dalla lingua latina “sartor” che si ricollega alla parola “sarcire” ovvero

“restaurare”. Col passare del tempo ha perso questo significato, e ora è

usato per indicare la persona che taglia e cuce i vestiti ed è spesso

dotato di grande sensibilità e gusto.

Il sarto, è l’operatore artigiano che confeziona gli abiti (maschili e

femminili). Anche al giorno d’oggi rimane un artigiano specializzato e

come tale è sempre stato considerato. In Italia, è stata una professione

che ha segnato la Storia del Costume e della Moda anche per le

particolari modalità con cui si è sviluppata. Infatti, in Italia si è

sviluppata nell’immediato dopoguerra con il fenomeno delle “sartine”, il

quale rappresenta la storia dell’abbigliamento dal primo dopoguerra

agli anni 60” e 70” ed è il nucleo di quello che poi diverrà l’Alta Moda

Italiana.

La sarta o il sarto classico segue la realizzazione e la lavorazione di

abiti su misura e il suo lavoro consiste nel consigliare il cliente sul

capo adatto alle sue misure e sul tessuto più idoneo lavorando sul

taglio. Fino all’avvento delle fabbriche tessili e gli abiti confezionati, il

sarto seguiva l’intera fase del processo di realizzazione del capo, ora

affianca lo stilista che lo disegna (modello), la modellista che lo

prepara (cartamodello), e infine lui taglia e cuce l’abito.

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Da sempre, per svolgere adeguatamente e compiutamente questa

professione artigiana è richiesta una lunga preparazione che si

acquista prevalentemente sul campo iniziando come apprendista in una

sartoria. Nei piccoli centri e nelle aree dell’Italia centro-meridionale

resiste la presenza della tradizionale piccola bottega artigiana,

composta da uno o due titolari e alcuni aiutanti. L’attività di queste

botteghe è rivolta prevalentemente al confezionamento di abiti per

occasioni formali e alle riparazioni di abiti acquistati. In tempi

recenti, la diffusione delle confezioni industriali in serie degli abiti ha

reso più rara questa professione riservandola ai capi più pregiati

dell’Alta Moda e alla sartoria di fascia alta per la clientela “maschile”.

L’arrivo delle fabbriche, hanno rivoluzionato questa professione,

rendendola sempre più “meccanica” e meno “creativa”. Ma è proprio la

creatività, specie quella italiana che l’ha sempre rappresentata e

distinta.

A Gioiosa, una volta c’erano molti sarti (maschili e femminili), e le

mamme vi mandavano i propri figli per apprendere il mestiere o

perlomeno imparare a cucire qualcosa per proprio conto. Attualmente,

c’è ne sono pochi (qualche sarto e sarta) a causa dei numerosi negozi

dove trovare il vestito, talvolta, anche a poco prezzo, e soprattutto, per

non aver il fastidio di andare a comprare la stoffa e gli accessori

necessari da portare alla sarta, per il confezionamento dell’abito, che

pur essendo migliore di quello del negozio, alla fine costerebbe sempre

di più.

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Il PANETTIERE

Circa settanta o ottanta anni fa, era in uso fare il pane in casa,

specie dove la famiglia era numerosa. La mamma, delle nostre nonne,

preparava la sera prima il “lavato”, che era conservato da una volta

all’altra in una tazza e coperto da un filo d’olio e da una foglia di vite

(questo per evitare che il lievito facesse la crosta).

Al lavato si aggiungeva la farina di grano, integrale (badando a

metterne di meno sennò il pane, lievitava di meno) o altre qualità. Una

volta preparato l’impasto, si faceva lievitare tutta la notte in una

“limba” di terracotta.

Alle prime luci dell’alba, la bisnonna, si alzava piano senza disturbare

nessuno e si avviava in cucina dove metteva il “lavato” ben lievitato in

una “maijia” insieme alla farina rimasta, aggiungendo acqua, sale e

un filo d’olio. Il composto era lavorato per ore e ogni tanto si

aggiungeva, a secondo dell’impasto “duro” o “ molle”, qualche”lima” di

acqua o di farina. Quando il tutto era ben amalgamato, la bisnonna,

preparava “u Lettu”, che consisteva di mettere delle coperte sul tavolo

da cucina o un piano qualsiasi e su queste appoggiava “i Pani”

coprendoli con altre coperte di lana in modo che lievitassero con il

calore.

Nel frattempo, la bisnonna, preparava il forno facendo bruciare dei

rami e foglie di ulivo secche per oltre un’ora, e quando la volta del

forno diventava “bianca” era segno che il forno era pronto: si toglieva

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la brace e puliva il fondo del forno con uno straccio umido attaccato

all’estremità di un bastone.

La bisnonna, prendeva i “Pani”, uno per volta dal letto e li poneva

sulla base di una ”Pala” facendo con un coltello il segno della Croce e

di seguito li sistemava sul letto del forno, facendo attenzione a non

maltrattare il pane vicino. Il Pane cuoceva per circa due ore. Trascorse

queste, sempre con l’aiuto della “Pala", venivano tirati fuori, uno per

volta, e appoggiati sul piano del tavolo, dove poi venivano ripuliti da

eventuali tracce di carbone o cenere con un panno o spazzola di lino.

Invece, i “biscotti” di pane dopo puliti, venivano rimessi nuovamente nel

forno per più d un’altra ora. Alla fine venivano messe in una cesta o

conservate in una cassapanca entro un sacco di tela o juta.

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LA CARDATURA

Prima di riempire un materasso con la lana nuova, o rimetterci quella

vecchia, era necessario cardarla. Infatti, la cardatura è un’operazione

che precede il processo di filatura della lana. Preceduta dalla battitura

delle fibre, per liberarle dai corpi estranei, districare e rendere

parallele le fibre tessili, al fine di permettere le successive operazioni

di filatura. Deve il suo nome a una pianta erbacea spinosa, ”il

Cardo”, che anticamente le infiorescenze seccate (che sono coperte da

aculei) erano usate per scardassare la lana.

Prima della Rivoluzione industriale, la cardatura, era esclusivamente

fatta a mano con i “Cardacci”, due tavole di legno munite di punte

metalliche ricurve: una inferiore fissa e una seconda mobile, fornita di

due impugnature.

La lana era depositata a piccole quantità sulla tavola inferiore e si

faceva passare a forza di braccia, tra i chiodi con l’altra tavola presa

per le due impugnature. In questo modo si dipanavano tutti i grumi e

le parti infeltrite, e la lana si riduceva a un velo sottile e morbido.

La cardatura si usava nella lavorazione dei crini sia animali sia

vegetali, del cotone e di altre fibre tessili. Oggi, quest’usanza si è

persa: la lana è venduta e i materassi comprati dal migliore venditore

o dalle offerte abbinate alle reti, tramite Internet o spot pubblicitari.

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LA FERRATURA

L’addomesticazione del cavallo risale a circa al 4000 a.C., ma per

moltissimi secoli quest’animale è stato utilizzato senza protezione ai

piedi. Il cosiddetto “ipposandalo romano”, una specie di Scarpa di

lamiera applicata agli zoccoli e fermata con apposite legature (una

protezione o un - correttivo), che permetteva all’animale di andare al

passo e per tragitti brevi.

I primi cenni di ferratura si hanno intorno al 50 a.C. e d.C., quando i

Romani vennero a contatto con le popolazioni celtiche e britanniche,

dove per esigenze dei terreni troppi umidi e cedevoli, si era resa

necessaria una protezione adeguata degli zoccoli. Così i Romani

adottarono il sistema di ferrare i cavalli. Prima che questo metodo si

diffondesse passò del tempo.

Solo nel Medioevo, al tempo del feudalesimo, si comincia a parlare di

“maniscalco” e questa figura comincia a prendere forma e

un’importanza sempre crescente specie nelle corti dei signorotti del

tempo. L’espandersi della ferratura si verifica al tempo delle crociate

(XI-XIII), durante le quali si diffonde in tutta Europa.

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IL MANISCALCO

Il Maniscalco è l’artigiano che si occupa della ferratura degli animali

domestici. E’ un lavoro che si è reso necessario con l’addomesticamento

di animali selvatici. Infatti, allo stato brado, gli animali come i bovini

e gli equini, camminando su terreni erbosi umidi, hanno un consumo

degli zoccoli compensato dalla normale ricrescita; in quelli

addomesticati, invece, dovendo camminare su strade e terreni duri, il

consumo dello zoccolo è più rapido della ricrescita, per cui si rende

necessaria la “ferratura”, cioè la copertura dello zoccolo con piastre di

ferro, per evitare che l’eccessivo consumo dello zoccolo venga a scoprire

la carne viva del piede, impedendo a causa del dolore, all’animale di

camminare.

Questo è il compito o lavoro, del maniscalco che deve appianare lo

zoccolo e fare delle lastre di ferro su misura da applicare sotto gli

zoccoli degli animali. In genere era il “fabbro” stesso a svolgere il

lavoro di maniscalco, che forgiava i ferri, li modellava e li applicava.

Per ferrare i bovini, ci si serviva di una struttura fatta con travi di

legno chiamata “travaglio”, mentre per gli equini bastava un semplice

cavalletto di legno per sostenere il piede da sistemare.

Al maniscalco, era molto utile avere vicino il” proprietario

dell’animale”, il quale conosceva i difetti e le anomalie dell’andatura, e

il veterinario, con cui poteva concordare gli accorgimenti da adottare.

Il Maniscalco, molte volte, preparava anche sonagli, morsi, campanacci,

ecc…

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LA PIPA

Sin dai tempi antichi, il fumo ha esercitato sull’uomo un fascino

particolare, quando i nostri progenitori bruciavano erbe aromatiche o

inebrianti sulle braci per propiziarsi gli spiriti e ottenere favori.

La pianta del tabacco era considerata sacra: semi e foglie di tabacco

sono stati trovati durante i restauri di una Mummia Egizia. Semi di

tabacco erano usati dai cinesi oltre 3000 anni fa come antifecondativi.

Tribù pellerossa fumavano in occasione eccezionali per accogliere

degnamente l’ospite importante e per onorare il Grande Spirito, la loro

pipa era il ”Calumet” e il rito era il seguente: ciascuno tirava quattro

sbuffate verso i quattro punti cardinali.

Una strana pipa a forma di cilindro era stata scoperta a Massul

(odierna Siria); si stima che risalga a milioni di anni fa. Pipe d’epoca

preistoriche furono trovate in Laurent tutta l’America del Nord, nel

Mississippi Superiore del Missouri, nell’Ohio, sui fianchi dei monti

Alleghanis, sulle rive del lago Ontario e nella regione del Saint-

Laurent.

Nell’America Centrale e nel Sud America la coltivazione e l’uso del

tabacco risalgono a millenni fa. Le Pipe Gallo-Romane di ferro sono

state trovate nel Sud della Francia e in val D’Aosta.

In Europa, la pipa compare con il tabacco nei primi anni del ”500”.

Sono pipe di terracotta piccole, semplici, ma già funzionali. Il loro

costo basso, la facilità di fabbricazione, l’estetica sempre più

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accattivante, invogliavano a farne uso, anche se la durata era assai

limitata a causa della facilità del materiale. Questo inconveniente ha

fatto in modo che siano rarissime quelle antiche.

Agli inizi le pipe erano piccole, a causa del tabacco raro e costoso. Si

vedono nella bocca dei marinai spagnoli e portoghesi, successivamente in

quella degli inglesi ed è proprio in Inghilterra che la pipa ha la sua

prima affermazione. In vari paesi, il suo uso è osteggiato, ma essa con

la guerra dei trent’anni prende piede in tutta Europa. Artigiani

Inglesi esportano nei Paesi Bassi, la produzione delle pipe in terracotta

e gli Olandesi diventeranno presto i più grandi produttori di “Pipe di

Gesso” (in realtà di argilla bianca) che ancora oggi si usano e che

hanno la loro capitale a Gouda. Altri centri attrezzati per questa

produzione erano in Francia, Belgio, Nord e Sud Italia e Spagna.

Dopo la nascita di questo prodotto semplice e a seguito della grande

richiesta dei fumatori esigenti, si studiarono pipe fabbricate con

materiali più svariati, sempre più nuovi, resistenti e pregiati. Metalli

come bronzo, ottone, argento, avorio, legno (bosso, palissandro, olivo,

betulla, quercia, ciliegio).

Anche le forme del “fornello” e del “bocchino” subirono parecchi

trasformazioni alla ricerca continua della migliore funzionalità prima

di arrivare alle forme attuali. Accanto alle ”pipe di argilla”, hanno un

loro spazio quelle di legno (le più famose sono quelle tedesche di Ulm).

Di porcellana, invece, sono famose quelle tedesche e Austriache che

appaiono verso la fine del “600”: sono grosse e dipinte in modo vistoso

con coperchio di metallo, spesso legate a un’appartenenza militare. Oggi

sono diffusi a fini decorativi.

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In varie città d’Europa si aprono locali per fumatori. Federico I di

Prussia fonda addirittura un’Accademia di pipatori. Col passare dei

secoli si trasforma in elemento pregiato, sia per i materiali più o meno

nobili come il vetro (quella di Bristol e di Venezia) che per la

funzionalità e forma. Ci fu poi, l’uso di una nuova materia, come la

Schiuma, a segnare un’ulteriore epoca di trionfi. Infatti, fu nel 1700

che furono prodotte le prime pipe in “schiuma di mare” e considerate

ancora pregiatissime, per la produzione limitata, le forme classiche,

scolpite in forme fantasiose e a volte di dimensioni eccezionali. Verso il

1850/60, l’impiego di un legno durissimo e dalle venature particolari,

la radica, segnò la storia di una nuova pipa, prodotta industrialmente

con torni e macchine. I primi furono i francesi a Saint - Claude, nel

Jura e poi l’Italia a Varese (la fabbrica Rossi di Molina Barasso).

Esistono collezionisti in tutte le parti del mondo e le più importanti

case d’asta hanno già battuto pipe pregevoli.

Esistono musei ben frequentati, in Inghilterra, Germania, Danimarca,

Stati Uniti e l’Italia vanta il Museo di Gavirate, che è l’unica al mondo

ad avere una collezione di 30.000 pipe, gli utensili originali, i vecchi

torni a pedale e le macchine per la fabbricazione.

Anche in Calabria, nelle botteghe artigiane di Brognatura, a 47 Km da

Vibo Valentia si producono a livello internazionale pipe d’autore in

radica. Questa è una cultura antica che si trasmette da padre in figlio

che con occhio clinico vanno alla ricerca di questa radica tra selve e

dirupi, ed è mantenuta in vita dalla “Dinasta dei Grenci”; questi

realizzano delle pipe in radica di erica intagliata modellando opere

molto apprezzate dagli estimatori di tutto il mondo. Infatti, la

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Calabria, che è una zona ricca di alberi, non poteva non essere il posto

giusto per far proliferare una buona attività. Le pipe sono realizzate

con la migliore radica di Erica arborea e sono pronte dopo 8-11 anni di

stagionatura. Le venature del legno rivelano la preziosità degli

esemplari creati, piccole sculture in miniatura che hanno un valore di

mercato alto e sono vendute in tutto il mondo. La radica, non è altro

che la radice di erica arborea (un arbusto che cresce spontaneo sugli

altipiani calabresi), che per via del bassissimo contenuto di “Tannini”

(che sono i principali responsabili del sapore amaro e aspro che si

percepisce fumando certe pipe) è considerata la migliore al mondo per

qualità.

Una volta, erano i ”Cioccaioli” che provvedevano a scavare sulle alture

delle Serre, su quelle dello Zomaro e in Aspromonte, la radica, che era

consegnata all’artigiano, il quale sceglieva i pezzi più pregiati.

Dopo una breve sosta in una cantina scavata nello scoglio, la radica

ancora bagnata era lavorata con la lama di una sega circolare ove le

sapienti mani del maestro abbozzavano le forme e scoprivano la parte

centrale, che lasciava intravedere le venature.

Si procedeva ad un’accurata selezione dei pezzi più nobili che venivano

trasferiti in una caldaia di rame per la bollitura, che durava oltre

ventiquattro ore di fila. Quando la bollitura era terminata e si era

raffreddato tutto, gli abbozzi venivano alloggiati in degli scaffali per

una lenta stagionatura che durava oltre cinque anni.

A Gioiosa, ai tempi antichi ci fu il pipaio o maestro di pipe; non si sa

da dove fosse venuto o dove avesse imparato il mestiere, solo che gli

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anziani di allora fumavano tutti la pipa e per le strade si sentivano il

fumo e l’odore acre del tabacco. Con l’introduzione delle cartine,

venivano fatte a mano, le sigarette: sulla cartina era messo il tabacco a

mo di cilindro, si arrotolava la cartina e con un po’ di saliva si

sigillava per bene ed era pronta per essere fumata. Ai giorni di oggi, i

giovani (pur sapendo che fa male alla salute), iniziano presto a

fumare sigarette di ogni genere (anche la sigaretta elettronica). Oggi

la pipa difficilmente è usata, tranne che da qualche collezionista per

farne bella mostra nella sua casa.

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LA TESSITURA

L’arte della tessitura nasce quando l’uomo, passa da nomade

(cacciatore) ad allevatore-coltivatore. E’ difficile stabilire con precisione

la data in cui fu inventato il primo telaio. Da testimonianze di vario

genere e ricerche archeologiche si sa che la tessitura era praticata in

Paesi quali la Cina, l’Egitto, la Grecia, la Palestina…… Famosissima è

la “Tela di Penelope” (moglie di Ulisse) cantata nell’Odissea (sec. VII

a.C.).

I Greci e i Romani conoscevano la Cina come la Via della Seta (dalla

Cina a Bisanzio), in stoccaggi già confezionati.

A Roma si lavorava la lana in officine specializzate con manodopera

prestata dagli schiavi. Con la caduta dell’Impero Romano, si tornò al

piccolo telaio in casa. Verso la metà del secolo XII la lavorazione della

lana si diffuse in tutto il Nord - Italia per opera della “Confraternita

degli Umiliati”, divenendo ben presto un settore organizzato in potenti

corporazioni.

Dal Risorgimento in poi la tecnologia in continuo sviluppo permise di

raggiungere livelli di lavorazione sempre più avanzati che, con

l’invenzione del telaio di Jacquard (1808) a schede perforate, si

aprirono possibilità senza limite.

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LA TESSITRICE

L'operazione di chi si dedica ad allestire un tessuto è chiamata

tessitura. Questo mestiere nasce dall’esigenza che ha ogni essere umano

di coprirsi non solo per proteggersi dai cambiamenti climatici, ma

anche per un inalienabile diritto alla “privacy”che fa parte della sua

dignità. La storia della tessitura, fin dagli inizi, ha accompagnato lo

sviluppo dell’umanità ed è documentata ampiamente da ritrovamenti

dovuti a scavi archeologici e da una serie di testimonianze che

attestano quanto questo problema abbia da sempre sollecitato l’uomo

nella sua intelligenza e abilità.

Per svolgere questo lavoro l’ingegno umano si è servito di strumenti che

vanno dai più semplici ai più complessi e sofisticati. Gli strumenti

essenziali di una Tessitrice o Tessitore sono: un “arcolaio”, che

permette di dipanare le matasse di filo trasformandole in rocchetti o

gomitoli, di un “Telaio” dove si predispone “l’ordito”, cioè l’insieme di

fili che costituiscono la parte longitudinale del tessuto, un filo

trascinato da una “spoletta” che corre trasversalmente all’ordito detto

“filo di Trama”, e il “subbio”, cioè l’insieme del tessuto in formazione

con un cilindro dove quest’ultimo si avvolge.

Per ottenere l’intreccio che forma la tela, bisogna dividere i fili

dell’ordito in pari o dispari; aprendo le due serie alternativamente, si

ottiene un varco nel quale s’inserisce la spoletta (o navetta), che porta

il filo di trama, e così si forma l’intreccio che costituisce il tessuto

(tela). Con questo meccanismo, si possono ottenere moltissimi varianti

pur partendo dallo stesso principio.

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Col passare degli anni e dei secoli, l’uomo con la sua creatività, ha

cercato di migliorare sempre i suoi manufatti e di velocizzare il lavoro

inventando e costruendo impianti e macchinari che hanno impiegato

una gran parte della popolazione nel settore tessile, fino a quando la

Rivoluzione Industriale ha fatto battere in ritirata anche il piccolo

telaio domestico.

Nella nostra cittadina (Gioiosa Jonica), un tempo, passando per le vie

del paese si sentivano i rumori ritmici del telaio. Erano i “Maijsti du

tilaru” che facevano scorrere la navetta tra l’ordito, manovrando in

perfetta, sintonia i pedali del telaio, situato in ambienti piccoli dove

difficilmente entrava la luce del sole. Le “Maddamme” lavoravano senza

stancarsi per preparare le tele che servivano per il corredo delle proprie

figlie che a loro volta dovevano imparare la nobile arte, erano lavorate:

seta, cotone, lino, lana. Le famiglie che allevavano i bachi da seta, per

la produzione della seta, si potevano contare sulle punte delle dita

(basta ricordare: Marianna Ieraci Totino, moglie di Filippo Totino). Le

figlie di queste famiglie, erano le uniche a indossare le “Sayie” di

pura seta dai colori bellissimi: carta da zucchero, turchese, cannella,

ecc..

Spesse volte, la tessitrice, oltre ai propri lavori, ne produceva altri per

i clienti, in modo da poter contribuire al bilancio economico della

famiglia.

Il progresso di oggi, purtroppo, ha distrutto questi strumenti di lavoro

e sono pochissime le famiglie che posseggono in casa un telaio, ma solo

come oggetto antico. Da un paio d’anni, ci sono delle componenti di

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alcune Associazioni come Arte e Tradizioni che hanno imparato l’arte

del telaio riportando alla luce quest’antico mestiere.

LE FILATRICI

Le filatrici ebbero un ruolo molto importante, specie quando ancora non

esistevano le industrie e i filatori meccanici dovevano essere ancora

inventati. Saper filare era, un tempo, un dovere sacro per ogni donna:

quasi tutte le ragazze sapevano tenere in mano con grazia e

destrezza un fuso o una conocchia per poter preparare il corredo

personale per il futuro matrimonio. Ella, filava la lana, il lino, il

cotone, la seta (in alcune famiglie che allevavano il Baco da seta),

ecc… Chi non era capace a essere brava in quest’attività, difficilmente

trovava il marito. Ogni donna, nei tempi antichi, si sedeva sul gradino

di una scala o sul punto più alto per dare la possibilità al fuso di

scendere e di ruotare in libertà.

Le filatrici di professione, lavoravano senza sosta per trasformare la

lana, il lino o altri filati, in un filo sottile e senza fine. Abili e agili

mani mettevano in moto il fuso velocemente per ottenere alla fine

tante matasse o gomitoli chiamati ”gghyommari”.

Oggi, le filatrici rimaste (si possono contare sulla punta delle dita)

sono più per passatempo che per lavoro. Gli strumenti di lavoro come

“il fuso e la conocchia” sono rimasti, per lei, i compagni della sua

giovinezza passata e un conforto per la vecchiaia. Anche in molte fiabe

troviamo storie incantevoli di filatrici, addirittura, che trasformano il

filo o la paglia in oro.

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LE CENTRALINISTE

Sin dalle sue origini la storia del telefono fu caratterizzata dalla

presenza di una nuova figura professionale: la centralinista. Erano

delle lavoratrici non specializzate il cui lavoro non era paragonato né al

lavoro degli operai di fabbrica, né a quello svolto negli uffici dalle

dattilografe o stenografe.

In origine erano delle operatrici delle comunicazioni presso le centrali

telefoniche manuali urbane ed interurbane: a loro era affidato il

compito di mettere fisicamente in collegamento le linee tra gli utenti.

Il lavoro delle centraliniste era particolarmente faticoso e stressante.

Costrette a vivere in un continuo squillare di telefoni, svolgevano, in un

primo tempo in piedi, un lavoro ripetitivo, monotono e snervante

utilizzando apparati tecnologici inadeguati, causa di continui disservizi

e di frequenti proteste da parte degli utenti. Non era raro che fossero

giudicate delle cattive lavoratrice e per questo anche ingiuriate, non

solo a causa dei disservizi, ma….

A partire dagli anni “20” in poi, le cose cominciarono a cambiare e il

personale era selezionato con uno specifico programma di

addestramento, una cura maggiore per i locali di lavoro e una

valorizzazione del personale femminile.

Qui a Gioiosa, negli anni “50/60” e oltre, c’era un Centralino

telefonico, situato dove adesso c’è il negozio ”Video Music” (di fronte

all’Edificio Scolastico). Delle signorine rispondevano agli utenti sia per

chiamate urbane sia interurbane: molti andavano a prenotare le

chiamate all’estero per avere notizie di parenti, mariti, figli, ecc..Tra

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queste centraliniste, lavorava Clelia Barrile: donna simpatica, di

bell’aspetto e dai gusti raffinati nel vestire da sembrare una modella

(anche perché possedeva un bel fisico). Da molti decenni non c’è più il

Centralino a causa dell’introduzione, nelle proprie case del telefono e di

tutti questi apparecchi tecnologici innovativi.

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I MOSTACCIOLI (“U MUSTAZZOLARU”)

La parola è molto antica e deriva dal latino ” Mustaceum” che indicava

una focaccia dolce tra i cui ingredienti figurava il mosto d’uva cotto su

un foglio di lauro.

I mostaccioli sono un dolce tradizionale di Soriano Calabro e Serra S.

Bruno, la cui ricetta è sempre stata tenuta segreta e mai svelata

neanche nei libri.

Il dolce ha origini antichissime, è un intreccio tra storia e leggenda

tramandata negli anni da padre in figlio nel corso delle generazioni.

La leggenda ne assegna la diffusione ad un monaco misterioso apparso

all’improvviso e sparito nel nulla, che li avrebbe offerti generosamente

ad una popolazione contadina e povera come quella di Soriano.

La vicenda storica è diversa: l’introduzione dei mostaccioli si attribuiva

ai monaci certosini del centro di S. Stefano in Bosco il vicino a Serra

S. Bruno. Poi ai Domenicani del convento appunto di S. Domenico,

sorto nel 1515, che hanno insegnato e sostenuto tra gli artigiani locali

l’arte pasticcera, fiorente tra il 1600 e il 1700; infatti, tante sono le

svariate forme riprodotte dai cosiddetti “Mastazzolari”, che lavorano

con le mani un comune impasto aventi forme svariatissime decorati con

carte stagnola vivacemente colorata. Immagini fantastiche, espressione

di vita quotidiana, di oggetti comuni, di leggende, sono simboli del

fluire del tempo, della superstizione, di miti e ricorrenze di culto.

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Le forme più comuni sono: il pesce, il paniere, il cavallo, la donna, il

cuore, la Esse barocca e decorata con carta stagnola colorata rosso,

verde e argento.

Oggi, il dolce prodotto si è evoluto nelle forme e nelle preferenze

gastronomiche dei cultori, ma rimane quel buonissimo biscotto duro. Le

forme di colore nero (tipo “il Cavallo di S. Francesco”), si ottengono

per bruciatura dello zucchero sul fuoco con pochissima acqua. Tipica

era l’usanza dei maestri “mostacciolari” di Soriano Calabro di dare ai

Mostaccioli la forma del Santo Protettore del paese, dove i dolci

venivano venduti in occasione delle feste patronali.

Una collezione delle forme classiche di questi speciali biscotti è raccolta

presso il Museo di Palmi, il Museo Nazionale delle Arti e Mestieri di

Roma.

Questi biscottati sono presenti in tutte le fiere e sagre della Calabria,

arrivando ovunque e diffondendo il loro gusto e la loro storia ricca di

fascino.

Anche Gioiosa Jonica è nota per i suoi ”cagliari” (venditori di ceci cotti

arrostite con la “rina” sabbia di Martone), “mustazzolari” (venditori

di mostaccioli, dolce impastato con farina e miele) che una volta, con i

loro piccoli banchetti,vendevano: noccioline americane cotte, sussumelle

(biscotti di pasta dolce al cacao), torroni di noccioline e alle mandorle

con cannella e miele abbrustolito, nsulli ( dolce preparato al forno

con mandorle , farina, miele), ecc… Erano sempre presenti in ogni

occasione e specie nelle festività religiose riuscendo a fornire con i loro

prodotti tutti i mercati del circondario. Ai giorni nostri, invece, hanno

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ingrandito i loro banchi espositivi, vendendo oltre ai dolci tipici

tradizionali: frutta esotica di ogni genere, cioccolatini vari, caramelle

di tutti i tipi e formati, miele, tavolette di cioccolato, dolci vari alla

mandorla, pistacchio, cocco, caffè , mandorle, noccioline,pistacchi salati

e non,carrube, ecc. Praticamente, quando si va a comprare in uno di

questi banchi c’è l’imbarazzo della scelta perché si trova di tutto e di

più: artigianale e non. Di questi artigiani ci sono i fratelli

(ognuno col proprio banco), Fortunato e altri che oltre a vendere nei

mercati, fiere e sagre, possiedono il negozio e un proprio laboratorio

artigianale.

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L’IMPAGLIATORE

L’arte di riparare le sedie è un altro degli antichi mestieri che è

andato via via scomparendo. L’impagliatore, ”U seggiaru”, con mani

abili ed esperte, munito di tanta pazienza e amore per la sua arte,

riusciva ad aggiustare con una specie di erba detta “guda” la parte

centrale della sedia. Legava ben strette, con la “guda” le strutture

laterali della sedia e poi incrociava i fili formando a mo di nodo

centrale. Sembra incredibile come riuscivano con giunchi bagnati,

arruffati e senza forma, a riparare sedie e fabbricare bellissimi

panieri verdi di diversa forma e dimensione: alcuni rotondi con manico

fisso e arcuato “Un panaru”.

Realizzavano “Ferrazze”, di forma rettangolare a fasce incrociate, per

seccare pomodori, fichi o riporre altro tipo di frutta; invece le

”Cofane”, erano delle ceste bombate grandi con due piccoli manici che

servivano per portare la biancheria da lavare al fiume.

Oggi, solo qualcuno, si diletta in quest’arte.

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IL GIUNCO

Il giunco cresce nelle zone ricche d’acqua e paludose e la sua raccolta

avviene tra Maggio e Luglio. Gli steli sono tagliati alla base con la

falce “Muzzani”e riuniti tra loro da formare delle grosse “fascine”o

fasci, dopodiché sono esposte al sole per otto giorni e fatti essiccare.

Prima di utilizzarli, una volta, erano bagnati per evitare che si

rompessero durante la lavorazione.

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GLI ANIMALI DOMESTICI

Il contadino, per quanto le dimensioni del podere e la sua ubicazione

potevano permetterlo, teneva anche diversi animali, alcuni necessari e

più adatti ai lavori pesanti, altri, invece, per uso famigliare. Come per

esempio, una coppia di buoi o di vacche per l’aratura e il trasporto

pesante, che bisognava governare almeno due volte al giorno, abbeverare,

strigliare, riassettarne giornalmente i pagliericci e portare via il

letame.

Altrettanto era fatto se c’erano mucche con vitelli, con più la

mungitura e la preparazione del formaggio. La stessa cura

richiedevano, quando c’erano, le pecore e le capre, con la pastura, la

mungitura e anche qua, la preparazione del formaggio. L’asinello e i

cavalli dovevano essere trattati con cura e riguardo. Non potevano

mancare i suini che rifornivano di carne per buona parte dell’anno;

andavano alimentati due volte al giorno, salvo un trattamento speciale

nei mesi prima della macellazione (ingrassamento) e, di seguito la

preparazione degli insaccati (quelli Calabresi sono migliori e noti in

tutti Italia e oltre, sia per il sapore sia per il colore e trattamento).

E poi, c’erano le galline, i polli, i tacchini, le anitre, i conigli e così

via. Tra l’uomo e gli animali da lavoro, s’instaurava una sorta di

complicità, d’intesa, fatta di emozioni e di sottili sfumature che li

accomunava da un’operosità dura ma condivisa e di conseguenza,

alleggerita.

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Una volta, era bello vedere tutti questi animali, o nei grandi poderi o

singolarmente quando i contadini o le”maddamme” delle frazioni vicine,

venivano a comprare in paese, con l’asino o mulo carichi di ceste vuote

(Cofane) e li legavano agli alberi situati vicino al muretto della

fiumara, sia dal lato della via Gramsci che di quella della via Mercato.

Chi non aveva terreno ampio, anche con poca terra, allevava galline o

porcellini d’India, e si vedevano correre per le strade non asfaltate, con

la proprietaria che le rincorreva dietro, per paura che qualcuno le

rubasse o che fossero investite da qualche bicicletta. Era bello sentire

il loro “coccodè” e il canto del Gallo che annunciava l’alba; il raglio

dell’asino e vedere i muli “calciare” quando venivano morsi dalle

mosche. Il vociare del pastore, per le vie del paese, che portava il gregge

al pascolo a prima mattina e al tramonto. Anche se non si sente più il

cattivo odore per le strade, che lasciavano questi animali (il progresso

ha preso piede), è rimasta nei cuori dei ricordi una nota nostalgica dei

tempi che furono.

Attualmente, ci sono pecore e mucche guidati dai cani pastori, nella

zona di “Cessare’”, ma non si vedono più nelle vie del paese.

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RINGRAZIAMENTI

Ringrazio la Dirigente Scolastica, Prof.ssa Marilena Cherubino, per

avermi affidato questo progetto e la fiducia concordatami, nonché tutti

i miei alunni che hanno aderito e partecipato al corso con entusiasmo,

volontà e sacrificio, per essere stati a scuola il Venerdì pomeriggio dalle

h.14.00 alle h. 17.00 per portare a compimento il lavoro. Qui di

seguito gli alunni che hanno partecipato al corso:

Cl. 1° Sez. A

Caridi MariKa

Fuda Debora

Mazzaferro Chiara

Novembre Sara

Seminara Francesca

Seminara M.Grazia

Schirripa Giada

Cl. 1° Sez. B

Agostino

Domenico

Calabrò

Francesco

Cristallo Franceo

D’arrigo Sofia

Lombardo Cosimo

Longo Fiona

Panetta Matteo

Prudenzini

Giorgia

Rizzo Gioele

Sainato R. Mattia

Sculli Simone

Tarantino Giorgio

Tromba Martina

Cl. 1° Sez. C

Correale Alessia

Mazzaferro Chiara

Nizzardo Noa

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Gli alunni sono stati guidati nella realizzazione del lavoro dalla loro insegnante di

Arte e Immagine

Prof.ssa Assunta Jeraci.

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Viaggio tra gli antichi saperi

86Sommario

I VIMINI ............................................................................................................................................................17

IL CESTAIO.........................................................................................................................................................19

IL BARBIERE.......................................................................................................................................................20

IL BOTTAIO........................................................................................................................................................24

IL FALEGNAME..................................................................................................................................................26

IL CALZOLAIO (U SCARPARU)............................................................................................................................28

IL CARBONAIO ..................................................................................................................................................31

IL CARRETTIERE.................................................................................................................................................34

IL COLTELLO ......................................................................................................................................................38

L’ARROTINO......................................................................................................................................................39

IL CONTADINO ..................................................................................................................................................42

IL LIUTO.............................................................................................................................................................46

IL SARTO............................................................................................................................................................49

Il PANETTIERE ...................................................................................................................................................52

LA CARDATURA.................................................................................................................................................55

LA FERRATURA..................................................................................................................................................57

IL MANISCALCO ................................................................................................................................................58

LA PIPA..............................................................................................................................................................59

LA TESSITURA....................................................................................................................................................65

LA TESSITRICE ...................................................................................................................................................67

LE FILATRICI ......................................................................................................................................................69

LE CENTRALINISTE ............................................................................................................................................71

I MOSTACCIOLI (“U MUSTAZZOLARU”) ............................................................................................................74

L’IMPAGLIATORE ..............................................................................................................................................78

IL GIUNCO.........................................................................................................................................................80

GLI ANIMALI DOMESTICI .................................................................................................................................81

RINGRAZIAMENTI .............................................................................................................................................84

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Viaggio tra gli antichi saperi

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