Viaggio nell’aldilà de Le Anime Morte di Gogol’.

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Il tema del Viaggio nell'aldilà nella letteratura russa, da Gogol' agli scrittori del XX secolo Bulgakov, Platonov e Erofeev. A journey to the Beyond. The Legacy of Dante in the Russian Literature: Dead Souls, The Master and Margarita, Cevengur, Moscow to the End of the Line

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Tatiana Polo

Anton Ivanovich Ivanov-Goluboy (1818-1864), Gogol attraversa il Dnepr, 1845.

Edizioni Villa Paolozzi 2013

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di Tatiana Polo

A cavallo tra il Sette- o Ottocento, quando l’aurora dorata scaldava il pianeta della letteratura russa, si distinse nettamente sulla sua superficie un incrocio con traffico particolarmente intenso. Era il tema del viaggio. Qui s’affollavano picareschi calessini Lesage e Fielding, eccellenti veicoli da avventura. Al centro dell’ingorgo un ronzino avanzava imperturbabile inforcato dal suo celebre cavaliere. Lo sorpassavano lussuose berline Sterne, intarsiate di modernissimo sentimentalismo e brunito individualismo. Sulla corsia parallela marciavano pesanti tir di pedagogia germanica, modello Wilhelm Meisters Lehrjahre, Bildungsroman a sei ruote. La flotta letteraria di lungo corso era seguita da un codazzo di folcloristici birocci, diari di viaggio, descrizioni di pellegrinaggi e vite di Santi. Ed ecco che sfruttando le potenzialità di quell’eterogeneo vortice, la giovane casa produttrice russa lanciò sul mercato tre nuovi modelli nazionali.

Il primo, sperimentato nel 1790 da Aleksandr Nikolaevič Radiščev sul circuito Pietroburgo-Mosca, brevettava il viaggio di denuncia rivoluzionaria. Formatosi sull’estetica dello Sturm und Drang, appresa durante gli studi in Germania, Radiščev immetteva nel racconto il bellicoso linguaggio di lotta sociale, le spettacolari minacce di fracassare il cranio della tirannia e far pagare col sangue i misfatti dei ricchi. Nel capitolo «Vyšnij Volčok» leggiamo: «Distruggete gli attrezzi agricoli del padrone, incendiate i suoi granai e le capanne per i covoni, spargete le ceneri sui campi dove avvenne lo sfruttamento, proclamate ogni ricco e nobile un ladro e oppressore». Successivamente il modello del viaggio intrapreso in nome della futura rivoluzione fu sviluppato nei poemi Chi

vive bene in Russia? di N. Nekrasov e I Dodici di A. Blok e produsse un intero filone di grandi autori russi politicizzati ai danni della letteratura e un altro di dissidenti politici armati di penna ai danni della politica.

Una seconda linea di veicoli nazionali nacque con le Lettere del

viaggiatore russo di Karamzin, padre del sentimentalismo russo. A sostegno dell’idea che sentimenti come pietà, commozione e chiaroscuro d’animo siano valori unici e perenni dell’arte si fece avanti Puškin. Scrive, nel capitolo «Pugačevščina» de La figlia del capitano: «I cambiamenti migliori e più solidi sono quelli che scaturiscono dal miglioramento dei costumi, e non da qualche artificiale e violento

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sconvolgimento». Nella formula del tema di viaggio intrecciato nel testo della novella l’idealismo sentimentale di Sterne e quello passionale del romanticismo, lo spirito d’avventura picaresco, la razionalità del secolo dei Lumi, il moralismo del Bildungsroman e la tradizione folcloristica si fondono per formare i presupposti del futuro grande romanzo realistico russo.

La terza e ultima linea di vetture, nacque nel Ministero degli affari irrazionali di Gogol’. Ne Le Anime morte troviamo le tracce del viaggio agl’inferi, specie particolare del genere viaggio, dall’Odissea, all’Eneide alla Commedia. La letteratura russa non aveva nulla di paragonabile a queste opere universali e Gogol’, seconda testa dell’aquila bicipite russa, progettò di colmare questa lacuna. Si prefisse un’epopea dell’universo russo, una specie di Odissea, o Commedia nazionale. Se era un folle, Padreterno lo guidava. Fatto sta che riuscì nel suo intento, creando una versione molto particolare del viaggio nell’aldilà che aperse una nuova prospettiva storico-letteraria per altri scrittori russi.

Nel nostro intervento ci prefiggiamo di descrivere il fenomeno e di tracciarne la continuità nei tre scrittori russi del XX secolo di massimo spessore: Mihail Bulgakov, Andrej Platonov e Venedikt Erofeev.

Aldilà- dopo-vita, dopo-realtà

Prima di tutto, bisogna chiarire in forza di quali parametri Le Anime

Morte, poema di un genere incerto tra epopea, romanzo e dramma, possa essere definito come un viaggio nell’aldilà. L’azione è collocata nel contesto biografico dello scrittore e s’impernia intorno al tipico, al banale e all’abituale della società russa ai tempi di Nicola I. Ma sotto il velo del quotidiano emerge il vero tema del Poema gogoliano: il giudizio universale, crescente ossessione di Gogol’. Nella Commedia

vide la forma artistica ideale in cui comporre il tema della punizione e redenzione del peccato. Ma, al di là del capolavoro di Dante, quel che soprattutto lo affascinava era l’intrinseca potenza letteraria della trilogia – una “struttura triadica”, per prendere in prestito il linguaggio filosofico dell’epoca di Gogol’. Scrive Jurij Mann: «A parte la tradizione di Dante, il concetto di triplicità veniva evocato da fattori potenti come, da una parte, la dottrina cristiana della SS. Trinità e dall’altra parte dalla concezione dialettica della triade, in particolar modo nella classica filosofia tedesca, alla quale Gogol’ all’inizio degli anni 30 non era per

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niente estraneo»1. I critici convengono che Gogol’, sia pure da orecchiante, conoscesse la tesi di Schelling che «La divisione dell’universo e la collocazione del materiale in tre regni – inferno, purgatorio e paradiso … è una forma simbolica generale, e non c’è niente che impedisca ad ogni epoca significativa di avere la propria Divina Commedia nella stessa forma». Così la parola POEMA appare sulla copertina della prima edizione de Le Anime morte a caratteri più grossi del titolo e del nome dell’autore. E fin dalla sua comparsa i Russi, entusiasmati, incuriositi e fieri della cultura nazionale non si stancano di identificare ed analizzare i pigmenti danteschi nella tavolozza di Gogol’. Qui ci appoggiamo all’accurato saggio di Stefano Garzonio Dante e

Gogol’. Storia di un parallelo creativo, dove sono illustrate le principali tendenze nel pensiero critico russo in questione, anche se è tralasciato il contributo simbolista.

Parlando in estrema sintesi, Gogol’ segue Dante in due aspetti cruciali. L’uno è di imprimere una direzione positiva al movimento narrativo: dal male al bene, dalla morte verso la vita e l’amore, dall’infernale verso il divino. L’altro è di dare ai personaggi una tensione escatologica, più forte della loro natura umana, più importante del puntiglioso realismo dei particolari e della vis comica e ironica. Il pensiero sul destino ultimo dell’uomo e sulla ricompensa cristiana è diluito in ogni descrizione, in ogni scena de Le anime morte e guida l’autore nella scelta e collocazione del materiale. Prima Manilov, “ignavo”, ma meno chiuso in se stesso e altruista, poi Sobakevič e altri, fino al sadico Pluškin, anima completamente corrotta dalla cupidigia, marcia e perduta per l’umanità. Più o meno così Dante smistava i suoi peccatori nell’Inferno: misurando la colpa sul grado di consapevolezza del peccato commesso in vita.

Ma con tutto il sangue che il vampiro Gogol’ poteva succhiare da Dante, l’atmosfera infernale de Le anime morte ha una composizione chimica totalmente originale. Non andiamo a visitare luoghi di sempiterne tenebre o di radiosa eternità. Le tenebre calano nella nostra vita quotidiana per renderla un incubo dell’oltretomba. Nuotiamo in acque stranissime. Tutto quel che è vivo, è descritto come fosse morto e viceversa. C’è pure il diavolo in persona – Čičikov, «padre della menzogna», impegnato nella caccia ai morti. Più cadaveri ci sono in giro e più ne è contento. Morti di fame – benissimo. Di epidemie – ottimo. Giovani, vecchi, bambini – non importa. E noi – a ridere, come stregati. Sui personaggi posseduti. Sulla meschinità vestita di elevato, come per esempio la stessa allusione a Dante e Virgilio nel capitolo VII. Su noi

1 J. Mann, Tvorchestvo Gogolia: Smysl i Forma: Nauchnoe Izdanie, Izd-vo S.-Peterburgskogo Universiteta, 2007, p. 652.

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stessi, come nel Revisore. La lettura si trasforma in un rito della nostra iniziazione ai Misteri dionisiaci russi, in bilico tra la liturgia e la discoteca, tra l’universo e la spazzatura, tra il soprannaturale e la nausea. Il mondo dell’aldilà corrisponde al mondo dell’oscurità della nostra anima e dell’anima dello scrittore stesso. La cronaca di viaggio dell’Anticristo a caccia dei morti diventa un’allegoria dell’angoscia e del senso di colpa per i peccati che commettiamo consapevolmente. Lo spazio virtuale un po’ pauroso, molto divertente e di eccezionale profondità prospettica del poema rispecchia il nostro buio interno.

Non poteva andar meglio per la prima parte del poema, formalmente corrispondente all’Inferno di Dante. E per la seconda? Nella tradizione ortodossa il Purgatorio non c’è. Gogol’ cerca un surrogato nella seconda fase della Bildung. Scrive: «I caratteri nel secondo volume dovevano essere più significativi e l’intenzione dell’autore era quella di illustrare più profondamente il significato supremo della vita». Cioè, l’idea era di mostrare un graduale schiarirsi dell’anima, alleggerire il peso, alleviare il dolore. Questo presumeva dilatare quel suo linguaggio irridente fino a raggiungere i campi sereni della virtù e dell’idillio. Ma l’impresa superò le sue forze, e la seconda parte delle Anime naufragò nella nevrosi e nel rogo del manoscritto, nove giorni prima della morte.

Il Maestro e Margherita

La cremazione del defunto, nelle società che la praticano, presuppone la reincarnazione dell’anima in un altro corpo. L’anima delle Anime cremate il 12 febbraio 1852 risultò tangibile, misurabile, magnetica. E doppia: la parte distrutta e quella mai nata. Altro vistoso connotato era la grossa cicatrice del cordone ombelicale che prima della nascita univa il Poema alla Commedia. Lo spiritello appariva puntualmente dopo la lettura del primo tomo e delle poche pagine superstiti del secondo, che indicavano la direzione da seguire. Questo avveniva perché l’Anima delle Anime cremate era un’anima sacrificata senza purificazione. Era perciò un’anima in pena, un’anima in cerca d’autore. E lo spettro si aggirò per la Russia. Passarono cinquant’anni dalla notte del rogo, finché all’alba del nuovo secolo trovò la porta cui bussare.

Fu fatta entrare e accomodare nel salotto simbolista da un contubernio di poeti e brillanti critici come V. Br’usov, A. Beljy, D. Merezkovskij, I. Annenskij, V. Gippius, ciascuno dei quali aveva scritto sul “suo” Gogol’ chi un interessantissimo libro, chi un importante saggio. Grazie al pensiero simbolista l’attenzione del lettore, prima fissata quasi

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esclusivamente sul naturalismo, sull’impegno civile (ancora da dimostrare), sul lato comico e satirico, o al limite sulla complessità psicologica dei caratteri nella favella gogoliana, ora, all’inizio del Novecento fu attirata sull’elemento fantastico, demoniaco, mistico. E guarda caso, anche Dante ora divenne una specie di icona culturale.

In quel momento la Russia era sconvolta dalle due rivoluzioni, dalle guerre, dal totalitarismo col suo terrore psicologico, dagli stermini di massa. Le questioni eterne come il senso della vita, la provenienza del male o la natura della verità tornarono a scottare le menti creative e a chiedere nuove risposte. Insomma, stando alla teoria di Schelling, era la temperie propizia alla rinascita della Commedia. Solo che i Russi ormai avevano una Commedia nazionale e leggevano Dante attraverso Gogol’.

E’ in questa temperie che, nel 1922, il quotidiano Nakanune («Alla vigilia», 1922-24) pubblica, a puntate, Le avventure di Čičikov, un brillante remake del I volume delle Anime Morte, più tardi incorporato nel ciclo «Diavoleria». Il racconto (di Mihail Bulgakov) ha come sottotitolo Poema in 10 punti con prologo e epilogo e si snoda in 10 minuscoli episodi, che trasformano il testo in un sarcastico ritratto della vita russa sotto Lenin. Qui il cast di Čičikov & C. trova ancora una volta un ambiente ideale per mettere in piedi il suo vecchio show. Ma è solo l’ouverture della reincarnazione. Quattro anni dopo Bulgakov inizia il suo romanzo Il Maestro e Margherita, in cui l’energia emotiva delle Anime Morte esplode e trionfa per dimostrare che i manoscritti non bruciano mai davvero.

Il genere del Maestro e Margherita, chiamato da Bulgakov romanzo

del tramonto, è conosciuto anche come roman veka, “il romanzo del secolo”, ma i bulgakovisti amano definirlo come menippea, un genere sintetico, cui nome e profilo sono stati definiti da M. Bakhtin. Cioè, qui come nelle Anime morte, le difficoltà iniziano, per così dire, già dalla copertina del libro. Passando al soggetto, ci accorgiamo subito che aria tira: si tratta di una nuova cronaca di viaggio del diavolo nel mondo moderno a caccia di anime peccatrici. Il protagonista non è il Maestro né Margherita ma Woland, demone del male apparso a Mosca a metà degli anni Trenta in veste di Professore di Magia Nera. Come Čičikov, Woland incontra solo anime morte in diverso grado di decomposizione. Tenta, trama, comanda. Tutte le linee del soggetto sono subordinate alla sua vicenda. Ma perché allora possiamo essere sicuri che si tratta dell’incarnazione del mitico Secondo volume de Le Anime Morte, e non di un’altra versione dello storico Primo?

Non solo e non tanto perché il romanzo di Bulgakov sembra più “accessoriato” delle Anime morte: al posto di una linea narrativa la

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composizione di Bulgakov offre un intreccio di molte vicende, tra le quali spicca il tema della passione romantica dei due personaggi, la storia d’amore vera, toccante e avvincente, che a Gogol’ manca. Il cambiamento radicale riguarda le virtù, alle quali l’autore si dedica quanto ai vizi. Molti personaggi sono positivi. Nel protagonista, invece, il bene e il male sono uniti e mescolati. “Sono una parte di quella forza che sempre vuole il male e opera il bene” - troviamo nell’epigrafe un passo di Goethe. L’effetto del chiaroscuro così accentuato aiuta Bulgakov a prolungare ulteriormente il filo dei concetti arrotolato nel primo tomo delle Anime morte e di creare un altro impossibile groviglio da dipanare e snodare. I protagonisti del romanzo, per quanto immersi nell’azione fulminea che risucchia il lettore quanto I Tre Moschettieri di Dumas, comunque rimangono veri e propri enigmi. L’opera si presenta come un codice di difficile decifrazione, e più si indaga, più i concetti si complicano. Decine e decine di migliaia tra saggi, libri, articoli, gialli filologici in tutte le lingue offrono al lettore una gamma di interpretazioni spesso bizzarre e inconciliabili tra loro. Ci accorgiamo con l’inquietudine, che il virus del male, tempo fa afferrato da Gogol’, ora è mutato. Woland, il diavolo buono, ma che diavolo è? Il diavolo di solito fa finta di essere buono. Il diavolo di Bulgakov, suscitando con le sue azioni simpatia nel lettore, in realtà lo tenta. E Yeshua Ha-Nozri, corrispondente a Gesù, chi sarebbe? È davvero un personaggio storico o una ricostruzione amatoriale volta a contrastare i nostri pregiudizi, oppure un provocatorio gioco letterario, una mistificazione, visto che l’immagine del Redentore proviene dal manoscritto del Maestro, il testo ispirato e poi salvato da Woland cosiddetto “buono”? Ognuno decide per se.

La straordinaria profondità prospettica viene raggiunta da Bulgakov tramite l’utilizzo della stessa camera oscura della Divina Commedia, strumento adorato anche da Gogol’. Solo che questa volta al posto dell’infernale conca s’intravede all’orizzonte la montagna divisa in sette cornici. Sulla concezione dantesca del Maestro e Margherita i critici cominciarono a riflettere da subito, non appena l’opera divenne di pubblico dominio (nel 1966). M. Čudakova ritiene che l’interesse di Bulgakov per La Divina Commedia sia più che palese e trova molti punti di convergenza, che finalmente spiegano ciò che prima sembrava non avesse senso. Per esempio, la studiosa individua l’ultima dimora del Maestro e Margherita nel Limbo, territorio marginale dell’Inferno, ma che non ne fa parte. Ora comprendiamo la trattativa dell’apostolo Levio Matveo con Woland. Dunque, per volere di Bulgakov il Maestro e la sua amata saranno gli eterni vicini di casa di Omero, Ovidio, Orazio, Lucano e Virgilio. Una dettagliata analisi del romanzo in riferimento al poema

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dantesco la troviamo inoltre nel saggio di Igor’ Belza, il quale confronta le soluzioni dei temi della misericordia, della nemesi, della denuncia sociale, della sofferenza dei giusti, del ruolo del Logos nelle due opere. Paradigma del romanzo è dunque il Purgatorio, rafforzando la tentazione di collocare Il Maestro e Margherita nella casella mediana della struttura ternaria disegnata da Gogol’.

Čevengur

Se il riflesso del progetto gogoliano nel romanzo di Bulgakov è più o meno evidente, la tesi che anche la terza parte delle Anime morte abbia trovato la sua incarnazione nella letteratura russa del Novecento sembrerà azzardata. Eppure, noi siamo certi che Čevengur di Andrej Platonov si inserisce armonicamente nella casella del Paradiso. Cambia, però, lo stile: non l’esuberante vaso di fiori di Bulgakov, meridionale come Gogol’, ma qualcosa come un bel cactus lunare.

Ma che c’entra questo cactus concettuale e linguistico tutto spine con «l’arcimateria» e «l’arcilingua», come diceva Orwell, del nostro classico?

Il Paradiso è un’utopia moreana, un “[territorio] senza luogo”. Gogol’ non lo perdeva mai di vista, usando gli occhiali, il monocolo, il binocolo, il microscopio, il telescopio, la camera oscura e altri realistici scientifici spettabili strumenti della realtà. Il talento straordinario della fantasia, oltre che della capacità di esprimerlo, gli impediva di percepire il mondo così come lo vediamo noi. Era “lunatico” non solo nello stile letterario ma anche in quello di vita, coi suoi modi di comportarsi e vestirsi. Utopica era anche la sua filosofia, incentrata tutta sul ruolo della cultura nella società, ovvero sul rapporto dell’elemento estetico con la morale. Da una parte, Nikolaj Vasilievič era un fervido credente e di carattere un grande moralista, a volte fin troppo rigoroso. D’altra parte, l’unica sua passione era quella per l’arte. Non aveva altri interessi come la famiglia, la carriera o la ricchezza, viveva esclusivamente per la letteratura. La tragedia di Gogol’ consisteva nella convinzione che la cultura sia il dominio del peccato perché l’estetica è amorale. All’inizio, influenzato dal romanticismo tedesco, lo scrittore tentò di difendersi con l’utopia estetica, la funzione catartica dell’arte. Dopo la rappresentazione della commedia Il Revisore, Gogol’ ebbe la prova irrefutabile che lo scalpore non produce catarsi. Cerò allora salvezza in un'altra e peggiore utopia, la sintesi tra cultura e devozione ortodossa. L’idea della responsabilità etica e morale dell’artista era presente già nel pensiero dei primi filosofi russi

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come Čaadaev, definito da Zen’kovskij il teologo della cultura. L’ecclesiologia di Čaadaev vede nella fede cristiana la sintesi trascendente della morale, della filosofia e della bellezza, guida delle anime alla salvezza. Gogol’ eredita queste convinzioni ma sposta l’accento sull’ortodossia, l’unica in grado di insegnare alla nostra anima la vera nobiltà e il difficile amore per il prossimo. E aggiunge inoltre la capacità artistica di incarnare i concetti, di farne materia vivente. E’ per questo che non ci persuade l’interpretazione umanista di Gogol’, così ben riassunta da Stefano Garzonio: «Gogol’, uomo moderno, tende ad immedesimarsi in Dante proprio perché […] è testimone […] di un possibile, auspicabile, nuovo umanesimo russo di portata universale, di cui Gogol’ vuole essere l’apostolo»2. No. Gogol’, a differenza di Puškin, è proprio agli antipodi dell’umanesimo inteso in senso dantesco, come esaltazione di tutti i valori umani - intellettuali, morali, affettivi, culturali, civili. La Divina Commedia per lui è solo la cava della materia oscura. In Confessione d’autore Gogol’ ribadisce che non si può ripetere Puškin, come non si può creare l’arte fine a sé stessa. Il compito dell’artista è teurgico, di guidare l’umanità verso il Regno di Dio.

Proviamo ad immaginare in questa luce il contenuto del Terzo tomo. Si tratta sempre di un viaggio del protagonista in questo nostro mondo. Ogni personaggio ed evento cambia valenza negativa in quella positiva. Per ottenere l’effetto benefico sulla società, Čičikov deve diventare un libero professionista in ambito creativo, come per esempio scrittore, o pittore, essendo al tempo stesso predicatore, chiaroveggente e guaritore. Grazie alla sua attività l’ortodossia trionfa sulle altre confessioni, facendo promuovere anche la letteratura, l’arte e la lingua russa. I vizi e i peccati scompaiono. L’anima morta risorge. Niente più schiavitù, niente odio tra gli individui. L’umanità si è preparata al Giudizio Universale e lo affronta festante. Il tempo e lo spazio miracolosamente si adeguano, le due patrie acquisite del nostro poeta, Roma e Mosca, in qualche modo si avvicinano una all’altra.

In tutto questo doveva essere qualcosa di idilliaco. A questo aspetto Gogol’ era abbastanza attento. Di veri e propri idilli, secondo Gippius, ne aveva scritti tre: Ganz Küchelgarten, I possidenti di antico stampo, I passi scelti dalla corrispondenza con gli amici, ma solo per dimostrare la debolezza di questo genere. Nel gioco malinconico faceva scindere il nucleo atomico dell’idillio, bombardandolo ora con le risate qui assolutamente fuori luogo, ora con un malizioso motivo di viaggio, ora con gli impulsi romantici come agitazione o delusione. Dunque il terzo

2 Stefano Garzonio, Semicerchio, N.36, 2007, p. 37.

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tomo de Le Anime morte probabilmente dobbiamo immaginarlo come un utopico anti-idillio.

Lo spirito dell’utopia culturale gogoliana fu fatto germogliare dai primi slavofili per penetrare successivamente nelle radici di ogni manifestazione intellettuale. D’ora in poi i problemi dell’esistenza umana, i quesiti etico - morali abbassano il valore del divertimento puro dell’arte o del pensiero laico basato sulla componente empirica. Il gusto mistico–religioso penetra nella scrittura di Dostoevskij e Tolstoj, nascono le utopie politico-letterari come quella di Černyševskij, politico-filosofiche come quella di V. Solovjёv, l’utopia culturologica del futurismo e quella del simbolismo. Tutto il filone della letteratura fantastica è impregnato di utopismo e inclinato verso la problematica esistenziale. Quando all’inizio del Novecento nella letteratura russa arriva la stagione dell’utopia (e l’antiutopia, con il romanzo di Zamjatin Noi), questa non fa altro che dannarsi sulla stessa vecchia questione: quand’è che l’anima è viva e quand’è che l’anima è morta. Lo si evince dal confronto con l’utopia inglese dello stesso periodo, rappresentata eccellentemente da Chesterton, Orwell e Huxley, che indagano più che altro sull’aspetto sociale del futuro o sulle conseguenze del progresso tecnico-scientifico. L’utopismo mitologico di Čevengur fa muovere tutta la placca verso il nuovo livello di considerazione.

La trama del romanzo è il viaggio del compagno Aleksandr Dvanov, mandato dal Partito in periferia della Russia a raccogliere informazioni sull’impatto del comunismo sulla gente. Senonché, invece di limitarsi ad osservare, il protagonista interagisce coi suoi compagni d’avventura in nome della rivoluzione e del socialismo, cercando di adeguare la realtà ai suoi curiosi standard politico-esistenziali. A metà del romanzo dopo le varie peripezie nei piccoli e grandi villaggi, questi Don Chisciotte del XX secolo giungono in una città ideale di Čevengur, dove trionfa il fantasmagorico comunismo. Narrata in chiave fantastica, ora come leggenda, ora in toni tipicamente surrealisti, la missione sociale e ideologica rimane una ricostruzione del credo etico-filosofico dell’autore distante anni-luce dalla sfilza chilometrica dei viaggi rivoluzionari, il genere al quale abbiamo accennato all’inizio di questo saggio. La prosa di Platonov non ha nulla a che vedere con Radišev e la sua furiosa disperazione di derubato nell’autobus. In verità, non ha niente a che fare con niente e come un meteorite a malavoglia sopporta confronti. Lo scrittore rimarrebbe forse scioccato dal nostro pestar l’acqua nel mortaio con quelle orme del terzo tomo de Le Anime morte che in Cevengur ci sembrano comparire dal nulla, a forma di un’immagine paradisiaca dell’Anima trasfigurata. Platonov rinnegava convintamente tutti i classici ad eccezione di Puškin. Ma non riesce ad immaginare un geniale

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scrittore scaraventato fuori dalla propria tradizione letteraria. Tant’è vero che nel seno di questa tradizione Platonov scrisse un corsivo “sui mascalzoni”, intitolato “L’anima umana è un animale indecente”, che si legge come un vero omaggio a Gogol’. Facendo il riassunto dei suoi principali concetti, l’autore ricorre all’arsenale espressivo gogoliano. Ma all’epoca del comunismo i padri classici sembravano fuori luogo. Tutta la terribilità dell’arte del passato pareva maschera teatrale a confronto con l’apocalissi quotidiana di cui Platonov era testimone e martire. Davanti a lui il cadavere dissanguato della madre Russia giaceva nella polvere e lo scrittore, suo piccolo figlio abbrancato al lembo del suo vecchio vestito, sbarrava gli occhi per non far uscire quelle maledette lacrime. Così sono i suoi eroi, non piangono mai, anche se sono sempre bambini, davvero o nell’animo, sempre ingenui, spontanei, commoventi. Sono talmente poveri, affamati e abituati alle disgrazie che non sentono più bisogno dei mezzi di sostentamento come non sentono pietà né per sé né per gli altri. La madamigella Sofferenza, alla quale Gogol’ ogni tanto dava platonici appuntamenti, sedotta e abbandonata sul lastrico da Dostojevskij, trovò casa da Platonov, quando magnanimo le spalancò le porte del suo centro sociale interplanetario, dove per recuperarla dal pathos e dal narcisismo dovette somministrarle la mistura di libertà, futura felicità del mondo e fratellanza universale. Per gli eroi di Čevengur occuparsi di sé stessi vuol dire sprecare il tempo della vita. Non pensano di sistemare il quotidiano della propria esistenza e non sono compatibili con la famiglia. Ciò di cui maggiormente si preoccupano, è di superare la propria condizione di orfani del mondo. Ecco l’amore per il prossimo tanto agognato da Gogol’. Kopёnkin «potrebbe con convinzione bruciare tutti i beni immobiliari sulla terra, perché nell’uomo rimanesse solo l’adorazione del compagno». Oppure: «Pašinzev percepì nel Kopёnkin un orfano del globo terrestre uguale a se stesso e gli chiese con il cuore sulle labbra di rimanere con lui per sempre. – Che altro ti serve? – diceva Pašinzev, arrivando all’abnegazione di se stesso dalla gioia di sentire la persona amichevole. – Vieni ad abitare qui» (p. 129). Se immaginiamo la sequenza inversa dei personaggi delle Anime morte, cominciando da Pluškin, una crisalide nel bozzolo, poi un po’ più aperti Sobakevič, Korobočka, eccetera fino al socievole Manilov, alla fin della fila dovremo collocare Zakhar Pavlovič, Dvanov, Kopёnkin e tutti gli altri personaggi di Platonov. È davvero un popolo dei Giusti. Ciascuno di loro è fatto più dell’anima che del corpo. Il corpo in Platonov non è altro che un fastidioso obolo che ogni anima viva è costretta a pagare per ottenere la grazia di esistere. «Saša non si percepiva come un oggetto solido indipendente – egli sempre immaginava qualcosa con il senso e ciò sostituiva in lui l’idea di se stesso» (p.45). Anzi, va precisato che il corpo si è aggiudicato alcuni

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requisiti dell’anima. La luce dell’anima, per esempio, illumina il corpo dal suo interno, salvando l’uomo dal caos e dolore. Platonov descrive così la luce interna del suo personaggio: «Sopra il suo cuore palpitava quella spaventevole luce momentanea che capita ad osservare nelle notti d’estate sui campi. Può darsi, viveva così in lui un amore astratto della giovinezza, diventata una parte del suo corpo, oppure si trattava di una forza aggiuntiva della nascita. Grazie ad essa Dvanov poteva vedere gli avvenimenti non chiari, che nuotavano nel lago dei suoi sentimenti senza lasciar tracce» (Cevengur, p. 380). La sostanza immateriale di cui sono fatte queste limpide creature ci permette di classificare il loro habitat naturale come parte dell’aldilà e più precisamente quella del Paradiso.

Il Paradiso di Platonov ha dimensioni cosmiche ed è pieno di sole, calore, luce e miracoli. Il comunismo significa per gli eroi del romanzo la fine dell’universo e l’inizio della nuova sua fase. La storia, «il tempo perso per sempre», si è fermata ed è arrivata l’ora di distruggere tutto. Cambia la scala di misurazione abituale: a causa del socialismo «La terra dalle colture seminate sarà più luminosa e più visibile dagli altri pianeti» (p. 108). «Queste persone, - diceva Dvanov parlando dei banditi - vogliono spegnere l’alba, ma l’alba non è la candela, è un grande cielo, dove sulle segrete stelle lontane è nascosto un nobile e potente futuro dei posteri della stirpe umana. Non c’è dubbio quindi che dopo la conquista del globo terrestre sarà segnato il destino di tutto l’universo, arriverà il momento del giudizio universale dell’uomo su di esso…» (p. 120). La vita, osservata attraverso tale telescopio utopico, naturalmente pullula di miracoli. Il rivoluzionario Kopёnkin ritiene che «Il socialismo è un paese estivo e poco lontano, dove dalle forze amichevoli dell’umanità tornerà in vita e diventerà cittadina viva Rosa Lussemburgo» (p. 135). A Čevengur si suppone che con l’avvento del comunismo non morirà più nessuno e che le stagioni smetteranno di susseguirsi. «Adesso c’è da aspettarsi qualsiasi bene… Ecco che vedrai le stelle cadere e i compagni a scendere da esse, ecco che gli uccelli potrebbero cominciare a parlare… il comunismo è una cosa seria, e dicendo più precisamente, fine del mondo?» (p. 30). Un particolare peso simbolico, nel romanzo, acquista il sole. «Il socialismo assomiglia al sole e sorge in estate» - dice Dvanov (p. 108). Il sole è chiamato «padre», «difensore», «gran lavoratore», «sostegno degli uomini» ecc. Un’altra categoria importante è quella del tepore. Il calore fisico dei corpi è percepito come calore umano e gli abitanti di Čevengur se lo dividono di notte per scaldarsi come si divide il pane tra i giusti.

Ma l’utopico inno all’Anima rinata nella nuova religione non si distacca completamente dalla cruda realtà politica e sociale del tempo: l’avvento del socialismo in Russia. La lettura di Čevengur è uno strazio,

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vi muore all’incirca un personaggio ogni due pagine. E non sappiamo più se considerare questa realtà un incubo della coscienza collettiva, o classificare le angeliche virtù dei personaggi come un’allucinazione beata del morente. In ogni caso, l’estremo contrasto fa venire in mente Gogol’. Ha iniziato lui a mescolare il vivo col morto.

Come nella prosa di Gogol’, la natura e gli oggetti di Platonov sono pieni di pensieri, sentimenti, ricordi. Nel villaggio abbandonato «le bardane inselvatichite, cresciute più della norma aspettavano il ritorno dei padroni di case […] e dondolavano come futuri alberi». Oppure, mentre gli eroi cavalcano, «alla strada si avvicinò faccia a faccia un viale di betulle». Tipicamente gogoliane sono anche le sequenze logiche del tipo: «Dal primo sole egli si salvava sistemando di sera sugli occhi una foglia di bardana. D’inverno, invece, tirava avanti col resto del guadagno estivo…». Questo dire «in inverno» al posto di «nel pomeriggio» che il lettore si aspetterebbe, è un classico artificio gogoliano. Quel Gran Maestro dell’imprevedibile, del misterioso e dell’indecifrabile avrebbe riconosciuto in Platonov un suo allievo anche per la complessità della scrittura, un vero rompicapo per la ricerca filologica mondiale. Fino in fondo nessuno l’aveva capito, confessano in coro i ricercatori. Gogol’ disse una volta, che l’unico personaggio positivo del suo Revisore è il riso. Forse, il vero protagonista del romanzo Čevengur è il suo incredibile linguaggio. Lo caratterizza I. Brodskij con queste parole: «La prima vittima dei ragionamenti sull’Utopia – desiderata o già raggiunta – diventa prima di tutto la grammatica, perché la lingua correndo in ritardo rispetto al pensiero, si soffoca nel modo congiuntivo e comincia a gravitare verso le categorie e le costruzioni extratemporali; di conseguenza anche i semplici sostantivi perdono il terreno solido sotto i piedi e appaiono circondati da un aureola di convenzionalità. Così, a mio avviso, il linguaggio della prosa di A. Platonov conduce la lingua russa in un vicolo cieco, oppure, dicendo diversamente, scopre la filosofia d’impasse nella lingua stessa. Se ciò che ho detto sia vero almeno per metà, è comunque sufficiente a far meritare a Platonov il titolo del grande scrittore del nostro tempo».

Dietro il soggetto, dietro lo straordinario linguaggio il tema centrale di Platonov rimane l’Anima rischiarata, rasserenata e purificata dei costruttori della nuova vita. Il sogno della corporea realtà e il trionfo dell’Anima come liberatorio distacco dalla terribile realtà storica del momento. La situazione è piena di paradossi e di contraddizioni.

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Mosca – Petuškì

Passarono anni e decenni, finì la guerra mondiale, morì Stalin, i campi in febbre sciolsero le loro nevi, formando un'unica sconfinata palude. Sopra la distesa del nuovo paesaggio, nell’atmosfera fetida di decomposizione ma fertile per l’humus culturale, la silenziosa tromba delle Anime Morte squillò di nuovo, turbando il sonno dei poeti. Il musicista folletto, travestito da bravo operaio e alla moda ubriaco, rispuntò nel 1969, nell’opera che i Russi proclamano Le Anime Morte del XX secolo o il Secondo tomo del poema gogoliano. Intendono Mosca – Petuškì di Venedikt Erofeev, ancora una volta, udite - udite!, un poema in prosa.

Qui abbiamo un altro importante viaggio. Si narra in prima persona di uno scrittore che fa l’operaio nella capitale e nel week-end va a Petuškì, cittaduzza della regione limitrofa a Mosca, quella di Vladimir. Venička Erofeev, il nome solo leggermente modificato dell’autore stesso, va a trovare la sua ragazza e il figlioletto. Com’era l’autore stesso, l’eroe è un alcolizzato cronico e strada facendo non fa altro che bere, consumando la sua cospicua scorta di alcolici nella valigetta. Sul treno incontra vari personaggi, che diventano i suoi compagni di bevuta. Alla fine cade in delirio e passa incosciente la sua fermata. Torna a Mosca disperato e dolente, scende dal treno e finisce nelle mani di banditi che lo uccidono.

Il Viaggio all’aldilà, creato da Gogol’ e ripreso da Bulgakov e Platonov, celebra nel poema di Erofeev la sua terza reincarnazione. Una tendenza viene fuori dal paragone d’immortali membri della famiglia: lo spazio dell’aldilà si allarga sempre di più a spese della realtà del mondo circostante. Il rifugiarsi nel raffinato estetismo di Bulgakov, l’ultimo flash della coscienza di un moribondo in Platonov, il delirio di un guitto alcolista in fase terminale si compongono in un unico crescendo verso la non-realtà.

L’atmosfera in cui si muove l’eroe di Erofeev colpisce per la sua somiglianza con l’aldilà gogoliano. Venička è l’ombra di un vivo e pare descrivere la propria odissea da morto. Morto moralmente ancora nel grembo materno, consapevole dell’atmosfera politica, sociale, culturale e di costume che lo aspetta. Morto in età adulta suicida con l’alcool, visto che dall’inizio alla fine del racconto lo vediamo ubriaco, fuori del tempo e incapace di orientarsi nello spazio. Ma soprattutto morto fisicamente, ucciso da «Mitridate re del Ponto», che l’aveva trafitto col suo coltellino, poi dall’«operaio», che l’aveva finito a martellate sulla zucca, dalla «contadina» che l’aveva colpito «con la falce sui cosiddetti» e infine

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sgozzato dai quattro delinquenti che gli trapassano la gola con la lesina da calzolaio.

Nell’orto botanico della letteratura russa dopo il roseto di Bulgakov e il cactus di Platonov, Erofeev ci pare una rafflesia, un gigantesco fiore parassita color porpora dal sud-est asiatico, che emana un odore di carne marcia insopportabile. E non tanto perché la pianta-cadavere di Erofeev a molti fa tappare il naso e in molti casi dopo tre pagine chiudere il libro con indignazione. La riduzione della pianta ad un solo fiore senza tronco, foglie e radici evoca la semplificazione del piano narrativo del poema: niente più avvenimenti straordinari, colpi di scena, la trama è ridotta all’osso. Ma dietro questa tenue cortina di fumo il viaggio all’aldilà reclama i propri diritti di visibilità e considerazione. L’eroe lo compie come Dante nella Commedia. Parla con gli angeli del Signore, incontra le creature ctonie: il Diavolo, la Sfinge, le Erinni. Da qualche parte s’accende e lampeggia un barlume di Paradiso: Petuškì, luogo dove gli uccelli cantano giorno e notte e il gelsomino fiorisce d’inverno come d’estate. In Russo Petuškì significa Galletti, parola dal vocabolario puerile, carica di amore, luce, colori, canto (in Russo il verbo cantare – pet’). Luce e colore bianco sono addobbi tradizionali del Paradiso. Solo che il suo Eden Venička non raggiungerà mai e brillo com’è, si trascina per l’Inferno sovietico dell’epoca brežneviana. Uno dei più sobri interpreti di Erofeev, V. Kuritzin, fornisce i connotati topografici strutturali di questa specie di Città Dolente. Secondo lo studioso, è fatto a cerchi. Il primo è rappresentato dai passeggeri del treno incontrati dal protagonista, che diventano un’immagine generalizzante del popolo russo. Lo stesso treno come luogo di transito è da considerarsi anche come una specie di Purgatorio, mentre da mezzo di trasporto esso è paragonabile alla barca di Caronte. Il secondo cerchio è composto dal vacuo emotivo e intellettuale intorno al sofferente protagonista; è un ambiente incapace di compassione e partecipazione al dolore. Il terzo cerchio, invece, consiste nella «rivolta di Elisejkovo». Lo scrittore spedisce il concetto della rivoluzione a quel paese, ossia al Tartaro, e ne ricava un territorio ad hoc sotto la bandiera nazionale russa. Al centro geografico di tutto il Regno del Satana s’innalza il Cremlino, per il protagonista irraggiungibile se non prima della morte.

Il nesso col mondo delle Anime Morte di Gogol’ è ancor più evidente. Lo intuisce E. Smirnova nel suo articolo V. Erofeev visto con gli occhi di

un gogolista. La studiosa trova paralleli tra i due classici, in particolare nell’approccio linguistico. Molto giusta sembra l’osservazione riguardo lo spazio, che in entrambi i poemi supera i limiti del quotidiano e sfocia in un piano globale dell’esistenza. Infatti, il calesse di Čičikov è evoluto nel vagone di Venička, che continua a vagabondare per la Russia

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trasportando il protagonista, l’autore e tutta l’umanità attraverso le spinose questioni filosofiche, morali, esistenziali nell’ambiente dell’intera Storia. Ma il poema di Erofeev è commisurabile col II e non col I tomo, se prendiamo in considerazione l’ingarbugliata correlazione del male col bene. Alcolismo, dissolutezza, ignavia, turpiloquio, irriverenza religiosa sono bilanciati in Venička dallo slancio della sua anima verso l’ideale assoluto - Gesù Cristo, sua sconfinata bontà, amore per il prossimo, mitezza di carattere, prontezza a sacrificarsi e a patire il dolore e le disgrazie. Alla fine scopriamo che in fondo dell’anima di Venička non c’è niente di acido, ma solo lamponi alla panna, proprio come lui descrive la sua amata. Inoltre, per la complessità del suo messaggio, finora indecifrato, Mosca–Petuškì batte un nuovo record. Con tutti i pregi e difetti Venička sembra un nuovo Khlestakov. La stessa capacità di svolazzare, di citare frasi e fatti come tessere tratte dal materiale linguistico più disparato, di mentire e fare scena, darsi delle aree… Di parlare a vanvera.

Erofeev costruisce il proprio mito esattamente come lo faceva Gogol’. Vengono in mente a questo proposito le parole di Ilya Vinitsky3: «Mi interessa la questione come e a che pro Gogol’ creava un’atmosfera particolare del mistero intorno a se e le sue opere. La poetica del segreto (la chiamerei segretica) di Gogol’ crea un immagine unica per la letteratura russa di un Autore Misterioso, il padrone del senso inafferrabile per un lettore comune. Leggendo Gogol’, noi non tanto andiamo avanti, dall’inizio verso la fine del testo, quanto indietro – verso la fonte del messaggio, che sfugge alla nostra comprensione. Credo che per Gogol’ questa segretica della scrittura – il modo del proprio perpetuarsi:

- Perché l’ho detto?, - come fosse egli dice a noi, e risponde:

- Perché c’è n’era bisogno.

- A chi?

- Non ve lo dico. Riflettete.

E noi ancor oggi riflettiamo».

3 www.polit.ru/analytics/2009/04/07/gogol.html Gogol’ kak nos russkoj literatury, Intervista con A. Kobrinskij

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Le Anime Morte è uno spartiacque della letteratura russa. Prima il viaggio si concludeva col raggiungimento della meta: Ulisse tornava a Itaca e gli Argonauti a casa col Vello d’Oro, Dante giungeva in Paradiso dove lo aspettava Beatrice. Pure Gogol’ aveva previsto il lieto fine. Ma l’incompiuta creò un effetto di aspettativa ingannata, di desiderio non esaudito, di libido sublimata. Il pessimistico secolo scorso percepì questo arresto e ne fece prassi, legge, regola d’intreccio. I viaggiatori non raggiungeranno più la meta. Cičikov non arriverà mai in Paradiso, né a Cevengur né a Petuski. Il lieto fine non è più previsto dal programma.