Gioacchino Criaco - Anime Nere

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Romanzo

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GIOACCHINO CRIACO

ANIME NERE

ROMANZO

Rubbettino

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IV ristampa: gennaio 2009

© 2008 – Rubbettino Editore Srl 88049 Soveria Mannelli – Viale Rosario Rubbettino, 10 – Tel. (0968) 6664201

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Tanto, troppo sangue hanno versato e fatto scorrere i figli dei boschi,

fratelli inutilmente e stupidamente divisi. Possano Dio e gli Dei placare lo spirito guerriero che li anima,

e scacciare il Demone che li possiede.

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Prima parte

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I figli dei boschi

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Camminavamo veloci, gli scivolavo dietro come una slitta trainata dai cani, era così da ore. L’appuntamento era notturno, e notturna, ovviamente, doveva essere la traversata. Di questo si trattava, percorrere la regione lasciando la vista di un mare per vederne un altro. Piovigginava da giorni come spesso succedeva in quel periodo dell’anno. L’acqua non riusciva a passare la giubba impermeabile della pesante mimetica dell’ejército español e bagnare la camicia e i pantaloni. Folate di vapore prodotte dal calore del corpo fuoriuscivano dal giaccone, e attraverso le tasche aperte dall’interno controllavo continuamente che l’AK 47 non si bagnasse. Il contatto col metallo freddo dava una scossa all’adrenalina già abbondante nel sangue. Toccavo la sgraziata leva del selezionatore di fuoco per accertarmi che non fosse in R o J ma in U, sicura. Avevamo munto le bestie e dopo averle ricoverate e riposto il latte alle prime ombre della sera eravamo partiti. La consegna del porco doveva avvenire a molti chilometri di distanza, lui agli appuntamenti arrivava sempre in abbondante anticipo. Attraversammo nell’ordine boschi di lecci, bassi e fitti, pieni di cespugli spinosi che a volte vincevano lo spessore degli abiti e segnavano le carni; strette file di pino comune, dove il pericolo era rappresentato dai rami bassi e secchi che cercavano inesorabilmente gli occhi, bisognava inclinare la testa e lasciare che la visiera del berretto respingesse gli attacchi; boschi di altissimi e maestosi larici i cui aghi morbidi nascondevano profonde buche scavate dai cinghiali, dentro le quali si misurava l’elasticità e la solidità delle caviglie (un’entrata baldanzosa e si finiva, se c’erano, sulle forti spalle di qualcuno che ti trasportasse in un ricovero), per chi può vedere gli aghi di pino sono una candida distesa di neve sulla quale le tracce durano giorni; immensi faggeti su estensioni pianeggianti camminando sopra croccanti crackers, tale è il rumore delle foglie calpestate, assordante nel bosco silente. Raggiunta la vetta più alta, e iniziata la discesa, la vegetazione si ripeteva in ordine inverso. Una tale traversata, anche se fatta di giorno, sarebbe stata per occhi inesperti una pazzia, se non un suicidio: boschi inestricabili, viscide rocce, torrenti impetuosi, dirupi maligni, recinti di filo spinato. Lui entrava in simbiosi con quella natura che poteva apparire ostile, vi s’immergeva completamente e ne faceva parte, ne era un elemento essenziale: la montagna, che respinge le ostilità, lo accettava, e lui l’amava più di ogni altra cosa al mondo. Lui e la montagna, ne era convinto, odiavano solo due cose, le querce e i porci, entrambe distruttive per l’ambiente.

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La quercia rendeva il terreno sul quale cresceva arido e desertico, e il suo frutto ingrassava il porco, che distruggeva boschi, argini, fungaie, colture e pascoli. Lui conosceva ogni passo, albero, ruscello, falesia, ricovero e trabocchetto come solo un nativo dei luoghi poteva. Lì era nato e cresciuto. Poi se ne era allontanato ma, inesorabilmente, la montagna lo aveva riattratto. Chi là nasceva là moriva. E soprattutto due erano le cause di morte, la fatica e il piombo, a esse era difficile sfuggire. Lui era mio padre. Rappresentava il prodotto tipico di quella terra, tarchiato, forte e resistente, indurito e fragile allo stesso tempo. Soprattutto determinato a resistere, a qualsiasi costo e prezzo, regola legale o morale. Divoravamo la strada che portava al porco, nutrimento avvelenato, forse, per la nostra terra. Arrivammo che era ancora notte fonda, perlustrammo la zona descrivendo una serie di cerchi concentrici, sempre più stretti. Solo gli animali notturni ci facevano compagnia. Ci sedemmo sopra due grosse pietre a ridosso del guardrail che delimitava la piazzola di sosta dell’autostrada, e iniziammo l’attesa. Di tanto in tanto il rumore di qualche mezzo scuoteva la notte silenziosa, i fari rompevano il buio… e ricominciava l’attesa. Dopo un paio d’ore si udì un rombo diverso. Un camion rallentò, si fermò. Si aprì un portellone e ombre veloci scavalcarono la recinzione e si accucciarono a terra. Il grande mezzo ripartì. Pochi secondi e il silenzio e il buio furono di nuovo padroni. Sentivo i loro odori, i loro pensieri, non avevano paura, erano certi di essere attesi. Il fischio breve e secco di mio padre dissolse l’ansia che li attanagliava; ce l’avevano fatta, erano al sicuro, il fardello di responsabilità si trasferiva ora sulle forti spalle di mio padre. L’unico intimorito ero io, stavolta era diverso, il porco era sceso agile, tranquillo, diritto; avevo sperato che arrivasse curvo e implorante, per non averne rispetto e pietà. Era arrivato invece a spalle alte, sprezzante. Non ci temeva. La cosa più importante, la sua famiglia, adesso era lontana e al sicuro. I guai, purtroppo, erano assicurati. Ci avvicinammo senza parlare. Mio padre prese la mano di Luciano, se la appoggiò sulla spalla e lo condusse a distanza di sicurezza dalla strada. Ripeté l’operazione con Luigi. Poi prendemmo in mezzo il porco e lo portammo dove erano gli altri due; al primo chiarore saremmo ripartiti, loro non erano in grado di camminare col buio. Mio padre parlò piano, con dolcezza, gli spiegò che la camminata era lunga, gli avrebbe tolto le manette, si sarebbero fermati ogni volta si fosse sentito stanco, gli avrebbe dato da mangiare e da bere ad ogni richiesta e lo avrebbe trasportato sulle spalle nei punti più pericolosi. Se invece non collaborava l’avrebbe trascinato a forza facendolo strisciare per terra. Il porco fece un cenno d’assenso, l’alba rischiarò il passo e partimmo, ad andatura ovviamente più lenta. Dopo un paio d’ore di marcia mio padre si sentì sufficientemente al sicuro per farli riposare. Potei finalmente, senza parlare, abbracciare i miei amici. Tirai giù lo zaino

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delle meraviglie che portavo sempre con me, vi cavai fuori il fornellino da campo e preparai il caffè. Distribuii cioccolata e biscotti, e in un bosco di lecci bagnati dalla pioggia leggera di aprile, la strana compagnia si distese a sedere, nell’attesa che la moka compisse il solito miracolo e con fischi e spruzzi facesse uscire il profumato liquido. Era una scena placida e tranquilla, unico elemento in distonia era il pesante cappuccio sugli occhi di uno di noi cinque. A quel tempo ci sembrava normale chiamare porco un uomo, quello era il nome coniato dai rudi e cinici pastori della montagna per gli ostaggi che numerosi soggiornavano negli intricati boschi dell’Aspromonte. I pastori, per essere tali, dovevano essere custodi di capre, solo queste erano bestie nobili, degne di pascolare in quelle impervie alture. Le capre erano considerate compagne e amiche. Un vero pastore odiava bestie stupide e irreggimentate come le pecore; temeva per la loro sensibilità quasi umana le mucche; teneva solo un porco, nocivo per il territorio, da segregare e nutrire quasi esclusivamente con siero di latte. Tale bestia, seppure odiata, era determinante per superare i rigidi inverni. Riprendendo antiche pratiche, mai completamente scomparse, quasi tutti i pastori, oltre alla porcilaia vicino all’ovile, ne tenevano una seconda, segreta e perfettamente mimetizzata, nel folto di un bosco, destinata a un crudele ma fruttuoso allevamento, necessario all’evoluzione economica che ci si era convinti, o ci avevano convinto, dovesse arrivare. A quel tempo era così. Questa era da alcuni anni la reale attività di mio padre, e mia. A ogni inizio di primavera costruivamo a pochi chilometri dall’ovile una nuova porcilaia. Ci tenevamo un ostaggio per quattro cinque mesi durante la stagione più mite. Prendevamo la somma pattuita, a riscatto pagato, e riconsegnavamo l’ostaggio che poi veniva liberato in tutt’altra zona. Dio, generoso come con tutti i poveri, aveva dato a mio padre sette figli. Prima me, poi cinque femmine, e infine un altro maschio. Lui faceva il pastore accordato, o più semplicemente il servo del pastore. A un certo punto emigrò e mandò fino all’ultima lira a casa. E quando assommò la cifra necessaria per comprarsi un suo gregge, ritornò ai suoi monti. Della mia infanzia ricordo una tinozza di zinco nella quale a turno ci lavavamo con la stessa acqua, una volta alla settimana; pasta e patate che si alternava con il brodo finto, concentrato di pomodoro allungato con acqua; vestiti rammendati, sempre uguali; sandali forati estate e inverno; un letto da condividere, con una barra di ferro al centro, che ancora oggi sento in mezzo alla schiena. Luciano ricordava tutto questo, con in più un padre che non aveva mai conosciuto, disgregato dalle rosate dei pallettoni prima che lui nascesse. Luigi, ultimo di dieci figli, con un padre sposato a tutte le bettole del paese, aveva trovato in noi la famiglia mai avuta. Questi erano ricordi comuni a quasi tutti i nostri coetanei, eppure non tutti erano diventati il frutto avvelenato e letale che noi eravamo: distruttori di vite, tranquilli e senza violenza ostentata, i più pericolosi.

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Fuori dai nostri affetti tutti erano nemici, e sacrificabili. Fra di noi eravamo affettuosi, premurosi, quasi dolci. Ci avessero creato, o fossimo geneticamente predisposti, la nostra violenza ha portato dolore, oltre noi stessi, in posti e a persone che da noi pensavano di essere al riparo. A diciannove anni avevamo rubato, rapinato, sequestrato e spezzato vite. In un mondo che rifiutavamo, perché non era il nostro, tutto quello che volevamo ce lo siamo preso. Il caffè borbottando finì di salire, lo versai nei bicchieri di carta e lo distribuii. Luciano era estasiato, quello per lui era il lato migliore della montagna, ogni volta che ci saliva si faceva delle grandi camminate per il solo gusto, una volta stanco, di stendersi contro un tronco, sorbirsi il caffè che gli facevo e, finalmente, accendersi la sua inseparabile sigaretta; cercava di ritardare quanto più poteva quel momento, per goderselo di più. E così, dopo una notte passata su un camion, una lunga camminata, si sentiva felice di vivere quella vita, con la sigaretta fumante in bocca. Gustammo il caffè, mangiammo la cioccolata, e quando Luciano con noncuranza tentò di accendersene un’altra, la terza, mio padre gliela levò di bocca e riprendemmo il cammino. Il porco camminava tranquillo, non aveva mai chiesto soste acqua o cibo, così arrivammo prima del previsto. Mio padre ci precedette accelerando il passo e facendoci trovare, al nostro arrivo, i piatti fumanti già pieni di ricotta e siero, con il pane biscottato accanto; ne mangiammo in abbondanza, e anche il porco dimostrò di apprezzare la specialità. Mio padre restò di guardia, e noi quattro, incappucciato compreso, ci stendemmo sulla stuoia di ginestra al calore della stufa a gas. Dopo qualche ora ci svegliò, l’altro non c’era più, l’aveva già portato nel suo ricovero. Nascondemmo armi e mimetiche, ci cambiammo, aiutai a mungere e salimmo in macchina per affrontare lo sterrato tutto curve e buche che ci avrebbe portato al paese. La mattina seguente, come sempre, prendemmo l’autobus delle 6 e 30 che ci portava in città ai banchi del liceo, dove ci ritrovammo, seduti, ad affrontare cinque ore di lezione. Tre studenti normali. Luigi, come in tutto nella vita, andava a rimorchio; io me la cavavo, inserendomi nella media; Luciano era il classico pozzo di scienza, non c’era argomento a lui sconosciuto o libro che non avesse letto. Tre bravi ragazzi, e non perché fingessimo, lo eravamo sempre stati, educati, mai prepotenti. Il nostro mondo, però, iniziava e finiva con noi tre: asilo, elementari, medie, superiori, sempre insieme, e così sarebbe stato anche in futuro, lo avevamo promesso. Ci avevano tenuto in disparte per mesi, per anni, i figli dei pastori che vanno al liceo? Alla fine ci avevano accolto anche gli altri compagni. I nostri pensieri erano diversi dai loro, figli del ceto impiegatizio o della media borghesia; la colazione, i biglietti, i libri, gli abiti, lo svago, lo studio ce li dovevamo pagare da soli. L’alternativa era finire nell’officina di un meccanico, nel negozio di un barbiere, dietro un maestro muratore o, al peggio, a pascolare greggi. Noi avevamo decisamente altre ambizioni.

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Tutti sapevano che in città c’era un vecchio armaiolo cui bastava portare i soldi. Iniziammo con piccoli furti, in abitazioni o negozietti, ed entrammo dal cavalier Attilio Fera, l’armaiolo, con settecentomila lire. Ne uscimmo con una mitica Colt Cobra calibro 38 Special e un’altrettanto famosa Beretta 7,65 mod. 70 con espulsore automatico del caricatore. E incominciò la caccia ai soldi. L’unica cosa in cui Luigi era incomparabilmente bravo era la guida; imparammo presto a far partire le macchine, ne avevamo sempre qualcuna da parte e così, almeno una volta al mese, a scuola c’erano tre banchi vuoti: uffici postali di periferia, piccole banche di paese, tesorerie comunali, oreficerie ci divennero estremamente familiari. Ci cambiavamo d’abito più spesso e vestivamo come o meglio degli altri, in casa la dieta migliorò ed ebbi un letto tutto mio. Quando diedi i soldi a casa la prima volta mia madre pianse un giorno intero come se fosse in lutto; mio padre abbassò la testa, non parlò per una settimana, e alla fine diventò porcaro. In quegli anni accanto ai sequestri famosi vi erano quelli meno noti, di piccoli possidenti, che duravano pochi giorni o un mese al massimo, e fruttavano cifre bassissime confrontate al loro rischio. Ma per chi non aveva nulla qualche milione era tanto, o tutto. Mio padre iniziò a frequentare qualche bar, la sera, cosa che non aveva mai fatto. Dopo un po’ di tempo qualche amico si vide per casa, all’ovile; parlavano un linguaggio tutto loro, antico, misterioso e incomprensibile, facevano nomi di persone abili, capaci, valenti. Entrò improvvisamente nella mia vita un mondo sconosciuto, fatto di bonarie carezze e baci bagnati, era un abbraccio mortale. Ci innamorammo di quelle persone, io e mio padre; Luciano no, non li sopportava. Ma alla fine, come sempre, mi seguiva in tutto. Per alcuni anni divennero presenze continue nella nostra vita e nel nostro ovile, grandi mangiate e grandi bevute divennero un’abitudine. Per tre o quattro volte ci portarono ostaggi da custodire, che mandavano a riprendere per la liberazione; poverini, avevano tante di quelle persone cui provvedere, povere vedove, compari detenuti, latitanti da assistere, che restava sempre poco da dividere. Così lasciavano qualche milione e promettevano che la prossima volta sarebbe andata meglio. Si ricominciava con le mangiate, ci si abbracciava e baciava, ci si giurava amicizia e assistenza eterna, si stringevano comparati; così tutto quello che entrava se ne andava in festeggiamenti, in doveri, perché ai compari bisognava far visita, ai continui matrimoni, cui si era invitati, bisognava presentarsi con buste rigonfie. Inoltre, avevano iniziato a soggiornare nell’ovile quelle che noi chiamavamo ombre, i ricercati, fuiùti, spariti, i latitanti; ne avevamo sempre qualcuno. In genere erano dei bravi e sprovveduti ragazzi che i compari avevano badato a cacciare in qualche guaio, poveri cristi che per uscire dal buio d’umide case chiuse, venivano in montagna a ossigenarsi il cervello.

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Vi resistevano poco, non sopportavano i disagi e la solitudine. Così, numerosi, finivano in carcere, presi dietro armadi di case di paese; altri riparavano in grandi città del nord o all’estero, e tanti venivano ritrovati in un fosso. Dei tanti fantasmi che passavano, i più si dimenticavano di noi pastori; con alcuni rimaneva un profondo rapporto d’affetto e, tra questi, i più fortunati mandavano sempre qualcosa. Il più assiduo era Stefano Bennaco, un giocoso ragazzone di trent’anni ritrovatosi con un ergastolo sulle spalle per un sequestro finito male. Trovò rifugio nei Paesi Baschi; anche lui amava la montagna e, tra gli ospiti di passaggio, era quello che aveva resistito di più. Tramite un suo cugino mandava qualsiasi cosa fosse utile nei boschi, zaini, tende, mimetiche, scarponi, canne da pesca, archi, lampade da campo, brandine. Avevamo costruito un piccolo capanno per contenere tutte quelle attrezzature. Le ombre, erano tali per due ordini di motivi: conti in sospeso con la legge o da regolare con altre persone; e in questo caso, quando il sangue era già scorso, le ombre diventavano anime nere o tingiùti, tinti col carbone, a seconda se si prevedeva che uscissero vincenti o fossero considerate sicure vittime. Di questo tipo d’ombre ne ricordo due in particolare, un tingiuto, Donato Porcino, e un’anima nera, Sante Motta. Povero Donato, il padre aveva rifiutato di dare in sposa la figlia a un malandrino, questi alle rimostranze del mancato suocero se l’era presa con la forza e lo aveva ucciso. Donato giurò vendetta, e si diede alla macchia. Sapendo che il padre aveva tenuto a battesimo mia madre, e trovando porte chiuse da amici e parenti stretti, si presentò, di notte, a casa nostra. Lo portammo in montagna e lo tenemmo per mesi all’insaputa di tutti, cercammo di convincerlo che era meglio allontanarsi dal paese per un po’ di tempo; l’avremmo mandato da un’ombra amica nostra, al Nord. Lui insistette che doveva andare dal compare suo di battesimo, in un paese vicino; questi era una persona di rispetto e l’avrebbe aiutato. Lo portammo attraverso i monti e quando fu in vista dell’ovile del compare ci abbracciò e ci ringraziò con sincerità. Cercai di convincerlo un’ultima volta, gli dissi che ci sarei andato io a sparare con lui, mi rispose che un amico non porta i guai agli amici. Non lo rividi più, grazie al compare suo. Sante era figlio illegittimo di un vecchio malandrino; questi, che aveva vissuto una vita da benestante, i figli nati dal matrimonio in Dio li aveva cresciuti nel cotone e mandati a scuola, a Sante mandava invece quello che per loro era di più. Così, quando i tempi cambiarono, e nuovi e più spietati padrini vennero a sostituire i pingui e impigriti uomini d’onore, quando don Santoro incontrò il piombo e il principe delle tenebre, i legittimi eredi vendettero tutto e andarono lontano, a godersi il frutto di trent’anni di camorra del vecchio. Il richiamo del sangue lo udì solo Sante, che a forza di fucilate si riprese il posto del padre e divenne l’unico figlio. Per anni aveva condotto una vita quasi eremitica, fidandosi di poche persone. Nel tempo della latitanza, oltre a seminar morte, aveva fatto parecchi soldi, era stato uno dei primi a scoprire i guadagni della droga. E solo quando, ritenendosi vincitore, abbassò le difese della sua perenne diffidenza, andò ad incontrare l’ingrato genitore.

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Mantenne comunque fede alla sua fama e si portò con sé due dei quattro sicari a pagamento che un nutrito gruppo di orfani dispersi aveva assoldato per finirlo. Ci lasciò parecchie cose in eredità Sante, buone e cattive: l’AK47 e la CZ75, il fucile mitragliatore russo e la pistola d’ordinanza dell’esercito cecoslovacco, armi ultramoderne per quei tempi e quelle terre che tutt’al più conoscevano le doppiette calibro 12 della Beretta o della Franchi; ci aprì gli occhi sui malandrini e ci sporcò l’anima insegnandoci ad uccidere. Sua madre, vedova di guerra di un pastore forestiero, viveva nel paese del defunto marito, in un posto che vedeva il mare opposto al nostro; aveva cinque figli con cinque diversi padri, era sorella maggiore di mio padre che mai le aveva perdonato quella condotta, determinata dalla miseria, e alla quale aveva tolto il saluto, inimicizia che portò con lui nella tomba. Per questo venne da noi Sante, eravamo il suo sangue. E mio padre, per via della sorella, non era, né poteva diventare, malandrino. I vecchi chiamavano i figli illegittimi muli, e dicevano che Dio li faceva fisicamente identici ai padri naturali per svelare al mondo il loro peccato; tali figli votavano la loro vita nella dimostrazione di essere migliori e più degni d’affetto della prole riconosciuta. E così era. Contrariamente a quanto si sapeva, Sante ci confidò che il padre se lo faceva portare spessissimo, e con lui era affettuoso e a lui, più che agli altri, aveva trasmesso ogni suo sapere. Egli aveva sempre messo in conto d’essere ucciso e a questo proposito gli disse «fai qualcosa solo se te la senti di farla, se decidi di fare... fai quello che sei in grado di compiere da solo e senza aiuti. Quando inizi a colpire devi farlo senza sosta, prima che capiscano da dove vengano i colpi; una volta iniziata, quella è una strada senza ritorno, perché prima o poi troverai un orfano sulla tua strada, salvo che tu non abbia il coraggio di svezzarli dal latte materno. Se cerchi rifugio và dalle persone che sono considerate di poco valore, si sentiranno nobilitati dalla tua scelta e non ti tradiranno mai; evita i malandrini, oggi questi rappresentano il cancro della nostra terra, nei loro discorsi li troverai saggi, onorati, leali, ma nella realtà sono, nei loro rappresentanti più importanti, quasi sempre cornuti, traditori, delatori e tragediatori». Mi spiegò cos’era un tragediatore nel concetto paterno: «quando un malandrino aveva un nemico, se questi non era ritenuto pericoloso gli si sparava una fucilata e non si faceva nulla per nasconderne l’autore. Se l’avversario era pericoloso bisognava, in ogni modo, eliminarlo, ma senza pagarne le conseguenze; si doveva, quindi, trovare qualcuno che lo facesse o che passasse per autore. Si aspettava, anche anni, che la vittima avesse qualche dissapore fresco e si colpiva immediatamente; i parenti accecati dal dolore scaricavano l’odio contro l’ultimo nemico, dimentichi dei vecchi rancori, si annientavano a vicenda per la gioia del tragediatore. Ove ciò non fosse stato possibile, s’iniziavano a lanciare esche in giro e quando si trovava il soggetto giusto si affondava il colpo; quindi qualche disgraziato, convinto di liberare il mondo da un infame, si ritrovava col fucile fumante in mano e ovviamente ne pagava, lui, le conseguenze».

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Sante, memore degli insegnamenti, quando il genitore morì dissimulò odio e dolore, non partecipò ai funerali del padre, che tanto era un mulo abbandonato, condusse la sua solita vita, per un po’, e con la scusa che là si faceva la fame, salutando tutti, assassini del padre compresi, se ne andò a cercar fortuna. Di lì a qualche anno tornò, armato di mitra, e in una sola giornata colpì quattro volte, una il giorno seguente, e una l’altro ancora. In un mese i dieci nemici diretti, da lui individuati, non c’erano più. Se ne tornò tranquillo e al sicuro al Nord, a fare soldi, e ogni due o tre mesi tornava giù a rinfrescare la memoria ai nemici potenziali. In una mattina di nebbia invernale, quando il suo nome in quelle contrade era famoso, e sia io sia mio padre eravamo esperti nelle rispettive attività, non per bisogno ma da vincitore ci si presentò davanti, all’ovile. Aveva il Kalashnikov a tracolla e la calibro 9 alla cinta, disse «Zio, dovrei restare per qualche giorno qui». Mio padre gli offrì la ricotta calda e gli preparò il letto. E non per paura. Ogni due o tre mesi lo vedevamo arrivare, metteva gli abiti da lavoro e lavorava tanto, se non più, di mio padre. Parlava poco, restava una settimana e ripartiva; appena sapevamo che era là, puntuali, io, Luciano e Luigi mollavamo scuola e rapine e ci trasferivamo in montagna, era il nostro Dio. Ci schiarì le idee, fece notare quanto la vita degli amici era migliorata, iniziavano a vedersi in giro macchine nuove, si costruivano i primi palazzotti, ma questi piangevano sempre miseria, i poveri pastori iniziavano ad assaggiare la terra dell’Asinara… L’amore per gli ‘amici’ allora svanì e lasciò il posto a un rancoroso odio. Sante, al nostro fianco, ci diede la forza di allontanarli. Piano piano mio padre se ne distaccò. Cercarono di blandirci con la loro mirabolante favella, ma a malincuore capirono che la festa era finita, mollarono il colpo e col male in corpo passarono ad altri ovili. Ma la loro puzza ormai era entrata nelle nostre case, nei nostri letti, nei nostri cuori; Sante ci promise che a suo tempo ci avrebbe fatto fare lui qualcosa di serio. Mio padre tornò alle capre e noi in città. Dovevamo essere più prudenti, gli amici ci tenevano d’occhio con maggior cura, avevamo imparato che guardarsi da loro era più importante che stare attenti ai tutori dell’ordine; loro vivevano di quel controllo, quasi fosse una funzione legalmente delegata. Ogni illecito, da altri commesso, e a loro noto, puntualmente trovava un colpevole. Ci raccomandavamo soprattutto con Luigi, leggero di natura. Per il resto il paese lo frequentavamo poco, tra scuola e altri impicci. In quel periodo avevamo fatto da poco visita a una graziosa orologeria e Luigi aveva per forza tenuto quello che a noi sembrava un orologetto semplice semplice, ci promise però di non portarlo al polso. Una sera sul tardi mi si presentò a casa che era ora di dormire; era tutto eccitato, aveva l’orologio al polso, mi disse che stava giocando a carte al bar… «eri al bar? Porti l’orologio?» «Ti spiegherò, adesso è troppo importante».

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Stava giocando a carte, per soddisfare un bisogno andò al gabinetto, all’uscita trovò, nell’attesa di orinare, il direttore della posta, ragioniere Turi D’Ascola, gran giocatore di carte, puttaniere e conoscitore d’uomini. Questi, imprecando contro la sfortuna al gioco, si lasciò sfuggire, nell’arrabbiatura e quasi non lo vedesse, che se non fosse stato l’onesto servitore dello Stato che era sarebbe andato a casa, a prendere le chiavi dell’ufficio, e a portar via quei cento milioni tenuti in cassaforte nell’attesa che fossero portati via il giorno appresso. Eravamo stati sempre attenti a non far nulla nel nostro paese, ma un’occasione così, in quei tempi e per tre diciottenni, era imperdibile. Ci ritrovammo dietro la siepe del giardino ad aspettare il rientro del direttore, che senza troppo resistere ci portò dentro casa a prender le chiavi. Senza parlare rimasero, a tener compagnia a moglie e figlia del ragioniere, Luigi e Luciano, in macchina con Turi D’Ascola ci andai io, in pochi minuti fui di ritorno con ragioniere e soldi, li chiudemmo in bagno e felici e increduli volammo via. La mattina, come sempre, andammo a scuola. Rimproverammo pesantemente Luigi per aver contravvenuto alle nostre raccomandazioni, ma eravamo troppo felici e orgogliosi di noi e, all’uscita, ce ne andammo al Valenciano a festeggiare. In città la verginità si perdeva in due posti, al rione Baracche o al Valenciano. Le baracche erano un agglomerato di tuguri dove esercitavano mature e sboccate mestieranti; in un groviglio di gatti e fogne a cielo aperto si diventava uomini con baldracche che, mentre lo facevi, discutevano animatamente con papponi e clienti assidui. Uscivi sempre col dubbio se quella cosa molliccia fosse la natura femminile o più probabilmente delle calze smagliate, che spesso si dimenticavano di togliere. Cinquemila lire, scolo compreso, e placavi la voglia al popolo. Il Valenciano era il mitico albergo dove i ricchi del posto facevano l’amore con esotiche e belle ragazze straniere, ventimila lire al colpo, un prezzo da signori. Ogni volta che le tasche erano piene ci presentavamo al portiere, abituato a vederci, e spesso ci concedevamo il bis, sembravano felici anche le donne di trovarsi tre bei ragazzi al posto delle ernie d’attempati viziosi. Dicemmo a Luigi di non cambiare abitudini per un po’ e di continuare ad andare al bar come faceva, scoprimmo, da mesi. A sera ritrovammo un paese in subbuglio, un colpo grosso, roba da professionisti, centinaia di milioni; i malandrini masticavano sale e imprecavano alla Madonna della Montagna. Il povero ragioniere D’Ascola per lo spavento di essersi trovato con sei pistole puntate alla testa, perché tre banditi erano entrati in casa e tre l’avevano trascinato a forza alle poste, era caduto malato, in stato di confusione e con febbri altissime, non si sapeva se addirittura, dopo il tremendo trauma, sarebbe riuscito a tornare al lavoro, lui ormai anziano e prossimo alla pensione. Sulla «Gazzetta del Sud», il corrispondente locale fece un ampio resoconto dell’accaduto. Era successo che la mattina precedente il fatto, il furgone addetto alla distribuzione dei soldi per il pagamento delle pensioni, quando il giro delle consegne era solo all’inizio, aveva avuto un guasto che non era stato possibile riparare

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immediatamente, perciò si era preferito lasciare in custodia della cassaforte dell’ufficio diretto da D’Ascola i soldi, rinviando le consegne al giorno seguente. Fonti investigative avanzavano dubbi, di spessore, circa la casualità del guasto, si pensava che infedeli dipendenti, a livello d’uffici centrali, avessero tramato con i banditi, e in combutta, obbligatoriamente, con la malavita locale. L’entità del colpo ammontava a centocinquanta milioni. Io ero sicuro di aver preso tutto quello che c’era in cassaforte, ma erano spariti cinquanta milioni, e il povero direttore per il trauma aveva visto sei persone. Capimmo presto, diabolica mente di Turi D’Ascola. 11 ragioniere non riprese il lavoro, si pensionò anticipatamente e con la buonuscita si comprò una vigna, alla quale si votò completamente; riprese ad andare al bar la sera, ma non giocò più a carte, che non riusciva più a concentrarsi, si accontentava di veder giocare gli altri. Incrociò di nuovo Luigi al gabinetto, lo guardò gioioso e gli chiese l’ora, Luigi rimase interdetto come a capire il senso di quella domanda, che il ragioniere per abitudine faceva roteare fra le dita l’orologio da taschino, d’argento, regalatogli dallo Stato, per i quarant’anni di servizio. Aprecederlo D’Ascola gli sussurrò, «ne deve aver fatto di risparmi tuo padre per comprarti il Rolex che porti al polso». Diavolo d’un ragioniere, s’era studiato Luigi per mesi, aveva visto come vestiva, quanto perdeva, e quando il Signore aveva fatto guastare il furgone delle consegne vide un segno e subito lo colse; si portò cinquanta milioni a casa, lanciò l’esca e ci attese davanti al giardino sicuro come il sorgere del sole che saremmo arrivati. E si assicurò una più serena vecchiaia. Gli amici si rosero il fegato per mesi e alla fine si arresero, autoconvincendosi che il tutto era opera di forestieri. Gabbati in casa loro da tre ragazzini e un vecchio marpione. Allargammo la casa, ebbi una camera da condividere col mio fratellino, le femmine piansero di gioia quando si trovarono a dormire in una camerona con cinque lindi lettini allineati, e un enorme armadio, nel quale mia madre iniziò a riporre il loro corredo. Questo in fondo chiedevamo, una vita da esseri umani e non da bestie. Il pianto delle ragazze divenne dirotto quando videro l’acqua fumante schizzare dal telefono della doccia e la mensolina piena di prodotti da toeletta profumati. Erano talmente contente che tutte e cinque, uniche e sole donne della mia vita, presero il fratellino e lo strigliarono come un maialino a Natale. La sera si coccolarono mio padre e fecero a gara a chi gli tagliava le unghie deformate da cinquant’anni di fatica. Lui mi guardò, un istante infinito, e si lasciò sbaciucchiare dalle femmine. Sarei potuto morire in quell’istante, ma ne ero certo, la mia vita aveva avuto un senso. Quel colpo divenne famoso in tutta la zona e per noi fu un punto di svolta. Fino ad allora eravamo dei poveracci che cercavano di sfuggire a una miseria pesante, che credevano di aver diritto a un futuro diverso, non eravamo attrezzati culturalmente a prevedere che il benessere minimo, di cui in quel momento avevamo bisogno, sarebbe in ogni modo arrivato, non riuscivamo a vedere o a capire che ci potevano essere altre

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vie. Non eravamo nella fase in cui nella mente un posto importante era occupato dagli scrupoli. Sarebbe bastato poco per fermarci. Da quel giorno, invece, si fece forte in noi la convinzione che saremmo stati in grado di costruire il nostro destino; cercavamo un po’ di soldi, ma da allora in poi volemmo la ricchezza vera. Saremmo arrivati a livelli impensabili, ma ci fosse stato un segno e vi avremmo rinunciato. I freni inibitori erano rotti, iniziava l’ultimo anno di liceo, i colpi, da mensili, divennero settimanali, l’ambiente iniziava a starci stretto. Avremmo raccolto più soldi possibile, ci saremmo iscritti all’università e trasferiti a Milano, ma ci saremmo andati comodi e non da pezzenti. Le domeniche le passavamo sempre in montagna, da mio padre, e da quando non venivano più i suoi amici era diventato un paradiso. Amavo mungere le capre, sentire la loro coda solleticare il viso, stavo diventando come lui, conoscevo i posti, camminavo all’infinito. Da quando la nostra vita non dipendeva più dal poco latte o dalla poca carne, i monti erano diventati bellissimi. Il paese aveva una notevolissima estensione di territorio, tutto montano. Le migrazioni avevano portato via la maggior parte dei pastori a diventare proletari in Germania, Svizzera, Belgio, Torino o Milano. Erano rimaste una ventina di famiglie d’allevatori, i pascoli erano quindi amplissimi e la montagna libera, non nel senso che non c’erano proprietari, ma perché era abbandonata. Ogni pastore sceglieva il suo pascolo in accordo con gli altri e questo diventava il suo regno; ai reali proprietari si portava in dono qualche bestia e un po’ di formaggio per le feste importanti. Il pascolo di mio padre andava da un’altezza di duemila metri fino a zero metri sul livello del mare, pur restando distantissimo da esso. Vi erano due ovili, quello estivo posto nella cima più alta e l’invernale nella conca più protetta ai piedi dei monti. Era composto di boschi di abeti, querceti, faggeti, peri selvatici, pinete, distese di ginestre, campi d’erica, lecci. Da quando le tasche erano piene guardavo quelle montagne con gioia e ne apprezzavo il lato ludico. D’estate, quando anche Sante restava di più, prendevamo zaini, tenda, sacchi a pelo, fucili e canne da pesca, ci caricavamo di cibarie e giravamo dappertutto. Era una festa, iniziavamo la mattina con la pesca, riempivamo i contenitori di plastica di grilli che usavamo da esca e ci piazzavamo ai bordi delle cascatelle, lanciando lunghissime lenze in fondo ai laghetti che si formavano ai piedi delle profonde falesie. Riempivamo ceste d’enormi trote fario e iridee. Finita la pesca ci tuffavamo nell’acqua freddissima, completamente nudi, ci rosolavamo al sole e sparavamo le nostre cavolate, le cose cattive non ci appartenevano. Luciano, come sempre, si occupava della cucina, preparava un sugo con trote sbriciolate e pomodoro, trote arrostite sulla brace e bruschette di pane biscottato con olio, pomodorini, aglio e peperoncino. Mangiavamo e bevevamo all’inverosimile, il caffè era la mia specialità. Dopo una sana dormita si cercavano i funghi che puntuali venivano su dopo ogni pioggia estiva. Li raccoglievamo con delicatezza riponendoli in

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ceste di vimini per far rilasciare le loro spore sul terreno e consentirne la riproduzione. I prelibatissimi ovuli che spuntavano come cachi maturi nelle pietraie montane, e le mazze di tamburo dal sapor di nocciola. All’imbrunire aspettavamo che lepri e cinghiali uscissero a pascolare, e quando la caccia era fruttuosa preparavamo enormi grigliate e a notte fonda andavamo abbracciati ad ululare ai lupi, che iniziavano la caccia alle capre selvatiche. In quei momenti sentivamo quanto avevamo bisogno l’uno dell’altro, ci volevamo bene e Luciano me ne fornì prova tutta la vita rimettendoci tutto, al mondo aveva solo me oltre la povera madre che presto lo avrebbe abbandonato. La notte si cacciavano i ghiri che venivano abbagliati sulle querce con grossi lumi a gas, si pulivano con la cenere e finivano nel ragù per gli spaghetti. Potevamo sopravvivere mesi nei boschi senza bisogno di nulla. Nel periodo in cui la calura diveniva insopportabile passavamo pomeriggi a dormire nell’astronave. C’era, ai piedi dei monti, un crocevia risultante dalla confluenza di due fiumiciattoli; proprio dove i torrenti si incontravano si ergeva un enorme sasso bianco, l’acqua nei secoli l’aveva scavato e modellato, la base era costituita da una lama di roccia che ognuno dei due fiumi limava dal proprio lato; sopra la lama, che fungeva da piedistallo, la roccia si allargava a formare un cubo che al centro era forato, l’interno sembrava una camera, di discreta grandezza, aperta da due lati, parallelamente alla corrente, dentro questo ambiente si ergeva a forma di tavolo una parte del masso; tale abbozzato catafalco era sormontato da una vaga figura di leone. Questo era il posto più fresco che esistesse, anche quando il sole era allo zenit, nel mese d’agosto. Dentro, dopo un po’, bisognava coprirsi; attraversava l’antro una corrente fresca incessante, come se vi fosse un instancabile ventilatore, perennemente acceso. Il letto nella roccia ci conteneva tutt’e tre, contemporaneamente, noi ci adagiavamo sopra e ristorati dal fresco guardavamo giù, dove il paesaggio si apriva, portandoci a vedere il mare in lontananza, sembrava di galleggiare nel cielo, tanto più quando alzandoci da quella posizione venivamo colpiti da un senso di vertigine. Era un posto d’indicibile fascino che ad occhi profani poteva sembrare una costruzione artificiale, ma chi conosceva la capacità architettonica dell’acqua sapeva benissimo che quello era un sasso scavato dal fiume. Il posto emanava magia e spesso si facevano degli incontri interessanti. C’era ogni tanto qualche erudito locale, convinto che la storia fosse passata da quei monti dove avevano albergato grandi civiltà, che riusciva a persuadere spedizioni di studiosi a venire a studiare la roccia; questi arrivavano pieni d’entusiasmo, lestamente perdevano l’interesse archeologico e si facevano prendere dalla bellezza selvatica della natura circostante, approfittavano dell’attivismo della guida locale, che dappertutto vedeva segni d’antichi fasti, e si facevano scarrozzare in giro per quella che era diventata una splendida vacanza a spese di qualche ente o università. Una di queste spedizioni ci sorprese tutt’e tre a dormire profondamente sul tavolaccio di pietra.

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La nostra tenda con tutto l’armamentario era ben mimetizzata in una forra vicina. La comitiva, di un’università romana, era molto simpatica, così ci aggregammo. Luciano dietro agli archeologi, desideroso di impinguare il suo già vasto tesoro di conoscenze, e Luigi e io appresso ad una matura e smaliziata geologa, che portavamo in giro a studiare la natura dei luoghi. In una settimana Luciano assorbì tutto il sapere romano, la geologa si rimpinzò abbondantemente con la natura indigena e così ci salutammo, tutti felici e appagati per la splendida vacanza. Deluso rimase solo lo scienziato locale, che si vide bocciate le mirabolanti scoperte. Sia io che mio padre avevamo esplorato ogni angolo di quelle contrade, e a parte qualche interessante reperto del secolo scorso che aveva a che fare con i vecchi briganti, o qualche armamentario della seconda guerra mondiale, di veramente antico non si era mai visto nulla. Del sapere acquisito Luciano non tardò a renderci edotti. Quando raccontava sembrava entrare in trance, era un affabulatore nato. Persino Luigi, attratto esclusivamente dalle cose materiali e pratiche, ne restava affascinato, e qualche volta elaborando a modo suo ne ripeteva i concetti. Iniziava sempre ponendo delle domande cui rispondeva da solo, «tuo padre cosa ricava dal latte di capra? Il cacio e la ricotta, in altre parole lo stesso prodotto dei pastori primordiali. I nostri contadini quanti vini vinificano? Un solo rosso che ti manda a letto in un sorso. I nostri artigiani con l’erica cosa ci fanno? Legano i ciuffi per pulire i tegami e con la radice ci fanno tozzi cucchiai». Proseguiva con esempi all’infinito, quanti tipi di funghi o piante mangiamo, i possibili utilizzi di questo o quello. Concludeva, «siamo agli albori della storia, siamo nel buco del culo del mondo e crediamo di esserne al centro, da qua non è passato mai nessuno se non qualche coglione che si era smarrito». Come aveva spiegato anche a me l’indimenticata geologa romana, tutti quei monti avevano formato, nell’antichità, un vasto e fertile altopiano, abitato da popolazioni autoctone d’osci, con tenui contaminazioni greche. Grandi catastrofi naturali di cui alcune documentate, come il terribile terremoto del 365 avanti Cristo che distrusse intere città del Mediterraneo ed ebbe epicentro proprio lì, lo avevano frammentato portandolo allo stato attuale. Seguirono alluvioni, epidemie, altri sismi nel 1683, 1703, 1908. Uniche presenze certe, e storicamente documentate, erano quelle dei monaci basiliani, antichi missionari di Cristo che insegnarono un po’ d’agricoltura e vangelo alle rudi popolazioni pagane. Dall’etimologia dei nomi, dei luoghi e delle persone, noi eravamo, al massimo, la progenie di bellicosi e incivilizzabili pastori osci. Sul finire dell’estate ricomparve Sante, aveva bisogno di fucili e andammo a procurarceli nel solito modo.

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Periodicamente la montagna si riempiva d’orde di barbari distruttori, da agosto a novembre arrivavano i cercatori di funghi, prima per gli ovuli poi per i porcini neri delle querce, quelli bianchi dei pini, quelli gialli dei lecci. Arrivavano in furgoni cassonati, carichi all’inverosimile d’uomini e donne, riempivano sacchi di plastica che svuotavano nei cassoni, a fine raccolta si rimpinzavano con le cibarie che si erano portate, e ripartivano alla volta dei mercatini dove avrebbero monetizzato la preziosa merce. Si lasciavano dietro ogni sorta di rifiuto, buste di plastica, bottiglie vuote, cartacce. Da aprile a luglio arrivavano i pescatori, che quasi mai si portavano dietro le canne da pesca ma sacchi di tasso, pastiglie di cianuro, bombe confezionate artigianalmente, gruppi elettrogeni. Con il tasso, che essiccato e tagliato a sottili lamelle diventava un tossico mortale, e il cianuro, avvelenavano i torrenti. Prendevano le trote più grosse lasciando che le altre, pancia in aria, arrivassero al mare. Piazzavano le bombe negli specchi d’acqua più profondi, provocando frane; piazzavano gli elettrodi nelle pozzanghere più piccole, che immediatamente portavano a galla ogni forma di vita lì contenuta. Da settembre a gennaio si presentavano baldanzosi i cacciatori, con cartucciere colme che scaricavano nei boschi, sparando a qualsiasi cosa si muovesse, a volte agli stessi colleghi, capre, mucche, maiali compresi e via a strombazzare giù in città a vantarsi dell’eccezionale bottino. Tutto questo circo di personaggi, con la presenza non rara di tutori dell’ordine e politici, oltre a vilipendere pesantemente la natura andava a infilarsi e perdersi nei posti più impensati, con sommo fastidio di chi in montagna vi latitava. La punizione che normalmente infliggevamo a funghisti e pescatori era quella di fargli portare a piedi per chilometri le loro prede, facendogli trovare le macchine adagiate sopra quattro ceppi di pino. I cacciatori scendevano a valle alleggeriti di fucili cartucce e portafogli. Ripetemmo il trattamento quando Sante ci fece quella richiesta, ma esagerammo, visitando una dozzina di comitive e portando via, a dorso d’asino, una ventina di fucili. Era troppo. La mattina ci mettemmo io e mio padre, gli altri al sicuro nel folto del bosco, a cagliare il formaggio aspettando l’arrivo degli uomini dello Stato, che si presentarono puntuali ma non con la faccia ironica del maresciallo Palamita, assiduo frequentatore di stazzi, apparvero le facce dure di due picciotti di don Peppino Zacco. Si rivolsero con arroganza all’indirizzo di mio padre. Don Peppino gli mandava a dire che non è che eravamo i padroni della montagna, e tra i cacciatori c’erano persone importanti, bisognava far ritrovare agli sbirri i fucili e in fretta... «Che non offri la ricotta a questi amici zio?» fece alle nostre spalle Sante. Si sedettero pallidi e mangiarono in silenzio. «Dite al mio compare Peppino che mi è nato un figlio e gli ho dato il nome del suo compare buonanima, che domani lo festeggiamo qua da mio zio, se ci vuole onorare ammazzeremo il castrato». L’indomani ammazzammo il castrato, lo mettemmo a bollire e attendemmo l’arrivo di don Peppino. Al suo posto arrivò un picciotto, poco più di un ragazzino, il suo compare

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si scusava ma gli sbirri gli avevano notificato la sorveglianza e per un paio d’anni dal paese non si poteva spostare. Mandava a dire che bene avevamo fatto a disarmare quei ficcanaso, che andavano in giro senza chiedere il permesso. Inoltre, inviava una collanina con due corni d’oro per proteggere il bambino dalla malasorte. Sante mandò i ringraziamenti e insieme un sacco contenente le corna del castrato, che al mio compare, disse, il malocchio lo perseguita. Andato via il ragazzo comparve il maresciallo, si sedette a tavola e si autoinvitò, gustò il pranzo e conversò con mio padre. Anche il suo, di genitore, era capraio nell’Agrigentino. Stette tutto il tempo con un’espressione di beatitudine; invitammo anche il suo autista a mangiare, «no – disse il sottufficiale – quello è Veneto e per loro la capra puzza di selvatico». Palamita rappresentava il volto bonario dello Stato, difficilmente andava fuori delle righe, era prodigo di buoni consigli, un bravo padre di famiglia che una carognata non la faceva, ma guai a scambiare gli ammiccamenti per connivenza che ridiventava carabiniere. «Chi carabineri mangia e mbivi ma non ci dormiri», dicevano i vecchi. Ci salutò con sincerità, e da lontano si rivolse a Sante, «auguri per il bambino». Montò sopra la campagnola e sparì. «È il secondo rospo che devono ingoiare», fece mio padre preoccupato. Ci tennero, Sante e Luciano, una lezione sociologica memorabile, basata per uno sugli insegnamenti del padre e l’esperienza sul campo, e per l’altro sullo studio di libri, giornali, conoscenza diretta di certi personaggi. Le loro teorie erano perfettamente coincidenti e l’una integrava e avvalorava l’altra. Grosso modo questo era il loro tenore. Di malandrini veri ve ne erano uno o due per ogni paese. Questi, all’inizio perfettamente sconosciuti, erano portati all’attenzione e al timore delle piccole comunità dal fatto d’essere oggetto di continui controlli da parte delle Autorità preposte. Erano spesso protagonisti nei resoconti dei cronisti locali che li indicavano quali possibili autori di terribili delitti, si vedevano passare per le vie del paese, con il libretto dei sorvegliati speciali di Pubblica Sicurezza, per andare ad apporre la firma nel registro dei vigilati. Li si arrestava ma per pochi giorni o mesi, erano inviati al soggiorno obbligato per qualche tempo, ed ecco che all’improvviso si ritrovavano a godere del timore e della considerazione di tutti. Cooptavano torme di giovani, avendo cura di sceglierli tra i meno avveduti. Se si analizzava la vicenda personale dei malandrini più famosi si vedeva che avevano governato, nei loro piccoli territori, per decenni. Avevano goduto vita agiata, fatto uno o due anni di latitanza nei letti delle mogli e delle figlie d’ingenui affiliati, avevano trascorso uno o due anni nelle patrie galere accuditi e venerati da giovani reclute che, traditi da infami e delatori, dentro vi passavano decenni e a bocca chiusa, fedeli a un giuramento di sangue prestato con convinzione. E alla fine, dopo aver trascorso la migliore delle vite possibili per quegli ambienti e quelle persone, quando stavano per diventare vecchi arnesi inidonei al ruolo e alla funzione, consenzienti uscivano dalla scena. Col botto, o finiti dal piombo del loro successore, o finalmente condannati da una Giustizia che instancabile perseguita i malfattori, mandandoli a trascorrere il loro crepuscolo in galera.

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Il successore poche volte era un figlio, ché i figli cresciuti nella bambagia erano più avvezzi a diventare tranquilli e rispettati professionisti. I proseliti erano scelti negli ambienti più emarginati, fra persone che più avevano spirito di rivalsa e necessità di considerazione. Una volta in circolo il sangue del rituale essi subivano una trasfigurazione, anche fisica, non poche volte oggetto d’irriverenti derisioni per opera di smaliziate teste calde, che portava acerbi picciotti a diventare, nei discorsi e nei modi, saggi sessantenni. Si votavano al servizio assoluto del loro capo che esperto di vita assecondava inclinazione e capacità di ciascuno. I veri malandrini erano spietati, e sebbene si ammantassero di sacri e antichi principi, completamente amorali, falsamente bonari, l’anima, che avevano venduto al diavolo o a chi per esso, se la facevano pagare a caro prezzo. Ogni loro simile rappresentava un’occasione da cogliere e sfruttare. Fra i proseliti, i per niente avveduti ci rimettevano vita o libertà, i meno avveduti si ritiravano in buon ordine, i più avveduti cambiavano vita e aria. Consci d’avere comunque un esercito di cartone i vecchi volponi erano spietati quando a ribellarsi erano singoli scapestrati, abbozzavano quando il numero e la consistenza dei cani sciolti era considerevole, e armavano nell’ombra la tragedia della quale portavano il disegno genetico. Per stare tranquilli dovevano sapere tutto. Ogni fatto un colpevole, non necessariamente un responsabile, questa era la regola. Conclusione, finché saremmo stati uniti, forti e prudenti, eravamo intoccabili. Ma un momento di debolezza vera o apparente ci avrebbe distrutti. Dopo questa lezione gli concessi il bis del mio famoso caffè, mio padre governò l’ovile e noi a nascondere le armi. Un ovile si governava secondo regole antiche ed era strutturato in modo spartano. Vi era una casupola, una porcilaia e un recinto. La casa era una bassa costruzione in pietre, ricoperta con piccole tegole romane. Si apriva all’interno un unico ambiente nel quale si cucinava, si mangiava e si dormiva. L’altezza non superava il metro e sessanta, e qualche secolo prima avrebbe potuto contenere persone in stato eretto, o quasi, posto che i pastori ancora adesso erano legni storti. L’unico ambiente aveva in un angolo il focolare, lo spazio di terra era delimitato da due pali forcati infissi nel terreno sopra i quali si sistemava il pentolone, caccamo, del latte. Sul pavimento di terra viva si poggiava una lettiera di ginestra, alle travi di sostegno si appendevano mestoli, rompilatte, asse forato, cestelli di giunco e tutti gli attrezzi del pastore. La casa era circondata da uno steccato perché non vi entrassero le bestie. La porcilaia si costruiva a ridosso di una pendenza, con travi che si infilavano da un lato nella terra e restavano orizzontali, sostenuti sul davanti da pali forcati. I tre lati fuori terra erano chiusi da muretti a secco e una porta centrale chiudeva il tutto. Sopra, a ricoprire il tetto, si scaricava l’humus del sottobosco che pressato diventava pressoché impermeabile.

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Davanti alla porta si poneva un trogolo che ogni mattina era riempito con siero di latte e pane raffermo. La dieta era arricchita con ghiande e castagne poco prima della macellazione, una volta al giorno il porco usciva a mangiare e saziatosi rientrava. Formava il recinto un susseguirsi di steccati legati a pali interrati a metà, al suo interno nella parte superiore si costruiva un riparo con lo stesso metodo utilizzato per la porcilaia. I pastori non costruivano mai vicino a una fontana, la necessità d’acqua era molto limitata, le bestie si abbeveravano al pascolo e il custode con loro. Il capraio non si lavava mai, per le stoviglie era sufficiente il siero strofinato al loro interno con ciuffi d’erica d’inverno e mazzi di felce d’estate. I caprai odiavano comodità e modernità, vivevano all’alba del mondo infischiandosene di Galileo, Leonardo, Marconi, dei Savoia e Borbone insieme con in mezzo il Duce. Riuscimmo a intervenire solo sulla casetta, al porcile e soprattutto al recinto mio padre non ci fece avvicinare. Com’era prima la casa non ci permetteva di stare in piedi, la notte dovevi decidere se stare dentro insieme a pulci e zecche a suicidarti col fumo, o contare le stelle fino all’alba con le capre, ed era un continuo dentro e fuori a sopportare ora una ora l’altra pena. Il cambiamento fu radicale. Dividemmo in due l’ambiente, alzammo i muri adattandoli all’homo erectus, ricoprimmo l’angolo notte con assi di castagno e vi sistemammo brandine e materassi, aprimmo nel muro una nicchia che sembrava formare una gobba portando quasi all’esterno il focolare, vi piazzammo dentro i sostegni del pentolone, costruimmo un casotto per gli attrezzi e con un tubo di gomma di settecento metri arrivò anche l’acqua. Portammo quel posto quasi al medioevo. Mio padre, contento come non mai, «ho speso bene i miei soldi mandandoti a scuola». Per nascondere le armi prendemmo l’asino, e a notevole distanza dallo stazzo, iniziammo a imboscarle. Prendemmo a riferimento una chiusa in filo spinato e partendo dal basso risalimmo un costone scavando buche oblunghe, cento passi l’una dall’altra. All’interno di ogni buca riponemmo un tubo di plastica, contenente un paio di fucili e il relativo munizionamento. Le armi, cosparse di grasso militare, le avevamo inserite in camere d’aria strettamente legate da entrambi i lati, e così confezionate le avevamo collocate dentro i tubi, di quelli che si usano per gli scarichi nelle costruzioni. Prima del sotterramento provvedemmo a sigillare i contenitori con cappucci di gomma cosparsi di colla idraulica. Questo sistema poteva garantire una conservazione perfetta per anni. Malandrini e pastori nascondevano i loro pezzi avvolgendoli in stoffe all’interno di un infinito numero di sacchi di plastica che infilavano in cavi d’alberi o dentro muri a secco, trovando poi puntualmente il panno bagnato e le armi arrugginite, e non rendendosi conto che l’effetto era prodotto dalla poca aria imprigionata all’interno delle confezioni che subito si condensava nel tessuto e bagnava le armi. Per chi le armi non le portava solo per peso era essenziale che fossero perfettamente efficienti, «che al momento buono non è che si può dire scusate ripasso» ammoniva sempre Sante.

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Finimmo il lavoro all’imbrunire e solo in quel momento ci rendemmo conto che come al solito Luciano non aveva mosso un dito, il lavoro fisico lo scansava, era più forte di lui. Luciano era famoso in paese per il suo lavoro alla Forestale. Tutte le estati questo ente dava la possibilità agli studenti di lavorare in montagna a far opera di bonifica, due mesi per settecentomila lire. La madre di Luciano, preoccupata dall’apatia del figlio, e per separarlo dall’immanenza dei libri, a sua insaputa lo fece assumere. Il figlio, per non darle un dispiacere, ci andò. Il lavoro era duro allora, otto ore sotto il sole e centoquaranta chilometri tra andata e ritorno. Sfortunato, si trovò nella squadra che costruiva muri a secco per fermare le frane e col sorvegliante più temuto del cantiere, Tagliavento, che di nome faceva Leo Spanna. Leo Spanna, una specie d’aguzzino delle SS, era alto un metro e cinquanta, e per compensare la bassezza indossava un paio d’alti anfibi, gonfiava il petto e camminava sulle punte. Per tutti era Tagliavento, si dava aria di gran malandrino, che nel suo caso al massimo poteva essere un mezzo malandrino. In realtà non lo era neanche a metà, tiranneggiava tutti e li teneva alla frusta e il potere della penna lo utilizzava per ridurti le ore di lavoro, che non ti faceva fermare neanche per un bisogno. Luciano, come tutti i novellini, era stato adibito a mulo. Con una cesta sulle spalle doveva portare giù ai mastri muratori le pietre per la costruzione del muro. Si scendeva carichi, si risaliva, e di nuovo giù per tutto il giorno. Al terzo giro di giostra pensò bene che era più facile farle rotolare, le pietre, che portarle a spalla. E così fece. A valle vi fu un fuggi fuggi generale e lesto intervenne Tagliavento che, sentita la spiegazione, iniziò a convincersi che il ragazzo aveva il tocco. Si mosse a pietà e lo spostò a un incarico meno gravoso. Così, Luciano, partì con due grosse cuccume da riempire d’acqua per dissetare i forzati al sole. Dopo un certo tempo che le gole erano arse e il petto di Tagliavento soffiava indicibili minacce, comparve l’acquaiolo con in mano solo le maniche delle cuccume. Per Leo Spanna fu la riprova, lo scirocco era nella mente dello studente. Per evitare scompigli Tagliavento, divenuto inaspettatamente tenero, che degli scemi lui era un difensore, portò il poveretto in un boschetto di giovani pini messi a dimora da qualche anno, prese una piccola ascia, e a gesti e con esempi spiegò che bisognava, semplicemente, potare l’albero dai rami più bassi per farlo crescere più in fretta. Se ne andò sollevato e col cuore stretto, il sorvegliante, lasciando il suo protetto a sollevare i pini. Alla fine della giornata, fischiettando, Tagliavento passò a controllare il lavoro. Le urla erano così forti che si temette il peggio, quale terribile disgrazia, accorsero tutti i braccianti e i sorveglianti delle vicinanze e trovarono Luciano a ridere a più non posso in mezzo a un’ecatombe di pini, che tutti li aveva falciati, e Tagliavento che tutti li aveva oltraggiati i santi del calendario. Raccontò dopo Luciano, che se l’era vista brutta, che Tagliavento sulle prime non aveva compreso la burla e gli si era fatto vicino per rincuorarlo, al che lui non aveva più potuto trattenere il riso. Il presunto malandrino, allora, mangiata la foglia divenne una

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belva, e a salvare Luciano fu l’ascia che aveva in mano e l’intervento di due veri malandrini nascosti nella boscaglia che si erano goduti la scena. Per mesi i sorveglianti suoi colleghi, ché i braccianti non ne avevano il coraggio, davano voce da lontano a Spanna «che avete da mandare che mi serve un buon potatore?» Finito l’interramento delle armi lo scorgemmo dunque immerso in un tappeto di verdi felci, radioso, «speriamo duri», disse. Contemporaneamente tre paia di mani corsero agli inguini sudati a fare scongiuri, che a volte era un po’ iettatore, quel grillo parlante di Luciano. Erano, Luciano e Sante, due buoni per natura, di quelli che attraversano la vita fino in fondo solo dietro lo stimolo di una missione da compiere, altrimenti soccombono sotto una bottiglia, un ago o un treno. Spiriti sensibili e menti fulminanti, avevano trovato la causa giusta che metteva a tacere una scalpitante coscienza, l’uno nella doverosa vendetta del padre e l’altro nel progresso economico mio e della mia famiglia. Un destino che li avrebbe persi entrambi, di questo Sante aveva iniziato a prenderne coscienza. Luciano totalmente perso nella ricerca del mio bene, e tutti e due vittime e non carnefici di quello che facevano, come tutti gli idealisti, immersi nella merda da loro stessi prodotta eppure candidi e immacolati gigli. Anime buone, menti superiori che a causa di una fragilità congenita corsero dietro a cattivi maestri. Sante dietro suo padre e Luciano appresso a me. Avrebbero percorso strade infernali, ma l’affetto che essi, figli orbati, cercavano, non gli mancò mai. I buoni naturali, quando sono certi di essere nel giusto, diventano treni lanciati, inarrestabili. Luigi era un cinico naturale, cresciuto come il più piccolo dei porcellini di una nidiata numerosa, pronto a lottare da subito per raggiungere il trogolo prima degli altri. La sua vita era una corsa al siero, animato da una fame inestinguibile noi eravamo il suo inconsapevole cavallo di Troia. Nel suo modo di voler bene noi eravamo al primo posto negli affetti, più della madre che lo aveva generato, ma il suo boccone non lo avrebbe ceduto neanche a noi. Guai a sciogliergli la briglia a cui lo tenevamo stretto. Ci portò con sé Sante e andammo contenti. Superammo l’ultima soglia della pietà umana interrompendo il gioco di un’animata partita a briscola. Lasciammo due picciotti a terra e da lontano udimmo lo strazio di madri e sorelle accompagnarci su una strada ormai senza ritorno. Dopo non si videro più fantasmi. Non ci si svegliò urlanti di notte. Si passò felici e contenti in un’altra dimensione, un gradino sopra gli altri. Ripetei l’esperienza dopo qualche mese, da solo. Sante, che il figlio non lo aveva avuto da poco, mi invitò a festeggiarne il compimento dei diciotto anni a dicembre. Mi ritrovai alla stazione centrale di Milano, presi il tram numero trenta e scesi a porta Ticinese. Luigi diceva che a Milano la gente si spostava sui tramba, piccoli treni che camminavano su rotaie, era già deciso che l’anno successivo saremmo andati a vivere lì. Trovai Sante in una casa sui Navigli, era preso dai preparativi della festa. La moglie era una bionda milanese, faceva l’assistente sociale per il Comune. Il figlio, specchio fedele della madre, parlava solo italiano con una curiosa erre moscia. Mi fecero sentire in famiglia, mi portarono in giro a fare acquisti, Standa, Rinascente, da

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Peck a prendere la carne di capra. Tornai a casa con le vertigini e carico di regali che il festeggiato sembravo io. Era una famiglia felice, ne ero contento. Mangiai assieme a tutti i suoi amici e alla ragazzina del piccolo Santoro Motta. Cercavano di mettermi tutti a mio agio. Gli amici di Sante erano dei simpatici e convinti sinistroidi, iniziarono a parlare di massimi sistemi, problemi universali, politica. Uno di loro concluse dileggiando la nostra civiltà consumistica che buttava nel pattume quanto bastava a salvare migliaia di vite umane. Mi guardò per tirarmi nel discorso, l’avrei fatto volentieri se avessi saputo che il loro pattume corrispondeva alla nostra immondizia. Annuii e abbassai gli occhi, com’eravamo lontani dal nostro mondo. Il giorno dopo uscimmo da soli e ritornammo i montanari che eravamo sempre stati, riparlammo il dialetto e tornammo alla nostra merda. C’erano ogni tanto dei momenti duri nella mia vita, e allora mi fermavo a guardare le persone più umili che incontravo e desideravo con tutto me stesso avere i loro pensieri, piccoli problemi, la loro vita. Erano momenti, e subito risalivo sul mio treno. Che ad ammazzare il padre di Luciano fosse stato Antonio Sbarra, alias Totò Serretto per l’abitudine di portarsi dietro il coltello, in paese lo sapevano tutti. Il perché restava un mistero. Il padre di Luciano, convinto socialista, già segretario della locale sezione del P.S.I.U.P., era riuscito a farsi assumere con l’aiuto del partito quale messo comunale in un paese vicino. Libero dal lavoro e fresco sposo si dedicava, la domenica, a un piccolo podere avuto in dote dalla moglie. Lo trovò la stessa moglie, nella tarda sera di un caldo agosto, a pancia e occhi al cielo che già mosche e corvi ne avevano fatto banchetto. I sicari si erano particolarmente accaniti con le parti basse del pover’uomo, tanto che sempre restò il sospetto che fosse stata storia di corna. Non vedendolo rientrare la donna gli andò incontro avviandosi sulla strada comunale che portava al podere. Era per terra a bagnarsi nel suo stesso sangue già dal mattino. La futura madre aveva notato sguardi pietosi accompagnarla per tutto il giorno, ma del fatto si dissero tutti all’oscuro. La Benemerita, delicatamente, si presentò a lutto aperto a perquisire la casa della prossima puerpera, e a comunicarle che aveva diritto a nominare un medico legale per l’imminente autopsia. Dopo di che Stato e gendarmi sparirono lasciando la vedova ad aspettare, in castità, il ricongiungimento col marito. Qualche tempo dopo il fatto Totò si trasferì a Torino dove, si diceva, avesse fatto i soldi fungendo da basista di numerosi sequestri. Su mia segreta richiesta Sante lo rintracciò. Totò aveva un bel bar nella zona di Porta Palazzo. Ci passammo davanti. All’ora di chiusura i dipendenti salutarono, e in fretta si sottrassero al freddo salendo sopra carichi bus. Un uomo tarchiato, di mezza età, chiuse la serranda, tranquillo. Emanava soddisfazione. Accese una sigaretta e si incamminò. Viveva in una bella casa nelle vicinanze, i figli frequentavano l’università con profitto. Alla moglie, tranquilla donna del Sud, chiedeva piatto in tavola, obbedienza e panni puliti. E questa, mansueta, corrispondeva alle giuste attese dello sposo.

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I sollazzi li pretendeva dalla torinese che manteneva in un elegante appartamento di Corso Francia, un letto caldo l’attendeva sempre, dopo mangiato. Andava beato, ne aveva fatta di strada, e chi ci pensava più a quel meschino di messo comunale? Camminavo lento davanti a lui. Mi superò fischiettando. Si fermò di botto, che i malacarne tra loro si fiutano. Si girò che aveva il coltello in mano e capì che non gli sarebbe servito. Tranquillo mi disse «Me l’avevano detto che eri cresciuto Luciano». Non ebbe paura e morì vedendo arrivare la palla della 357 Magnum in mezzo agli occhi. Gli altri quattro proiettili gli devastarono l’inguine. «Non sono Luciano, ma è lo stesso», mi risposi lasciando un figlio dell’Aspromonte ad imbrattare il marciapiede dei Savoia. Lessi il rimpianto nei suoi occhi, «Adesso, dopo tanta fatica, ora che non sono più un pezzente». Si raffreddarono piatto e letto, che Totò avrebbe fatto tardi quella sera. «Il lavoro dei sequestri sta per finire, lo Stato non può sopportare che i suoi più ricchi contribuenti vengano nei nostri monti a ingrassare malandrini e pastori. Ai figli dell’Aspromonte sta mostrando nuove e più facili vie. Fra un po’ i figli dei pastori saranno tutti qua a vendere bustine. I loro padri hanno annichilito un’intera generazione di pionieri economici che aveva determinato il mutamento nel paese inurbando torme di contadini, immettendo benessere e modernità, e lasciando intravedere un futuro diverso. Il frutto del loro lavoro stava rendendo più liberi ex zappatori e novelli proletari. Quegli imprenditori però si sono sopravvalutati e i loro presunti beneficiari, ben più determinati, li hanno costretti sotto il loro giogo. I padri hanno fermato i padri. Con i soldi dei secondi i figli dei primi stanno bruciando il futuro dei figli dei secondi, e anche il loro», diceva Sante mentre mi mostrava il lavoro che ultimamente stava facendo. Aveva contato sei milioni sopra il tavolo della cucina, li infilò in un sacchetto di carta e uscimmo. Al bancone di un bar prendemmo un caffè, una vera ciofeca rispetto a quello che facevo io. Aspettò il suo turno e si sedette a un tavolo con un siciliano, lasciò il sacchetto e uscimmo con un’altra busta. Prendemmo il tram ed entrammo in un altro bar. Si sedette, io presi un altro caffè e uscimmo con un nuovo contenitore. Sul tavolo della cucina contò nove milioni, queste erano le rapine alla milanese che i calabresi si accingevano a monopolizzare, «Che gli slavi e i negri gli portano le donne a sollazzare i milanesi, noi prima ce li portavamo in montagna e adesso, con i turchi, gli diamo lo zucchero marrone» sentenziò. Mi portò fuori Milano, verso le risaie pavesi, mi sentivo perso. Come potevano vivere in quel piattume sterminato, come si orientavano? Nemmeno una gobba c’era sul terreno ad ancorare la vista, non un punto di riferimento, si viaggiava per ore fra campi coperti di brina, interrotti da file di pioppi che si riproponevano uguali. Quali strani esseri popolavano quei posti? Con tutta la terra che avevano ci potevano allevare milioni di bestie, non capre che sarebbero fuggite immediatamente in cerca di alture, ma stupide e produttive pecore, senza devastare il paesaggio con fumose fabbriche, meta di tanti compaesani.

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Mi tornavano in mente i racconti dei vecchi, che dopo Garibaldi chiamavano Piemontesi tutti i settentrionali. I loro avi giuravano di aver visto i Piemontesi, che erano giganti, giocare passandosi l’un l’altro la pietra del mulino del paese, una macina da mezza tonnellata, e insegnavano ancora oggi ai nipoti le canzonette borboniche che dileggiavano Garibaldi descrivendolo come un mercenario truffatore. Passammo per la Certosa di Pavia, Zeccone, Stradella, San Martino, Siziano, Bascapè, Vellezzo Bellini. Avrei imparato, un giorno, ad amare quelle pianure, capaci di dare una dolcezza triste nelle giornate di nebbia come nessun altro posto al mondo. Facemmo i sopralluoghi necessari e ripartimmo in macchina. Conobbi per la prima volta il paese che dicevano fosse anche mio. Entrai a casa carico di regali, le mie cinque reginette non mi saltarono addosso, come solitamente facevano alla vista di pacchetti che obbligatoriamente erano destinati a loro. Vi erano stati in paese due funerali nella stessa settimana Totò Serretto era tornato, dopo tanti anni, in una lussuosa cassa di noce e accompagnato dai suoi compari, sopra un lucido carro funebre finendo in una bella cappella rivestita di marmo bianco a dimostrazione che aveva fatto davvero fortuna. E la madre di Luciano, portata a spalla da quasi tutti i compaesani, che aveva trovato posto nella nuda terra, accanto al marito. Povera donna, stretta da quasi vent’anni nel nero lutto vedovile, negli ultimi giorni sembrava rifiorita, aveva smesso i lugubri abiti e, rivestita dei giovanili indumenti, pareva una verginella prossima alle nozze. E invece serena morì. Il lutto, secondo tradizione, seguitava per otto giorni dopo il funerale, per permettere a tutti di dimostrare la partecipazione al dolore e alleviare le sofferenze di chi restava, tenendogli compagnia. Così le case, con la pezza nera appesa alla porta, diventavano luogo d’incontro dei paesani, e come sovente accade la tragedia si trasformava in farsa. Il lutto diventava una festa. Per tutti gli otto giorni, chiunque fosse il morto, ogni televisore o apparecchio radio esistente veniva tenuto spento, i parenti stretti se ne privavano fino alla conclusione del primo anniversario. Si doveva portare da mangiare e rifocillare gli addolorati, ed era una gara a chi portava di più e di meglio. Vi era un andirivieni di spaselle con latte, caffè e pasterelle d’ogni tipo, che anche chi veniva a fare visita, ed elencare la bontà del morto, doveva essere confortato. Si passavano intere giornate a raccontare e sentire storie e storielle, che chi voleva essere informato sugli avvenimenti degli ultimi cinquant’anni quello era il luogo adatto, e vi erano più risa che lacrime. Un lontano forestiero avrebbe creduto di trovarsi a un matrimonio più che a una ricorrenza funebre. Dopo tre giorni di baccanali, non potendone più, Luciano chiuse fuori gli estimatori della madre, che mai avrebbe creduto essere così numerosi, e rimase solo a piangerla e solo al mondo. Per le vacanze di Natale scesero in paese Sante e Anna con una coppia di amici milanesi per ospiti. Presero posto nella vuota casa di Luciano.

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Il giorno di Natale lo trascorremmo come da tradizione in montagna per la macellazione del maiale. Una festa nella festa. Due giorni di incredibili mangiate e bevute, che ancora erano sconosciuti anche per le donne diete e colesterolo. Il primo giorno uccidemmo la bestia, la coricammo sopra una panca e con l’acqua bollente la pelammo. Appeso a testa in giù svuotammo il maiale delle interiora e sezionandolo estraemmo i tagli per capicolli, pancette, costato e lardo da salare. Quindi gli spolpammo la carne destinata a salsicce e soppressate. La carne così divisa fu affidata alle donne affinché la ripullisero degli scarti. Lavarono anche le budella per gli insaccati e lasciarono tutto a riposo per ventiquattro ore. Noi uomini, terminate le nostre mansioni, ci piazzammo davanti al focolare e fra un continuo tintinnio di bicchieri, fette di formaggio caprino, pezzi di grassa carne arrosto, scodellammo a turno incredibili avventure. Era uno spettacolo vedere mia madre dirigere l’anarchico lavoro delle sette donne calabro-milanesi, che fra pettegolezzi e risa a tarda sera avevano miracolosamente portato a buon fine il loro compito. Il giorno seguente, quando la carne era già perfettamente asciutta, le donne riempirono le salsicce, avvolsero i capicolli, arrotolarono le pancette, salarono e peparono costato e lardo. Quindi appendemmo i salumi alle travi a maturare, al fumo e al freddo. Ve li avremmo lasciati per almeno venticinque giorni. Noi uomini riponemmo tutta l’altra carne del maiale dentro un enorme pentolone e a tarda sera, dopo una cottura di otto ore sulle braci di quercia, fu pronta per essere mangiata. Il vino riprese a scorrere e tra brindisi e poesie in rima facemmo l’alba. Gli ospiti gongolavano, mai avrebbero immaginato un aspetto così giocoso nel carattere degli aspromontani. Strana gente i milanesi che per secoli hanno accolto e sopportato persone d’ogni luogo. Affrontavano tutto senza riserve e pregiudizi con spirito di fanciulli, se l’unità d’Italia l’avessero fatta loro al posto dei Savoia, pensai, avremmo avuto un’altra storia. Finito il lavoro le donne tornarono in paese a impastare farina e infornare dolci per San Silvestro, gli uomini continuarono la festa in montagna, compreso l’amico di Anna che da lì, giurò, non si sarebbe schiodato. Alla compagnia era aggregato un anziano cugino di mio padre, Beniamino, a cui Dio non aveva concesso prole. Da poco vedovo faceva parte della casa come un vecchio nonno. Bino, com’era da tutti chiamato, rappresentava la memoria storica di quelle montagne, era il più grande conoscitore vivente di capre e briganti, se gli mettevi davanti un capretto lui senza errore indovinava la madre e il maschio col quale si era accoppiata, «Sono come le persone, e i figli assomigliano ai genitori» diceva. Le chiamava con nomi antichi a seconda dei colori, disegni e caratteristiche fisiche. Era stato malandrino, da giovane, e aveva tentato la fortuna in America. Aveva trascorso qualche anno vivendo di camorra a Broccolino e dopo un po’ di galera era stato espulso come indesiderato. Tornato in paese s’era sposato e ritiratosi in buon’ordine si era dedicato alle capre.

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Al terzo bicchiere di vino intercalava un dezz orraitt e raccontava le avventure americane. Il suo pezzo forte era la vera storia di Joe Petrosino, lui in America i pezzi da novanta li aveva conosciuti di persona compresi i sicari di Vito Cascieferru, come lo chiamava lui storpiando il nome. I più pericolosi erano due picciotti paesani nostri di Savignana, un paese vicino. I due, raccontava Bino, tornati per vedere le famiglie, che era una scusa, partirono dai nostri monti e andarono sino a Palermo per ammazzare lo sbirro. «Uno di loro è morto qua e io ho portato le condoglianze ai discendenti». A quel punto gli dicevamo che le sparava grosse e Bino, ingiuriando la Madonna della Montagna incalzava «ormai posso dirlo che non è infamità, tanto sono morti e il conto lo hanno pagato», e tirava fuori i nomi, «Tano Misiti e Rocco Tripepi. E quando volete vi porto a Savignana che la nipote di Tripepi è viva e ha le foto del nonno con Cascieferru». Poi continuava «Negli anni cinquanta, le grotte di Malupassu erano diventate il rifugio dei ricercati, che allora si chiamavano ancora briganti. Un anno se ne contarono cinquantasei, che venivano da tutti i paesi del circondario. Nessuno, sbirro o no, si poteva avvicinare che erano schioppettate. Solo Bino poteva arrivare alla sommità del monte e banchettare con loro. Che lì era tutti i giorni festa, i briganti ogni notte, a turni di piccoli gruppi, si spingevano sino al mare per fare razzie di animali o uomini, i recinti erano sempre pieni di bestie che venivano rivendute e in parte mangiate, nelle grotte soggiornava sempre qualche ostaggio, ricco possidente o nobilotto che fosse. Quando venne l’alluvione del cinquantuno che devastò metà dei paesi dell’Aspromonte, sfamarono più poveracci i briganti che lo Stato, il quale infastidito dalla loro fama mandò un nutrito esercito per disperderli. Che non uno ne presero, scapparono tutti e non ci fu ovile o casa dell’Aspromonte che non li accolse. Il Genio militare minò la maggior parte delle grotte e finì la festa di Malupassu». Non di rado in quella località, all’interno di grotticelle nascoste dalla vegetazione, si ritrovavano ancora pelli di mucche cucite con dentro vecchi fucili e altri oggetti. La storia da me preferita era quella del lupo e se c’erano mani volenterose a versar vino e attizzare legna, Bino non lesinava saggezza. «I caprai antichi amavano il lupo e lo consideravano compagno e amico fedele, al contrario dei pastori moderni, i quali vedono in lui un famelico predatore, lo perseguitano con lupare, tagliole e bocconi avvelenati e, egoisti, per salvare pochi capi piangono intere mandrie. Il pastore antico non si considerava proprietario esclusivo del gregge, sapeva di avere un invisibile socio, che il lupo stesso tale si considerava. Solo nei tempi moderni i cani domestici trovano posto nell’ovile dell’Aspromonte, un tempo così non era. Il lupo calabrese, contrariamente a quanto si credeva, non cacciava in branchi. Era un animale schivo e solitario che si univa agli altri solo per ululare e riprodursi. Ogni singola fiera si sceglieva un pascolo, un gregge, un pastore, e se ne sentiva parte. Seguiva il gregge al pascolo e teneva lontane le volpi pericolose per i piccoli appena nati, le aquile che scendevano dopo prolungati volteggi, scacciava i cinghiali e ne divorava la prole, che per i pascoli erano una calamità.

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Ogni tanto placava per giorni la sua fame mangiando una capra. Attendeva le bestie al pascolo e ne atterrava una sola, avendo cura di scegliere sempre la più vecchia e malandata, contribuiva alla selezione genetica permettendo la sopravvivenza delle bestie migliori. Le bestie perse venivano presto sostituite dai nuovi nati. Quando ancora non c’erano veterinari in pochi altri posti si vedevano le splendide mandrie dell’Aspromonte. Il pastore di oggi vuole tutto per sé e così, le bestie da scartare, vecchie e malate, finiscono in macelleria e nello stomaco di fessi clienti. I lupi, braccati, sono costretti a cacciare in branchi e a girare per tutti gli ovili, e se riescono a violarne uno o a trovare una mandria incustodita, il pastore si ritrova senza gregge, e per salvarne venti ne perde mille. Raccontano i vecchi che quando avevamo ancora il re a Napoli, un pio pastore, invece dell’usuale recinto aveva ricavato, dentro un antico casale di caccia, il ricovero per le capre. Come d’abitudine, la notte di Natale, per voto fatto alla Madonna della Montagna, rientrò in paese ad assistere alla nascita del Bambinello. Riparate le bestie e serrata l’uscita partì accompagnato da un cielo stellato per assistere al sacro mistero. Ad accompagnare il lieto evento si aggiunse un’imprevedibile e fitta nevicata che rese la santa replica simile al vero. All’alba la coltre aveva raggiunto altezze spropositate, i torrenti erano in piena e il pio conduttore di armenti rimase bloccato in paese, e così il giorno appresso e quelli successivi sino a San Silvestro. Se fossero state nel recinto, le capre, salendo sulla neve avrebbero agevolmente scavalcato lo steccato e trovato qualcosa da mangiare, fossero state anche le cime degli alberi. Quando il peggio era ormai prossimo e le bestie si strappavano a morsi l’un l’altra la lana di dosso in mezzo a lugubri belati, attraverso un buco, scavato prima sotto la neve e dopo fra la porta e la terra, apparve un lupo che condusse in fila indiana il gregge fuori dalla trappola mortale. Il capraio devoto, arrivato a rischio della vita, trovò le capre che pascolavano tranquille, brucando le cime dei lecci divenuti bassi cespugli. Da quel giorno nel casale ci entrarono solo se trascinate a forza, il pastore di certo non vide il lupo, ma fu testimone oculare della galleria, e intorno al casale vi era un via vai di orme che sembrava il convegno di tutti i lupi della montagna». L’amico di Sante e Anna era consigliere comunale, e noto professionista, a Milano. Un socialista liberale, degli inizi, e non un bacchettone moralista. Naturalmente non facemmo mai discorsi strani, non si videro mai armi o altro, certo non era uno stupido e sicuramente intuì che le quattro caciotte prodotte non erano sufficienti al nostro tenore di vita che, se non lussuoso, era sufficientemente dignitoso. Aveva uno spirito libero e si godette in pieno la vacanza. I calabresi costituivano, ormai, una parte consistente dell’elettorato milanese e una sana curiosità lo spingeva a conoscerli. Gli facemmo girare la montagna, con Luciano attaccato al fianco, contento di aver trovato una spugna come lui, che non finivi una risposta e già ti appioppava un’altra

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domanda. Quando vide la terza deposizione di pietre, al terzo cumulo incontrato, si fermò. Di solito, qualsiasi cosa si incontrava, si vedeva o si faceva, trovava Luciano pronto alla spiegazione. La ripetizione di quel gesto, privato della motivazione, lo convinse che si trattasse di un atto condizionato, ripetuto per abitudine e non per cognizione. Si mise in cattedra e iniziò la lezione, ma si bloccò subito, intuendo. Non era un gesto condizionato, ogni volta che cambiava il versante della montagna che si attraversava, ci si imbatteva in un ordinato monticello di pietre. I pagani a ogni incontro vi appoggiavano sopra, in dono, un sasso, per placare gli spiriti dei boschi e proteggere il viandante. Dall’altezza del cumulo si intuiva il numero delle persone, devote, che erano passate da lì. Dal muschio che ricopriva gli ammassi, sormontati da pochi sassi puliti, era chiaro che il culto sebbene agli sgoccioli veniva praticato ancora da pochi, ostinati, seguaci. La presenza di quei simulacri pagani in quel sentiero aveva una valenza particolare, e maggiore, rispetto ai tantissimi cumuli, che pur sommersi dal muschio vegliavano il cammino in tutti i sentieri più antichi della montagna. Quello che stavamo calpestando era il passo del Santo, protettore, insieme agli Dei pagani dei pastori, di quelle terre, e su questo culto non ammettevamo ironia, eravamo osservanti quanto i nostri antichi padri. Quando arrivarono i monaci basiliani, intorno all’anno Mille, le popolazioni montane erano prostrate da miserie e malattie che avevano decimato gli autoctoni. Gli irriducibili montanari non avevano forze per respingere gli estranei, come avevano fatto per secoli, e si arresero all’esercito di Dio che gli donò la sopravvivenza. Questo particolare ordine, formato di contadini letterati, edificò chiese, e introdusse l’agricoltura che permise ai pastori, trasformati in zappatori, di sopravvivere. Tutti questi monaci erano santi. Ma la scienza agricola del tempo non riusciva a superare tutti i limiti, e nei monti più alti dove vivevano i pastori più duri, al tempo non si conosceva coltura che attecchisse. Dai monti più bassi si distaccò, dai confratelli, il Santo, e attraverso il sentiero, che stavamo calpestando, venne a salvare i nostri avi. Percorse il passo sino al monte più alto, lavorò per mesi. Armato d’ascia scorticava pini e ne estraeva la pece che modellava in palla, e riponeva le sfere sopra la nuda roccia. E così continuò instancabile. Gli avi osservavano dal bosco lo strano essere, timorosi, credendolo uno spirito maligno venuto a distruggere il loro bosco. La mitezza dell’uomo a poco a poco vinse diffidenza e paura. Il Santo divenne familiare ai pastori che a gruppi si avvicinarono a lui e alle sue sfere. La pece si trasformò in pane e tutti i pastori si sfamarono. La gente del bosco, per ringraziare il Santo, abbattè l’abete più grande e ne fece un trono di legno, così le sue stanche membra poterono riposare. Quando, dopo innumerevoli anni di faticosa dedizione ai poveri, il Santo tornò al suo Generale Celeste, i pastori lo adagiarono su una bara di pino e percorsero a ritroso il sentiero tracciato dal monaco per il suo arrivo. Camminarono per chilometri e quando

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la stanchezza li sopraffece si fermarono. Lì seppellirono il Santo e vi edificarono sopra la sua chiesa. Sul sentiero creato dal benefattore, a ogni crocevia, i pastori innalzarono i loro cumuli pagani a sancire la fusione fra due mondi, antichi ambedue. E in chi, ancora oggi, onora gli antichi, quell’unione vive. Proseguimmo sul sentiero e altri cumuli si succedettero, continuammo a salire, in vista dell’ultima cima attraversammo un fiume, sopra una passerella di tronchi legati. Sull’altra sponda, ai piedi della cima, ci imbattemmo in un enorme tronco infisso nel terreno che sembrava in tutto un sedile di legno. Al milanese tremarono le gambe. Lo spingemmo avanti, in cima al monte, gli indicai un punto e gli misi in mano il binocolo, dritta davanti a noi, a chilometri, in fondo ai monti, limpida si alzava la chiesa del Santo. Fu troppo, le ginocchia gli si piegarono e solo la sua fede socialista lo trattenne dal segnarsi. Per tranquillizzarlo cavammo fuori, tutti, Sante compreso, i nostri inseparabili astucci in pelle di capra. Ognuno, al suo interno, custodiva un mazzetto di santini raffigurante il Santo, con in una mano l’ascia e nell’altra una sfera di pece, tutto certificato da Santa Madre Romana Chiesa. Oltre alle immaginette vi era un certo numero di sassolini, provenienti dai detriti formatisi ai piedi degli altari pagani. Santo e spiriti dei boschi, parimenti sacri, erano un tutt’uno, un passo non l’avremmo mosso senza loro accanto. Festeggiammo, ancora tutti insieme, l’anno nuovo. Fu un’altra giornata memorabile, il milanese prese una pelle, che gli ubriaconi erano chiamati pellai, e a tarda sera, quando fu l’ora dei commiati, per salutarci dovette prendere la mira. Era commovente, ci abbracciammo tutti, un po’ di umidità copriva persino gli occhi del vecchio Bino. Il consigliere lasciò manciate di bigliettini, che come dicevamo noi, era a disposizione degli amici. Di lì a qualche giorno sarebbero ripartiti. Restammo in montagna, per una settimana ancora, noi tre soli, io, Luigi e Luciano, sotto le direttive di Bino. Ci mancavano... i nostri amici, l’atmosfera divenne dolcemente triste. Avevo notato, nella parte del pascolo che mio padre riservava alle bestie per il periodo più rigido dell’inverno, tracce recentissime del passaggio di mucche. Le vacche vivevano libere e senza padroni in piccoli gruppi di dieci venti capi, governate da un toro. Erano piccole bestie autoctone del colore delle vacche brunalpine. Facevano vita tranquilla, indisturbate, si tenevano sempre a distanza dall’uomo. Quando gli si andava troppo vicino si tuffavano in galoppate sfrenate, e la montagna si riempiva di un rombo di tuono. In pochi minuti le vedevi poi brucare tranquille in un costone lontano. La loro taglia minuta permetteva un adattamento perfetto a quelle impervie contrade, una bestia di taglia maggiore sarebbe finita in fondo a un burrone, o morta di fame. Il tipo di pascolo non era sufficiente a riempire gli stomaci di grandi vacche.

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Il timore e la riverenza che le circondavano l’avevo sempre percepito ma le spiegazioni che mi davano in proposito erano confuse e contorte. Ne dedussi che ci si nascondeva dietro a favole per il solo motivo che la caccia era sempre infruttuosa. Parecchie volte avevo osservato le mandrie da lontano col binocolo. Camminavano come un piccolo esercito, con due vacche, le più anziane, una a precedere e l’altra a seguire il gruppo. Quando uscivano dal bosco per pascolare in uno spazio aperto arrivava l’esploratrice che girava per tutto il pascolo, annusava l’aria, e quando abbassava la testa per brucare l’erba venivano fuori tutte le altre. Dopo un po’ arrivava la retroguardia. Le mucche pascolavano formando un cerchio all’interno del quale giocavano i vitelli. Al centro esatto della formazione vi era lo stallone. Le due vacche anziane restavano sempre a distanza, difficilmente si riusciva ad avvicinarle a tiro di fucile, e quand’anche ciò fosse avvenuto la loro carne, di bestie vecchie, era buona solo per il bollito. La loro società era matriarcale, diretta dalle femmine in ordine d’età. Esse sceglievano il toro fra i maschi migliori e scacciavano gli altri figli. Bino cercò di dissuadermi. Non lo ascoltai. Presi il fucile, riempii la cartucciera, e all’alba precedetti le mucche al pascolo. Mi accovacciai ai margini della radura e attesi. Le membra erano già intorpidite dal freddo e dalla posizione, quando la sentinella fece il suo ingresso. Allargò le narici e soffiò forte. Guardò in ogni direzione, mi puntò gli occhi addosso ma non mi vide. Quindi abbassò tranquilla la testa a depredare l’erba delle mie capre. Un attimo dopo, dal bosco, uscì il gruppo giocoso. Stavolta le femmine avevano esagerato. Come avevo già visto dai vetri del binocolo si erano cresciuti uno stallone enorme, che aveva il doppio della loro stazza e un corto pelo setoso, di nero lucido. Fu la cupidigia femminile che perse il toro. Il cerchio protettivo si rivelò un’inutile difesa. Per quanto la bestia si facesse piccola, la testa e le spalle sovrastavano inevitabilmente la trincea circolare di corna. Fu un rombo di tuono che ebbe l’effetto di un sasso in un placido stagno. Il cerchio andò alla deriva. Le onde portarono le bestie lontano. Il toro rimase sorpreso, come chi all’improvviso si ritrova nudo. Restò un istante interminabile fermo. Solo. In mezzo alla radura deserta. Senza rendermi conto mi ritrovai in piedi. Bersaglio visibile. La carica partì improvvisa. Ero certo di averlo colpito ma così non sembrava. Attesi lucido, e rigido, che la morte mi prendesse. Il petto pronto ad abbracciare il colpo. Si frenò a dieci metri da me. Ne colsi per un attimo i pensieri. Aveva un orribile buco, in mezzo agli occhi, dal quale usciva un fiotto incredibile di sangue e gialla materia. Gli occhi erano puntati su di me ma non mi guardavano. Stavano fissando qualcosa o qualcuno che non apparteneva a questo mondo. Era morto già da qualche minuto. Lui solo non lo sapeva, o non voleva convincersene. Un vaporoso fiotto di urina spruzzò dall’enorme nerbo, a segnalare il rilasciamento dei muscoli che perdevano il controllo. E crollò.

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Dopo poco arrivarono gli altri, con i capienti zaini militari. Sapevano che non avevo mai sbagliato un colpo. Questa volta però non fu la solita scena gioiosa delle nostre innumerevoli cacce. Sezionammo la bestia prelevando solo i tagli migliori. Prendemmo quanta più carne fossimo in grado di trasportare. Trovammo la pesante palla Brenneke da un’oncia dentro la cassa toracica. Era stata devastante. Aveva attraversato per un metro il possente animale, dalla testa, per il collo, sino ai bianchi polmoni. Portammo all’ovile il pesante carico. Fu una giornata muta. Accudimmo le bestie senza parlare e andammo a letto presto, completamente digiuni dal mattino. La notte fu spaventosa. Mi sembrò di sentire lugubri muggiti. Vedevo la testa del toro fissarmi col terribile, grondante, occhio artificiale al centro. Improvvisamente l’immagine cambiava e il toro assumeva le sembianze di Totò Serretto. Un dolore immane mi prese, ero cosciente di essere immerso in un incubo, volevo svegliarmi e non ci riuscivo, mi alzavo e ricadevo, e solo quando percorsi quel dolore sino in fondo mi scossi. Mi ritrovai seduto che era ancora buio. Bino mi mise in mano, tenero, una tazzina di caffè bollente. «Li hai sentiti?». Lo guardai interdetto. «No, non erano nella tua testa, fanno sempre così quando perdono un compagno. Girano tutta la notte intorno al corpo e alzano lamenti spaventosi. A volte continuano per mesi, qualcuna addirittura si lascia morire. Gli antichi dicevano che appartengono agli spiriti dei boschi. Io non ho mai fatto questa esperienza ma ho visto pastori, insuperbiti come te, alzarsi distrutti e guardare con terrore il calare del buio. Noi siamo parte dei monti, non padroni. Praticare il male a volte è necessario per sopravvivere. Spegnere una vita è sempre sbagliato. Ma se non le dai un alibi o un inganno, la coscienza ti urlerà ogni notte. Vieni, dobbiamo placarli». Andammo. Depositammo la carne sopra i cumuli, lungo il sentiero del Santo. La mente giovane offuscò presto il cuore scalpitante e l’episodio andò a languire in un angolo buio. I nostri amici erano ripartiti per Milano e Sante aveva detto a mio padre di prepararci per la primavera. Prima di andarsene, il consigliere si fece accompagnare in città da certi suoi amici di partito, e così lasciò a mio padre un prezioso regalo. Una lettera di assunzione all’Ente Forestale, con contratto di permanenza a tempo indeterminato. Significava, per quanto modesto, uno stipendio fisso. Una cosa presente solo nei suoi sogni. Quei soldi, anche se tardi, troppo per me, gli restituivano la dignità di padre e il ruolo di capofamiglia. La cosa che più gli sembrava incredibile era la sua qualifica, l’avevano assunto in qualità di guardaboschi. Lo pagavano, quindi, per quello che aveva sempre fatto gratuitamente e per dovere naturale, difendere la sua montagna. L’avremmo ancora incontrato il consigliere, a Milano, prima che il suo mondo fosse prossimo all’abisso. Noi tre ritornammo quasi esclusivamente ai libri. Quell’anno era fondamentale, avremmo dovuto affrontare la maturità e lo facemmo con impegno, come tutto quello

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che facevamo nella vita. Avevamo bravi insegnanti, persone capaci che aiutavano tutti, in modo particolare noi, figli dei boschi. Li abbiamo ripagati con impegno e dedizione nello studio e comportamenti educati. Da loro mai una nota, un richiamo. Solo amore per i libri e la cultura. Ci hanno insegnato a stare insieme agli altri e a non sentirci esclusi. Del resto non eravamo diventati ciò che eravamo per colpa loro o perché la società era sporca, brutta e cattiva. Vi erano pochi uomini sporchi, brutti e cattivi. La loro cultura era dominante. C’era una miseria pesante. Non v’era porta della Locride che non avesse conosciuto gli scarponi della Benemerita, e questa era la sola faccia conosciuta dello Stato. Se per decenni l’unica persona conosciuta positivamente, prodotta da quel territorio, è stata Corrado Alvaro, significa o che i suoi abitanti sono geneticamente tarati o che vi è un interesse, storicamente riproducentesi, alla perpetuazione in serie di criminali. Se ragazzi come noi, lontani dai bruciatori di Santini, odiatissimi nemici, erano andati fuori dal seminato forse era perché allora bisognava scegliere tra una vita da servi, o la morte, se non sapevi difenderti. Noi avevamo scelto di vivere liberi, ma armati, pronti a difendere e attaccare, fossero stati malandrini o sbirri, i nemici. I soldi stavano finendo. A Luciano sua madre aveva lasciato in eredità un funerale da pagare, gli diedi indietro un po’ dei soldi che mi aveva dato. Non aveva mai tenuto nulla per sé, tutto quello che incassavamo veniva diviso in tre parti e la sua quota, immancabilmente, finiva in massima parte a casa mia. Di come bruciava i soldi Luigi rimane ancora oggi il mistero, e a casa sua non lasciava nulla. Fatto sta che poco dopo ogni spartizione si presentava a lesinar moneta. Pochi o tanti ai soldi non vi abbiamo mai badato, sul mio o tuo. Chi prima arrivava prima prendeva. Io e Luciano ci applicammo ai libri e Luigi, segretamente, a trovar soldi, che divenne decisamente la sua specialità. Aveva il fiuto per le buone occasioni come per le belle donne. Quando ci svelò il colpo restammo affascinati dalla sua pervicacia. Ci lavorava da quattro anni, sottotraccia anche da noi. L’idea gli venne quando diventammo uomini. Mentre io e Luciano, rossi in viso, affrontavamo la memorabile e paurosa impresa, lui tirava di conto. Il Valenciano. E chi ci aveva mai pensato? Con Luciano c’eravamo andati, tutti questi anni, in media due tre volte al mese e solo per fottere. Luigi aveva fatto gli straordinari. Oltre a farci l’amore, di nascosto usciva con qualcuna delle ragazze e se la lavorava. Qualche altra volta ci era andato vicino, adesso era certo, il colpo era pronto. Il proprietario e pappone del Valenciano lo conoscevamo tutti, Vittorio Patti, un grasso maiale siciliano. Lo vedevamo quasi sempre all’albergo, il resto lo sapeva Luigi. Il magnaccia aveva una presenza fissa di cinque o sei ragazze, la maggior parte straniere. Le professioniste passavano alcuni mesi a placare le voglie calabresi e sparivano dall’oggi al domani, per essere sostituite, immediatamente o dopo un certo periodo, da nuove signorine. Era noto ai pratici del mestiere che per mantenere alta la voglia era necessaria merce nuova.

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Vittorio Patti aveva un socio a Milano che gli mandava le donne. Prima di far partire la nuova merce, il socio, voleva consegnata la sua metà dei guadagni, e il lenone, fiducioso come un condannato davanti al boia, la consegna la faceva personalmente. Improvvisamente spariva dalla circolazione insieme al malloppo. Calcolando che le ragazze portavano almeno due milioni al giorno e sessanta al mese, sottraendo il venti per cento, detratti vitto e alloggio delle signore, togliendo il dieci per cento che andava in pizzo ai pungiuti, la borsa del pappone doveva contenere dai sessanta ai cento milioni. Dove tenesse i soldi, quando e come, con cosa o con chi partisse, fu per anni un mistero. Vittorio Patti, oltre a tutto il resto, era un noto maniaco sessuale, che ogni notte a turno le donne passavano, facendo straordinario, da casa sua. Avvezzo a ogni esperienza il grasso siciliano sembrava sempre sul punto di capitolare e invece svuotava le sue voglie un attimo prima della confidenza fatale. Questo fino al giorno in cui fece il suo ingresso al Valenciano Natalia, gitana dell’Andalusia. E non per la sua avvenenza, che era nella norma, ma perché custode di segrete arti amatorie. Luigi ebbe in sorte di essere uno dei primissimi clienti a goderne. La zingara abboccò subito e s’intesero alla perfezione. Così con somma delusione di quanti, entusiasti della prima esperienza, subito vollero riassaggiarne le doti, la bella andalusa divenne parsimoniosa e distribuì piacere col contagocce, senza riguardi, ciccione compreso. Quando si convinse che i tempi fossero maturi, rispolverò l’arte, che rincoglionì Patti a tal punto da chiederle di trasferirsi a casa sua. Mai aveva conosciuto una tale mantide. Come al solito arrivò Luigi che era notte. Per quanto cotto, il pappone comunicò a Natalia la partenza all’ultimo minuto, per darle il tempo di preparare le valige. Avrebbero viaggiato insieme, colombi in luna di miele, in una cabina, vagone letto, del rapido Siracusa-Milano, con partenza all’una del mattino, ora di transito per la città. Senza bisogno di preparare borse ci ritrovammo sul rapido notturno saliti con discrezione alla fermata successiva. Per non addensare sospetti sulla scaltra spagnola bisognava colpire il più lontano possibile. I due complici avevano concordato un segnale e quando, pochi minuti prima dell’arrivo a Napoli, Natalia ci aprì la porta, trovammo il maniaco ridotto a tal partito che nemmeno sentì la legnata che lo colpì tra capo e collo. A difendere con i denti i bagagli ci pensò la fedele concubina, che solo un diretto, di cui già era evidente l’ematoma, vinse la resistenza lasciandola svenuta. Scendemmo tranquillamente e lasciammo le valige al deposito bagagli immergendoci felici fra i vicoli dell’antica capitale del nostro regno. I colombi si riebbero che erano già in viaggio per Roma. E che doveva denunciare Patti? Per finire i suoi giorni canzonato? Che a Napoli anche il più fesso dei villani stava col coltello in mano a respingere gli immancabili ladri. Piuttosto era stato fortunato ad averla fatta franca tante volte. Da allora in poi viaggiò sempre con due picciotti al fianco.

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Con i pochi soldi che da saggia massaia la spagnola s’era nascosta nelle parti intime, che là solo non avevano frugato i voraci ladri, visitarono Roma. Patti consolò l’amante con insolita dolcezza e dopo un’indimenticabile notte in albergo ridiscero lo stivale. Tornati al Valenciano, pian piano lei ritornò ordinaria nelle faccende intime e di lì a pochi mesi, Patti, la rispedì senza troppi riguardi a Milano. Qui fece per un po’ mercimonio di se stessa e, segretamente, indebitandosi fino all’inguine, acquistò una dignitosa pensione. Con i soldi del ciccione e i suoi risparmi pagò l’anticipo dell’attività che divenne luogo di svago di stressati e rampanti milanesi. Ci saremmo rincontrati. Visitammo la città in lungo e in largo, dalle mostruose periferie agli eleganti salotti del centro, e a sera ritirammo i bagagli per un piacevole viaggio di rientro, che tale fu. Prendemmo posto nello scompartimento già occupato da un giovane carabiniere ausiliario che tornava in licenza e scendeva a Paola, e una coppia di anziani coniugi, reduci da una visita ai figli sistemati al Nord. Facevano rientro a Catanzaro. Noi stanchi dopo aver sostenuto le difficili prove di un affollatissimo concorso nella Pubblica Amministrazione, delusi che tanto passavano i soliti raccomandati, eravamo diretti in una imprecisata località all’estremo sud della penisola. Si conversò amabilmente come era d’uso sulle puzzolenti carrozze dei treni a nafta diretti al meridione. Tenne banco l’anziano pensionato che per quarant’anni aveva servito lo Stato in funzione di cancelliere al Tribunale del capoluogo. Ne conosceva di disgrazie… e tante ne raccontò. Quando, dopo un paio d’ore di conversazione, la confidenza aveva allentato le regole della ferrea discrezione calabrese, il quasi magistrato ci chiese il nome del paese nostro. Prima che potessimo fermarlo, Luigi, lestissimo, glielo diede. Un urlo gli strozzò l’ugola... «I salatori», gridò. Afferrò l’esterrefatta compagna e, insieme alle valigie, la trascinò nell’ultima carrozza, lasciandoci tutti con un palmo di naso, sbirro compreso. Conoscevamo bene la storia. Con quel nome erano conosciuti i nostri nonni negli anni quaranta. Successe poco prima della seconda guerra voluta dal novello Cesare. Un gruppo di affamati bricconi paesani aveva fatto razzia di bestie, in un paese vicino, e le teneva ricoverate nei pascoli montani meno accessibili. Ogni tanto invitavano comitive d’amici e andavano a ingozzarsi col maltolto. Uno degli occasionali convitati, negli ultimi tempi, era stato visto percorrere la strada che portava al paese dove le bestie, prima di essere deportate in montagna, pascolavano tranquille nei possedimenti di un ricco medico. Il poverino, segretamente, si recava in quel posto per convenire con un avvocato; che essendo il paese sede di Pretura, era il luogo più vicino per reperirne uno. Egli era stato designato beneficiario di un piccolo lascito a opera di un defunto parente emigrato in America, e data la miseria di quei tempi, timoroso, in segreto, e per tre volte, aveva incontrato l’esperto giurista per sbrigarne le relative pratiche. Una malefica pettegola, sterile e perciò senza prole, che zire erano chiamate le donne incapaci di procreare, non avendo fatti a cui badare se ne occupava lei, abbondantemente, di quelli degli altri. Viveva, la perfida, in un misero tugurio che si

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affacciava sulla strada di collegamento fra i due paesi, e vide in tutt’e tre le occasioni un guardingo Peppe Tavilla incamminarsi alla volta di Lica, paese del dottore derubato. Lanciò il dubbio che presto si radicò in menti ottenebrate da miseria e ignoranza. Tavilla si stava convertendo al tradimento. Al meschino si illuminarono gli occhi in vista dell’abbuffata, memore delle precedenti, alla notizia di un nuovo invito; che il misero lascito non lo aveva certo reso benestante. Che gli invitati qualcosa per sdebitarsi la solevano portare, «cosa posso portare di utile?» chiese per abitudine al latore dell’invito. «Il sale ci manca in montagna» rispose quello. Partì contento Peppe, col sale nella bisaccia. Al posto del banchetto trovò sette sferre affilate che ne fecero scempio. Sulle ferite appena aperte i grassatori cosparsero il sale e resero l’agonia più dolorosa. Povero Peppe, vittima, come tanti, di una zoccola insoddisfatta. Vittime furono pure i sette assassini che pagarono con decenni di dura galera il misfatto, e al processo scoprirono l’innocenza della vittima. Fu un crimine che fece clamore e in qualunque posto andassero i paesani, saputa la provenienza, si vedevano negato anche un bicchiere d’acqua, «I salatori, Dio ci scansi!». Che qualcuno dei sette ancora è vivo e si vede sulle panchine della piazza, in mezzo al paese. Suscitò tanto interesse il processo che, per timore di disordini e tentativi di linciaggio, si preferì trasferire la Corte d’Assise al Tribunale di Catanzaro. All’apertura della borsa di Patti scoprimmo che le possenti gonadi calabresi avevano regalato, a noi sessantatre milioni e a Natalia ventuno. Aspettammo, tranquilli, che venisse primavera, e al Valenciano vi andammo più spesso. Non facemmo più assenze, fummo ligi studenti, e la primavera ci sorprese una domenica fra i boschi. Ad annunciarla furono le spie dei monti, le perfide ghiandaie, un uccello pettegolo che portava a conoscenza di tutti ogni presenza, umana o animale. Che lei, perennemente all’erta, immancabilmente per prima, notava. Gli impetuosi torrenti divennero tranquilli ruscelli. Eravamo pronti. A fine marzo Sante ci caricò in macchina e ci presentammo ad un appuntamento senza invito. Le terre piatte erano ancora immerse nella stagione precedente, e accompagnati da una spessa nebbia ci ritrovammo nella campagna padana, dietro uno splendido casale, restaurato da poco. I cani, ingenui fanciulli al pari dei padroni, ci leccarono, e tranquillamente ci accompagnarono a una portafinestra illuminata. Un calcio fu sufficiente a scardinarla. In pochi minuti riunimmo in salone la tranquilla famigliola, tata compresa, che là si usava far crescere i figli agli estranei. La madre collaborò e contribuì a tranquillizzare le due splendide figlie adolescenti. Qualche principio albergava ancora in noi, e invece di scegliere le prede più facili, attendemmo pazientemente l’arrivo del capo famiglia.

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Salì dalla scala che comunicava con il garage. Era un bell’uomo, sulla cinquantina, alto e snello, in giacca e cravatta. Portava un orologio d’oro al polso e un cappotto cachemire di Tincati. Un manager rampante della Milano da bere. Tranquillo capì al volo. Abbracciò le figlie, rifilò una serie di raccomandazioni, e si congedò quasi un improvviso affare lo chiamasse altrove. La cosa più importante era che loro stessero bene. Si lasciò ammanettare e attese che le sue femmine, perfettamente illese, fossero rinchiuse nel bagno del piano più alto. Sollevato, si fece bendare, sigillare occhi e orecchie, e adagiato sul sedile posteriore lasciò il suo regno. Fra quattro stranieri arrivati da un altro mondo. Mezzora dopo la macchina scivolava sulla rampa del box di un’anonima villetta a schiera, uguale a migliaia là intorno. Dal sedile passò alla brandina della lavanderia della casa, una stanzetta di tre metri per due completamente ricoperta da pannelli in polistirolo. Lasciammo Luciano e Luigi in compagnia del proprietario a far da guardia al porco. Un’ora dopo la macchina, sparando grosse bolle d’aria, spariva nell’acqua melmosa di un canale marrone. A tarda notte ero già ospite di un fumoso e fetido scompartimento delle ferrovie dello Stato. Non era come mi aspettavo. Sino ad allora i porci li avevo visti solo in catene, piccoli esseri puzzolenti d’urina, che piagnucolavano come bimbi davanti a un ago. Irritanti e non commoventi. Adesso ero entrato nelle loro case, fra i loro oggetti, avevo annusato i loro profumi, percepito il loro affetto, gli avevo violentato la vita. Il porco nonostante se la passasse bene non aveva un lusso esagerato. La casa era pulita, accogliente, felice. Aveva pensato alla famiglia e non a se stesso. Non aveva elemosinato pietà. Le figlie tenevano le sue foto accanto ai letti, non avevano vestiti lascivi ma comode tute. Ci avevano guardato con odio, non con disprezzo. Con quale diritto eravamo entrati nella loro casa? Perché dovevano dividere con noi i loro averi? Perché stavamo rubando un padre e un marito? Che colpa avevano se noi eravamo ciò che eravamo? La mattina, come al solito, era tutto svanito e comunicai felice la notizia a mio padre, che però, questa volta, non dimostrò entusiasmo. Ultimamente era cambiato. Vedevo i suoi rimproveri muti, si faceva bastare i pochi, ma puntuali soldi del governo. Sapevo che tutto quello che gli avevo portato ultimamente era al sicuro, in un grosso barattolo di vetro, sepolto nell’orto. Persino le regine non chiedevano più regali. Erano cresciute, iniziavano a capire, disapprovavano. Io e Luciano eravamo convinti di averle salvate. Le amavamo immensamente, lui quanto me, ed eravamo convinti di aver dato loro la libertà dei sentimenti. Un giorno avrebbero apprezzato. Non ebbero la sorte di tante dolci paesane. Di partire, in lacrime, salutando, insieme a scodinzolanti e stupidi cagnolini di peluche, dall’interno di rombanti Fiat 124 special-T, prede inconsapevoli di un ciaonè qualsiasi.

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Fra gli emigranti era invalsa l’abitudine di portarsi, per le ferie estive, giovanottoni allampanati, colleghi di fabbrica settentrionali. Questi arrivavano a bordo di nuovissime Fiat, comprate a rate. Facevano mirabolanti racconti, in italiano che loro solo quello parlavano, sulla splendida vita che conducevano in città. Immancabilmente, sabato fuori per la pizza e domenica al cinema. E qualche volta ci scappava pure la gita fuori porta. Irretivano splendide e ingenue fanciulle di paese e, dopo brevissimi fidanzamenti, le sposavano. Che gli impegni erano tanti e non avevano tempo. Evitavano piuttosto imbarazzanti approfondimenti. Nel sincopato periodo di conoscenza si vedevano torme di ragazzini far da coda a improbabili innamorati, in giro a far vedere il favoloso acquisto. Che sì, non era bellissimo, ma la vita strabiliante che avrebbe fatto fare alla futura moglie metteva tutto in secondo piano. Salutavano tutti con un «ciao né», e noi ragazzini ne facemmo il soprannome. Erano dei poveri cristi, che si ammazzavano di lavoro sei giorni a settimana e la domenica in casa a lavarsi i panni. Improponibili alle moderne e sveglie ragazze di città, con la scusa che loro cercavano, nelle donne, la serietà rimasta solo al sud, si facevano invitare in vacanza. Portavano, in omaggio, cioccolate e caramelle per i ragazzini. Si ingozzavano un mese dagli ospiti, i quali li portavano in giro dai parenti garantendo sulla bontà del ragazzo, che aveva un posto fisso in fabbrica, e qualche disgraziata ci cascava sempre. Li odiavamo, noi ragazzini. Ciospi incredibili ripartivano con le più belle ragazze del paese. Queste, dopo qualche anno riapparivano, sole. Senza il ciaonè, rimasto in fabbrica a fare straordinario. Sformate dai figli e dalla fatica, pallide e segnate da umide case di quartieri ghetto delle periferie industrializzate. Non avevano il coraggio di uscire di casa, e alle ragazze, oggetto di nuove proposte di fidanzamento, in segreto e in lacrime dicevano meglio zitelle in casa. Maledetto consigliere, fosse arrivato vent’anni prima. Lui si era rassegnato a perdermi, quando testardo, per cinque volte, si sentì dire dalla levatrice, «femmina», e masticando amaro rispondeva «basta che abbiano la salute». E come avrebbe fatto? Si torturò tutta la notte, aveva speso la sua parola con Sante e quello che doveva fare, a malincuore, lo fece. Di tutto il male che avevano o avrebbero fatto ne pagarono il prezzo, mio padre in modo irreparabile. Pesante fu il castigo per Luciano e per il fratellino che mi stava crescendo, al quale si accodò qualche innamorato nei tempi bui. Mai me ne fecero colpa. Luigi in tempi ancora lontani a venire, come era nella sua debole natura, preferì salvarsi e vendere carne umana. L’unico responsabile di tutto quello che successe, e sarebbe accaduto, l’ideatore, l’istigatore e reale autore fui e sarei rimasto io. Convinto di salvarli li portai alla perdizione. Sante era convinto, in base a esperienze pregresse, che il momento giusto per spostare l’ostaggio andava fissato a una settimana dal fatto.

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Al momento dell’allarme si facevano tre ipotesi: l’ostaggio va in Aspromonte, in Toscana, o resta in zona. Nella prima ipotesi controllavano tutti gli svincoli calabresi, nella seconda quelli Toscani, nella terza tutti i pregiudicati della zona. Rimasta infruttuosa la prima fase cambiavano strategia. Facevano finta di allentare i controlli perché se l’ostaggio non era gia transitato chi lo tratteneva in loco avrebbe fatto lo spostamento ad acque meno agitate, all’incirca dopo un mese. Bisognava evitare la prima settimana e lo scoccare del mese, non potevano controllare milioni di persone e veicoli, si dovevano limitare alle uscite delle autostrade e smuovere l’esercito dei confidenti. Il tardo pomeriggio del settimo giorno, un grosso camion, di uno spedizioniere vicino all’aeroporto di Linate, con un carico di mobili e paramenti sacri destinati a una chiesa di Catania, attestato dalla documentazione di viaggio, imboccò la tangenziale ovest e quindi l’autostrada in direzione sud. Dentro, seduti sopra una scomoda panca sistemata sul fondo, sedevano tre persone. Una portava un cappuccio di lana nero che gli copriva il volto. Erano Luciano, Luigi e l’imprenditore. Sembravano passeggeri di un treno. In cabina, alla guida, vi era un anziano autista siciliano prossimo alla pensione. Guidava tranquillo, non avrebbe mai superato i limiti di velocità quella notte. Senza alcun ostacolo, poco dopo dieci ore di viaggio, si fermava per qualche secondo in una sperduta piazzola di sosta della Salerno-Reggio Calabria. Lasciava scendere tre passeggeri, il carico più pesante. E leggero ripartiva alla volta di Catania. Chi avrebbe creduto all’esistenza di persone in grado di farsi quaranta chilometri a piedi, di boschi? I briganti non esistevano più. Gli sbirri non contemplavano questa ipotesi, stavano dormicchiando sulle campagnole vicino agli svincoli. L’ostaggio fu fortunato, trovò un porcaro intenerito, che gli aveva costruito un alloggio dignitoso, completamente diverso dalle solite porcilaie. Finì ugualmente legato alla catena ma in un ambiente pulito. Una stufetta a gas, una lampada da campeggio durante il giorno, libri, un materasso su una branda e tante soffici e pulite coperte. Acqua e cibo in abbondanza. Non trovò certo le comode celle dell’Asinara o della Pianosa destinate ai pastori, ma tutto sommato non si poteva lamentare. Dopo la camminata notturna scendemmo al paese e facemmo ritorno in montagna che era estate piena. Come gli altri studenti affrontammo gli esami sudati e pallidi cenci. Luciano provvide, per tutti, agli scritti. Agli orali io e Luigi ci affidammo al buon cuore della commissione. Luciano come al solito esagerò. Un incauto presidente di commissione, con laurea in fisica, visti gli altissimi voti con i quali l’Istituto aveva ammesso all’esame il ragazzo, ritenne doveroso chiedere l’enunciazione di uno sconosciuto teorema. Fra gli sguardi attoniti dei commissari esterni, e l’orgoglio del nostro compianto professor Augusto Mammì, Luciano non solo enunciò il principio, ma in tre pagine ne scrisse la dimostrazione. Quando il presidente si riebbe, qualche mese dopo, scrisse in un’umilissima e commovente lettera un appello affinché Luciano andasse a studiare fisica. Indicava

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anche il nome di un famoso studioso al quale rivolgersi, che lui aveva provveduto a contattare. Ciò a dimostrazione di quanta brava gente popolava, allora, le nostre scuole e che metteva davanti a tutto il bene dei ragazzi, anche davanti all’amor proprio. Facemmo uno scontato sessanta, un insperato cinquanta e un trentasei d’incoraggiamento. Ottenemmo il diploma e partimmo per una felice, e per tanti anni non più ripetuta, vacanza in montagna. Trovammo una festa che non avremmo mai immaginato, che mio padre e Bino eccessivamente allegri, per natura, non lo erano mai stati. L’uno aveva bisogno di mezzora per apporre una firma stentata e l’altro in mezzo secondo tracciava una croce. Figurarsi avere tre figli professori, che tutt’e due padri si consideravano e di tutt’e tre. Avevano scannato il capone più bello, l’orgoglio del gregge, e già si sentiva il suo profumo. Contenti e un po’ confusi ci lasciammo festeggiare e andammo a letto felici e storditi. E anche al porco mio padre portò una bella scodella piena, lo vidi partire a cuor leggero in quella direzione. Talmente contento, era Bino, che dopo anni di ritrosia finalmente si svuotò il gozzo avvizzito. Ci raccontò della grande smerdata del trentacinque e del perché si ritirò in buon ordine, dimettendosi dall’onorata società. Che la società dei pungiuti fosse un’invenzione degli immorali Borbone di Napoli era noto. Gli avveduti ispanici avevano capito che per puntellare dall’interno il loro potere e tenere sotto controllo le riottose genti, disperse in migliaia di minuscoli villaggi montani che costituivano il popolo, avevano bisogno, oltre che della baionetta, di controllori interni a quel tessuto sociale. Mandarono, così, in giro per il Regno, mistici cavalieri spagnoli custodi di antichi codici, a incidere dita e fondare confraternite. Di questo ritrovato ne fece uso ogni successivo regime, che più era democratico più necessitava di consenso condiviso e controllo invisibile. A interrompere tale pratica arrivò il Kaiser di Predappio, che si sa, i totalitarismi il consenso lo impongono con la frusta, o peggio. Sovente, nel ventennio, si assisteva a bastonature di malandrini che assaggiavano il manganello e il confino quanto gli eroici compagni dissidenti. Regola ferrea, fra le tante altre, voleva che gli onorati membri avessero l’onore anche nei talami, e non portassero corna da parte di madre, sorelle e figlie. In paese, quando si scopriva una storia di letto vietata, se il becco era un cornuto semplice, provvedevano i burloni alla gogna, apponendo, nottetempo, sulla porta del malcapitato, un bel paio di corna di castrato. Che gli sventurati non dormivano, nell’attesa dell’evento, per farle sparire velocemente. Se il cornuto era onorato la società immediatamente lo spogliava delle doti, sinonimo di licenziamento in tronco. Il rituale della spogliazione prevedeva che il malandrino più anziano, incontrando il confratello cornuto, in pubblica via e in pieno giorno, gli passasse una manata di sterco in faccia e lo dichiarasse non degno di appartenere all’onorata società.

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Lo smerdato accettava, e lavato il disonore col sangue o, quando ciò non era possibile, dopo un lungo periodo di riabilitazione, veniva riammesso ai segreti riti. Successe che nel 1935, quando morì il dottore don Salvuccio Guastella, il gerarca fascista del luogo era il camerata Sante Tropeano, più avvezzo alle burle che al manganello. Unico rampollo della famiglia più ricca del paese, Salvuccio, saziatosi delle facili gonne cittadine e conseguita con comodo la laurea in medicina all’università di Roma, tornò in paese a quarant’anni suonati e quale medico condotto attese ai malanni locali e alle inespugnabili cosce paesane. Più che il declinante fascino potè la fame. In tempi di miseria, si sa, in tutto il mondo il pane a casa lo portano le donne. Fonte quasi unica di lavoro era, per il paese, il palazzotto borbonico che occupava quasi tutta piazza San Sebastiano, e le estese tenute dei Guastella. Numerose erano le donne che attendevano ai bisogni degli anziani signori e del signorino zitello convinto. Per non scontentare nessuno, le serve, a turni regolari, venivano alternate. Nei periodi più neri, per un tozzo di pane in più, tante ne cadevano davanti all’irresistibile conquistatore. Fra i più smaliziati correva voce che mezzo paese era discendente dei Guastella. E fra i mariti delle donne addette alla servitù serpeggiava il terrore di cogliere nei figli un segno del dottore. Tutto era ormai dimenticato, che il dongiovanni aveva smesso di esercitare da trent’anni, quando la mattina del 13 ottobre 1935, all’età di novantacinque anni, maschio a dimostrazione del pensionamento dei sensi, il fidato servitore Giannino Stazza ne annunciò la morte. Tutto il paese partecipò alle esequie, che era pur sempre il più ricco e illustre concittadino. Assistettero tutti compìti al sermone di commiato di don Remigio. Solo qualche anziano impertinente accennò a un sorriso, subito taciuto, all’affermazione del prete che definiva il defunto un padre per i compaesani. Si seppellì don Salvuccio, e tutti guardavano al palazzotto e alle terre. Tutto lo Stato si sarebbe mangiato, che i Guastella erano estinti. Passò qualche mese e al fatto nessuno pensava più, quando un nutrito gruppo di paesani si vide convocato, nella sala comunale, per comunicazioni importanti. Le missive portavano il timbro del Regio Notaio dott. Egidio Notarbartolo, e invitavano al convegno diciassette persone, fra uomini e donne. Il mistero si dissolse: motuproprio, don Salvuccio aveva in testamento riconosciuto tutti i suoi muli. Ci furono svenimenti, che due erano tra loro uniti con la benedizione del prete e numerosi figli. Sette, dei muli, rappresentavano l’intero vertice della società onorata, smerdatore ufficiale e capo compresi.

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Guastella fu generosissimo da morto, e tutti i suoi beni, ingenti per quelle contrade, vennero divisi in parti uguali fra i suoi bastardi; la scoperta del disonore fu seppellita da ettari di pascoli, casali, vigne, frantoi e cospicue somme di denaro. I novelli orfani uscirono abbracciati, che mezzo paese erano parenti. Tutto quel benessere, scarsi in economia, l’avrebbero scialacquato in un lampo. I problemi legali si risolsero presto, la Sacra Rota tosto annullò l’incestuosa unione. Dopo qualche giorno l’attenzione si concentrò sui malandrini. Portavano le corna. Con certificazione notarile. Le loro mutate condizioni economiche ne attestavano l’accettazione. E chi poteva dir nulla, che quelli erano i più spietati membri dell’organizzazione. I burloni non ebbero il coraggio di rifilare il trattamento riservato ai cornuti semplici, erano pur sempre parenti stretti di fratelli onorati, ancorché, loro stessi, cornuti. I picciotti, da sottoposti, non si sognavano di passare lo sterco ai loro capi. Così i pungiuti giravano tranquillamente. Sette fratelli insieme, che il sangue del giuramento ne fu presagio, dimentichi delle regole spagnole e delle umiliazioni inflitte ai cornuti onorati, loro simili. L’unico burlone depositario di coraggio, grazie al ventennio, fu Sante Tropeano. Il difficile fu procurarsi i trofei, con quella miseria non era semplice trovare tante bestie pronte al sacrificio. I camerati dell’Agrigentino, terra dei più grandi allevamenti di capre del Meridione, risposero alla chiamata e arrivò in piazza San Sebastiano un camion militare scortato da un folto drappello di figli della lupa. Con sollievo dell’invidia degli orfani di madri che alle grazie e ai beni di Salvuccio avevano serrato le cosce, i figli del nuovo Impero appesero numerose paia di corna, di castrati che dovevano essere giganteschi, alle porte degli orfani e dei figli delle serve di casa Guastella o, se ancora in vita, dei mariti di queste. Con spalamento, in aggiunta, di notevoli quantità di letame davanti agli usci dei sette cornuti onorati. I pungiuti, ingoiato il rospo, attesero fiduciosi il crollo dell’Impero, e quando si presentarono a chiudere i conti a casa di Tropeano, vi trovarono solo, in bella mostra, una botte aperta piena di letame. Sante era già su una nave diretta in Argentina. Bino, disilluso, in buon ordine si distaccò dalla società e si accompagnò, da allora, solo a nobili capre. Il giorno dopo caricammo gli zaini e iniziammo il nostro solito girovagare, lasciando due persone felici come il giorno prima. Ai primi di agosto eravamo alla ricerca dei tesori dei briganti alle grotticelle di Malupassu, quando ci raggiunse Bino ad annunciarci l’arrivo di Sante. Trovò me e Luigi sdraiati sopra l’enorme lenzuolo bianco di un paracadute e Luciano a leggere le lettere d’amore, in inglese, che un paracadutista alleato aveva lasciato in una custodia insieme alla divisa e ai documenti, in fondo a un inesplorato cunicolo. Rimettemmo tutto dove l’avevamo trovato ad attendere l’attempato aviatore o un suo discendente. Bino confermò che non di rado si trovavano i resti di vecchi aerei militari. A volte vuoti e a volte a far da bara ai sognanti ragazzoni volanti.

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Era allegro Sante, aveva convinto anche Santoro a scendere in vacanza con la ragazza. Erano tutt’insieme alloggiati in uno dei primi villaggi vacanza che si costruivano sulla costa. Li aveva lasciati a pranzare dai miei, immaginavo la gioia delle mie sorelle, ed era venuto a salutarci. Andava tutto bene, fra poco le trattative si sarebbero concluse. Si stava già dando da fare per trovarci una sistemazione a Milano, che tutti dottori ci voleva e basta con le cazzate. Fintanto che si cercava casa saremmo stati da lui, Anna era d’accordo. Ci mandava i saluti il consigliere. Sbirri e pungiuti avevano girato invano gli ovili dell’Aspromonte, con strani individui al seguito carichi di milioni. Rassegnati erano spariti, diretti dai fratelli sardi, che garantiva don Peppino Zacco, quei primitivi erano i responsabili. Partì felice, lasciò la sua calibro 9 che era un’arma militare e se gliela trovavano erano almeno cinque anni di galera, e mi chiese in cambio la Colt Cobra del Cavalier Fera. L’avrebbe avuta da mio fratello al paese. Andava tutto troppo bene, avrebbe detto Luciano. Non l’avremmo visto più Sante, ma al momento dei saluti quell’azzurro agosto ci sembrava bonario. Continuammo tranquilli la vacanza montana, il mare non ci attirava, spiagge deserte a patire la sete. Mio padre e Bino, radiosi come al solito, che miracolo era, partivano gioiosi per il pascolo con la bisaccia colma e la fiaschetta del vino piena. Noi tre fummo autorizzati a migliorare la vita delle capre, e dopo anni di vani tentativi finalmente risistemammo il recinto. Dopo tre o quattro giorni di quelle partenze scoprii l’arcano. Aspettai la ormai consueta e allegra pascolata, e veloce li precedetti al pascolo armato di binocolo, lasciando Luigi immerso nel lavoro e Luciano a dirigerlo. Poco dopo li intravidi distesi all’ombra dell’enorme robinia, giù alle fosse di Sardivia, un pianoro grande quanto quattro campi da calcio, sospeso fra i monti. Beati si godevano il tranquillo pascolare delle capre. Scorsi una figura che si avvicinava alla loro destra, e quando in gola era già pronto un fischio di avvertimento e terrore, vidi Bino sollevarsi appena e fare ampi cenni allo sconosciuto. Passò la paura, non lo stupore: l’uomo, con in mano la tipica ascia dei pastori, si avvicinava con passo incerto ma tranquillo. Aveva il busto troppo eretto, non poteva essere un legno storto. Aveva una normale coppola e, solo allora me ne resi conto, indossava una mimetica con la scritta, ora visibile, ejército español, la mia mimetica. I tre mangiarono tranquilli, fecero un placido sonnellino, e inseguirono le capre al fiume. Al rientro trovai Luigi a inchiodare assi e Luciano, solito scansafatiche, a dormire. I misteriosi pastori ritornarono soddisfatti all’imbrunire, elogiarono il nostro lavoro, sbrigarono le loro incombenze, baciarono tutte e tre e salirono in macchina a raggiungere gli altri figli al paese.

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Rivangai tutta la notte, pensavo si trattasse di un’ombra che volessero nascondere anche a noi, e non era raro. Quando in sogno lo riconobbi. Vecchi rincoglioniti, mi aveva ingannato il ventre prominente tipico dei pastori, se l’erano ingrassato bene... si stavano scarrozzando per i monti il porco. Il fatto non era inusuale, soprattutto quando le prigionie erano lunghe. Sapevo di ostaggi portati dai pastori al mare a fare il bagno, o addirittura a mangiare al ristorante. Capitò anche di ostaggi, i cui parenti tirchi lesinavano i denari o dei quali lo Stato bloccava i beni, che si mettessero d’accordo sulla parola per essere liberati prima del pagamento del riscatto, versandolo successivamente di persona ad acque calme. Fra altre genti, che privi di moralità imprigionavano donne, scoppiarono amori famosi; nota è la sindrome di Stoccolma. Queste a me parvero tutte storielle, i due cugini mi avrebbero sentito. E invece non sentirono nulla. Arrivarono la mattina presto, ci svegliarono che sembravano bimbi alla scuola, avevano portato un enorme vassoio di dolci, che lo mandava Sante. Due ricciole gigantesche da fare alla brace, dono di un compare pescatore «che stanotte non ha dormito per pescarle» e, miracolo del progresso, un thermos da mare, alto fino all’inguine di Bino, pieno di birra e gelati. Come potevo spezzare quell’allegria? Luigi e Luciano ignari dei miei turbamenti si stavano ingozzando. Guardai le facce dei due cugini, che mi incoraggiavano con lo sguardo, e mi tuffai nell’abbuffata. Aspettarono che crollassimo, e con l’asino carico partirono a cercar capre e porco. Li osservai, di nascosto, per qualche giorno. Vidi con quale ossequio trattava Bino, i lunghi discorsi che faceva con mio padre. Non li stava gabbando, era libero, forse da mesi, eppure ogni giorno si presentava puntuale all’appuntamento. Aveva un patto d’onore. Mio padre trovò finalmente un amico, e Bino aggiunse un altro ai tanti figli che un Dio giusto gli concesse in veneranda età. Riaccese coscienze sopite e creò un rapporto che sarebbe durato, l’imprenditore milanese. Gli ultimi giorni di agosto l’incanto si ruppe. Ne fu artefice, dispiaciuto, il maresciallo Palamita. Da qualche giorno restavano a dormire all’ovile anche Bino e mio padre, il paese era un forno, il caldo insopportabile li aveva convinti a rifugiarsi in montagna. Arrivò con la campagnola, lasciò, come il solito, il veneto di guardia. Il passo era insolitamente lento, a ritardare inconsciamente il triste compito. Aveva in viso un’espressione ufficiale. Bino presagì disgrazie e per fugarle disse «un caffè al maresciallo ragazzi». Fu inutile. Sante era morto, da due giorni. Stava facendo colazione con la famiglia quando entrarono due sicari a pagamento, che in zona conoscendolo nessuno ebbe il coraggio di affrontarlo.

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Intuìto l’agguato li aveva freddati quando già pregustavano un facile lavoro. Gli aveva scaricato addosso tutte e cinque le pallottole della Colt Cobra calibro 38 special, mitica pistola vendutaci cinque anni prima dal Cavalier Attilio Fera, buonanima. Stava ancora ricaricando quando altri due sicari, rimasti fuori a far da palo, non vedendo i compari s’erano affacciati dentro. Non finì di ricaricare Sante, e pagò vent’anni di rospi. Compresi i nostri, fatti ingoiare ai pungiuti. Questi, tale fu lo spavento di vedersi uscire Sante vivo, che un solo colpo lo attinse e un ospedale di paese non riuscì a salvarlo, non ebbero il coraggio di esultare. E negarono coinvolgimenti, che vendetta d’orfani era stata. Anna l’aveva portato via, a seppellire a Milano. Potemmo piangerlo solo in foto. La più grande anima nera, terrore dei pungiuti, non c’era più. Ma già, nell’ombra, una più grande ne stava crescendo che l’incubo dei pungiuti sarebbe stato più nero. Restammo a piangere per un mese. Il dolore era immenso. Capimmo la sofferenza di madri, mogli, figli. Alla fine, come sempre, la vita ebbe il sopravvento. Traccheggiammo qualche mese, non avevamo esperienze di trattative, e non volevamo quei soldi frutto dell’idea di Sante. Di quell’ultima cattiveria volevamo sollevargli la coscienza. Rimettemmo tutto alla volontà di Bino e di mio padre ai quali non parve vero di rispedirlo alla famiglia. Governarono insieme l’ovile. Leonardo, così lo chiamavano da mesi, indossò i panni da emigrante, salì sulla campagnola con i due cugini, e insieme imboccarono lo sterrato tutto curve e buche e si diressero in paese. Nessuno fece caso al paesano che prese posto in un affollato e fetido scompartimento delle Ferrovie dello Stato, su un treno diretto al Nord. Leonardo discese a Firenze, prese la corriera che collegava i paesi montani, scese con una borsa in mano, si fece un giro nei boschi, si cambiò d’abito e si presentò lacero e confuso a chiedere aiuto, alla prima casa che incontrò. L’indomani apparve, irriconoscibile dai lunghi mesi di privazioni, nei servizi dei telegiornali nazionali. Aveva una giacca della Benemerita appoggiata ad uno sbrindellato cappotto di cachemire. Dalla camicia aperta si intravedeva una maglietta militare con su scritto ejército español. Gli aguzzini, stretti nella morsa della Legge che da tempo si era concentrata sui selvaggi pastori sardi, avevano allentato la vigilanza e Leonardo Brambilla, facoltoso industriale milanese, era riuscito a fuggire, evitando il pagamento del riscatto miliardario richiesto alla famiglia. L’avremmo incontrato ancora. Arrivammo a Milano la mattina del giorno dei morti. Ci sistemammo in una pensioncina di Viale Abruzzi, al 17. Lasciammo i bagagli, e dopo una veloce doccia raggiungemmo la fermata del 29, in viale Piave. Il tram ci lasciò davanti al Cimitero Monumentale, luogo di eterno riposo degli illustri milanesi. Il consigliere socialista era riuscito a infilarci quell’anima nera di Sante.

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Ci facemmo dare l’ubicazione della lapide e andammo, mesti, a trovarlo. C’era un ragazzone biondo, mano nella mano con un’altrettanto bionda ragazza che mandarono baci all’indirizzo di una foto e andarono via. Prendemmo il posto dei ragazzi. Il pianto era irrefrenabile. Sante era ritornato un innocente ragazzo nella foto che lo ritraeva a diciotto anni. Sotto, Anna vi aveva fatto scrivere «Vivesti e moristi secondo le tue regole, lasciasti, a piangerti, tua moglie, tuo figlio e i tuoi fratelli». Era troppo. Scappammo. Senza lasciare i fiori comprati all’entrata, che caddero davanti a qualche illustre cappella. Anna l’aveva amato da vivo, e capito da morto. Il cinque novembre, ultimo giorno utile, ci iscrivemmo io a medicina, Luigi a economia, e Luciano, dopo essere entrato nella segreteria di fisica, a giurisprudenza, dando un dispiacere a tanti ex insegnanti. Sulla base del nostro reddito ottenemmo alloggio e sussidio e, a dicembre, prendemmo posto in tre camere singole di uno studentato in viale Romagna. La casa dello studente era un porto di mare, una sorta di suk arabo. Un variegato compendio di umanità ne affollava l’androne, la mensa interna, le sale di studio. Studenti inglesi, americani, borsisti arabi, aspiranti terroristi, genii in erba. Il futuro insomma. Vi passavano tossici, ladri, maniaci. Era una festa continua. Per un po’ ci stordì. Erano finiti i tempi del Valenciano, mica potevi lasciare ventimila lire sul comò. Le donne ti avrebbero strangolato. Era una pacchia. Così dopo un anno il raccolto fu incoraggiante: Luigi zero, io uno, e Luciano sette, esami superati. Nella valigia, che mia madre preparò, trovai un grosso barattolo di vetro, conteneva tutti i soldi del Valenciano. Quarantadue milioni, miei e di Luciano, stavano al fresco, nel condotto dell’aria condizionata, protetti da tre Beretta calibro 9x21. Le sovvenzioni si basavano su un rigido sistema premiale: dài gli esami previsti e mantieni tutto. Ti sei divertito troppo, sei fuori. Niente alloggio, presalario, riduzione mensa, sconto libri, sei fuori da tutto. Io e Luigi eravamo fuori da tutto. Subaffittammo a caro prezzo altre due camere nello stesso studentato e continuammo ad attingere al barattolo. Un altro anno e io aggiunsi un altro esame, Luigi uno zero, Luciano raddoppiò. Rimasero quindici milioni. Otto li pretese il trafficone per far riformare Luigi al quale, senza esami, giunse inesorabile la chiamata alle armi. Io con l’altro esame superato riuscii a rinviare la leva di un anno. Dopo due anni avevamo sette milioni e sedici esami in tre. Gli altri ragazzi si adattavano a fare ogni tipo di lavoretti, felici, affrontando l’esperienza con divertimento. Con un passato in tasca più pesante del futuro, cosa fai? Aspetti con un vassoio di bibite in mano che arrivi un ragazzino a dirti chi sei? Abbassi la serranda fischiettando, come Totò Serretto?

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Iniziammo a darci da fare io e Luigi, Luciano invece era perso nelle tortuose strade del diritto. Per non farsi distrarre dal divertimento s’era fatto la ragazza fissa, come i milanesi. C’era l’imbarazzo della scelta, su cosa fare. Conoscevamo tutti in quel porto di mare, vizi compresi. Iniziammo a maneggiare un po’ d’erba, i ragazzi ci arrivavano in camera. Avevamo un cavallino che scendeva in treno una volta al mese, andava da nostri paesani che avevano iniziato a coltivarla. Piccole cose per tirare avanti. Era il periodo in cui andava di moda l’autodistruzione, mancava ancora qualche anno all’esplosione dello yuppismo, era bello essere out non in. Si voleva sfuggire alla vita, non viverla intensamente. I ragazzi chiedevano solo eroina, tutti volevano solo dormire, e noi li aiutammo. Andai a trovare il siciliano che avevo visto con Sante; mi presentai. «Carne in bocca e non ci sono problemi» disse. Rimasi interdetto. «Picciuli avanti» ripetè in dialetto. Tornai con un sacchetto e ne uscii con un altro. In sei mesi passammo da cento grammi a un chilo a settimana. I soldi iniziavano a girare. Dai tossici eravamo passati ai piccoli pusher. Da qualche mese aveva iniziato a bazzicare da noi uno studente siriano, rifugiato politico, un ragazzone atletico e gioioso. Non aveva l’aspetto del mediorientale né parlava con l’inflessione degli arabi, anzi, la frequentazione giunse a tal punto che iniziava a parlare il nostro dialetto. Lo presentavamo a tutti come compaesano, tutti lo trovavano irresistibile. Mi si attaccò addosso come una zecca, iniziò a trafficare con noi fino a diventare socio e fratello nostro. Luciano lo vedevamo a volte dopo quindici giorni, nemmeno ci apriva, donna e libri. Io, Luigi e Khaled, che iniziammo a chiamare Sasà, divenimmo inseparabili. La cotta di Luciano all’improvviso svanì. Ci si parò davanti che stavamo trafficando, «Ho mollato donna e scuola, che si fa?». «Questo» fece Luigi, mollandogli un etto di scura in mano. Scoprì la novità di Sasà, l’aveva già intravisto, non conosceva l’entità del progresso. Tornammo a essere indivisibili. Luciano mi chiamò da parte, a distanza di qualche mese, «Non so, disse, mi sto affezionando anch’io, ho una sensazione strana». Si riferiva a Sasà. Gli dissi che forse sì, eravamo andati troppo veloci, lo vedevamo in giro, però, da due anni e sempre da solo, bazzicava solo con noi. Era disponibile, non badava a chi faceva di più, o di meno. «Non è che sei geloso?», lo colpii all’improvviso. Ci mettemmo a ridere e dimenticammo tutto. Eravamo abituati a vederlo ridere sempre, a volte Luciano lo rimproverava, che sembrava volesse prendere in giro la gente, sentivi la sua risata prima che comparisse. Era andato a trovare dei suoi parenti, rifugiati in Germania. Al ritorno, serissimo, ci parlò duro, Sasà.

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«Volete vendere ancora bustine per molto?» Da qualche tempo da quella domanda iniziammo a trattare l’arrivo di una tonnellata al mese, direttamente con i Lupi Grigi turchi. Avremmo avuto un ruolo fondamentale nella Milano da morire, in quella da bere e nella Milano della macerie giudiziaria. Tutti sarebbero passati da noi, calabresi, siciliani, napoletani, poliziotti, imprenditori, politici e magistrati. Il perché lo capimmo troppo tardi, Luciano lo intuì prima, non gli credetti.

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Seconda parte

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Ombre in luce

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Il maresciallo Strano, come ogni sabato sera ormai da due anni, prese servizio alle venti in punto presso il centro di ascolto sistemato in un ampio ufficio, del quinto piano, della locale stazione dei Carabinieri. Salutò, come sempre, con uno sguardo d’intesa il comandante generale dell’arma e il Presidente della Repubblica che in effige, da soli, adornavano le pareti della sala intercettazioni. Sistemò sul tavolo il thermos col caffè preparatogli dalla sua dolce Linda. A quest’ora si stava girando insonne, e lo avrebbe fatto per tutta la notte, nel grande letto nuziale, poverina, dopo tanti anni ancora non riusciva a vincere l’ansia per la sua assenza. Si mise vicino un posacenere e cavò dalla tasca un pacchetto di Muratti vergine. Avrebbe ascoltato, alle ventuno, le acute considerazioni politiche dell’avvocato romano. Alle ventidue le raccomandazioni mediche del dottor Polito. Alle ventiquattro i pettegolezzi della domestica sudamericana. Alle quattro di mattina avrebbe accartocciato il vuoto contenitore delle sigarette americane, buttato le cicche dal posacenere e, lasciandosi sostituire dal collega del turno successivo, sarebbe corso a placare l’ansia e le voglie, sorprendentemente adolescenziali, di Linda. Perché i superiori corressero ancora appresso ad un vecchio arnese come don Vincenzo, ormai novantenne, non riusciva a comprenderlo. Stava per accendersi la terza sigaretta, aveva già sorseggiato il primo caffè, quando il nastro imprigionò la voce morbida dell’avvocato Asi. Questi, come sempre, iniziò a denigrare la politica capitolina. I grandi uomini declinavano al tramonto e pullulavano giovani politicanti arrivisti. Quanta nostalgia per quel mondo fatto di devoti alla repubblica, ormai finito. Un mondo del quale egli aveva fatto parte, essendo stato Senatore della Repubblica, seppure per lo spazio di una brevissima legislatura. Coetaneo di don Vincenzo, l’avvocato Asi, era stato un vero campione dei tribunali nazionali e aveva portato fuori da ogni grana giudiziaria il vecchio boss. Qualche piccola battaglia persa ma la guerra vittoriosa, si potevano contare in pochi mesi i periodi trascorsi dall’anziano patriarca, ospite riverito, nelle prigioni dello Stato. Il loro non era più un rapporto professionale, sembravano due vecchi commilitoni, rivangavano glorie passate, prossimi ad una fine che tardava a venire. Pugnalati i rappresentanti di tutto l’arco costituzionale, i due vecchi rinfoderarono i coltelli e si diedero affettuosamente la buona notte. Un altro paio di sigarette e qualche sorso di caffè ed ecco il dottor Polito che, premuroso, intimava al vecchio di prendere le medicine per la notte e mettersi a letto. Di una decina d’anni più giovane il medico aveva accompagnato, nella vita, il vecchio, somministrandogli medicine, più per lo spirito che per il corpo, che don Vincenzo

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tranne gli inevitabili acciacchi dell’età avanzata, aveva avuto sempre la salute di un toro e l’unica malattia fisica, di cui realmente soffriva, non se la era mai fatta curare. Se Dio così aveva deciso per lui, così doveva essere. Scoprire il segreto più grande di don Vincenzo non avrebbe fatto guadagnare encomi e promozioni agli sbirri che gli correvano dietro da oltre mezzo secolo. Se anche l’avesse captato, l’orecchio del maresciallo Strano, sarebbe servito a fargli versare addosso il caffè o tutt’al più a terminare con un sorriso le prestazioni alle quali, continuamente, la sua Linda lo sottoponeva. Don Vincenzo Sparta, quello che era stato, e per certi versi lo era ancora, il più autorevole padrino calabrese, era impotente. Ma non a novanta e passa anni suonati, lo era sempre stato. Con donna Agata, sposa di una vita, non aveva mai adempiuto ai doveri coniugali. La moglie si era accontentata di qualche fugace carezza, aveva amato follemente il marito, si era addossata la colpa della mancanza di eredi e vergine lo aveva lasciato vedovo da qualche anno. La sua deficienza fisica lo fortificò invece di indebolirlo. Don Vincenzo si dedicò senza distrazioni all’esercizio del potere. Divenendo, nel suo campo, e non solo, un’autorità indiscussa. Si avviava addirittura a morire di vecchiaia senza pagare pegno per il male fatto. Il dottore era diventato prima un confessore, e poi un suo fedelissimo consigliere. E adesso, che segreti e consigli non servivano più, le medicine erano una scusa per farlo sentire ancora utile. Don Vincenzo ricompensò tale fedeltà con un «Ah, se non ci fosse lei, dottore». E lo mandò a letto contento. Il maresciallo fece un sorriso al Presidente e si accese una sigaretta. A mezzanotte Pilar, la domestica boliviana di don Vincenzo, messo al letto il vecchio, fece la sua consueta telefonata settimanale alla sorella Ines a La Paz. Don Vincenzo non avrebbe mai potuto ringraziare abbastanza l’avvocato Asi per quel regalo. La domestica che gli aveva mandato dopo la morte di donna Agata era divenuta indispensabile. Cucinava, lavava, puliva instancabilmente. Era discreta quasi fosse invisibile, un vero portento. Le sorelle si raccontarono i loro fatti. Come sempre Pilar non smetteva di elogiare don Vincenzo per la generosità di cui la faceva oggetto. Il vecchio non dava mai fastidio, soprattutto adesso che da qualche giorno gli era presa la fissazione dello scrivere e passava intere giornate chino sulla scrivania. Era come se non ci fosse. Finita la telefonata il maresciallo iniziò a redigere il brogliaccio, senza attendere la fine del turno, che era tempo perso. Alle quattro appose l’ora e la firma e lo consegnò all’assonnato collega, per niente contento della sostituzione. «Niente da segnalare» fece. Raccolse il thermos e si avviò verso casa. Da una delle bianche e linde casette che dominavano il paesaggio del quartiere Azul di La Paz, uscì una donnina minuta, in tono con l’ambiente. Salì su una piccola utilitaria e si avviò attraverso gli ampi viali che portavano ai palazzi del potere locale.

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Si fermò davanti a un portone, nell’avenida del Sol. Appiccicò il contrassegno dei laborales sul parabrezza ed entrò in una delle numerose ambasciate che avevano sede nella strada. Una domestica come tante. «Entra Ines», fece la voce, con forte inflessione araba. La donnina si sedette tranquilla davanti all’addetto diplomatico mediorientale. L’indomani un corriere, fornito delle necessarie immunità, lasciò l’ambasciata con direzione Italia. Portava con sé un plico sigillato. Entrai in camera di Sasà, che come spesso accadeva scompariva per qualche giorno facendo ritorno come nulla fosse, quasi avesse passato il tempo a studiare giorno e notte. Prese una lettera e leggendo mi chiese «Conosci Vincenzo Sparta?». La porta era solo accostata. Il salone enorme carico di antichi odori illuminato da tenui luci murarie. Attraversai piano e imboccai le scale. Incrociai lo sguardo triste di donna Agata, che mi scrutò severa da un ritratto attaccato alla parete. Abbassai lo sguardo e mi ritrovai al pianerottolo del primo piano. Avevo di fronte una camera al cui fondo si apriva un’ampia vetrata su una veranda stretta nella morsa delle buganvillee. Mi arrivò in viso una fresca brezza al gusto di gelsomini bagnati. C’era odore di pace, conquistata dopo una cruenta battaglia. L’uomo, chino sulla scrivania, era a metà strada fra me e la veranda. Rappresentava la storia e il mito della mia terra. Il tozzo bastone di gomma affondò con misericordia nella nuca del patriarca che adagiò il mento sopra la propria scrittura. Quasi fosse un colpo di sonno, frequente nelle persone in là con gli anni. Sbirciai per un attimo quei pensieri brevi, concisi, simili a note di servizio. Una calligrafia elegante, quasi solenne. Presi manoscritti e penna del boss e li sostituii con altrettanti quaderni e penna. Gli risollevai il capo e lo appoggiai alla spalliera della sedia. Scavalcai la ringhiera del balcone e misi i piedi nei pioli della scala che Luciano, preciso, aveva già appoggiato al muro. Trassi fuori dalla sacca la doppietta Bernardelli con calcio e canne segati. Tirai insieme tutt’e due i grilletti del fucile… senza gioia. Diciotto pallettoni colpirono contemporaneamente il viso di don Vincenzo, che quasi decapitato tornò al Creatore in una fresca e profumata sera d’estate. Dopo meno di un’ora percorrevamo l’autostrada in direzione nord. Mi misi alla guida, Luciano accese una piccola pila e iniziò a leggere le memorie del vecchio. Avevo promesso a Sasà di distruggere tutto senza guardare, e infatti io non lo feci. Andavamo veloci, Luciano in compagnia del defunto boss e io con un vivissimo boss del rock, che dalla radio intonava le note di Born to run. L’autostrada iniziava a essere piena di figli dei boschi. A migliaia la inondavano, soprattutto di notte. Ne riempivano le corsie spingendo al massimo potenti vetture con le quali attraversavano la penisola e il continente.

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Eravamo tutti simili, mossi irrefrenabilmente da una forza spropositata che ci portava a sostituire gli ormai spenti napoletani e siciliani, che ci avevano preceduto. Si formavano capannelli nelle stazioni di servizio. Giovani si offrivano a vicenda i caffè, si abbracciavano e si scambiavano indirizzi. Correvamo incontro alla tragedia senza coscienza, convinti di conquistare il mondo. E invece, ci lasciammo depredare il futuro. Quella sera non ci fermammo a salutare gli altri ragazzi. Non dovevamo essere visti. E riempimmo il serbatoio con le taniche collocate nel cofano. Ero perso nei miei pensieri e non avevo badato al tempo, vidi il cartello Attigliano e subito la spia della benzina si accese. La mano di Luciano mi abbrancò la spalla, le unghie mi segnarono la pelle. Lo guardai ora per la prima volta da quando mi ero messo alla guida, frenai di colpo, era pallido e sudato. Gli chiesi se stesse male, strappò due striscioline di carta dai manoscritti e scese. Riempì il serbatoio e con la benzina rimasta inzuppò i quaderni e gli diede fuoco. Risalì, non stava male, era terrorizzato. «Siamo fottuti» disse. Si accovacciò sul sedile e dormì profondamente fino a Milano. Arrivati in città andammo a letto e a pomeriggio inoltrato incontrammo Luigi e Sasà. Facemmo un giro per le vie del centro e la sera cenammo al Frassino, uno dei più lussuosi locali cittadini. Eravamo allegri, come sempre quando eravamo insieme. Tirammo tardi e prima di andare a letto Sasà disse che sarebbe mancato qualche giorno. «Sai la novità» fece Luigi. E invece la novità c’era, perché la mattina salì in macchina con me al fianco. Mi diede dei documenti falsi, ecco dove erano finite le foto che aveva voluto tempo prima. Divenni, io Luca Marra, e lui Xavier Ordonnez. La macchina, con targa spagnola della provincia di Almeria, era sotto gli ippocastani di viale Romagna. Per la prima volta varcavo la frontiera dell’Italia. Anzi, ne attraversavo due in un viaggio solo. Arrivammo in Spagna e iniziammo a discenderla, Girona, Barcellona, Tarragona, Castellon, Valencia, Murcia, Almeria. Ero eccitato come un bambino al luna park. A Badora lasciammo l’autovia, non ci credevo, stavamo risalendo la Sierra Nevada le cui cime superavano abbondantemente i tremila metri. Come avrei voluto che Luciano fosse con me in quel momento. Arrivammo, a notte inoltrata, in un piccolo villaggio di pastori, Larcal, collocato in cima a un costone roccioso a quasi duemila metri d’altezza. Xavier imboccò sicuro le strette stradine del paese e spense il motore, parcheggiando dietro una piccola casupola bianca ai margini dell’abitato. Aprì tranquillo la porta e chiamò forte «Alberto». Si accese la luce e un omino ci venne incontro. Abbracciò forte Xavier e strinse la mia mano. Rifiutammo l’offerta di cibo e andammo insieme a dormire.

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Pensavo di avere chiuso gli occhi da poco quando il pastore comparve sorridente sull’uscio reggendo un vassoio col caffè. Lo assaggiammo appena, aprii il mio zaino e tirai fuori moka e caffè italiano. Alberto apprezzò molto la bevanda a lui sconosciuta. Saremmo saliti al suo ovile, avremmo mangiato in montagna, il rientro era previsto per la sera. Misi sulle spalle lo zaino con l’occorrente per la giornata e uscimmo nel buio della Sierra. Imboccammo un sentiero e cominciammo una salita che intuii, subito, essere maligna. Vidi il sorriso sul viso di Alberto e capii. Era un gioco che avevo fatto decine di volte in Aspromonte, il gioco preferito dei montanari solitari, quando pensavano di trovarsi di fronte a cittadini inesperti. Consisteva in questo, si teneva un passo troppo sostenuto anche per il montanaro, per quattro cinquecento metri. Si parlava e si scherzava come se l’andatura fosse da passeggio, il malcapitato cercava di dimostrarsi all’altezza, stringeva i denti e scarpinava. Inevitabilmente andava in debito d’ossigeno, le gambe diventavano legno, e la passeggiata diventava un calvario. Il montanaro riprendeva l’andatura normale, ma le gerarchie erano stabilite. Alberto partì a razzo fischiettando felice. Guardava avanti aspettando un’implorazione. I suoi sensi gli dicevano che ero sempre dietro. Superò i cinquecento metri, strinse i denti e continuò ridendo da solo. Quando superammo il chilometro si girò di scatto e mi guardò, «Come si chiamano i tuoi monti?» chiese. Ci abbracciammo e riprendemmo ad andatura umana. Rischiarava, iniziai a osservare l’ambiente, era bello, ma gli alberi non svettavano giganteschi. I cespugli non superavano le caviglie, la salita era dura ma liscia, nonostante l’altezza erano montagne facili. Attraversammo una radura ricoperta di piantine che con orrore identificai in origano. Non profumava ed era alto un quinto del nostro. Noi chiamavamo tutto quello che era più piccolo, o meno bello del normale malgioglio. Nonostante l’altezza, e dopo averla osservata tutto il giorno, definii la Sierra Nevada malgioglia. Arrivati all’ovile non mi sorpresi di trovarvi un gregge di pecore, non erano posti da capre quelli. Mi divertii lo stesso, aiutai Alberto a mungere, a cagliare il formaggio e a cuocere la ricotta. A due per volta uscirono dal bosco uomini in tenuta mimetica, abbracciavano Sasà, si dicevano qualcosa in arabo e mi salutavano con un leggero inchino. Erano tutti giovani, fra i venti e i trent’anni, tranne un uomo barbuto sulla quarantina. Erano armati con pistole che dal calcio identificai in Llama 9x19 parabellum e pesanti fucili d’assalto francesi, Famas calibro 223 remington. Ci sedemmo insieme a mangiare il latte e la ricotta. Iniziarono a scherzare fra loro e a tempestare di domande Sasà, che rispondeva a tutti ridendo a più non posso. Consumata la colazione Sasà si appartò col più anziano del gruppo, e gli altri, vinta la timidezza, incominciarono a bersagliarmi di domande.

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Alcuni parlavano l’italiano e facevano da interpreti a tutti. Avevano mille curiosità. Iniziarono col calcio, poi le donne, il cinema, la moda. Erano persone semplici, calorose, ma anche dei soldati e in perfetta forma. Con Alberto l’intesa divenne perfetta, partì tranquillo per portare il gregge al pascolo lasciandomi padrone della cucina. Fu sacrificato un giovane agnello per riempire tutte quelle bocche. I ragazzi mi guardavano esterrefatti mentre uccidevo, scuoiavo, tagliavo e cucinavo l’agnello, che finì in un pentolone. Due pomodori, due peperoncini, qualche cipolla, basilico, sale e olio. Dopo quarantacinque minuti di fuoco la carne era al punto. Fu un pranzo allegro, la sera ci lasciammo con tristezza. Ai ragazzi regalai lo zaino pieno di pasta, caffè, zucchero, pelati e altri prodotti italiani. Rimasero nel bosco a salutarci con le mani in aria. Tornammo a Milano euforici portando notizie positive. Sasà spiegò che il più era fatto, con me dovevamo fare un ultimo viaggio. Luciano e Luigi avrebbero iniziato a contattare tutti i paesani per garantirsene la disponibilità. Qualche settimana e si cominciava. Con nuovi documenti, dopo uno scalo ad Atene, sbarcammo all’aeroporto di Heraklion. Noleggiammo un piccolo fuoristrada e ci dirigemmo verso Sitia, nella parte orientale di Creta. Uscimmo a Olos, anche questo un paesino di pastori. Ci inerpicammo per uno stretto sterrato che finiva in un ovile, questa volta di capre. Il pastore si chiamava Dimitri, ma era in realtà un arabo. Parlarono fitto per alcune ore e si salutarono visibilmente soddisfatti. «Dobbiamo solo aspettare» mi disse in macchina Sasà. Rientrammo in Italia col traghetto e raggiungemmo Milano in treno. Affittammo due appartamenti intestandoli a prestanome, uno in zona Corvetto e uno dalle parti di Corso Sempione. E iniziammo l’attesa. Sasà faceva ogni tanto qualche telefonata e usciva silenzioso dalla cabina pubblica davanti alla quale eravamo in fila io, Luciano e Luigi. I figli dei boschi se ne andavano sempre più delusi, rinviati di giorno in giorno. In quel periodo tutti volevano la scura. C’erano migliaia di ragazzi impegnati ad annientarsi. Il mercato dell’eroina era diviso in mille rivoli, i trafficanti più grossi movimentavano venti, trenta chili al mese, al massimo. Rifornivano tutti piccoli trafficanti turchi, che in realtà, ci spiegava Sasà, erano kurdi di passaporto turco. I prezzi praticati erano di cinquanta, cinquantacinque milioni al chilo al primo passaggio. La merce era spesso di bassa qualità, i rifornimenti erano discontinui. Arrivò, dopo venti giorni, il gran momento. Sasà ci travolse uscendo dalla cabina telefonica euforico. Noleggiammo un furgone, con falsi documenti. Comprammo una decina di capienti borsoni e il giorno dopo entrammo, tutt’e quattro, nel capannone di una piccola azienda brianzola. Ne uscimmo con duecento chili di scura, di una qualità e quantità mai vista prima dai calabresi.

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I turchi pretendevano quaranta milioni al chilo. Avevamo sulle spalle un debito di otto miliardi di lire. «Due miliardi a testa» calcolò rapido Luigi. Invece di spaventarci, la situazione ci galvanizzava. Lavoravamo esclusivamente con calabresi. Di prima mano. Gente di cui conoscevamo le storie e le famiglie. Persone sicure. Passavamo la roba a quarantacinque milioni, guadagnando cinque punti a pacco. Spazzammo via la concorrenza. Era merce portentosa, che andava unocinque, uno-sei. Significava la possibilità di tagliare un chilo cinque-sei volte. Impensabile sino ad allora. I primi quindici giorni consegnammo metà della merce ma rientrammo di soli quattrocento milioni. Sasà li portò immediatamente ai turchi. Pochissimi avevano soldi da anticipare, solo i boss dei pungiuti pagavano in contanti utilizzando i soldi accumulati con i sequestri, e i calabresi non erano ancora in grado di smaltire grosse quantità. Alla terza settimana le cose cambiarono. I ragazzi arrivavano contenti, con buste di plastica piene di soldi. Prima che il mese finisse, in anticipo sui patti, i turchi incassarono tutti gli otto miliardi richiesti e ripassammo dopo una settimana a far visita all’azienda brianzola per prelevare un carico doppio rispetto al precedente. Iniziammo a organizzarci meglio. Affittammo diversi appartamenti in zone differenti. Ci facemmo preparare una decina di auto, doppioni di vetture circolanti intestate a persone ignare, dalla limpida fedina penale. Altrettanto facemmo con patenti e documenti di identità, ufficialmente non esistevamo. Da ufficio ci facevano i bar dei quartieri cittadini. Ci si piazzava in una via e si frequentavano tutti i bar della stessa, per non scontentare nessuno. Qualcuno di noi era sempre reperibile in uno di quei locali. Ci si vedeva, coi clienti, sempre di persona senza mai usare il telefono. Si chiacchierava, si beveva e si fissavano i luoghi e l’ora degli appuntamenti. Le consegne avvenivano in tutt’altra zona. Si stava nella stessa via uno o due mesi e poi ci si spostava. Dovunque andassimo si formavano processioni di persone che venivano a trovarci. La gente dopo un po’ capiva, ma il barista quando saldavamo il conto, la sera, si trovava l’incasso raddoppiato senza contestazioni sul numero delle consumazioni. Gli sbandati che davano fastidio dopo un po’ giravano al largo. Milano amava noi e tutti i ragazzi come noi. Era troppo piena di padri di famiglia con scadenze incombenti, persino tra i ragazzi delle volanti dei Carabinieri o della Polizia. Chiunque avesse avuto un problema trovava in noi un aiuto, perdevamo il conto dei prestiti fatti senza ritorno. Chi faceva i soldi con le fabbrichette li portava in Svizzera o li spendeva nei circoli riservati. Noi li lasciavamo in giro per la città. I calabresi inondarono Milano di miliardi, distribuendo bocconi a tutti. Fu per un lungo periodo una luna di miele.

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La droga non era considerata un problema, i nuclei investigativi di tutte le forze, impegnati per decenni in chiave anti terroristica o anti sequestri, non vedevano nemmeno, o non dovevano vedere, il fenomeno. Anzi, in termini statistici i reati diminuivano enormemente. Rapinatori, sequestratori, ladri, truffatori si convertivano a quel commercio. Alla fine che capacità serviva per passare di mano in mano un pacco e tornare a casa con le tasche piene? Il lavoro si faceva solo di giorno e dal lunedì al venerdì. La sera gli ex montanari riempivano ristoranti, discoteche, locali notturni. Erano i clienti migliori, non badavano a spese, e non si limitavano certo a mangiare una pizza o a bere una birra. Ogni gruppetto dei ragazzi che si servivano da noi aveva una corte al seguito, nella quale trovavi gente di ogni ceto sociale, in una commistione ormai generalizzata. Conoscevamo gente in ogni ambiente cittadino e nessuno si chiedeva chi eri ma solo come vestivi, l’orologio che portavi, la macchina che guidavi, quanti soldi avevi in tasca. Smistavamo adesso la media di mille chili al mese, che tagliati significavano cinque-seimila chili di polvere scura immessi sul mercato, e centinaia di miliardi in arrivo in città. Al nostro tavolo si sedevano politici, magistrati, poliziotti, medici, giornalisti, attori e anche qualche prefetto. L’elenco era infinito. E mentre una parte della città aveva voglia di morire, una fetta, sempre maggiore, voleva vivere, e alla grande. L’attività andava avanti, e a gonfie vele, da molti mesi ormai, quando iniziammo a frequentare i locali di via San Marco. Quel giorno avevamo parecchi appuntamenti importanti, saltarono tutti. Eravamo seduti a un tavolo, Luciano e io, intenti a leggere i quotidiani. Vedemmo entrare due carabinieri, uno con i gradi di maresciallo e l’altro in divisa da sottotenente. Non ci allarmammo, non ci avevano mai dato fastidio. Quelle facce erano nuove, l’ufficiale incrociò il mio sguardo, mi morsi le labbra e abbassai gli occhi. Avevo commesso un errore imperdonabile. Gli sbirri sono simili, per natura, ai malacarne. Quando ne incroci uno non devi porgergli gli occhi, ci si legge a vicenda l’anima ed è inutile che tu sia ben vestito e ben curato e abbia l’aspetto del bravo ragazzo. Ti indovinano subito il male in corpo. Avevamo documenti falsi ed eravamo armati, come al solito. Sentivo l’ufficiale perquisirmi mentalmente. Chinai sempre più il capo, fu tutto inutile. Come immaginai sin dal primo momento, il sottotenente arrivò al tavolo, da solo. «Signori, i documenti, per cortesia». Glieli porgemmo senza alzare la testa. Lesse ad alta voce i nomi e quando declinò la professione «Rappresentanti di commercio», lo fece con sarcasmo. Guardai verso l’uscita, erano arrivati Luigi e Sasà, qualcuno dei ragazzi li aveva avvertiti. Si piazzarono di fianco al maresciallo, davanti al bancone, questi beveva il suo aperitivo in assoluta tranquillità. «Mi sembrate piuttosto due caprai puzzolenti». Il sangue si fermò, la mano corse alla CZ 75 lasciatami dal povero Sante Motta.

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«Pensate sempre di essere invisibili, invece vi ho visti oggi. Così come vi vidi il giorno dei morti davanti alla tomba di mio padre, te, Luciano e Luigi». Il solo pensare a quel giorno mi fece venire le lacrime agli occhi, alzai la testa. Era il figlio di Sante. Il piccolo Santoro. I suoi occhi erano umidi, così come quelli di Luciano. Luigi e Sasà non sapevano più cosa fare, credevano di sognare. Vedevano tre coglioni grandi e grossi, per giunta guardie e ladri, piangere come bambini, solo il maresciallo restava impassibile. Passò la commozione iniziale e divenni serio. «Sei uno sbirro, adesso?». «Solo fuori», rispose. «E quello?», indicai il maresciallo. «Lo stesso». La sera andammo a cena insieme, mancava Sasà partito come al solito per qualche giorno. Santoro ci raccontò di come era diventato carabiniere. Dopo la morte di Sante si era sentito perso, non ci aveva più visti, non conosceva nessuno. Erano stati momenti duri. Era convinto di dover fare da solo si arruolò con la certezza che in quel modo avrebbe potuto vendicare il padre, e non con le manette. «Pensavo aveste dimenticato mio padre, poi ho sentito di don Vincenzo Sparta e d’istinto ho capito. Sulla sua morte nemmeno i confidenti avevano informazioni, era un fatto di cani sciolti e voi di questi siete i re». Era nato e cresciuto in pianura, pensavamo fosse un milanese, invece dentro restava un figlio dei monti, come Sante, come noi. La richiesta di Sasà, per don Vincenzo, aveva solo accelerato una decisione già presa. Nessuno avrebbe potuto toccare uno come Sante senza il consenso del vecchio patriarca. Quello, nella mia testa e in quella di Luciano, era il primo sangue del tanto che avrebbe dovuto scorrere per vendicare Sante. Non potevamo e non volevamo dimenticarlo, scorreva nelle nostre vene lo spirito della più grande anima nera nata in Aspromonte. Santoro l’aveva capito e per mesi ci aveva cercato inutilmente. Casualmente quel giorno ci aveva incontrato nel cuore della Milano bene, a due passi dal suo ufficio alla Moscova. Eravamo ombre inafferrabili, ma in piena luce. Frequentavamo gli ambienti migliori, le persone più in vista e nessuno sapeva chi realmente fossimo. Eravamo clandestini ma vivevamo a fianco e con i milanesi. Di ogni estrazione. Potevamo in qualsiasi momento caricarci gli zaini in spalla e rientrare nei boschi e nessuno più ci avrebbe visti. Noi là non c’eravamo mai stati. Santoro, come era stato per il padre, portava il cognome della madre, milanese da generazioni, così nessuno sospettava il suo passato. Aveva sposato la biondina, fidanzata da sempre, con la quale l’avevamo visto crescere, che ora faceva l’uditore giudiziario al tribunale cittadino. Parlammo di tutto con lui, e senza riserve, aveva il mio stesso sangue, era mio cugino, il figlio di Sante Motta. Dopo qualche giorno andammo a trovare Anna, la madre di Santoro. Ci accolse come figli, non si era risposata, né mai l’avrebbe fatto, aveva la casa piena di foto del marito. C’eravamo anche noi in quelle delle vacanze di Natale passate fra i nostri monti. In una

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si vedevano tutti gli uomini ubriachi, compreso il vecchio Bino, mio padre, Sante e il consigliere socialista. Conosceva i nostri gusti Anna e ci fece trovare il capretto ordinato da Peck. All’ora di cena suonarono alla porta e fece il suo ingresso il consigliere socialista. Ne aveva fatta di strada. Adesso era deputato nazionale con incarico di sottosegretario, il suo affetto e quello della moglie non erano mai mancati alla famiglia di Sante. Alzammo il prezzo di un punto a pacco per destinarlo a Santoro e al suo fido maresciallo. Fra di noi facevamo cassa comune e i conti li teneva Luciano, un quinto del ricavato andava agli arabi amici di Sasà che erano i garanti e rendevano possibile l’operazione. I miliardi, che diventavano troppi, li dividevamo fra i diversi appartamenti in giro per la città. Il sottosegretario ci volle presenti a una festa per introdurci, disse, nella Milano che in quel momento contava di più. Ci presentava a tutti con gioia, come suoi collaboratori. Quella sera era attesa un’affascinante contessa spagnola che al momento teneva uno dei più ambiti salotti meneghini, sposata in seconde nozze da un luminare della cardiochirurgia vascolare, proprietario di una prestigiosa clinica milanese. Al suo ingresso le si fece intorno un capannello, doveva essere veramente importante la signora. Quando la folla si diradò, Rino, il nostro ospite, ci presentò alla nobildonna. Una bellezza esotica, anche se non strepitosa, che lasciava immaginare eccezionali capacità amatorie. Donna Natalia ci salutò impassibile, solo di fronte a Luigi un leggero sorriso le corse fuori dalle labbra, impercettibile a tutti. Ovviamente non ci fu un solo minuto in cui trovarla da sola. Al momento dei saluti ci mise in mano il suo bigliettino da visita, con meraviglia di tutti, perché era straordinario che Natalia desse tanta confidenza alla prima presentazione. L’anticamera per entrare nelle sue grazie era normalmente molto più lunga. Di tanto in tanto la incontravamo a qualche festa e spessissimo andavamo a trovarla in privato. Ne aveva fatta di strada la gitana andalusa dai tempi del Valenciano, del pappone siciliano. Ridemmo di gusto nel ricordare l’avventura sul rapido per Milano. Il lenone che alleggerimmo di tutti quei soldi, tanti per l’epoca, non sospettò mai di Natalia. Con la sua parte di soldi aveva rilevato un alberghetto attraverso il quale erano passate le voglie e i vizi di tantissime persone importanti, si era fatta sposare dal professore e ricoprire di una rispettabilità che nessuno voleva e poteva mettere in dubbio, tanti ne teneva in pugno. Il bordello non lo aveva mollato, per scaramanzia diceva, lo faceva gestire da una socia e lei passava di festa in festa. Ci descrisse quel mondo, popolato da ogni genere di individui. Pochi erano i veramente ricchi, la maggior parte viveva vite che non si poteva permettere. Case troppo grandi,

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ville al mare e in montagna, amanti per lui e lei, quasi sempre vicini al collasso economico. E lei generosa li assisteva, facendosi ovviamente rilasciare cambiali, assegni in bianco, pegni e ipoteche. Non le spiegammo il nostro lavoro, ma le quantificammo la nostra liquidità e ci aiutò a sistemarla. In quel periodo arrestarono Tonino, un ragazzo a cui eravamo molto affezionati. Lo beccò la narcotici della Polizia mentre consegnava trenta pacchi a dei napoletani. La notizia fece clamore, era un sequestro ingentissimo per l’epoca. Da un test preliminare, operato dalla scientifica, la polvere risultava essere eroina. Del tipo brown sugar. Con una percentuale di purezza nel grado massimo ottenibile. Vista l’evidenza della prova, la flagranza del reato, Tonino insieme ai napoletani fu portato in giudizio nel giro di qualche mese. Il collegio, anche su richiesta della difesa, predispose una perizia sullo stupefacente sequestrato e conferì mandato a un farmacologo. I difensori nominarono i consulenti di parte e l’udienza fu differita del tempo necessario per espletare gli esami. Tra i tanti ad attendere che la scorta della Polizia Penitenziaria uscisse fuori dall’aula, per salutare Tonino, eravamo presenti anche io e Luciano. Dall’altro lato del corridoio c’erano gli operanti della squadra mobile, loro avevano condotto l’operazione. Ci guardavano con un sorriso maligno pieno di soddisfazione, qualcuno li insultò e si sfiorò la rissa. Riuscimmo a defilarci prima di essere fermati per l’identificazione. All’udienza successiva ritrovammo gli stessi poliziotti, con la solita aria beffarda. Questa volta, però, avevamo passato la voce così, a parte me e Luciano, non c’era nessuno in aula fra il pubblico. Il perito del tribunale si accomodò davanti ai giudici, declinò generalità e credenziali, il cancelliere lo fece giurare. Descrisse preliminarmente lo svolgimento delle operazioni. Prelievo a campione su alcuni degli involucri sequestrati, tipo di analisi, affidabilità delle stesse, numero delle ripetizioni e giunse alle conclusioni. La sostanza era un composto di fruttosio, glucosio, rabarbaro e gingseng. Ad un’analisi superficiale aveva colore, odore e consistenza simile all’eroina ma, nella realtà scientifica, risultava totalmente priva di principi attivi allucinogeni e vietati. Si trattava di un prodotto altamente drenante, ottimo per le diete ipocaloriche. Tonino urlò dalla gabbia «Presidente l’ho detto subito ai poliziotti che volevo fare un bidone». Il P.M., sull’orlo di una crisi di nervi, «Chiedo che la perizia venga ripetuta, con prelievi operati in tutte le confezioni e l’esperto dell’Accusa vi presenzi». Le difese si opposero, chiesero la scarcerazione dei loro assistiti. La Corte accolse le richieste del Pubblico Ministero, respinse le istanze difensive e rinviò l’udienza. Fuori dall’aula il magistrato sfogò la rabbia compressa sputando veleno addosso ai poliziotti, che smisero il sorriso e abbassarono la testa. Il rinvio fu inutile. I periti, compreso quello del P.M., confermarono l’esito precedente e Tonino lasciò l’aula da uomo libero. Un amico di Natalia aveva provveduto a far visita al consulente del tribunale, e il maresciallo di Santoro era passato con una pesante valigia dall’ufficio corpi di reato del Palazzo di giustizia.

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Ci ritrovammo in tanti a festeggiare la scarcerazione di Tonino, in una discoteca tra le più in voga nella quale avevamo una partecipazione. Erano ancora tempi felici. Il lavoro che facevamo era pericoloso, ma da tempo non facevamo nulla di veramente eccitante. Sasà ci volle tutti e tre per uno dei suoi viaggi, era il mese di ottobre. Arrivammo di sera, in macchina. Parcheggiammo sotto un elegante condominio, a qualche isolato da Marienplatz, Monaco di Baviera. La città era in festa, incontravamo gente ubriaca dappertutto. Nell’appartamento, molto vasto, completamente vuoto, trovammo quattro dei ragazzi che avevo conosciuto sul massiccio della Sierra Nevada. Non c’erano letti in casa e anche noi dormimmo nei sacchi a pelo, come ai vecchi tempi. L’indomani, a sera, raggiungemmo un piccolo posto di frontiera, posto alla fine di un ponte che attraversando il Reno collegava la Francia con la Germania. I doganieri non vi lavoravano da vent’anni, ma ufficialmente, la frontiera, era ancora attiva. Gli uffici venivano puliti ogni mattina e il cartello con il limite di 10 km l’ora era ben visibile e rispettato da chi entrava in Germania. Entrammo in sei e ci piazzammo ognuno ad una vetrata. Luigi e un arabo restarono fuori su due auto, a venti metri di distanza l’una dall’altra. L’obiettivo era un politicante arabo che si divertiva ad andare in giro e deridere usi e costumi del suo paese e definire dittatori guide illuminate. Anoi non interessava la motivazione, quello che riguardava uno di noi era un problema comune a tutti. Sarebbero stati in tre. Su un fuoristrada blindato. Le due macchine l’avrebbero chiuso impedendone la fuga e il fuoco concentrato di sei potenti Famas avrebbe vinto in poco tempo la blindatura. L’arabo teneva una conferenza, organizzata a Strasburgo sotto l’egida della Comunità Europea, e sarebbe rientrato per quella strada ritenuta più sicura. Un leggero ronzio delle ricetrasmittenti ci avvertì, tutt’e otto, dell’arrivo dell’obiettivo. Luigi chiuse in modo perfetto il pesante Range Rover che procedeva a passo d’uomo rispettando il limite imposto. E Yussuf incollò al posteriore dell’auto la seconda vettura. I sei pesanti fucili d’assalto vomitarono fuoco sui cristalli blindati che opposero una breve resistenza. Le pallottole entrarono nell’abitacolo e dilaniarono carni, ossa e organi degli occupanti. In quel frastuono, assordante, nessuno udì il suono allarmato delle ricetrasmittenti. Stava succedendo qualcosa che mettemmo a fuoco dopo alcuni secondi. Ci sparavano addosso. Due uomini erano comparsi all’improvviso, avevano messo fuori combattimento Yussuf e Luigi e ora tiravano contro di noi. La reazione fu rapida e le due guardie del corpo si ritrovarono crivellate di proiettili. Ma il bilancio fu pesante. Luigi e Yussuf restavano immobili sulle macchine. Sasà e un altro erano stati salvati dai giubbotti antiproiettile. Le informazioni erano sbagliate, l’auto non viaggiava da sola, era seguita a breve distanza da una vettura di scorta.

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Uscimmo dagli uffici col cuore in gola. Corsi da Luigi, era solo intontito, la pallottola l’aveva colpito in pieno petto comprimendogli il torace. Il giubbotto aveva retto. Aveva riportato una ferita alla caviglia, era salvo. Yussuf aveva un foro mostruoso allo zigomo sinistro. Perdeva sangue dal naso e dalla bocca, si vedevano piccole scagliette bianche d’osso. Il colpo era stato sparato a bruciapelo così la polvere da sparo aveva terminato la combustione sul viso, bruciando pelle e capelli. La brevissima distanza non aveva permesso al proiettile di acquisire la massima velocità e penetrazione, non c’era fuoriuscita di materia cerebrale, la ferita non era profonda, piuttosto rischiava di rimanere soffocato dal suo sangue. Aprì gli occhi e mi fissò. Era smarrito. Non voleva morire. Almeno non così lontano dal suo deserto, era troppo giovane. Dovevamo decidere, e in fretta. Lasciarlo là a morire e metterci subito al sicuro, o rischiare. Tirammo fuori Yussuf. Lo stendemmo sul sedile posteriore di una delle altre due macchine con le quali eravamo arrivati, e lo sentimmo respirare meglio. Luigi arrivò da solo, saltellando su un piede, si sedette davanti. Mi misi alla guida, gli altri cinque salirono sulla seconda vettura. Percorremmo un centinaio di chilometri in direzione sud e ci fermammo in un’area di parcheggio deserta. Dovevamo arrivare a Milano per cercare di salvare il ragazzo, la via più breve era attraverso la Svizzera, il rischio altissimo. Ci togliemmo armi e giubbotti, ci ripulimmo alla meglio, lasciammo i tre arabi che erano perfettamente in grado di cavarsela da soli anche in quella situazione, e partimmo. Davanti Sasà e Luciano, io dietro guidando la macchina con i feriti dentro. All’ultima area di servizio, prima del confine, comprammo le vignette adesive del pedaggio autostradale e le incollammo al vetro. Varcammo la frontiera a Basilea, i doganieri ci guardarono quel tanto necessario a verificare la presenza dell’adesivo. A Chiasso la fortuna sembrò abbandonarci. Gli svizzeri restarono chiusi nei gabbiotti, ma quattro o cinque finanzieri, italiani, stavano controllando una decina di macchine, disposte su due file parallele. Sasà si incolonnò nella fila di sinistra e io al suo fianco, a destra. Non avevamo armi con noi e tentare la fuga era impossibile. Le operazioni andavano a rilento, i militari chiedevano i documenti agli occupanti e facevano aprire il vano bagagli. Restavano due macchine davanti a noi, attendevo il peggio. Fine corsa. Illusi. Sasà abbassò improvvisamente il finestrino e iniziò a sbraitare con voce alterata, da ubriaco. Fece per scendere e i finanzieri circondarono l’auto in un attimo. Fecero segno a tutti, me compreso, di allontanarsi. C’erano cascati come pivelli. L’ultima immagine che vidi fu quella di Sasà che si divincolava come in preda a un attacco epilettico. Arrivai in piena notte a Milano, buttai dal letto Natalia. La spagnola svegliò il professore e si attaccò al telefono. Nella villa era stata installata una piccola sala operatoria fornita di tutto punto, con una stanzetta di degenza attigua.

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In attesa della sua equipe il dottore medicò velocemente Luigi e gli somministrò un antidolorifico. In meno di mezz’ora arrivarono un anestesista, un chirurgo maxillofacciale e un infermiere specializzato. Portarono dentro Yussuf e uscirono dopo quattro ore. Fu il turno di Luigi che se la cavò in una ventina di minuti, gli applicarono qualche punto di sutura e un’ingessatura leggera. Natalia congedò l’equipe con tre assegni da cento milioni l’uno, non accettò mai il rimborso che in seguito le offrii. Dopo una notte passata in cella, il giorno dopo, ricomparvero Luciano e Sasà, erano un po’ malconci, avevano rimediato un bel numero di calci e una denuncia per resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale. O meglio, le botte le portarono a casa loro, la citazione in giudizio la ebbero, increduli, il signor Marzio Ripa, impiegato delle poste, e Alfredo Rizzo, barista alla stazione centrale. Dopo una quindicina di giorni Yussuf riprese forze sufficienti per lasciare il piccolo ospedale della villa. Sasà voleva portarlo via, ma lo convinsi a lasciarlo ancora qualche giorno a casa mia. Me lo scarrozzavo per Milano, lo riempii di regali, lo portai allo stadio, nei locali più belli, non era mai stato così felice in vita sua. Ce lo coccolavamo tutti come un fratellino piccolo, spesso ci ritrovavamo tutti insieme a casa mia, restavano tutti a dormire. Eravamo simili noi e loro, guerrieri venuti dal passato, con la differenza che la loro guerra aveva la condivisione di tutto un popolo; io, Luciano e Luigi conducevamo invece una battaglia privata, a vantaggio solo di noi stessi. Una sera all’ora di cena il canale nazionale trasmise un programma d’inchiesta. Nel primo servizio comparve un leader arabo molto noto in occidente. Alla conclusione dell’intervista Luigi, credendo di far piacere a Sasà e Yussuf, espresse il suo apprezzamento incondizionato al personaggio. «È un mito». «È un venduto, e i favori che questo Stato gli ha concesso hanno portato lutti e dolori alle madri italiane» fece Luciano. Ci fu qualche secondo di gelo. «Sembra che tu sia nato al Pentagono, sai sempre tutto», intervenne ridendo Sasà a riportare l’allegria che accompagnava sempre il nostro stare insieme. Era così Luciano, in qualsiasi campo, qualunque fosse l’argomento, lui tirava fuori all’improvviso una sua verità bruciante, quasi sempre difficile da contestare, a volte sembrava lo sciamano di un’antica tribù, prediceva il futuro. Stavolta era diverso, non aveva fatto deduzioni, sapeva, e Sasà lo colse. Era arrivato dicembre, e dopo diversi rinvii Sasà divenne irremovibile sulla partenza di Yussuf. Decidemmo che potevamo chiudere per ferie e lo accompagnammo, carico di regali e con le tasche gonfie, in macchina. Lo vedemmo salire disperato su un peschereccio nel molo marittimo di Porto Empedocle. Sarebbe stato rimpatriato, con quel ricamo in faccia non poteva andare più in giro per l’Europa.

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Avevamo deciso di passare tutti insieme le vacanze natalizie giù al paese, e al ritorno dalla Sicilia andammo direttamente a casa mia. Mio padre abitava sempre nella stessa casa. Dei soldi che gli mandavamo non toccava mai una lira. Per non tenerli sotterrati fece costruire un villone, intestandolo a me, del quale subito mi consegnò le chiavi. In quella casa prendemmo alloggio tutti e quattro, ci lavammo, ci cambiammo e andammo a cenare dai miei. Trovammo solo mia madre e mio fratello. Mio padre e il vecchio Bino erano ancora in montagna, le mie cinque sorelle vivevano a Roma da anni, dove si erano trasferite per studiare e lavorare. Bino ci saltò addosso e ci abbracciò tutti, in quegli anni eravamo rientrati poche volte e solo per qualche giorno. Dopo la morte di Sante non avevamo più messo piede in montagna. L’indomani facemmo un giro per il paese e lungo i paesi della costa, stava cambiando tutto. Si vedevano belle e grandi case, dappertutto, anche se non completamente finite. Si faceva a gara ad averla più bella degli altri, la casa. I figli dei boschi difficilmente mancavano dai paesi natii, qualunque tipo di vacanza vi fosse, Pasqua, Natale, l’estate. Si ostentava ricchezza, belle macchine, regali, si invitavano amici importanti da sfoggiare in giro. Nessuno si nascondeva o cercava di occultare la reale attività. Nonostante l’origine peccaminosa, quel benessere veniva goduto con divertimento. Nemmeno noi sfuggivamo a quella logica e sebbene nessuno ci potesse far concorrenza, né in soldi né in amicizie, avevamo l’accorgimento di non esagerare. Restavamo nell’ostentazione media o anche sotto, evitando di infliggere umiliazioni a un orgoglio locale che poteva rivelarsi fatale. Restammo in paese qualche giorno, godemmo in pieno della nostra fama, ci salutammo con tutti i ragazzi che iniziavano a rientrare. Rimandammo in tanti, a Milano, per la chiusura di conti da saldare, e ce ne andammo in montagna. Nessuno di noi, ombre in luce, si rendeva conto di quanto eravamo ridicoli e del disastro che portavamo alle nostre terre. Radici che affondavano nei secoli venivano cavate dal terreno e condannate a morte. Anziani rimbecilliti andavano in giro con vestiti Corneliani, tessuti Loro-Piana, orologi e anelli d’oro, parodie dei vecchi pastori che in anni di sudore ed emigrazione non avevano realizzato più di un tozzo di pane per i figli, defraudati dell’orgoglio e dell’autorità di padri. Madri che non erano più le nostre, si erano sciolte le trecce e, dismessi i vestiti tradizionali, il pane lo compravano dal fornaio e le acconciature le facevano dal parrucchiere. Sorelle e figlie, esageratamente truccate, occhiali da sole e pellicciotti improbabili a quelle latitudini, giravano senza sosta per le strade ioniche, per assolvere a chi sa quali impegni, a bordo di macchine con targhe forestiere, speditegli dai parenti che giravano per le strade dell’Europa centrale. Fratelli e figli che crescevano col sogno di imitarci.

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Gli unici a non gioire in questo allegro disastro erano i vecchi piccoloborghesi del passato. Si vedevano sfilare da sotto i piedi tutte quelle masse di zappaterra e pastori che per secoli avevano sfruttato dandogli umiliazioni. I pezzenti da generazioni avevano superato in tutto quei piccoli padroni rurali, che adesso stavano chiusi nei loro salotti demodé a sputare veleno e meditare vendetta. Questi mandavano i figli a studiare legge, li arruolavano nelle forze dell’ordine, li inserivano in politica. Prima o poi avrebbero rimesso le catene a quei caprai puzzolenti e sedato quella rivolta fondata sul malaffare. Quando Luciano veniva posseduto dal demone sociologico diceva «Noi siamo responsabili del male che facciamo, non c’è alibi che tenga, siamo i peggiori nemici di noi stessi. Abbiamo la scelta su come indirizzare le nostre energie, scegliamo la via che ci porta più in fretta al benessere individuale, ma se questi dittatorelli di paese non avessero stretto così tanto le briglie, per secoli, saremmo oggi meno cattivi e disperati. La nostra classe dirigente locale, servendosi anche dei pungiuti, ha detenuto saldamente ogni ricchezza. Gli avvocati sono figli di avvocati e nipoti di avvocati, e così i giudici e i medici, stanno meglio di noi perché hanno avuto antenati più furbi o più ladri dei nostri. Per quello che abbiamo fatto, facciamo e faremo, di un pelino la colpa è anche loro. E adesso che non li riveriamo, non chiediamo loro consigli, non gli portiamo il capretto a Natale, non portiamo le nostre donne nei loro lettoni, non le possono violentare mentre lavorano nei loro campi o nelle case padronali, adesso sono inviperiti e preparano i loro figli a una guerra di riconquista, celando il loro rancido livore dietro principi etici di cui sono i soli portatori». Mi disse un giorno «Quegli sbirri sorridenti che abbiamo visto al processo di Tonino sono figli loro, un povero non sorride mai del dolore altrui. I socialisti assomigliano un po’ ai figli dei boschi, non sono elitari, lasciano le porte aperte al popolo, cercano un pezzo di cielo e vi portano più gente possibile. Amano il potere ma vogliono ostentarlo e goderlo con gli amici. Quando spazzeranno via loro annienteranno anche noi, quando noi cadremo loro ci seguiranno a ruota». Dimenticammo Milano e ci rigodemmo la nostra montagna. Anche Bino si fermava a dormire con noi, si trascinava dietro Sasà dappertutto, non si capacitava che fosse straniero, ché quello parlava solo il nostro dialetto. Aveva un dono Sasà, doveva essere la reincarnazione di un camaleonte. Tu lo guardavi e non potevi dire se aveva venti, trenta o quaranta anni. Il timbro vocale era senza inflessioni linguistiche, l’ho visto diventare spagnolo, tedesco, greco, turco, italiano, calabrese. Aveva una varietà infinita di personaggi da adattare all’ambiente e all’interlocutore di turno. Ma la personalità era una soltanto e fermissima. Era buono, allegro, la stessa razza di Luciano e Sante, e ci amava profondamente, senza finzione. Ma Sante, Luciano e io avremmo sacrificato tutto per ognuno di noi. Sasà e Luigi avevano un limite, per uno era la missione a cui era votato, per l’altro se stesso.

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Passavamo le serate al caldo del focolare, con la pancia che ci scoppiava e qualche bicchiere di vino in più. Quando c’era un ospite nuovo Bino dava sempre il meglio di sé. Gli versavi un po’ di negrello locale e ti portava all’alba, con le mirabolanti storielle che raccontava, giurando continuamente sulla loro veridicità. Attaccò con la storia del Crocco, un famoso brigante che aveva battuto le colline ai piedi dei monti, nel secolo scorso. «Dovete sapere che la fame, qui, era tanta, e inevitabilmente ogni decennio produceva un birbone. Questi terrorizzava con razzie e violenze i padroni per qualche anno, poi finiva appeso a un albero, a marcire al sole, scoraggiando per un po’ gli emulatori. Vincenzo Monteleone era un figlio di questa terra e di poveri contadini che da giovane ebbe l’eccentrica idea di sfamarsi con le bestie del padrone. L’eccessiva buona salute e la piccola prominenza allo stomaco, di cui improvvisamente godette, lo persero. Don Alfonso Barresi, il padrone, gli somministrò una robusta razione di nerbate e, non ancora soddisfatto, lo fece portare dai gendarmi, in catene, al tribunale di Capace, dove a presiedere le udienze c’era l’Eccellenza don GiovanniAndrea Barresi, suo cugino, il più grande proprietario terriero della zona. Il bonario giudice valutò che due anni di ceppi, nei sotterranei della locale prigione, sarebbero bastati al recupero sociale di Vincenzo, e che una volta uscito avrebbe sicuramente ripreso la zappa in mano. Quella terapia dovette essere insufficiente, perché Vincenzo invece della zappa imbracciò il due botte, la doppietta, e iniziò a vivere di rapina. Quando acquisì l’arroganza e il coraggio necessari, passò a trovare don Alfonso e se ne andò lasciandolo in agonia, appeso al gancio di un albero, quel sostegno che in dialetto si chiama crocco. Il possidente all’alba morì e Vincenzo divenne il Crocco. Destino volle che l’eredità, essendo il defunto signorino e senza altri eredi, andasse tutta a rimpinguare il patrimonio già ingente dell’Eccellenza Illustrissima. Il Crocco furoreggiò per anni, incontrastato, in quelle lande affamate seppure fertilissime. Successe, dopo qualche tempo, che un altro signorotto locale rese l’anima a Dio, guardando a testa in giù le sue belle terre, con la caviglia saldamente infilzata al crocco robusto di un ulivo. Non avendo trovato un partito degno di lui anche questo morì signorino e totalmente privo di eredi. Gli zotici, che da generazioni vangavano quella prosperosa terra rossa, si convinsero, illudendosi, di poter accampare dei diritti. Ma ben altri lupi, e più famelici, volevano abbrancare quel grasso boccone. Segretamente, tramite un suo mezzadro, don GiovanniAndrea Barresi contattò il brigante, lo blandì con promesse di grazia certa e di una ricca ricompensa. Il Crocco, sopravvalutando le proprie capacità, abboccò.

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A suon di fucilate annullò le pretese degli zappaterra costringendoli a testimoniare a vantaggio, nella causa per l’usucapione dei beni, dell’Eccellenza Illustrissima che l’aveva promossa. Il giudice volle ricompensare personalmente il brigante dandogli convegno notturno al vecchio convento dell’Artarusa. Il Crocco arrivò felice, sarebbero finiti i tempi della sofferenza, voleva diventare un signore anche lui come il suo illustre amico. Trovò i gendarmi e per un mese la sua testa restò infilzata a un palo nel crocevia vicino al convento. Una buona amministrazione della Giustizia produce sempre eccellenti frutti, sentenziò l’alto magistrato, complimentandosi pubblicamente con il Regio Esercito che aveva liberato la popolazione da quel sanguinario bandito». La morale era che in quelle terre, per secoli, tutt’e due i lati della barricata venivano governati dai briganti. «Zio Bino, ti sei inventato tutto» fece Luigi per canzonarlo. Al ché, il vecchio che di solito andava su tutte le furie, sapendo oramai che le nostre erano solo provocazioni, questa volta rispose a tono. «Tu quel diploma te lo sei comprato». E rivolgendosi a Sasà «domanda a Luciano, che è l’unico ad avere un po’ di cervello e non ho capito come faccia a frequentare certa gente, quale famiglia possiede tutti questi territori e chi amministra la Giustizia in Tribunale». Lo sguardo di assenso di Luciano lo inorgoglì. Qualche giorno prima di Natale Luigi ci lasciò per andare a sistemare gli ospiti che attendevamo. Inaspettatamente ci lasciò anche un eccitatissimo Bino, che si infilò quasi scappando sul vecchio fuoristrada di mio padre. «Ci vediamo per la festa» fece a Sasà dal finestrino abbassato, e si girò a confabulare con Luigi. Restammo noi tre soli, il cielo spolverò neve, e all’improvviso l’ambiente divenne fatato. Sistemammo le bestie e ci rinchiudemmo nella casetta che era ancora comodissima. La sistemazione che avevamo dato anni prima teneva ancora. Caricai di legna il focolare e preparai il caffè a Luciano che beato si accese una sigaretta. Sasà gli si fece vicino e insieme si godettero il tepore del fuoco. Mi misi ai fornelli a preparare la cena. La neve creava un silenzio irreale. Mi sentivo solo. Mi girai a guardarli, solo adesso percepii qualcosa di strano. Era tanto tempo che non si parlavano direttamente, capii la voglia di entrambi di rompere quella tensione lontana dai loro caratteri. Presi i fornelli da campo e li spostai fuori, sistemai tutto sotto una piccola tettoia costruita di recente da Bino e mio padre. Lasciai che il sugo si cuocesse lentamente e mi feci prendere dal paesaggio. La neve cadeva leggera, piccoli mucchietti bianchi iniziavano ad addobbare i pini, le capre placide si lasciavano succhiare voracemente le mammelle dai nuovi nati. Erano bestie

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belle, ben nutrite e curate, avevano un ovile pulito, i loro padroni erano fermi a un’epoca arcaica e le trattavano come un prezioso tesoro. Per mio padre e Bino il concetto di tempo era relativo, della modernità accettavano pochissimi ritrovati in campo scientifico, nulla in campo morale, avevano avuto un periodo di sbandamento ma era stato superato. Vivevano di quello che gli davano i monti. Mia madre portava le trecce raccolte a corona, lui aveva lasciato ai figli la scelta del loro destino, pena l’esclusione dal mondo che li circondava. Mi accorsi di desiderare una vita uguale alla loro, se ne avessi avuto la forza almeno Luciano mi avrebbe seguito, e al diavolo Milano. Ma il mondo non mi aveva ancora spaventato abbastanza. Mi scossi, buttai la pasta ed entrai con i piatti stracolmi. La tempesta era passata, parlavano tranquillamente, afferrai l’ultima parte del discorso. Leggere le memorie di don Vincenzo era stata una leggerezza imperdonabile, l’unica commessa da Luciano in vita sua. Il vecchio aveva spifferato ai quaderni le malefatte di una vita, e oltre le disgrazie locali aveva enumerato una serie impressionante di eventi tragici nei quali i pungiuti avevano avuto un ruolo. Fatti simili a quello che portò noi in Germania, con nomi, cognomi e coinvolgimenti. Leggendo, Luciano comprese quanto fosse pericolosa la conoscenza di quei segreti. Non era mosso da curiosità vane, cercava l’assassino di suo padre, di chi aveva armato la mano del defunto Totò Serretto. E l’aveva trovato. Tirò fuori due striscioline di carta, rividi quella scrittura elegante, quasi solenne. Recavano due brevi frasi. «Peppino Zacco mi ha dato conto della morte del messo comunale». «Peppino Zacco mi ha dato conto della morte di Sante Motta». Significava che Zacco aveva preventivamente chiesto il consenso al vecchio per quegli omicidi. E mentre loro due, sfogatisi, mangiarono tranquilli, i miei bocconi divennero pesanti. Avere un sospetto è un conto, la vendetta non ti lascia mai completamente soddisfatto quando esiste un dubbio, anche se minimo. La certezza non lascia scampo alla coscienza, se sei fatto in un certo modo. Qualche altra spruzzata di neve rese possibile un Natale imbiancato. Arrivò un piccolo corteo di auto, mio fratello e parte delle sorelle. Giulio, inseparabile amico di mio fratello Gino. Anna, Santoro e la moglie Chiara, in dolce attesa. Rino e consorte. Luigi e Natalia. Bino e mio padre si attardavano a fare strada al loro ospite personale. Quell’andatura inconfondibile, il busto eretto, la testa alta, quello che era stato in tempi lontani un porco. Leonardo Brambilla e famiglia. Il pensiero mio, e di molti, andò a Sante. Come tutte le cose belle quelle vacanze volarono e ci ritrovammo depressi a risalire la penisola.

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Tutti i figli dei boschi avevano poca voglia di rientrare, si guidava piano, ci si fermava spesso. Tutti ci chiedevano la stessa cosa «Ma bianca non c’è?» Era una richiesta che aveva iniziato a girare da qualche mese, prima in modo isolato, adesso assumeva il suono di un coro. Erano rimasti in pochi a voler morire, tutti si erano lasciati contagiare dalla voglia di vivere. E moltissimi fra questi volevano farlo incessantemente. La domanda diminuì in pochi mesi, i prezzi scesero in picchiata e in un anno ci ritrovammo a passare gli ultimi pacchi di scura a diciassette milioni al chilo. Un’epoca era finita e ci ritrovammo disoccupati. Continuammo a fare un po’ di bella vita, in giro per locali e salotti e alla fine ci annoiammo. I ragazzi, delusi, piano piano smisero di cercarci e corsero dietro ai sudamericani. La strada ci mancava, il demone che ci muoveva era ancora affamato e ci spingeva avanti. Luciano ci disse che il cervello ci era andato a male, tornò a frequentare l’università mandandoci a quel paese. Facemmo i conti. Nonostante le spese folli e l’alto tenore di vita, il frutto di quegli anni era ancora cospicuo. Tramite Natalia e le sue amicizie potevamo contare su migliaia di libretti di risparmio al portatore, con cifre inferiori ai dieci milioni, disseminati in numerosissimi nascondigli in giro per i nostri appartamenti. Avevamo compartecipazioni in società e locali, immobili in ogni quartiere. La sola liquidità assommava a una cinquantina di miliardi. Luigi e Sasà si lanciarono in continui viaggi alla ricerca di fonti di approvvigionamento. Ogni tanto comparivano, riempivano qualche borsa di soldi e ripartivano. Io rimasi a gestire patrimonio e amicizie. Luciano disperso. Rimasi praticamente solo, Luciano era intento a terminare gli studi, trovavo ogni tanto un suo biglietto, in giro per gli appartamenti che utilizzavamo, comunicavamo per lettera. Mi installai in un bilocale che avevamo in via Eustachi, uscivo pochissimo, la mattina per la spesa e la sera passavo da Natalia. Ogni mattina riempivo sacchetti di cose praticamente inutili all’Esselunga di viale Regina Giovanna. Lì conobbi Giulia. Ci scontravamo quasi tutti i giorni con i rispettivi carrelli. Iniziammo con qualche breve sorriso, passammo al buongiorno e ci ritrovammo, insieme, a far colazione alla Belle Aurore. Faceva la biologa in un laboratorio di analisi. Io mi chiamavo Antonio De Pierro ed ero un informatore medico scientifico. Ci perdemmo uno nell’altra. Era la prima donna normale che conoscevo. Insieme a lei frequentai una Milano fino ad allora sconosciuta, fatta di mercatini, musei, concerti, di gente semplice con problemi reali, piccole pizzerie dai prezzi contenuti.

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Finito il lavoro passava a prendermi a casa e restavamo insieme sino all’indomani. I fine settimana lasciavamo la città per località vicine, sempre diverse. Mi presentò i suoi, andavamo spesso a cena da loro e insieme passavamo la serata a guardare la televisione. A volte mi addormentavo sul divano, Giulia mi copriva con una trapunta profumata e mi svegliava al mattino col caffè della madre. Cosa dovevo dirle. Vuotare il sacco e sperare che capisse? Coinvolgerla nella mia vita di bugie e violenza? Le avevo detto che sarei andato a prenderla quella sera all’uscita dal lavoro. Cadeva una pioggia sottile. Io arrivai in anticipo e parcheggiai distante. La vidi uscire. Stringersi alla vita l’impermeabile color ghiaccio. Alzarsi la visiera del curioso cappellino avana e guardare da tutti e due i lati della strada per scorgere il mio arrivo. Era una donna felice. Il sogno di ogni uomo. Il mio sogno. Misi in moto e scomparvi dalla sua vita. Andai a dormire nell’appartamento di via Savona e trovai Santoro addormentato nel letto, «Tonino li ha trovati», disse. Erano anni che gli davamo la caccia, due dei sicari superstiti mandati da Zacco a uccidere Sante. Non potevamo permetterci una guerra aperta e totale con don Peppino, era troppo potente. Dopo la morte di Sparta ne aveva preso il posto, rischiavamo di ritrovarci contro l’esercito dei pungiuti. Conducevamo una guerra nascosta, imitando i bruciatori di Santini. Ufficialmente eravamo amici, Zacco non c’entrava con Sante. Ogni tanto gli eliminavamo qualcuno dei tirapiedi più pericolosi, e in quel mondo di tragedie era difficile individuare i responsabili. Grande era il fardello di colpe che ognuno di noi aveva per comprendere chi, fra i tanti nemici, avesse colpito. Le sentenze di morte erano sempre emesse col dubbio. Miravamo a indebolirlo, pian piano. Tonino li trovò a Genova, si rifornivano di fumo da un suo uomo. Mandammo il maresciallo che dopo una settimana di pedinamenti scoprì i loro alloggi. Li svegliammo all’alba con le divise della Benemerita e la macchina con i contrassegni dell’Arma. Ci seguirono docili, conoscevano quella prassi. Scalciarono solo quando, ammanettati, si videro condurre in aperta campagna anziché a Marassi. Scomparvero nel nulla, senza lasciare tracce. Santoro si dedicò più tranquillamente al piccolo Sante nato da poco. Ricomparvero Luigi e Sasà. Mi chiesero di preparare un’impresa di autotrasporti, con un paio di autoarticolati che arrivassero fino in Spagna settimanalmente. Ricomparve, felice, anche Luciano. Ci volle tutti a cena, c’era un ospite speciale. Andammo alla Botte di via Ripamonti. Eravamo già seduti io, Tonino, Santoro, il maresciallo, Rino e Natalia. Non credetti ai miei occhi quando Luciano fece il suo ingresso insieme a Stefano Bennaco.

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Raccontò tutto Rino. Ci avevano lavorato per mesi ingaggiando luminari del diritto, periti di fama, consegnando buste rigonfie. Alla fine ottennero la revisione del processo di Stefano che ormai non era più un’ombra e dopo lunghissimi anni di latitanza si era scollato di dosso quell’ergastolo, per un sequestro finito male. Stefano festeggiò insieme a noi, e con la famiglia che si era fatta in Spagna, per una settimana girammo tutti i locali di Milano. Poi partì per la Calabria a far conoscere a sua madre i nipoti che non aveva mai visto. Luciano era così, quello che riusciva a fare lo faceva senza che ci fosse una richiesta. Andava piano ma coglieva sempre nel segno. Avevamo passato giorni felici con Stefano quando era un’ombra e bazzicava il nostro ovile. Della nostra ospitalità non si era mai dimenticato. Dalla Spagna, dove si era rifugiato, mandava sempre qualcosa a noi o a mio padre. Quella lealtà e quell’affetto, adesso, Luciano li ripagava con gioia. Tornarono Luigi e Sasà con delle proposte definitive. Ci trovammo tutti nella villa di Natalia, io, Luciano, Santoro, il maresciallo e Tonino, inserito stabilmente nel gruppo. Natalia ci lasciò campo libero e uscì col luminare. Sasà sapeva tutto sulla cocaina e ne diede prova. La cocaina girava da anni, da sempre si può dire. Quasi tutti se ne tenevano alla larga perché era un mercato ristretto, costava troppo già alla fonte, il tipo di assunzione ne rendeva difficile l’eccessivo taglio. La chiedevano tutti ma pochi se la potevano permettere. Tutti pensavano che fosse colombiana, mentre si produceva soprattutto in Bolivia e al confine di questa col Brasile. Colombiani erano i grossi trafficanti, che smerciavano il novanta per cento del prodotto in Nord America. Quello era il più grande mercato al mondo, la cocaina aveva un consumo di massa e per un motivo molto semplice. L’unica moneta accettata dai sudamericani era il dollaro, pretendevano un prezzo di trenta-trentacinquemila dollari a pacco, il trasporto era rodato e si trovavano centinaia di milioni di persone in grado di spendere cinquanta dollari per un grammo, quasi puro. Ogni spedizione ammontava a diverse tonnellate di prodotto. Se andavi dall’Europa ad acquistare, dovevi prima cambiare le lire in dollari e per avere trentacinquemila dollari dovevi spendere più di settanta milioni di lire. Te la consegnavano là perché per trasporti inferiori alle tre, quattro tonnellate i grossi trafficanti non si scomodavano, e i piccoli non erano in grado di farli. Allora la acquistavi tu e dovevi anche trasportartela. Significava almeno mille dollari a pacco per imbarcarla, mille per traspostarla via mare, mille per sbarcarla, mille per il trasporto via terra. Per avere roba decente dovevi venderla intorno ai novanta milioni al pacco di prima mano, al dettaglio arrivava a centoventi. In Europa occidentale pochi se lo potevano permettere, non era un luogo comune che fosse la droga dei ricchi. Tutto quello che c’era in giro e tutti chiamavano bianca era quasi sempre droga sintetica preparata nei laboratori olandesi o, ci spiegò Santoro che vedeva spesso gli esiti delle analisi dello stupefacente che sequestravano i Carabinieri, un mix di sostanze

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da taglio: lidocaina, acido borico, ai quali si aggiungeva l’etere per l’effetto anestetico e le anfetamine che fungevano da eccitante. L’alcaloide della coca era presente in misura inferiore al dieci per cento, a volte anche al cinque, solo così era possibile portare il prezzo intorno alle cinquantamila lire che almeno saltuariamente la massa poteva sborsare. Sasà disse che i contatti con i colombiani erano falliti tutti, questi, al momento, non consideravano appetibile il mercato europeo. Lui e Luigi avevano fatto di più e meglio. In Bolivia il mercato delle foglie si svolgeva alla luce del sole, non era difficile trovare fornitori. Il raccolto a volte era talmente abbondante che le foglie restavano a marcire per terra. Si potevano acquistare a cinquecento dollari al chilo, avevano già trovato i grossisti. Avevano trovato i locali, il trasporto via terra sino ai porti del Brasile, il trasporto via mare fino alla Spagna. All’ultima fase del trasporto ci avrebbero pensato i nostri due autoarticolati che già facevano la spola con Barcellona. Mancavano un paio di mediocri chimici e i prodotti necessari. Natalia ci procurò prodotti e personale. Trasportammo tutto in Spagna, imbarcammo tecnici e solventi. Partirono anche Luigi e Sasà. Per mettere in moto tutto quel meccanismo servivano capacità economiche, conoscenze di mezzi, persone, luoghi, garanti, che solo noi in quel momento avevamo a disposizione. Il merito fu completamente di Sasà e Luigi. Luciano, che aveva iniziato a frequentare certi circoli politici, disse che quella roba ci avrebbe distrutto. E sparì di nuovo. Noi creammo quel mercato e lo tenemmo saldamente in pugno per anni. Abbassando i prezzi il mercato si fece interessante anche per i colombiani che monopolizzarono il consumo del Nord Europa. L’Italia era il mercato più ricco, soprattutto Milano. Riuscimmo ad avere un prodotto finito al costo di circa venti milioni. Poi lo giravamo ai calabresi a vent’otto, trenta al pacco. Ritornammo ad assaggiare la strada. Tutti ci cercavano di nuovo e questo, inutile negarlo, ci piaceva e molto. Non riuscì a resistere nemmeno Luciano, e per la gioia di tutti tornò a tenere i conti. Per riordinarli dovette sudare. Disse che i suoi amici gli avevano offerto di fare il Procuratore della Repubblica, li sputò in faccia e li piantò. Puntavamo dritto agli anni novanta, il nuovo decennio si annunciava più ricco e più felice del precedente. Il nuovo codice di procedura penale esordì portandosi dietro amnistia e indulto, i processi si sarebbero fatti all’americana, con parità fra accusa e difesa. C’era la sensazione di una strategia di tolleranza da parte dello Stato, le condanne anche pesanti per chi cadeva venivano mitigate da un’applicazione generalizzata della legge Gozzini, la legge sull’ordinamento penitenziario che regolava la vita dei detenuti.

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Tutti avevano voglia di legalizzarsi e uscire dall’ombra. I figli dei boschi abbassarono le difese e si misero allo scoperto. Si intestavano personalmente beni e società, le lussuose macchine che usavano, giravano con documenti autentici. Si credettero accettati, finalmente figli anche loro di quella blasonata nazione. Venne l’estate delle notti magiche dei mondiali di calcio e andammo in massa a tifare Italia. La luna di miele continuava. I mondiali li perdemmo. In autunno solo in pochi si accorsero del D.P.R. 309/90, la nuova legge sulla droga, e delle modifiche che iniziavano a minare l’apparato garantista del nuovo codice. Luciano era fra i pochissimi a tenere alta l’attenzione. Ci spiegò che col gioco delle aggravanti le pene per i trafficanti si dilatavano a dismisura, i riti alternativi venivano utilizzati in modo distorto per ottenere una facile resa dell’imputato e vincere i processi. Nessuno capiva cos’erano le intercettazioni ambientali e l’ammissione della loro utilizzabilità nel giudizio. Ci costrinse, Luciano, a continuare con le cautele adottate negli anni ottanta. Lo predicava a tutti, ma parlava al vento. Mise anche Rino e i suoi amici sull’avviso, aveva frequentato per un po’ certi ambienti politici e il colto e moralista mondo che li animava. C’erano gruppi di potere che mentre la maggior parte delle persone era impegnata a godersi la bella vita della Milano e dell’Italia da bere, gonfiava di livore. Non sopportavano di vedersi relegati, nei ristoranti, allo stadio, ai concerti, in ogni ambiente e dappertutto, dietro arroganti e ignoranti politici. Persino dietro a puzzolenti contadini e pastori arricchitisi col malaffare e in combutta con i primi. Le cosiddette classi colte, in unione con ambiti politici bramosi di arrivare al potere per vie brevi, erano pronte a sferrare l’attacco. C’era un’ubriacatura generale, un senso di onnipotenza, ed effettivamente un’insopportabile arroganza. Nessuno vedeva l’evidenza. Rino riferì l’avvertimento e fu sommerso dalle grasse risate degli amici. Avevano il popolo con loro, lo facevano star bene come non mai in quella Repubblica, si sentivano intoccabili. Continuammo a macinare coca e miliardi. Arrivavano migliaia di pacchi che emanavano un profumo dolce, caramellato. La bianca al contrario della scura non faceva paura. La aprivi e i cristalli si rompevano gioiosi, si alzavano nuvolette soffici, di talco aromatico, la stringevi fra i polpastrelli e subito si dissolveva, candida, lasciando una leggera patina oleosa. La scura puzzava di selvatico, un tanfo di bestia che era difficile levare, era di un marrone sporco e bisognava scioglierla col fuoco. Con l’eroina vedevi subito il sangue, ti intimoriva. La coca aderiva senza violenza alle mucose nasali, sembrava innocua, e non lasciava segni sul corpo. I figli dei boschi erano uccelli da preda, a Milano, paradigma dell’Europa occidentale.

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Ci sentimmo accolti, nessuno ci rifiutava. Noi eravamo consci di trovarci nella terra altrui e portavamo rispetto all’ambiente circostante. Sapevamo di rubare ricchezza e perciò la condividevamo. All’improvviso ci convincemmo che il denaro era nostro, diventammo cattivi, prepotenti. Quando uscimmo dall’ombra disseppellimmo il male che portavamo in corpo, mostrammo il peggio di noi stessi e la luna fatata si coprì di ombre scure. L’accelerazione alla vita della nuova droga perse lo slancio dei primi anni, il divertimento era palesemente artefatto, malato. I ragazzi invece di venderla la usavano, la coca. Il traffico bastava appena perché si pagassero i vizi personali. Si iniziò ad arrivare tardi agli appuntamenti e poi a scordarseli completamente. Per incontrare qualcuno dovevi tirarlo giù dal letto, o aspettare la notte. Vivevano tutti dal tramonto all’alba. Non era più piacevole stare in compagnia dei ragazzi dei boschi, raccontavano con normalità incredibili allucinazioni, vedevano sbirri dappertutto, traditori nei loro migliori amici. Incominciarono a spararsi per inesistenti sgarri e quando lo facevano erano talmente fatti che spesso la peggio veniva riportata da incolpevoli passanti. Il gioco iniziava a non piacerci più. Eliminammo dai clienti i meno affidabili, restringendo sempre più il giro delle persone con cui lavorare, o delle semplici frequentazioni. All’improvviso si scatenò per Milano un batterio, causava attacchi di dissenteria e si manifestava con migliaia di puntini rossi sul viso e nel torace. Nei bar dove incontravamo i clienti non si riusciva a concludere un discorso, le file al bagno erano infinite. Luciano, in preda alle convulsioni del riso, si segnava il nome di ogni appestato. Noi e pochi altri ragazzi sembravamo immuni alla malattia. Luciano ci volle a cena insieme, tutti, quando il batterio dominava da una settimana ormai. Ci sbellicammo tutti dalle risate quando arrivarono Luigi e Sasà, col viso in fiamme che sembravano neonati con la rosolia. Tonino e Luciano divennero lividi, iniziarono a inveire cattivi con gli ultimi arrivati, non eravamo mai giunti a tanto fra di noi. Luciano iniziò con un «Se lo fate anche voi il nostro mondo è finito». Faticammo molto io, il maresciallo e Santoro, a riportare la calma e capire cosa era successo. L’idea era stata di Tonino, ma solo le conoscenze tecniche di Luciano resero possibile lo scherzo. Che quasi tutti quelli che la smerciavano, la coca, la usavano, lo si indovinava facilmente dal mutamento del carattere, delle abitudini, della puntualità e della precisione. Ufficialmente tutti rivolgevano epiteti irripetibili all’indirizzo dei viziosi e negavano l’evidenza. «Se si colorasse la faccia come con le mazzette di soldi esplosive, piene di vernice, sputtaneremmo tutti», disse Tonino a Luciano mentre aspettavano inutilmente

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un cliente in piazzale Lodi. Detto fatto Luciano aprì un discreto numero di pacchi, vi spolverò sopra un innocuo batterio i cui effetti sparivano dopo qualche giorno, risigillò tutto, prese penna e carta, e novello untore schedò chiunque conoscessimo. Sasà e Luigi giurarono su tutto il possibile, e diedero una spiegazione soddisfacente: si erano accorti che un pacco era stato aperto e richiuso malamente. Guardammo Luciano. E temendo che qualcuno avesse sostituito la roba l’avevano tagliato in due. Nell’aprirlo la confezione cedette e il contenuto si sparse in una nuvola sul tavolo. Evidentemente ciò aveva causato un’inalazione involontaria e adesso per colpa di quei due coglioni avevano il didietro in fiamme a furia di pulirlo continuamente. Ci convinsero, era successo personalmente anche a me di uscire con la testa in aria qualche volta che avevamo aperto delle confezioni per controllarne il contenuto. La burla si riseppe e per qualche tempo parecchia gente restò, per lavoro, fuori da Milano. In tanti presero l’abitudine di vedere gli effetti su altre persone prima di inalare la bianca che proveniva da noi. Per dimenticare quella litigata Sasà ci portò con lui a Parigi. Ai suoi amici arabi avevamo continuato a destinare una parte consistente dei nostri guadagni, avevamo iniziato grazie a loro e ci sembrava giusto così. Doveva trattare un consistente approvvigionamento di armi leggere. Vestiti in modo impeccabile sbarcammo all’aeroporto internazionale Charles de Gaulle e a bordo di due taxi arrivammo in avenue Montaigne; alloggiammo in due splendide suites del Plaza Athénée, al modico prezzo di dieci milioni di lire a notte, per appartamento. Eravamo dei signori. Ospiti nel principesco nido d’amore di un conosciutissimo uomo d’affari libanese. Questi e Sasà conclusero il loro affare, discutendo animatamente in arabo. Mentre litigavano noi mangiavamo voracemente e spogliavamo con gli occhi le splendide ragazze more che ci servivano. I due smisero di litigare e si strinsero la mano, l’affare era concluso. Il libanese aveva notato i nostri sguardi disperati e onorò l’ospitalità mediterranea lasciandoci campo libero con le cameriere. Il giorno dopo facemmo i turisti, girammo Parigi muniti di macchine fotografiche. Gli Champs Elysées, Place Vendôme, Place de la Concorde, Les Invalide, il Louvre, il Trocadéro. La sera, già un po’ allegri, andammo a finire le vacanze in un locale notturno sulla George V. Solo dopo un po’ ci rendemmo conto che le cameriere e le donne sul palco erano dei travestiti. Ai tavoli c’erano solo uomini e guardavano verso di noi con voluttà. Guardammo terrorizzati Tonino, non lo fermammo in tempo. Lo chiamavamo Tonino per sfottò, il soprannome vero era Dobermann. Alto quasi due metri sembrava un gigante, dovevi sempre tenerlo a bada perché se si convinceva che la gente lo trovasse ridicolo partiva all’attacco ed era un disastro, solo Luciano riusciva a placarlo. Travolse il primo e il secondo tavolo, le checche rapide reagirono, ci vennero addosso a decine, ne demmo tante ma alla fine soccombemmo. E il peggio arrivò dopo, materializzandosi con i giubbotti neri dei terribili flics metropolitani.

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Ci portarono in una caserma della Police Nationale, davanti al Concorde-Lafayette. Ci massacrarono fino all’alba. Ci caricarono su un grosso furgone Peugeot, con un decreto di espulsione quali indesiderati. Passammo per la frontiera aeroportuale e salimmo su un volo, Air France, per Roma-Fiumicino. A terra fummo schedati e rilasciati. Ridemmo per mesi immaginando le facce delle mogli dei cinque malcapitati di cui declinammo le generalità, che si videro comunicare l’esistenza di un procedimento, a loro carico, per rissa in un locale per soli uomini del centro parigino. Non ridevano per niente i turisti francesi che capitavano al tiro di Tonino. Alla sua domanda in uno strampalato «Vu sette franses», quelli che pronunciavano un fine oui si vedevano travolgere da un toro infuriato. Si accatastarono numerose, per mesi, davanti all’ispettore di servizio del Commissariato San Sepolcro, competente per il centro, denunce di inspiegabili aggressioni subite da pacifici cittadini transalpini. Il lavoro diventava sempre più difficile, l’obiettivo principale degli sbirri divenne la gente della nostra razza. Non passava giorno senza che una retata portasse dentro decine di persone. Strumenti legislativi sempre più stringenti, tecnologie moderne, rendevano facili prede della repressione i figli dei boschi ridotti ormai a fantocci degli uomini da rapina che erano stati. Tutti lavoravano in fretta e servendosi di quella spia al seguito che era il telefono cellulare. I ragazzi ne tenevano tre o quattro a testa, erano comparsi ormai da qualche anno con la falsa nomea che non si potessero intercettare. E via tutti a parlare liberamente, a fissare appuntamenti a cui erano attesi. Bastavano i tabulati a sorreggere impianti accusatori all’ammasso, il lavoro sporco veniva finito dalle microspie inserite all’interno delle vetture. I benpensanti chiedevano e ottenevano leggi sempre più dure per debellare quel tumore. I fatti di cronaca eclatanti permettevano una distruzione progressiva delle garanzie di difesa messe in piedi dal regime avviato al tramonto. Dalle carceri si chiedeva di smetterla di seminare panico in giro, ma più la gente prometteva di stare tranquilla e più aumentavano le morti in giro per l’Italia. Avevamo tutti interesse a che non succedesse nulla e stranamente avvennero stragi che facevano il gioco contrario. Cose prive di spiegazione. Il nostro modo di agire, le nostre coperture, ci avevano tenuto fuori, sino a quel momento, dai guai giudiziari. Non avevamo mai usato telefoni fissi, tanto meno i cellulari. Da quando iniziarono a girare le microspie andavamo in aperta campagna per parlare di lavoro, i bar non li frequentavamo più e prima di fare qualche passaggio sparivamo completamente dalla circolazione. Vivemmo sempre più da ombre. Santoro, oramai Capitano dell’Arma, ci forniva continuamente le liste degli informatori e delle indagini in corso. Così facevano gli amici, a pagamento, che avevamo negli altri corpi di Polizia. Ma era una lotta del gatto col topo, solo gli illusi potevano credere di vincere contro i mezzi e gli uomini di uno Stato che aveva deciso di spazzarci via.

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Era iniziato il conto alla rovescia per tutti, solo i tempi erano diversi per ognuno. La gente che ci stava alle calcagna poteva perdere tutto il tempo che voleva, a fine mese lo stipendio arrivava lo stesso, era un lavoro tranquillo, tutelato, non rischiavano nulla. Un loro errore non aveva gravi conseguenze, una nostra scivolata significava trent’anni di galera. Noi eravamo avvantaggiati rispetto agli altri, avevamo amicizie, un mare di soldi, conoscevamo alla perfezione il loro modo di agire. Dove posizionavano le cimici, le identificazioni preliminari, i controlli casuali, il tipo di telecamere che appendevano ai pali della luce. Sarebbe bastato tagliare la corda e li avremmo lasciati con le mosche in mano. Ma per interrompere un meccanismo che ti dà ricchezza e potere era necessaria una forza che solo Luciano aveva, e che noi continuamente conculcavamo. Non ci fermammo, anzi, demmo una mano ai nostri nemici. Sasà doveva assolvere a un compito al quale non era in grado di sottrarsi, ce lo disse a occhi bassi. All’interno dell’ambasciata di un paese occidentale, in via Veneto a Roma, aveva trovato rifugio un agente bulgaro disertore. Questi era stato per decenni l’anello di collegamento fra gli informatori italiani e i vertici del servizio al quale apparteneva oltre cortina. Conosceva trent’anni di misfatti accaduti nel Belpaese. Stava spifferando tutto, avrebbe causato un terremoto in certi ambienti e distrutto sul nascere pericolosi progetti. Ci pregò di non fargli domande, dovevamo avere fiducia in lui, era necessario per salvarci. Il maresciallo preparò due macchine dell’Arma, partimmo per Roma, Sasà aveva richiesto una divisa con i gradi da colonnello. All’inizio di via Veneto accendemmo sirene e lampeggianti e scendemmo lasciando le portiere aperte davanti all’ambasciata. Ai colleghi che presidiavano il sito, con compiti di sicurezza, un deciso colonnello Arenghi, dell’antiterrorismo, ordinò di seguirci all’interno. C’era stato un allarme bomba, molto attendibile, dovevamo procedere a un controllo preliminare prima di far intervenire gli artificieri, già allertati. Conoscevamo tutte le procedure in vigore e nessuno si allarmò, gli stessi responsabili dell’ambasciata che potevano benissimo impedirci l’ingresso essendo quello un territorio giuridicamente straniero, accompagnarono attivamente quel colonnello che spiegava con cura, e in perfetto inglese, i dettagli delle operazioni. Dopo avere ispezionato i vani che fungevano da ufficio, per delicatezza nell’alloggio personale dell’ambasciatore si presentò solo il colonnello e io rimasi di piantone davanti all’uscio socchiuso. Udii un leggero trambusto, entrai di corsa. Sasà aveva già sistemato l’obiettivo e il suo agente di scorta e teneva puntata una piccola 22 mm alla fronte del diplomatico. Provvidi a immobilizzarlo. Uscimmo tranquillamente, era stato un falso allarme. I colleghi tornarono a far da piantoni sollevati, il colonnello li dispensò dall’incombenza di far rapporto, avrebbe provveduto lui stesso a trasmettere una nota al reparto di appartenenza.

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Tornammo a Milano senza intoppi. Prima di entrare a Roma Sasà ci aveva fatto spruzzare sul viso e un po’ dappertutto un prodotto che assomigliava a una lacca per capelli, ingannava l’occhio delle telecamere disse. Per sicurezza tenni sempre il cappello calato sul viso. Con mio grande stupore né l’indomani né i giorni appresso la notizia comparve sui mezzi d’informazione. C’eravamo sognato tutto. Il nostro mondo si stava sgretolando, velocemente. In tanti iniziarono a lavarsi le coscienze, confessando, soprattutto, i peccati altrui. Saltarono il fosso prima in pochi, poi ci fu una diserzione di massa. I primi a pentirsi erano quasi tutti già presenti nelle liste dei confidenti in nostro possesso. Le delazioni rilasciate per anni nei posti bui di periferia dovevano avvenire alla luce del giorno, davanti a magistrati dell’accusa. Dovevano essere confermate nelle aule dei tribunali, dando le spalle alle gabbie piene. Siciliani e campani decimarono le fila dei loro compaesani, i figli dei boschi tennero duro per un po’, le loro famiglie li avrebbero rinnegati. Poi iniziarono le defezioni anche fra di loro, erano ex ragazzi ormai fiaccati dai troppi vizi. Non dicevano mai tutto, e mai solo verità. Iniziavano col rovinare i loro nemici personali, si dipingevano più importanti di quello che erano, attribuivano ogni nefandezza a persone già rovinate di galera, e pochissimi erano gli amici che si sacrificavano realmente. Il loro avvento distrusse il nostro mondo e non tanto per le migliaia di arresti. I nostri paesi erano in grado di sostituire immediatamente i padri con i figli, e i figli con i nipoti. Il colpo, terribile, era soprattutto psicologico. Nessuno si fidava di nessuno, né più l’avrebbe fatto. Quell’esercito che aveva marciato dominando le vie dell’Europa occidentale si sarebbe disgregato, quella esperienza era irripetibile. La gente come noi venne sostituita dai nuovi affamati, che qualcuno provvide a far arrivare in massa, slavi, albanesi, arabi, sudamericani, africani. Milano da questa rivoluzione non ne avrebbe certo tratto vantaggi: noi non eravamo dei santi ma a modo nostro avevamo una certa etica. Questi portavano solo violenza e quasi sempre gratutita. I frutti li mandavano in patria, la gente iniziò ad aver paura di uscire. I soldi scomparvero dalla circolazione. I giustizieri, che stavano spazzando via noi e la vecchia classe politica, Milano la fecero da piangere, e il popolo applaudiva. Per le strade iniziarono a violentare, scippare, rapinare, ammazzare per nulla. E il popolo, serrato in casa, vedeva migliaia di figli dei boschi in manette, potentissimi politici sudare e biascicare davanti ai novelli tribuni, e godeva contento. Noi eravamo sicuramente il male, ma senza di noi il mondo non migliorava di certo. La galera adesso si faceva veramente, ma in giro si diffondeva la convinzione che i delinquenti uscissero con troppa facilità. Se eri un pedofilo, un violentatore, un ladro, uno scippatore, se uccidevi le persone con sofisticazioni varie o le ammazzavi svincolato da un’organizzazione mafiosa, se eri un politico, un povero immigrato affamato, dopo qualche giorno eri in giro a curare i milanesi.

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Se il tuo reato era ricompreso fra quelli previsti dall’articolo 4bis, se eri associato a organizzazioni mafiose o dedite al traffico di droga, il carcere lo facevi davvero, e duro, addio Gozzini. Che noi pagassimo era giustissimo, ma lo facevamo solo noi. In mezzo a tutto quel disastro il nostro gruppo macinava, imperterrito, coca e miliardi, indenne. Sembrava che sbirri e delatori avessero dimenticato il nostro nome. Anche il salotto di Natalia iniziava a essere disertato, ci andava giusto qualcuno. In una di queste riunioni di sopravvissuti Rino mi consegnò un dattiloscritto, «I miei amici vi ringraziano, ma non c’è bisogno di arrivare a questo, il ciclone passerà, le cose si aggiusteranno». Lo lessi, era lo stile di Luciano. Solo lui era in grado di elaborare una cosa del genere. Si trattava di un dossier e nella prima parte descriveva vizi e virtù, indirizzi, amicizie, abitudini, di persone famosissime o a me perfettamente sconosciute. Secondo Luciano erano i responsabili principali dell’ecatombe in atto. Nel passaggio successivo era prevista la loro eliminazione fisica. Questa passava attraverso la creazione di un fantomatico gruppo eversivo, che Luciano aveva chiamato E.L.L., Esercito di Liberazione della Locride, il cui scopo dichiarato era l’autonomia della nostra regione di provenienza e la liberazione di tutti i detenuti nati in essa. Il fine vero dell’organizzazione, dopo una serie di attentati diversivi, era di uccidere i nemici individuati. Sembrava un piano pazzesco, ma noi eravamo in quel momento in grado di realizzarlo. Rino e i suoi amici rifiutarono l’offerta, lo dissi a Luciano, restituendogli il plico. «Per tutto quello che hanno fatto per noi glielo dovevamo». Si prese il dossier e uscendo disse «Chiama tutti, dobbiamo parlare». C’eravamo tutti, Natalia compresa. Luciano parlò di e per ognuno di noi. Avevamo iniziato noi tre, io, lui e Luigi quel cammino. Poveri pastori, sfidammo pungiuti e sbirri. Arrivò Sante, ci aprì gli occhi e ci difese fino alla morte. Incontrammo un siriano di nome Khaled e divenne il nostro Sasà, ci portò a ricchezze impensabili. Ritrovammo Santoro ed era come riabbracciare Sante. Si unirono a noi Tonino e Alfio, il maresciallo. Natalia era come una sorella. Avevamo percorso quelle strade pericolose insieme, uniti, avevamo ottenuto più di quanto si potesse chiedere e di quanto realmente serviva. Il mondo nel quale eravamo vissuti era al tramonto. Appartenevamo, senza saperlo, a un’epoca già passata. Milano ci aveva dato tanto ma ci aveva svuotati dentro, vivevamo vite non nostre, con gente che non ci piaceva più, lo facevamo meccanicamente in attesa di andare a sbattere. Eravamo diventate le comparse, non i protagonisti, di una recita diretta da altri. Sasà abbassò gli occhi. Finiremo in un fosso o a marcire in galera, con don Peppino Zacco a ridere di noi. Santoro reclinò la testa insieme a noi. Troveremo qualche albanese del cazzo che ci infilerà venti centimetri di acciaio nello stomaco.

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A parte la disgrazia di Sante ci è andato tutto eccessivamente bene, siamo giovani, pieni di soldi, possiamo chiuderla da vincitori. Sapeva che doveva concedere qualcosa a Luigi e Sasà per convincerli, li voleva bene, quanto ne voleva a me e agli altrì, non voleva perderli. O ci salvavamo tutti o nessuno. Fece la sua proposta. Avremmo organizzato un viaggio colossale. L’ultimo. Rivendendo la merce a quattro o cinque gruppi. Lui e Natalia avrebbero monetizzato tutti i beni di cui eravamo i reali proprietari. E insieme ai liquidi già in cassa, e ai proventi dell’ultimo viaggio, sarebbe stato tutto inviato in conti accesi all’estero. Dobermann avrebbe trasportato giù una decina di miliardi e una discreta scorta di armi, si sarebbe piazzato nella frazione di alta montagna, del nostro paese, abitata da Stefano Bennaco e da altre quattro o cinque famiglie tutte imparentate fra loro. Sistemati soldi e coca saremmo scesi a chiudere definitivamente i conti con Zacco. Poi chi voleva poteva seguirci nel nuovo mondo, o scegliere di prendersi la propria parte di denaro e stare dove meglio voleva. Accogliemmo quel piano come una liberazione, eravamo tutti troppo stanchi. Ci diede la spinta necessaria per andare avanti, avevamo un obbiettivo concreto. L’attuazione era difficile ma possibile. Avemmo il sogno che in quel momento ci necessitava, ci sentimmo uniti, di nuovo, dopo tanto tempo di sentimenti sopiti. Ci buttammo a capofitto nell’impresa, Sasà e Luigi allestirono un carico da cinque tonnellate. I nostri laboratori non erano in grado di produrre tanta roba in poco tempo, si rivolsero ai colombiani che per entrare in Europa furono costretti ad abbassare notevolmente i prezzi. Buona parte della merce proveniva da loro. Contattammo i maggiori trafficanti su piazza e li associammo al viaggio, facendoci anticipare una quota dei costi. Appena arrivata la coca fu consegnata in grossissimi quantitativi ai nuovi soci, che iniziarono a rientrare velocemente del debito. Raccoglievamo continua liquidità che quasi giornalmente Santoro e Alfio trasportavano in Svizzera, a Lugano. Le rare volte che subivano un controllo tiravano fuori i tesserini, dicevano «in missione». I doganieri portavano la destra alla fronte e li facevano passare. Prelevavano il denaro Natalia e Luciano, facevano il giro delle banche del Cantone e i soldi, ridotti di un secco dieci per cento, si riversavano immediatamente, trasformati in dollari, nei nostri conti, al sole del Brasile. Tonino svolse il suo compito viaggiando su e giù con la macchina, aiutato da Gino, Giulio e Ciccio, il figlio di Stefano. Restammo in apnea per alcuni mesi e alla fine ci rilassammo, restava solo da raccogliere qualche spicciolo, il resto del lavoro era finito. Ci restò solo un piccolo bilocale in via Spartaco, dietro al tribunale, qualche giorno ancora e saremmo partiti. Ci andammo a vivere tutti e quattro, abbandonammo le cautele consuete, niente più armi o documenti falsi. Comprammo, a mio nome, una piccola utilitaria per gli spostamenti ormai leciti. Non potevamo combinare un casino quando eravamo già pronti per la bella. La bella la fecero a noi.

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Ci alzavamo poco prima di mezzogiorno, facevamo colazione alle Tre Marie di via Bergamo, un giro in macchina per farci venire l’appetito, e puntavamo a una piccola osteria in zona Barona, frequentata solo da rappresentanti di commercio. Era venerdì mattina, finalmente, dopo un appuntamento fissato per quel pomeriggio. L’indomani saremmo partiti, i primi quattro, destinazione Calabria. Li notai qualche macchina dietro alla nostra, quando eravamo immersi nel traffico di viale Liguria. Quel sorriso maligno, inconfondibile. Erano passati anni, ma il ghigno era lo stesso, gli sbirri che avevano fatto la festa a Tonino. Non c’era da temere, eravamo puliti, magari era un caso. Girai come per trovare un percorso meno trafficato, girarono anche loro. Non era un caso. Non avevamo nulla di compromettente, né addosso né a casa. Sembravano troppo felici, un ronzio iniziò a tempestarmi le tempie, mi infilai in stradine strette mantenendo la direzione dell’osteria. Dissi agli altri di scendere, uno alla volta, a ogni mia frenata, e senza fare domande. Feci segno a Luciano di andare per primo, fu inutile non era nel suo carattere. Sasà balzò veloce senza essere visto. Fu la volta di Luigi, anche lui fu rapido, ma non come Sasà. Eravamo alla fine di via Binda quando ritentai il giochetto con Luciano. Riuscì ad aprire appena la portiera. La canna di una Beretta 92SF calibro 9x21 affondò con violenza sulla fronte e l’immobilizzò. Due macchine davanti e due dietro ci costrinsero alla resa. Finsi tranquillità, non durò. Aprirono il cofano e tirarono fuori un borsone nero. Il contenuto era pesante. Probabilmente sfiorarono l’orgasmo quando saltarono fuori una ventina di pacchi. Non mi servì una veggente per sapere cosa stavamo trasportando, senza saperlo. Quelle confezioni le avevo maneggiate migliaia di volte. Ci ammanettarono. Una piccola folla si formò intorno, applaudiva contenta, ci lanciava insulti, qualcuno ci urlò venditori di morte. Forse se la meritano la gente che ci ha sostituito, pensai. Arrivammo a sirene spiegate alla Fatebenefratelli. Si divertirono a prenderci in giro. Li capimmo, sapevamo bene cos’era la vendetta, e chi era stato più bravo aveva il diritto di goderne. Ci spinsero con gusto i polpastrelli delle mani, sporchi di inchiostro, su una scheda con la nostra faccia e il nostro nome. Ci scaricarono in un carcere poco fuori Milano. All’uscita sarebbero rientrati nelle loro piccole case, dalle loro famiglie, fra qualche giorno per loro avremmo rappresentato solo un ricordo, eravamo lavoro non persone. Erano ignari, forse, del dramma che la loro rivincita avrebbe causato. Gli agenti penitenziari ci spogliarono, ci rischedarono, ci tolsero gli effetti personali, e lasciatici i pantaloni in mano, si diressero alla sezione di isolamento, per lasciarci in due diverse celle come da disposizione del magistrato. Ci segnammo in matricola e facemmo nomina a un famoso avvocato, amico di vecchia data.

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Fummo condotti, dopo qualche giorno, al guinzaglio dal giudice delle indagini preliminari. Quando al posto del luminare trovammo un giovane collega di studio che faceva da sostituto al titolare, costretto al letto da una fastidiosa influenza, capimmo quanto potenti erano i nostri nemici. Ci avvalemmo della facolta di non rispondere. Il Gip sostituì il fermo con l’emissione di una ordinanza di custodia cautelare. L’avvocato fece ricorso al tribunale del riesame. Nuovo viaggio al guinzaglio. L’udienza durò pochi minuti, il tempo di dichiararci estranei alle contestazioni, ché quel borsone l’aveva messo qualcuno per incastrarci. Il Presidente sorrise bonario e si riservò la decisione, che ci venne comunicata in tempi brevi. Rigetto dell’istanza e condanna al pagamento delle spese, un milione di lire. Dopo una settimana l’isolamento, formalmente, venne revocato, ma la sezione A.S., alta sorveglianza, era sovraffollata e dovemmo attendere quasi un mese perché i posti si liberassero. L’angoscia regnava. Saltavamo giù dalla branda a ogni rumore. L’agente addetto alla posta passava dritto davanti alle nostre celle, ci avevano requisito i soldi e non avevamo una lira a credito, niente spesa, niente giornali, niente sigarette per Luciano. Uscivamo due ore al giorno nel cubicolo di tre metri per quattro che chiamavano aria. Facevamo mille ipotesi su chi ci aveva incastrati, ma non era la galera a tormentarci, un mese senza che qualcuno venisse a trovarci. Sapevamo bene che era un silenzio di morte. Quanti e chi, ci domandavamo. Una sera ci fecero preparare la roba e ci portarono in sezione. Cella numero diciassette. Le gambe si rifiutarono di muoversi, l’agente dovette gridare per farci entrare. Qualche pungiuto ci aveva preparato il benvenuto, sul materasso del letto a castello in alto c’erano appoggiati alcuni quotidiani. Luciano non aveva nessuno fuori, mi adagiai sul materasso di spugna del letto di sotto, chiusi gli occhi e attesi. Sentivo le pagine strapparsi. La sezione era silenziosa. Rispettavano il lutto. La voce irreale di Luciano fece l’elenco. Santoro, Alfio, Natalia, Bino, mio padre, Tonino era gravissimo. Caddi in un sonno profondo, era l’unica difesa che potessi opporre all’annientamento che in quel momento mi dominò. Luciano soffriva quanto me, ma in modo diverso. Quel regalo, a mia madre, alle mie sorelle, a mio fratello, ad Anna, a Chiara, alla famiglia di Alfio, l’avevo fatto io. Ripensai a noi tre ragazzini, quando facevamo le rapine per andare vestiti bene a scuola. Luigi contava avidamente i soldi, Luciano, con quel tono, già allora mistico, mi implorava, «Fermiamoci finché siamo in tempo». Io ero il responsabile di tutto, avevo un fiume di odio in corpo, contro tanti, ma la persona che più detestavo era me stesso. Nonostante fosse più distrutto di me Luciano mi fece da suorina, mi parlava continuamente, mi raccontava mille volte la stessa storia.

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Dopo oltre un mese mi chiamarono al colloquio parenti. Luciano mi sbarbò, mi mandò sotto la doccia, mi fece trovare vestiti puliti. Ero il punto di riferimento di tutti, mi disse, devi andare diritto. Trovai mio fratello. Mi sorprese. Era reattivo, forse troppo, l’odio aveva annullato il dolore, voleva distruggere il mondo. Gli parlai tranquillo, lo calmai, mi feci spiegare tutto. Dopo il nostro arresto, Sasà e Luigi erano spariti dalla circolazione e non se ne sapeva più nulla. Santoro e Alfio furono travolti, a bordo dell’auto di servizio, da un automezzo pesante, sulla tangenziale ovest, condotto da un autista addormentatosi di colpo. Natalia fu trovata morta stroncata da una massiccia dose di tranquillanti. I nostri vecchi furono massacrati mentre rientravano dall’ovile. Non ne vollero sapere di abbandonare le bestie chiuse e andarono ad aprire loro il cancello prima di andare a rifugiarsi da Stefano, come quest’ultimo gli aveva raccomandato. Infierirono sui loro corpi, povero Bino, quasi centenario, sarebbe bastato un battito d’ali, lo sfigurarono. Nessuno riuscì a trattenere il Dobermann che in piena notte sfuggì al controllo di Stefano e andò a cercare i vecchi che non avevano fatto rientro. Lo aspettavano, gli scaricarono i fucili sul petto e se ne andarono convinti di averlo ammazzato. Il maresciallo Palamita lo caricò sulla campagnola e lo portò in ospedale, la barriera di muscoli e ossa che aveva al posto del petto trattenne i pallettoni impedendogli di penetrare nella cassa toracica. Lentamente si stava riprendendo. Ai funerali dei vecchi non c’era quasi nessuno, qualche anziano e un paio di ragazzi per i quali la riconoscenza fu più forte della paura. Arrivò Leonardo a piangere i suoi amici e confortare i parenti. Rimase una settimana e partì distrutto, tentando, inutilmente, di portarsi dietro mio fratello. Andò don Peppino, in nutrita compagnia, a dare le condoglianze. Fece una carezza a mio fratello e gli disse «Mettetevi il cuore in pace, dillo a tuo fratello e a Luciano, per me è finita». Il bollettino era terminato. Bocciai tutti i propositi di vendetta di mio fratello, gli dissi che finché ero vivo le decisioni le prendevo io. Fuori lo aspettavano Giulio e Ciccio. «Dovete chiudervi da Stefano, tutti, non marciremo qui dentro per molto», gli dissi sorridendo. Non era necessario venire ai colloqui spesso, bastava una visita ogni quattro o cinque mesi e i soldi sul conto. Se ne andò, sollevato dalle responsabilità di cui si era fatto carico per quel mese. Iniziammo, con Luciano, a scendere nel cortile per le quattro ore giornaliere d’aria. Conoscevamo almeno metà dei detenuti ristretti insieme a noi, ci salutavano appena e si allontanavano. Quanti di loro erano passati da noi nei tempi buoni.

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A tutti davamo una mano, lavoro, consigli, gli garantivamo l’interessamento dei nostri amici influenti per i frequenti guai giudiziari in cui incappavano. Era tutto passato, dimenticato. Camminavamo sempre da soli, come appestati. I ragazzi una volta dentro, per sentirsi vivi e in contatto col mondo si lasciavano abbindolare dai pungiuti, e andavano a ingrossare le loro fila, sempre più numerosi. Noi eravamo in quella condizione che da noi si definiva tingiuti, tinti col carbone. Cadaveri che camminavano. Già morti senza saperlo. Se nessuno si avvicinava a noi significava che eravamo vincolati, gente da non frequentare. Li capivamo. I nostri nemici erano potenti, numerosi. Noi eravamo al tappeto, finiti, sorpassati, sepolti. Ma avremmo lottato sino al momento in cui avremmo guardato il mirino di un fucile dal lato sbagliato. I nostri avi, indomiti cacciatori osci, avevano resistito ai Greci e ai Romani, figurati noi che per nemico avevamo un don qualunque. Ci fecero un funerale a bare vuote. Ci svegliavamo di buon’ora, facevamo colazione, ginnastica, la doccia e scendevamo all’aria. Freddo o caldo che fosse. Risalivamo, cucinavamo qualcosa. Di nuovo all’aria, rientro, lettura, mangiare, telegiornale delle venti e a dormire. Tutti i giorni le stesse cose. Passò un anno in un lampo. Mio fratello riuscivo a farlo venire di rado, le mie cinque sorelle, a turno, prendevano il treno da Roma e si presentavano ogni giovedì, di ogni settimana, al colloquio. Loro si alternavano, ma la presenza di mia madre era fissa. Luciano non aveva parenti così chiedemmo e ottenemmo l’autorizzazione di fare il colloquio insieme. Giovedì mattina, puntuali, ci sbarbavamo ed eravamo sempre pronti davanti al blindato quando l’agente ci chiamava per i colloqui. Erano anni che non passavamo tanto tempo con la nostra famiglia. Dissimulammo il dolore e continuammo a vivere. Ci parlavano del loro lavoro, con sempre meno imbarazzo dei loro amori, eravamo pieni della loro felicità, ne avevano diritto. Non ci avevano scelti ci ebbero in dote, ci dettero tutto quello di cui disponevano, l’affetto, ed era tanto, troppo per i nostri meriti. Iniziò, prima che scadesse l’anno, l’udienza preliminare. Ci dichiarammo innocenti, chiedemmo il rito abbreviato. Il P.M. negò il consenso, fummo frettolosamente rinviati a giudizio, con prima udienza collegiale sei mesi dopo. Ci misero le manette e aprirono la gabbia, ci legarono al guinzaglio e iniziarono a tirarci. Il guinzaglio era un corto filo di acciaio ricoperto di gomma che si incastrava, con un piccolo perno, alle manette. Finiva con una maniglia che veniva impugnata dagli agenti. Chiudevano le mani su quel cappio e ti tiravano a passo svelto. Passavi per i corridoi del tribunale, gli sguardi cadevano sui polsi, leggevi l’animo delle persone, odio, pietà, commiserazione, indifferenza, gioia. All’inizio ti sentivi umiliato, poi te ne fregavi. Fra i vari corpi di Polizia forse gli agenti della penitenziaria erano i meno cattivi.

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Come noi erano sempre in galera, prendevano e davano insulti, erano emarginati, costretti a stare sempre fra loro, anche fuori, un lavoro duro. C’erano spesso più suicidi di agenti che di detenuti, noi alla fine uscivamo, loro restavano dentro tutta la vita. Ma a noi ci tenevano a forza e non per scelta. Quando dovevano spiegare il loro lavoro, prima che finissero, la gente diceva «Secondini». Avvampavano, lo consideravano un insulto. Li chiamavamo guardie spregiativamente, e loro segretamente ci appellavano «camosci», bestie da custodire. I pestaggi erano una cosa rarissima, la violenza fisica lo stesso, il peggio della tortura era la noia, il silenzio, o il tintinnio delle chiavi. La luce accesa giorno e notte, gli occhi allo spioncino qualunque cosa tu stessi facendo. L’acqua scorreva qualche secondo e dovevi rischiacciare il pulsante. Le mani ti scivolavano e si graffiavano sulla parete a rilievo, tempestata di taglienti protuberanze. Le perquisizioni erano quotidiane. Soprattutto, restavi chiuso venti ore al giorno in una cella grande tre metri per due. L’uomo è un animale e ha una capacità di adattamento quasi infinita, altrimenti là dentro dopo una settimana ci saremmo appesi alle sbarre. Ci tirarono in fretta fuori dall’aula, potevano stare tranquilli, non ci sarebbero stati parenti, fuori, che volevano salutare, da allontanare. Mi sbagliavo. Vidi quell’impermeabile color ghiaccio, stretto in vita da una cintura. Anche l’agente rimase sorpreso. La ragazza, che dolcemente chiedeva di potermi salutare, non era il tipo di donna che ti aspetti di vedere insieme a un malavitoso. Restò interdetto per qualche minutò. Giulia mi abbracciò, gli occhi erano umidi. «Sei dimagrito», disse. «Anche tu», risposi. «Ti ho spedito una lettera, leggila». L’agente tossì imbarazzato. «Dobbiamo andare, signorina». Mi strattonò deciso e gli corsi dietro come un cane. La traduzione dal carcere era tremenda, ti chiudevano, ammanettato, in un gabbiotto all’interno di un grosso Ducato blindato. Non riuscivi a vedere nulla, fuori. Rientravi con un senso di nausea che ti durava sino a notte. Dopo qualche giorno la lettera arrivò. Anzi, ne arrivarono due per me, e le solite cinque per Luciano. Attesi impaziente che l’agente le aprisse, tirasse fuori il contenuto e scrollasse le pagine. Riconobbi quella di Giulia prima di leggerne il mittente, lo stesso profumo di sempre. Faceva colazione spalmando sulle fette biscottate abbondanti dosi di miele selvatico, finiva con l’impiastricciarsi le mani, mi aveva scritto di mattina presto prima di andarsi a lavare. Mi piaceva vederla al mattino prima della toeletta, era più bella che da truccata. Veniva sempre a darmi un bacio prima di chiudersi in bagno per qualche ora. Le labbra, per effetto del miele, si incollavano alle mie e mi restava, alla base delle narici, quel profumo di miele. Diedi a Luciano le lettere delle mie cinque sorelle, scrivevano più a lui che a me. La lettera senza mittente, indirizzata a me, aveva un timbro strano, e mi chiusi in bagno a sentire Giulia.

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Non vidi nemmeno gli occhi dell’agente salernitano, che per un attimo mi guardarono divertiti, dallo spioncino. Uscii dal bagno contento come non succedeva da tempo. Luciano mi porse la lettera, era Yussuf, aveva saputo tutto, soffriva per me, mi si dichiarava fratello per sempre, gli era nato un figlio e gli aveva dato il mio nome. Lo immaginai visivamente, con quella rosa scarlatta sul viso, in quella sperduta frontiera tedesca. C’era qualcuno che fuori pensava ancora a noi, «Forse non abbiamo seminato solo malvagità», dissi a voce alta. Luciano mi guardò. «Forse», disse a sua volta, e continuò a leggere i segreti delle nostre sorelle. Iniziò a piovere a dirotto, il cielo divenne scuro. Il salernitano passava veloce davanti ai cancelli sbattendo le chiavi sui blindati. Gridava «Aria», convinto che nessuno sarebbe sceso in cortile, con quel tempo. Arrivato alla diciassette le chiavi gli sfuggirono di mano. Il fragore, quando colpirono il pavimento, superò il rumore della pioggia. Tutti si accostarono alle sbarre per conoscere la cella fortunata. «Diciassette», gridò forte lo scopino della sezione. C’era la credenza, fra i galeotti, che la caduta delle chiavi annunciasse libertà, e aspettavano speranzosi, ogni volta che l’agente passava davanti ai blindati. Perché avesse valore, quell’accadimento, doveva essere fortuito. L’agente scelto della Polizia Penitenziaria, Catiello Cecere, raccolse le chiavi, ci vide pronti a scendere, aprì e sorrise. «N’aggiu fatt’apposta, chist’è llibbertà» facendosi sentire per tutta la sezione. Arrivammo in cortile soli, levammo i cappellini di lana e iniziammo, avanti e indietro, a percorrere l’aria, sotto un diluvio d’acqua. L’aria era visibile dalle finestre della nostra sezione e da quelle dei due piani superiori, che le stavano sopra. Decine di paia d’occhi ci guardavano, appartenevano ai figli dei boschi, in catene. Alcuni ci commiseravano, altri, segretamente, facevano il tifo per noi. Spesso ci lasciavano, passando veloci, bigliettini con saluti, incoraggiamenti. Quando il lavorante era amico di nascosto ci mandavano i cibi della nostra terra. Andavamo veloci. Il demone bruciava ancora dentro di noi. Quella commiserazione gliel’avremmo fatta ingoiare.

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Terza parte

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Anime nere

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Fra le favole che il povero Bino ci raccontava, nelle sere d’inverno, col viso che si trasfigurava davanti al fuoco, questa era forse la più fantastica. E spesso, di notte, popolava i miei sogni con gli altari pagani che grondavano ancora il sangue delle bestie offerte agli dei, le ceneri fumanti e i grandi fuochi sacrificali che avevano arso tutta la notte. Kyria era riuscito a far sopravvivere il suo popolo per più di vent’anni. Adesso era stanco. Le loro fila si riducevano sempre di più sotto i colpi delle malattie e delle carestie. E soprattutto a causa della malvagità degli uomini. Combattevano indomiti contro etruschi, opici, aurunchi, sanniti, mauricini e romani. Aveva un sogno Kyria, vedere la sua gente in pace condurre armenti e cacciare cinghiali. Invocò gli dei: «Padri, fate cessare questa ecatombe». Ci fu un segno. Un rombo di zoccoli riecheggiò nella valle. Una mandria di basse mucche selvatiche comparve. Sfilando a fianco delle capanne attraversò il villaggio. Proseguì dirigendosi a sud. Kyria non poteva sbagliarsi, era quella la via per una nuova vita. Lui aveva poco più di quarant’anni. Era il meddix e il più grande guerriero mai nato in quella tribù di osci. Seguirono le mucche e andarono incontro alla primavera, attraversando i monti i cui boschi diventavano sempre più intricati e impenetrabili. Faggi, abeti, pini impedivano la vista del paesaggio, limitandola al terreno ancora ricoperto da un bianco e abbagliante tappeto di neve. Iniziarono una discesa che si interruppe di colpo. Il terreno si aprì in un’ampia pianura e un fiume possente si divise in numerosi e dolci ruscelli. Gli Osci videro la primavera e il sogno di Kyria giungendo in una fertilissima valle. Vedevano, adesso, la maestosità della montagna che avevano disceso: questo monte, che dava origine al fiume e alla vita, lo chiamarono Atioca. Kyria dispose che si edificasse il villaggio sulla collina che dominava la valle. Lunghi anni di pace circondarono i feroci guerrieri e ne addolcirono le abitudini e la vita. Gli dei li avevano eletti a loro popolo. Kyria si convinse che non sarebbe morto in battaglia e abbandonò la sua spada. Questo videro un gruppo di greci in esplorazione i quali tornarono in forze e di notte attaccarono gli inermi osci, ombre dei guerrieri di un tempo. Kyria si svegliò in preda a un dolore immane al petto, davanti a un esterrefatto soldato che gli aveva trafitto il cuore con una corta spada Si alzò e corse fuori, vide il suo sogno ardere. Solo allora si rese conto che la lama lo aveva ucciso già prima che si alzasse dal letto. E crollò, ai piedi del suo uccisore.

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Qualche centinaio di osci riuscì a sottrarsi al massacro, scappando a rifugiarsi in direzione dell’Atioca. Mentre i greci iniziarono a godere del paradiso di Kyria. L’usurpazione non sarebbe durata a lungo. La terra tremò, era l’ira degli dei. Minuti interminabili di sussulti che ritornavano dopo brevi pause. Per tutta la notte, fino all’alba. Il sole aprì gli occhi su un altro mondo, la valle era quasi completamente scomparsa. Come sprofondata, spezzata da immense faglie. Le pareti di monti che cingevano la valle erano crollate. Svettava, ancora più imponente, solo l’Atioca. Il fiume che scendeva dolce si era ricompattato, impetuoso, riunendo i tanti ruscelli. E si era riversato in uno dei più profondi canyon apertosi nella pianura, snodandosi in un semicerchio. I pochi greci sopravvissuti al sisma furono massacrati dagli osci superstiti, ritornati immediatamente guerrieri. Il popolo di Kyria, vittorioso, andò a insediarsi sull’Atioca. Riprese a cacciare e pascolare greggi, rinunciando agli agi che aveva raggiunto e deciso a isolarsi per sempre dal mondo. La valle lasciò il posto a inospitali e impervi monti. Per anni nessuno osò varcare il fiume che gli dei avevano disegnato a protezione degli Osci. Quel fiume fu chiamato Apo-Osci-Potamos e le sue acque, per i figli dei boschi, furono il confine tra il bene e il male. Bino me la stava raccontando, di nuovo, in sogno. Mi ero assopito, i titoli del notiziario mi svegliarono. Erano le venti, mezzora di tg e a letto. Da un anno e mezzo ogni giorno si affannava a essere uguale a quello che l’aveva preceduto. Nessuna emozione forte, fortunatamente. Sentimmo le notizie di testa, Luciano disteso al primo piano del letto a castello e io seduto sulla lastra di metallo, imbullonata al muro, che fungeva da tavolo. Buona parte dei servizi era dedicata a una delle periodiche conferenze di pace panaraba. A ospitarne l’ultima si offrì Roma, i delegati arrivavano da tutti i paesi arabi, erano impegnati a stilare un piano di pacificazione per le martoriate terre della Palestina. Il servizio finiva con un’intervista esclusiva al capo delegazione di uno dei paesi mediorientali più importante. Emozionato, il giornalista pose scontate domande che diedero il via a un monologo zucchero e miele dell’interlocutore. L’uomo in grisaglia parlava in perfetto italiano, nonostante il tono pacioso. I fratelli palestinesi dovevano deporre le armi e intraprendere un dialogo con il nemico di sempre, per entrare in un futuro di pace. Il viso curato, perfettamente rasato, e

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l’aspetto bonario riuscivano a stento a celare il soldato che si nascondeva dietro quell’aria da uomo d’affari. Profondeva il bene, ma emanava malvagità e morte. Aveva occhi ipnotici che ti costringevano all’attenzione. Ebbi una sensazione che non riuscii a cogliere. Andai a letto sperando di ritrovare le favole di Bino, incontrai un incubo. Rividi Kyria a terra, il petto era squarciato, il soldato che lo aveva ucciso sorrideva maligno. Colsi la sensazione avuta in precedenza, il suo volto divenne quello del capo delegazione arabo, aveva la barba ed era il barbuto capo degli arabi conosciuto in Sierra Nevada. Il male per i figli dei boschi veniva sempre da oriente. L’avevamo incontrato, l’arabo, insieme a Sasà. Eravamo andati a comunicargli che quello sarebbe stato l’ultimo viaggio, avevamo un sogno da realizzare. Stavolta lo trovammo in una cittadina che era stata fondata qualche millennio addietro dai Romani. Ci abbracciò e congedandoci ci assicurò le preghiere al suo Dio, affinché assecondasse i nostri propositi. Il suo sguardo, contrariamente alle parole, non emanava benevolenza. Come spesso mi accadeva ragionavo più lucidamente nel mondo del sogno. Una parte di quello che ci era successo non poteva essere opera dei rudi picciotti di don Peppino Zacco, avvezzi più alle scimitarre che ai fioretti. Il lavoro rifilato a Santoro e a Natalia proveniva da perfezionisti della morte. Da Zacco venivano i pallettoni, non barbiturici e camion. «Kyria, Kyria…» la dolce Atéa scuoteva il cadavere del meddix. «Kyria», mi scossi, era Luciano, solo lui mi chiamava con quel nome, che seguiva quello del nonno del primogenito maschio dei pastori all’epoca in cui nacqui. Accanto al nome di mio nonno avevo quello dell’avo degli Osci. Pochi mantenevano ancora quella tradizione. La mattina si sarebbe tenuta la prima udienza del processo che ci vedeva imputati. Dopo un anno e mezzo avremmo conosciuto i componenti del collegio giudicante, loro avrebbero deciso del nostro destino. Se la violazione contestata contemplava il reato di cui all’articolo 416bis del Codice Penale, agli articoli 74, 73, 80 del D.P.R. 309/90 (violazioni in materia di stupefacenti), reati di criminalità organizzata, potevi attendere una decina d’anni prima dell’intervento di una sentenza definitiva. Sebbene costituzionalmente innocente restavi in carcere in custodia cautelare preventiva, sostanzialmente le misure alternative al carcere non esistevano. Gli indagati per tali colpe trovavano alloggio in sezioni separate ad alta sorveglianza e questo voleva dire venti ore chiuso in cella, niente attività culturali o sportive, niente benefici penitenziari. All’alba c’era la suonata, venivi svegliato dal rumore infernale di una barra di ferro che sbatteva su ogni punto della inferriata della cella. Uscivi per l’aria, perquisizione, rientravi, perquisizione.

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Colloquio famiglia, perquisizione, colloquio avvocato, perquisizione. Processo, perquisizione. Ti arrivava in cella una squadretta di agenti, perquisizione, giù le mutande e flessione. Rientravi dall’aria e trovavi il finimondo, tutto a terra. Passavi la giornata a rimettere a posto, uscivi a far la doccia e al rientro di nuovo tutto a terra. Una persona che non si fosse veramente macchiata di colpe gravissime non poteva sopravvivere. Gli stereotipi più in voga riguardo ai detenuti erano, fuori «Se eri dentro… qualcosa avevi fatto». Dentro, «In carcere sono tutti innocenti». Erano quasi veri entrambi, gli sbirri incarceravano la gente prelevandola in certi ambienti nei quali le anime pure scarseggiavano. Questi avevano commesso di tutto nella loro vita, ma spesso non quello per cui erano dentro. Chi era colpevole non si lamentava del trattamento ricevuto, gli innocenti non si davano pace per dover pagare una delle poche cose non fatte. I primi tempi non ti sentivi veramente detenuto, eri sempre in attesa di un miracolo. Trascorsi cinque o sei anni il cervello iniziava il declino e non ti interessava più di nulla. Dentro avevi solo veleno. Godevano più libertà gli animali dello zoo, ma giustamente loro non avevano commesso nulla di male a parte il fatto di essere bestie selvatiche. La disgrazia peggiore per un detenuto era essere meridionale, e di più essere calabrese, e ancora provenire dalla Locride. Non c’erano giustificazioni che potevano vincere la fermezza morale di giudici, magistrati e poliziotti. Eravamo la feccia dell’umanità, bestie immorali e amorali, da annichilire solamente. I ragazzi che tornavano, dopo la sentenza, con meno di vent’anni di pena, festeggiavano. Detratta la liberazione anticipata in soli quindici anni potevano tornare sulla strada, a delinquere ovviamente. I detenuti appartenevano, fondamentalmente, a due categorie, i cattivi coscienti e i cattivi incoscienti. I secondi erano facilmente recuperabili, avevano sbagliato per emulazione, emarginazione, miseria, per forza. Non percepivano la portata del male che stavano facendo né le conseguenze. Quattro o cinque anni li avrebbero resi docili agnelli. Seppellirli sotto decenni di galera voleva dire costruire dei mostri. I ristretti del primo tipo sapevano sempre quello che facevano, le conseguenze. Non accettavano regole e imposizioni, sembravano docili ma erano veri mostri, dovevi ucciderli per fermarli. Si tenevano insieme lupi e agnelli con la pretesa di migliorare la società. Arrivarono gli agenti, eravamo già pronti, ci fecero spogliare. Finita la perquisizione scendemmo nelle celle d’attesa. Arrivò la scorta, ci perquisì, salimmo sul blindato. Lasciati nelle gabbie di transito poste nei sotterranei del tribunale. Riperquisiti e condotti nella gabbia dell’aula d’udienza. Ci tolsero manette e guinzagli e conoscemmo i nostri giudici.

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Furono chiamati altri due processi prima del nostro, Luciano fece segno ai nostri due giovani difensori: ci erano stati assegnati d’ufficio dopo la rinuncia del luminare indisposto, sembravano svegli e li assumemmo di fiducia. Luciano gli spiegò qualcosa, confabularono una decina di minuti e andarono a sedersi convinti di qualcosa che non afferrai. Dopo un paio d’ore fu chiamato il nostro processo. Chiese la parola uno dei nostri ragazzi, vi era una questione preliminare assolutamente preminente sull’ordine dei lavori. Una recentissima sentenza della Corte costituzionale aveva sancito la incompatibilità di chiunque avesse in qualche modo valutato la misura custodiale con la funzione di organo giudicante. Chi aveva emesso l’ordine di cattura o avesse rigettato l’istanza di remissione in libertà dell’imputato, ritenendo pregnanti gli elementi accusatori, non poteva giudicare l’imputato, presumendo una convinzione colpevolista in testa al giudice. Il presidente ritenne la questione seria, ma la decisione in ordine a essa doveva necessariamente essere rinviata. Non avendo a disposizione né il testo della sentenza della Corte, né la prova che qualcuno dei componenti avesse espresso giudizi prognostici, di colpevolezza. L’avvocato, rosso in volto, richiese la parola. Fece presente che l’imputato era in possesso di tale documentazione. Luciano porse una cartelletta che si era portato dietro al cancelliere arrivato davanti alla gabbia. Aveva fatto preparare, nella matricola del carcere, tre copie, per l’accusa, la difesa e i giudici. Tutti lessero attentamente. Il P.M. si oppose all’acquisizione documentale, data la provenienza non proprio ufficiale. Gli avvocati insistettero per l’accoglimento degli atti. La Corte si ritirò e uscì con una decisione salomonica e intelligente. Non si acquisivano i documenti, e si accoglieva la richiesta dell’accusa. Ma il giudice relatore prendeva atto di versare in condizione di incompatibilità, si asteneva, quindi, dal giudizio. Si rinviò in attesa di una scontata accettazione della Corte d’appello e della sostituzione del membro astenuto. Dopo un mese ci trovammo di fronte il nuovo collegio, e in veste di sostituto del relatore trovammo una splendida e bionda giudice a latere. La sofferenza sul suo viso era ancora dilagante, le occhiaie davano conto di notti insonni. Al lato del presidente sedeva Chiara, la moglie del povero Santoro. Fu chiamato un altro processo prima del nostro. I giovani avvocati si avvicinarono a Luciano, senza bisogno di essere chiamati, e tutti osservavano la scena dissimulando curiosità. Luciano iniziò il consulto.

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Io non avevo alcun ruolo in quella vicenda, la mia sola occupazione era Giulia, seduta fra il pubblico. Abbracciavo il suo sguardo e intrecciavamo un dialogo muto che arrivava alla fine dell’udienza, le voci di giudici e avvocati mi arrivavano attutite. La Corte iniziò ad occuparsi del nostro caso, le schermaglie procedurali, inutili, poste dai difensori a beneficio della gabbia per dimostrare la padronanza della dottrina, furono in breve superate, si aprì il dibattimento. Il P.M. chiese l’audizione dei testi d’accusa, l’acquisizione del materiale probatorio. La difesa citò qualche testimone e fece le richieste, quelle serie. Posto che gli imputati si erano sempre dichiarati innocenti, sostenendo che qualcuno avesse introdotto lo stupefacente nella loro auto per incastrarli. Appurato che le fonti accusatorie consistevano, esclusivamente, nelle dichiarazioni degli operanti. Sarebbe stato utile esperire una perizia tecnica che rilevasse le impronte digitali sulle confezioni di droga, per stabilire a chi appartenessero. Sarebbe stato altresì utile acquisire le registrazioni telefoniche delle chiamate giunte alla centrale operativa, nelle ore precedenti l’arresto. Il rappresentante dell’accusa divenne cianotico, le parole uscivano velenose, la difesa stava, subdolamente, mettendo in dubbio la parola di fedeli servitori dello Stato. Gli interventi, in replica, si succedettero estenuanti. Luciano dava continui suggerimenti. Io e Giulia viaggiavamo per altri mondi. La Corte entrò in camera di consiglio per giungere a una decisione. Trascorse qualche ora prima che la campanella ne annunciasse il rientro. La battaglia era disegnata sui volti dei giudici che sedevano ai lati del presidente. La spuntò Chiara, richieste difensive accolte. Si tennero un paio di udienze di semplice rinvio, e dopo alcuni mesi il processo entrò nel vivo. Sulle confezioni dello stupefacente non vennero reperite le nostre impronte, anzi gli ultimi a maneggiarle dovevano avere usato dei guanti. Dalle registrazioni delle chiamate in arrivo saltò fuori una telefonata che avvertiva la Polizia della presenza, a bordo di un’auto, di un carico ingente di cocaina. Venivano indicati targa, colore e tipo d’auto, e la via dov’era parcheggiata. La voce aveva una forte inflessione araba. I poliziotti ghignanti sedettero uno alla volta davanti alla Corte. Nei loro rapporti avevano sostenuto che l’operazione era frutto di lunghe e laboriose indagini, protrattesi per mesi, aventi ad oggetto appostamenti davanti all’abitazione di via Spartaco, inseguimenti dell’auto dell’imputato. Gli avvocati dimostrarono per testi, e documentalmente, che la casa e la macchina erano in uso agli imputati da poco meno di una settimana. I testimoni dell’Accusa uscivano dall’aula come pugili suonati. Qualche altro mese e si arrivò alle richieste finali. Piena assoluzione gridarono infervorati i nostri due principi del foro. Nonostante le evidenze emerse, il signor Pubblico Ministero insisteva per la condanna. La richiesta era però mite, dai ventiquattro anni di pena base riteneva si dovesse detrarre un terzo, per il beneficio del rito abbreviato, richiesto ma non concesso in udienza preliminare.

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Il tutto faceva sedici anni di galera, una bazzecola. Giulia mi guardò disperata, scoppiò a piangere e scappò fuori. Ci fu un brusio dal pubblico, al quale contribuì anche qualche agente della nostra scorta. Il Presidente zittì tutti. Si ritirarono per decidere. Le facce dei giudici annunciarono la sentenza prima della pronuncia. Il Presidente era imperturbabile, come al solito. Il giudice alla sua sinistra livido, Chiara raggiante. Cinquecentotrenta, secondo comma, assoluzione. Che ai sensi del vecchio rito sarebbe stata per insufficienza di prove, unica concessione fatta all’accusa. Ritornammo in cella al guinzaglio, per l’ultima volta. Mettemmo nei sacchi neri della spazzatura le cose che ci avevano accompagnato per due anni, niente doveva restare, portava male. Andammo a salutare i pochi ragazzi che ci erano stati amici e uscimmo che era sera. Una leggera pioggia autunnale ci accolse, insieme a Gino, Giulio, Tonino, Ciccio e Giulia. Avevamo un piccolo mondo di persone che ci volevano bene. Mangiammo in una piccola trattoria per camionisti, fuori Milano. La testa ci girava, non sopportavamo i rumori. Chi sta dentro pensa di non essersi staccato dal mondo esterno, di sapere come vanno le cose e le persone fuori. Esci e ti accorgi che tutto è andato veloce, il doppio del tempo che hai passato. Devi recuperare piano, per alcuni mesi resti a dormire nella branda di acciaio, dove hai passato tante notti. Ti svegli convinto di aver sentito la suonata. I ragazzi trovarono alloggio da uno degli amici che ancora Tonino aveva in giro. Io andai da Giulia. Non facemmo discorsi, eravamo una cosa sola, mi avrebbe seguito e non voleva spiegazioni. Andammo, con cautela, a trovare Anna e Chiara. Ci fecero mille raccomandazioni mentre ci salutavano dalla porta, anche loro erano il nostro mondo. Girammo qualche giorno per Milano. L’allegria, la voglia di vita degli inizi, erano svanite. I milanesi vivevano chiusi in casa. Il mondo, fuori, gli faceva sempre più paura. I paladini, che avevano tanto osannato, gli mollarono un bidone al posto del nuovo corso promesso. Lasciammo alle spalle un passato che allo stesso modo non poteva più tornare. Arrivammo in macchina nel regno, fra i monti, di Stefano Bennaco e della sua famiglia. Là eravamo al sicuro. Riprendemmo contatto con la nostra terra e la nostra gente, il cervello ritornò a girare nel modo normale, per noi. C’erano una decina di case, ma solo quattro o cinque famiglie, dello stesso ceppo, vi vivevano ancora. Era la frazione montana del nostro paese, vi abitavano gli ultimi pastori sopravvissuti al progresso che ci vollero portare. «Quando stavamo fra di noi eravamo persone tranquille, ognuno svolgeva il suo compito, si rispettavano regole condivise, ci si aiutava a vicenda.

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Ognuno aveva il suo territorio, del quale era padrone assoluto. Decideva dove pascolare, piazzare l’ovile, dove coltivare, tagliare alberi, bruciare, fare quello che voleva. Chi invadeva il territorio altrui sapeva a cosa andava incontro e ne accettava le conseguenze. Chi sbagliava pagava, e trovava un giudice implacabile, prima di tutto, nella propria famiglia. Avevamo poche e certe regole, stampate nel nostro codice genetico. Avevamo un mondo che era nostro, gli Dei ce lo avevano donato e Kyria ci condusse a esso. Volevamo stare in pace a custodire le nostre greggi. Arrivarono i Greci a distruggere il paradiso. Decidemmo di vivere in un inferno per non attirare belve fameliche. Solo l’esercito di Dio venne in pace con le facce di solitari e pii monaci basiliani. Venne a cercarci il Borbone per imporci dazi e regole. Si inventò l’esercito dei pungiuti per piegarci dal nostro interno. Gli succedettero i civili Savoia, mantennero l’armata dei pungiuti, introdussero nuovi dazi e nuove regole. Arrivarono le Camicie Nere ad annetterci all’Impero al quale l’Italia aveva diritto, nerbate e olio di ricino. Venne la Repubblica e ci spedì per il mondo a spaccarci la schiena per un tozzo di pane. Avevano bisogno di braccia e spopolarono i nostri monti. Ci costrinsero ad andare a scuola, ci allettarono col denaro e il miraggio di una vita migliore. Noi eravamo persone normali solo sui nostri monti, fuori da lì diventavamo belve in cattività, un animale selvatico impazzito, cosa si aspettavano, di addomesticarlo? Ci hanno cercati, non siamo andati noi a chiamarli. Noi stavamo bene con la nostra fame, le nostre malattie, la nostra arretratezza, non volevamo aiuti. Sono venuti nei nostri pascoli ad attaccare cartelli, divieto di caccia, divieto di pesca, divieto di pascolo, tutto divenne un divieto. Perché un popolo non può scegliersi il futuro e vivere come crede, sulla propria terra? Non volevamo la loro integrazione, il loro progresso, la loro lingua, i loro soldi. Loro hanno aperto le porte al demone». Luciano evitava di bere, quando lo faceva diventava cattivo, tirava fuori una malvagità insospettabile, e ripeteva quel discorso all’infinito, a tutti, sino a quando i fumi dell’alcol non svanivano insieme al demone che l’aveva posseduto. Avrebbe distrutto il mondo in quei momenti. Quando si svegliava, il giorno dopo, mi chiedeva sempre «Cos’ho detto?». «Niente, che la porta l’hanno aperta loro». Rideva e tornava quello di sempre. Ed eccoci là, non eravamo più dei ragazzini. Da decenni pianificavamo colpi e omicidi, non ci saremmo più fermati fino a quando non avremmo sbattuto contro un muro. Toccava ai pungiuti, adesso. I traditori del proprio sangue, venduti all’ordine costituito. Potemmo parlare liberamente, dentro non si poteva, telecamere e cimici erano dappertutto. Ci scambiammo le conclusioni di entrambi e coincidevano perfettamente.

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Una mano ce la aveva data anche Yussuf, con le sue lettere. Queste terminavano sempre con una massima o un versetto del Corano o della Bibbia. In quelle frasi si nascondeva il messaggio che il nostro amico intendeva trasmetterci. Luciano riusciva a decifrarli, facilmente. I più importanti recitavano: «Il padre più buono impazzisce se posseduto dal demone del potere, arriva ad uccidere i figli che non l’assecondano». «Caino seguì il Diavolo lasciando il fratello morente». Il padre era il loro capo, l’origine del nostro male. Qualcuno si era opposto al nostro annientamento e venne falciato. I nostri fratelli continuavano a lavorare con lui. Quando gli comunicammo la decisione di chiudere con quel lavoro firmammo la nostra condanna a morte. Gli arabi che mandò a ucciderci non ne ebbero il coraggio, ricordavano bene i rischi che prendemmo per salvare Yussuf. Ci riempirono la macchina di droga e, per salvarci, chiamarono la Polizia. Per questo pagarono con la vita. Gli uomini di Tonino ci informavano che continuava a girare roba uguale a quella che distribuivamo noi. Il capo degli arabi riagganciò Sasà e Luigi, scampati all’arresto e con il ricatto li convinse a continuare il lavoro. Sistemarono Alfio, Santoro e Natalia. Zacco colse il momento favorevole e affondò il colpo. Fosse riuscito in pieno, quel piano ci avrebbe cancellati per sempre. Don Peppino non si dava pace, il ragazzo che Tonino gli aveva infiltrato ce lo descriveva come impazzito. «Questi cornuti, dopo due anni sono già in giro… e che cazzo di giustizia è questa… con tutta quella droga… dovevano prendere trent’anni e sono di nuovo qua intorno ad armare tragedie, li dobbiamo precedere». Eravamo a bordo di due macchine, infilate in un viottolo nascosto da un alto canneto, a cento metri dalla statale. Su una c’era Tonino alla guida, Luciano al suo lato, e io dietro. Sull’altra guidava Giulio e gli altri occupanti erano Ciccio e Gino. Avevamo tutti un auricolare inserito, collegato a una ricetrasmittente. Li immaginavo tranquilli a fare le loro battute e ascoltare, alla radio, le canzoni in voga. I tre ragazzi che ci stavano davanti andavano spensierati a mietere morte. Il nostro amico ci informò, «Il blu segue il rosso», erano due macchine, Zacco era nell’auto blu. Raggiungemmo l’incrocio e li lasciammo passare. Andavano veloci, c’era un incontro con altri boss dei paesi vicini. I ragazzi sorpassarono, affiancarono la macchina rossa e iniziarono a sparare. Contemporaneamente Luciano aprì il fuoco sugli occupanti dei sedili anteriori dell’auto blu. Stavo per fare la stessa cosa su don Peppino, capii che non era armato e mi fermai. Scendemmo, i guardaspalle si beccarono un colpo in testa, per ciascuno.

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Don Peppino scese tranquillo, ci girò le spalle, «Fate presto pezzi di merda». Gli sparammo con gusto, ricaricammo e risparammo, col badile dovevano raccoglierlo. Stefano piazzato qualche chilometro più avanti ci avvertì che stavano uscendo le pattuglie. Risalimmo in macchina con calma e prendemmo la via dei monti. Ci lavoravamo da anni, forse da sempre, a quel progetto. Solo io e Luciano, mai ci confidammo con Sasà e Luigi. Per andare dietro ai soldi, Zacco ci aveva preceduti, adesso subiva il sorpasso. Ci eravamo coltivati per anni un sacco di ragazzi, li avevamo aiutati, riempiti di soldi, tutto di nascosto. Al piano negli ultimi tempi partecipò Tonino, che tutti quei ragazzi continuò a controllarli dopo il nostro arresto. Erano andati, su nostra richiesta, a ingrossare le fila dei pungiuti, pur avendo, ognuno, un conto da regolare con questi. Ci dimostrarono riconoscenza fino in fondo, informandoci di tutto quello che vedevano o sentivano. Iniziammo a toccare solo i capi e i sicari più pericolosi. Loro erano i nostri nemici, avevano portato il lutto nelle nostre case. Don Santino Cozza era uno degli alleati più fedeli di Zacco, aveva un nutrito gruppo di fuoco costituito da strettissimi famigliari. Dopo la morte dell’amico si era segregato in casa, preparava una risposta circondandosi di strettissime misure di sicurezza. Viveva in una specie di fortino circondato da altissime mura di cinta, telecamere. Cani feroci ne proteggevano l’incolumità. L’accesso era limitato ai figli del fratello, che fungevano da guardaspalle, e alla giovane moglie. Riceveva ogni tanto qualche picciotto, che poteva entrare da solo e dopo un’attenta perquisizione operata dai nipoti. Abitava al pianterreno, gli infissi venivano sbarrati costantemente. Dopo un mese di inutili appostamenti rinunciammo all’agguato aspettando che allentasse le maglie difensive di un apparato che non mostrava crepe. Giulio, Ciccio e Gino ci avevano un po’ preso la mano, sapevano gli obbiettivi e spesso agivano precedendo i nostri ordini. Appartenevano a una generazione più spregiudicata della nostra, nel campo della morte ci sopravanzavano di parecchio, e non era davvero cosa facile. Studiarono don Santino e individuarono la sua debolezza. Sulla cinquantina, Cozza era divenuto vedovo da qualche anno. Una leucemia fulminante aveva portato via la madre delle sue due figlie. Queste ultime, già sposate, non vivevano con lui. Per porre rimedio alla sua solitudine si autorizzò, da solo, a interpretare elasticamente le regole societarie e portò a fargli compagnia una giovane rumena. Lorenza veniva da Craiova, la quarta città per grandezza della Romania. Era sbarcata a Torino, in cerca di fortuna, ed era finita in un night club gestito da un uomo di Cozza. Prima che i clienti ne potessero approfittare don Santino la ricolmò di soldi e la portò con lui a riempire il vuoto talamo.

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In paese le belle ragazze abbondavano, ma difficilmente avevano capelli ambrati, occhi verdi e un metro e ottantasei di altezza. Lorenza fu un sasso in un placido stagno, il boss se ne innamorò pazzamente e ovviamente ne divenne gelosissimo. Nonostante il terrore che Cozza incuteva era ardua impresa resistere alla tentazione di posare almeno, lo sguardo su quella creatura sovrannaturale. Parecchi andarono oltre, facendo impavidi complimenti alla diva e così, ogni tanto, qualche ardito giovane scompariva senza lasciare tracce. Il potere e la forte personalità del Don si fiaccavano inermi di fronte a quella statua che spesso si sottraeva agli ordini del padrino. Volente o nolente don Santino, la rumena, ogni mattina, usciva a far compere, da sola che nemmeno dei nipoti si fidava, riguardo alla carne. Partiva a bordo di un enorme fuoristrada blindato, bardata con un cappotto scuro, lungo fino alle caviglie, grandi occhiali da sole a coprire il viso, foulard annodato sul rame abbagliante dei capelli. Nel giro dei negozi della costa l’ultima, e obbligata tappa, era costituita dal forno di Pasquale Panazza. Alle dodici e trenta esatte il fornaio doveva avere pronto il pane per la rumena, pane che usciva da poco dal piccolo forno a legna tradizionale, riscaldato da rami di ulivo. La signora solo quello digeriva. Prima dell’avvento di Lorenza, Pasquale, dopo aver sfornato pagnotte tutta la notte, vendeva gli ultimi panini alle otto e trenta e se ne andava a letto sino al pomeriggio. La rumena lo costrinse a cambiare abitudini. Pasquale si portò in negozio un grande lettone e lo sistemò nella calda stanzetta posta alle spalle del forno. Poteva dormire fino alle undici e mezza, alzarsi, e preparare la merce da consegnare puntuale all’unica e particolare cliente di mezzogiorno, e infine tornare a letto. Faceva tutto meccanicamente, con gli occhi quasi chiusi. Quando sentì l’uscio aprirsi, di riflesso infagottò il farinaceo. Se ne fotteva di guardare quella donna, preferiva la sua carnosa Antonia, voleva solo tornarsene a letto. Fece un gesto come per togliersi una fastidiosa zanzara quando Ciccio gli appoggiò al mento la canna della corta Walter PPK calibro 9 corto di fabbricazione belga. Dovette sforzarsi per focalizzare l’immagine del giovane incappucciato che lo strattonava spingendolo sul retro e lo ammanettava al piede del suo comodo giaciglio, voleva quasi ringraziarlo per averlo portato a letto. Lorenza entrò con la sua solita baldanza e la consueta scia di profumo francese, che solo quello usava. Seguì con aria di superiorità il ragazzo che la minacciava, pistola in pugno. Nel ripostiglio il fornaio già russava in mezzo al tepore del forno e al profumo del grano. Lorenza restò delusa quando comprese che l’impresa era finalizzata a ottenere solo il cappotto, gli occhiali e il foulard, ma non si arrese. Buttò lontano il pastrano e prima che Ciccio lo raccogliesse si denudò completamente. Pasquale era sicuro di sognare, mica le donne potevano essere fatte così, con quella esile vita, i seni al cielo, la seta al posto della pelle, e quegli urli di piaceri; non era

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nemmeno normale che gli uomini avessero una tale mostruosità in mezzo alle gambe. Si, era solo un sogno, ma quella posizione la avrebbe pretesa anche dalla sua musa. Iniziarono a preoccuparsi, Giulio e Gino, Ciccio era in ritardo di quasi mezzora sui tempi. Anche Santino si preoccupò e il cellulare nella tasca del cappotto iniziò a urlare, inviperito. Ciccio guardò Lorenza, interdetto, la ragazza fu più reattiva, fece segno di passarglielo, con la voce chioccia «Micio sto arrivando, il fornaio era in ritardo». «Sto cornuto!», rispose da uomo don Cozza. Davanti al forno diversi giovanotti passavano per caso, tutti i giorni, a quell’ora. Guardarono con voluttà la rumena salire sul fuoristrada, che come sempre li lasciò delusi ad attendere almeno uno sguardo e partì al suono di Killing me softly, dei Fugees. I ragazzi corsero veloci a un pranzo che quel giorno sarebbe stato freddo. Ciccio passò davanti a dove sapeva che erano nascosti i compagni, abbassò il finestrino e alzò il dito medio, a pugno chiuso. «Fanculo» gli urlarono gli amici. Azionò il telecomando e aprì il cancello esterno del bunker. I nipoti sapevano che lo zio li stava spiando da qualche finestra e a testa bassa lasciarono entrare la bella zia, senza guardarla. Il secondo pulsante elettronico spalancò la porta del garage comunicante con l’interno della villa, Ciccio attraversò un’anticamera ed entrò nel salone. Un patetico innamorato gli dava le spalle, stava apparecchiando, aveva sistemato fiori sulla tavola e accendeva romantici lumini. «Quel cornuto di Pasquale, gli faccio sparare alle gambe». Faceva l’imbronciato, Santino. Si aspettava che da dietro le spalle comparissero le braccia della donna, le sue labbra morbide gli avrebbero fatto dimenticare il ritardo, aveva in tasca un regalo, uno ogni giorno della vita che avevano, e avrebbero trascorso insieme. Sarebbero state contente le figlie, tutto quello sperpero era alla fine. Santino non comprese il perché di quel morso alla schiena, di quei denti che affondavano nella carne. La lunga lama dell’Opinel n. 12 si infilzò facilmente fra le vertebre della colonna dorsale del boss, lo paralizzò all’istante. Prima di morire Santino seppe che Lorenza aveva urlato di piacere, fra le braccia del suo assassino, e che adesso era nuda accanto a quel cornuto di Pasquale, che poi cornuto non lo era. I nipoti videro uscire di nuovo la zia e pensarono ad una delle solite liti d’amore della strana coppia di parenti. Rimasero a far da scorta a un cadavere, completamente ignari. Nel primo pomeriggio Antonia portò i suoi ottanta chili di sensualità a fare il caffè a Pasquale, che dopo il riposo aveva sempre attenzioni particolari per lei. Dovettero tenerla in quattro, la moglie del fornaio, che con la pala del forno stava mandando all’altro mondo il marito e quella zoccola rumena. Altro che pane voleva quella da Pasquale. E se ne dissero di storie, prima che l’invidiato dongiovanni, ripresosi dalle botte, riuscisse a spiegare cosa ci facesse con Lorenza nuda nel letto.

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Solo la scoperta del cadavere di don Santino convinse tutti della veridicità della storia raccontata dal fornaio e dalla farsa si giunse alla tragedia. Un’esecuzione così clamorosa non si era mai vista, colse tutti di sorpresa, noi compresi. I ragazzi divennero temuti oltre misura, uscivano raramente, ma quando erano in giro significava caccia. Tutti aspettavano di conoscere solo il nome della vittima. Avevano creato con gli anni una propria rete di amicizie, ragazzi della loro età che li veneravano. Divennero anime nere come non si erano mai viste, solo Sante, forse, avrebbe potuto sostenere il confronto con loro. Erano più adatti di noi a quei tempi e a quei luoghi. Facevano quasi tutto loro. Ci fu una specie di rivolta, i pungiuti erano allo sbando, in poco tempo una decina dei loro più importanti rappresentanti passò all’altro mondo. In tanti iniziarono a sottrarsi al loro controllo, tanti trovarono il coraggio di saldare conti da lungo tempo in sospeso. I colpi arrivavano da tutte le parti e da chiunque. Si creò una sorta di zona franca, libera da influenze di malandrini, nessuno dava conto a nessuno se non a noi. In qualche anno la guerra perse di intensità, le esecuzioni si ridussero notevolmente, bastava dare un esempio ogni tanto per far sapere che eravamo presenti. Nel nostro territorio eravamo al sicuro, stringemmo alleanze con gruppi sparsi per gli altri paese, costituiti da gente lontana dai malandrini. In tanti iniziarono a rivolgersi a noi, per ogni tipo di problema. Aiutavamo tutti, senza chiedere niente in cambio, era la nostra gente. Piccole e grandi vessazioni cessarono, avevamo più lavoro della capitaneria dei Carabinieri e del commissariato di Polizia messi insieme. Ritornai bambino, con Luciano. Ricordai i suoi occhi, grandi, marroni, sempre umidi quando c’erano le feste di Natale. Non voleva rientrare a casa, non c’era nessuno ad aspettarlo. La madre usciva nel suo nero perenne e lo andava a riprendere. Lo trovava sempre là, seduto accanto al piccolo monumento che ricordava dove era morto un modesto messo comunale, suo padre. Abitavamo vicino alla caserma dei Carabinieri. Spesso vedevamo uscire don Peppino Zacco di ritorno dalla firma quotidiana nel registro dei sorvegliati speciali. Ci passava vicino, ogni tanto si accorgeva di noi, si avvicinava, lasciava cadere qualche moneta nella mano di Luciano, «Comprati le noccioline orfanello» e si infilava nella macchina guidata da qualche picciotto. La mamma di Luciano osservava sempre dalla finestra, usciva, prendeva i soldi dalla manina del figlio e li buttava. Capimmo prima di sapere chi era il male, v’erano tanti orfani abbandonati, come Luciano, in giro per i paesi. Non ne avevamo coscienza, ma tutto era partito da lì. Quello che eravamo, che avevamo e avremmo fatto nasceva da quelle scene d’infanzia. Tutta quella violenza era nata perché un pezzente qualunque aveva avuto un posto di lavoro che don Peppino aveva riservato a un suo amico.

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Forte della sua ideologia politica e legge alla mano, il padre di Luciano aveva ottenuto quel lavoro facendo esposti e denuncie, costringendo lo Stato a far rispettare il diritto ed escludere dalla graduatoria chi lo precedeva in modo truffaldino, come andava dicendo orgoglioso, il pover’uomo, di questa sua vittoria. Non c’era riunione di sezione nella quale non si autoelogiasse per il suo coraggio, il suo esempio. Quante vite distrusse quell’emerito coglione. Avevamo passato quel periodo di guerra indenni, sia fisicamente che legalmente. Il dolore che ci dispensò l’uomo ce lo portò, stavolta, la natura. Cosimo, il figlio più piccolo di Stefano, arrivò trafelato, suo padre era a terra, nell’ovile, non dava segni di vita. Corremmo col cuore in gola, lo trovammo occhi al cielo, in mezzo alle capre. Avevano appena finito di mungere, Stefano si era alzato per portare dentro i secchi del latte, li aveva appena sollevati quando si era afflosciato come un sacco vuoto. Giaceva placido fra le bestie, il latte gli aveva inzuppato i vestiti, il cuore aveva ceduto di colpo senza preavviso. Morì senza dolore, tutti ci augurammo, intimamente, una morte simile. La morte voluta da Dio lascia un dolore calmo, facilmente placabile fra le braccia di una tenera moglie, o stretto al petto di un gracile figlio. La morte data dall’uomo lascia un deserto arido che tutta l’acqua del mondo non riesce a irrigare. Sotterrammo Stefano, lasciammo le consegne ai ragazzi e partimmo, con Luciano e Tonino, per Milano. Non volevamo finire il nostro tempo lasciando conti in sospeso, e il nemico, questa volta, era molto più potente di un don qualunque. Alloggiammo a casa di Giannetto, uno dei ragazzi che ci eravamo cresciuti all’insaputa di tutti. I conti li aveva sempre tenuti Luciano, così per anni gli passavamo roba e soldi senza che nemmeno Luigi e Sasà lo venissero a sapere. Giannetto era uno dei tanti resi orfani da Totò Serretto per ordine di Zacco, non ci poteva tradire. Con i soldi che gli lasciammo, e su nostro ordine, continuò a trafficare coca anche dopo il nostro arresto. Trattava grosse quantità e conosceva i più grossi trafficanti. Il fornitore più importante, in giro, era un calabrese, di città non come noi. Distribuiva quei pacchi che conoscevamo bene, era il nostro uomo, gli mandammo sotto Giannetto. Sebbene i quantitativi smerciati da Giannetto fossero rilevanti, la richiesta della fornitura di una tonnellata di coca, come ci aspettavamo, lo colse di sorpresa. Ci fu qualche mese di tira e molla. Giannetto si caricò il quasi paesano in macchina, lo fece stendere nel sedile posteriore, gli calò addosso una coperta e lo portò in un appartamento. Mise una serie di valige sul tavolo, le aprì, e gli disse di contare i soldi. Avrebbe pagato tutto in una volta, alla consegna. Il calabrese prese tempo e dopo qualche settimana fissò un appuntamento a Giannetto.

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Doveva parlare con i reali proprietari della merce. Partimmo in macchina, arrivammo a Denia, una piccola località turistica sotto Valencia. L’appuntamento era dentro un curioso locale, ristorante tipico valenziano. Giannetto si infilò dentro e si sedette a un tavolo. Ci sedemmo a un caffè di fronte. I capi del traffico arrivarono sicuri di loro stessi. Senza troppo guardarsi intorno entrarono baldanzosi, erano ben vestiti, curati, sembravano due ragazzini. I tre si presentarono e si immersero nei loro discorsi, non ci notarono nemmeno quando gli passammo accanto, presi come erano dagli affari. Ci sedemmo in fondo al locale, un cameriere prese in un attimo le ordinazioni, calamari alla plancha e San Miguel, per due. Giannetto si alzò di colpo interrompendo la discussione, indicò ai due il nostro tavolo. La baldanza sparì. Invecchiarono di colpo di fronte alle loro coscienze. Si avvicinarono. Luigi aprì un sorriso in volto, lanciò un abbraccio che Sasà bloccò sul nascere, voleva spiegarci. Sasà ci disse quello che volevamo sapere, ce lo diede in pochi minuti. Si alzarono e uscirono a testa bassa. Provai pena per loro, i ritmi a cui erano abituati gli avrebbero fatto dimenticare presto. Finimmo calamari e birra e uscimmo, non avevamo la forza di parlare, salimmo in macchina e Giannetto ci riportò a Milano. Le vite, mie e di Luciano, si separavano forse per sempre da quelle di Luigi e Sasà. Un pezzo di noi se ne andava con loro. Li avevamo amati e li amavamo ancora, non ci sentivamo migliori di loro. Erano sicuramente più loro nel giusto, una vita piena, da godere, questo volevano. Il nostro percorso era invece segnato da un progetto di morte a cui oramai era stupido, oltre che impossibile, sfuggire. I nostri princìpi, le nostre vendette, le nostre regole, i conti da chiudere, erano forse delle enormi cazzate. Ma il nostro demone ci portava sino in fondo. Gli augurammo mentalmente ogni bene, almeno loro si sarebbero salvati, ed eravamo contenti di questo. Erano e sarebbero rimasti nostri fratelli, mi sentii buono a far quei pensieri. Mi accorsi che Giannetto ascoltava i Dire Straits, Brothers in arms, e mi convinsi che era suggestione. Giannetto si occupò di reperire il necessario per il viaggio. Nei versetti che ci scriveva Yussuf era inserito un numero di telefono, lo contattammo e dopo qualche giorno lo vedemmo uscire dall’aeroporto di Milano Malpensa. Era uguale a quando lo salutammo dal molo del porto, imbarcato su una nave che lo riportava a casa. La rosa scarlatta, disegnata sullo zigomo, attestava il suo passato di combattente. Dei ragazzi della Sierra Nevada, ci disse, era uno dei pochi sopravvissuti. Giannetto ci procurò macchina, documenti e armi, che nascondemmo in una portiera dell’auto.

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Guidava Tonino, entrammo in Francia attraverso Ventimiglia, senza essere controllati. Percorremmo l’autostrada sulla costa fino a Marsiglia, qui imboccammo l’A7 che ci portò nel cuore della Francia. Un bel paesaggio mediterraneo ci accompagnò per un lungo tratto, incrociavamo, ogni tanto un enorme fiume, il Rhône. Una massa d’acqua impensabile per le nostre terre, che correva ad abbracciare il Mediterraneo. Il Rodano prima di incontrare il mare si fermava a plasmare il fantastico paesaggio della Camargue. Superammo Avignone e uscimmo in una cittadina dal nome romano, Aurosio, antica colonia dell’impero. Il cartello francese la indicava come Orange. L’arabo aveva il culto per quei posti, seguimmo la segnaletica che indicava il monte Ventoux. Le informazioni di Sasà erano dettagliate, precise, trovammo la splendida villa senza difficoltà. Si fece buio, imboccammo uno sterrato e dormicchiammo in macchina sino all’ora dell’appuntamento. Il nostro uomo viveva e svolgeva la sua attività politica a Parigi. Era coccolato e osannato dagli occidentali, che forse ignoravano quale macellaio si erano messi in casa. Il fine settimana lo trascorreva nella splendida villa di campagna ai piedi del monte Ventoso. Ogni lunedì all’alba faceva rientro in macchina a Parigi. Alle cinque di mattina il grande cancello di metallo si spalancò lasciando uscire una lussuosa berlina. Il signore della morte si era imborghesito, si sentiva intoccabile in quella terra, niente auto blindata, niente scorta ed armi, solo un autista lo accompagnava ad attestare il suo status di ricchissimo uomo d’affari, oltre che paladino della pace. Luciano tagliò la strada all’auto che si fermò senza sospetti. L’autista scese come per sbrigare una pratica burocratica. Tonino, con una sola mano lo tirò dentro, dal finestrino, e lo spedì nel mondo dei sogni con una testata. Il signore della morte guardò con fastidio lo sportello che si apriva. Quando prese coscienza della mia presenza e di quella di Yussuf aprì un sorriso falso, «Figli miei, ci sono ragioni che travalicano il valore delle nostre misere vite», fu inutile. Lo facemmo scendere e inginocchiare. Guardò con orrore i corti fucili, con canne e calcio segati, che lo guardavano con due occhi vuoti dai quali uscirono a ripetizione decine di pallettoni. Due colpi e ricaricavamo, non contammo il numero delle ricariche, prendevamo le cartucce della Fiocchi dalle cartucciere che erano legate alla vita. I fucili rombavano e scaricavano piombo. A ogni colpo l’arma cortissima cercava di sfuggire di mano e spostare in alto la mira. Impietosamente stringevamo il calcio e abbassavamo le canne indirizzandole al corpo maciullato. Sentivo la polvere da sparo impastarmi la bocca, gli occhi bruciavano. «Basta» urlò Tonino.

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Mai una morte era stata così liberatoria. Quello che lasciammo sull’asfalto sembrava più il corpo maciullato di un animale, finito sotto le ruote di un camion, che quello di un uomo. Il demone che aveva distrutto migliaia di vittime era adesso in un inferno islamico, se ne esisteva uno. Cambiammo percorso per il ritorno, invece di discendere la Francia, risalimmo verso est. Prima di mezzogiorno uscimmo in una piccola città della Lorena, Nancy, una splendida bomboniera. Parcheggiammo dietro un’enorme piazza chiusa da altissimi cancelli dorati e pavimentata in pulitissimo porfido. Sembrava di essere andati indietro nel tempo, al centro campeggiava la statua del Duca Stanislas che le dava il nome. In quell’atmosfera che poteva essere rinascimentale ci sedemmo ai tavoli di un ristorante che la mostrava in tutta la sua bellezza. Mangiammo le noix st. Jacques, abbandonammo la macchina e ci dirigemmo, a piedi, verso la gare. Il treno attraversò tutta la Moselle e ci scaricò a Città di Lussemburgo. Cambiammo una serie di treni locali che ci portarono in Germania. Trier, Coblenza, Mannheim, Munchen. Alle ventuno prendemmo un Euronotte che attraverso il Brennero ci condusse in Italia. Alle quattro e venti di mattina ci trovammo a fare colazione in piazza Medaglie d’Oro, davanti alla stazione di Bologna. In via San Vitale ci accolse un nostro amico e la sera, dopo aver portato Yussuf in aeroporto, ripartimmo per le nostre terre, per una volta soddisfatti e senza rimorsi. Era ancora buio, trovai Giulia immersa nel sonno, avvolta nel suo profumo. Appoggiai la mano sul suo ventre, la ritrassi terrorizzato, la vita che aveva dentro si mosse, improvvisamente. Le sfuggì un riso leggero, mancava pochissimo al parto. Erano stati, per me, nove mesi di paure. Si diceva che il soprannaturale quando voleva punire un malacarne lo colpiva negli affetti, sapendo inutile qualsiasi punizione alla sua persona. Il malacarne non aveva alcun timore per se steso, del male fatto doveva rendere conto. Il male peggiore che temesse era di vedere riversata la collera ultraterrena sui suoi figli. Ogni sera, prima di dormire, pregavo il Dio dei cristiani, gli Dei pagani, e soprattutto il pio monaco basiliano che trasformò la pece in pane per i padri, di riservare a me ogni male e salvare mia moglie, i miei figli, Luciano, Gino, Giulio, Ciccio, Tonino e tutti gli affetti a me cari. Se il conto da pagare era salato ne doveva rispondere l’ideatore non gli esecutori obbligati. Mi rifiutai di conoscere il sesso del nascituro, la sua salute. Ad accompagnare Giulia ai controlli medici provvide sempre Luciano. Quale splendida creatura era entrata nella nostra vita, faceva da moglie, madre, sorella, amica, sempre sorridendo cucinava, lavava, dava ripetizioni. Mai un lamento, un rimprovero, un pentimento.

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Aveva fatto una scelta in piena coscienza e sarebbe rimasta coerente ad essa, per sempre. Per ciascuno di noi divenne la persona più importante, nessuno osava contraddirla, la amavamo senza limiti. Il giorno venne, andavamo avanti e indietro per i corridoi dell’ospedale, tesi all’inverosimile. Non mi bastarono le forze per entrare in sala parto. Divenni uno straccio. Quando l’ostetrica chiamò, il coraggio di entrare lo trovò, per primo, Luciano. Passarono minuti interminabili, la porta si spalancò e Luciano uscì con due fagottini stretti al petto, «Hanno tutto in ordine, compresi due bei pisellini». Due gemelli, identici fra di loro e spiccicati a Giulia. La natura ci amava ancora, nonostante tutto, una tranquillità mai provata mi pervase, qualunque cosa fosse accaduta Giulia non sarebbe rimasta sola. Ringraziai Dio, Dei e Santo. Gli demmo i nomi di mio padre e del povero Bino e li portammo a casa. Se ci avessero lasciati in pace avremmo finalmente sotterrato l’ascia di guerra, non vollero. A vendicare i pungiuti, messi all’angolo, ci volle provare lo Stato. Regole secolari erano state spezzate, la Legge non riusciva più ad avere informazioni dall’interno della nostra gente, le gerarchie dovevano essere ristabilite, come era sempre stato. L’Ordine, in quelle terre, aveva due facce differenti. Quella seria e triste del capitano Randone, e quella arrogante e ghignante del commissario Saffino. Il primo siciliano, l’altro piemontese. Erano due mondi opposti, lavoravano per lo stesso fine, con metodi diversi e diversa sensibilità. Bastava, a sancirne la differenza, l’abitudine di dare del voi a chiunque, del capitano, fosse l’interlocutore anche un ragazzino quindicenne. Il tu, il commissario, che indirizzava a donne, vecchi e bambini, da zero a cento anni. Quando arrivava il capitano ti entrava lo Stato, il male che ti doveva fare per il bene supremo, del quale era al servizio, veniva irrorato senza infingimenti. Il commissario giungeva sorridente, pacche sulle spalle, eravamo tutti amici, si sedeva a mangiare e a bere, se ne andava allegro e ti lasciava una cimice nella camera da letto o sotto il tavolo, dove si era seduto, però voleva bene a tutti. Per tutti e due rappresentavamo il nemico da annientare con qualsiasi mezzo e andavano spesso fuori dalle regole. Il capitano lo faceva solo se indispensabile, e con schifo. Il commissario godeva a fregarti infischiandosene del modo. Per uno eravamo, comunque, persone. Per l’altro solo feccia. Per mesi, per toglierci di mezzo, utilizzarono ogni metodo consentito dalla Legge: perquisizioni continue, microspie piazzate dappertutto, telecamere. Era un assedio continuo. Da tempo nella nostra zona regnava una tranquillità mai vista. I fatti cruenti erano cessati, così le angherie fatte alla gente normale. Ma che quell’ordine fosse governato e imposto da altri non poteva essere tollerato. Si stancheranno, pensammo, e sopportammo pazienti. Improvvisamente l’assedio venne tolto, trascorse un periodo di apparente normalità.

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Dopo qualche tempo, in piena notte, uno dei pastori, che viveva nella piccola contrada, ci svegliò. Una colonna di veicoli stava arrivando al villaggio. Era troppo numerosa per le sole perquisizioni. Allora gli uomini lasciarono i letti e si rifugiarono nei boschi. Quando leggemmo l’ordinanza di custodia cautelare, che colpiva tutti noi e una ventina di ragazzi amici nostri sparsi nei paesi vicini, capimmo: il commissario aveva avuto un colpo di genio. Visto che noi alle microspie non avevamo confessato nulla, pensò bene di piazzarle ai nostri nemici. Riempì macchine e case dei pungiuti con sofisticati orecchi elettronici. Questi, impensabilmente loquaci e ignari dell’ascolto, resero piena confessione dei nostri peccati, senza, stranamente, menzionarne alcuno dei loro. Riempirono brogliacci di intercettazioni e ci attribuirono ogni male verificatosi in quelle contrade. Solo il nostro gruppo sfuggì al carcere, i paesi circostanti furono liberati dai nostri amici. I pungiuti si ripresero le posizioni. La nostra libertà, seppur coatta, evitò ritorsioni sanguinose. Iniziò un processo farsa e, a presiederlo, sedette il giudice Barresi, che si godeva ancora il frutto coltivatogli dal Crocco. L’integerrimo giudice annichilì ogni tentativo di difesa, diresse da dittatore il giudizio e lo condusse a pene impossibili da scontare. Avevamo un amico fra i giudici popolari e conoscevamo giornalmente l’andamento delle discussioni in camera di consiglio. Non c’era scampo, quella feccia, che noi rappresentavamo, doveva essere cancellata dal consesso civile del quale non eravamo degni. Fra i difensori c’erano continue defezioni, i pochi coraggiosi che cercavano di far notare l’evidenza di prove costruite a tavolino venivano bollati come conniventi, complici. Richieste di perizie e testimonianze rigettate seduta stante, senza ritiro in camera di consiglio. Non potendo più impiccarci, a malincuore, Barresi si limitò a rifilarci un paio di ergastoli e pene da venti a trent’anni. Giustizia fu fatta. Se ci avessero preso i nostri amici sarebbero stati fatti a pezzi. Dovevamo reagire e lo facemmo in modo inusuale per quell’ambiente. Recuperammo le divise dell’Arma che ci procurava il povero Alfio e passammo a salutare i paladini della giustizia. Nonostante riempissero pagine di giornali paventando minaccie incombenti sulle loro persone, e sui loro affetti, gli alfieri del bene vivevano tranquillamente nelle loro belle dimore. A parte qualche povero milite mai un alto rappresentante delle istituzioni era stato realmente toccato. Lo Stato e il suo finto antagonista ne proteggevano il sonno. Barresi e Saffino aprirono senza sospetti, videro le divise e non chi le portava, e si ritrovarono chiusi nei bagagliai di due macchine a intraprendere un faticoso viaggio.

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Luciano rispolverò la sigla, coniata per salvare i socialisti, e chiese a nome del fantomatico Esercito di Liberazione della Locride, E.L.L., la scarcerazione dei detenuti di quelle contrade e la revisione dei processi nei quali erano stati condannati. Era una carta disperata, l’unica che potevamo giocare, una sfida aperta. Ci misi la mia faccia su quel gesto. Ripristinammo quella che fu la prigione di Leonardo, tanti anni prima, e ci sbattemmo dentro i due piagnucolanti eroi. Lo Stato mosse ogni mezzo, rivoltò paesi e campagne. Ma con quei mezzi servivano anni per ottenere un risultato, e tutto quel tempo non era disponibile. Ci offrirono montagne di soldi. Rimandammo indietro i messaggeri con bidoni pieni di banconote, tanti ne avevamo sotterrati in giro, portandoli da Milano. Lo Stato comprese di dover trattare veramente, e lo fece. Gli eserciti di sbirri scomparvero dalla circolazione, la stampa fu messa a tacere. Iniziò a girare per le campagne, da solo, un ormai anziano maresciallo Palamita. Era l’ultimo servizio che rendeva al suo padrone, fra poco lo aspettava la pensione e le campagne lasciategli dal padre, nell’Agrigentino. Lo vedevamo dappertutto con la vecchia campagnola, voleva parlarci. Arrivò una mattina presto, lasciò l’auto lontana e a piedi si diresse verso le grotte di Malupassu. Lo trovai all’ombra di un leccio, parlava a se stesso. «Tuo padre, il vecchio Bino, Sante, Santoro, l’elenco è lungo, quanti ne vuoi sacrificare ancora? Ti senti un eroe del cazzo? È ora di finirla, salva il salvabile, Randone è un uomo serio. Soprattutto un uomo, mantiene quello che promette e promette quello che può mantenere. Domani te lo porto in montagna». Non attese, e non ammise, risposte. Si alzò e se ne andò. In un certo senso anche lui era uno di noi, e parlò per noi. Il vecchio carabiniere mi portò il suo capo, lo fece sedere, e accennò ad andarsene. «Di questa merda ti devi sporcare anche tu Rosario Palamita», lo bloccai. Randone assentì. Restammo a parlare qualche ora. Tornai felice dai ragazzi, «Fra qualche mese si celebra il processo d’appello, vedrete». Dopo qualche giorno uno squadrone individuò la prigione e liberò gli ostaggi, lo Stato aveva vinto, come sempre. I sequestratori erano scappati ma sarebbero stati presi, nessuna concessione era stata fatta. I martiri della giustizia rilasciarono fiumi di dichiarazioni, quanta sofferenza patita per servire il bene comune, non avevano paura ed avrebbero continuato il loro lavoro. Descrissero la prigionia minuziosamente, non potevano dare, però, indicazioni sui carcerieri, erano sempre incappucciati e parlavano pochissimo. Volgari delinquenti che miravano, in realtà, solo ad arricchirsi. Saffino venne promosso e trasferito a portare l’ordine in Valle d’Aosta. La lunga prigionia accentuò i malanni del giudice che anzitempo e controvoglia dovette riporre i codici in libreria. Sulla vicenda calò il silenzio.

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Si tenne il processo d’appello. Magistrati garantisti dichiararono inutilizzabili la maggior parte degli elementi probatori valorizzati in primo grado. Ci furono diverse assoluzioni, le poche condanne riconfermate si limitarono a irrogare qualche anno di pena. Sarebbe trascorso in fretta. Attendemmo la decisione della Cassazione in tranquillità, gli sbirri scomparvero dimenticandosi di noi, ormai dormivamo da mesi nelle nostre case. Vidi crescere i gemelli e rigonfiare il ventre di Giulia. I ragazzi si accasarono, anche Tonino annunciò, rosso in viso, il suo fidanzamento. Solo Luciano rinunciò alle lusinghe di una famiglia. Fu felicità vera, come mai vi era stata nelle nostre case. Sperai che il processo si tenesse il più tardi possibile e così fu. I giudici trattarono il fascicolo ad un anno di distanza, giusto per evitare la scadenza dei termini di custodia cautelare che era in vigore solo per il nostro ristretto gruppo, escluso Tonino indenne da pene. Arrivò l’esito, da Roma, sentenza confermata. Dovevamo rispettare il patto stretto con Randone. Ci abbracciammo felici e partimmo con Luciano, Ciccio, Gino e Giulio. Il luogo per il trionfo dello Stato era un casale nel cuore dei monti, lo raggiungemmo a sera e attendemmo sino all’alba l’irruzione della Benemerita. I ragazzi, dopo la fatica della camminata, si addormentarono beati. Andarono in sogno a trovare le caste fidanzate. Io non avevo sonno e mi sedetti fuori a godere il paesaggio. La primavera arrivava a passo svelto, il cielo stellato ti invitava alla contemplazione, una brezza tiepida accarezzava gli alberi. Luciano mi raggiunse. Dopo quarant’anni di comunicazione telepatica aveva voglia di parlare, a viva voce. Dopo alcuni tentativi vani il suo tono profondo irruppe nel silenzio assoluto. Era una specie di ringraziamento. Mi confidò che da qualche mese riusciva a dormire, l’incubo del padre attorniano dai corvi non veniva più a turbargli il sonno. Faceva sogni tranquilli, normali. Volle dirmi, per forza, che Giulia mi avrebbe dato un altro maschio. Non avevamo voglia di malinconie e ci raccontammo per tutta la notte le cose più allegre della nostra vita. Le storielle di zio Bino, le avventure galanti di Luigi, le risse di Tonino, la sana ignoranza dei ragazzi che dormivano tranquilli. L’alba ci trovò abbracciati, eravamo in pace con noi stessi, il demone che ci aveva posseduti per decenni ci aveva abbandonato in cerca di nuove vittime. Luciano mi chiese un caffè, ed era all’ultima boccata della seconda sigaretta, quando l’esercito dello Stato irruppe su quella placida scena. Rombanti e ultramoderni mezzi vomitarono uomini armati, in mimetica. Ragazzoni venuti a combattere il male, forgiati da anni di esercitazioni. Si videro davanti due tranquilli quarantenni in vena di ricordi. Dall’unico mezzo obsoleto, una vecchia campagnola, saltarono fuori Palamita e Randone che placarono le irruenze e mandarono l’ammasso di muscoli ad attendere a bordo degli enormi fuoristrada.

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Preparai il caffè per gli ospiti e svegliammo i ragazzi che iniziarono a prepararsi, con calma. Nonostante l’aspetto ufficiale anche Rosario era in vena di ricordi. Sorseggiarono il caffè, Luciano ne approfittò e riprese di nuovo a fumare. Il maresciallo inanellò una storiella dietro l’altra, riepilogò le nostre gesta al superiore, che nonostante il ruolo e il compito, sovente si lasciava sfuggire stridule risa. Sghignazzò di gusto alla descrizione del picciotto terrorizzato che una mattina incontrò poco distante dal nostro ovile, che con imbarazzo gli mostrò il contenuto di un sacco che si portava dietro, un magnifico paio di corna di castrato, che Sante Motta mandava in dono a don Peppino Zacco. I militari guardavano allibiti la scena. Anni di fatica inutile a sparare e fare arti marziali, e un anziano e tracagnotto maresciallo addomesticava crudeli briganti al suono di incomprensibili barzellette. Qualcuno li aveva ingannati, dov’era l’azione alla quale si sentivano pronti? E dove la cruenta battaglia? Le indennità di rischio erano ingiustificate. Ragazzi e soldati si erano accampati sotto gli alberi per sfuggire a un sole che sembrava agostano. La voce abbandonò Palamita, che inutilmente continuò a sibilare. Le sue parole divennero incomprensibili. Il capitano lo zittì, con garbo. Riunì il plotone e ammanettò i ragazzi uno alla volta. Ogni ragazzo veniva affidato ad un gruppo che lo prendeva in consegna, lo caricava e partiva. Giulio, Gino, Ciccio, ci salutammo con calore, i mezzi che li trasportavano già impegnavano i tornanti che scendevano a valle. Sul piazzale, antistante il casale, restammo io e Luciano, con Randone, Palamita e gli equipaggi di un paio di gipponi. Luciano mi fece le ultime raccomandazioni, si lasciò ammanettare e in mezzo a due giganti si diresse al fuoristrada che l’attendeva. Stava per salire quando si fermò di colpo e si girò, sorprendendo i militari. Vide il capitano che invece di stringermi le manette mi teneva la mano in segno di saluto, colse il suo sguardo e comprese. L’accordo per me non passava attraverso il carcere. Un urlo disumano, da bestia in agonia gli proruppe dalle viscere, i militari lo abbrancarono, immobilizzandolo. «Kyria...» gridò. Kyria gli sorrise soltanto, con tenerezza e si avviò al centro del piazzale. Un tuono scaturì incredibilmente dal cielo sereno, Kyria si girò e Luciano vide la sua nuca, vomitava sangue e materia cerebrale, ci potevi infilare un pugno chiuso. Si girò e sorrise ancora a Luciano e ai militari, non era successo niente, stava bene, poteva camminare con le sue gambe. Luciano pensò che Kyria non aveva mai riso così in vita sua, lo rivide bambino, quando vedevano passare Zacco e nei suoi occhi c’era un fuoco infernale.

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Palamita era scomparso, Randone si avvicinò a sorreggere Luciano. Kyria correva incontro ad un Rosario singhiozzante, voleva chiedergli scusa per averlo fatto sporcare con quella melma, ma solo da lui l’avrebbe accettato. Anche Rosario veniva dai monti, lontani dai loro, era l’unico che li aveva combattuti lealmente e non li considerava bestie, quell’atto era un suo dovere. Per tutta la vita Rosario aveva portato con orgoglio la divisa della Benemerita, ma quel giorno sentì i suoi panni farsi fetidi e pesanti, voleva spogliarsene all’istante. Kyria gli si parò davanti, «non mi hai fatto male» disse, e il suo sguardo andò oltre, e allora vide… Vide una valle splendida, lussureggiante, un placido lago dominato da un colle, mucche e capre floride, al pascolo, il paradiso. E li vide. Prima il vecchio Bino, poi suo padre, Sante e il piccolo Santoro. Dietro, un guerriero antico e familiare, Kyria. Un sogno li aveva accomunati. Rilasciò i muscoli e si accasciò, sorretto da Rosario in lacrime.

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Indice Prima parteI figli dei boschi Seconda parteOmbre in luce

Terza parteAnime nere

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Finito di stampare nel mese di gennaio 2009 da Rubbettino Industrie Grafiche ed Editoriali

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