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Nicola Micieli Breschi viaggio in con R ARTISTA N on mira al racconto la pittura di Fabrizio Breschi, condotta com’è con il rigore esecutivo e la purezza formale che, astraendola, la con- segnano ai cieli tersi della geometria. In quei cieli, si sa, risiedono i noumeni, gli assoluti concettuali. Sarebbero le antitesi al mondo fenomenico che per definizione è luogo di accidenti. Proprietà, questa, del quale è cam- pione la variegata, insinuante e concitata creatura homo, che sotto la specie fabulans, nel fenomenico troverà sempre abbondante materia per rinnovare millanta volte la mitica Biblioteca di Babele della Storia. In verità, nella sua opera non sono mancati gli acchiti a possibili induzioni narrative del riguardante. Erano diffusi e intenzionali nella sua prima stagione di sintesi figurativa, quando sulla tela Breschi apparecchiava la scena d’un mondo robotico. Sono andati diradandosi, riemergendo come inserti figurali d’occasione, dacché egli ha attinto solo al repertorio astratto le “figure” dei propri impianti visivi. Questi inserti negli ultimi anni egli li ha elaborati anche sotto specie con- taminata di pittura segnaletica e fotografia, oppure giocati come correla- zione scenica tra strutture tubolari o nastriformi e ambienti di rimando al Da sempre è l’alba, per me, il momento più bello del giorno. Ricordo quando tredicenne prendevo ogni mattina il treno delle 6,32 che mi portava a Firenze, dove frequentavo il liceo artistico, e, dopo pochi minuti, appariva ai mie occhi, come per incanto, il grande complesso industriale dello Stanic (alla periferia di Livorno) fatto di ombre e magici riflessi dei più vari colori. È in quei momenti che probabilmente si è sviluppata nella mia mente quella che, di lì a qualche anno, sarebbe diventata la mia pittura. Ancora adesso provo una piacevole sensazione nell’alzarmi di buonora e, nel silenzio della città che ancora dorme, prendere il caffè e rivisitare ciò che ho prodotto sulla tela il giorno precedente. E poi rimettermi a lavorare nella mia casa-studio da cui godo della vista delle colline livornesi da un lato e dall’altro quella del mare dominata dalla vecchia torre del Marzocco. È un’emozione pura quella che ancora oggi provo nella stesura con il pennello dei colori sui vari supporti da me utilizzati. In quel gesto c’è una particolare forma di sensualità di cui non riesco a fare a meno. Ricordo che un caro amico, nonché mio collega ai tempi in cui ero docente di pittura a Brera, una volta mi disse: non faresti prima ad eseguire i tuoi motivi tubolari con l’uso del computer? Lui non capiva che il mio piacere consiste nella difficoltà di ottenere con il pennello quelle sfumature, con cui sfido il mezzo tecnologico così sviluppato nella nostra epoca, e che probabilmente è la dimostrazione, a me stesso, che nel mio DNA c’è qualche traccia di quello dei pittori toscani del “Cinquecento”. Fabrizio Breschi, 2016 10

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A

Nicola Micieli

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Non mira al racconto la pittura di Fabrizio Breschi, condotta com’è con il rigore esecutivo e la purezza formale che, astraendola, la con-segnano ai cieli tersi della geometria. In quei cieli, si sa, risiedono i

noumeni, gli assoluti concettuali. Sarebbero le antitesi al mondo fenomenico che per definizione è luogo di accidenti. Proprietà, questa, del quale è cam-pione la variegata, insinuante e concitata creatura homo, che sotto la specie fabulans, nel fenomenico troverà sempre abbondante materia per rinnovare millanta volte la mitica Biblioteca di Babele della Storia.In verità, nella sua opera non sono mancati gli acchiti a possibili induzioni narrative del riguardante. Erano diffusi e intenzionali nella sua prima stagione di sintesi figurativa, quando sulla tela Breschi apparecchiava la scena d’un mondo robotico. Sono andati diradandosi, riemergendo come inserti figurali d’occasione, dacché egli ha attinto solo al repertorio astratto le “figure” dei propri impianti visivi.Questi inserti negli ultimi anni egli li ha elaborati anche sotto specie con-taminata di pittura segnaletica e fotografia, oppure giocati come correla-zione scenica tra strutture tubolari o nastriformi e ambienti di rimando al

Da sempre è l’alba, per me, il momento più bello del giorno. Ricordo quando tredicenne prendevo

ogni mattina il treno delle 6,32 che mi portava a Firenze, dove frequentavo il liceo artistico, e,

dopo pochi minuti, appariva ai mie occhi, come per incanto, il grande complesso industriale dello

Stanic (alla periferia di Livorno) fatto di ombre e magici riflessi dei più vari colori. È in quei momenti che probabilmente si è sviluppata nella mia mente quella che, di lì a qualche anno, sarebbe diventata la mia pittura. Ancora adesso provo una piacevole

sensazione nell’alzarmi di buonora e, nel silenzio della città che ancora dorme, prendere il caffè e

rivisitare ciò che ho prodotto sulla tela il giorno precedente.

E poi rimettermi a lavorare nella mia casa-studio da cui godo della vista delle colline livornesi da un lato e dall’altro quella del mare dominata dalla vecchia

torre del Marzocco.È un’emozione pura quella che ancora oggi provo

nella stesura con il pennello dei colori sui vari supporti da me utilizzati. In quel gesto c’è una

particolare forma di sensualità di cui non riesco a fare a meno.

Ricordo che un caro amico, nonché mio collega ai tempi in cui ero docente di pittura a Brera, una volta

mi disse: non faresti prima ad eseguire i tuoi motivi tubolari con l’uso del computer?

Lui non capiva che il mio piacere consiste nella difficoltà di ottenere con il pennello quelle sfumature,

con cui sfido il mezzo tecnologico così sviluppato nella nostra epoca, e che probabilmente è la

dimostrazione, a me stesso, che nel mio DNA c’è qualche traccia di quello dei pittori toscani

del “Cinquecento”.Fabrizio Breschi, 2016

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reale. Si tratta magari di una spiaggia sulla quale campeggia una gigantesca pistola che pare un totem; oppure di un’isola fatta di sassi, sulla quale si erge una monumentale lettera d’al-fabeto, dedicata a chissà quale personaggio di culto privato, o fisico fenomeno e ambiente, o metafisica entità. Ma quei tap-peti di ciottoli levigati emersi dalle acque, come i cumuli d’al-tri oggetti profilati sui tersi cieli, sono dipinti con tal lenticolare definizione della forma da ren-derceli segni o morfemi d’una partitura astratta, appunto.La purissima partitura di Breschi è governata dalla ratio geome-trica. Le strutture, pur quando eccentriche e asimmetriche, si sviluppano con un loro ordine sotteso. La materia pittorica si stende piana e omogenea, senza bave o sconfinamenti. I colori si definiscono ognuno nella pro-pria qualità e nel proprio campo d’espansione e d’evidenza visiva. Quando sono richie-sti trapassi e fusioni e viraggi del colore che cambiano veste all’insieme, Breschi li esegue nel rispetto della gradazione pre-vista dallo spettro della luce. Il suo sguardo funziona come un filtro ottico al modo dei cristalli, e dell’atmosfera che ci dona la porta d’oro dell’arcobaleno. Quella che ne scaturisce tuttavia non è una forma oggettuale nel senso di raggelata e per così dire iperuranica. A questo pro-posito, lo stesso artista così si esprime in questa stessa sede: «È un’emozione pura quella che ancora oggi provo nella stesura con il pennello dei colori sui vari supporti da me utilizzati. In quel gesto c’è una particolare forma di sensualità di cui non riesco a fare a meno». L’emozione di cui parla l’artista è legata alla sua sfida di catturare e trasporre sulla tela, utilizzando la classica appendice della mano sensibile del pittore, la sottile vibrazio-ne della luce che altri oggimai affidano al mezzo fotografico o elettronico.È ora importante rilevare che il rigore esecutivo e la ratio geo-metrica degli impianti sono l’e-lemento di continuità di una ricerca pittorica ormai pluride-cennale, a cominciare proprio dalla stagione figurativa quando prendendo le mosse dalla lezio-

Senza titolo, 2013acrilico su tavola cm 50x30

Pagina precedenteEvery day, 1981 acrilico su tela cm 148x118

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The baby and the night, 1979, acrilico su tela cm 80x100Pomeriggio piccolo borghese, 1977, acrilico su tela cm 100x150

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ne di Aldo Turchiaro, nei primi anni Settanta, ma presto acquisendo una sicura autonomia, Breschi operava una sistematica sostituzione: l’am-biente, gli oggetti, la figura stessa dell’uomo assumevano forme tubo-lari e robotizzate. La pittura pare-va figurare un mondo futuribile di automi, reso credibile dallo sviluppo della tecnica e dei sistemi cibernetici in ogni settore dell’attività umana. Il che insinuava anche un vago senso di straniamento che un tempo mi pareva inquietudine, ma a ben guar-dare il fantasioso teatro robotico nel quale Breschi mimava, in chiave metaforica, situazioni e accadimenti della vita quotidiana, mi pare oggi del tutto estraneo al clima d’allar-me e di alienazione proprio ad altri aspetti della pittura italiana di quegli anni tra Nuova Figurazione e Nuova Oggettività.Le sue stesure assai pulite delle cam-piture di colore; l’ordine costruttivo dei suoi teatri di figure impostati sempre secondo una logica appa-rentemente funzionale al racconto, in sostanza dettato da esigenze squisi-tamente pittoriche; la serialità degli elementi morfologici utilizzati, non meno che degli atti e situazioni rap-presentate, determinava un clima di artificio o comunque di astrazione formale che finiva con l’imporsi sulle componenti narrative dell’immagine.Il lavoro di Breschi sempre nell’am-bito dell’immaginario robotico la cui riduzione visiva a forme tubolari che evidentemente si riferivano, quanto a

precedenti storici, a quella particolare declinazione del cubismo che è stato il “tubismo” coniato e sviluppato da Léger, nel corso degli anni Settanta registrava una progressiva afferma-zione dei valori formali più fondanti, nell’ottica di un astratto-concreto di carattere neoplastico (Mondrian) e costruttivista (Malevich). Lo rilevava Giovanni M. Accame, opportuna-

mente distinguendo le diverse com-ponenti genetiche del linguaggio astratto per escludere in Breschi ogni ascendente lirico-espressionista, ma anche riconoscendo al suo genio geometrico la capacità di agire per-cettivamente e psicologicamente in modo attivo sull’osservatore. Il che significa che non siamo di fronte a una geometria formalista di mera

Cerchio positivo-negativo, 1994, acrilico su tela

cm 200x150

Omaggio a Scanavino, 2000acrilico su tela cm 120x150

Intrigo a Stoccolma, 1984 acrilico su tela cm 120x150

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qualificazione mentale.In Breschi la forma è visibile enti-tà concepita a rivelazione e misura dello spazio. Dico la diversa possibile sua articolazione, l’architettura data in versione stilistica decisamente avanzata, del tutto priva di intenzioni e rimandi simbolici, che non siano quelli primari delle strutture archeti-pe, per esempio una conformazione circolare, o quelli intrinseci, perché universalmente riconosciuti e ricono-scibili alla prima, della cifra grafica e segnaletica, valga per tutti il profilo d’un cuore. Architettura mai chiusa, anzi di cosmica proiezione, se le linee por-tanti degli arditi edifici idealmen-te seguitano oltre lo schermo della

tela. Senza, per questo perdere in affidabilità. Intendo dire qualo-ra volessimo fondarci una struttura funzionale, perfino abitabile. Spazio non già modulato e sfuggente, rela-tivo e aleatorio, di tipo einsteniano, per intenderci. Almeno nella perce-zione e nelle esigenze del pittore, che comunque ne mostra, edificata, una porzione, guardando la quale si potrebbe dire: «Ecco!, pianto un paletto qua, uno là e tiro la linea d’orizzonte.» Oppure: «Incrocio due linee ad acutangolo, che mi servano da segno per l’ogiva dell’astronave del pensiero.»Geometria euclidea, insomma, quel-la per la quale due rette parallele si incontrano sì, ma solo in un punto

situato all’infinito. Come dire mai, per i tempi e le potenzialità motorie dei mortali. Mai, salvo nella sperimentata e veridica prassi della politica, per la quale le “convergenze parallele” non sono certo un ossimoro, una contraddizione in termini. Però Bre-schi sovrappone e interseca, snoda e altrimenti combina le sue rette e parallele e fasciami di rette, dalle quali si generano geometrie spaziali, a simulare una planimetria configura-bile idealmente come un prospetto della casa dell’uomo, per quanto la memoria neoplastica di Mondrian sarebbe sufficiente a giustificarle nei termini del puro linguaggio di linee, piani, colori, forma pittorica.Letta nella chiave della casa dell’uo-

La dolce ala della giovinezza, 2012acrilico su tela cm 50x50

A man in love, 2008 acrilico su tela cm 70x150

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mo, certo, la partitura di Breschi potrebbe anche suggerire i ricordati avvii di racconti, poniamo un asse-dio accerchiante di strutture tubolari, di linee-forza intorno a un nucleo spaziale di resistenza, o almeno pre-disporre gli impianti essenziali d’un contesto, d’una scena tendenzial-mente ipertecnologica nella quale ambientare serie di fiction digita-li. Del resto, lo abbiamo visto, era robotica la quotidianità che in mille episodi, Breschi dipingeva un tempo con la medesima purezza formale di oggi, quando le strutture tubolari si incrociano e si snodano intorno a un cuore sovrastato dalla magica falce della luna. E quando nel seguito ha voluto introdurre un elemento evo-catore di una storia, fosse pure una parola o una riconoscibile immagine, già ricordavo che lo ha fatto senza tracimazioni emotive, ma con sottile e poetica partecipazione, in dipinti cristallini e sospesi nell’incanto del loro nitore.Sospesi nel loro nitore sono anche i nastri, le lamelle, le strisce, le pel-licole che dipinte con la medesima impeccabile perfezione delle super-fici stese o flesse o modulate allo scivolare rivelatore della luce sulle loro superfici, variamente intrecciate intessute intelaiate, giocano nell’im-magine alternandosi con gli elementi tubolari e intorno alle figure simboli-che delle situazioni umane. Sospese erano le versioni nastriformi della bella serie pochi anni fa realizzata sotto specie di versicolori “bandiere” accampate in volute fluenti su cieli tersi, impiantate su un’asta che attra-versa intero l’oblungo schermo visi-vo. Potrebbe essere l’asse del cosmo, ed era per Breschi il perno della rosa dei venti, dalle cui bocche alita-no libeccio maestrale scirocco ostro grecale e altri e altri spiritelli capaci di scuotere, rianimando le bandie-re, il torpore dello spirito immerso nell’inerzia, e indurlo nuovamente a sognare un ideale, a immaginare una storia che guarda al futuro. Perché ogni vento viene da lontano e porta con sé corpi suoni sentori tempera-ture dei luoghi che ha attraversato. E ogni bandiera, quando ne sia investi-ta e lo assecondi librandosi nell’aria, quelle tracce le trasforma in figura mutevole, in scrittura della forma pit-torica nello spazio. Che è come dire in flusso di parole.

Prigioniero d’amore n 1, 2013 acrilico su tavola cm 35x14

Abbandono, 1977acrilico su tela cm 100x120

Prigioniero d’amore, 2015 acrilico su tela cm 130x110

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Fabrizio Breschi nasce a Livorno nel 1950. Si rivela un talento precoce nella pittura tanto da partecipare a un concorso a sei anni, con un dipinto a olio respinto perché creduto opera di un adulto. La sua formazione primaria si svolge nella città natale, ma decisiva è la frequenta-zione di una zia risposatasi a Milano con Dino Bartolucci, noto collezionista d’arte anch’egli livornese, che lo avvicina alla conoscenza della nuova pittura toscana.È il più giovane partecipante al Premio Fattori con l’opera Cavalli al sole. Frequenta il Liceo Artistico di Firenze, quindi dal 1969 l’Acca-demia delle Belle Arti, ritrovando come inse-gnante Gastone Breddo, con il quale inizia un periodo molto stimolante di approfondimento culturale e artistico.Poco prima della fine del corso, nel 1973 cono-sce il pittore e insegnante Aldo Turchiaro, che gli propone di diventare assistente alla catte-dra di Pittura.Nel suo stile si avverte ora un cambiamento dalla fase di sperimentazione a un percorso netto e articolato. La continua dialettica tra contenuto e forma si impianta su una rigorosa norma estetica che caratterizzerà tutta la sua opera successiva. Si susseguono i contatti e le conoscenze che lo introducono negli ambienti dell’arte e della cultura nazionale. Incontra galleristi, artisti e attori (ad esempio Marcello Mastroianni) che lo inciteranno a continuare e acquisteranno sue opere.Fino al 1985 rimane all’Accademia di Firenze e dopo la vittoria a un concorso nazionale, decide di trasferirsi all’Accademia di Brera a Milano, dove ottiene la cattedra di Pittura. Diventa a 36 anni il più giovane insegnante della storia di Brera.Comincia così un intenso periodo didattico e creativo che lo porta a maturare i canoni estetici che tutt’oggi lo caratterizzano con l’a-dozione di un contesto post industriale, popo-lato da simpatici ed emblematici robot dalle mille storie talora di carattere autobiografico. Si staglia sulla tela il nitore tecnico delle pro-filature luminescenti che progressivamente taglieranno fuori ogni citazione antropocentri-ca per dialogare direttamente con uno spazio assoluto e senza tempo.Si susseguono le partecipazioni a prestigiose rassegne d’arte come la Biennale a Milano nel 1994, a mostre collettive e personali tenute in Italia, come in Grecia, Inghilterra, Francia, Ungheria e Svizzera.Memorabile la mostra del 2001 presso il Museo di Arte Cicladica Goulandris ad Atene, di pro-prietà dell’omonimo magnate, che esporrà una sua opera tra un Rothcko e un Picasso. Ritornerà poi ad Atene l’anno successivo per posizionare sulla facciata del Museo una sua opera, consistente in un’installazione luminosa realizzata da Vito Inghilleri.Nel 2003 ritorna in Toscana, presso l’Accade-mia di Carrara prevedendo un anticipato ritiro dall’insegnamento che avverrà nel 2007, per dedicarsi alla creazione delle sue opere. Oggi vive tra Livorno e gli Stati Uniti.Nel 2013, mostra antologica all’Accademia delle Arti e del Disegno, Accademia delle Belle Arti, Firenze; nel 2015 mostra personale al Centro Culturale La Soffitta, Sesto Fiorenti-no; nel 2016 mostra antologica al Museo Gio-vanni Fattori, Granai di Villa Mimbelli, Livorno.

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