Viaggio al Nord

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1 INTRODUZIONE L’occasione di fare una gita di classe, composta da me stesso soltanto, la sogno da quando ero bambino, lo ricordo bene. E siccome non sognavo di farla al mio diciannovesimo genetliaco ma bramavo di partire subito, nel momento stesso in cui lo desideravo, per questo motivo ho preso in prestito l’accento del bambino (sempre arguto e mai scontato) che abita(va) in me per raccontare la storia. Senza che mi accusiate, o peggio condanniate, di plagio al sig. Giovanni Pascoli propongo pure a voi di sorseggiare la mia minestra con il delicato palato della bocca pura di un bambino, nel pieno rispetto per il resoconto della mia farsesca insensata ricerca, alla ricerca di non si sa poi cosa.

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Un diario di viaggio di Giacomo Cantù

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INTRODUZIONE L’occasione di fare una gita di classe, composta da me stesso soltanto, la sogno da quando ero bambino, lo ricordo bene. E siccome non sognavo di farla al mio diciannovesimo genetliaco ma bramavo di partire subito, nel momento stesso in cui lo desideravo, per questo motivo ho preso in prestito l’accento del bambino (sempre arguto e mai scontato) che abita(va) in me per raccontare la storia. Senza che mi accusiate, o peggio condanniate, di plagio al sig. Giovanni Pascoli propongo pure a voi di sorseggiare la mia minestra con il delicato palato della bocca pura di un bambino, nel pieno rispetto per il resoconto della mia farsesca insensata ricerca, alla ricerca di non si sa poi cosa.

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9 MARZO Inesorabile e silenzioso, diretto a prender l’autostrada, passo oltre ai ragazzi dell’università cattolica, a Piacenza. Altezzoso li guardo, loro e i loro libri su cui uno, tutta la vita, può immaginare e sognare, ma timido… non vive. Oltrepasso poi il parcheggio dell’Astra, nota azienda nel piacentino, e schivo assaporo la fine della loro pausa pranzo, tutto maestoso d’aver fatto di un mercoledì così normale e così monotono un personale dì di festa.

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Inforcando il tragitto autostradale quasi ininterrottamente mi ripetevo le parole del mio amico Barry:

Nessun ragazzo, per la prima volta libero e con

venti ghinee in tasca, si sente veramente triste. E Barry

partì alla volta di Dublino senza tanto pensare alla cara

mamma rimasta sola e al focolare lasciato alle sue spalle, quanto al

domani, con tutte le meraviglie che gli avrebbe portato.

Uscito dall’autostrada si presenta, d’improvviso, una rotonda alla fine della rampa discendente, che mi ha costretto ad inchiodare. Lo zaino accanto a me è caduto e così mi son messo tutto cupo e tetro a pensare al moto relativo, ai sistemi di riferimento inerziali e non, insomma a tutte quelle palle che il professore aveva enunciato a lezione oggi stesso. E tutto preso da quelle considerazioni ho sbagliato la via, vendendomi costretto ad errare nel centro di Bergamo, dove un trio di ragazze ch’aspettava il pullman mi ha provocato non so quante impudicizie

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mentali. Le avrei volute caricare a bordo, alla “traditora”, ma non l’ho fatto. Nel parcheggio dell’aeroporto le vetture ferme sono come ebrei in sosta forzata, pietrificati dal terrore nell’attesa che i loro rispettivi carnefici aprano il gas. E intanto odono il vento alimentato dalla sublimazione degli abitanti del loro stesso shtetl. Il volo non è stato niente male: avevo vicino Dostoevskij! Il tratto autostradale Torp-Oslo (dove, pure, ho perseverato nel conversare con Fedor) è un martirio del senso estetico. Si costeggia l’intera scala dei colori, il problema è che si vedono tutti e solo contemporaneamente e, come è ben noto, rimandano il bianco. Neve ovunque. Bianco… bianco e bianco che si sfuma nelle tonalità del grigio quando si accinge alla superficie della strada. La prima cosa che avrei voluto dire ad un qualunque passante sarebbe stata Merry Christmas, ma non l’ho fatto. Arrivato nella capitale alle 22 e30 la prima sensazione che mi ha pervaso era quella di trovarmi in Germania. Qualche palazzone ultra-moderno da far girar la testa c’è, il Mc Donald c’è (l’ho verificato di persona) e ci sono le persone con gli sci nella metro, il che mi ha incuriosito non poco, quindi alla fine non è poi proprio il ripudio della bellezza

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sta Oslo, ma mi sono detto tra me e me: <vedremo domani alla luce del sole.> Nel mezzo del cammino della nostra vita mi ritrovai….in un campo da calcio in erba sintetica. In Norvegia, ormai da qualche decennio è molto praticato il calcio e l’abbondanza di porte cadute dal cielo e sprofondate per metà nella neve ne è una tangibile testimonianza. La nazionale norvegese di calcio infatti, già da qualche mondiale a questa parte, si sta rendendo sempre più competitiva. Mentre ero sperduto in tutto quel biancheggiare mi risultava strano pensare che appena dietro l’angolo di questi nivei paesaggi possa sbucare il mare, come un aguzzino straniero. A breve, dopo l’erronea deviazione nei campi, ho trovato l’Ostello di Haraldsheim 4 (da cui ora vi sto scrivendo) che cercavo come Dante bramava l’abbraccio di Beatrice. Mi ha accolto in camera un americano anche se non sono per niente certo che sia americano, ma d’ora in poi lo chiamerò americano perché come ho spalancato l’uscio della 219 egli guardava fisso, alla “traditora”, il suo Mac. Dormo sulla torre del castello, sono in vedetta sul materasso. Sotto di me sta un asiatico (per i più maliziosi: badate che siamo separati da doghe). Quest’ultimo russa più di mio fratello “Bosco”, e

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fidatevi, dovreste venir di notte a casa mia per capire come russa mio fratello. Per addormentarmi, oltre all’infinita stanchezza, mi ha aiutato l’amico Dante che mi ha suggerito non ti curar di loro ma guarda e passa…

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10 MARZO Mi sono svegliato alle 10.10 e l’americano mi ha detto: < Well slepped! > < Ja, very well > I answered < But you lost the breakfast > < Cazzo1! > I thinked. < Breakfast time was from 9 until 9.30.> E fu la gelida fine della conversazione. Successivamente mentre mi trovavo solo è entrato un nuovo ignavo, sulla cinquantina, che pensava gli avessero assegnato una “single room” e ho dovuto informarlo del contrario. Lui è dello Sri Lanka, ha vissuto due anni a Milano e conosce Piacenza e sembra Bob Marley.

1 Parola di origine medievale.

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Camminare nella periferia di Oslo è come essere persi nelle piste da sci. Ci vorrebbero i ramponi e in compenso io ho le scarpe da ginnastica e di conseguenza il mio procedere è un’alternanza, in opposizione di fase, tra camminata e pattinata: un gioco pericoloso ma divertente. Mentre scrivo suddette cagate sono in metro diretto alla stazione per fare alcuni pesanti cose burocratiche, e senza che me ne accorgessi alzo la testa e ho due mamme nei dintorni, una al fianco e una di fronte. Rispettivamente possessore di tre e due figli. Sembra un asilo ambulante e io penso che se avessi un bambino sarei un padre, un pessimo padre. Ho cambiato i miei Euro in Corone Norvegesi. Pensate sia un buon affare il baratto del cianuro con la cicuta? Sempre veleno è. Cercavo un posto dove mangiare e sono entrato inconsapevolmente in un centro commerciale, non so perché, come se fossi stato stregato dall’oscura forza del consumismo. L’unica cosa che ti mangi, lì, sono i soldi (il veleno) però non son caduto in tentazione. Ora sono in un Burger King e il cibo si raffredda se non metto giù la penna in tutta fretta.

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Mentre, senza accorgermene, diventavo coprofago non consenziente ( mi trovo sempre al Burger King) sviluppavo un pensiero e nonostante Alex mi stesse dicendo che Pensare è per gli stupidi e che i cervelluti agiscono, io ho pensato che non sono poi così libero come desideravo, o credevo di essere. Sapere, fin da ieri sento Barry Lyndon che mi sussurra Un ragazzo per la prima volta libero e con 20 ghinee in tasca non può dirsi triste, il fatto è che Barry non aveva il telefono cellulare, perché non esistevano, altrimenti l’avrebbe avuto pure lui. Ed è proprio quell’arma che colpisce la mia libertà perché io ora sono costantemente sotto tiro delle pistole di mamma e papà che mi bersagliano e continuano a sferrarmi contro quei proiettili (gli SMS) che feriscono alla traditora l’animo libero, ricordandogli che è imprigionato in un corpo che a sua volta ha le catene. I “short message” sono spari rapidi e indolori che mirano all’anima. Il fatto è che molte persone hanno uno spirito mignon per cui possono permettersi anche n colpi che le infauste probabilità di successo dei loro avversari non li affonderebbero, solo un cecchino spietato potrebbe squartare loro l’infinitesimo animo.

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[Questo mio inneggiare alla mia propria anima (intesa letteralmente come componente sostanziale dell’esistenza: la parte “che sta sotto” e che non si manifesta) è un urlo di stizza al Dio che la abita, come vive in quella di ciascun uomo, per alleviare la solitudine che non riceve compenso di compagnia da questo invisibile ente]. Tornando a noi….<Be calma calma > direste voi < potresti non rispondere o gettare il telefonino nel fiordo norvegese? > Vi sbagliate, è proprio lì l’inghippo: se non rispondo alla mia mamma, lei (che potrebbe essere elevata, per questo esempio, ad un paradigma di mamma universale) si preoccupa e non è pudore comune procurare ansia alle vecchiette senza motivo, solo per la rivendicazione di una immateriale libertà. Se invece il telefonino non ci fosse allora le sole le mamme più angosciose e prevenute sarebbero in un evidente stato di ansia, mentre tutte le altre mamme si manterrebbero in un leggerissimo ma ragionevole stato di agitazione ma comunque mitigato da un preponderante ottimismo naturale di fondo. Badate, con ciò non voglio far vacillare la comune e giustificata idee sulla generale utilità del telefonino, poiché le mie esternazioni erano circoscritte a questo esempio specifico del telefonino, incommensurabile

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con i mille vantaggi che, invece, questo può arrecare. “Caro Lucilio”, ti sto scrivendo da un pullman, che ho preso a caso, poiché serviva un riparo caldo dalla neve e un posto (comodo?) dove macchiare la carta e infine perché sono possessore della Oslo Pass, carta che mi permette, per 72 ore da poco fa, la gratuità di mezzi pubblici e musei. Ora sono le 14. Alle ore 12 ho terminato l’attività d’esofago e ho seguito Karl Ruhe gate, la via principale, che mi ha presentato il Duomo sulla destra, l’università sempre sulla destra, il teatro nazionale sulla sinistra e il Palazzo del Re in fondo (dopo una salita). Ho fatto proprio come la nonna mi ha indicato. Dovete sapere che la mia-cara-nonna è già stata in visita ad Oslo e così ha, da cara-nonna qual è, stilato per me una lista della spesa con tante belle cose da comprare con gli occhi e porre in separati [o forse uniti] carrelli della conoscenza e dell’esperienza [ci vorrebbe un filosofo per spiegare il labile confine che separa i due carrelli]. Il problema pratico è che le merci di Karl Ruhe non esaltano il gusto estetico [un grande filosofo vi spiegherebbe meglio di me che il gusto estetico è la molla naturale necessaria per spingere esperienza e conoscenza ad arricchirsi].

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Gli edifici sopraelencati sono quel tipo di cosa che devi vedere perché è segnato in rosso sulla cartina e semplicemente perché è comune pudore visitarla. Mentre camminavo mi sentivo l’Armir in Russia e Annibale sulle Alpi (tutte due allo stesso tempo) perché una bufera di neve s’era accesa alla traditora e tuttora non si è spenta. A palazzo reale, non saprei il perché, c’erano i nazisti che marciavano e urlavano come Munch, ma tradotto in tedesco e (sempre ignaro del perché) non ero a palazzo reale ma a Treblinka. Il tutto assomigliava molto ai retrogradi cambi della guardia. Ma ciò è sicuramente impossibile perché al giorno d’oggi le persone sono volpi e non vogliono più fare i pagliacci uniformati in divisa che compiono un moto armonico davanti all’uscio regale. Ebbene si, la Norvegia è una monarchia parlamentare, dove il re svolge soprattutto funzioni cerimoniali, simboliche e blablabla (insomma inutili). Il re si chiama Harald V e il primo ministro Stoltenberg, che, per antonomasia, è un campione di furbizia. Ormai rasentavo i livelli raggiunti da Napoleone a Waterloo, quando, fermo ad un semaforo, ho affiancato un uomo che portava in spalla gli sci da fondo e mi ha invaso l’idea di domandargli perché

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non se li mettesse ai piedi: tutto sembra una pista da fondo con i binari del tram che fanno da guide per gli sci. Ah, mi sono accorto solo a metà del mentre mescolavo questo minestrone di lemmi, che viaggio su un tram e non su un pullman. L’ho preso così a caso che non potevo salire su una giostra per bambini che me ne sarei accorto comunque ora. Quando ero alla fermata del BUS-PRIMA-E-TRAM-POI c’erano una stragnocca e una befana e altre due donne indifferenti (né stragnocche né befane). Ero incantato dalle prime, non staccavo gli occhi di dosso, avvalendomi della scusa che la neve, cadendo storta, mi costringeva a voltare il volto (scusate il bisticcio di parole ma non conosce nessun sinonimo di voltare e tantomeno di volto. Ogni parola gode di due proprietà: unicità e insostituibilità del significato). Erano belle tutte due, incantevoli (ma una era una stragnocca e l’altra una befana). C’è un vecchio ubriaco nel BUS-PRIMA-E-TRAM-POI che beve e, per diretta conseguenza, dice/parla/ulula/urla/sbraita/sputa cose che non capisco ma che penso nemmeno chi possiede la lingua norvegese capisca – Mi piacerebbe possedere una lingua norvegese -.

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Penso che la persona affetta da senilità precoce e alcolismo cronico sia l’unico che si trova sul BUS-PRIMA-E-TRAM-POI prima di me, quindi è giunta l’ora che io scenda. Sono le 7 di sera e vi scrivo da un McDonald dove sono entrato un po’ per gola, un po’ per “par condicio” siccome oggi ho pranzato dalla diretta concorrenza del Burger King. Lo so mi ero preposto di mangiare qualcosa di tipico, come consiglia sempre il nonno e un vecchio strampalato professore che ho avuto in 2° liceo. Ma come avrei potuto sguainare il lapis con i fogli e mettermi a mescolare veementemente il minestrone, in un ristorantino di nordici perbenisti? Comunque sia adesso sto per sottrarmi alla vita e una volta morto scommetto che il cibo appena mangiato non l’avrò ancora digerito, e la digestione è la nota dolente del McDonald. In virtù di ciò ho pensato bene d’anticiparla di peso quella fase anticipando la mia dipartita da questo mondo. Se leggerete questa storia sarà perché l’inserviente cicciona e negra del Mc, che mi sta fissando da circa dieci minuti, avrà avuto l’inopportuna idea di far tradurre questa brodaglia di frasi nel norvegese, rimanendone colpita (per sbaglio) o forse addirittura toccata a tal punto che pubblicherà il tutto. [Se mai

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si verificherà quest’ultimo atto e se state leggendo significa che ciò è avvenuto, allora meditate sulla sorte di questa donna che mediante questo gesto impunibile ha sommato al colore della pelle e alla sua grassa mole un terzo motivo affinché sia calunniata]. E siccome non conosce la mia identità, riterrà opportuno sottoscrivere il brodo a Dan Brown o Volo o Faletti (insomma a uno qualunque tra gli ignobili, e quindi famosi, scrittori che popolano la nostra era) e il libro avrà successo. Gia che l’ho svaccata con le previsioni, me ne permetto un’ultima: sono sicuro che, scattando nel rigor mortis, vomiterò tutto il cibo (cibo?) di McDonald! Tutto questo fa schifo. Non più cheeseburger, un gesto. Non scriverò più! Esco dal tempo di guerra …e firmo la pace…

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PAGINA A CURA DELL’EDITORE

Si ringrazia la snella norvegese, di carnagione fioca come il sole del mattino, in primo luogo per aver contribuito al rimpatrio della salma del cuoco di questa minestra e in seconda battuta per aver consegnato a noi altri dell’editoria il manoscritto, ritrovato in un lago di vomito, della vittima che forse non era uno studente del tutto eccezionale, non di certo una persona dotata di vivace intelligenza, non uno che avrebbe portato una tesi di laurea dal titolo La quadruplice radice della ragion sufficiente, non un ragazzo di cui i genitori possano vantarsi, non uno sportivo eccellente, non un ubermensch, ma un uomo che tutto sommato ha creato una composizione culinaria non del tutto indigesta. La voce della deontologia professionale ci costringe a non omettere un piccolo particolare. Abbiamo ricevuto il “piedi-scritto” (permettete il neologismo ma non c’è miglior modo per definirlo) riportato su: - svariati scontrini - Oslo Pass - bucce di mandarini - patatine fritte brinate - brandelli della salma - […] e qui mi fermo per evitare di sfociare nel regno della tracotanza e della riluttanza.

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Come conseguenza a questi fatti abbiamo agito nell’arduo compito di ricomporre la cronologia della storia pervenutaci come meglio abbiamo potuto, ma tuttavia non possiamo assicurare nessuna certezza inoppugnabile al lettore sulla reale successione cronologica dei fatti descritti. Difatti anche l’assegnazione delle date a ciascun scritto giornaliero è il frutto di una rielaborazione verosimile sulla cronologia del viaggio di Giacomo, ma tuttavia vi è la certezza che, per esempio, quel che è sottoscritto al 12/3 sia stato vissuto e poi scritto da Giacomo il 12/3. Infine, non dimentico l’oneroso contributo offerto dalla squadra volontaria di esperti crittografi, che ringrazio a nome di tutta l’editoria.

Cesare Pavese

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Sono le 8 di sera del 10 marzo, ho appena consumato la mia cena e vi racconto del pomeriggio appena trascorso durante il quale, come reazione all’abbondante nevicata ho deciso di visitare alcuni musei (uno solo a dire il vero) e puntualmente la nevicata dalla quale fuggivo si è placata, ma ho comunque visitato il museo. Prima però ho preso un po’ di mezzi pubblici a caso, giusto per poter sfruttare la mitica Oslo Pass e tra un tram e un bus mi sono fermato in una specie di bazar a comprare dei mandarini, perché ho pensato che se gli uomini di Napoleone avessero avuto i mandarini ora parleremmo, leggeremmo e scriveremmo solo in

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francese. Nel bazar una e una sola cosa mi ha colpito assai: il commesso prima di pesarmi i mandarini stava pulendo in giro con uno sgrassatore universale e il mio occhio attento ha notato che lo sgrassatore era della stessa consistenza, marca, colore ed efficacia di quello che mi tiene compagnia quando nel week-end lavoro in una pizzeria nella piccola e lontana Piacenza. E’ per questo che lo chiamano universale?? Tra i MEZZI-A-CASO ho preso anche la METRO-GIUSTA che mi ha portato al Munch Museet dove spogliatomi di giacca e zaino ho fatto il mio trionfale ingresso. Ero tutto contento di non dover pagare l’entrata per via della Oslo Pass e ho scoperto solo lì che la visita al museo era gratuita per tutti. Un amaro boccone ma che, se ruminato bene, può essere buono e saporito poiché adempio al lo squisito principio, che vado predicando spesso: che la cultura deve essere democratica e universale, perché tutti quelli che bramano godervene ne possano usufruire senza sacrifici. Quindi sarei un bell’ipocrita se dicessi che mi duole l’aver trovato un museo così importante ad ingresso libero. [Ma in realtà nel volermi allontanare l’ombra dell’ipocrisia ho fabbricato una non-verità e mi sono macchiato di una momentanea ipocrisia].

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Tra tutti (non molti a dir la verità) i quadri di Munch esposti me ne sono mangiati due: la Madonna e l’ansietà, ambedue gradevoli per il palato dell’anima. Ho molto riflettuto, inoltre, sul perché Munch avesse fatto quattro copie di il vampiro di cui ciascun elaborato varia solo nei particolari particolareggianti rispetto alle creazioni che nel tempo la precedono e anche rispetto a quelle che la susseguono. Inesorabilmente non sono giunto a nessuna conclusione plausibile oltre a questa: Cazzi2 suoi! Ho appreso che Edward viaggiava molto, come me, e che molti dei suoi lavori li ha compiuti a Roma e a Berlino, e ho appreso il suo turbamento dell’animo. Si, si ora ve lo dico non mettetemi fretta, anche se sarebbe opportuno dare un ritmo più incalzante a sta narrazione e allora ecco quello che volevate sapere: c’è anche l’Urlo, solo che era silenzioso. L’opera conservata al Munch Museet è la prima che il pittore produsse ma non, ahimè, la più nota e di conseguenza bella, che è ospitata al Museo Nazionale ubicato comunque a Oslo. C’è una cosa riguardante l’Urlo e la Madonna che dovete sapere. Entrambe sono state rubate nel ’94 e ritrovate nel ’96. I ladri di cultura hanno lasciato un

2 Plurale di cazzo, termine di origine medievale.

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biglietto di ringraziamento per l’assenza di complicazioni al loro gesto che, invece, si attendevano fossero numerose. Il museo appoggia a tal punto l’idea di condivisione democratica della cultura di cui si parlava prima, da permettere ai privati di portarsi le opere a casa propria per un po’ di tempo. Uscito dal museo, tutto d’un tratto , sono stato investito. Investito da un’improvvisa voglia di mare. Così siccome desideravo ardentemente lasciarmi spettinare dalla caldissima brezza del mare, ho afferrato UNA-METRO-GIUSTA e sono sceso al National Theatret, ho visto il teatro, ho osservato che davano l’Othello di Shakespeare, ho chiesto a Shakespeare se qualcuno mi dava un Hotello anche a me e mi ha risposto: Io oso tutto ciò che è degno di un uomo, chi osa di più non lo è . Era in quel momento che ho preso la mia decisione: non avrei più pernottato all’Haraldsheim Hostel, non perché mi stia trovando male la, ma per un puro bisogno di cambiamento e poi perché me l’ha detto Shakespeare. Diretto verso il mare (e la sua calda brezza) ho costeggiato il municipio, molto brutto. E’ un grande edificio razionale, diviso in cima su due torri, mi ha ricordato l’architettura fascista. Sulla destra ho

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avvistato l’edificio dove consegnano il nobel per la pace. E poi, finalmente, ecco il mare, era il mare meno mosso che io abbia mai visto perché era ghiacciato ora si e ora no, ma anche dove vedevo passare le navi l’acqua era calmissima. Nonostante il ghiaccio sia meno denso dell’acqua, il gioco delle onde non aveva luogo perché, chiaramente, essendo il ghiaccio solido voglio proprio vedere come Eolo può muoverlo con la sola forza del vento che invece sull’acqua riesce a creare l’effetto delle onde. Vedere un mare così è stata una sensazione angosciante ma, alla lunga, gradevole e riappacificante. Concluse le trattative di pace ho ri-pigliato la metro e ho vissuto l’ultima cosa degna di nota della giornata: nel sottopasso della metro un clochard strimpellava e cantava. Mi ha assalito una voglia di sgionfarlo e pagarlo perché mi facesse suonare la sua chitarra (infatti è da molto che non suono la mia chitarra), ma non l’ho fatto.

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11 MARZO Vi scrivo dall’ostello di Haraldsheim 4 per l’ultima volta. Stasera non so dove dormirò. Stamattina ho smesso di “fabbricare le zeta” nel pieno trauma, ma non mi sono stupito, poiché mi capita spesso anche a casa. In quelle mattine, sono come il bambino, che, bandito dal cielo, sfocia nella luce della via e si presenta con un aggressivo pianto di protesta. Udite, udite! Oggi ho fatto colazione: due fette di pane (pane?), mela verde, uovo sodo, marmellata d’arancia, e uno strano impasto che somigliava tanto al tonno ma che sono sicuro non lo fosse, succo e caffè (caffè?). Mi dispiace solo non aver salutato l’americano, perché durante il mio congedo era in bagno: probabilmente pensava a quanto fa cagare il tempo amputato della mia compagnia.

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Con lui avevo legato più di tutti, anche se l’unico scambio di frasi (frasi?) è stato quello sulla colazione del giorno passato. Ma abbiamo legato con gli sguardi, gli accenni al saluto (sempre contenutissimo) e con i gesti. Oggi c’è il sole e sono diretto a Vigeland, il parco che la MIA-CARA-NONNA ha designato tra le 2 cose da non perdere durante la visita della città. [l’altra non ve la svelo perché i segreti della nonna sono patrimonio familiare che è comune pudore non sperperare]. Vi scrivo da un tram che mi sta portando al mare, a lasciarmi spettinare dalla sua caldissima brezza. Mentre camminavo dalla fermata di Majorstuen al parco di Vigeland mi sono accorto di 3 cose, una dopo l’altra. Innanzitutto il mio zaino è più leggero di quando l’avevo in spalla all’aeroporto. Al che ci sono 3 spiegazioni più o meno plausibili: 1. L’accelerazione gravitazionale ad Oslo assume

valori minori di 9,81 m/s2 2. Ho dimenticato qualcosa in Haraldsheim 4 3. La biancheria sporca pesa meno di quella pulita

a causa del potere corrosivo dei miei escrementi

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che avrebbero procurato la sublimazione degli indumenti di intimo.

La 1 e la 2 non sono verificate poiché Oslo non è sulla luna e sono più che certo di non aver scordato nulla lungo la strada, quindi, per esclusione, teniamo buona la terza ipotesi. IL secondo accorgimento riguarda i clacson dei norvegesi, che, solo ora, ho scoperto ne fossero in possesso. In 2 giorni mai li avevo uditi strombazzare, per via dell’accurato e ponderato uso che i norvegesi fanno del clacson. Ma di che mi stupisco? Alla fine è così anche a Milano e Roma. E infine, come ultima cosa, ho pensato che pensare e accorgersi delle cose è per gli stupidi, i cervelluti agiscono, ma non ho agito in nulla. Vigeland è un parco che acquista nome dall’architetto suo padre, che l’ha addobbato con 212 statue scolpite di suo pugno. Non è stato malvagio fare la conoscenza del sign. Vigeland (nonostante sia cenere dal ’43), perché questo Vigeland ha messo al centro del suo parco l’uomo, l’uomo senza ceto o classe, senza abiti e senza tempo. L’uomo e la famiglia sono gli abitatori del parco. L’uomo qualunque, nel senso che potrebbe essere universalmente chiunque, popola questo parco, e lo popola vivendo: nascendo, giocando,

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crescendo, ballando, lottando, esultando, parlando, disperandosi, marciando, marcendo, riproducendosi, odiandosi, confrontandosi, e…vivendo. Non è magico pensare che una statua possa compiere tutto ciò? Ho salutato l’architetto Vigeland e mi sono imbucato su questo tram da cui vi scrivo. Oslo è una grande pista da sci di fondo, dove la rotaie del tram fanno da guida per le lamine. Scrivo da un fast food da cui ho appena attinto un ottimo salmone affumicato con patate e una salsina che è la fine del mondo, ma il mondo non è finito. Insomma, dopo un po’ di tram e infine un bus sono arrivato a Dronningen, un “peninsulotto”, sempre affacciato sul fiordo di Oslo, dove ha sede il Museo delle navi vichinghe. Oh, qui sì che mi sono sentito orgoglioso della mia Oslo pass, dato che ho risparmiato 100 Nok di biglietto. La visita mi ha affascinato, l’atmosfera del passato mi affascina sempre: mi ricorda quanto è lunga l’ascissa del tempo, che sembra infinita, ma in realtà conosce un asintoto pure lei. Oltre alle navi, erano esposti in teche anche suppellettili e utensili della quotidianità, ed è proprio attraverso quelli che i vichinghi mi sussurravano

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magno cum gaudo il loro piacere di aver fatto la mia conoscenza. La prima nave che si “incontra” è anche il punto di forza del museo. È maestosa e incute paura per le sue forme, ora curvilinee, ora rettilinee, ora affilate, ora appuntite. Pensate se foste stati avvicinati, nel lontano 800 - 900 d.C., da un’imponente barca, zampillante di questi omini armati di bionde trecce? Se un leone fa paura quando è fermo, immaginate cosa può creare messosi in moto. Potreste immaginarvi i vichinghi come grandi porci dall’esteso volume corporeo (almeno io li pensavo così), invece, solo alla fine, osservando la bara di uno di loro, mi sono accorto di quanto fossero piccoli…piccoli uomini, ma grandi ingegneri. Per puro spirito di conoscenza ho misurato la bara, come fossi il loro boia: lunga 9 spanne, spessa 2, e alta 1. Ho ripreso un bus, e salendo ho notato che a bordo c’era un angelo, cioè una DONNA-BLAUE-BLUME. Alla prima fermata possibile è salita una coppietta di italiani, sui 30 anni massimo, a testa. Si sono seduti praticamente in braccio a me, non per colpa loro, ma perché il mezzo era assai affollato e la lebensraum era ridotta ai minimi termini.

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<Hai fame?> ha chiesto lei. <Si, ma mi adeguo a te> …silenzio…perché, quando all’estero gli italiani non parlano, c’è silenzio, e quando invece parlano c’è confusione?. <Però più aspetto più la fame cresce esponenzialmente>. E poi hanno continuato a discutere sulle sorti future del loro pranzo, e contemporaneamente nel bus non c’era silenzio. Io avevo una maledetta voglia di trasferire sul foglio ciò che i vichinghi mi avevano appena dettato, ma non potevo. Scrivere è un’attività che ho perpetrato in quasi tutte le trasferte su mezzi pubblici, ma questa volta non riuscivo. Non potevo perché l’idea che qualcuno legga e comprenda anche una sola parola, anche se decontestualizzata, di quel che rigurgito, mi blocca, perché questi occhi che vedono possono svelare al mondo l’arcano: osservano il mio corpo di cui una mano scrive, ma il cui impeto e ispirazione sono di natura ultraterrena, invisibili, e anche una sola parola può aprire univocamente un passaggio tra i separati mondi dell’immanenza e della trascendenza. Svanirebbe così la magia, scoccherebbe la mezzanotte anche per la mia Disneyana fiaba. E’ indispensabile per me avere

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un’esistenza totalmente segreta in un universo invisibile dove far germogliare e prosperare la mia ispirazione. Intanto che mi crogiolavo per questo, è sceso l’angelo e l’atmosfera si è fatta infernale. Siccome non potevo scrivere cercavo di fossilizzare nei lobi del mio pentolone i pensieri che avrei poi scritto, ripetendomeli n-volte, ma non ha per nulla funzionato perché non è la stessa cosa. E’ come se un prigioniero, con le mani legati dietro la schiena, volesse masturbarsi e non potendo, per motivi pratici, si grattasse l’ano3. E non è la stessa cosa. Gli attimi fuggono. Se gli istanti, e le ispirazioni che li cavalcano, scappano non le puoi nemmeno rincorrere.

Se esistesse un registratore di pensieri io sarei un poeta, e forse anche, uno scrittore.

3 Nota editoriale: la squadra di esperti crittografi ha pubblicato una possibile interpretazione della frase riportata e, con il beneficio del dubbio, hanno imposto quella ritenuta meno volgare tra le diverse interpretazioni possibili.

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Le frasi e le idee migliori mi si presentano nelle situazioni più impensabili, come i fiori.

E non si trova un libro tra milioni che possa riunirle per tutta un’era su un qualcosa che le conservi. E quando accarezzo la tastiera

divento tutto nervi poiché i suoni e le parole più belle

son già svanite e non son più miei servi ma materia per formare altre stelle.

Mentre camminavo verso la galleria ho visto, dietro la vetrina di una caffetteria, una stragnocca che interloquiva con delle non-stragnocche e teneva un gomitolo di lana sul tavolino. Avrei tanto voluto essere il suo Teseo, ma non lo sono stato. Al Museo Nazionale ho avuto una grande delusione. Dopo mezz’ora in cui ero tutto concentrato a guardare e riguardare l’immutabile dozzina di quadri di Rubens, Van Dick e altri, e non trovando fin dal principio dove fosse il proseguo della galleria, ho chiesto ai cosiddetti guardiani del museo dove fosse

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l’Urlo di Munch, e tutto il rimanente delle opere più note. La risposta è stata una doccia fredda e istantanea: sono stati trasportati per restauro/manutenzione/chissacché e non saranno esposti al pubblico sino alla fine di aprile. La mia unica consolazione era la Oslo pass, che mi ha risparmiato dal scialacquamento puro di 80 NOK. Allora, per non uscirmene da lì con l’animo iroso, sono rientrato dai quadri, e ho fatto un gioco: fissavo i soggetti (quelli cono gli occhi volti all’osservatore) per allenarmi a non distogliere lo sguardo dalle persone che nella vita reale mi fissano ardenti. Ho annotato sul taccuino della vita pure una magia di prospettiva. Cambiando la propria posizione rispetto alla tela, queste “persone” continuano a fissarti nonostante siano amputate della facoltà di girare gli occhi, e tantomeno la testa. E infine, per ripicca, come un bambino capriccioso, ho lasciato i mandarini nel deposito borse del museo. Dopo l’infantile gioco di prospettive, aiutato dallo sguardo incuriosito e minaccioso dei “guardiani”, ho realizzato che era meglio abbandonare l’attività ludica per riprendere il cammino. Immediatamente dopo aver assestato qualche scrollone alla Terra (camminavo), mi sono ritrovato all’ingresso del Nobel Prize Center, sito nei pressi del municipio e non distante dal mare (mare?).

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Qui viene distribuito (distribuito?) annualmente l’ambizioso premio Nobel per la pace, ma durante il periodo in cui non ci si dedica a tale prassi, è instaurata nel museo una mostra interattiva, principalmente dedicata a Nansen. E chi era costui? Un premio Nobel norvegese che rappresenta l’orgoglio della nazione; è inoltre dedicato, sempre all’interno della struttura, un ampio spazio all’ultimo e meritevole premiato: il cinese Liu Xiaboo, che si è prodigato nella lotta per i diritti umani del suo paese, e ha ricevuto, come segno di riconoscimento, le manette. Mi ha molto colpito, ma non affondato, la sala in cui sono manifeste, attraverso un monitor, tutte le persone che hanno meritato il Nobel per la pace. L’atmosfera poetica e trascendente creata dal gioco di luci ha portato i miei dinamici pensieri ad elevarsi in un’esperienza mistica come quella del filosofo Nietzsche che, passeggiando nella località montana di Sils Maria, tutto d’un colpo vomitò l’eterno ritorno. Vi propongo, al fine di non tediarvi troppo, solo alcuni dei pensieri che hanno partecipato all’esperienza mistica della mia mente. Pensavo che se almeno la metà delle persone che popolano i paesi benestanti dell’occidente si adoperassero per la concorrenziale candidatura al Nobel per la pace,

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allora avremo la pace, non solo circoscritta alla superficie del geoide, ma anche con gli alieni [si, anche con gli alieni, perché molte persone farebbero pace con il loro Dio, antecedentemente abbandonato in seguito alla vista delle nefandezze del mondo passato e presente. Cos’è Dio se non un ente alieno a noi? Ci ha fatti a sua immagine e somiglianza per lo stesso motivo per il quale se noi terrestri approdassimo dagli alieni vorremmo che fossero uguali a noi, non brutti e verdi come l’immaginario collettivo se li figura. Chi bacerebbe una ragazza brutta e verde? Mica ci chiamiamo tutti Shrek]. Prima che il sole si abbassasse tra le spalle della notte, sono giunto al Best Western Hotel, di Rosenkratz 8, nella città di Christiania. A Christiania? Direte voi. Sì, e non è molto distante da Oslo, ma la parte affascinante di Christiania è solo come l’ho raggiunta, per il resto non presenta caratteri troppo dissimili da Oslo. Tutto d’un tratto, camminando, ho notato un furgoncino delle poste con il bagagliaio troppo aperto per non saltarci dentro, e così ho fatto. Che cos’è il genio se non estro, fantasia e rapidità d’esecuzione? Mi sussurrava Monicelli proprio mentre compivo il misfatto. E così sentivo il motore, le ruote, e, per paura di essere scoperto mi sono catapultato all’esterno non appena il postino ebbe da

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fare la prima consegna. Avevo il sentore d’esser lontano poiché viaggiavo da 30 minuti circa e, non avendo finestrini, per capire il tragitto contavo il numero di frenate e di curve, che non hanno superato la dozzina, e di cui certe erano molto prolungate e dolci, quasi a ricordare una tangenziale. E così ho preso alloggio momentaneo a Christiania, nell’hotel da cui vi scrivo. Ok, ok, volete la verità: il camioncino delle poste era un tram e il tram è il postino della gente, la riceve e la consegna a destinazione. E Christiania è il nome che la Città da Oslo possedeva prima e dopo essersi chiamata Oslo. Fu infatti un Re molto cristiano a cambiare il nome della città nel 1624. Il nome Christiania fu mantenuto fino al 1924. Ho provato stasera a socializzare, ma per farlo, qui ad Oslo, causa freddo, bisogna che ci si innesti in un qualche pub discoteca. E così ho tentato di farlo, ma, talora perché avevo meno di 23 anni, talora perché ero malvestito (e io mi chiedo come possa uno con il pile del Cern, indossando il fascino della scienza, non essere considerato elegante?); insomma non mi hanno lasciato intrufolare da nessuna parte. Da questo punto di vista, sono molto chiusi e freddi i norvegesi, e questo ha provocato in me incazzatura

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che andrò a sbollire facendo l’amore sotto le coperte…con Dostoevskij. ‘notte.

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12 MARZO Sto per lasciare il Western Hotel di Rosenkratz n. 8, dove la colazione era una musa ispiratrice per l’aedo cantore del gusto culinario. Ho mangiato salmone fresco, gamberetti crudi e dell’altro pesce che sembrava formaggio, ma era pesce. Dopo la prima razione, ho mangiato ancora le stesse cose, in toto, e così ancora per un’altra volta successiva. Mentre ingurgitavo bovinamente pensavo a quanto questa colazione avrebbe infagiolato papà, perchè egli è ghiotto di pesce, come gli scoiattoli lo sono di ghiande.

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Al termine del personale banchetto, invece, pensavo che delle ~ 700 NOK che ho sbolognato all’albergo, almeno la metà sono servite loro per acquistare i viveri che gli ho consumato, poiché era tanto e tanto raffinato. Appena uscito dall’albergo ho vissuto, come anche ieri mattina, la sensazione più bella: uscire in strada, con lo zaino obeso in spalla, la terra sotto i piedi, e la libertà in tasca, la libertà da luoghi, persone, averi, oggetto del desiderio di un qualsiasi viaggiatore che viaggia come viaggio io. Come ieri, d’altronde, non so dove sarò a far riposare le chiappe quando il sole taglierà l’orizzonte. Ma concentriamoci sul presente, ora vi scrivo da UNA-METRO-GIUSTA che mi riporta in centro città. Arrivo da una bella sciata. Si, la prima sciata della mia vita, ottenuta per mezzo di una metro. Una volta ci andai in treno e poi in bus, tutte le altre in auto, ma con la metropolitana mai. Appena sceso la stazione di Holmen-Kollen sono stato vittima di un’estatica visione, che ha sconquassato la mia anima d’esultanza: tutta Oslo e il suo fiordo si piegavano, illuminati dal sole, ai miei piedi, come tutti i regni della Terra erano l’oggetto delle tentazioni mosse a Cristo promosse da

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Belzebù, ovvero signore delle mosche, Mefistofele, il suo nome proprio, Lucifero, il suo nome di battesimo, Satana, epiteto assegnatoli che significa avversario, il Diavolo, ovvero colui che divide, il Maligno, ovvero il male stesso, il Demonio, ovvero colui che domina, che impone. (certo che costui sarà stato di certo un aristocratico, e/o un russo, per avere questa sfilza di nomi, cognomi e soprannomi) Le piste di Sci alpino sono belle e divertenti, perché offrono salti, curve e improvvisi cambi di pendio: insomma tutte le cose che aprono la pompa di adrenalina di un ragazzo, e io sono un ragazzo. Sono contento, ho fatto proprio una bella sciata, ma prima di passare agli argomenti noiosi voglio osservare la luce del vostro sorriso raccontandovi una scena che ha un che di farsesco. Sciavo, e sciavo molto bene, e, se mi fossi potuto vedere, avrei detto <O0oo0Oh, che bello stile quello!> e i norvegesi sciavano male, ve lo posso assicurare, così mi sono farcito di orgoglio nazionale, pensavo a Tomba, Thoni, Rocca, e alla superbia del loro stile, mentre i norvegesi, sono solo dei maiali scarpinatori da sci di fondo. Tempo una pista, ancora alimentato da questa fierezza tricolore, ho provato un salto e, puntualmente, è giunto il capitombolo, che ha infranto di colpo il fragile spirito nazionale e ha

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prodotto le risa di tutti i ragazzini norvegesi che hanno colto l’occasione della mia foresteria per schernirmi. Situazione paradigmatica della reputazione internazionale di cui godono l’Italia e gli italiani che la popolano e pure di quelli che non vi abitano. Ecco il pezzo dalla petulanza infinita: su alcune delle piste che ho appena solcato, solo 2 settimane fa, si sono svolte alcune gare del campionato del mondo di sci nordico. I cittadini infatti sono tutti molto fieri di ciò: l’ho potuto notare dagli innumerevoli zaini, cappelli, cuffie, felpe, mutande, perizomi, reggiseno, tutù, minigonne, scarpe, sandali, collant, canotte, tutte marchiate “Oslo 2011 – Holmenkollen che le gente per la strada indossa. Vi scrivo da una chiesa. Si, sono entrato in chiesa, a pregare per mia mamma perché non sia preoccupata, e così facendo, ho pregato anche per me, per la libertà del mio animo. Infatti, la preoccupazione della mamma è direttamente proporzionale alla libertà del figlio, è strano, è come se, nonostante le distanze, ci fosse una sintonia tra prole e progenie, proprio come se il cordone ombelicale non si fosse mai spezzato. La mia madre, si sta raggrinzendo in fretta, non tanto nel fisico, ma nel carattere, e Dio (se esiste), ne sono

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sicuro, remerà perché tale processo sia cinematicamente lento. Scrivere in chiesa è utile, perché la censura di Dio (se esiste) è sempre proficua, e così la produzione si sacralizza di per se stessa, a scapito però dell’espressività artistica, specie quando attinge dalla sfera erotico sessuale, o comunque da quella svincolata da ogni forma di moralismo. Dio (se esiste) è molto razionale, e non si diverte a fare il dandy. Chissà perché? Mi piacerebbe un Dio esteta (se esistono gli esteti). Fuori. Mentre camminavo [lo sapete che ad ogni passo spostiamo la Terra: le conferiamo un accelerazione, pari alla forza dei muscoli delle gambe, ma inversamente proporzionale alla massa della Terra stessa, che non è del tutto irrilevante] guardavo tutte le ragazze (e quando guardi le ragazze la Terra non la sposti, anzi, addirittura sembra che il globo sospenda per un momento entrambi i suoi moti, di rotazione e di rivoluzione). Le ragazze norvegesi sono tutte belle tranne quelle molto-poco-abbronzate, non come Obama per intenderci (cit.), tanto che sembrano bambole del Seicento. Fatto sta che, a parte queste ultime, di brutte ancora non ne ho incontrate, e speriamo che continui a vederne solo di belle. Prego Dio (se

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esiste) perché mi faccia “vedere meglio” quelle belle. Amen. Sono in un caffè, e ho ordinato un espresso. Sono le 19. Cercavo il Tourist Office per ottenere alcune informazioni su come raggiungere il posto dove pensavo di fare requiem stasera. Frugavo per un posto e ho trovato una persona, viva e parlante, e così abbiamo parlato. <Hi, how are you?> <I’m fine> titubante ho risposto. <And you?> <Where are you from?> mi rispose con questa domanda. <Italy> <Parlo italiano?> <E come no! Sono italiano> Ho capito solo più tardi che me l’ha domandato solo per mettermi alla prova, per testare la mia provenienza. Pensava fossi un nordico, e in effetti, per chi mi conosce, l’apparenza del mio aspetto, suggerisce proprio quello. Ha riattaccato sciolto e veemente: <Qua liberatini!>. <Liberali?> <Liberali…qua non hanno paura se cammini per la strada. Qua no guardano male! Qua

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no governo di coglioni4, qua no Berlusconi, Bossi, no Fini…Fini prima cattivo ora buono [..]>. Ha continuato per 5 minuti filati a denunciare il marciume che la politica italiana rappresenta. Ha aggiunto anche qualcosa su Prodi, ma non ho capito bene. Gli ho suggerito che adesso c’è Bersani, e gli ho spiegato che voto la sinistra, perché, in quella situazione, se fossi stato di destra, mi sarei sentito in colpa, e non volevo sembrare uno che si macchia di colpe, volevo mostrargli che sono dalla sua parte, che sono una voce partecipe del suo coro di critiche. <Bersani! Speriamo> con tono di sfiducia mi ha completato. Mi ha chiesto di dov’ero, e dopo la mia risposta si è illuminato, parlando a me di Piacenza. Mi ha donato una casa, la mia casa, la via dove usualmente fabbrico le zeta, la via dove collego i neuroni, e quelle dove calcio un pallone, e quella dove schiaccio le pizze. Il voluminoso nigeriano conosceva tutto, dalla grande Nigeria, alla piccola Piacenza. Mi ha emozionato, volevo baciarlo. Ho colto l’occasione per parlare della situazione di via Roma e di come io mi pongo al riguardo.

4 Parola di origine rinascimentale

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<In via Roma ci sono molti di VOI che vi abitano, e che la popolano, nel vero senso della parola, usufruendo degli spazi pubblici, e donandogli così un senso, passeggiando la sera evitando la diabolica tentazione di incollare le chiappe al divano e piantare gli occhi nella tv, abitudine che, invece, i piacentini hanno adottato a tal punto da pensare che non farlo sia cadere in tentazione. L’opinione pubblica poi, ha creato, sulla base di qualche caso sporadico di inciviltà VOSTRA, un fittizio stato d’allarme, la Lega ci ha sguazzato dentro, e così si è edificato una sorta di muro immaginario, i cui mattoni sono i pregiudizi e la calce la paura, figlia della xenofobia. E così tutti hanno paura di VOI. Per me, invece, è bellissimo camminarci, fermarsi a mangiare un kebab…in via Roma>. Durante il mio soliloquio egli si guardava attorno, e con regolare frequenza di campionamento, emetteva degli “uhm” con quel fare orgoglioso tipico degli africani, che a me fa venir voglia di piantargli un destro, ma devo imparare e convivere con il loro atteggiamento e sopprimere le mie ire. Si è raffreddato molto, in senso lato, perché nel senso pratico lo eravamo già entrambi da un pezzo, ed è diventato taciturno. Forse ho sbagliato a reiterare quel VOI, può essere quello che l’ha

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infastidito, e in tal caso ha ragione. Lui si sentiva un NOI, con me, e ne aveva pienamente ragione, eravamo sulla stessa strada, e se un passante avesse guardato male lui, ugualmente, almeno di striscio, avrebbe guardato male pure me, e viceversa, se un passante, amante dell’umanità, ci avesse visti, avrebbe adorato lui tanto quanto me, senza differenza alcuna. <Ascolti la musica?> avevo notato fin dall’inizio che aveva gli auricolari, e ho usato questa frase per rompere il silenzio. <Si, ma l’ho già spengiuto> <Spento?> <Si, spento> <Bye bye> <Bye>. In realtà la fine della conversazione è cominciata al primo VOI, e non c’era modo di riacciuffarla. Come può un uomo, in questo caso io, parlare, dimenticandosi il principio basilare che è la sorgente di ogni comunicazione…che gli uomini sono tutti uguali. Sto aspettando un pizza kebap, in un locale di pizzaioli kebap e due bambini, due fratelli, figli di un’asiatica, mi guardano.

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Se gli occhi dei bambini mi penetrano io sono contento, perché Dio (se esiste) mi sta considerando. Dio (se esiste) è nello sguardo dei bambini, e poi muore, come in Nietzsche o in Guccini, scegliete come più vi aggrada, chi dei due ergere a principale deicida. Mi è arrivata la pizza-kebap, e anche se non c’è nessuno che mi gira un “buon appetito!” io me la mangio lo stesso. Mettetevi comodi, le cose capitate dall’ora di cena al mio arrivo qui alla 626 del Gardermoen Airport Motel sono tante come le gocce quando piove. Innanzitutto una serata dove sono sorte le mie aspettative future e i miei sogni, come l’edera nei posti più insoliti, è sintomo che in me vivono una speranza angosciante e un’angoscia speranzosa. Durante la cena alla pizzeria-kebap ho ristrutturato l’idea, che già da mesi condivido con un socio, di aprire una pizzeria-kebap a Piacenza. Ho ripristinato l’idea primordiale e l’ho farcita con alcuni dettagli fondamentali che ho, con impeto tempestoso, trasmesso al mio socio via sms (colpo d’arma da fuoco):

Max ho pensato a tutto! Faremo Kebap e pizza entrambi nel forno a legna! Il kebap che

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gira vicino al fuoco in orizzontale e poi con un congegno elettronico lo si fa uscire quando va tagliato o è già cotto a sufficienza.

Poi i tavoli saranno trasparenti e avranno l’ipad Incorporato così nell’attesa, o nel mentre, del cibo le persone possono leggere o sfogliare e i libri. Infine menu indicazioni ecc ecc sarà tutto in

Inglese per essere il più possibile internazionali e nell’Ipad saranno disponibili anche alcuni

libri in maruga, swahili ecc ecc.

Va bene gli Ipad a tue spese però.

Le idee prescindono dall’economicità della vita.

Non mi ha più risposto. Penso che si sarà tagliato le vene dopo l’ultima stronzata5 che gli ho scritto. Una volta uscito dal Kebap (quello reale non quello dei miei sogni) ho spostato un po’ di volte il pianeta, ma non troppe, finché non mi sono imbattuto in un cartello che recitava Ristorante Pizzeria Bella Napoli, Wilkommen (freccia) e che ho ritenuto

5 Parola coniata nell’età moderna.

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opportuno fotografare, non fosse altro che li sotto adagiato al muro c’era un Amico che si fumava una sigaretta e mi osservava con un volto che era tutto un punto interrogativo. Così mi sono sentito in dovere di spiegare: < Because, in my town, in Italy, there’s a pizzeria also called Bella Napoli and I work there in the weekend.> <Ah. Ok. So you are from Italy!> E così abbiamo parlato a lungo, lì al freddo. L’Amico è dell’Eritrea e così è scattato inevitabilmente il discorso sulla colonizzazione, sul fascismo e su Mussolini. Mi ha spiegato che Ashmara, dove lui è cresciuto e ha studiato, è una copia di Latina, in Italia. L’ho illuminato sul fatto che sono frutto della medesima architettura e urbanistica fascista, ma solo mentre lo dicevo mi sono accorto che non c’era il bisogno di dirlo. Poi l’Amico ha preso posizione propria sui fatti storici: <Il fascismo è stata una buona cosa capitata al nostro paese. Il fascismo ha portato il progresso, ha fatto costruire strade, ponti, ferrovie e interi centri urbani. Ashmara stessa ha duplicato la popolazione solo negli anni del fascismo. E’ anche vero però che gli italiani arrivavano e mettevano in cinta le donne>. L’Amico mi stupiva per la sua cultura ad ogni sua parola, su una cosa però l’ho potuto correggere,

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infatti egli continuava a menzionare il 1890 come hanno della colonizzazione fascista, in realtà il fascismo viene al mondo con il 1923, nel ’90 invece partì la colonizzazione non so se con il governo Crispi o Giolitti, insomma l’ala liberale. Mi ha fatto molto riflettere questo, perché è ancora attuale. Voglio dire, se un popolo colonizzato è contento di esserlo che significa? Che sebbene i mezzi impiegati dai colonizzatori siano diabolici ma il fine è uno svilippo civile e il progresso dei colonizzati, allora tutto è lecito? Allora ha vinto il credo di Macchiavelli? Mi ha detto che ha vissuto in Sudan e in Kenia, a Mombasa. Così gli ho spiegato la mia visita ugandese, il mio progetto estivo per un viaggio in Sudan, le mie ambizioni di diventare ingegnere energetico, e l’idea di lavorare nella cooperazione mettendo a disposizione le mie conoscenze ingegneristiche per fornire acqua, acqua calda, energia elettrica e un sorriso a chi ne ha bisogno, e infine gli ho promesso che un giorno sarei stato a Mombasa ad Ashmara e a Latina. Mai promettere così tanto ma sono speranzoso. Siamo entrati nel locale dove il suo amico lo aspettava (poveretto durante l’assenza dell’Amico che ho prolungato all’infinito si era già finito la sua birra, mentre l’Amico l’aveva abbandonata ancora

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piena per fumarsi la sigaretta più lunga della sua vita). Uganda, pastori, mucche, sangue-latte, la ricchezza, le religioni, il corso di studi in ingegneria (l’Amico è laureato in ing.elettronica all’Università di Ashmara) sono stati gli argomenti che hanno sfilato sulle nostre lingue. Abbiamo riso tanto e con violenza e anch’io mi sono preso una birra. Ho parlato del mio hobby di voler diventare uno-che-scrive-cose-che-gli-altri-provano-piacere-leggere e ho spiegato che avrei inserito il nostro incontro nella minestra, ma desideravo il loro consenso, che è piombato subito e senza ostacoli. Insieme a ciò ho svelato il debole per la lettura e ho mostrato loro il Dostoevskij che abita nel mio zaino. L’Amico si è appuntato il nome e allora ho colto l’attimo per suggerirgli pure il nome del Dio dell’Olimpo letterario: Italo Calvino. Io e l’Amico ci intendevamo a meraviglia, nonostante il mio pessimo inglese, mentre l’amico dell’Amico era più taciturno. Mentre eravamo in procinto di lasciare il pub ho adocchiato due scacchisti del nord davano vita ad una partita. Ho approfittato dell’Amico per trovare la stazione dei pullman, gli ho lasciato il nome su un foglietto così l’Amico mi ha chiesto perché mi possa contattare su Facebook. Gli ho chiesto un consiglio per gli studi di

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ingegneria. Ci ha pensato un po’ e poi aprendo le mani come per recitare il padre nostro: <Love Numbers>. Ed era la fine delle nostre conversazioni. Ci siamo salutati, non so nemmeno come si chiamasse ma ero sicuro che quello era un amico è per questo che non ho travato nome più adatto per lui. Ci parlavamo e ascoltavamo reciprocamente rispettando con il silenzio le parole dell’altro (il che non è sempre scontato, anzi…). Gli amici non sono necessariamente quelli che incontri tutti i giorni, anzi, quelli sono amici forzati, amici di comodo con cui condividi esperienze e allora ti pare d’essergli amico. Per quanto la spostiamo ad ogni passo, la terra rimane pur sempre immensa e siete proprio certi di credere che, in tutta quella vastità, le probabilità che un amico capiti proprio nella tua stessa città, o addirittura nella tua stessa scuola o classe, siano buone? Gli amici sono come i fratelli consanguinei tali e quali, provi per loro il medesimo affetto solo che non li picchi, non li ignori o ci litighi, perché queste sono tutte reazioni causate da una comune e lunga condivisone di spazi e cose che i fratelli sperimentano. Chissà se il mio bis-nonno, ancora giovane, senza dir niente a nessuno, sia partito per l’abissinia nel 1890 e nel pieno sturm und drang ormonale sia stato

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“carnale carnale” con una donna dell’Eritrea. E così sarebbe nato il suo nonno e dieci anni dopo sarebbe nato il mio, a Stradella in Italia e cosi nacquero i nostri padri e noi, con il mantenimento nel tempo dello stesso sangue e del medesimo gap di 10 anni confermato dai suoi trent’anni e i miei venti. Stupendo! perché saremmo fratelli che non si picchiano, non litigano, non si ignorano perché mai abbiamo vissuto insieme. L’amicizia è un connubio combinato tra libertà e compagnia. Amico è colui che sa essere di compagnia ma che ti lascia tutte le libertà. Come si può trovar miglior compagnia se non dopo tre giorni di solitudine? Da chi si può pretendere la massima libertà per la tua vita se non da una persona che non rivedrai mai più? Una volta acquisita l’allocazione della stazione dei pullman, ho constatato che era possibile, e meglio, prendere il treno. Orario di partenza 23.45. Sono ritornato, senza indugi, al bar di prima. Ho assistito alla partita con attenzione. <May I see the game?> <You’re welcome> rispose uno dei due vecchi. Ma al mio arrivo (alle 11) un giocatore era già in netto vantaggio, non tanto come numero di pezzi ma in virtù della loro favorevole posizione rispetto a

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quelli dell’avversario. Il che giocava a mio favore nella parallela partita che disputavo contro il tempo. Presto ha avuto fine la partita e lo sconfitto, come mi aspettavo facesse, ma senza pretenderlo, mi ha lasciato il posto. Il giovane i bianchi, il vecchio i neri e siamo partiti. Inizio con mi a solita apertura di cavallo, alfiere ecc ecc, ma dopo una dozzina di mosse (ad ogni mossa guardavo l’orologio) fallisco il mio attacco perché si era ben difeso, così devo indietreggiare ed è passata a lui l’iniziativa. Dopo un po’ha spostato, per una svista, il cavallo dove glielo avrei mangiato, gliel’ho fatto notare e mi sentivo più forte così me ne sono uscito citando Achille contro Ettore che era inciampato in una pietra: Will not be a stone taking my glory. Ecco e così ho peccato di presunzione, devo imparare che il confine tra la presunzione e la convinzione nei propri mezzi è labile e io lo trapasso sempre, come nel pomeriggio sugli sci. Infatti, è poi capitato svariate volte ch’io avessi sviste parimenti gravi, ma il mio avversario con rispetto e umiltà, a differenza mia, non ha mai citato il vangelo con porgi l’altra guancia o qualsivoglia altro testo sacro o profano. Sono avvenuti tanti reciproci scambi, al termine dei quali mi ritrovavo in vantaggio di un pezzo ma senza

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che me ne fossi accorto aveva assediato con quattro pedoni la mia linea della metamorfosi (dove la ranocchia, cioè il pedone, diventa regina). Il suo pedone aveva letto Kafka e Ovidio ed era quindi candidato alla corona di regina, e così ha adempito alle scritture. Ad ogni mia difficoltà lo spettatore, che era colui che giocava prima di me, mi dava un’irritantissima pacca di compassione e consolazione sulla spalla. <where are you from?> <Italy> <Wich part of Italy?> <Nord, my town is close to Miland> <Nord is rich and south is poor> (Vammeli a trovare in Italia due ultra settantacinquenni così anglofoni) Mi sarebbe piaciuto prolungare il suo spunto ma gli scacchi richiedono una concentrazione totalizzante, così non diedi largo alla sua riflessione, ma persi comunque la partita. E’ stato poi Sergio Leone a decretare la fine del nostro match: Quando un uomo con una torre incontra un uomo con una regina, l’uomo con la torre è un uomo morto. Sergio Leone è piombato come un pugno di dollari in tasca mia perché erano le 23.44 allora ho corso,

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come Forrest, ma io avevo una meta. Ringrazio Apollo che il treno era in leggero ritardo e così l’ho potuto afferrare. Giunto all’aeroporto di Oslo ho preso un bus di un albergo (non del mio albergo perché il mio albergo è povero e non si può permettere i bus) che sapevo essere nelle vicinanze del mio. Bene qui arriva il bello, dopo 5 minuti a piedi mi scappava da vomitare dal di dietro. Ho visto per la strada la merda6 di cavallo e ho pensato a Monicelli: Il genio è fantasia, estro e rapidità d’esecuzione. E fu così che feci le feci. Le feci accanto a quelle del cavallo e domattina, per mezzo della luce del sole, andrò a verificare se l’effettivo accostamento dei colori della composizione artistica esalta o meno il gusto estetico. Mi ero liberato della cosa più calda che avevo in corpo, e cominciavo ad accusare il freddo. A soli 469 passi dalle feci (su qualcosa dovevo pur concentrarmi per no pensare al freddo) ho trovato l’uscio dl Gardermoen Airport Motel. Buonanotte

6 Termine coniato dal OdCI (Ordine della coprofagia Italiana)

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13 MARZO Nella 626 c’è un Vangelo, e io ho cercato il passo della “mandata degli apostoli”, che più volte ha assediato i miei pensieri esiliati in terra norvegese. “Non prendete né oro, né argento, né moneta nelle vostre cinture; né bisaccia da viaggio, né due tuniche, né calzari, né bastone, perché l’operaio merita il suo nutrimento.” Matteo 10, 9-10 “In qualunque città o villaggio entrerete, informatevi se vi è qualcuno degno e dimorate presso di lui fino alla vostra partenza. Entrando nella casa salutatela; e se la casa ne è degna, scenda la vostra pace sopra di essa; ma se non ne è

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degna, ritorni la vostra pace a voi. Se qualcuno non vi riceve né ascolta le vostre parole, uscendo da quella casa o da quella città, scuotete la polvere dai vostri piedi. […]” Matteo 10, 11-15 E questo mi serve per avere la carica, perché ho bisogno di una molla, a causa della lunga strada che attende i miei passi. E quella via mi portò a incontrare la morte, ehm volevo dire i morti. Sul finir della via per il cimitero, essa si impennava in una collina dal dolce pendio, dove lungo tutta la sua superficie erano disseminati i morti, schiacciati dai loro coperchi di cemento. Quell’andamento collinare mi ricorda molto un altro cimitero sito sulla collina,un luogo letterario però, quello di Spoon River, dipinto da Lee Masters e musicato da De Andrè nell’album Non al denaro non all’amore né al cielo. E con questi pensieri varcai la soglia, scendendo nell’Ade come il cantore Orfeo in cerca della sua Euridice, mentre io cercavo l’epigrafe di Munch: ho vagato circa un’ora nel taciturno raccoglitore di morti, interamente coperto da neve. Subito mi sono informato, tramite le opportune piantine esposte, su dove fosse ubicata la tomba del grande pittore Munch.

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Così perseguivo quella meta, tra colline, depressioni e bruschi cambi di pendenza, quasi fossi in una spedizione sull’Himalaya. Ripensandoci, in effetti, visti i reiterati scivoloni, avrei giovato il possesso di ramponi e/o “ciaspole.” Insomma con ramponi o senza ramponi, cercai a lungo l’epitaffio del pittore ma senza trovarlo. Ogni volta che credevo d’averlo trovato, mi imbattevo in morti “qualunque”. Era come se fossero proprio loro a proteggere, gelosamente, il loro noto concittadino dai fotografanti forestieri come me. E solo dopo un’ora di vane ricerche, in segno di resa, mi lasciai cadere a terra, come corpo morto cadde e in quel momento stavo realizzando l’insensatezza di cercare, nella morte, un uomo che si fosse elevato, per fama, su tutti gli altri uomini della sua città, trasgredendo ad una tacita ma evidente verità che solo allora ho appreso, e cioè che la morte livella le disuguaglianze d’ogni genere e tipo tra gli uomini. Di conseguenza stavo rimuginando sul perché si vada a far visita alle tombe, e sull’insensatezza di tale atto. Un attimo di felicità conta più di infinite lodi postume, diceva all’incirca il filosofo Winkelmann. Stando a ciò, se anche noi ci recassimo infinite volte con dedizione a render onore (per chi crede nell’onore, io non ci credo) e lode ai nostri cari, non avremmo fatto nulla

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in confronto a un istante felice della vita da loro vissuta. Quindi ci basti pensare che il morto in questione sia stato felice almeno un secondo, per essere assolti dal tedio di tali visite. E se anche non fosse stato mai felice, allora non avremmo comunque il potere di nulla, perché egli è morto e perché il tempo è irreversibile. Sono sul treno diretto alla stazione centrale di Oslo e, mentre aspettavo questo vagone, su cui ora giacciono le mie chiappe, ho pensato alla trama di un film, è un sogno per me poter fare un film. Un po’ di trama: un gruppo di ragazzi realizza un cortometraggio dove si mostra l’insensatezza delle leggi e delle regole, che sono solo il mezzo attraverso cui l’uomo ha barattato tutta la sua felicità con un po’ di sicurezza. Il video tramite la rete fa il giro del mondo e l’estrema dialettica e capacità espressiva dei giovani registi e attori è capace di attuare una conversione di massa. Così il lento processo di in civilizzazione della società che sta normalmente avvenendo nella realtà d’oggi, si

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realizza di colpo nel fulmine di una vera e propria rivoluzione. Altrettanto improvvisamente, in centinaia di metropoli diverse, le vecchie muoiono di asfissia a causa di chi, in massa, fuma dove non si potrebbe. Passeggeri che, sempre in massa, superano la famosa “linea gialla” vengono sommersi dalla metro in seguito al crollo del marciapiede. Nelle stazioni la gente si becca lattine, bottiglie, ecc ecc nella capoccia e i più fortunati se la cavano con un’emicrania cerebrale, a causa del mancato rispetto della semplice e quasi scontata norma che proibisce di gettare oggetti dal finestrino del treno. Analogamente accadono disgrazie, in tanti altri contesti e situazioni. Catastrofi atroci che inducono i ragazzi, ideatori del video-boom, uno dopo l’altro, all’atto estremo di libertà: il suicidio. Il rovello esistenziale di ciascuno di loro è un fardello troppo pesante, che deriva proprio dalle leggi, poiché, se nel corso della storia, da Hammurabi in poi, nessuno ne avesse mai promulgata una, loro non avrebbero potuto sostenere il noto luogo comune secondo cui “le leggi sono fatte per essere trasgredite” siccome non sarebbero esistite. Il tutto a testimonianza del fatto che i cambiamenti profondi della civiltà, operati dalla mano della storia,

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hanno radici salde ed inestirpabili. Che ci piaccia o no, le scelte dei nostri avi nel passato condizionano irreversibilmente il nostro presente, anche se aveva ragione Freud a dire, riferendosi all’alba dei tempi, che “l’uomo ha barattato la sua felicità con un po’ di sicurezza”. Voi direte <ma che c’entra?>. infatti non c’entra un bel niente, è solo che avevo la necessità incombente di fissare l’idea avuta perché il tempo e gli impegni non me la portino via. E un giorno farò quel film, ne sono certo. La compagnia è la quintessenza di questo viaggio, e più in generale dell’esistenza. La ricerca della compagnia ha fatto di me un esploratore. La compagnia completa, quella redditizia, consta di due parti: devi saper essere compagno a qualcuno e ci vuole qualcuno che sappia essere compagno a te. (Compagno nel senso etimologico del termine “cum panis” cioè che si presta a condividere, il pane ma non solo). Tra le mie indagini ho scovato un modo per sopperire ai addendi che sommati danno la compagnia: per essere di compagnia a qualcuno ho versato questa minestra e così, per mezzo dell’artificio della scrittura, ho potuto condividere qualcosa, e ho pure trovato chi tenesse lontano la

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mia solitudine in Barry Lyndon, Dante, Foer, Dostoevskij, Shakespeare e tutti gli altri i cui spettri man mano mi si presentavano al fianco. Sono entrambe le vie un misero fallimento poiché, per quanto fantasiose e consolatrici siano le forme di compagnia sopraelencate, non potranno mai sostituirsi all’assaggio di un amplesso o al contatto fisico e carnale, che una persona, qualunque persona, può dare e ricevere. Ho raccolto un fiore che arrecava una frase divisa in sillabe su ogni petalo: non è pos-si-bi-le pre-scin-de-re dal-l’e-co-no-mi-ci-tà del-l’e-si-sten-za. E nonostante io sia speso portato a spendere parole sprezzanti verso il denaro, devo ammettere che la frese del fiore è una grande verità. I soldi infatti sono un blaue-blume di facile tentazione ma sono anche il mezzo necessario per spendere la propria vita come meglio si crede. Bisognerebbe farne buon uso per vivere al meglio e non morire. Adesso non mi soffermo a fare il moralista, volevo solo condividere con voi il peso di questa verità, acquisita per mezzo del copione di questa gita che mi ha visto unico attore nell’amministrare il mio proprio portafogli. Insomma è scontato dirlo, ma non avrei dormito,

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mangiato e neppure veduto la quintessenza se avessi veramente razzolato come ultimamente ho predicato, cioè spietatamente e insensatamente inveendo contro il denaro in relazione alla vita. Tuttavia ci vorrebbero lustri di corsi di formazione per forgiare una propria morale del soldo e dei suoi mille modi di esser barattato ma banalmente la mia si riduce a quella frase del fiore: chi prescinde dall’economicità dell’esistenza non avrà mai il mio rispetto. Ho capito che è veramente peccato bestemmiare contro il Dio Denaro, che è comunque meno grave che essere dei suoi pii proseliti. Ma ora basta con queste avulse speculazioni, mi rimetto in cammino, non so per dove, ma so di per certo che stasera cenerò al McDonald. Poi chissà.