Viaggio a Samarcanda

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Eugenio Turri VIAGGIO A SAMARCANDA DIABASIS Un esploratore di deserti e geografo racconta giorno per giorno i quattro mesi di viaggio che nel 1958 lo portano da Istanbul a Samarcanda, attraverso un’umanità mai come ora in bilico. Un eccezionale, inedito taccuino fotografico accompagna la narrazione. DIABASIS Eugenio Turri VIAGGIO A SAMARCANDA Passages direzioneGiorgio Cusatelli, Massimo Quaini, Eugenio Turri conGiorgio Bertone, Elvio Guagnini, Francesco Surdich Massimo Quaini, La mongolfiera di Humboldt Paesaggio: pratiche, linguaggi, mondi, a cura di A. Turco Vanni Blengino, Il vallo della Patagonia. I nuovi conquistatori: militari, scienziati, sacerdoti, scrittori Amanda Salvioni, L’invenzione di un medioevo americano DI PROSSIMA PUBBLICAZIONE Jean-Jacques Rousseau, La scoperta del Nuovo Mondo, a cura di F. Surdich Luisa Rossi, L’altra mappa. Esploratrici, viaggiatrici, geografe (secc. XVI-XX) ALTRI VOLUMI PUBBLICATI Le Americhe annunciate. I viaggiatori liguri precolombiani, a cura di I. Luzzana Caraci Nicolas Bouvier, Il suono di una mano sola. Cronache giapponesi Giuseppe Caraci, Segni e colori degli spazi medievali, a cura di I. Luzzana Caraci Luigi Cavalli, Più neri di prima, a cura di F. Surdich Carmen Radulet, Vasco Da Gama e la prima circumnavigazione dell’Africa. 1497-1499 André Thevet, Le singolarità della Francia antartica, a cura di G. Bogliolo Correva l’anno 1958 quando Eugenio Turri intrapre- se il suo viaggio lungo la Via della Seta, poi forzata- mente concluso a Samarcanda, città-mito dell’anti- chità, da secoli riferimento affascinante dell’imma- ginario collettivo. Nel duro contrasto tra USA e URSS, che dominava la scena politica di quegli anni, si aprivano spazi in una sorta di pax interstiziale, basata su reciproche deter- renze, per cui si poteva accedere alla Turchia, all’Iran e all’Afghanistan senza troppa difficoltà. Dovunque si avvertiva, anzi, una curiosità quasi morbosa per il gio- vane occidentale che muoveva lungo una direttrice che sarebbe divenuta, dopo il ’68, una via di fuga dai malesseri dell’Occidente. Nel viaggio di Turri, percorso con lentezza, raccontato giorno dopo giorno, l’autore si imbatteva in società antiche, in mondi chiusi, arroc- cati nelle loro tradizioni asiatiche, fossero contadini o nomadi, pieni di orgoglio e di stravolgente bellezza. Il libro ha proprio negli incontri il suo interesse primo, ri- velandoci come l’anima profonda di questi popoli, col- ta allora, continui a condizionare la storia di oggi, non- ostante vicende drammatiche abbiano attraversato o attraversino i loro paesi. Eugenio Turri, esploratore e geografo, è autore di nu- merosi libri: da quelli che descrivono l’ambiente d’o- rigine, nelle valli veronesi, a quelli nati dalle esperien- ze fatte tra i popoli nomadi (tra cui Gli uomini delle ten- de, La via della seta, Il Sahel), sino a quelli dedicati allo studio del paesaggio (Antropologia del paesaggio, Se- miologia del paesaggio italiano, Il paesaggio come teatro) e ai territori urbanizzati e densificati, opposti a quelli dei nomadi (Dalla villa veneta al capannone in- dustriale, La Megalopoli padana). Ha insegnato alla facoltà di Architettura e Urbanistica del Politecnico di Milano, ed è stato consulente per la pianificazione paesistica della Regione Lombardia. 24,00 PASSAGES La carovana

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Un geografo in viaggio da Istanbul a Samarcanda, che porta come compagnia «Il Milione» di Marco Polo, racconta giorno per giorno, nello svolgersi di quattro mesi, il mondo d'Oriente, i suoi usi e costumi. Attraverso uno sguardo insieme poetico e fotografico – ricco della sensibilità culturale e antropologica, poetica, socialmente attenta che ha un vero esploratore – l'autore coglie particolari di vita di un'umanità in bilico fra le attività tradizionali e il mito dell'Occidente ricco e industrializzato.

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Eugenio Turri

VIAGGIO A SAMARCANDA

DIABASIS

Un esploratore di deserti e geografo racconta giorno pergiorno i quattro mesi di viaggio che nel 1958 lo portano daIstanbul a Samarcanda, attraverso un’umanità mai comeora in bilico.Un eccezionale, inedito taccuino fotografico accompagnala narrazione.

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PassagesdirezioneGiorgio Cusatelli, Massimo Quaini, Eugenio Turri conGiorgio Bertone, Elvio Guagnini, Francesco Surdich

Massimo Quaini, La mongolfiera di Humboldt

Paesaggio: pratiche, linguaggi, mondi,a cura di A. Turco

Vanni Blengino, Il vallo della Patagonia. I nuovi conquistatori: militari, scienziati, sacerdoti, scrittori

Amanda Salvioni, L’invenzione di un medioevo americano

DI PROSSIMA PUBBLICAZIONE

Jean-Jacques Rousseau, La scoperta del Nuovo Mondo,a cura di F. Surdich

Luisa Rossi, L’altra mappa. Esploratrici, viaggiatrici, geografe (secc. XVI-XX)

ALTRI VOLUMI PUBBLICATI

Le Americhe annunciate. I viaggiatori liguri precolombiani, a cura di I. Luzzana Caraci

Nicolas Bouvier, Il suono di una mano sola. Cronache giapponesi

Giuseppe Caraci, Segni e colori degli spazi medievali, a cura di I. Luzzana Caraci

Luigi Cavalli, Più neri di prima, a cura di F. Surdich

Carmen Radulet, Vasco Da Gama e la prima circumnavigazione dell’Africa. 1497-1499

André Thevet, Le singolarità della Francia antartica, a cura di G. Bogliolo

Correva l’anno 1958 quando Eugenio Turri intrapre-se il suo viaggio lungo la Via della Seta, poi forzata-mente concluso a Samarcanda, città-mito dell’anti-chità, da secoli riferimento affascinante dell’imma-ginario collettivo.Nel duro contrasto tra USA e URSS, che dominava lascena politica di quegli anni, si aprivano spazi in unasorta di pax interstiziale, basata su reciproche deter-renze, per cui si poteva accedere alla Turchia, all’Iran eall’Afghanistan senza troppa difficoltà. Dovunque siavvertiva, anzi, una curiosità quasi morbosa per il gio-vane occidentale che muoveva lungo una direttriceche sarebbe divenuta, dopo il ’68, una via di fuga daimalesseri dell’Occidente. Nel viaggio di Turri, percorsocon lentezza, raccontato giorno dopo giorno, l’autoresi imbatteva in società antiche, in mondi chiusi, arroc-cati nelle loro tradizioni asiatiche, fossero contadini onomadi, pieni di orgoglio e di stravolgente bellezza. Illibro ha proprio negli incontri il suo interesse primo, ri-velandoci come l’anima profonda di questi popoli, col-ta allora, continui a condizionare la storia di oggi, non-ostante vicende drammatiche abbiano attraversato oattraversino i loro paesi.

Eugenio Turri, esploratore e geografo, è autore di nu-merosi libri: da quelli che descrivono l’ambiente d’o-rigine, nelle valli veronesi, a quelli nati dalle esperien-ze fatte tra i popoli nomadi (tra cui Gli uomini delle ten-de, La via della seta, Il Sahel), sino a quelli dedicati allostudio del paesaggio (Antropologia del paesaggio, Se-miologia del paesaggio italiano, Il paesaggio cometeatro) e ai territori urbanizzati e densificati, opposti aquelli dei nomadi (Dalla villa veneta al capannone in-dustriale, La Megalopoli padana). Ha insegnato alla facoltà di Architettura e Urbanisticadel Politecnico di Milano, ed è stato consulente per lapianificazione paesistica della Regione Lombardia.

€ 24,00

PASSAGESL a c a r o v a n a

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L a c a r o v a n a

Sezione diretta da Giorgio Cusatelli,Giorgio Bertone, Elvio Guagnini

P a s s a g e s

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In copertinaVita domestica negli accampamenti dei nomadi

(fotografia di Eugenio Turri)

Tutta la documentazione fotografica all’interno del volume proviene dall’archivio di Eugenio Turri

Progetto grafico e copertinaStudio Bosio, Savigliano (CN)

ISBN 88 8103 164 7

© 2004 Edizioni Diabasisvia Emilia S. Stefano 54 I-42100 Reggio Emilia Italiatelefono 0039.0522.432727 fax 0039.0522.434047

e-mail [email protected]

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L’itinerario di Eugenio Turri nel suo viaggio, nel 1958, da Istanbul a Samarcanda.

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Prefazione

Gli odori di Istanbul

Lo stabilimento balneare

La yayla

Il villaggio

Gli uomini di Sungurlu

Il viaggio in città

Le notti di Diyarbakir

Le valli di Senofonte

Il lago Van

Il villaggio di Pelli

Un ricordo di Serse

I nomadi sul lago

Il monastero sommerso

La città morta di Dogubayazit

La fidanzata italiana

Avventura sull’Ararat

Esfahan come Firenze

I turcomanni

La corriera del Khorasan

La città santa

I villaggi fortificati

La grande strada dell’Asia

Il rettore della madrassah

Le mogli dell’agha

Sulle piste dei nomadi

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I nomadi cambiano vita

La grande migrazione

I falchi di Kabul

I Budda di Bamian

La vallata felice

Yak-kapetà, l’albero solitario

L’italiano tra i tartari

Sulle strade della Battriana

La valle morta

I nuovi paesaggi

La ragazza tartara

Le cupole di Tamerlano

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Prefazione

Il viaggio raccontato in questo libro risale al 19581. Cominciava allora in Ita-lia un periodo felice e costruttivo, nel quale l’ottimismo si associava alla con-vinzione che l’Italia e l’Occidente – l’Occidente ricco e capitalistico – rappre-sentassero il migliore dei mondi possibili, fungendo da riferimento al resto delmondo, sia ai paesi della sfera comunista (Secondo Mondo), sia al cosiddettoTerzo Mondo. Mezzo secolo è passato e quelle certezze non sembrano più tali,la tripartizione che allora valeva non sembra più adattarsi alla realtà presente.Ma in quegli anni essa condizionava il nostro pensare, il nostro modo di guar-dare e giudicare i paesi, gli uomini: di tutto ciò vi è pesantemente traccia nellepagine di questo libro.

Così un viaggio attraverso l’Asia, fino a sfiorare i paesi sovietizzati dell’Asiacentrale, con meta Samarcanda, la città simbolica dell’antichità, dell’esotica di-stanza di tale Asia, poteva essere, nel clima tedioso, ma ormai non più staliniano,della “guerra fredda”, un’esperienza importante. Anche se quella meta rappre-sentava per chi scrive soltanto una tappa sulla via della Seta, aspirazione primadi un progetto di viaggio che ha potuto realizzarsi soltanto vent’anni dopo, conl’addolcirsi del regime politico regnante in Cina, rimasta a lungo impenetrabilenelle sue periferie occidentali. Ma anche la visita ai paesi dell’Asia medio-orien-tale partendo dalla Turchia e giungendo, attraverso l’Iran e l’Afghanistan, al cuo-re del continente, itinerario classico di tanti viaggiatori occidentali in ogni tempo,poteva risultare interessante per mettere a confronto, in quegli anni, l’antichitàdell’Asia con la modernità in senso industriale di cui l’Occidente era portatore.Soprattutto poteva risultare importante capire come la modernità poteva inne-starsi su quell’antichità, su quei mondi logori e polverosi, che avevano avutosplendidi passati, ma ora inermi e impreparati a cogliere le novità del mondo che,in senso capitalistico da una parte, in senso socialista dall’altro, proponevano tec-niche e modi di vita diversi a genti rimaste avvinte all’Islam e alle loro più anticheradici culturali, agli strati più profondi delle loro variegate regionalità.

L’importanza che nel racconto è data al nomadismo pastorale e alla vita dei vil-laggi, quasi sempre villaggi d’oasi, solitari micromondi dove si coglieva l’essen-za vera dell’Asia interna, in anni in cui non era ancora esploso l’urbanesimo per-turbatore, ha avuto questo significato ed è in tal senso, mi pare, che il libro va let-

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to. Ma c’è anche, nelle pagine, l’attenzione a tutto ciò che di problematico potevaesserci nella modernizzazione in atto che, ovunque imposta dall’alto, non tro-vava facili riscontri in mondi così chiusi e lontani, avvolti in quella loro atmo-sfera di asiaticità – asiaticità come antichità, immutabilità, senso del tempo e del-lo spazio illimitati – che si poteva riconoscere già a partire dalla Turchia kemali-sta e occidentalizzante. Ovunque però si trovavano una simpatia e una curiositàquasi morbose per il viaggiatore che veniva dall’Occidente, quasi si vivesse unasorta di pax planetaria all’insegna di una riconciliazione religiosa (il nemico eracaso mai più che l’Occidente l’atea e incalzante potenza dell’URSS), benché poisimpatia e curiosità venissero spesso attenuate dal ricordo improvviso e fuor-viante di aver pur sempre a che fare con un “infedele”. Oggi non è certo più co-sì e dopo l’11 settembre del 2001 il viaggiatore occidentale sarebbe avvicinatocon sospetto, perché ora, dissoltasi l’URSS, l’unica opposizione con cui entrarein conflitto è quella dell’Occidente, ateo e materialista. Ma le situazioni variava-no notevolmente passando da un paese all’altro lungo quella “grande strada del-l’Asia” che entra fra i grandi domini dell’Islam.

Se la Turchia usciva definitivamente in quegli anni dal suo sonno rurale ot-tomano, in qualche misura laicizzata ed europeizzata sotto la dura non effime-ra sferzata impressa da Atatürk, in Iran lo scià Pahlevi stava promuovendo la“rivoluzione bianca” che, senza vittime, mirava a trasformare, sull’esempio del-la Turchia, il paese, arretrato e antico, in paese moderno e avanzato facendo le-va sulle ricchezze petrolifere. Cominciavano allora i primi esodi dai villaggi ver-so Teheran, una città che contava allora poco più di mezzo milione di abitanti;vent’anni dopo ne ospiterà 7-8 milioni. Questa epica migrazione, attratta dalmiraggio urbano e industriale proposto dallo scià, ha avuto gli esiti drammati-ci che si conoscono, con le masse di inurbati traumatizzati al trovarsi in un mon-do che non era il loro, privi di una cultura che non fosse quella appresa dal mul-lah del villaggio. Si comprende così perché, nello smarrimento, siano divenutifacili prede del fondamentalismo khomeinista, che li ha portati al martirio inuna guerra assurda contro l’Iraq, nella quale si sono immolati ben un milione digiovani. L’ulteriore radicarsi del sentimento religioso e il parallelo rifiuto del-l’Occidente hanno trovato in questi fatti non dimenticati le loro motivazioni,così sofferte a livello individuale come nel racconto di un dolente film del regi-sta iraniano Kiarostami2.

Diverso discorso, ma non tanto, per l’Afghanistan, paese rimasto incorrottonel suo isolamento asiatico, che mai aveva avuto diretti contatti con l’Occiden-te, del quale in quegli anni arrivava da lontano il fiato, con i primi tentativi di im-portare una cultura innovatrice sia attraverso la costruzione delle prime stradee delle prime industrie, sia con la rimozione, difficile, sempre frustrata in passa-to, dei costumi e delle tradizioni, ad opera di uomini che avevano guardato, co-me Amanullah, all’esempio kemalista. Ad esso si agganciava la politica di cauteaperture e di equidistanza nei confronti delle due superpotenze dello scià

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Mohammad Zahir, poi finito in esilio in Italia. Ciò a seguito del colpo di statoche ha segnato l’imporsi del predominio sovietico e dell’invasione che porterà al-la guerra di liberazione vinta dai talebani con il sostegno degli americani.

Paese di nomadi, di coltivatori che avevano assimilato l’arte persiana dell’a-gricoltura irrigua, nei pedemonti e nelle valli dell’Hindukush, non aveva nessuncollante storico che lo univa, geograficamente diviso, tribalmente frammenta-to, riconoscendosi solo nella fede nell’Islam (in maggioranza sunnita). Da unaparte, a sud della catena che lo spacca in due, le popolazioni di cultura persiana,gli uomini di lingua pashtu, dalle quali era partito un disegno di unificazione po-litica già a partire dalla fine del Settecento e che ancor oggi si ritengono gli uni-ci legittimi afghani, a nord le genti turche, legate a quella direttrice turanica cheattraversa l’Asia e che ancor oggi rappresenta la più importante saldatura geo-grafico-culturale attraverso un continente, dalla Turchia al Turchestan cinese,la quale forse potrà dare una direzione futura alla storia dell’Asia.

L’Afghanistan, nonostante le turbolenti vicende dell’ultimo mezzo secolo,non è riuscito a trovare una sua propria direzione di marcia, che non sia anco-ra e sempre quella di restare fedele al proprio immobilismo. Come per una co-stituzionale incapacità ad uscire fuori dal proprio isolamento centripeto, men-tre tutt’intorno il mondo in qualche modo ha ruotato, si è mosso, sia pure in di-verse direzioni. La vicenda dei talebani può essere vista in tanti modi, ma nelquadro dell’Asia rappresenta pur sempre un ritorno indietro, o comunque unavicenda di disperazione storica di fronte agli sconvolgimenti, che nel caso del-l’Afghanistan non sono stati l’urbanizzazione o il fallimento di una politica dimodernizzazione come in Iran, ma il trauma dell’invasione sovietica, contro laquale solo l’accecamento ideologico e religioso poteva servire di fronte a que-st’altra perversione storica del Novecento. Negli anni Cinquanta e Sessanta eraun paese pacifico, capace di affascinare chi dappertutto in Europa vedeva lamontante industrializzazione cambiare società e territori: certe immagini ri-mandavano ad un mondo di secoli se non di millenni fa, gli uomini autentici,barbuti, bellissimi, sullo sfondo di vallate sfolgoranti nelle oasi inondate daiprofumi degli orti e dei giardini. Mentre negli spazi inariditi si muovevano ca-rovane sorprendenti di nomadi in epiche migrazioni stagionali, dando vita aspettacoli di una non dimenticabile bellezza, che forse neanche il mitizzato Bru-ce Chatwin fece in tempo a vedere. Nei centri urbani le donne, velate nella lo-ro veste-prigione era come se non esistessero; neppure si immaginavano, e sequalcuna di esse audacemente tentava di togliersi il burka rivelava un palloremortuario, come se fosse uscita da una secolare degenza o da una reclusionefuori dal consorzio civile.

Al di là dell’Amu Darya si entrava in un mondo che aveva eguali tratti di asia-ticità, sulla quale era stata imposta una sorta di verniciatura di modernità che,nella sua versione russo-sovietica, non sembrava far presa in modi radicali3. Si av-vertiva la doppia presenza: da una parte il mondo tradizionale, l’uomo passivo,

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amante delle ombre, del bazar, l’uomo dei grandi spazi, dall’altra l’organizza-zione sovietica, efficientistica in apparenza, in realtà burocratica, vigile, rigoro-sa, odiosa e di marcata supponenza colonizzatrice. L’opera di trasformazionetuttavia era andata avanti, sia con lo sviluppo di un urbanesimo di stampo nuo-vo, un po’ grigio, che con la ripulitura dei vecchi bazar e di tutto ciò che di fati-scente doveva esserci in quei paesi, che formavano il Sud tropicale dell’URSS,spazio prezioso per l’impianto di attività nuove e impossibili da praticare altri-menti nei climi russi e siberiani.

Oggi non è detto che quei paesi, conquistata l’indipendenza, abbiano saputorifiutare quella presenza russa, affrancarsi dal legame che li ha cambiati. Il mar-chio della modernizzazione è quello, incancellabile per le estese riconversioniche ha attuato, soprattutto nei modi di produzione, anche se non ha intaccatopiù di tanto gli uomini, i loro animi. È vero, non ha attecchito il fondamentali-smo, ma non è stata messa a tacere la voce che sale dagli strati più profondi del-l’anima centrasiatica, dove l’Islam si salda alle rivendicazioni etniche, rinfocola-te oggi, più di quanto non si creda, dall’ideale turanico, a suo tempo capace del-le grandi vicende di quest’Asia interna, spazio senza confini, o anche spazi, comediceva Rainer Maria Rilke, che confinano con Dio, cioè popolati di uomini cheattingono ad un’unica fede possibile, solo e sempre più quella religiosa, privadel greve materialismo laico e consumistico che inquina le città dell’Occidente.Tutto ciò anche se questi stessi popoli non rinunciano facilmente ai vantaggi chela tecnica occidentale può mettere al loro servizio, consentendo anche maggiortempo da dedicare ad agi, ozi e prosternanti rakaat verso Dio.

Certo Samarcanda oggi non è più quella di mezzo secolo fa. È turisticizzata,in larga parte ripulita dei suoi olezzi e delle sue polverose mondezze asiatiche, èassediata di grandi edifici, dispone di squallidi alberghi, al posto dei quieti ostel-li per la borghesia zarista rimasti sino a cinquant’anni fa ed ha perduto il saporedi un tempo. La stessa maniera di arrivarci oggi è fuorviante. Vi si arriva da Mo-sca. Ma la direzione giusta è quella di venirci da sud, dall’Iran o dall’Afghani-stan, attraverso Herat o Kabul, dopo aver capito che cosa è stata l’antica civiltàpersiana che ha acculturato in origine queste regioni, quale spirito e quali raffi-natezze si coltivavano all’ombra delle moschee di Esfahan o di Herat, nei giardinie nei raccolti silenzi delle madrasse, le scuole coraniche. Samarcanda, comeBukhara, Merv, Khiva, Kokand e le altre città del Turchestan come l’intero mon-do che gravita su questi cuori urbani sono il riflesso della civiltà persiana, ri-specchiano ancor oggi, sotto la vernice russa, staliniana e dell’affarismo liberi-stico e mafioso d’oggi, la bellezza, sia pure un po’ esausta, sfibrata, di quell’an-tico mondo. In più hanno il fascino di essere perdute, come affogate dentro igrandi spazi dell’Asia interna, steppica e pastorale, dove tutto sembra disfarsi alsole e al vento, dove l’aria è sempre carica di polvere che il vento solleva e tienesospesa nell’aria come una componente inscindibile del paesaggio, come un’o-palescenza misteriosa. E dentro quest’atmosfera di polvere, che di sera si arros-

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sa nei tramonti infuocati, scintillano come carapaci iridescenti di coleotteri inputrefazione le cupole delle moschee e dei monumenti in rovina, che danno unfascino unico alle città che si raccolgono nelle fasce verdi dei fiumi centrasiatici.

Questo per quanto riguarda il passato, le sue testimonianze, l’attrattiva di unmondo che non è facile da seppellire perché ciò che si è detto – la polvere, la va-stità, le moschee – è costituzionale e incancellabile Genius di queste terre. E seb-bene la capitale non sia più Samarcanda, ma qualche città più nuova e dinami-ca, come Tashkent, è vero purtuttavia che il mito che continua a risuonare sottoi grandi cieli dell’Asia è ancora e sempre quello dell’antica città.

L’attivismo economico sembra improntare oggi la vita e la cultura di questaparte di mondo. Per limitarsi all’Uzbekistan, è esemplare il ruolo che la repub-blica ha assunto in quanto produttrice di cotone, la risorsa che i russi già a par-tire dagli anni Trenta del secolo scorso avevano intravisto come possibile solu-zione ai problemi della modernizzazione di questa regione, del suo inserimentonella modernità sovietica. Opere gigantesche di irrigazione, apertura di vasticomprensori cotoniferi hanno redento regioni steppiche intere (si ricordi la fa-migerata Steppa della Fame) un tempo dominio della pastorizia nomade. I suc-cessi sono stati clamorosi e a suo tempo erano stati riconosciuti persin dai tecni-ci americani. Ma essi, come i russi, guardavano al successo economico e anient’altro, non agli uomini, alle loro culture, alla loro storia, dimenticando tral’altro gli effetti perversi delle loro intraprese sull’ambiente. Oggi l’Uzbekistan,ad esempio, è lo scenario di un dramma ecologico che dovrebbe suonare da le-zione ai pianificatori d’ogni parte del mondo, spesso troppo sicuri dei loro pro-getti. Le acque che scendono dalle montagne alimentando l’Amu Darya e il SyrDarya, i due fiumi che sono alla base della ricchezza uzbeka, si disperdono neicomprensori cotoniferi e non giungono più al lago d’Aral, che via via si è ridot-to di dimensione, se non è proprio scomparso, lasciando le popolazioni riviera-sche in un imprevedibile deserto di disperazione. Di questo dramma i respon-sabili uzbeki del governo non vogliono sentir parlare, perché ormai ciò che con-ta è il cotone e le conquiste fatte sotto il regime sovietico sono irreversibili, sonola modernità, la ricchezza che oggi conta. Ma il mondo, anche qui, è in mano al-l’unico potere che conta ormai, quello economico.

Ma poi l’Asia centrale ha il petrolio e il gas e proprio lo sfruttamento deglienormi giacimenti è alla base dell’attenzione competitrice delle grandi societàoccidentali a questa parte dell’Asia, delle contese o della guerra degli oleodottie dei gasdotti, che non è stata estranea all’interessamento degli americani al-l’Afghanistan, il cui controllo è anche strategico per contrapporsi ad altri espan-sionismi, da quello cinese a quello turanico4. Di questo genere sono ora i dram-mi dell’Asia centrale, divenuta uno scacchiere importante nel quadro della com-petizione globale per l’approvvigionamento delle ultime grandi risorsepetrolifere del pianeta: cioè drammi generati da guerre economiche che questaparte dell’Asia ha pagato negli ultimi anni non solo con le vittime della guerra af-

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ghana, ma forse ancor più con gli sconvolgimenti sociali e i traumi personali e fa-miliari di cui hanno sofferto un po’ tutti i paesi, dove il potere staliniano è statorimpiazzato da poteri nuovi, di dubbia moralità e di portata globale, che tengo-no lontana per ora ogni ventata fondamentalista islamica.

In mezzo secolo, quest’intera Asia descritta nel libro è cambiata, anche nei vil-laggi più isolati, che allora si sarebbero detti inattingibili da qualsiasi mutamen-to. E invece anche nei più isolati villaggi anatolici, come ad Alaca Höyük, la mo-dernizzazione è arrivata, con la gente emigrata in Germania e con i rapporti sem-pre più stretti tra il villaggio e Ankara, tra il villaggio e le città tedesche dove sitrovano molti uomini con i loro figli, un tempo poveri köylüler. In Iran i villaggifortificati sono ormai quasi tutti svuotati, benché circondati da tensioni fonda-mentaliste un poco stemperate solo dalla voglia di modernità di tanti giovani; inAfghanistan il nomadismo nelle sue forme imponenti e sontuose, descritte nellepagine del libro, è finito tra i bombardamenti e i massacri delle mine antiuomo.L’Asia, dunque, è stata sepolta nel giro di cinquant’anni? No certamente; non so-lo si può dire che essa è mutata solo in parte e in superficie, ma nel suo profondoessa cova qualcosa d’altro di non deperibile, qualcosa che può condizionare glistessi sviluppi futuri dell’Asia, e fors’anche qualcosa che potrebbe offrirsi comelezione a noi stessi, ansanti nella corsa irrefrenabile verso una meta che è più di di-sperazione che di possibile rinascita: un diverso senso del tempo e dello spazio,che si coglie soprattutto se quest’Asia la si vive percorrendola a piccole tappe,con sofferenza e partecipazione, come è raccontato in queste pagine.

Note

1. Il libro, pubblicato nella collana “Il Timone” diretta da Enrico Emanuelli per conto della DeAgostini nel 1962, è nato da una serie di articoli pubblicati sulle pagine del «Mondo», il set-timanale diretto da Mario Pannunzio. Una serie di viaggi compiuti negli anni successivi miha poi consentito di approfondire meglio la conoscenza di questi stessi paesi, su cui ho pub-blicato diversi saggi e articoli. Infine nel 1982 ho potuto raccontare l’intero percorso dellavia della Seta nel volume AA.VV., La via della Seta, a cura di E. Turri, De Agostini, Novara1983.

2. A. Kiarostami, Ta’m e guilas (Il sapore della ciliegia), Teheran 1997.3. Sul confronto tra paesi socialisti e Iran e Afghanistan: E. Turri, Al di qua e al di là del fiu-

me, Edizioni di Comunità, Milano 1974.4. F. Scaglione, La corsa all’oro delle steppe, in AA.VV., No global. Gli inganni della globaliz-

zazione sulla povertà, sull’ambiente e sul debito, Zelig, Milano 2001; A. Raschid, Nel cuoredell’Islam. Geopolitica e movimenti estremisti in Asia centrale, Feltrinelli, Milano 2002;Id., Talebani, Islam, petrolio e il Grande scontro in Asia centrale, Feltrinelli, Milano 2002.

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Gli odori di Istanbul

Per iniziare il mio viaggio, che compio da solo, sono arrivato con la nave aIstanbul. In questi giorni, ai primi di luglio, c’è molto caldo e la grande metropolimi appare più soffocante e implacabile di altre volte. C’è anche qui, ma in formepiù rozze e peggiori, quell’ansia degli uomini d’oggi di inseguire il tempo, il da-naro; un’ansia produttiva come nelle città europee.

Nel suo insieme oggi Istanbul non ha più nulla, o ben poco, di orientale o dilevantino; è una città mossa sempre più da forze burocratiche e di lavoro e sem-pre meno da quell’individualistico interesse, tra ozioso ed equivoco, che è pro-prio del mondo levantino, dell’ambiente cittadino musulmano. Di mattina, lun-go i marciapiedi all’ombra dei palazzi, si muovono uomini che vanno nelle ban-che, negli uffici, nei negozi; nel porto il traffico è intenso e simile a quello di unqualsiasi altro porto moderno. Si respira, in quest’ora, l’atmosfera della grandecittà con il suo movimento determinato dagli affari, con l’impressione di un la-voro febbrile e senza distrazioni. Tra gli odori inconfondibili della vecchia cittàmusulmana sembra di poter cogliere oggi un odore nuovo, un miscuglio di offi-cina, di limatura di ferro, di inchiostro, di macchine da scrivere.

Mi dirigo verso le sordide sokaklar di Galata e qui mi accorgo però che la vec-chia Istanbul portuale e genovese non è ancora del tutto morta. Un giovanettospinge in giù nella stretta viuzza in pendenza un rozzo carrettino sul quale stan-no aggrappati due ragazzi che ridono e strillano. E trovo i tipici rappresentantidell’antica Istanbul levantina: i rivenduglioli, le figure imprecisabili, i vecchi se-duti e quasi incollati sui marciapiedi, i lustrascarpe.

Verso le undici raggiungo, attraverso il ponte di Galata animatissimo e pie-no di venditori di pesce, la vecchia Stambul con le sue moschee. Passo attra-verso il quartiere, dalle strette viuzze, oltre l’Università e la moschea di Soli-mano. Ci sono ancora, anche se sempre più rade, le vecchie case di legno, con igerani alle finestre. E nei cortili delle moschee vedo uomini che riposano al-l’ombra invitante delle tettoie di piombo. Altri che all’interno pregano con de-voto fervore. Qui è bello restare senza far nulla per delle ore intere in dolce ab-bandono, sentire sotto i piedi il soffice e fresco solletico dei tappeti, godere lapenombra policroma delle grandi volte che imitano la curvatura del cielo. Quisi comincia anche ad amare l’Oriente, ad amarne l’odore umano, la pigrizia, la

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noia, il caldo, la sublime indifferenza agli eventi diurni.Nelle moschee scorgo molti soldati che pregano, poveri e brutti giovanotti

con la divisa stinta e sudicia. Sono sicuramente i figli dei vecchi contadini del-l’Anatolia, i figli dei vecchi musulmani della Turchia immutabile: fervidi, umilie commossi di fronte alle moschee di una Stambul ancora favolosamente egua-le, per essi, a quella dei loro padri, che ne parlano come di una città unica al mon-do, gloria di Allah, dolce meta dei pellegrini, Dar-e-Saadet, paese della felicità.

Poco dopo mezzogiorno, col sole ancor più feroce e l’aria afosa, pesante, ri-torno a Galata e, nei pressi della piazza di Taksim, vado in cerca di un ristoran-te. Entro in un locale nuovo e pieno di gente. L’arredamento del ristorante imi-ta nella maniera più pedissequa e ridicola gli snack-bar di moda in Europa, im-portati col gusto americano e ispirati alle birrerie tedesche. Provo fastidio einsieme un sentimento di pena per i turchi. Penso che anch’essi, come tanti altripopoli, non riescono a prendere coscienza di sé, del proprio gusto, del propriofolclore; oppure non ci credono, ne hanno quasi vergogna, e così il mondo per-de il suo sapore e tra non molti anni i viaggi negli altri paesi non riserverannopiù sorprese.

Nel locale la gente è tutta di un certo rango: funzionari di banca, ufficiali del-l’esercito, impiegati. Tutti hanno l’aria compiaciuta, propria delle persone chehanno coscienza di trovarsi in un luogo snob e distinto. Sui loro tavoli scorgopiatti senza sorpresa, prodotti neutri di un gusto livellato e ormai universale. An-che questo mi fa dispiacere, tanto più conoscendo la cucina turca, così tipica,così originale e ricca di buone cose.

Nel locale non trovo quello che voglio, quel sis börek di cui per qualche an-no in Italia ho sentito la voglia dopo che l’avevo mangiato un giorno in una lu-rida affumicata lokanta di Adapazari. Trovo però dolmas, melanzane ripiene ekebab, arrosto.

Quando esco e passo davanti ai più modesti locali scorgo impiegati e lavora-tori che mangiano con l’avidità propria dei turchi i piatti più genuini, le magremascelle gonfie di grossi e mobili bocconi. Ciò significa che l’imitazione dei gu-sti occidentali è per ora limitata a particolari ambienti della grande città, men-tre la grande massa dei turchi è ancora profondamente attaccata alle anticheabitudini, vivendo in un proprio mondo fatto di povertà, di facili appagamen-ti e finora privo di risentimenti di classe. Poi ancora vedo uomini vestiti con tra-scuratezza, col rozzo kasket in testa, le scarpe polverose, e penso che Istanbulè mutata solo in parte.

L’uomo turco è sempre quello, con i suoi baffi neri, le unghie sporche, i den-ti bianchi, i suoi entusiasmi, i suoi abbandoni, la sua inguaribile magrezza, la suafame insaziabile; e Istanbul è, oltre che città moderna, ricca di umori europei,un palpitante proseguimento dell’Anatolia. Forse una gran parte di quegli uo-mini che vedo è gente venuta da pochi anni dai villaggi dell’altipiano, i nuovi ur-banizzati che vivono nelle baracche e nei tristi falansteri della periferia.

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Lo stabilimento balneare

Ho dormito in un alberghetto di Scutari e, il mattino, ho cercato un mezzo difortuna per arrivare ad Ankara. Ho atteso molto e poi un camionista mi ha ospi-tato nella sua cabina. Mi ha chiesto di dove sono, dove vado. Poco fuori dal cen-tro della città, prima per una ragione e poi per un’altra, il camion si è fermatovarie volte; solo verso le dieci si è definitivamente avviato, correndo disinvolta-mente sulla nuova strada che da Istanbul porta alla capitale.

È questa una delle poche opere pubbliche di grande importanza portate a ter-mine in Turchia in questi anni. Per farla ci sono voluti i dollari americani, comeper tutto ciò che, più o meno bene e giudiziosamente, si fa in questo paese. Sul-la strada vedo che passano soprattutto camion; poche invece le automobili. Que-ste sono quasi tutte di tipo americano, grosse e luccicanti, macchine che stona-no sullo sfondo di un paese così povero. Ma si tratta probabilmente di vetture ap-partenenti a ministri e a funzionari governativi oppure a qualcuno dei pochiindustriali turchi. La strada nuova è insomma ancora una strada di lavoro, per ca-mion o gente che ha i suoi affari, non una strada per viaggi turistici, per tran-quille escursioni di famigliole borghesi.

Il camionista, un giovanotto con grossi baffi a punta e nera capigliatura, michiede se in Italia ci sono strade belle come questa. Rispondo che ci sono, ma luiè orgoglioso lo stesso e dice che negli anni prossimi in Turchia si faranno stradeanche più belle.

La strada, fino a una ventina di chilometri dopo Scutari, è veramente ottimae segue un percorso veloce. Però appena si giunge alle porte di Izmit, forse ilmaggior centro industriale della Turchia, bisogna rallentare e andar cauti. Ci so-no buche, asfalto che va in pezzi, argini che franano. Il mio camionista non par-la, finge di non accorgersi. Io penso frattanto che per i turchi è più naturale que-sta strada che l’altra. Penso questo perché non si riesce ad immaginare i turchi inun paesaggio perfetto e finito, in un moderno paesaggio industriale. Sono rozzi,non hanno il senso del “finito”, non conoscono l’ordine; e poi sono pieni di vi-talità e rompono subito tutto, le strade, i camion, le radio, i vestiti e il resto.

Dopo Izmit si corre lungo il mare in un paesaggio quieto e suggestivo, col mareazzurro che si addentra in una lunga e profonda insenatura. La strada tocca riveboscose, piccole e calme baie. Sono luoghi che invitano a sostare e a fare un bagno.

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Poiché nella cabina del camion c’è molto caldo e si sta a disagio, appena giun-ti in un luogo adatto prego il mio ospite di fermarsi e lasciarmi giù. Lui si mera-viglia di questa decisione e capisco che gli dispiace. Dico: «troppo caldo, ho vo-glia di buttarmi nell’acqua». «Taman, va bene», risponde arrestando la macchi-na. Si scusa di non potermi attendere, deve arrivare ad Ankara la sera stessa.

Poco lontano dal punto di fermata c’è una stradina laterale che porta a unaspiaggetta solitaria e discreta: c’è anche un cartello con una rozza scritta attaccatoa un albero: çok güzel plaj, turistik yer, bellissima spiaggia, località turistica. Ca-rico i miei bagagli sulle spalle e raggiungo la spiaggia, sul bordo della quale c’è ungrande albero ombroso. È un posto ideale per bagnarsi e fare una rapida cola-zione. Mi accorgo che sul tronco dell’albero c’è appeso un altro cartello con lascritta Sirri Yali çay evi, casa da tè di Sirri Yali, e una freccia che indica la direzioneda prendere.

Mi spoglio e già mi godo la beata solitudine del luogo quando, trafelato, arri-va un uomo. Mi invita ad andare duecento metri più avanti: là c’è la çay evi, ci so-no gli spogliatoi e c’è anche la lokanta se voglio mangiare; se poi voglio fare ilbagno là in quel posto la spiaggia e il mare sono anche più belli. Poiché insiste,decido di andare. Subito l’uomo mi aiuta a portare i bagagli.

C’è una casetta e una rozza tettoia di legno con alcune panche messe insiemein qualche modo con assi e chiodi. Sono gli stabilimenti balneari di Sirri Yali. Misiedo all’ombra della tettoia e vedo che l’uomo sorride soddisfatto. Mi chiedese si sta bene lì sotto. Poi, con l’aria di chi si sente impegnato in lavori impor-tanti, mi domanda se voglio il tè. Aggiunge che lì posso fare il bagno quando e co-me mi pare, che la spiaggia è bellissima (e serra insistentemente le dita all’insù,secondo la maniera turca di esprimere una cosa perfetta) e ripete più volte chenon c’è in tutta la Turchia una spiaggia migliore della sua.

Mi accorgo che insieme con lui nella piccola casa vivono la moglie e un fi-glioletto. La donna porta il velo che le nasconde in parte la faccia. Quando or-dino il tè, subito Sirri Yali mi chiede se deve prepararmi anche da mangiare: di-spone di pane, uova e pomodori. Gli faccio capire che preferirei qualcosa di me-glio, kebab per esempio, e frutta, pesche o albicocche. Con aria desolata rispondeche non ha carne e neanche frutta: dovevano portargliele, ma non è arrivato nien-te. È afflitto, si capisce: lui vuole accontentare i clienti, vuole “lanciare” la suaspiaggia, il suo piccolo stabilimento balneare. Forse qualcuno gli ha detto checon la nuova strada, la sua casetta e la sua piccola proprietà sul mare possonodargli lavoro, dargli vita e magari ricchezza. Stanno arrivando anche in Turchiaanni migliori: strade, automobili, turisti. Basta che lui ci sappia un po’ fare, chesappia attirare i turisti con un trattamento gentile e farsi un po’ di pubblicità.

Intanto il tè tarda ad arrivare, qualcosa non funziona, forse il fornello. L’uo-mo mi vede un po’ spazientito e allora mi sorride: «viene subito», dice. Poi en-tra in casa e vedo che dà uno schiaffo alla moglie, troppo lenta nel preparare labevanda. Ma subito dopo esce trionfante e felice con il bicchierino di çay. Lo

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bevo e subito faccio il bagno.Quando esco dall’acqua ho fame. Chiedo all’uomo che mi porti quello che

ha: pane, pomodori e due uova. Pronto e felice si dà subito da fare, impartisce or-dini alla moglie e al figliolo. Mi apparecchia la tavola. Mi porta il pane; ma è du-ro, di due giorni. Glielo faccio notare e allora mi dice che, se posso aspettare,manderà la moglie a prenderlo al villaggio vicino. Già vedo la donna che parte dicorsa. Ma faccio in tempo a fermarla.

Sento intanto che nella casa l’uomo sgrida di nuovo la moglie e dall’uscio ve-do che le dà uno spintone violento. Ma poco dopo esce con il pranzo tutto pron-to. Sorride e con molta attenzione mi porge i piatti. Poi corre in casa a prendereil sale. Chiedo un coltello e, sempre di corsa, ritorna dentro a prenderlo. Poi simette seduto in disparte, tutto rispettoso, in silenzio, e ogni tanto guarda versodi me per accertarsi che io non abbia bisogno di altro.

Finita la colazione gli chiedo un altro bicchierino di tè. Scatta subito, conten-to di aver lavoro, di avere clienti. Fa tutto con entusiasmo e ansia insieme, ed haattenzioni anche troppo squisite per un uomo rozzo qual è. È felice, si capisce,sente che può sperare dal momento che un turista straniero si è fermato alla suaspiaggia. E non si rende conto, lui povero köylü, contadino sino a ieri e abituatoa pane e pomodori, non si rende conto che le esigenze di un turista moderno so-no ben diverse da quelle che lui con tanta semplicità cerca di soddisfare; anzi, sivede che è convinto di aver accontentato nel migliore dei modi il suo cliente.

Intanto spera, dopo la sosta di uno yabanci, di uno straniero, nel futuro e in unbenessere che verrà di sicuro grazie a quel campicello, alla piccola spiaggia tramare e strada nazionale. Una piccola proprietà che due anni fa non valeva nullae che adesso può apparirgli come una ricchezza. Alla fine mi porta il conto: 150kurus, poco più di cento lire italiane.

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Avventura sull’Ararat

Stanotte mi sono destato. Erano le due. Ho visto il cielo bellissimo e mi sonosubito deciso: partirò per l’Ararat da solo. In breve preparo i miei bagagli, la ten-da, lo zaino, la piccozza, i ramponi, maglie, scarponi e in più biscotti, scatole dicarne, marmellata, cioccolata e pane. Lascio la lokanta dopo aver messo un bi-glietto sul letto della mia camera con la data del mio ritorno.

Attraverso la piana di Dogubayazit e comincio a salire su per le prime pendi-ci della montagna. Seguo un tratturo che passa tra enormi macigni di basalto.Nella semioscurità hanno profili strani, di bestioni, di mostri, di uomini, di vec-chie chiese diroccate. Ad un ruscello mi fermo a bere e a rinfrescarmi il viso. Èacqua che scende dai ghiacciai del monte, limpida e buona. Da questo punto lasalita si fa più faticosa e il sentiero, sassoso e quasi privo di tracce, è spesso ostrui-to da grandi roccioni che bisogna aggirare. A un certo punto vedo due tombecon le lapidi formate da due blocchi di lava.

Quando ormai è giorno e guardo in alto mi spaventa la salita ancora da com-piere su per immensi ghiaioni gialloscuri di lave. La solitudine mette disagio; ilsilenzio è fondo e quasi mi aspetto di udire parole e suoni dai macigni con i pro-fili umani. Non ci sono mosche, insetti. Sarò a circa 3000 metri. Mi fermo a ri-posare e a fare una rapida colazione. Si vede di qui tutta la piana di Dogubaya-zit, le guglie rocciose che coronano la città morta, i monti lontani.

Poi riprendo e nelle prime ore del pomeriggio sento dei belati. Devo tro-varmi a poca distanza da uno di quegli accampamenti dei nomadi di cui mihanno parlato gli uomini di Dogubayazit. Sento anche delle voci. Quella gen-te deve avermi scorto. Poco dopo un uomo mi viene incontro. È meraviglia-tissimo. Però mi dice che pochi anni fa sono passati di lì dei francesi che han-no scalato la montagna e sono arrivati fin sulla cima. Deve trattarsi di una del-le tante spedizioni che sono venute quassù a cercare i resti dell’arca. Unpretesto come un altro per fare dell’alpinismo, perché la speranza di trovareuna vecchia barca tra queste rocce fa ridere soltanto a pensarci. Nessun dilu-vio può mai essere giunto al punto da sommergere il mondo fino a questa al-tezza; ciò potrebbe caso mai essere accaduto in epoche lontanissime, quandoeffettivamente le terre non erano ancora emerse al di sopra del caos oceanico:ma l’Ararat non era ancora stato concepito dal Creatore. È una montagna gio-

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vane e, così alta e agile, comincia solo adesso a vivere la sua prima decadenza.L’uomo mi invita a salire all’accampamento. Grossi cani abbaiano rabbiosi e

cercano di avventarsi contro di me. L’uomo li mette a tacere e allora essi si ac-cucciano ringhiando sull’erba. Sono più grossi e forti dei lupi.

Su un breve ripiano ci sono le tende, in numero di tre. Due uomini e alcunedonne si sono alzati per vedermi. Le donne sono vestite bene e portano attacca-ti ricchi pendagli di zecchini d’oro e argento sulla fronte. Per vivere qui sulla mon-tagna, a questa altezza, in questa solitudine, devono essere donne forti e sentosubito di ammirarle anche se loro si nascondono al mio sguardo e non mi saluta-no. Gli uomini, uno dei quali è vecchio, mi invitano a sedere su un tappeto. Mipreparano il tè. Quando dico che ho intenzione di arrivare sulla cima dove ci so-no i ghiacciai mi sconsigliano; e caso mai devo passare da un’altra parte, aggira-re la montagna, arrivare a un altro accampamento e salire di là, sul fianco setten-trionale, dove la pendenza è minore e non ci sono ghiacci e seracchi da superare.

Il tempo si fa minaccioso. Nuvole fredde e umide avvolgono rapidamentel’accampamento e devo subito coprirmi per bene. Chiedo a quella gente se pos-so piantare la mia tenda lì vicino. Acconsentono e anzi mi aiutano a fissare i pa-letti, e ridono divertiti vedendo nascere a poco a poco la mia piccola tenda bian-ca. Le loro sono grandi e nere, di lana spessa. Mi danno una coperta per la not-te, fatta di pelo di pecora.

Intorno alle tende ci sono pecore, mucche, cavalli. Le donne sono intente a ri-pulire delle pentole con l’acqua di un rivo che passa vicino. Lavorano con ener-gia, vigorosamente, insensibili al freddo. Ogni tanto ridono e probabilmentefanno commenti su di me. Gli uomini mungono le mucche e ripongono il latte ingrandi pentole di rame. Anch’essi non sembrano sentire il freddo. Sono perfet-tamente ambientati all’altitudine, si muovono con disinvoltura. Io sento un fred-do terribile. Forse sto male, lunghi brividi mi corrono giù per la schiena.

All’ora del tramonto però le nebbie si diradano e io mi sento un po’ meglio,anche se ho un po’ di capogiro. Mangio un po’ di carne, apro una scatola di mar-mellata e ne offro agli uomini e alle donne. Queste però non vogliono assaggiar-la, scappano via. Solo una si fa ardita e vi affonda un dito dentro. La trova buo-na e allora lancia un richiamo alle altre che ridendo si decidono a mangiarne unpiccolo boccone.

Verso sera gli uomini si ritirano nelle tende. Mi ospitano dentro, al lume digrosse lanterne a petrolio. Mi spiegano che loro abitano in uno dei villaggi che sitrovano ai piedi della montagna, verso sud, in margine alla piana di Dogubaya-zit: il villaggio che si vede dall’accampamento presso il fiume, giù basso e lonta-no, e che essi chiamano Kanekurt.

Sono curdi, come dice il nome del loro villaggio. Vengono su ai primi di luglioe ci restano fino ai primi di ottobre. Lo fanno per il bestiame, che ha bisogno di fre-sco e di pastura, specie le mucche. Mi dicono che fino a metà agosto il tempo èbrutto sulla montagna, ma poi diventa bello e specialmente in settembre non ci

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sono mai nuvole e non cade mai la neve. Adesso invece nevica quasi ogni settima-na: ne vengono pochi centimetri che spariscono subito, però le notti sono fredde.

Mi offrono un po’ della loro roba, ma non ho voglia di mangiare. Sento ancorai brividi. Mi faccio dare del tè. Poi mi ritiro subito nella mia tenda perché proprionon mi sento bene.

Passo una notte terribile. Sento la febbre altissima e poi mi viene la diarrea.Devo uscire più volte dalla mia tenda nel freddo della notte. Sento il vento chefischia, i cani che ringhiano, lontani guaiti di sciacalli, latrati di lupi. In qualchemodo arrivo all’alba. Fa ancora più freddo e uscendo vedo alla prima luce cheuomini e donne sono già in piedi. Chiedo un tè caldo e poi delle coperte, e fac-cio capire loro che sto male. Mi dicono di stare dentro la tenda al caldo. Tra-scorro così tutta la giornata, dormendo quasi con continuità.

Nel pomeriggio sono destato dai tuoni e dai fischi del vento; è un temporale.Cade qualche goccia sulla tenda e allora mi alzo e metto la testa fuori. C’è quasibuio e fitte nebbie avvolgono l’accampamento. Scorgo gli uomini e le donne se-duti nelle loro tende che ridono e fumano. Loro stanno bene e quasi li invidionella loro impassibilità. I boati rintronano a lungo sulle pendici della montagna,sembrano eruzioni del vulcano che si ridesta, accompagnate dal rotolare di apo-calittiche valanghe giù per i pendii neri e profondi. Poi le gocce cessano e il cie-lo si rischiara, me ne accorgo dalla luce che filtra dalla tenda.

Mi sento meglio e mi alzo. Gli uomini mi accolgono sorridendo, mi prepara-no subito un tè caldo. Così attendo la sera con loro. Più tardi il cielo si pulisce egli orizzonti si spalancano, si tornano a vedere i monti lontani, le piccole case diDogubayazit, le aride pianure in basso avvolte di calura e di polvere. L’aria è fre-sca e si sta bene. Avviso gli uomini che l’indomani mattina partirò presto per ten-tare la scalata. Mi offrono del kebab cotto da poco, un bel blocco di carne chemangio con avidità. Poi, prestissimo, mi rimetto a dormire.

Alle tre del mattino mi sveglio, esco e vedo un cielo stupendo, con tantissimestelle e la luna alta sopra la montagna. Lascio lì la tenda e le altre cose che non ser-vono e parto, mentre i cani ringhiano sentendo i miei movimenti.

Seguo il sentiero che porta verso il fianco nord della montagna e quando scor-go, ormai con la luce, l’altro accampamento, punto direttamente verso la cima.È una salita penosa, mi pare di non avere forza nelle gambe. Devo ogni tanto so-stare a riprendere fiato. La febbre del giorno prima mi ha indebolito, sono pro-prio svuotato di energia e volontà, anche se sento dentro una disperata voglia dimartirizzarmi, già mi sembra tutto così lontano da non sentire più legami affet-tivi con nessuno, solo a tu per tu con questo mondo minerale. Provo soltantoistinti e sensazioni animali.

Solo verso le dieci raggiungo i nevai. Ma camminare qui è anche più difficile,perché si affonda sino alle ginocchia nella neve marcia. Procedo ancora, ma sem-pre con grande difficoltà e a un certo momento, anzi, non ho più la forza di an-dare avanti. Mi siedo e guardo in su verso il crinale che orla il cratere sommitale

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della montagna, dove le nevi scintillano bianche e ghiacciate. Si ridestano in meuna voglia, un desiderio umani. Se riuscissi ad arrivare lassù sarebbe fatta, sareifelice, poi non c’è che da attraversare la grande spianata che porta al punto piùalto, verso levante, come ho potuto vedere bene da Dogubayazit tante volte. Sen-to fortissimo il richiamo di quelle nevi cristalline che mi ricordano, oltre che lavetta vicina, un ambiente alpino, familiare, e le belle sciate nei mattini invernalisulle montagne di casa mia. Mi rimetto in marcia, ma è inutile: non ho forza enon riesco a comandare alle mie gambe. Forse è anche l’altitudine, lo scarso al-lenamento: qui sarò a circa 4500 metri.

Mi fermo definitivamente, rimproverandomi di aver affrontato l’impresa controppa leggerezza e di aver sottovalutato alpinisticamente la montagna, ma inti-mamente contento di questa rinuncia ripagata ora dal ritrovarmi perfettamentesolo, libero da ogni impegno e tutto presente a me stesso. Trascorsa qualche orarannicchiato sul pendio nevoso, attento al silenzio e a tutte le cose intorno, co-mincio a scendere. Quasi subito nel cielo blu e nero vedo passare, molto più al-to della cima e velocissimo, un jet con la sua coda bianca, come una scia di neve:probabilmente un aereo di linea diretto a Teheran.

Verso le due sono già di ritorno all’accampamento. Gli uomini mi chiedonocom’è andata: dicono «taman», meglio così, contenti che io non mi sia cacciatoin una avventura pericolosa. Sciolgo in tutta fretta la tenda e mi avvio a scende-re a Dogubayazit: una marcia interminabile e dolorosa. Così finisce la mia av-ventura sull’Ararat. Domani partirò per Teheran.

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La grande migrazione

Sono partito da Qandahar a bordo di una jeep di un ricco commerciante af-ghano diretto a Kabul. Il mio ospite, che è accompagnato da un autista e da unservo, è un uomo estremamente gentile. È anche una bella figura di uomo: per lasua statura alta, gli occhi dolci, il sorriso sincero, il vestire accurato. I suoi servigli obbediscono con sollecito piacere e lui li ricambia con rapporti affettuosi. Lichiama per nome e ogni tanto li intrattiene scherzosamente, specie il servo, cheè un uomo di origine turcomanna, con gli occhi tagliati alla cinese e le mascellespigolose.

Da Qandahar a Kabul sono circa cinquecento chilometri su pista. Si corre alcentro di un’ampia valle dai bassi versanti che prende il nome dal fiume, ora insecca, che vi passa in mezzo, il Tarnak Rud. Si incontrano ogni tanto piccole ca-rovane di nomadi; molti gli accampamenti.

Il servo turcomanno ad un certo punto ordina all’autista di fermare lenta-mente la macchina. Imbraccia il fucile, lo carica e salta giù. Il suo padrone ridedivertito e lo lascia fare. L’uomo ha mosse feline, da gatto: avanza silenziosa-mente tra i cespugli, incurvato, quasi strisciante. Lo vediamo sparire lontano epoi si sente uno sparo. Poco dopo ritorna con in mano una lepre. Il padrone sicomplimenta con lui e poi, rivolgendosi a me, mi fa capire quanto sia bravo ilsuo servo. Prima di ripartire la lepre viene rapidamente scuoiata dal turcoman-no e messa penzoloni fuori dalla jeep, in modo che possa prendere aria e polve-re e perdere così il sapore di selvatico.

Quando si avvicina la sera, la macchina si ferma e il servo si dà subito da fa-re. Va a una pozza, lava la lepre, la infila nello spiedo, prepara il fuoco. Fa tut-to con rapidità ed entusiasmo, felice di essere osservato dal suo padrone, edemette piccole grida di gioia. L’autista intanto mette a posto la jeep, che è dimarca russa, la spolvera, pulisce le candele, riempie i serbatoi di benzina. Il si-gnore è seduto accanto a me e osserva ridendo i suoi uomini. Poi la lepre è cot-ta e il servo turcomanno ce la distribuisce in parti eguali insieme a un po’ di pa-ne. Lui però non mangia subito, deve preparare il tè. Dopo che ci ha servito an-che questo, mentre noi fumiamo una sigaretta, mangia la sua parte, mettendosilontano, indisturbato.

Giungiamo di notte a Kalat-i-Ghilzai, un paese dove c’è una specie di castel-

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lo con un bel giardino intorno recinto da mura. Dormiamo nell’alberghetto lo-cale, anche questo con stanze ammuffite e polverose ma arredate con bei tappe-ti rosso sangue.

Il mattino, prima di ripartire, andiamo in paese a fare provviste di pane, uvae tè. Il bazar della cittadina è affollato di nomadi. Tipi strani, piovuti da chissà do-ve, con vestiti e ornamenti vistosi, occhi molto pitturati, facce bruciate dal sole,bellissime.

Ripartiamo attraversando adesso una grande steppa polverosa delimitata ver-so nord da montagne crestate, d’aspetto desolato. Di fianco alla strada ogni tan-to passano gruppetti di nomadi con cammelli e asini. Uno di questi drappelli èguidato da una vecchia. Cammina con un bastone in mano, ma ha il volto d’unfascino indimenticabile. La pelle aderisce al cranio, un cranio piccolo, perfetto,da ariana. La bocca le sorride nei denti ancora sani. Pur nella sua bellezza mi fapensare a una mummia risuscitata: una donna di cinquecento anni fa ricompar-sa a guidare le carovane nelle steppe immutabili. Mi fa rievocare, quel volto divecchia, tutto il passato dell’Asia, le sue storie lontane, le migrazioni dei popoliariani, in una parola, si può dire, tutto il passato di una stirpe. Ha in sé qualcosadi eroico e la forza della sopravvivenza di una razza che ha dominato il mondo si-no ad oggi. Quella vecchia mi appare come la progenitrice di tutti noi europei eoccidentali. La trovo qui, in queste steppe, come una nonna dimenticata che haconosciuto i nostri primi vagiti. Sopravvissuta miracolosamente in forma dimummia vivente in questi paesaggi che possono apparirci come paesaggi-mu-seo del nostro remoto passato.

Pochi chilometri più avanti si può scorgere un grande brulichio nella steppa.Qualcosa che si muove e avanza, tra nugoli di polvere, come una marea, una fiu-mana. Il mio ospite mi dice: «Sono i ghilzai che migrano, vengono dalle monta-gne di Ghazni e sono diretti verso i deserti intorno a Qandahar: fanno sempre co-sì alla fine dell’estate».

Mentre la macchina si avvicina, le figure brulicanti prendono forma. Vista lamia curiosità, il signore afghano fa fermare la macchina. Posso così assistere alpassaggio dell’immensa carovana. È un intero popolo che migra. Vedo migliaiadi cammelli, migliaia di pecore, migliaia di uomini e donne. Uno spettacolo gran-dioso, d’una bellezza biblica, da antica epopea, il più emozionante che si possaancora vedere nell’Asia antica.

Dapprima sfilano le avanguardie degli uomini con i cammelli: sono i giovaniguerrieri e tutti hanno il fucile a tracolla, lo sguardo fiero, i turbanti che si agita-no al vento. Vengono poi le grandi mandrie di cammelli guidati dagli uomini chescandiscono il ritmo del passo con un «ohé… ohé…» che si trasmette a tutta lacarovana. Sui dorsi di molti cammelli sono issati grandi baldacchini ornati difrange e pendagli di seta colorati: ospitano le giovani ragazze da marito e i bam-bini più piccoli. Poi, a piedi o a dorso d’asino, passano le donne, le spose, i ra-gazzi, le vecchie e i vecchi. Vedo gente straordinaria. Le ragazze sono partico-

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larmente affascinanti: sembrano regine o attrici addobbate per uno spettacoloteatrale in costume. Sono vestite di amaranto, hanno le caviglie cariche di colla-ne, fiori d’argento sul lobo del naso, sulla fronte pendagli di perle che copronogli occhi e lo sguardo, bracciali di metallo massiccio, collari triplici, quadrupli sulpetto. E sono fierissime, quasi hanno coscienza del fascino che emanano, com-piaciute dello spettacolo di bellezza e di forza che la loro tribù offre nel passag-gio attraverso le libere pianure. Dopo il passaggio della gente, seguono le ster-minate greggi di pecore e montoni, guidate da uomini e donne a dorso d’asino.Nel suo insieme la carovana è lunga chilometri e chilometri, dato che ci sono i ri-tardatari. È un intero popolo che migra e lo spettacolo mi affascina.

Il signore della jeep mi richiama con insistenti colpi di clacson, ma io non mela sento di perdere lo spettacolo. Mi sono messo proprio in un punto dove pas-sa la fiumana e guardo tutti quei volti di donne, di uomini, di vecchi. Molti de-vono spostarsi per schivarmi. I loro visi sono seri, hanno l’ansietà degli animaliin migrazione.

Il clacson suona ancora. Allora vado dai miei compagni di viaggio e dico lorodi non aspettarmi. Li prego di depositare il mio bagaglio in qualche albergo diKabul, dei quali mi faccio dire il nome, e li invito a proseguire, scusandomi. Il si-gnore afghano mi sconsiglia di unirmi a quella gente, potrei avere noie. Ma iosono risoluto. Insiste ancora dicendomi che quella gente maneggia i fucili conestrema leggerezza, che non vorranno avere gente estranea con sé. Alla fine peròconvinco il mio gentile ospite di proseguire e di non preoccuparsi per me. Infretta saluto il turcomanno, l’autista, e tiro fuori dai miei bagagli la borraccia, isoldi, la macchina fotografica e poche altre cose. Poi, vedendo un giovane guer-riero della carovana che mi manda un saluto dall’alto del suo cammello, lo rag-giungo e lo seguo a piedi. Lui ride. Dopo un po’ mi fa segno di salire sul cam-mello. Con un gesto rispondo di no, posso andare anche a piedi. Mi giro indie-tro e vedo che la jeep è già partita. Forse il signore ha perduto la pazienza, midispiace.

Il giovane del cammello alla fine scende e mi fa salire sulla sua bestia. Mi sen-to anch’io uno della carovana. Il kuchi mi chiede dove vado: rispondo a Kalat-i-Ghilzai, tanto non so ancora che cosa farò.

Nel frattempo altri giovani cammellieri si sono avvicinati e sembrano felici diavere una persona nuova nella tribù. Mi sorridono, sollevano i fucili in aria. Lagrande carovana prosegue con passo eguale, sollevando polvere. Le donne cam-minano scalze. Un gruppetto di esse mi scorge, ma non interrompono il passo,vanno via serie; forse sono stanche, i loro vestiti sono tutti impolverati.

Il giovane mi fa capire che camminano ormai da una settimana e che vengo-no dal Janubi. Quando levo dal mio borsellino la macchina fotografica per ri-prendere le donne che camminano lì vicino si arrabbia, alza la voce, e mi ordinadi metterla via subito.

Ad un certo momento una parte della carovana si ferma. Gli uomini accorro-

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no verso il settore della colonna dove camminano gli asini con le donne e gli uo-mini. Solo più tardi posso capire di che si tratta: è morto un uomo, un vecchio.Forse è morto di vecchiaia o di stanchezza. Scendo dal cammello perché voglioassistere al seppellimento. Il giovane che mi fa da compagno mi ordina di non av-vicinarmi troppo. Posso però egualmente vedere la rapida cerimonia, i pianti dialcune donne, le preghiere recitate da un uomo che ha la funzione di mullah.

Alcuni uomini hanno già scavato la fossa, fonda pochi decimetri. La salmaviene malamente avvolta in una specie di lenzuolo bianco e poi deposta accantoalla tomba mentre vengono accesi dei fuocherelli con arbusti e semi che man-dano un odore di agro. Avvicinandomi di più riesco a vedere la faccia del mor-to, mezzo scoperta. I suoi occhi hanno una serenità, una pace sublime, forse nonvedono ancora Munkar e Nakir, gli angeli giustizieri dagli occhi di fuoco dell’aldi là musulmano, o forse vedono gli astori e i corvi che volano sopra la steppa egià pronti a sbranarlo. Il mullah continua a recitare preghiere e adesso tutta lagente intorno è ferma, in piedi, col capo chino: sono rivolti verso sud-ovest, ver-so la Mecca. Alcune donne piangono e strillano. Il vento agita appena i turban-ti bianchi degli uomini.

Poi i parenti del morto raccolgono delle manciate di terra e cominciano cosìa coprire la salma. In breve essa rimane sepolta. Un sasso viene posto in corri-spondenza della testa del defunto e sul tumulo il mullah pianta alcuni bastonicon attaccati dei pezzi di stoffa. Così tutto finisce, sembra che la gente abbia fret-ta di riprendere il cammino.

Nelle prime ore del pomeriggio si formano i drappelli; la carovana si rompe.I vari clan vanno per conto loro in cerca di un terreno dove accamparsi. Siamoarrivati alle porte di Kalat-i-Ghilzai.

A questo punto un uomo mi viene vicino. È il capo della carovana. Mi chiedechi sono, che cosa voglio, dove vado. Rispondo che devo raggiungere Kalat-i-Ghilzai. Lui allora mi fa segno che il paese è vicino e che posso andarci da solo;mi fa capire insomma che devo abbandonare la carovana. Ha l’aria cattiva. De-vo così andarmene e raggiungo subito l’albergo dove ho dormito già la notte pri-ma. Mangio frutta e pane comperati al bazar.

Poi, verso sera, lo stesso uomo che mi ha cacciato via dalla carovana viene acercarmi. Mi invita a scendere in strada a bere un tè. È adesso molto gentile. Mispiega che il signore afghano della jeep gli ha mandato a dire, per mezzo di unapersona incontrata per strada e diretta a Kalat-i-Ghilzai, di sorvegliare su di mee di darmi buona ospitalità. Quel signore, mi dice il capo-carovana, è amico delRe. Sono quasi confuso. L’uomo, una bella figura di kuchi riccamente vestito,mi invita a raggiungere il suo accampamento. Mi accoglie nella sua tenda e mi faconoscere i suoi figli. Sono anch’essi molto eleganti e portano una cartucciera atracolla. Si fanno da parte per lasciarmi posto accanto a sé, sui ricchi tappeti.

Nell’accampamento, formato da centinaia di tende e situato a non più di mez-zo chilometro dal paese, molte donne ancora lavorano per piantare le tende, al-

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tre vanno a prendere acqua in un pozzo vicino. C’è un gran trambusto e altrepiccole carovane ritardatarie continuano ad arrivare. Esprimo ai miei ospiti tut-to il mio entusiasmo per lo spettacolo offerto dal loro popolo in migrazione. Ri-mangono in silenzio. Poi il capo mi invita a restare con sé alcuni giorni: soste-ranno lì quasi una settimana intera per far riposare le bestie. Allora i suoi figli sialzano per accompagnarmi all’albergo e il padre mi saluta mettendo umilmentela mano sul cuore e dicendo: as-salamaleikum.

Il mattino dopo, in attesa di ripartire, vado a fare un giro dalle parti dell’ac-campamento, tanto forte è in me l’attrazione suscitata da questi kuchi. Vedo fi-le di donne che si dirigono verso un pozzo ai limiti di un campo a prendere ac-qua con le ghirbe. Mi dirigo anch’io da quella parte e trovo qui un contadinocon suo figlio. È proprietario del pozzo e vende l’acqua ai nomadi, un tanto allagiornata. Le donne in fila, ad una ad una, riempiono i loro pesanti recipienti. So-no le stesse donne che avevo visto il giorno prima durante la marcia. Vedo gio-vanissime madri incinte. Sono ben vestite e cariche dei loro ornamenti che nonlevano mai e quasi fanno parte della loro dote personale: quasi si direbbero par-ti del corpo, importanti e preziosi per la loro bellezza come lo splendore dellabocca e degli occhi. Tra le donne vi è una ragazza di notevole bellezza. Alta,sguardo fiero, occhi scintillanti, vesti e ornamenti vistosi. Forse è figlia di qual-che personaggio importante della tribù. Mentre si china a prendere l’acqua le sipuò vedere il bel seno che spunta fuori dal corpetto di velluto aperto davanti.

Preparo la macchina fotografica per riprenderla appena sollevata, ma lei sene accorge. Scatta e, furente, è anche più bella. Mi metto a ridere e dico nellamia lingua: «calma, calma ragazza». E lei allora ripete per schernirmi: «cama, ca-ma cagassa». Mi fa la parodia e mi lancia occhiate cattive. Le altre donne tengo-no il capo chino e non mi guardano. Poi arriva un uomo e si mette a urlare mi-nacciandomi coi pugni chiusi. Devo ritirarmi e così, per me, le donne kuchi con-servano ancor più il loro fascino di antiche e inavvicinabili regine. Il contadinomi prega di allontanarmi e mi fa un gesto come di compatimento: «kuchi, ku-chi…», come dire gente fatta a suo modo e che è meglio guardare da lontano enon parlarci insieme.

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Lungo la Via della Seta

nel cuore delle civiltàdell’altro dove il malenon segue linee rette

ma le contorte convulsionidel nostro Occidente

Eugenio Turri esploratore e geografo viaggiò nel millenovecentocinquantotto

lasciandocene testimonianzain un libro che esce in nuova edizione

fotograficamente arricchitadal portfolio di allora

stampato nel carattere Garamondsu carta Fabriano Acid Free

dalla tipografia L’Artistica Saviglianodi Savigliano

per conto di Edizioni Diabasisnel gennaio dell’anno

duemilaquattro

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