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vi e u n o i; M O V O Un recente contributo di Svetlana Alpers (1984) sull'originalità della produzione pitto- rica del mondo olandese si presenta in questa contingenza di considerevole interesse, so- prattutto per la vis polemica che ispira l'autri- ce rispetto a un modo tradizionale, vorrem- mo dire mediterraneo, di interpretare l'espressione artistica del Nord. Enrico Ca- stelnuovo, nella sua presentazione del volu- me, così sintetizza l'approccio: «Svetlana Al- pers recupera i criteri di percezione, di valuta- zione e di giudizio del pubblico olandese del tempo, i valori, le gerarchie e gli schemi co- gnitivi di quella cultura, le differenze essen- ziali nelle funzioni e nella fruizione tra la pit- tura italiana e quella olandese. Arriva in que- sto modo a ipotizzare una centralità della vista, del vedere, come strumento di cono- scenza nella cultura olandese del Seicento, ri- spetto a una presunta centralità del pensiero, della scrittura, della storia nella cultura italia- na» (p. XIV). Per questo intento vengono re- cuperati e studiati o strumenti della cultura materiale, come le carte geografiche, o docu- menti della cultura filosofica o scientifica, da quelli di Constantijn Huygens a Amos Come- nio, a Francesco Bacone normalmente trala- sciati in una indagine sul fenomeno pittorico. Quello dell'interpretare un documento della civiltà alla luce di altri documenti coevi, dalla filosofia alla letteratura, e patrimonio or- mai consolidato in una ricerca storica sul fe- nomeno artistico; la novità che Alpers perse- gue però consiste nella natura stessa dei mate- riali addotti alla dimostrazione della tesi, in quanto volutamente diversi rispetto a quelli della tradizione. Nello studiare il rapporto fra arte e scienza, pittura e bisogni materiali, Al- pers mette in crisi una letteratura di maggio- ranza, imperialistica, che nasce e che trova le sue espressioni critiche moderne in un «puro- visibilismo» di Wòlfflin e nell'aggressione all'arte di carattere iconologico inaugurata da E. Panofsky. Dal «quadro-finestra» albertiano alla acrimoniosa stroncatura messa in bocca a Michelangelo da Francisco di Hollanda, alle interpretazioni moderne il vizio ricorrente sembra essere quello di una unilateralità di giudizio, di origine rinascimentale e manieri- stica, che vede l'arte olandese come «errore» o periferia rispetto a un centro, quello che dalla classicità greco-romana viene rinnovato nella penisola italiana nel X V I secolo. Si vuol dire che una storia del mondo nordico, a cui non viene attribuita originalità, ha spesso cono- 32

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U n recente contributo di Svetlana Alpers (1984) sull 'originalità della produzione pit to­rica del mondo olandese si presenta in questa contingenza di considerevole interesse, so­prattutto per la vis polemica che ispira l 'autri­ce rispetto a un modo tradizionale, vorrem­mo dire mediterraneo, di interpretare l'espressione artistica del Nord . Enrico Ca-stelnuovo, nella sua presentazione del volu­me, così sintetizza l'approccio: «Svetlana A l ­pers recupera i criteri di percezione, di valuta­zione e di giudizio del pubblico olandese del tempo, i valori, le gerarchie e g l i schemi co­gni t ivi di quella cultura, le differenze essen­ziali nelle funzioni e nella fruizione tra la pit­tura italiana e quella olandese. Arr iva in que­sto modo a ipotizzare una centralità della vista, del vedere, come strumento di cono­scenza nella cultura olandese del Seicento, r i ­spetto a una presunta centralità del pensiero, della scrittura, della storia nella cultura italia­na» (p. X I V ) . Per questo intento vengono re­cuperati e studiati o strumenti della cultura materiale, come le carte geografiche, o docu­menti della cultura filosofica o scientifica, da quelli di Constantijn Huygens a Amos Come­nio, a Francesco Bacone normalmente trala­

sciati in una indagine sul fenomeno pittorico. Quello dell'interpretare un documento

della civiltà alla luce di altri documenti coevi, dalla filosofia alla letteratura, e patrimonio or­mai consolidato in una ricerca storica sul fe­nomeno artistico; la novi tà che Alpers perse­gue però consiste nella natura stessa dei mate­riali addotti alla dimostrazione della tesi, i n quanto volutamente diversi rispetto a quelli della tradizione. Nel lo studiare i l rapporto fra arte e scienza, pittura e bisogni materiali, A l ­pers mette in crisi una letteratura di maggio­ranza, imperialistica, che nasce e che trova le sue espressioni critiche moderne in un «puro-visibilismo» di Wòlffl in e nell'aggressione all'arte di carattere iconologico inaugurata da E. Panofsky. Dal «quadro-finestra» albertiano alla acrimoniosa stroncatura messa in bocca a Michelangelo da Francisco di Hollanda, alle interpretazioni moderne i l vizio ricorrente sembra essere quello di una unilateralità di giudizio, di origine rinascimentale e manieri­stica, che vede l'arte olandese come «errore» o periferia rispetto a un centro, quello che dalla classicità greco-romana viene rinnovato nella penisola italiana nel X V I secolo. Si vuol dire che una storia del mondo nordico, a cui non viene attribuita originalità, ha spesso cono-

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sciuto incomprensioni o una scarsa valorizza­zione proprio a partire da questo pregiudizio: è impossibile in altri termini interpretare l ' in­tenzione nordica, tesa alla descrizione in quan­to esaltazione della visione, se utilizziamo le categorie che i l Rinascimento e i l Manierismo in Italia hanno codificato e che vedono la di­gni tà della storia, la narrazione, e quindi i l sog­getto, come termini di riferimento essenziali.

Pur evitando di assumere come radicale la distinzione, segnalando cioè eccezioni e scon­finamenti in un campo o nell'altro, i due prin­cipi ordinatori della pittura sembrano essere fra loro complementari: «Tra azione e attenzio­ne descrittiva sembra esserci un rapporto di proporzional i tà inversa: l'attenzione per la superfìcie del mondo descritto comporta i l sacrificio dell'aspetto narrativo della rappre­sentazione... Benché la pittura possa sembra­re descrittiva per definizione - come arte dello spazio e non del tempo, che avrebbe nella «natura morta» i l soggetto più congeniale - è essenziale per l'estetica del Rinascimento che le capacità imitative vengano subordinate ai fini della narrazione» (p. 7). Senza entrare nel merito specifico delle polemiche che l'ipotesi di Alpers ha suscitato al suo apparire nella stampa internazionale nel 1983 - è opportuno eventualmente ricordare i l succinto dubbio espresso da Omar Calabrese (Alfabeta n. 78 p. 14) circa l'asserita coincidenza fra descrizione e realismo, termine fra i più ostici per un ap­proccio di natura semiotica - quel che interes­sa in modo particolare è la filiazione fra «pre­giudizio rinascimentale» e lettura emblemati-stica della pittura olandese, in particolare del­la natura morta, sulla lettura cioè della pittura come portatrice di un complesso reticolo di «significati nascosti» che possono risalire alla letteratura concettistica la cui fortuna nei pae­

si del N o r d si articola sulla diffusione di ma­nuali di un Alciati e di un Camerario nel X V I secolo, di un Cats e di un Roemer Visscher agli esordi del successivo.

Quello del «simbolo dissimulato» è ben noto luogo critico di E. Panofsky enucleato nel suo Early Netherlandish Painting del 1953 proficuamente ripreso e articolato per i l no­stro tema da I . Bergstròm e recentemente portato a sistematica indagine dell'universo della natura morta da E. de jongh in diverse occasioni (1971, '74, '76, ecc.). Proprio la r i ­cerca di quest'ultimo studioso costituisce i l termine della polemica di Alpers più acuto e sistematico: una lettura di concetto delle pre­senze illustrate sulla scena olandese sembra essere retaggio di una tradizione contenutisti­ca che, all'opposto, la mentali tà del nord tra­lascerebbe a vantaggio di una illustrazione co­me indagine conoscitiva, in una cocente rela­zione fra osservazione del reale e sua analitica registrazione sulla scena. Se, in una lettura simbolica, v i è lo scontro fra la bellezza dell'apparente e l'amarezza del reale svelato, la tesi di Alpers viaggia su registri assoluta­mente diversi: «La rappresentazione della sua superficie dorata, ruvida e irregolare, con la buccia un po' rigonfia che si stacca dalla pol­pa attorcigliandosi su sé stessa, trasforma i l frutto completamente... Con buona pace del­le interpretazioni moderne, i l imoni di K a l f non sono esposti ai guasti del tempo, ma all'indagine dell 'occhio» (ibid. - p. 162). E anche la molteplici tà delle pose che il medesi­mo oggetto p u ò assumere sulla medesima ta­vola a spingere l'interpretazione di Alpers da un ragionamento contenutistico all'equiva­lenza fra indagine scientifica baconiana e rap­presentazione plastica. U n approccio forte­mente laico, o laicizzato, rispetto al sentimen-

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to moraleggiante che invece sembra essere in­dividuato da una lettura di estrazione emble­matica.

Pittura come registrazione del visivo, del percepito, quella proposta da Alpers: a soste­gno della sua tesi la studiosa cita un disegno di Jacob de Gheyn ora allo Staatliche Museen Preussischer Kulturbesitz di Berlino Ovest in cui a una vecchia colta frontalmente a mezzo busto e alcuni tralci di vite viene associato, se­minascosto dalle foglie, un occhio con i l suo asse visivo tracciato attraverso la pagina. Nel ­la medesima, con una pratica riflessiva sulla pittura e sulla sua illusorietà comune alla pit­tura olandese dell'epoca, l'illustrazione del r i ­trattato e la relatività del punto di vista da cui è stato colto.

Una interpretazione «realistica», legata cioè alla visione e all'indagine scientifica e materiale dell'Olanda del X V I I secolo, e una interpretazione emblematicista, in cui cioè è la portata simbolica degli oggetti e delle figu­re presenti nella scena a significare i l quadro in una sorta di muta esplicitazione di un con­cetto, sembrano essere assolutamente incon­ciliabili, pur avendo entrambi legit t imità in quanto capaci di riferirsi a testi e testimonian­ze inconfutabili: i l Novum organum o i l Tratta­to della pittura di Samuel van Hoogstraten da una parte, g l i Archetypa Studiaque patris di Ja­cob Hoctnaghel dall'altra, o la fioritura di quella pubblicistica emblematica nell'area del N o r d che, se non raggiunge la sofisticata oscurità del «concetto» barocco italiano, co­me sottolinea Alpers citando la prestigiosa autori tà di M . Praz, o forse proprio per un acquisito equilibrio fra illustrazione e legen­da, dove l'una risulta complementare all'altra, alla prima letteratura citata si contrappone.

La con temporane i t à delle due produzioni,

dei due livelli a cui la pittura può essere collo­cata, dovrebbe probabilmente consigliare chi affronta una storia delle idee e delle intenzio­ni un atteggiamento meno drastico nell'esal­tazione dell'una per condannare l'altra.

L'abbattimento di un pregiudizio è sem­pre un elemento positivo. E quindi risulta di indubbia importanza i l rilievo di Alpers circa la differenza fra una «via olandese» alla rappre­sentazione e una via mediterranea, circa anco­ra la difficoltà della seconda, una volta che si ponga come indagine critica, nel recepire l 'originalità e la diversità delle due tensioni. Ma diversità non vuol dire necessariamente sistematica opposizione; come ancora diven­ta forzato leggere una interpretazione emble­maticista in quanto figlia diretta di tale pre­giudizio. N o n si vuole affermare la falsità dell'assunto: ma far dipendere tu t to o analiz­zare per differenze, per distanze, quanto inve­ce risulta essere complementare nella con­temporane i t à è atteggiamento significativo di una fase reattiva, di una fase dell'emergenza, quando si ritiene che i l valore da esprimere sia sottovalutato o sistematicamente ignora­to. E queste sembrano le condizioni del dibat­t i to critico dell 'oggi.

I n realtà proprio la concorrenza di una mental i tà simbolica, legata alla tradizione ma­nieristica, quindi a un passato che ol tretut to nel N o r d conosce ramificazioni ben radicate fino all 'immaginario tardomedievale, e di una attenzione analitica, legata alla laicità di una scienza «nuova» staccata dalla tutela ecclesia­stica che dall'investigazione della natura nella matur i tà del X V I secolo, progressivamente aggredisce anche l'animale uomo come sog­getto di percezioni e di conoscenza, proprio appunto la dialetticità delle posizioni sembra essere, sembrano suggerire un atteggiamento

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critico altrettanto possibilista, o meglio capa­ce di cogliere, nel singolo brano di pittura, una radice dialettica fra «vecchio» e «nuovo». Potrebbe sembrare una formula di compro­messo, ma la soluzione dell'azzeramento di una radice emblematica proposto da Alpers equivarrebbe a cancellare astoricamente un complesso di riflessioni sulla pittura che fan­no giocoforza parte del patrimonio su cui si opera; come, del resto, una meccanica tradu­zione fra «nome» e «immagine» offerta come esauriente chiave di lettura dell'opera plastica costituisce una sbrigativa quanto ininteres-sante indagine statistica sulla frequenza dei soggetti nella pittura, ma non p u ò aggiunge­re altro.

Una riflessione di t ipo emblematicistico ha letto i n uno stringente legame fra appari­zione dell'oggetto e valore «nascosto», la le­gi t t imi tà stessa della sua presenza; quasi che ogni natura morta dovesse costituire un si­gnificativo episodio di un enciclopedismo ca­pace di mostrare, nel ristretto ambito di una mensola, «cielo» e «terra», inferno e paradiso. Pur registrando atteggiamenti e accenti diver­si, un dibattito a più voci ospitato in occasio­ne di una precedente iniziativa (Bergamo 1985) sulla natura morta e che ha visto con­tendere attorno a un immaginario tavolo al­cuni fra i conoscitori più accreditati del mon­do di tale pittura, ha sinteticamente ripropo­sto i l i m i t i di una lettura puramente «conte­nutistica» dell'opera. Fra i distinguo e le obie­zioni più radicali quelli di Ferdinando Bolo­gna, centrata sul conflitto fra «forma» e «se­gno», quelli di Ernst H . Gombrich, nella sot­tolineatura distanziante fra «segno» e «dise­gno», e soprattutto quelle di Giovanni Testo-r i . I n particolare quest'ultimo ha contrappo­sto una «ragione» del pittore, sensibile al

mondo delle forme, e un «ipotetico» commit­tente, attento e desideroso di vedere un uni­verso di «concetti» illustrato sulla tavola, a r i ­prova di una esprimibilità, quindi di una comprensione e di una proprietà dell'idea che la letteratura verbale ha tradizionalmente consegnato all'erudizione per eccellenza più depurata dal vincolo terroso dell'imitazione.

Ma la relazione fra presenza della figura nel quadro e concetto, sistematica nominale e simbolo oscuro, percorre, con atteggiamenti divaricanti che possono andare dalla partigia­na simpatia alla constatazione rasserenante della coincidenza alla scissione traumatica in­fine, un po' tutta la letteratura critica sul te­ma.

Ora a noi sembra che, senza idolatrare una possibile lettura «edenica» della natura morta, dove corrispondenza fra realtà, immagine e nome si possa realizzare senza filtri deforman­t i , senza intenzioni o intelligenze divaricanti, è certo che l'atto stesso di isolare una fetta parziale del creato, oltretutto fortemente va­riata nelle sue origini e nelle sue immediate apparenze, è attività che libera, o comunque vitalizza, una complessità di valori scoperti e attribuiti , che l'osservazione del naturale e dell'artificiale, dell'arredo in sintesi, prece­dentemente aveva lasciato implosa. Che in al­tri termini l'idea, l'intelligenza del reale e la sua «sacralizzazione» in un atto pittorico ap­parentemente inclinato al possesso del bene materiale, costituiscano passi diversi di una medesima commedia.

Che ancora una catena associativa che pos­sa legare i l vetro o i l metallo al fuoco che ne ha permesso l'esistenza e la figura, i l ritratto del frutto al suo nome cantilenato nel salmo o all'unico e prezioso esemplare contrabbanda­to da lontano, ammirato sulla tavola del mo-

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derno Epulone oppure costretto nell'elenco di una bolla ili accompagnamento, sia assolu­tamente legittima in un mondo che sta cono­scendo accelerazioni sociali indubbiamente capaci di cancellare la tradizione ma che nello stesso tempo a essa continua a riferirsi come ancora di salvezza per una navigazione in par­te incognita.

Proprio la presenza del vecchio e del nuo­vo, della nuova «ottica» di Bacone e della sa­pienza tradizionale figurata spinge a acquisire una certa cautela nell'appoggiare l'innovazio­ne o nel confortarsi nella tradizione: i l tentati­vo «moderato» di coniugare lettura contenu­

tistica dei soggetti della natura morta e analisi formale non p u ò evidentemente rispondere pienamente al desiderio rispetto alle posizioni estreme cui si è brevemente fatto riferimento, le ragioni del pittore e quello di una commit­tenza erudita: è però possibile che, rimesco­lando le carte, o più esattamente mettendo in azione attenzioni apparentemente divaricanti ma altrettanto legittime e contemporanee all'epoca i cui frutti sono ora, avulsi da essa, sotto i nostri occhi, i l quadro di lettura risulti per una sensibilità attuale, più intrigante e aperto di quanto non possa risultare una vol­ta che si sposi in foto l'una o l'altra ragione.

P R E G I U D I Z I lì A V A N Z A M E N T I

La pubblicazione recente della seconda edizione accresciuta e corretta della monogra­fia dedicata alla pittura fiamminga di natura morta a opera di Edith Greindl (1983), com­plementare se vogliamo a quella di Hairs sui pit tori di fiori , pone alcuni problemi e inter­rogativi sul modo di interpretare l'universo nordico, di segmentarlo e di periodizzarlo.

Correggere l'attività di studiosi pionieri, o metterne in discussione alcuni spunti che spesso hanno costituito passaggi obbligati, quasi automatici nell'architettura storica del problema «natura morta» p u ò sembrare atti­vità presuntuosa, comunque ingiusta di fron­te al grande merito di aver esplorato un terre­no dell'arte agli anni delle prime edizioni dei

saggi (1956) sostanzialmente incognito, di aver costruito una architettura laddove prima esisteva un terreno indifferenziato e inerte.

E oltre a queste difficoltà occorre aggiun­gere anche un pregiudizio, se vogliamo, di «latitudine», di punto di osservazione da cui giudicare il problema: un sentimento nordico leggibile e studiabile creativamente solo da chi ne è diretto erede, quindi impermeabile allo straniero, soprattutto se di provenienza, e di cultura mediterranea.

Anche la storia e la critica d'arte soffrono di separatezze, di indifferenze, di territori di caccia considerati esclusivi, fatte salve le do­vute eccezioni evidentemente. Si p u ò osser­vare, per inciso, come una conoscenza e un

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