Verso la prima prova

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B Tipologia ANALISI E PRODUZIONE DI UN TESTO ARGOMENTATIVO © Loescher Editore - Torino

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TIPOLOGIA B ANALISI E PRODUZIONE DI UN TESTO ARGOMENTATIVO
• La tipologia B sarà proposta con tre prove di diverso ambito, a partire da un testo compiuto o da un estratto significativo ricavato da una trattazione più ampia.
• Il testo scelto sarà un testo argomentativo di tipo saggistico o giornalistico (in particolare, articoli in forma di editoriale scritti da intellettuali o esperti di fama).
• I tre testi saranno scelti all’interno dei seguenti ambiti: artistico, letterario, storico, filosofico, scientifico, tecnologico, economico, sociale.
Che tipo di prova è? È una prova di tipo strutturato perché si compone di due parti: • prima parte: comprensione e interpretazione sia di singoli passaggi sia dell’insieme (ad
esempio: quali sono le sequenze essenziali del discorso? Quale la tesi viene sostenuta? Quali risorse espressive per sostenere l’opinione? Fai il riassunto ecc.);
• seconda parte: commento argomentativo sulla tesi o il tema proposti nel passo, con even- tuali vincoli.
PRIMA PARTE (COMPRENSIONE E INTERPRETAZIONE DEL TESTO) Come si propone di saggiare le capacità e le competenze specifiche dello studente? • Attraverso richieste di attività come il riassunto; • attraverso quesiti specifici su singoli passaggi o sull’intero passo; • attraverso l’individuazione delle sequenze e/o dei nuclei informativi di cui si compone il
testo; • attraverso l’individuazione dei rapporti logico-sintattici che legano tra loro i passaggi; • attraverso l’individuazione della tesi, dell’antitesi, delle argomentazioni e della loro tipo-
logia; • attraverso l’analisi e la valutazione delle soluzioni espressive adottate per sostenere una
tesi ecc.
SECONDA PARTE (COMMENTO ARGOMENTATIVO) Come si propone di attivare le capacità di produzione autonoma? • Attraverso la richiesta di un testo discorsivo coerente e coeso che rispetti una progressione
tematica efficace; • in forma di commento argomentato, in cui lo studente sarà chiamato a esprimere una sua
opinione motivata sulla tesi e/o il tema trattato/i dal testo proposto; • nel rispetto delle caratteristiche tipiche di una scrittura argomentativa più o meno vinco-
lata (eventuali vincoli testuali da soddisfare potranno essere indicati o meno nella consegna).
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Ambito artisticoi Bénédicte Savoy Restituiamo. Ma con gioia In due minuti e trenta secondi, il 28 novembre 2017, Emmanuel Macron ha spazzato via in un solo colpo svariati decenni di atti e di discorsi ufficiali francesi in materia di patrimonio cultu- rale e di musei. L’ha fatto in un «luogo dove non si può barare», come l’ha definito, la sovraffol- lata aula magna di un’Università africana, sotto gli occhi del presidente burkinese Roch Kaboré e degli obiettivi delle telecamere di France 24.
L’ha fatto a nome della gioventù, genio tutelare invocato sette volte: «Appartengo a una ge- nerazione di francesi per i quali i crimini del colonialismo europeo sono incontestabili e fanno parte della loro storia». «Voglio che nell’arco di cinque anni si siano verificate le condizioni per delle restituzioni temporanee o definitive del patrimonio culturale africano all’Africa». Applau- si e fischi. Su Twitter, l’Eliseo rincara la dose: «Il patrimonio culturale africano non può essere prigioniero dei musei europei». […]
La storia delle collezioni africane è una storia europea, un affare di famiglia se si vuole, in cui curiosità estetica, interessi scientifici, spedizioni militari, reti commerciali e «opportunità» di ogni genere hanno contribuito ad alimentare le logiche del dominio, dell’affermazione e del- le rivalità nazionali. I musei delle capitali europee sono i depositari della creatività umana, ma anche, non per colpa loro, di una storia più triste e troppo raramente raccontata.
Ancora oggi, in Francia come altrove in Europa, la semplice parola «restituzione» suscita au- tomaticamente una reazione di arroccamento in posizioni difensive. Di questo tipo di reazione diede dimostrazione pubblica François Mitterrand nel 1994 quando, per ringraziare Helmut Kohl per la restituzione da parte della Germania di 27 quadri francesi sottratti dai nazisti, commentò: «Quanti conservatori dei nostri Paesi, quanti responsabili dei nostri grandi musei devono questa sera provare una certa inquietudine. E se questo si generalizzasse? Non credo di sbagliare nel pensare che questo esempio resterà isolato e che il contagio si arresterà molto in fretta».
Restituzioni e contagio; prudenza politica e terrore dei musei: apparteniamo a una gene- razione che ha conosciuto soltanto restituzioni dolorose o strappate dopo lunghe lotte. Nessu- no in Francia ha dimenticato la «guerra di trincea» sostenuta nel 2010 dai conservatori della Bi- bliothèque Nationale de France quando, a margine di trattative commerciali, Nicolas Sarkozy si era impegnato a restituire alla Corea del Sud quasi 300 preziosi manoscritti provenienti da una spedizione punitiva dell’esercito francese nel 1866. Nessuno dimentica in Italia il mezzo secolo di negoziati che fu necessario per rendere all’Etiopia l’obelisco di Axum sottratto da Mussolini nel 1937. E a nessuno a Berlino piacerebbe se un giorno si restituisse alla Tanzania l’immenso scheletro fossile del più grande dinosauro del mondo, il Brachiosaurus brancai, «importato» nel 1912 dai territori allora soggetti al protettorato del Reich.
Si possono per il futuro ipotizzare restituzioni felici e condivise nel duplice interesse dei popoli e degli oggetti? È possibile pensare a restituzioni in cui la posta in gioco non sia pura- mente strategica, né semplicemente politica o economica, ma anche e veramente culturale? L’annuncio fatto a Ouagadougou1 sembra rispondere positivamente alla domanda. Trae forza da un cambio di generazione. Suggerisce che una condivisione è possibile. E, contro ogni aspet- tativa, non ha suscitato quella levata di scudi istituzionale cui ci hanno abituato (ancora un riflesso incondizionato) le discussioni di questi ultimi anni. […]
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Ora che si fa? Prima di tutto, in fretta e senza fare finta, si uniscano al dibattito france- se voci multiple di attivisti, intellettuali, responsabili politici, professionisti di musei, africani d’Africa e africani della diaspora, mecenati, insegnanti, artisti, persone che auspicano le resti- tuzioni e persone contrarie. Ci si metta intorno a un tavolo, ci si ascolti.
Successivamente si faccia bene attenzione a non interferire nella sfera decisionale altrui. Quando, dopo Waterloo, la Francia restituì all’Europa le opere trasferite a Parigi durante la Ri- voluzione e l’Impero, non spiegò al papa e ai sovrani di Germania, Austria, Spagna ecc. il modo corretto per valorizzare e conservare le loro collezioni. Ci vollero in molti casi vari decenni e dibattiti contraddittori perché questi Paesi avessero politiche culturali «moderne» e infrastrut- ture adatte. […] Allo stesso modo, nel 1945 gli americani non dissero ai francesi come trattare le opere da loro recuperate nella Germania nazista e lo Stato francese non esitò, al ritorno di queste opere, a venderne diverse migliaia all’asta. Bisogna lasciare a quanti recuperano le opere l’attenzione e il tempo di trovare le soluzioni per loro migliori.
E poi, e soprattutto, bisogna permettersi di sognare: immaginare delle configurazioni giu- ridiche inedite, testare nuove forme di collaborazione, come quelle praticate da dieci anni dalla Fondation Zinsou nel Benin2, inventare dei modelli flessibili, adattati alle realtà di un conti- nente immenso […]. Bisogna pensare in piccolo e in grande, a corto e a lungo termine. Bisogna pensare, naturalmente, a quelli che riceveranno le opere, ma non bisogna sottovalutare quelli che, in Francia e altrove, si sentiranno forse feriti nel loro «orgoglio patrimoniale» o nella loro «identità culturale».
Bisognerà prendersi il tempo necessario per spiegare all’opinione pubblica di «casa no- stra» che cosa è stato fatto e perché, raccontare ai visitatori dei musei come si erano formate le collezioni, come, quando e a quale prezzo queste opere sono arrivate da noi. Bisognerà rimette- re in discussione certe «evidenze» e certi «tabù» museografici. Se dobbiamo percorrere questa via, dobbiamo percorrerla con gioia, una gioia responsabile, prudente e consapevole che dia un’anima a questo grande progetto del XXI secolo. «Voglio che nell’arco di cinque anni si siano verificate le condizioni per delle restituzioni temporanee o definitive del patrimonio culturale africano in Africa», ha detto Macron. Scommettiamo…
(B. Savoy, Restituiamo. Ma con gioia, «Il Giornale dell’Arte», 384, marzo 2018)
1. Ouagadougou: capitale del Burkina Faso. 2. Benin: il Benin è un altro Stato dell’Africa occidentale. Ex colonia francese, confina a nord con il Burkina Faso.
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Comprensione e interpretazioneI
1 Individua i cinque blocchi in cui è organizzato il testo. Li elenchiamo qui sotto, ma nell’articolo non si trovano in quest’ordine. a. due capoversi pongono la questione delle collezioni di arte africana a partire da una dichia-
razione di Emmanuel Macron; b. un capoverso contiene la tesi; c. un capoverso esplicita la contraddizione che caratterizza le collezioni di arte africana; d. quattro capoversi mostrano a quali condizioni la tesi può essere sostenuta; e. due capoversi portano esempi delle difficoltà legate alle restituzioni.
2 La tesi si trova all’inizio, a metà o alla fine del testo? Riassumila. 3 Perché il patrimonio culturale africano è definito «prigioniero dei musei europei»? 4 Come spieghi l’uso della metafora della «guerra di trincea»? 5 L’autrice utilizza alcune domande dirette: come spieghi questa scelta stilistica? 6 Riassumi l’articolo utilizzando circa 250 parole.
CommentoI
7 Scrivi un testo lungo al massimo tre colonne di foglio protocollo in cui sostieni oppure con- futi l’opportunità di restituire alcune opere africane ai Paesi d’origine. Dovrai fondare le tue argomentazioni sugli esempi storici riportati nell’articolo, ragionando sul significato sociale e politico delle istituzioni museali.
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Ambito artisticoi Mario Coppola Il ruolo dell’architettura nell’Antropocene Dalle colonne di Domus EcoWorld, Leonardo Caffo1 muove una durissima critica al modo in cui la progettazione – dal design all’urbanistica – affronta la crisi ambientale. Il filosofo definisce gli sforzi compiuti dall’architettura green come «retorica» e spiega come sia venuto il momento di agire concretamente sull’impatto dell’antropizzazione, concludendo: «Il futuro ha l’aspetto di una capanna, non di un grattacielo».
Come dargli torto: gli sconquassamenti provocati dalle attività umane sono talmente im- mensi e devastanti per gli equilibri planetari che, di certo, né la vegetazione né i pannelli foto- voltaici, messi su qualche edificio, possono costituire un rimedio. Anche perché l’innalzamento della temperatura di altri due gradi, sufficiente a innescare catastrofi di proporzioni apocalitti- che perfino in questo secolo, sotto i nostri stessi occhi, sembra ormai inevitabile.
Prima degli allarmi lanciati negli ultimi decenni dalla comunità scientifica internaziona- le, questo appello, con la stessa durezza sferzante, fu urlato al mondo da Paolo Soleri2 negli anni Sessanta: l’architettura e la città, prodotti dello sviluppo culturale e tecnologico della civiltà occidentale, sono intrinsecamente insostenibili e, per questo, compito dell’architetto è immagi- nare nuovi scenari, nuove soluzioni. Soleri era un rivoluzionario, usò il termine «frugale» rife- rendolo alla costruzione di edifici e spazi comuni e capì che, restando nelle metropoli, avrebbe fatto solo retorica. Perciò si auto-esiliò nel deserto dell’Arizona e diede vita a Cosanti e Arcosanti: arcologie, micro-città, ecosistemi umani in armonia con il resto del pianeta, utopie viventi fatte di cemento modellato col terreno, di sudore, di mani e di corpi. A Cosanti, pochi anni fa, Soleri è morto senza essere riuscito nell’impresa, tanto coraggiosa quanto solitaria, di salvare il mondo. La storia dell’architetto torinese dimostra la spietata tesi di Manfredo Tafuri3: l’architettura, per quanto ispirata da buoni propositi, non realizza utopie. Ecco perché accusare gli architetti di retorica e simbolismo rischia di essere improduttivo: a meno che non scelgano l’Aventino, come fece Soleri, gli architetti sono per definizione dei creatori di forme, di figure, di simboli; e non hanno alcun potere sulla dimensione concreta di cui parla Caffo.
Nel migliore dei casi sono ingaggiati da entità pubbliche democratiche e progressiste, nel peggiore da governi autoritari o da privati senza scrupoli: ad ogni modo – e non è sto- ria nuova – gli architetti non agiscono per loro conto ma negli interessi di qualcun altro; qualcuno che, quasi certamente, fa parte del grande paradigma economico-culturale fondato sull’antropocentrismo. Dunque, purtroppo, nessun architetto avrebbe la forza di convincere i suoi clienti ad abbandonare la strada dei grattacieli, delle industrie e degli aerei, anche se è la strada per l’annientamento: ormai tutti conoscono le previsioni degli scienziati sulle con- dizioni future del nostro pianeta, eppure, ciò nonostante, a un committente che chiede una torre, o una modesta casa in campagna, non si propone una capanna senza essere liquidati in pochi secondi.
Insomma, l’edificazione va regolamentata alla luce delle esigenze dell’ambiente. Solo in questo modo sarà possibile progettare secondo nuovi schemi cui tutti, architetti, committenti
1. Leonardo Caffo: filosofo e saggista siciliano. 2. Paolo Soleri: architetto, scrittore e urbanista torine- se (1919-2013).
3. Manfredo Tafuri: storico dellarchitettura (1935-94).
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e fruitori, dovranno adeguarsi. Siamo quindi nel dominio della politica, che, in democrazia, rap- presenta la volontà della maggioranza: è questo il campo in cui si può pianificare, attraverso le leggi, aree “protette”, lasciate al non-umano, bandire alcune tipologie architettoniche, proibire materiali e tecnologie, incentivarne altre, ridurre il costruito o sostituirlo con villaggi di capan- ne. Questa, semplicemente, non è giurisdizione dell’architetto.
L’architettura esiste solo quando c’è trasformazione di un ambiente, ed è nel modo in cui ciò accade, cioè nel come l’ambiente viene trasformato, che l’architetto può intervenire, sce- gliendo che il suo manufatto sia di pietra, terra o cemento, che ospiti alberi e altre specie (a patto che, con le leggi attuali, la committenza accetti di perdere spazio) e da quali geometrie sia modellato. Perché l’architettura è sublime inutilità, è spazio, cioè linee, superfici, volumi: nient’altro.
Ciò non significa che gli architetti debbano restare a guardare mentre si distrugge la Ter- ra. L’arte, nel suo piccolo, influenza il mondo toccandone la coscienza (Argan), e anche l’architet- tura, mera istanza di forma, in questo perimetro d’azione ha un potere e una responsabilità: quella di esprimere l’identità dell’uomo, i suoi desideri, i suoi intenti più profondi. E, se da un lato esprime tutto questo, dall’altro può ispirare un’idea, può dar corpo a un sogno. Nel nostro tempo, l’Antropocene4, l’architettura può – deve – persino inventare e rappresentare uno scenario diverso, di coesistenza e simbiosi con la biosfera, suggerendo una strada nuova che, però, starà al mondo (e alla politica) ignorare o intraprendere.
(M. Coppola, Il ruolo dell’architettura nell’Antropocene, «Domus», 27 novembre 2018)
Comprensione e interpretazioneI
1 Spiega la funzione di ciascun capoverso nel confutare la tesi di Caffo e corroborare quella dell’autore. Il primo, ad esempio, espone la tesi da confutare.
2 Trovi che la scelta di spiegare il ruolo dell’architettura nella chiusa del testo sia efficace? Motiva la tua risposta.
3 Perché l’autore, pur delineando un ruolo attivo e positivo per l’architettura, parla di «sublime inutilità» (r. 47)?
4 In che senso un architetto può essere definito «retorico» in relazione alle tematiche ambien- tali?
5 Quali sono i limiti del campo d’azione dell’architetto secondo l’autore? In che modo, all’interno di questi limiti, l’architettura può diventare un modello positivo?
6 Riassumi il testo in 200 parole.
CommentoI
7 Scrivi un testo argomentativo in cui sostieni o confuti la posizione dell’autore stabilendo un confronto con almeno un caso in cui – nel Novecento – l’arte e l’architettura abbiano avuto uno stretto legame con ideali utopici.
4. Antropocene: il termine indica l’epoca geologica attuale, in cui l’ambiente è fortemente influenzato e modifica- to dall’azione dell’uomo.
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Ambito artisticoi Walter Benjamin L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica Con la fotografia, nel processo della riproduzione figurativa, la mano si vide per la prima volta scaricata delle più importanti incombenze artistiche, che ormai venivano ad essere di spettan- za dell’occhio che guardava dentro l’obiettivo. Poiché l’occhio è più rapido ad afferrare che non la mano a disegnare, il processo della riproduzione figurativa venne accelerato al punto da es- sere in grado di star dietro all’eloquio. L’operatore cinematografico nel suo studio, manovrando la sua manovella, riesce a fissare le immagini alla stessa velocità con cui l’interprete parla. Se nella litografia era virtualmente contenuto il giornale illustrato, nella fotografia si nascondeva il film sonoro. La riproduzione tecnica del suono venne affrontata alla fine del secolo scorso. Questi sforzi convergenti hanno prefigurato una situazione che Paul Valéry1 definisce con que- sta frase: «Come l’acqua, il gas o la corrente elettrica entrano grazie a uno sforzo quasi nullo, provenendo da lontano, nelle nostre abitazioni per rispondere ai nostri bisogni, così saremo approvvigionati di immagini e di sequenze di suoni, che si manifestano a un piccolo gesto, quasi un segno, e poi subito ci lasciano». Verso il 1900, la riproduzione tecnica aveva raggiunto un livello che le permetteva non soltanto di prendere come oggetto tutto l’insieme delle opere d’arte tramandate e di modificarne profondamente gli effetti, ma anche di conquistarsi un po- sto autonomo tra i vari procedimenti artistici. […]
Anche nel caso di una riproduzione altamente perfezionata, manca un elemento: l’hic et nunc dell’opera d’arte – la sua esistenza unica e irripetibile nel luogo in cui si trova. Ma proprio su questa esistenza, e in null’altro, si è attuata la storia a cui essa è stata sottoposta nel corso del suo durare. In quest’ambito rientrano sia le modificazioni che essa ha subito nella sua strut- tura fisica nel corso del tempo, sia i mutevoli rapporti di proprietà in cui può essersi venuta a trovare. La traccia delle prime può essere reperita soltanto attraverso analisi chimiche o fisiche che non possono venir eseguite sulla riproduzione; quella dei secondi è oggetto di una tradizio- ne la cui ricostruzione deve procedere dalla sede dell’originale.
L’hic et nunc dell’originale costituisce il concetto della sua autenticità. Analisi di genere chi- mico della patina di un bronzo possono essere necessarie per la constatazione della sua auten- ticità; corrispondentemente, la dimostrazione del fatto che un certo codice medievale proviene da un archivio del secolo XV può essere necessaria per stabilirne l’autenticità. L’intero ambito dell’autenticità si sottrae alla riproducibilità tecnica – e naturalmente non di quella tecnica soltanto. Ma mentre l’autentico mantiene la sua piena autorità di fronte alla riproduzione ma- nuale, che di regola viene da esso bollata come un falso, ciò non accade nel caso della riprodu- zione tecnica. Essa può, per esempio mediante la fotografia, rilevare aspetti dell’originale che sono accessibili soltanto all’obiettivo, che è spostabile e in grado di scegliere a piacimento il suo punto di vista, ma non all’occhio umano, oppure, con l’aiuto di certi procedimenti, come l’ingrandimento o la ripresa al rallentatore, può cogliere immagini che si sottraggono intera- mente all’ottica naturale. È questo il primo punto. Essa può inoltre introdurre la riproduzione
1. Paul Valéry: scrittore, poeta e filosofo francese (1871-1945).
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dell’originale in situazioni che all’originale stesso non sono accessibili. In particolare, gli per- mette di andare incontro al fruitore, nella forma della fotografia oppure del disco. La cattedrale abbandona la sua ubicazione per essere accolta nello studio di un amatore d’arte; il coro che è stato eseguito in un auditorio oppure all’aria aperta può venire ascoltato in una camera.
Le circostanze in mezzo alle quali il prodotto della riproduzione tecnica può venirsi a tro- vare possono lasciare intatta la consistenza intrinseca dell’opera d’arte – ma in ogni modo de- terminano la svalutazione del suo hic et nunc. Benché ciò non valga soltanto per l’opera d’arte, ma anche, e allo stesso titolo, ad esempio, per un paesaggio che in un film si dispiega di fronte allo spettatore, questo processo investe, dell’oggetto artistico, un ganglio che in nessun oggetto naturale è così vulnerabile. Cioè: la sua autenticità. L’autenticità di una cosa è la quintessenza di tutto ciò che, fin dall’origine di essa, può venir tramandato, dalla sua durata materiale alla sua virtù di testimonianza storica. Poiché quest’ultima è fondata sulla prima, nella riproduzio- ne, in cui la prima è sottratta all’uomo, vacilla anche la seconda, la virtù di testimonianza della cosa. Certo, soltanto questa; ma ciò che così prende a vacillare è precisamente l’autorità della cosa.
Ciò che vien meno è insomma quanto può essere riassunto con la nozione di «aura»; e si può dire: ciò che vien meno nell’epoca della riproducibilità tecnica è l’«aura» dell’opera d’arte. Il processo è sintomatico; il suo significato rimanda al di là dell’ambito artistico. La tecnica della riproduzione, così si potrebbe formulare la cosa, sottrae il riprodotto all’ambito della tradizio- ne. Moltiplicando la riproduzione, essa pone al posto di un evento unico una serie quantitativa di eventi. E permettendo alla riproduzione di venire incontro a colui che ne fruisce nella sua particolare situazione, attualizza il riprodotto. Entrambi i processi portano a un violento rivol- gimento che investe ciò che viene tramandato – a un rivolgimento della tradizione, che è l’altra faccia della crisi attuale e dell’attuale rinnovamento dell’umanità. Essi sono strettamente lega- ti ai movimenti di massa dei nostri giorni. Il loro agente più potente è il cinema.
(W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Arte e società di massa, trad. it. di E. Filippini, Einaudi, Torino 1998)
Comprensione e interpretazioneI
1 Descrivi la struttura argomentativa del testo e spiega sinteticamente la tesi di Walter Benja- min.
2 Quali cambiamenti ha introdotto la fotografia nella fruizione dell’opera d’arte? 3 Cosa intende Benjamin con «aura» (r. 52)? E perché egli ritiene che venga messa in crisi dalla
fotografia e dal cinema? 4 Che ruolo ha secondo te la citazione di Paul Valéry? 5 Ti sembra che Benjamin fornisca una valutazione dei cambiamenti innescati dalla fotografia e
dal cinema oppure che ne analizzi gli effetti in modo distaccato? Motiva la tua risposta basan- doti sul lessico e sulla struttura logica del testo.
6 Riassumi il testo in 200 parole circa.
CommentoI
7 Ti sembra che l’«aura» dell’opera d’arte abbia subito un ulteriore cambiamento nell’epoca di Internet? Esprimi la tua posizione in un testo di tre colonne al massimo.
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Ambito letterarioi Italo Calvino Esattezza Cercherò prima di tutto di definire il mio tema. Esattezza vuol dire per me soprattutto tre cose:
1) un disegno dell’opera ben definito e ben calcolato; 2) l’evocazione d’immagini visuali nitide, incisive, memorabili; in italiano abbiamo un
aggettivo che non esiste in inglese, «icastico», dal greco eikastikós; 3) un linguaggio il più preciso possibile come lessico e come resa delle sfumature del pen-
siero e dell’immaginazione. Perché sento il bisogno di difendere dei valori che a molti potranno sembrare ovvi? Credo
che la mia prima spinta venga da una mia ipersensibilità o allergia: mi sembra che il linguag- gio venga sempre usato in modo approssimativo, casuale, sbadato, e ne provo un fastidio intol- lerabile. Non si creda che questa mia reazione corrisponda a un’intolleranza per il prossimo: il fastidio peggiore lo provo sentendo parlare me stesso. Per questo cerco di parlare il meno pos- sibile, e se preferisco scrivere è perché scrivendo posso correggere ogni frase tante volte quanto è necessario per arrivare non dico a essere soddisfatto delle mie parole, ma almeno a eliminare le ragioni d’insoddisfazione di cui posso rendermi conto. La letteratura – dico la letteratura che risponde a queste esigenze – è la Terra Promessa in cui il linguaggio diventa quello che vera- mente dovrebbe essere.
Alle volte mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l’uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’e- spressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze. Non m’interessa qui chiedermi se le origini di quest’epidemia siano da ricercare nella politica, nell’ideologia, nell’uniformità burocratica, nell’omogeneizzazione dei mass-me- dia, nella diffusione scolastica della media cultura. Quel che mi interessa sono le possibilità di salute. La letteratura (e forse solo la letteratura) può creare degli anticorpi che contrastino l’espandersi della peste del linguaggio.
Vorrei aggiungere che non è soltanto il linguaggio che mi sembra colpito da questa peste. Anche le immagini, per esempio.
Viviamo sotto una pioggia ininterrotta d’immagini; i più potenti media non fanno che trasformare il mondo in immagini e moltiplicarlo attraverso una fantasmagoria di giochi di specchi: immagini che in gran parte sono prive della necessità interna che dovrebbe caratte- rizzare ogni immagine, come forma e come significato, come forza di imporsi all’attenzione, come ricchezza di significati possibili. Gran parte di questa nuvola d’immagini si dissolve im- mediatamente come i sogni che non lasciano traccia nella memoria; ma non si dissolve una sensazione d’estraneità e di disagio.
Ma forse l’inconsistenza non è nelle immagini o nel linguaggio soltanto: è nel mondo. La peste colpisce anche la vita delle persone e la storia delle nazioni, rende tutte le storie informi, casuali, confuse, senza principio né fine. Il mio disagio è per la perdita di forma che constato nella vita, e a cui cerco d’opporre l’unica difesa che riesco a concepire: un’idea della letteratura.
(I. Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Garzanti, Milano 1988)
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Comprensione e interpretazioneI
1 Analizza e illustra gli snodi argomentativi del testo di Calvino. 2 Spiega l’affermazione «La letteratura – dico la letteratura che risponde a queste esigenze – è la
Terra Promessa in cui il linguaggio diventa quello che veramente dovrebbe essere» (rr. 14-16). 3 Spiega l’affermazione «Ma forse l’inconsistenza non è nelle immagini o nel linguaggio soltanto:
è nel mondo» (r. 36). 4 Valuta le scelte espressive operate dall’autore, soffermandoti sul ricorso al linguaggio meta-
forico e ai campi semantici oppositivi ricorrenti (campo semantico oppositivo: un insieme di parole che rinviano a un’opposizione di significato, ad esempio: «alto-basso», «caldo-freddo», «giusto-sbagliato» ecc).
5 Riassumi il testo in 8 righe.
Commentoi
6 Considera il messaggio di Italo Calvino in relazione alla situazione odierna. Ti sembra mostrare ancora spunti di attualità? Argomenta la tua posizione in un commento di almeno tre colonne di foglio protocollo, da cui si evinca la tua tesi corredata da esempi tratti dalla realtà contem- poranea e dal mondo dei media.
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Ambito letterarioi Tullio De Mauro Scuola e linguaggio Se noi sottolineiamo il fatto che al momento della unificazione politica soltanto lo 0,8% della popolazione italiana conosceva l’italiano, non è per dire che i dialetti erano zizzania1, erano malerba, ma per fare tutt’altro discorso. Che cosa era male? Era male l’uso obbligatorio ed esclu- sivo del dialetto. Dov’era il drammatico? Non nella capacità del calabrese o del piemontese di parlare piemontese, ma nel fatto che il parlare calabrese per il calabrese e piemontese per il pie- montese era una specie di steccato e di ghetto. Il male era nel fatto che il calabrese non sapeva parlare altro che calabrese e il piemontese non sapeva parlare nient’altro che il piemontese. […] Quella che poteva essere (ed è, come vedremo) una ricchezza di mezzi espressivi (il possesso di questo idioma familiare e locale) diventava una pesante palla al piede, una gabbia.
La situazione era da questo punto di vista drammatica, perché, al di fuori del nucleo to- scano di circa mezzo milione di persone e al di fuori di un piccolo nucleo romano di circa settantamila persone, per il resto, su una popolazione di circa 20 milioni di abitanti quelli che parlavano italiano erano circa 160 000 o, meglio, quelli che avrebbero potuto parlare italiano erano 160 000. Perché, ovviamente, voi capite che Alessandro Manzoni, uscendo di casa a Mi- lano, non aveva senso che abbordasse in italiano la persona che incontrava, perché al 99% non sarebbe stato capito.
Dimodoché, come Manzoni stesso ci racconta, parlava dialetto lui, il più grande prosa- tore italiano, abitualmente; e lui stesso scriveva al ministro Broglio (ministro della pubblica istruzione dal nome singolare, quasi profetico, diciamo) che l’italiano, nel 1868, era ancora una «lingua morta». […]
Se voi andate a vedere i momenti di sviluppo del processo di acquisizione dell’istruzione da parte delle classi popolari, vi accorgerete che la spinta di questo processo non è in una de- cisione delle classi dirigenti, ma è largamente nelle spinte e nelle necessità maturate in quelle che la «Civiltà cattolica»2 chiamava «classi infime». Perché diciamo questo? Perché sulla carta l’obbligo dell’istruzione in Italia esisteva dal 18593, ma è rimasto inoperante finché non è stato conquistato e realizzato dalle classi popolari, anzitutto con la grande emigrazione4. […] Se voi andate a guardare statisticamente come vanno le cose, vedrete che nelle zone di maggiore emi- grazione si verificano i più alti incrementi di frequenza contadina e operaia nelle scuole. […]
Altri momenti di questo lungo processo di conquista della capacità di usare la lingua ita- liana sono le massicce migrazioni interne che hanno sconvolto completamente la demografia del Sud, del Centro e del Nord dell’Italia, o la diffusione dell’ascolto televisivo, a partire dal ’53, che, come risulta dai dati, ha inciso più della scuola. Vale a dire: se uno ha fatto cinque anni di scuola elementare e non ascolta mai la televisione e uno ascolta abitualmente la televisione e
1. zizzania: il senso letterale, su cui De Mauro voluta- mente gioca, indica il nome di un’erba infestante e, per- tanto, considerata nociva per le piantagioni. 2. «Civiltà cattolica»: rivista dei Gesuiti, schierata dopo l’Unità d’Italia su posizioni reazionarie e contrarie all’e- stensione dell’obbligo dell’istruzione elementare.
3. dal 1859: si riferisce alla legge Casati, varata nel Re- gno di Sardegna e poi estesa al neonato Regno d’Italia; rendeva obbligatorio il primo biennio della scuola ele- mentare. 4. grande emigrazione: allusione ai fenomeni migra- tori degli italiani all’estero (America del Sud e del Nord) tra il 1880 e il 1914.
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non ha fatto la scuola elementare, capisce e parla meglio l’italiano chi ascolta abitualmente la televisione e non ha fatto la scuola elementare, specie in area meridionale.
C’è dunque un influsso positivo che viene anche dalla «malfamatissima» televisione italiana; ma ciò si spiega per il fatto che in Italia la scuola funziona così male che persino Caro- sello5 riesce ad avere una funzione utile.
Terzo fatto importante è la diffusione dell’obbligo scolastico che ha portato agli inizi degli anni Sessanta il limite dell’obbligo dalla quinta elementare alla terza media, che ha determina- to una enorme crescita della scolarità, soprattutto giovanile. […]
In questa situazione, voi capite che le cose, dal punto di vista della lingua, si sono profon- damente modificate. Sapete che i dialetti si sono modificati, assorbendo parole ed espressioni italiane, addolcendo la loro fisionomia aspramente autonoma, e che è cresciuto enormemen- te il numero delle persone che parlano abitualmente l’italiano. Attualmente6 una valutazione globale è difficile; probabilmente siamo sul 50% della popolazione: cioè entrando in un negozio un italiano su due parla abitualmente in italiano, ma un italiano su due parla abitualmente in dialetto.
Ci troviamo dunque di fronte ad una situazione cambiata, ma, purtroppo, ancora piena di dislivelli drammatici; e di questa stratificazione sociale, che ancora esiste, dobbiamo renderci conto per capire quello che la scuola può e deve fare. Si tratta di dislivelli, anzitutto tra regioni della penisola, nel possesso di beni e nella capacità di accesso alle istituzioni culturali di base.
(T. De Mauro, Scuola e linguaggio, Editori Riuniti, Roma 1981)
Comprensione e interpretazioneI
1 Riassumi brevemente il contenuto del testo. 2 Analizza i connettivi logici (congiunzioni) e semantici (espressioni e frasi di raccordo, di ordine
ecc.) più utili a ricostruire la progressione delle idee nel testo. 3 Individua la tesi. 4 Nel passo l’autore fa rapidi cenni alle cause dell’estensione dell’italiano: ripercorri questi cenni
esplicitando quanto in essi resti eventualmente implicito. 5 Analizza il rapporto tra dialetti e lingua nazionale proposto da Tullio De Mauro nel testo. 6 Soffermati sul nesso che, secondo De Mauro, lega l’acquisizione progressiva dell’italiano da
parte della popolazione e la democrazia.
CommentoI
7 Il testo corrisponde a una conferenza tenuta dal linguista Tullio De Mauro nel 1974. Rifletti sull’attualità delle sue tesi e argomenta la tua posizione in un commento basato su un’analisi della “salute” della lingua italiana nella società contemporanea.
5. Carosello: programma televisivo che, tra il 1957 e il 1977, andava in onda tutti i giorni dalle 20:50 alle 21:00. Trasmetteva filmati come sketch comici di teatro legge-
ro e intermezzi musicali. 6. Attualmente: il dato che segue si riferisce al 1974, anno della conferenza da cui è tratto il passo proposto.
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Ambito letterarioi Umberto Eco Non fate il funerale ai libri
È sperabile che, quando questa Bustina1 uscirà, la buriana si sia calmata, ma mentre scrivo la mia estate è ossessionata da intere pagine culturali dei quotidiani i quali discutono se eventuali contratti degli autori per mettere le loro opere sui vari Kindle o iPad non preludano alla definitiva scomparsa del libro e delle librerie. Un quotidiano ha persino messo in bella evidenza una foto dei bouquinistes del Lungosenna dicendo che questi venditori di libri (vecchi) sono quindi destinati a sparire, senza considerare che, se davvero non si stampassero più libri, fiorirebbe proprio un ghiotto mercato librario vintage e le bancarelle, unico posto dove si potreb- bero trovare i libri di una volta, vivrebbero di nuova vita.
In realtà la domanda se siamo arrivati al tramonto del libro è iniziata con l’avvento del personal computer (e fanno ormai trent’anni), tanto che alla fine Jean-Claude Carrière2 e io ci siamo stancati di rispondervi e abbiamo pubblicato una lunga conversazione intitolata provo- catoriamente «Non sperate di liberarvi dei libri».
Sostenere un lungo avvenire per il libro non significa negare che certi testi di consulta- zione siano più comodi da trasportare su una tavoletta, che un presbite possa leggere meglio un giornale su un supporto elettronico dove può amplificare il corpo tipografico a piacere, che i nostri ragazzi possano evitare di inrachitirsi portando chili di carta nello zainetto. E neppure si vuole sostenere a ogni costo che per leggere Guerra e pace sotto l’ombrellone sia più comoda la forma-libro; io ne sono convinto, ma i gusti sono gusti, e auguro solo a chi ha gusti diversi di non incappare in una giornata di blackout. Ma la vera ragione per cui i libri avranno lunga vita è che abbiamo la prova che sopravvivono in ottima salute libri stampati più di cinquecen- to anni fa, e pergamene di duemila anni, mentre non abbiamo alcuna prova della durata di un supporto elettronico. Nel giro di trent’anni il disco floppy è stato sostituito dal dischetto rigido, questo dal dvd, il dvd dalla chiavetta, nessun computer è più in grado di leggere un floppy degli anni Ottanta e quindi non sappiamo se quanto c’era sopra sarebbe durato non dico mille anni ma almeno dieci. Quindi, meglio conservare la nostra memoria su carta.
Inoltre c’è una bella differenza tra toccare e sfogliare un libro fresco e odoroso di stampa e tenere in mano una chiavetta. Oppure tra ricuperare in cantina un testo di tanti anni fa che reca le nostre sottolineature e le nostre note a margine, facendoci rivivere antiche emozioni, e rileggere la stessa opera, in Times New Roman corpo 12, sullo schermo del computer. E anche ammesso che chi prova piaceri del genere sia una minoranza, su sei miliardi di abitanti del pianeta (ma saranno otto entro quindici anni), ci saranno abbastanza appassionati da sostenere un fiorente mercato del libro. E se poi usciranno dalle librerie e vivranno solo su Kindle o iPad i libri usa e getta, i best seller da leggere in treno, gli orari ferroviari o le raccolte di barzellette su Totti o sui carabinieri, tanto meglio, tutta carta risparmiata.
Anni fa deprecavo che nelle vecchie e ombrose librerie di un tempo chi vi entrava per cu- riosità fosse affrontato da un signore severo che domandava che cosa cercasse, e il malcapitato,
1. Bustina: «La bustina di Minerva» è una rubrica che Umberto Eco tenne ogni settimana sull’ultima pagina dell’«Espresso» a partire dal marzo del 1985.
2. Jean-Claude Carrière: scrittore e regista teatrale surrealista.
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intimidito, usciva subito. E giustamente trovavo più incoraggianti le nuove librerie-cattedrale dove si può stare seduti o accovacciati per ore a scoprire e sfogliare di tutto. Ora però, se le tavo- lette elettroniche assorbiranno tutto il mercato dei libri usa e getta, potrebbero ritornare buone le librerie dei tempi andati, dove gli affezionati andranno a cercare i libri che non si gettano. E poi, ricordo che anche in quelle librerie un ragazzo che faceva amicizia col libraio poteva lo stesso sostare per ore a curiosare tra gli scaffali.
Infine ricordiamo che mai, nel corso dei secoli, un nuovo mezzo ha sostituito totalmente il precedente. Neppure il maglio ha sostituito il martello. La fotografia non ha condannato a morte la pittura (se mai ha scoraggiato il ritratto, il paesaggio e incoraggiato l’arte astratta), il cinema non ha ucciso la fotografia, la televisione non ha eliminato il cinema, il treno convive benissimo con auto ed aereo.
Dunque avremo una diarchia tra lettura su schermo e lettura su carta, e in ogni caso au- menterà in modo astronomico il numero delle persone che impareranno a leggere – visto che persino gli sms sono potenti strumenti di alfabetizzazione dei ripetenti. E, se aumenterà l’anal- fabetismo di ritorno nella vecchia Europa decadente e malthusiana3, avremo miliardi di nuovi lettori in Asia e in Africa. E, per chi leggerà a cavalcioni del ramo di un albero nella foresta subtropicale, andrà sempre meglio un libro di carta che uno elettronico.
(U. Eco, Non fate il funerale ai libri, «L’Espresso», 5 agosto 2010)
Comprensione e interpretazioneI
1 Qual è la tesi sostenuta da Eco? Quali frasi, nella vasta serie di esempi e riflessioni, consentono di metterla a fuoco?
2 Quali posizioni estreme intende confutare Eco? 3 Pur nel tono leggero e ironico del testo, si colgono connettivi e scelte espressive proprie del
testo argomentativo. Rintracciali. 4 Riassumi il testo in 10 righe.
CommentoI
5 Argomenta le tue posizioni adottando uno stile agile e utilizzando, come avviene nel testo di Umberto Eco, la tecnica della confutazione. Se la tua posizione ricalca quella espressa da Eco, dovrai utilizzare esempi e riferimenti diversi da quelli presenti nel testo.
3. malthusiana: il malthusianesimo è una dottrina economica che si rifà alle idee delleconomista inglese Thomas Malthus (1766-1834), secondo le quali cè una forte relazione tra crescita demografica e diffusione della povertà.
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Ambito letterarioi Benedetta Craveri Marc Fumaroli: «Un’Europa fondata sulla cultura» A partire dall’età dell’Umanesimo fino alla fine dell’Antico Regime, nell’Europa insanguinata dalle ambizioni dinastiche, dalle guerre di religione e dalle rivalità tra le grandi potenze, lette- rati – oggi diremmo intellettuali – di nazionalità e di fedi diverse non smisero mai di dialogare tra di loro in piena libertà di pensiero, uniti nella ricerca comune del bello, del buono e del vero. Una società nella società, per la quale il veneziano Francesco Barbaro coniò, nel 1417, il nome di Respublica litteraria.
Essa si servì come lingua di comunicazione internazionale del latino, e per quanto invi- sibile, fu di grande importanza per la storia della cultura europea. A questa esperienza Marc Fumaroli1 dedica La République des Lettres (Gallimard), una raccolta di saggi che testimoniano di una lunga, dotta e appassionata frequentazione.
Quando è iniziato il suo interesse per la Repubblica delle lettere? «Quando ho letto l’epistolario di Petrarca e ho capito che mi trovavo davanti all’invenzione di una forma di relazione del tutto nuova, che connoterà la corrispondenza di Erasmo come quella di Voltaire. Nelle sue lettere Petrarca forniva agli uomini di alta cultura l’esempio di una solida- rietà amichevole, di una socievolezza all’insegna della delicatezza e della fiducia, capace di tra- scendere le tensioni polemiche e i conflitti passionali in nome di un livello di civiltà superiore. Una forma di saper vivere che darà luogo a quello che chiamiamo civiltà europea».
A quando risale questa lettura? «Agli anni della mia formazione. È stato il Petrarca filologo, innamorato dei testi antichi, a far- mi capire come l’educazione umanista abbia il vantaggio di introdurci in un universo del tutto diverso da quello in cui viviamo. È questa distanza fra il mondo dei libri e il mondo reale che permette di acquisire un atteggiamento critico e che consente di vivere su due diversi registri, di giudicare l’uno attraverso l’altro, di non limitarsi a quello dell’attualità». […]
Non sempre, però, le relazioni tra membri della Repubblica delle lettere erano così ecu- meniche e amichevoli. Basta pensare alla guerra fra Poggio Bracciolini e Lorenzo Valla a proposito del De rerum natura di Lucrezio. «Ma anche le liti più aspre si svolgevano in un’atmosfera che era di considerazione reciproca. Quando Bayle affermava che “la Repubblica delle lettere era una guerra permanente, dove il padre non esitava a condannare il figlio”, intendeva dire che l’onestà intellettuale imponeva tanto l’autocritica che la critica, a garanzia contro i ciarlatani e le idee false».
1. Marc Fumaroli: Fumaroli, che qui rilascia un’intervista al quotidiano «la Repubblica», è uno storico e saggista francese, membro dell’Académie Française dal 1995. È noto in particolare per aver ripreso gli studi sulla retorica nel mondo universitario francese.
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Nell’Età dell’eloquenza lei rinnova gli studi di retorica e ne riafferma l’importanza. Perché, come sosteneva anche Ezio Raimondi, è essenziale per lo studio delle lettere? «La retorica è una griglia interpretativa ma, in primo luogo, è un’educazione delle forme. Essa insegna a non considerare la parola come l’espressione egoista del proprio io ma come il desi- derio di rivolgersi all’altro. Non è un sistema di dogmi, è il risultato di un’esperienza profonda del linguaggio, è il ricorso a una tradizione, a dei modelli che ci permettono di adattare il nostro discorso alle circostanze. E con essa le relazioni sociali sono più feconde. La retorica è una vit- toria sulla violenza».
Se la retorica è l’arte di adattarsi al pubblico cui ci si rivolge, essa non risponde anche agli obiettivi della produzione culturale contemporanea? «La retorica non si riduce a un adattamento servile della parola all’opinione pubblica e al po- litically correct anonimo. Se così fosse il suo ideale sarebbe la pubblicità di massa o, peggio, la propaganda populista. Essa ha imparato da Socrate che per persuadere bisogna screditare gli errori correnti. La letteratura e la poesia attuali, quando sfuggono alla tirannide della pubblicità commerciale e ideologica, si rivolgono a individui che cercano di sottrarsi al condizionamento sociale, e non già alla folla che chiede di essere condizionata».
Lei dichiara di vivere in due temperie culturali diverse. Ma quando smette di colloquiare con gli autori del passato e si confronta con il mondo contemporaneo, il suo approccio è fortemente polemico. «Quello che mi ha consentito di passare dalla dimensione di studioso del passato a quella dell’attualità è innanzitutto il problema dell’educazione dei giovani. Un problema fondamen- tale, che è al cuore della tradizione classica e umanistica, e di cui abbiamo sottovalutato troppo l’importanza. Oggi, in Francia come in Italia, l’educazione si pone come obiettivo di acclimata- re i giovani al mondo in cui sono nati, là dove sarebbe necessario insegnare loro il contrario di quanto si vede dalla mattina alla sera sui loro schermi. Il che non significa un rifiuto del mondo attuale, ma l’invito a guardarlo in una prospettiva critica».
Cosa pensa delle discussioni seguite alla tragedia di Charlie Hebdo2 su libertà d’espressio- ne e diritto o meno alla blasfemia? «La libertà d’espressione è una delle grandi conquiste moderne della civiltà europea, perseguita fin dall’inizio dalla Repubblica delle lettere. Ma la libertà d’espressione non può voler dire una li- bertà “espressionista”, senza legge, senza regola, senza tatto. La libertà d’espressione, come la liber- tà tout court, implica padronanza di sé e considerazione per l’altro. Anche la satira ha i suoi limiti. E la blasfemia non è il metodo più sottile ed efficace per rendere odiosi il fanatismo e la barbarie».
(B. Craveri, Marc Fumaroli: «Un’Europa fondata sulla cultura», «la Repubblica», 21 marzo 2015)
2. tragedia di Charlie Hebdo: Charlie Hebdo è un periodico settimanale satirico francese; il 7 gennaio 2015 nella sua sede furono uccise, in un attentato di matrice islamica, dodici persone, tra le quali il direttore, a seguito della pubblicazione di vignette irriverenti nei confronti dell’Islam.
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Comprensione e interpretazionei
1 Ricava dalle risposte di Marc Fumaroli una sintesi dei temi affrontati, la sua tesi e le relative sottotesi.
2 Rielaborando le parole dello studioso, spiega che cosa intende per «Repubblica delle lettere» e perché la considera un valore ancora attuale.
3 In alcuni punti dell’articolo l’intervistatrice avanza delle possibili obiezioni a quanto sostenuto da Marc Fumaroli. Individua i passaggi precisi e la sostanza delle obiezioni mosse, quindi ricava dalle risposte le contro-obiezioni dello studioso.
4 Spiega e commenta l’affermazione «La retorica è una vittoria sulla violenza» (rr. 37-38). 5 Individua la relazione logica che lega l’ultima domanda al resto dell’intervista.
CommentoI
6 L’intervista affronta il tema dell’educazione, che si ritiene finalizzata non ad aiutare i giovani ad “acclimatarsi” nella situazione attuale, bensì a formare la loro capacità di guardare il mondo secondo una prospettiva critica. Sei d’accordo con questa tesi? Ritieni che scuola e istruzione davvero offrano strumenti per assumere uno spirito critico? Argomenta la tua posizione dopo avere commentato le affermazioni di Marc Fumaroli.
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Ambito letterarioi Ezio Raimondi L’estetismo di d’Annunzio e la volgarità del mondo moderno La volgarità del mondo moderno fa sempre da retroscena o da cornice all’estetismo dannun- ziano, e ne rappresenta alla fine il polo negativo, il contrappunto dialettico. Viene alla memoria l’esordio del Piacere, dove si spiega, con una correlazione quanto mai sintomatica e scoperta- mente ideologica, che «sotto il grigio diluvio democratico odierno, che molte belle cose e rare sommerge miseramente, va anche poco a poco scomparendo quella special classe di antica no- biltà italica, in cui era tanto viva di generazione in generazione una certa tradizione familiare d’alta cultura, d’eleganza e di arte» […].
Mentre scorge nel realismo della grande città contemporanea la morte dell’arte e intrave- de il difficile rapporto tra letteratura e incipiente società di massa, il d’Annunzio avverte anche però, all’interno del mondo borghese, un’inquietudine diffusa, un’esigenza di sottrarsi all’ordi- ne della razionalità quotidiana, di cui non possono più essere interpreti a suo avviso, dopo il fal- limento di uno Zola, né i discepoli del pessimismo di Schopenhauer né gli scrittori della morale evangelica slava e a cui può dare invece una risposta la «grande orchestra wagneriana», poiché «soltanto alla musica è dato esprimere i sogni che nascono nella profondità della malinconia moderna». Queste ultime parole si leggono nella «Tribuna»1 del 1893 e hanno un’importanza che non è certo sfuggita ai critici: ma per intenderle sino in fondo, conviene forse collegarle a quanto il d’Annunzio sosterrà, due anni dopo, nell’intervista con l’Ojetti2, rifacendosi appunto alle idee degli articoli su Zola, Wagner e Nietzsche, ma in un contesto più ricco e con l’occhio rivolto al destino della letteratura nel mondo moderno. A differenza di coloro che temono, con la fine del secolo, il naufragio di tutte le cose belle e di tutte le idealità, l’intervistato dichiara tra l’altro che il mercato editoriale, dove «migliaia e migliaia di volumi si propagano come fo- glie d’una foresta battute da un vento d’autunno» e dove i giornali, anziché uccidere il libro, lo rilanciano tra un pubblico più largo, dimostra la vitalità dell’opera letteraria meglio di qualsiasi ragionamento: ed è una vitalità, poi, che dipende proprio dalle nuove strutture della società capitalistica e dall’appetito sentimentale della «moltitudine», la quale ha bisogno di una proie- zione al di fuori della vita borghese d’ogni giorno. […]
Al d’Annunzio dunque non sfugge il bovarismo che fermenta nel cuore delle masse mo- derne, e anche se egli considera la letteratura di consumo, che vi corrisponde, come un prodotto di corruzione rispetto a un’arte illustre, è chiaro però che il fenomeno ha per lui un significato decisivo, in quanto indica una direzione lungo la quale deve muoversi lo scrittore in armonia con lo spirito del proprio tempo […] alla ricerca di una rispondenza tutt’altro che occasionale tra la letteratura e il pubblico mediante un rapporto che è insieme una legge di mercato. Il co- siddetto istinto dannunziano appare anche, in fondo, il frutto di un calcolo, di un’intelligenza che anticipa e asseconda con le proprie invenzioni le inquietudini, i furori nascosti di una so- cietà in equilibrio precario. […] L’idea della bellezza che chiude il dialogo con l’Ojetti, e che poi
1. «Tribuna»: giornale quotidiano fondato a Roma nel 1883.
2. Ojetti: Ugo Ojetti (1871-1946), giornalista e scrittore italiano.
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si ritrova, a tacere del resto, in tutti i romanzi, comporta una protesta informe contro il mondo borghese delle cose grigie, disumane, disperse, e con la promessa di “continuare” la natura in un ciclo infinito di esaltanti epifanie esige un’identificazione di arte e vita, che alla lunga si traduce, per la letteratura, nella necessità di trascendere di continuo se stessa, di farsi gesto, evento mitico d’una esistenza totale.
Assunta così quale principio unico di verità, la religione della bellezza diventa però nello stesso tempo un mezzo per blandire il pubblico nel suo amore dell’irrazionale e per suggerirgli una nostalgia anarchica, i cui contenuti prendono quasi il valore di ambigue formule magiche.
(E. Raimondi, Volgarità e importanza del pubblico moderno secondo d’Annunzio, da Una vita come opera d’arte, in I sentieri del lettore, il Mulino, Bologna 1994, vol. III)
Comprensione e interpretazionei
1 Ricava da ciascun capoverso la frase tematica (o le frasi tematiche) che ne condensa il senso. 2 Rileggi il secondo capoverso e analizza i connettivi che meglio consentono di comprendere la
progressione delle idee, individuando anche il tipo di rapporto logico che istituiscono tra un passaggio e l’altro (causa-effetto, correlazione, opposizione, parallelismo ecc.).
3 Riassumi l’ambiguo rapporto che, secondo Raimondi, d’Annunzio instaura con il pubblico delle sue opere letterarie.
4 Come valuta d’Annunzio la «vitalità del mercato editoriale» dei suoi tempi? Come si può con- ciliare questo suo giudizio con il disprezzo verso l’arte di consumo?
5 Raimondi, per definire l’atteggiamento del pubblico moderno, parla di «bovarismo» (r. 27). Dai una definizione precisa del termine e spiega in che senso può essere usato per indicare le aspettative delle masse di lettori del tempo.
6 In che senso d’Annunzio può affermare che la grande diffusione dei giornali ai suoi tempi non è in concorrenza con il libro, ma al contrario ne può supportare e rilanciare la diffusione?
Commentoi
7 Esponi sinteticamente la tesi esposta nel testo. Commenta, alla luce di questo giudizio, la novità introdotta da d’Annunzio nel rapporto con il pubblico e rifletti su altri casi letterari, au- tori e generi a te noti, il cui successo sia dovuto a un approccio simile. Esprimi quindi una tua opinione sull’idea che la letteratura, o l’arte in genere, debba corrispondere in primo luogo al gusto del pubblico.
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Ambito letterario – Testi a confrontoi Testo 1 Gian Biagio Conte Radici classiche ed Europa moderna L’Europa è la sua storia. E questa sua storia è in gran parte storia delle idee filosofiche dell’Oc- cidente: non la storia di un’unica idea che permette una sola tradizione, ma la storia di una tradizione che permette le idee più diverse. Non è la storia di una prigione mentale, è piuttosto la storia – talvolta dolorosa, talvolta impazzita – della provincia del mondo che ha conosciuto la fioritura più varia e ricca di idee (buone e cattive), spesso in contrasto tra loro.
Nella fase di globalizzazione, quale è quella verso cui siamo inevitabilmente sospinti, ri- cercare l’identità è opportuno; anzi è necessario, altrimenti questa si perde; ma perderla signi- ficherebbe un indebolimento dei rapporti con le altre culture. Non avremmo niente da portare agli altri. Ma il nostro Umanesimo occidentale deve anche modulare un modo diverso per ri- entrare in possesso della tradizione classica. Non ci basta più un modello di classico assoluta- mente universale, ove la cultura europea si esima dal confronto con le altre culture: dobbiamo prepararci ad una «cena collaticia», ad un éranos greco, quel tipo di banchetto in cui ciascuno porta la sua quota per allestire la cena comune. Proprio perché si abbia qualcosa da offrire, bi- sogna – da un lato – non perdere le proprie radici – dall’altro – non abbarbicarsi immobilmente ad esse.
Nel panorama della mondializzazione e del multiculturalismo, termini di cui tanto si fa abuso, esiste una sorta di strabismo da evitare. Con un occhio si guarda a una cultura planetaria che risulterebbe, alla maniera dell’esperanto, dalla convergenza e fusione delle varie culture; con l’altro si percepisce che le culture politicamente ed economicamente più deboli si chiu- dono a riccio su se stesse applicando il cosiddetto fondamentalismo (e si sa che i fondamen- talismi sono soprattutto paura di uno sradicamento). Raddrizzare gli occhi, guardando avanti, significa essere consapevoli che i processi storici possono condurre al di là di una semplice convergenza: possono produrre cioè una polifonia. Dal che risulta sbagliato tanto proporre la propria cultura come un superclassico per l’intera umanità, quanto abbandonarla in cerca di mediazioni superficiali. Per l’Occidente non perdere una delle sue tre radici – Atene, Roma, Gerusalemme – significa anche portare una maggiore ricchezza nell’incontro-scontro con le altre culture mondiali. […] Se non rinfreschiamo i nostri pensieri l’identità scompare, lavata via. Noi permaniamo soltanto trasformandoci, e l’identità non è qualcosa di dato, insomma, ma di ininterrottamente costruito. La staticità non esiste nella storia. Se applichiamo con libertà questo modello alla cultura umana, l’identità dell’Occidente, già composta di tanti fili intrec- ciati (già plurima, già plurale), si conferma soltanto rinnovandosi. Nella nostra futura ma pre- vedibile prospettiva, le grandi culture, rimaste a lungo isolate o più recentemente conosciute solo da grandi specialisti, sono destinate a incontrarsi nelle esperienze di centinaia di migliaia di uomini (milioni di Musulmani in Europa, di Latinos negli Stati Uniti, di Indiani in Sud Africa ecc.). Questo dovrà trasformare anche la nostra immagine dell’antichità nel senso che le radici dell’Umanesimo greco-latino vanno ripensate in confronto con le radici delle altre civiltà. Il confronto ora diventa macroscopico ed anche le competenze di frontiera vanno inventate.
(G. B. Conte, Identità storica e confronto culturale: dieci punti sulla tradizione umanistica europea, Utet, Torino 2006)
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Testo 2 Maurizio Bettini Contro la relazione radici-identità L’associazione fra tradizione e identità ricorre sempre più frequentemente nel nostro dibattito culturale, quasi che l’identità collettiva – l’identità di un certo gruppo – dovesse essere conce- pita come qualcosa che deriva direttamente e unicamente dalla tradizione. Una delle afferma- zioni oggi più circolanti [...] è proprio la seguente: «l’identità si fonda sulla tradizione». Basta rammentare gli anatemi che negli scorsi anni sono stati lanciati, anche in Italia, contro l’im- migrazione, in particolare islamica, e i mutamenti culturali che da essa sarebbero provocati. [...] A giudizio di chi la pensa in questo modo, accettare la crescita delle comunità islamiche nel nostro Paese significherebbe automaticamente mettere a repentaglio la nostra identità di italiani, di europei o di occidentali, a seconda delle circostanze. Queste persone sembrano dare insomma per scontato il fatto che l’identità sia un prodotto della tradizione, delegando con questo al passato [...] il potere di dirci «chi siamo» nel presente.
L’esempio forse più esplicito di questo atteggiamento ci viene da un discorso che Marcello Pera, allora Presidente del Senato, pronunciò alcuni anni fa [...]: «I fondamenti morali li offrono le tradizioni. La nostra storia è giudaico-cristiana e greco-romana. Scendiamo da tre colline, il Sinai, il Golgota, l’Acropoli. E abbiamo tre capitali: Gerusalemme, Atene, Roma. Questa è la no- stra tradizione. Da qui sono nati i nostri valori [...]».
La posizione è chiara: l’identità viene dalle tradizioni (giudaico-cristiana e greco-romana) e risiede in specifici luoghi mitologizzati, veri e propri monumenti della memoria culturale quali il Sinai, l’Acropoli e il Golgota, ovvero Gerusalemme, Atene e Roma. Il rapporto causa/effetto che viene stabilito fra tradizione e identità [...] emerge direttamente dalle stesse metafore che [...] vengono usate per parlarne. Quando si vuole indicare la tradizione culturale di un gruppo o di un paese, infatti, l’immagine più ricorrente è quella delle radici. [...]. Questa immagine ha la ca- pacità di suggestionare fortemente qualsiasi discorso su identità e tradizione, e per un motivo abbastanza semplice: in un campo così astratto come quello delle determinazioni filosofiche o antropologiche, l’immagine delle radici permette di sostituire il ragionamento direttamente con una visione [...]. Nessuno ha mai visto la propria tradizione, tantomeno avrà visto la propria identità, ma tutti nella loro vita hanno visto delle radici: in una discussione sulla tradizione, anche il più accanito dei tradizionalisti avrebbe difficoltà a dirci quale tradizione effettivamen- te intenda come la «vera» tradizione del gruppo, e da che cosa sia concretamente rappresentata per lui questa tradizione. Lo stesso discorso vale per quella cosa che chiamiamo identità. Ecco il motivo per cui è molto meglio spostare tutto sul piano della metafora, e far balenare allo sguardo dell’ascoltatore semplicemente delle radici. Questa immagine, infatti, come direbbe Cicerone, «pone al cospetto dell’animo ciò che non potremmo né distinguere né vedere» [...]. [Inoltre] tramite questa immagine vitale, la tradizione viene chiamata a far parte addirittura dell’ordine naturale, e dall’intrinseca validità di quest’ordine – chi oserebbe mai contrastare la natura? – riceve automaticamente anche la propria giustificazione. […] Il rapporto di determi- nazione fra tradizione e identità assume in questo modo l’aspetto di una forza che scaturisce direttamente dalla natura organica. Se un albero è quel certo albero perché è cresciuto da quelle radici, noi siamo noi perché siamo cresciuti dalle radici della nostra tradizione culturale. In un certo senso, è come se noi non potessimo essere altrimenti. [...]
Come se non bastasse, la metafora delle radici ha dalla sua non solo la forza della vita, ma anche quella, potremmo dire, della posizione relativa. Basta considerare qual è la collocazione
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di questa componente della pianta rispetto alle altre. Le radici stanno in basso, cioè al fondo rispetto a tronco, rami, foglie. Di conseguenza il paradigma metaforico arboricolo viene insen- sibilmente, ma altrettanto inevitabilmente, messo in risonanza con ciò che è fondamentale. [...]. Ne deriva che le radici – in quanto costituiscono la base della pianta – sono non solo forti e vive, ma anche fondamentali. Se dunque si congiungono per via di metafora radici e tradizione, si fa di quest’ultima qualcosa non solo di biologicamente necessario, ma anche di fondamentale nell’esperienza e nell’identità di una persona. [...]
Inutile dire che il ricorso alla metafora arboricola punta a questo scopo: costruire un vero e proprio dispositivo di autorità che, attraverso i contenuti evocati dall’immagine, si alimenta di nuclei semantici forti quali la vita, la natura, la necessità biologica, la gerarchia di posizione e così via. [...] Una volta che questo dispositivo di autorità sia stato messo in movimento, la con- seguenza non può che essere la seguente: l’identità culturale predicata attraverso la metafora delle radici viene estesa a un intero gruppo, indipendentemente dalla volontà dei singoli. [...] Una volta «radicati» in una certa tradizione, scegliere autonomamente la propria identità cul- turale diventa impossibile, ci si può solo riconoscere in quella che altri hanno costruito per noi. Eppure, se Voltaire poteva scrivere che «ogni uomo nasce con il diritto naturale di scegliersi una patria» a maggior ragione si dovrà dire che ogni uomo nasce con il diritto naturale di sce- gliersi una cultura.
(M. Bettini, Contro le radici. Tradizione, identità, memoria, il Mulino, Bologna 2012)
Comprensione e interpretazioneI
1 Individua il tema/problema che i passi hanno in comune. 2 Scegli nel passo di Conte una frase che a tuo avviso sintetizza al meglio la sua posizione e
commentala. 3 Allo stesso modo, scegli una frase particolarmente significativa del brano di Bettini e commen-
tala.
CommentoI
4 Elabora ora un commento argomentativo ai due testi, articolato come segue: a. presenta le tesi esposte dai due studiosi mettendo in evidenza gli eventuali punti di con-
vergenza e le differenze; b. inquadra il tema affrontato in un contesto di riferimento che permetta di coglierne l’attua-
lità e le implicazioni nella società contemporanea; c. esprimi un tuo parere motivato sul tema e sulle posizioni espresse dai due autori.
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Ambito storicoi Carlo M. Cipolla Sull’utilità della storia Nel corso della storia ricorrono frequenti situazioni che mostrano tra di loro rimarchevoli ana- logie. Ma per quanto marcate possano risultare tali analogie ogni situazione storica rimane unica ed irripetibile. Si può indulgere in un rozzo parallelo dicendo che esistono individui che si somigliano ma ciò non toglie che ciascuno di essi sia unico ed irripetibile. Il fatto fondamen- tale della irripetibilità della storia conferisce un particolare significato al detto tradizionale «historia magistra vitae». In effetti c’è incompatibilità tra l’affermazione che la storia si ripete e la norma che «la storia è maestra di vita» perché, se una data situazione si ripetesse, coloro che una volta hanno perduto, la volta seguente, traendo vantaggio dall’esperienza, si comporte- rebbero in maniera diversa per evitare di essere nuovamente perdenti e per via di questo loro comportamento diverso la nuova situazione si differenzierebbe da quella precedente.
Henry Kissinger scrisse una volta che la storia «non è un libro di cucina che offre ricette già sperimentate». Una tale affermazione è il corollario del postulato precedente che la storia non si ripete. A questo punto mi immagino che ci sia chi si chieda a che serve allora studiare la storia. A mio modo di vedere la domanda è rozzamente stupida. Ogni forma di sapere si giusti- fica in quanto tale. Nel caso specifico della storia ho anche difficoltà a concepire una società ci- vile che non sia interessata allo studio delle proprie origini. La storia ci dice chi siamo e perché siamo quel che siamo. «Noi uomini siamo sempre coinvolti in storie», scrisse Wilhelm Schapp. Tutto ciò per me è elementare. Ma sono convinto che non siano pochissimi coloro che con- siderano una tale posizione elitistica e socialmente ingiustificabile. Per costoro, ammalati di utilitarismo benthamita1, […] penso che sia opportuno fare ulteriormente rilevare che lo studio della storia ha un significato eminentemente formativo. Come scrisse Huizinga2, la storia non è soltanto un ramo del sapere ma anche «una forma intellettuale per comprendere il mondo». Anzitutto lo studio della storia permette di vedere nella loro corretta dimensione storica pro- blemi attuali con cui dobbiamo confrontarci e, come scrisse Richard Lodge3 nel 1894, «esso offre l’unico strumento con il quale l’uomo può comprendere a fondo il presente».
D’altra parte lo studio della storia rappresenta un esercizio pratico nella conoscenza dell’uomo e della società. Tutti noi si tende ad essere provinciali, intolleranti ed etnocentrici. Tutti noi si ha bisogno di compiere sforzi continui per esercitarci ad essere comprensivi e in- telligenti di sistemi di vita, scale di valori, modi di comportamenti diversi dai nostri – il che sta alla base di ogni convivenza civile tra gli individui come tra i popoli. Lo studio della storia è essenziale al riguardo. Studiare la storia vuol dire compiere un viaggio nel passato che la ricerca storica comporta. Viaggiare apre gli occhi, arricchisce di conoscenza, invita ad aperture menta- li. Più lungo è il viaggio e più distanti i paesi visitati, più robusto è il challenge4 alla nostra visione del mondo. Per questo io credo che gli storici che si occupano di società più lontane nel tempo
1. utilitarismo benthamita: ci si riferisce al filosofo e giurista inglese Jeremy Bentham (1748-1832), teori- co dell’utilitarismo, secondo cui ogni individuo tende naturalmente al proprio utile, che non confligge ma si armonizza con il bene comune. Bentham contesta dun- que la tradizionale condanna cristiana dell’egoismo.
2. Huizinga: Johan Huizinga (1872-1945), storico olan- dese. 3. Richard Lodge: Lodge (1855-1936) è stato uno storico britannico. 4. challenge: sfida.
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35 dalla nostra abbiano, a parità di altre condizioni, un senso storico più sottile ed affinato degli storici di età a noi più vicine. Con questo non voglio, né intendo dire, che lo studio della storia o il viaggiare bastino a fare di un uomo un saggio. Se così fosse i professori di storia sarebbero tutti dei saggi – il che è ben lungi dall’essere vero. Il viaggio e una conoscenza della storia sono condizioni necessarie ma non sufficienti alla comprensione degli eventi umani.
(C. M. Cipolla, Introduzione alla storia economica, il Mulino, Bologna 2003)
Comprensione e interpretazioneI
1 Il brano si presenta diviso in tre capoversi: ti sembra che tale divisione rispecchi l’andamento dell’argomentazione dell’autore? Se non è così, spezza i paragrafi esistenti con dei nuovi a capo. Infine, dai un titolo a ogni capoverso ottenuto.
2 Quale similitudine, nelle prime righe del brano, è utilizzata dall’autore per spiegare l’irripetibi- lità dei fatti storici?
3 Qual è il problema – la domanda di fondo – da cui prende le mosse Carlo Cipolla? 4 Riepiloga, per punti, gli argomenti proposti da Carlo Cipolla per giustificare l’importanza dello
studio della storia. 5 Che cosa intende dire l’autore con la frase: «Più lungo è il viaggio e più distanti i paesi visitati,
più robusto è il challenge alla nostra visione del mondo»? 6 È corretto affermare che, secondo Cipolla, gli storici dell’antichità hanno «un senso storico più
sottile ed affinato» di quelli – poniamo – dell’età contemporanea? In che senso? 7 Sulla base di quanto hai letto in questo brano, indica quali affermazioni, a tuo parere, l’autore
potrebbe sottoscrivere: a. La storia ci insegna a capire quali valori, quali visioni del mondo sono più giuste delle altre. b. Studiare la storia è importante, ma ancor più importante è viaggiare per conoscere il mondo
direttamente. c. Studiare la storia è importante anche a prescindere da qualsiasi criterio di utilità della disci-
plina. d. La storia è «maestra di vita» perché nel presente si ripetono situazioni già vissute nel pas-
sato. e. La storia è «maestra di vita» in quanto ci racconta qualcosa di noi, delle nostre origini. f. Senza conoscere la storia è impossibile capire il presente.
CommentoI
8 Scrivi un testo argomentativo di almeno due colonne di foglio protocollo in cui esporrai il tuo punto di vista sull’importanza della storia nella formazione degli individui e nel governo delle società e degli esseri umani. Dichiara in particolare la tua posizione circa: a. l’affermazione per la quale studiare la storia è importante per il semplice fatto che «ogni
forma di sapere si giustifica in quanto tale»; b. l’utilità della storia: se la storia non si ripete mai, gli insegnamenti del passato sono davvero
utili?
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Ambito storicoi Giovanni De Luna L’uso pubblico della storia al tempo del web Uno storico che parla in prima persona, che si propone con la consapevolezza che i gesti e le parole sono parte essenziale della sua lezione esattamente come i contenuti che sviluppa, è uno che ha accettato di scendere nella grande arena dell’uso pubblico della storia, raccogliendo una sfida che ha come posta in gioco la capacità di costruire quelle rappresentazioni del passato in grado di diffondere sapere storico. Da questo punto di vista, sembra quasi che restituire una faccia e un corpo agli storici sia una reazione all’impalpabilità del web, a una virtualità che ha progressivamente disincarnato la storia per consegnarla in maniera confusa e dimessa al mondo piatto e grigio della rete.
Riguardo alla televisione, la rottura con i ruoli tradizionali è stata ancora più drastica. Gli inizi erano stati tutt’altro che promettenti, con l’accusa alla Tv di impoverire il senso del tempo e della storia nell’uomo moderno scagliata da chi vide (McLuhan1) l’epoca del villaggio globale contrassegnata da una marcata contiguità tra luoghi e culture che in precedenza apparivano lontanissime tra loro, avviluppate da un tempo diafano, sottile, appiattito sull’istante, da con- sumarsi febbrilmente e voracemente. Questo non impedì ad alcuni storici prestigiosi di transi- tare direttamente dall’accademia ai palinsesti della Tv: in Francia, alla fine degli anni Settanta, Fernand Braudel e George Duby2 collaborarono assiduamente a fortunate serie televisive, ispi- randosi ai temi della loro produzione scientifica. In quelle esperienze, però, non si avvertiva nes- suna consapevolezza delle implicazioni insite nel passaggio dalla scrittura all’audiovisione: tra- sportare di peso nell’universo televisivo le regole stilistiche e argomentative del racconto scritto non era certamente la soluzione più adatta per alimentare un fecondo interscambio. I due mon- di restarono sostanzialmente separati alimentando, da un lato, l’indifferenza o il disprezzo di quelli che consideravano l’apparire in Tv una gravissima infedeltà nei confronti della propria disciplina, dall’altro, il senso di delusione di quelli che avevano accettato di collaborare e che, abituati a comunicare attraverso la parola scritta, si erano trovati smarriti rispetto ad un altro tipo di linguaggio, fatto di immagini, parole, musica, e di un diverso senso del tempo e del ritmo.
Oggi tutto questo appare superato e tra gli storici si è diffusa la consapevolezza che si pos- sa utilizzare anche la Tv per raccontare la storia in modo efficace e credibile. Consapevolezza confermata dal successo che ha una trasmissione come Il tempo e la storia che la Rai ha scelto di trasmettere su una rete generalista in una fascia oraria in precedenza occupata da una soap opera. La sfida per uno studioso è acquisire familiarità con le specificità del modello narrativo televisivo e confrontarsi con le possibili contaminazioni tra questo e quello del racconto storico tradizionale, in una sintesi che offra allo storico uno strumento originale, in grado di sciogliere le contraddizioni e i dubbi del passato. Il crocevia di questo passaggio sembra essere proprio la personalizzazione del suo ruolo. Perfino nei manuali (roccaforti della tradizione) sono compar- se le fotografie degli autori, quasi a volere dare alla parola scritta il tono colloquiale e disteso dello studio televisivo e rendere riconoscibile un’autorialità anche fisicamente palpabile.
1. McLuhan: Marshall McLuhan (1911-80) fu un socio- logo e filosofo canadese.
2. Fernand Braudel e George Duby: Braudel (1902-85) e Duby (1919-96) sono ritenuti tra i massimi storici del Novecento.
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Resta una considerazione sul tributo che la storia e gli storici pagano a uno spirito del no- stro tempo segnato da una progressiva individualizzazione delle forme in cui la cultura viene prodotta e viene consumata. La storia, uscita dall’accademia, si è imbattuta in questa deriva, ne è stata avvinta, conquistata e ha preteso che gli storici offrissero al pubblico anche i loro vissuti e la loro personalità. D’altronde lo aveva scritto tanti anni fa Edward Carr3: leggendo un libro di storia occorre innanzi tutto prestare attenzione allo storico, per «sentire che cosa frulla» nella sua testa: «Se non sentiamo niente, o siamo sordi o lo storico in questione non ha nulla da dirci».
(G. De Luna, L’uso pubblico della storia al tempo del web, «la Repubblica», 1 novembre 2015)
Compressione e interpretazioneI
1 Osserva la fonte al fondo del brano: come vedi, l’articolo – apparso originariamente su un quo- tidiano – è stato privato del titolo. Ripristina tu un titolo coerente con il contenuto del testo.
2 Spiega il significato dei seguenti termini o espressioni. Laddove essi abbiano un senso metafo- rico, scegli la definizione che meglio si adatta al contesto e al pensiero dell’autore. a. Arena b. Impalpabilità c. Villaggio globale d. Avviluppate e. Diafano f. Palinsesti g. Roccaforti
3 Ti sembra che l’autore esprima una posizione di apertura o di chiusura nei confronti della «con- taminazione» tra accademia e televisione?
4 Quali sono gli elementi critici che De Luna individua nel rapporto tra storia e intrattenimento televisivo?
5 Perché secondo te l’autore definisce «piatto e grigio» (r. 8) il mondo del web?
CommentoI
6 Ti capita di fruire – a casa o in classe – di contenuti storici veicolati da media diversi dal libro o dalla carta stampata? Per esempio in tv o su YouTube? Quali differenze intercorrono tra queste diverse modalità di divulgazione della conoscenza? Ritieni si tratti di una commistione innaturale e in ultima analisi impossibile, oppure pensi che il sapere storico possa trarre nuove energie dal dialogo con la multimedialità? A partire da una riflessione sul cosiddetto «uso pub- blico» della storia (che cos’è? A che cosa serve? È opportuno/utile/inevitabile?) esponi, in un testo argomentativo di almeno due colonne di foglio protocollo, una tua riflessione originale sul tema del rapporto tra sapere storico e nuovi (e vecchi) media.
3. Edward Carr: Carr (1892-1982), inglese, è stato uno storico, giornalista e diplomatico.
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Ambito storicoi Massimo L. Salvadori Un bilancio del Novecento e uno sguardo al futuro Mi sono schierato tra quegli studiosi che ritengono che il Novecento sia stato un «secolo lungo», anzi il più lungo della storia: perché mai in cento anni il mondo è mutato tanto rapidamente [...].
Ho sottolineato che il Novecento è stato un secolo di violenze e tragedie quali non si erano sino ad allora viste. Hegel1 aveva definito il passato «storia di un macello universale». Ebbene ciò non fu mai tanto vero quanto durante il periodo di cui stiamo discorrendo. Occorre subito aggiungere che le violenze e le tragedie novecentesche furono rese possibili non solo dall’a- sprezza dei conflitti politici, sociali, ideologici, religiosi, etnici e razziali e da guerre spaven- tose – dimensioni del vivere di per sé antichissime ancorché concepite e vissute in forme del tutto nuove – bensì dal fatto che gli uomini e i loro Stati si trovarono ad avere a disposizione strumenti di annientamento di una potenza enorme via via crescente forniti dalla scienza e dalla tecnologia. Se prima degli inizi del Novecento tale potenza restava pur sempre entro certi limiti, con il risultato che l’aggressività umana fu anch’essa relativamente contenuta nei suoi effetti, a partire da allora quest’ultima poté svilupparsi avendo a disposizione un potenziale distruttivo in grado di superare ogni confine precedentemente immaginabile. Dal che è deriva- ta la grande violenza che ha segnato il secolo, di cui le stragi commesse durante le due guerre mondiali e gli altri maggiori scontri bellici, il terrorismo dei regimi totalitari con i loro campi di sterminio, l’Olocausto e il lancio delle bombe atomiche sul Giappone sono state le punte estreme. Il significato umano e simbolico di una simile violenza ha impresso un marchio in- delebile sul secolo.
Il divampare dei conflitti culminati nella morte di decine e decine di milioni di esseri umani, nell’annientamento spirituale e fisico di minoranze e di inte