Venga il tuo regno

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Angela Freschi, Mainstream. Nella città di Palermo, nell’estate dell’85, ancora non si sono assopite le eco della seconda guerra di mafia. Per Giuseppe Greco, uno dei più sanguinari sicari di Cosa Nostra, quella breve stagione rappresenta l’apogeo della sua carriera criminale e al tempo stesso della sua rovina personale. Nel breve lasso di tempo che lo separa dalla propria fine, egli vive un’esperienza a metà fra l’onirico e il sovrannaturale, che condivide con un’anonima fioraia di nome Bianca. I due si incrociano casualmente per un breve istante e dall’unico sguardo che si scambiano ha origine una serie di fantasie e sensazioni identiche, anche se essi non si incontreranno più. Nei loro sogni i due vivono una relazione breve e convulsa, ma profonda ed estremamente passionale. Bianca, reduce da quell’esperienza dalle connotazioni inverosimili, crede fermamente a tutto ciò che ha provato. Al tempo stesso comprende però che si tratta di una storia che ha compiuto il proprio corso e...

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In uscita il 29/4/2016 (15,50 euro)

Versione ebook in uscita tra fine maggio e inizio giugno 2016

(4,99 euro)

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ANGELA FRESCHI

VENGA IL TUO REGNO

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VENGA IL TUO REGNO Copyright © 2016 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-982-1 Copertina: immagine Shutterstock.com

Prima edizione Aprile 2016 Stampato da

Logo srl Borgoricco – Padova

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“Si sentiva come Balzac, che ormai in fin di vita chiedeva soccorso all’unico dottore di cui si fidasse: uno dei suoi personaggi. E così mori.”

Alessandro D’Avenia, Cose che nessuno sa.

“S’inventano tutti quei personaggi … cercano una vera intimità soltanto con loro … quindi solo con se stessi …”

Margaret Mazzantini, Nessuno si salva da solo.

“La mafia uccide, il silenzio pure!” Peppino Impastato

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Era la fioraia del quartiere Palermo, giovedì 23 - venerdì 24 maggio 1985. Aprì l’armadio per scegliere qualcosa di fresco per andare a lavoro. Seb-bene il calendario dicesse che era ancora primavera, già sembrava di es-sere in estate; alle due del pomeriggio faceva molto caldo. Tirò fuori una gonna verde pallido fino al ginocchio e una camicetta bianca a maniche corte, si mise un paio di scarpe mezzo tacco color beige, un ciondolo con la Madonnina che penzolava dalla catenina d’oro di maglia fine sotto i bottoni della camicetta. Lasciò la finestra di camera aperta a metà per fa-re entrare maggio in quella stanza, poi prese il mazzo delle chiavi, la borsa e uscì. Aveva ventitré anni e viveva da sola dalla primavera dell’anno prima. In quella città le ragazze emancipate come lei, che avevano lasciato casa senza essere sposate o avere già dei figli, si potevano contare sulle dita di una mano. Quell’appartamentino in cui viveva, di quarantacinque metri quadrati al quarto piano di una palazzina non nuova ma ancora in buono stato, era il suo orgoglio. Sua madre l’aveva ereditato quindici anni pri-ma dal padre, e quando aveva ritenuto che fosse arrivato il momento giu-sto l’aveva regalato a lei e l’aveva lasciata andare. C’erano ancora le mattonelle di graniglia grigia e nera, forse un po’ cupe, un po’ meste; il bagno sarebbe stato da rifare. Eppure quella stanza da letto con il terraz-zo, quel bagnetto e quella cucina-tinello erano divenuti il suo piccolo re-gno, e senza neanche sporgersi troppo a destra sul terrazzo si poteva ve-dere in lontananza un piccolissimo rettangolo di mare. Bianca faceva la commessa nel negozio di un fioraio, praticamente giù sotto casa, qualche manciata di passi dal suo portone. Ma era lei che du-rante i giorni settimanali apriva e chiudeva il negozio. Il padrone, il si-gnor Tonino, si era fatto anziano ed era solito presentarsi qualche volta al sabato e alla domenica mattina, i giorni di maggior movimento. Era Bianca che si occupava di tutto, delle ordinazioni, composizioni, annaf-fiatura, cura ed esposizione delle piante. E come stava mettendo da parte i soldi per andare una di quelle estati in vacanza alle isole Egadi con Ro-

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sa per le due settimane d’agosto, stava risparmiando anche per comprar-selo, un giorno, quel negozio. Era la fioraia del quartiere. Gran parte del suo mondo si trovava esatta-mente lungo il marciapiede di quella via. La sua casa, il suo negozio, quello di Rosa, il bar per il tempo dei caffè e delle chiacchiere con Rosa e tanta gente familiare. Quel quartiere quasi signorile, tranquillo, offriva un po’ di pace dalla confusione e dalle scorribande del centro. C’erano i negozi, le vetrine, l’ombra dei giardinetti, le palazzine con le facciate in ordine e perfino qualche sprazzo di verde tra l’una e l’altra. Tirò fuori il mazzo di chiavi dalla borsa e aprì il negozio. C’era da mette-re fuori il carrello con i vasi delle margherite bianche e gialle, l’alberello di limone, c’erano le cassette di polistirolo con i vasi più piccoli delle a-zalee da sistemare davanti alla vetrina, praticamente sul marciapiede. Tutti quei vasi entravano e uscivano dal negozio quattro volte al giorno; altrimenti, se lasciati fuori, qualcuno se li rubava. Si stava bene, era pieno di movimento là intorno; gente che andava o u-sciva dal lavoro, studenti in giro nei pomeriggi degli ultimi giorni di scuola, le mamme con i bambini che andavano a fare una passeggiata, a comprare il gelato. C’era traffico: macchine, biciclette, sciami di motori-ni. Uscendo dal negozio con i vasi in mano, sistemò il fermaporta con un piede. Sorrise a una turista inglese con la pamela di paglia che insieme al marito con la macchina fotografica al collo, ballonzolava a bordo di uno di quei calessini che portano i turisti a fare il giro dei monumenti più im-portanti: la cattedrale, Piazza Pretoria con la Fontana della Vergogna, i Quattro Canti, il Politeama, il Teatro Massimo. Posò i vasi per terra, al loro posto, e pensò che maggio era davvero una bellezza. Una macchina si fermò all’improvviso in doppia fila lì davanti. Dietro di essa una moto frenò bruscamente e sterzò per evitare il tamponamento. Bianca, a pochi passi da loro, vide quel tizio col braccio teso urlare un’imprecazione al vecchietto alla guida dell’automobile che, con l’aria un po’ tonta e la coppola in testa, si girava in direzione della voce che lo spediva dritto in quel posto. Due uomini su quella moto, tutti e due senza casco. Ma qualcosa spinse Bianca a osservare solo il primo, quello che guidava, quello che aveva mandato in palermitano il vecchietto a quel paese. “Io quel tizio l’ho già visto…” si disse “no, forse no. Eppure mi sembra di conoscerlo. Ma no, dai, impossibile! Mi sto sbagliando. Eppure…”

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Lì per lì non ci fece caso, perché probabilmente non ne ebbe il tempo, ma molto tempo dopo Bianca avrebbe riferito di aver avvertito come un’onda magnetica, un’oscillazione elettrica, un effetto psichedelico, chi lo sa … Era uno di quei tizi dall’aria prepotente, uno di quei brutti ceffi che infa-stidiscono, che fischiano alle ragazze in passeggiata sul lungomare. Quante volte lei e Rosa avevano proseguito, abbassato lo sguardo, fatto finta di niente davanti a tipi così! Aveva i capelli neri, mossi, senza un taglio preciso; parevano essere stati sforbiciati così a caso. Portava un paio di occhiali da sole scuri, a goccia, una camicia bianca molto sbotto-nata metteva in mostra una grossa collana d’oro con un crocifisso, i polsi della camicia risvoltati sopra alle maniche della giacca marrone chiaro lasciavano scoperti i braccialetti e l’orologio d’oro. Dietro di lui un tipo un po’ più giovane, certamente più bello, capelli ricci castani, occhi scu-ri, baffi; un uomo che in quel momento fu meno di una figura di sfondo, meno di una comparsa. Bianca non lo degnò di uno sguardo, forse nean-che lo vide. I suoi occhi si posarono senza un motivo sulla sigla che compariva sul serbatoio di quella moto rossa e bianca. “Honda 750R” lesse mentalmente. Se avesse sollevato un po’ lo sguardo avrebbe visto che quel tipo, masti-cando una gomma americana e facendo marcia indietro, le stava sorri-dendo. “Perché continuo a guardarlo?” pensò restando impassibile e senza tra-dire alcuna espressione “neanche mi piace! Anzi, quei tipi lì a me non piacciono proprio per niente!” Mosse solo gli occhi e con lo sguardo seguì per qualche secondo la moto che si allontanava e le due giacche sbottonate che sventolavano nella strada. “Che diamine! Continuo ad avere la sensazione di conoscerlo…” si dis-se di nuovo. Più tardi, prima della chiusura, era passata da Rosa a fissare l’appuntamento per il caffè del giorno dopo.

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Rosa. Rosa, stessa età, era la fornaia; lavorava nel forno-pasticceria vi-cino al negozio del fioraio. Rosa era l’amica di una vita, la confidente di sempre. Era la persona che la faceva stare bene, che la calmava anche stando zitta, che la faceva stare tranquilla. Una delle due aprì la porta, entrarono prima una poi l’altra nel bar semideserto e davanti al caffè, in quei dieci minuti rubati al lavoro nei loro negozi, si raccontarono il nien-te delle loro vite in quel periodo. «Magari domenica pomeriggio, se fa così bello, ce ne andiamo un poco al mare a fare una passeggiata e ci prendiamo pure un poco di sole» disse Bianca. «Sì, ma facciamolo!» si infervorò Rosa «non come tutte le volte che poi dopo pranzo ci prende la pigrizia e ce ne restiamo ognuna a casa sua …» Le due ragazze uscirono dal bar e Bianca accompagnò l’amica alla pa-sticceria, poi proseguì rapida verso i suoi vasi che aveva lasciato fuori sul marciapiede. Tanto, per dieci minuti, chi volevi che se li pigliasse… Una voce da dietro e una mano che le afferrò il gomito sinistro. «Signorina, le posso offrire un gelato?» Un istante, un vuoto nello stomaco, la gola che tremava, le parole che non uscivano, come succede in quelle situazioni in cui si pensa di tutto e niente allo stesso tempo e si ha anche quasi paura. Il motociclista. Quello che il giorno prima l’aveva guardata per un momento soltanto e aveva già deciso che sarebbe tornato. “Per conoscerla, poi si vedrà” aveva pensato. Prima però l’avrebbe portata a prendere un gelato. Così, dopo aver in-contrato un tizio in zona Brancaccio, era tornato apposta in quel quartiere dove lui non si fermava mai. Quel giorno sì. Bianca lo guardò un po’ dal basso verso l’alto. Con una mano teneva la borsa, nell’altra aveva il mazzo di chiavi con cui stava aprendo il nego-zio. «Allora signorina, ce lo prendiamo questo gelato o no?» «Io veramente sto aprendo il negozio» rispose lei che era diventata rossa in viso e aveva la voce che tremava. «Avanti, che per dieci minuti le piante non si seccano! amunì!» Con la mano le strinse un poco il gomito mentre cercava di spingerla lontano dalla porta. «E dove?» chiese lei ormai nel pallone. «Laggiù, alla bancarella dei gelati in piazzetta.»

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Le indicò la direzione con il mento. Poi si rese conto che aveva ancora su gli occhiali da sole e se li tolse, gesto che secondo lui avrebbe dovuto metterla definitivamente a suo agio. Passarono davanti al negozio di Ro-sa che comunque non li vide. Casalinghi, Oggetti religiosi, Armeria, al-tre insegne che scorrevano al loro fianco. Camminavano svelti, lui che ancora la teneva per il gomito. Non si erano detti altro. Bianca girò leg-germente il viso verso sinistra per guardare quello sconosciuto. Aveva gli occhi verdi, la barba di qualche giorno. Era ben vestito, sentiva il suo profumo forte di abete e resina. “Il bagno nella bottiglia, si fece!” pensò. “Miseria! Ma cosa sto combinando? Quanti anni avrà questo qua? Trenta… trentacinque, sicuro! E poi… qualcuno vuole dirmi chi cavolo è?!” A pochi passi dalla piazzetta con la bancarella dei gelati si decise ad a-prire bocca. «Posso sapere almeno come ti chiami?» chiese lei. Lui si girò, la guardò, non le sorrise neanche con gli occhi. «Giuseppe mi chiamo» rispose «e tu come ti chiami?» «Bianca.» Pensò che Bianca fosse davvero un bel nome, ma naturalmente non le disse niente. Invece di darle la mano come si fa quando ci si presenta, la guardò negli occhi, strinse le labbra e le fece cenno di sì con la testa co-me per dire “ho capito”, poi si avvicinò alla bancarella dei gelati. Di sa-lutare il gelataio non gli passò neanche per la testa. «Cosa posso servirvi?» chiese quello. «Un cono nocciole e pistacchio» rispose lui. Poi si girò verso Bianca che era rimasta qualche metro indietro, dove lui l’aveva lasciata. «Allora! Come lo vuoi questo gelato?» le urlò. «Crema e cioccolato» rispose lei. Aveva risposto così, i primi gusti che le erano venuti in mente per fare più in fretta possibile. “Io manco lo volevo il gelato” pensò subito dopo “mi vergogno a lecca-re il cono davanti a questo qua. E poi chi lo conosce!” “Gesù! Io mi vergogno!” pensava ancora Bianca che se ne stava lì im-mobile, impalata, con un braccio rigido lungo il fianco, l’altro piegato sulla pancia e si tormentava il gomito con una mano.

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Arrivò Giuseppe già quasi a metà del suo gelato e le porse senza un sor-riso l’altro cono avvolto in un piccolissimo fazzoletto di carta velina. “Tutto quello che semmai ho per pulirmi la bocca” osservò lei silenzio-samente. Lui le si piazzò davanti, una mano in tasca; stava finendo il suo cono mentre la guardava fisso in faccia. Bianca sorreggeva il cono con la sini-stra che anche se non si vedeva stava tremando, lo stomaco chiuso come un portone. Non le andava assolutamente quel benedetto gelato, ma cer-cava di farlo andare giù comunque, leccarlo più in fretta possibile senza far vedere la lingua. “Devo leccare la parte di qua, la parte del gelato verso di lui bene o ma-le mi coprirà” pensava. Ma sentiva anche lei che quello non era altro che uno sciocco, ingenuo, futile pensiero, uno dei tanti che in quel momento le passavano per la te-sta. Dentro allo stomaco, la sensazione forte che stava per succedere qualcosa di grande, di mai vissuto prima e che lei non sarebbe riuscita a fermare. Mai più. “Bedda questa femmina” pensava intanto Giuseppe “c’avìa vistu bonu ieri. Proprio bedda è!” Guardava quel bel viso dalla pelle chiara, gli occhi color bronzo, le so-pracciglia folte, quella montagna di capelli castani, mossi, lunghi, milio-ni di capelli come piacevano a lui, guardava quelle labbra rosa non pro-prio carnose ma ben fatte. “Talìa come si vergogna a leccare il gelato…” pensò. «Ti piace il gelato?» le chiese tanto per dire qualcosa. «Sì, sì. Grazie!» gli rispose lei carina, gentile. Di nuovo già zitti, Giuseppe si mise a guardarle la camicetta abbottonata quasi fino al colletto. “Brava. È una che si copre. Mi piace come si è vestita. Pure la gonna, fino al ginocchio…” pensò. Poi abbassò lo sguardo al girovita, la linea dei fianchi, le gambe di Bian-ca, e dentro di sé ribadì un verdetto già stabilito il giorno prima. Lei in-tanto, sotto il suo sguardo, sperava che si aprisse una buca per sprofon-darci dentro, una voragine che rompesse il silenzio. Sperava che quella cosa assurda finisse il prima possibile. C’era il negozio da aprire, c’era la gente del quartiere che la vedeva là davanti alla bancarella dei gelati, immobile con uno sconosciuto, uno che nessuno da quelle parti sapeva chi fosse! Scalpitava per andarsene Bianca, ma allo stesso tempo decise

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che era l’ora di finirla di stare in silenzio, che doveva assolutamente combattere quella timidezza mai provata prima e dire qualcosa… “Che Dio mi perdoni, trattenga questo qua.” «Tu non abiti qua, vero? Non ti ho mai visto da queste parti» gli chiese. «No, io non abito qua.» «E dove abiti?» insisté lei. «Te lo dico domani sera. Ci vieni domani sera con me a prendere un caf-fè?» Abbassò lo sguardo, Bianca. Guardò per terra e sorrise. Era diventata rossa, sentiva le guance prendere fuoco. Guardava per terra e non diceva nulla, ma sorrideva. Sorrise anche lui. E se Bianca lo avesse guardato in viso, avrebbe visto che quando sorrideva sembrava un altro. «Allora, ce lo chiedi a tuo padre se domani sera ti fa uscire?» Dunque era chiaro. Sapeva che stava per succedere qualcosa di enorme. Sapeva che stava per dire qualcosa che non avrebbe mai dovuto dire. Non in quel momento, non a quello là. Invece lo disse. «Non ci devo chiedere il permesso a mio padre. Mio padre non c’è più e io vivo da sola.» Ecco, l’aveva detto. L’aveva detto guardando per terra, l’aveva detto con un filo di voce, ma l’aveva detto. La buca, la voragine, si era aperta. Non la si poteva vedere, ma si era appena aperta nella sua vita. «Ora devo andare ad aprire il negozio» disse. «Va bene, ti accompagno.» E l’accompagnò davvero fino al negozio. “Mischina, non sai in che situazione ti stai mettendo” pensò lui. Ed era vero. Passarono di nuovo davanti alla vetrina di Rosa, ma Bianca camminava a testa bassa guardando per terra. Non alzò la testa, non si girò per cercare il viso dell’amica. Arrivati al negozio cercò le chiavi nella borsa, le trovò subito, si girò verso di lui. «Grazie per il gelato» e sorrise a malapena. Lui le si avvicinò. Molto stavolta. Fino all’orecchio. «Dimmi dove abiti che domani sera passo a trovarti. Ci prendiamo il caf-fè abbiamo detto, no?» e mentre parlava le stringeva il braccio sinistro, ma non lo faceva con male intenzioni; lui era abituato così. Bianca sentì una fitta forte, violenta allo stomaco. E ne sentì una esatta-mente uguale anche nella pancia. Ora, sciagurata, fu lei che con la mano

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gli fece cenno di avvicinarsi. Ora era lei che voleva dirgli qualcosa in un orecchio. Si alzò leggermente sulle punte, gli mise una mano sulla spalla, gli si avvicinò al collo, all’orecchio. «In questa via, la palazzina al numero trenta.» «E che campanello c’aiu a suonari?» «Rizzotto» rispose lei. Lui fece solo cenno di sì con la testa. «Ciao.» Non disse altro. E se ne andò. «Ciao» rispose lei e si affrettò a infilare le chiavi nella toppa della serra-tura. Entrò, chiuse la porta. Ancora quelle fitte nello stomaco e nella pancia. Da dietro al bancone lo guardò accendersi una sigaretta, salire sulla moto e confondersi nel traffico della strada. E lei restò lì, paralizzata.

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Il compleanno di Stefano Palermo, sabato 25 maggio 1985. Brancaccio, i tavolini all’aperto di un bar, le undici circa. Giuseppe era seduto a fare colazione. Stava fumando la quinta sigaretta della mattina, da quando si era alzato circa un’ora prima. Con lui c’era suo nipote Sal-vatore detto Totuccio, il suo picciotto di diciassette anni, unico figlio di sua sorella maggiore. Anche Salvatore stava fumando quasi sdraiato sul-la sedia, il sedere in avanti, le gambe distese verso la strada, dietro alla schiena una pianta rampicante di bouganville color porpora. «Salutamo Giuseppe!» disse a voce alta un uomo sulla cinquantina che entrava nel bar. «Salutamo Tanu!» rispose lui girando un poco la testa verso quella voce. Due ragazzini - undici o dodici anni il primo, l’altro che non superava i nove - salirono sul marciapiede a bordo di un motorino Sì Piaggio bian-co. Portavano entrambi magliette con scritte che oramai non si leggevano più, pantaloncini corti e la sigaretta dietro all’orecchio. «Picciotti, venite qua!» li chiamò Giuseppe. Il guidatore spense il motorino e restandovi seduto lo sospinse fin davan-ti a lui aiutandosi con le punte dei piedi in ciabatte di plastica. «Buongiorno, Giuseppe!» dissero insieme sfoderando due sorrisi bian-chissimi e voci di bambini. «E questo motore, dove ve lo siete accattato?» «Davanti a una scuola!» rispose orgoglioso quello più grandicello. «Che scuola?» «Un lu sacciu! Una scuola di grandi!» Giuseppe e Salvatore si guardarono e risero. «I picchì a scuola non ci andate pure voi invece di andarci solo per fot-terci i motori?» chiese di nuovo Giuseppe sorridente. «Non preoccupatevi, Giuseppe! Ci vaiu! A settembre faccio per la terza volta la quinta elementare! Lui torna in seconda…» rispose il solito indi-candogli con la testa il bambino dietro.

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Giuseppe, con la sigaretta che gli penzolava tra le labbra, si prese il por-tafogli dalla tasca posteriore dei pantaloni e tirò fuori una banconota. «Picciotti! Sentite a mìa. Andatemi a comprare il pane. Qualche panino coi semi di sesamo. Accattatevi il resto!» disse allungando loro le dieci-mila lire. Il ragazzino mise in moto e insieme al compagno partirono spavaldi nella strada a tutto gas mentre lui li guardava allontanarsi come un padre sod-disfatto dei suoi figli. «Salvatore!» «Che c’è?» «Quei due picciotti dobbiamo tenerli d’occhio! Sono due ragazzi in gamba. Con me faranno strada.» Un omino alto meno di un metro e mezzo avanzava - a passo svelto ma con notevole sforzo - sul marciapiede del bar. Sul torace gravemente de-formato dalla cifosi indossava una maglietta bianca, quella buona con la scritta blu “Circolo Nautico Palermo”; sotto il braccio portava un qua-dretto con il vetro, un’immagine di Santa Rosalia. Era un povero diavolo al quale non si riusciva a dare un’età, i capelli ancora del loro colore ca-stano pettinati da una parte, ai piedi un paio di mocassini neri, sempre quelli. Vide Salvatore e Giuseppe e si arrestò di colpo. «Buongiorno, Giuseppe!» disse forte, la faccia bruna già imperlata di su-dore. «Peppuccio! Dove vai, oggi?» «A Mondello, Giuseppe! Ma è già tardi! Troppo caldo fa!» «Muuuvete Peppuccio, che ti perdi u’pullman!» «Salutamo e vussia s’abbenedica!» E ripartì arrancando col suo passo sciancato mentre Giuseppe, appoggia-ta di nuovo la guancia sulla mano destra, il gomito sul tavolo, riprendeva a fumare fissando il bicchiere vuoto di latte e caffè. Un’Ape grigia carica fino all’inverosimile di oggetti per la casa arrivò lentamente, un po’ ondeggiando, e si fermò sull’altro lato della strada, davanti al marciapiede infestato di erbacce e a una discarica abusiva di mattoni, mattonelle, un water, un lavandino e altri poveri resti di una ca-sa che fu. Un tale di mezza età in jeans e canottiera scese dall’Ape, si sti-rò le braccia, prese un megafono e, poggiato il braccio destro coperto di peli sulla portiera aperta del suo “negozio”, cominciò:

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«Tutto pi ‘a casa, donneeee! Sapone di Marsiglia mille lire! Fustino du’ Dash da cinque chili… diecimila lire, donne! Carta igienica, dentifricio, bagnoschiuma… creme di tutti i tipi, donneee! Sciampo Giònsoon!» «Pi carità!» borbottò Giuseppe guardandolo di traverso. «Tootuccio!» chiamò di nuovo il nipote rialzando la testa. “Cù a ora?!” pensò Salvatore. Giuseppe dovette alzare un po’ la voce perché quella del venditore so-vrastava la sua. «…Spugne, secchi, lavapavimenti duemila lire, donneee!» «Vacci da quel tizio e riferisci che se vuole disturbarmi mentre faccio co-lazione nel mio mandamento mi deve chiedere il permesso!» Salvatore, occhi azzurri, immobili, annuì. «Mandacelo su verso Villagrazia o Settecannoli, così ci va a scassare la minchia ai capi-mandamento di don Marsala!» Salvatore rise, si alzò e attraversò la strada.

*** La notte precedente Giuseppe si era coricato alle due. Aveva dormito ot-to ore ma aveva ancora sonno, anzi, si sentiva proprio stanco. Avevano festeggiato il compleanno del suo amico Stefano, quello che giovedì era in moto dietro di lui, il suo compare, il suo Fanuzzu. Aveva compiuto ventisette anni Stefano e aveva festeggiato nel suo appartamento nella parte alta dell’Arenella, unico abitato di una palazzina nuova di tre piani. Davanti alla casa, un vialetto con un’aiuola deserta e un cactus grande come un albero i cui rami arrivavano a toccare il suo terrazzo al primo piano, un’etichetta senza nome al cancelletto dei citofoni. Erano in cinque. C’era il suo picciotto Domenico detto Mimmo, c’era Salvatore e un altro loro uomo, Natale; un tizio non più giovane, cin-quantasei anni. Si erano fatti portare la cena di compleanno dal ristorante e dopo che il garzone era arrivato a consegnare le pietanze, non c’entrava davvero più niente sul tavolo di cucina di Stefano. C’era la caponata con la salsa, la pasta con le acciughe e pangrattato, l’impanata di piscispata, la cassata e, naturalmente, il vassoio con i cannoli. Otto bottiglie di vino aveva ordinato Stefano, tre di Partinico bianco, tre di Alcamo, un Marsa-la, un Moscato. Alla fine avevano dovuto mettere il Marsala e il Moscato sul lavandino, perché non si vedevano neanche in faccia da tanto il tavo-

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lo era pieno. E come ogni volta giù a riempirsi a vicenda i bicchieri, un brindisi dietro l’altro, i calici alzati in continuazione. «Cent’anni, don Fanu!» diceva Natale. «Alla salute, Fanuzzu!» dicevano gli altri. «Alla salute! Che Dio vi benedica tutti!» diceva Stefano. E avanti così. «E basta bere che poi tua madre mi sgrida!» gridò Giuseppe a suo nipote a metà cena. Ma quello lo sapeva che lo zio stava scherzando. Finite tutte le bottiglie, finiti tutti i cannoli, Stefano fece cenno con la te-sta ai due picciotti più giovani di andare di là in salotto. Quelli si alzaro-no, si accesero subito due sigarette e uscirono dalla cucina. Natale capì e li seguì, ma andò a fumarsi una sigaretta fuori sul balcone. «Con vostro permesso» disse prima di lasciare la stanza. Stefano aprì un armadietto, prese un piattino liscio da dolce, si fece posto sul tavolo tra i piatti sporchi e i tovaglioli spiegazzati di tutti, poi aprì di nuovo lo stesso armadietto e tirò fuori un sacchettino di plastica. Dentro al sacchetto, cocaina purissima. Preparò due piste sul piattino, Giuseppe tirò fuori dal portafogli una banconota da cinquantamila lire. «Prima te, Giuseppe!» lo servì. «Alla tua salute, Fanu!» e si tirò su per il naso una striscia di cinque cen-timetri della migliore cocaina presente in Sicilia. I due ragazzi di là, che sapevano benissimo cosa stava succedendo, a-vrebbero dato un braccio ciascuno per essere in cucina con Stefano e lo zio. Stefano restò in piedi, si chinò soltanto quando fu il momento di tirare la sua pista. Poi si rialzò, si spolverò i baffi, sorrise al suo amico, gli dette una pacca sulla spalla e aprì il frigorifero. «Fammi portare un poco da bere di là che i picciotti hanno sete» tirò fuo-ri una bottiglia di limoncello fatto in casa «vieni Giuseppe, andiamocene di là.» «Picciotti! Aprite l’armadietto lì e servitevi da bere!» urlò. Mimmo saltò su dal divano e gli corse incontro a prendergli di mano la bottiglia, a togliergli l’impiccio. Salvatore aprì l’armadietto dei liquori, prese un vassoio e cinque bicchierini e si spicciò a sistemare tutto sul ta-volino basso di vetro davanti al grosso divano di pelle color cuoio al cen-tro della sala, poi andò di nuovo svelto all’armadietto e tirò fuori una bottiglia di rosolio.

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«Accomodatevi picciotti, servitevi!» li invitò Stefano. Natale aveva lasciato la porta-finestra del salotto aperta ed era ancora là fuori appoggiato alla ringhiera del balcone. «Natale! Vieni a bere un poco di limoncello, vieni!» e quello entrò subi-to. Salvatore riempì tutti quanti i bicchierini di limoncello fresco e servì il primo a Stefano, il secondo a suo zio. «Alla vostra salute, Fanu!» disse. E si ricominciò. «Bravi! Bravi!» disse Stefano, in piedi, soddisfatto, mentre guardava contento i suoi picciotti seduti sul divano che bevevano e fumavano. Anche Natale era rimasto in piedi. Una sigaretta, un bicchierino di li-moncello. Poi fu il turno del rosolio. Una sigaretta, un bicchierino di ro-solio. «Bravi, servitevi!» Giuseppe guardò l’orologio: le dieci e mezza. «Natale! Accompagnaci questi due picciotti a casa che si fici tardi!» dis-se, o meglio gridò. «E poi ci passi a prendere il regalo che ci feci stasera all’amico nostro qua, Fanuzzu, va bene?» continuò Giuseppe ridendo «e ce lo porti subito qua!» «Come vussia comanda» rispose Natale. Giuseppe si alzò, prese il portafogli dalla tasca posteriore dei pantaloni, tirò fuori cinque banconote da cinquantamila lire e gliele mise in mano. «Dove ti dissi, va bene? Cerca di fare presto.» «Certamente.» Mimmo e Salvatore, che avevano capito benissimo quale fosse il regalo dello zio Giuseppe a Fanuzzu, si guardarono e risero. «Che minchia avete voi altri da ridere?» urlò Giuseppe «curcateve, va’!» disse mentre dava loro due schiaffetti sulla guancia ciascuno. «Salutamo, zio!» disse Salvatore. «Salutamo, Giuseppe!» disse Mimmo. «Salutamo, Stefano! E grazie di tutto!» dissero praticamente insieme i due ragazzi mentre erano sulla soglia. «Salutamo!» disse Natale. «Salutamo, buonanotte!» rise Stefano. E si buttò sul divano. «Adesso, con permesso. Ma mi scappa di pisciare!» disse Giuseppe all’amico. E se ne andò verso il bagno.

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Stefano rise. “È tutto fuori!” pensò. Anche lui aveva capito quale fosse il regalo che l’aspettava, il regalo pa-gato dall’amico suo, Giuseppe. “Adesso, come sempre, si sta preparando… è andato in bagno a pisciare e a darsi una rinfrescata” pensò “è pieno di vino, di alcol, di coca…” Scosse la testa e rise. E sentì che gli voleva bene. Bene davvero. Giuseppe si guardò gli occhi della cocaina nello specchio. Stava bene. Era a casa di Stefano, era parecchio su di giri, ma allo stesso tempo si sentiva tranquillo. Stava passando una bella serata. Si dette una bella rin-frescata con l’acqua e se ne tornò di là. «Va’ a pisciare anche tu Fanuzzu, va’, che tra poco ti tocca una bedda ficcata!» disse Giuseppe buttandosi sul divano e rovinando una sorpresa oramai nota a tutti. Le undici e dieci. Bussarono. Stefano si alzò e guardò dall’occhiolino della porta. Sul pianerottolo c’era Natale insieme a due ragazze. «Venite, venite! Accomodatevi!» li fece entrare lasciando però la porta aperta «Natale, mi fareste la cortesia di aspettarle giù in macchina? Quando le signorine qua saranno pronte, ve le mando giù e cortesemente me le riaccompagnate a casa.» «Come vussia comanda» acconsentì prontamente Natale e scese le scale. Le aveva procurate lui quelle due ragazze. Giuseppe aveva specificato e insistito di trovarne due “pulite”, non quelle schifiate del Porto o del Ca-po. Le voleva pulite e guai alle malattie, in pratica due buttane “a posto.” Natale aveva dovuto chiedere in giro e due amici gli avevano fatto il nome di un bar. Aveva dovuto cercare il bar, l’aveva trovato e aveva ri-petuto al barista tutta la storia. «Mi raccomando, sono per due signori all’Arenella» aveva detto. «Potete stare tranquillo» aveva garantito il barista. E infatti quelle due sembravano proprio “a posto”. Si erano sedute subito sul divano vicino a Giuseppe, una accanto all’altra. Una delle due, quella con i capelli corti, aveva appoggiato la borsetta sul divano; sembrava tranquilla, anzi, soddisfatta di essere in quella bella casa e che i “due signori dell’Arenella” fossero in realtà due giovani uomini. L’altra aveva i capelli neri a caschetto, sembrava un po’ più giovane della prima, forse venticinque, ventisei anni; appiccicata alla collega, teneva con tutte e due le mani la borsetta sulle gambe strette. Pa-reva più nervosa; in realtà aveva già notato che quei due erano drogati.

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«E a voi due chi minchia vi ha detto di assettarvi, ah?!» urlò Giuseppe. Era serio, non stava scherzando. «In piedi, avanti! Che l’amico mio qua deve scegliere!» Le due ragazze si alzarono e si misero davanti a loro, di nuovo una ac-canto all’altra. Giuseppe, buttato sul divano con le braccia distese lungo lo schienale, le guardava, controllava, aspettava che Stefano facesse la sua scelta. A quel punto entrambe speravano di essere la prescelta perché nessuna delle due voleva finire con quello che urlava, con quello che pa-reva cattivo. Stefano fece un giro intorno alle ragazze. Era bello quel giovane con i baffi che sorrideva sempre. Alto, ben fatto, stava bene con quella camicia nera sbottonata, un lungo crocifisso d’oro che ciondolava fuori, le maniche arrotolate fino ai gomiti, un bel paio di pantaloni grigi. Sembrava davvero un signore, sembrava pure gentile. «Mi prendo a questa qua» annunciò. La sua scelta fu la donna con i capelli corti, quella col viso più rilassato, quella più sicura di sé che sorrideva mentre lui le girava intorno cercando di capire quale fosse il culo più tondo, più sodo. “Ecco, ha sentito la mia agitazione” pensò l’altra ragazza. E aveva ra-gione. Stefano cinse con un braccio la schiena della donna, la mano sulla giac-china corta di pelle nera di lei, passarono davanti al divano e fece per ac-compagnarla in camera da letto. “Talìa che funcia che c’ha Giuseppe!” pensò, e gli venne voglia di far ridere l’amico. Fermò la ragazza, le sorrise, le mise una mano sul sedere sopra la gonna corta anch’essa di finta pelle nera, e strinse quella chiappa soda. «Giusè! Talìa a cà che roba! Quasi quasi me la maritassi!» gli urlò. «Vai, vai! Va’ a festeggiare il compleanno!» gli rispose l’amico sorri-dendo. L’altra ragazza era rimasta in piedi. Era carina, aveva i capelli mossi e gli occhi di un nero corvino su un viso chiaro, bianco, le sopracciglia fol-te, nere. Era magra, non si era truccata il viso se non le labbra con il ros-setto rosso. Indossava un grosso paio di orecchini a cerchio e un abbi-gliamento simile a quello dell’amica, una giacchina di similpelle bianca con le maniche corte e minigonna nera, i polsi agghindati di braccialetti, chincaglieria. Aveva un bel paio di gambe sottili, le calze a rete. Se ne stava là in attesa di sapere che cosa avesse intenzione di fare quello lì se-duto sul divano, che la stava fissando.

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«Vatti a preparare di là in bagno che tra poco arrivo» si era deciso, e con la mano le indicò il gabinetto. «Nel bagno?! Non ce ne possiamo stare di qua?» chiese lei. Lui si alzò e le andò a parlare dritto sulla faccia, e lei sentì che forse sa-rebbe stato meglio se fosse rimasta zitta. «Amore! E secondo te ci dobbiamo sporcare il salotto qua dell’amico mio?» le disse sul viso. E lei vide due occhi verde smeraldo drogati, tanto belli quanto pericolosi. Perché poteva succedere di tutto quando i “clienti” erano drogati, ormai lo sapeva bene quella giovane palermitana con il look per somigliare a Spagna, ad Anna Oxa, Sabrina Salerno. «Vai! Togliti la gonna e preparati che ora arrivo» le disse e le dette due schiaffetti sulla guancia, la sigaretta tra l’indice e il medio. “Poteva andare peggio” pensò la ragazza nel bagno “questo vuole fare in fretta. Non ha idee strane in testa.” Si era tolta la giacca, la gonna e le aveva appoggiate sopra la borsetta, sul water. Aveva chiuso la porta del bagno e se ne stava lì ad accarezzare con le mani il lavandino bianco, guardando il bicchiere dello spazzolino e il portasaponette dall’altra parte. Quello era di là a fissare i mozziconi di sigarette nel posacenere. Gli era venuto di pensare ancora a quella camurrìa che era successa due setti-mane prima alla masseria, un pensiero che spesso lo disturbava ancora. E cominciò a risistemare, uno a uno, tutti i bicchierini vuoti sul vassoio. Non gli era mai piaciuto il casino dopo le scorribande. Quelle belle sale sciupate da tovaglioli, bottiglie e bicchieri vuoti dappertutto, i posacene-re strapieni, la cappa grigia, il puzzo di fumo che non si respira. “Domani vado dalla fioraia. In questo stato mi sfugge il nome. Il nome di un colore, mi disse. Rosa… no. Viola… no. Bianca. Si chiama Bianca. Quello che ci vuole a me. Un po’ di bianco nella mia vita…” Sentiva le risatine della ragazza in camera con Fanuzzu. Scosse la testa. “Chissà che minchiate le starà dicendo.” Una forte risata maschile, altri gridolini e gemiti. Pensò a quella bella bocca, quei due occhi grandi, marroni, puliti. Pensò a quelle due fossette che le comparivano sulle guance quando sorrideva, a quel dente incisivo lievemente sporgente, quella camicetta bianca ab-bottonata fino al colletto… chissà cosa nascondeva. Sì, era giunto il mo-mento di andare da quella là chiusa nel gabinetto di Stefano. Spense il lampadario e accese l’abatjour.

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Aprì la porta, la trovò proprio come aveva detto. Si era lasciata su una camicetta fine, rosa, che lasciava intravedere un reggiseno piccolo di pizzo bianco. Giuseppe pensò che, bravo Natale, la ragazza era proprio bella, sembrava una statua. Mentre si slacciava la cintura le fece l’occhiolino nello specchio. Lei lo vide e quasi sorrise. “Forse non è poi così cattivo” pensò. Lui la guardò sospirare con gli occhi chiusi nello specchio, poi con una mano le tenne il mento verso l’alto per vederla ancora meglio. Trovò che avesse un corpo e un viso così belli da restarci secchi. Dopo quel pensie-ro uscì veloce da quel corpo, si tirò su i pantaloni e si lavò le mani nel lavandino. “Non ci si abitua mai a certe scene…” disse tra sé la ragazza pensando a lui che, come tutti gli uomini, la stava lasciando lì per lavarsi via dalle mani i residui del suo corpo appena usato, come quella saponetta. «Ora datti una lavata e poi vai di là ad aspettare l’amica tua» le disse mentre si allacciava la cintura dei pantaloni. Alla crudezza di quelle parole lei pensò che se le avesse dato uno schiaf-fo in faccia, di quelli forti che tirano gli uomini, le avrebbe fatto meno male. Ma non disse una parola né i suoi occhi color petrolio tradirono una qualsiasi espressione di tristezza, vuoto, solitudine. Posò lo sguardo sul water e si mise a raccogliere i suoi vestiti in silenzio. Uscito dal bagno, Giuseppe si accese subito una sigaretta e andò a fu-marla sul balcone del salotto. Da lì si vedeva davvero mezza Palermo, a quell’ora grigio viola, blu scuro. Un pezzo di lungomare, lucine lontane, piccolissime nel mare nero e quelle più vicine dei mercantili ormeggiati davanti al porto. I fari delle macchine, le sirene azzurre della madama.

*** Quanto è passato? Fanno già quattro anni. Era primavera, come oggi. Ma era aprile. Eravamo come un corteo di macchine e di moto che pas-sava su quel pezzo di lungomare. Ero io ad aprire la strada. E mi porta-vo dietro a Beppe Di Mauro. Quella volta ci eravamo presi un’Honda blu, mi sembra. Sì, sì… era blu. Dietro di me c’erano due Fiat e una 112. Erano tutte auto rubate. I picciotti le avevano foderate dentro con la carta di giornale per bruciarle meglio, dopo. Loro si sistemarono sui quattro lati di quella piazza, da qua non si ve-de… e io andavo avanti e indietro per la borgata. Aspettavo l’arrivo di

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Vito. Il Falco, lo chiamavano. Che ore erano? Saranno state le otto e mezza, le nove di sera… era già quasi del tutto buio. Io dovevo aspettare di veder arrivare una Giulietta super con targa di prova. Poi la vidi, po-co prima della circonvallazione. Iniziai a volare su quella minchia di moto, me lo ricordo, e gli scivolai sul lato destro. Beppe, dietro di me, si alzò in piedi sui pedali. Io mi avvicinai più che potevo con quello dietro, in bilico, senza mani. A quel punto ci aveva visti. Mi ricordo bene che con la coda dell’occhio vidi quel figlio di puttana che allungava la mano per cercare la pistola sotto il braccio. Non fece in tempo, perché Beppe gli tirò la prima fucilata con il nostro AK47… lo prese in faccia. Poi la seconda e poi la terza. Quello cadde sul volante, la macchina continuava ad andare. Alla fine si schiantò contro un muro. Io allora tornai indietro e alzai un braccio. E tutti capirono. E io e Di Mauro in quel momento diventammo i Re di Palermo. Non mi ricordo cosa provai esattamente, mi ricordo soltanto di tutta la droga che quel pomeriggio mi ero messo in corpo per ammazzare il Falco. C’era anche Stefano. Su una macchina rimasta lontano. Guidava una 126. Aveva ventitré anni…

*** «...Totuccio, mi devi fare un favore» disse Giuseppe tornando alla realtà. «Che cosa?» «Per prima cosa, oggi pomeriggio, mi dovresti andare da Natale e dirgli che mi passi a prendere stasera verso le otto con la macchina. Dicci che mi aspetti un’oretta, due al massimo. Mi deve portare in un posto, da una femmina. Stasera c’ho un appuntamento.» Salvatore non disse niente, piegò la bocca all’ingiù e fece cenno di sì con la testa. Stava pensando a chi potesse essere la sciagurata, la mischina, che aveva dato un appuntamento a suo zio. «E poi, seconda cosa…» tirò fuori dal portafogli due pezzi da ventimila lire «ora mi vai a comprare un regalino per questa ragazza.» «E che cosa ci devo comprare?» «E che minchia ne so io! Compraci qualcosa che piace alle donne. Un profumo.»

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Non devo avere paura Bianca, dopo essere rimasta come tramortita dietro al bancone del nego-zio, tornata a casa non era riuscita a mandare giù quasi niente. Si era fatta una tazza di tè che erano già le dieci di sera, aveva messo nello stomaco due, tre biscotti. Aveva acceso il televisore per farsi un po’ di compagni-a, ma non vedeva né sentiva nulla. Nemmeno la stanchezza fisica dello stare in piedi dopo un giorno di lavoro. Sentiva invece la stanchezza del macinare dei pensieri nella testa, quei pensieri che le avevano chiuso lo stomaco. Sistemava le cose, spostava gli oggetti, accendeva e spengeva le luci nelle stanze senza rendersene conto, senza guardare. “Domani sera verrà qua quello lì. Non so nemmeno a che ora. Non gliel’ho chiesto, non me l’ha detto. Perché non gliel’ho chiesto?” “Come farò a stare in negozio, domani? Le persone mi parlano, ma io non le sento. Mi fa male lo stomaco.” “Riuscirò domattina almeno a mettermi a sedere, fare colazione, a farmi il caffè? Oggi è così difficile concentrarmi; speriamo che passi, perché questa assenza è fastidiosa. Potrei diventare invivibile se continuo così.” “Come farò a parlare a Tonino o a rispondere al telefono?” “Gesù, fa un anno che vivo da sola in questa casa e lui sarà il primo maschio che vi mette piede! Qua, in casa mia! Non saremo fuori, come oggi, a prendere il gelato; non saremo in mezzo alla strada, saremo qua dentro. Che sciagurata che sono, che cosa ho combinato? Cosa mi pas-sava per la testa?” “Lui suonerà il campanello, io aprirò il portone di sotto e lui salirà per le scale. So già che quelle due di sotto appena sentiranno scattare il por-tone si butteranno sullo spioncino della porta per vedere chi sale. E quando vedranno che è un uomo e che sale da me a quell’ora… smette-ranno di salutarmi, di venire in negozio, sicuro che lo faranno!” “Lo dirò domenica a Rosa? Ci devo pensare. Vediamo cosa succede.” “Certo che quello mi piace, però. Gesù, oggi sono diventata rossa. Sem-bra parecchio più grande di me. Domani glielo chiedo subito quanti an-

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ni ha. Ha qualcosa. Mi ha trascinata per un braccio oggi, ma non mi ha fatto paura. Non lo so, ha qualcosa di diverso dagli altri. Devo capire bene, domani.” “Non devo avere paura.” “Alla fine non l’avevo mai visto prima, nel quartiere. Oggi è tornato per me, si è ricordato del negozio. Mi ha offerto un gelato, non ha fatto nulla di male. Non devo avere paura. Ma Cristo Santo, perché gli ho dato l’indirizzo? Perché non gli ho chiesto se ci vedevamo fuori?” “Quello mi ha detto nell’orecchio del caffè e io mi sono ammutolita. Ci sono cascata subito, come una cretina.” “Potrei non aprire. Potrei far finta di non esserci. Potrei addirittura an-dare da un’altra parte. Da mia mamma. Tanto, mica verrà qua tutti i giorni a sentire se ci sono. E poi se viene, io non apro! Mica sfonderà la porta! E poi, se proprio non so come fare, potrei chiedere aiuto, chiama-re la polizia. Il telefono ce l’ho.” “Mi fa male lo stomaco. Ma devo calmarmi, così non va bene.” “Anche oggi… se avessi voluto, sarei potuta tornare indietro. Perché mi sono fatta offrire quel gelato?” “Il suo sguardo. È quello. Ha qualcosa di strano. Se no non starei così ora.” “E cosa succederà dopo domani? Lo vedrò ancora? Lo farò venire di nuovo qua a casa mia? Assolutamente no! La minchiata ormai l’ho fatta ma la prossima volta, se mai ci dovesse essere, sarà fuori di qua.” “Lo vedrò ancora? Vediamo domani. Stiamo a vedere…” Passate le undici si era messa a letto, aveva la faccia calda, era stanca. “Riuscire a dormire mi sembra quasi impossibile. Se riuscissi a prende-re sonno non sentirei questa angoscia” aveva pensato. Prima però era andata a controllare se nel barattolo c’era abbastanza caf-fè. “Ce lo vedo domani, a lui, in questa casa? Di là in cucina, al mio tavo-lino o davanti al mio frigorifero? No, non ce lo vedo.” “O, peggio ancora, di qua in camera, la mia cassettiera, questo letto col trapuntino rosa, la spalliera, il crocifisso con il ramo secco di olivo be-nedetto! Gesù, no! Domani mi devo ricordare di chiudere la porta, così questa camera non la vede nemmeno da fuori.” “Certo che questa volta l’ho combinata grossa! È la prima volta che ne combino una così grossa, che vado così oltre il buon senso! Da dare scandalo! Eh sì, da dare scandalo.”

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“Ormai è fatta. Domani ci mette un secondo ad arrivare… così non va però. Non devo avere paura. Ora ho bisogno davvero di dormire, se no domani non mi reggo in piedi.” “Così non va però. Devo respirare.” “Respira.” “Respira.” “Respira…” “Dico una preghiera, così forse ce la faccio. Ora e domani.” “Padre Nostro, che sei nei cieli,” “Sia santificato il tuo Nome,” “Venga il tuo Regno.”

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Due Rolex Erano passate due settimane. Quella mattina si era svegliato e aveva tro-vato il cuscino imbrattato di sangue. Si era guardato nello specchio e an-che la guancia destra era piena di sangue. Un herpes gli stava uscendo sopra il labbro, sotto la narice, faceva male. E anche il naso gli faceva male. La cocaina gli aveva di nuovo rotto i capillari, bruciato le narici; così quel pomeriggio, prima di uscire, se l’era presa per bocca, si era lec-cato la punta dell’indice imbiancato da centinaia di cristalli più piccoli dei granelli dello zucchero. Le tre del pomeriggio, un pomeriggio bianco e giallo di sole. Lui e Ste-fano erano andati a farsi un giro con la moto fino alla Cala, due passi sul lungomare. C’erano le bancarelle degli arancini, sfinciuni, pane e panel-le. La fila degli alberi delle barche oscillava a quel venticello pomeridia-no che rendeva vivibili i moli, alcuni pescatori mettevano in ordine i pe-scherecci per la notte a venire, sistemavano le reti, altri ancora scarica-vano casse di sardine, qualcuno laggiù vendeva sigarette. Loro si erano presi un gelato, poi avevano ripreso la moto per andare a vedere due ve-trine in Via Vittorio Emanuele, da una parte la Kalsa, dall’altra l’intrigo delle vie della Vuccirìa. Avevano fischiato a qualche bella femmina, a-vevano fatto qualche complimento osceno, quelle si scantavano e loro ridevano ancora di più, ma girare in moto in quel cordone unico di traffi-co era un macello, allora erano tornati indietro e si erano fermati all’inizio di Via Crispi. Poi era successo...

*** «Talìa, Giuseppe, guarda che bello quell’orologio» aveva detto Fanuzzu. «Quale?» «Quello! Quello nero!» Io ne avevo visto io uno tutto d’oro. «Quello però è più bello…»

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Due Rolex. Poi ce n’eravamo andati. «Fanu, torna indietro e vai a vedere se ci sta un occhio» gli dissi. «No, Giuseppe, non lo fare.» Me l’aveva detto, lui… «Giuseppe, non c’è bisogno… è una minchiata…» «Amunì! Vai a vedere se ci sta un occhio, ti dissi!» Ormai lo sapevo che l’avrei fatto. «Da lì non ho visto niente, ma dovrebbe essere sul soffitto, sopra il ban-cone.» «Buono. Vai a mettere in moto e aspettami.» Non avevo la giacca, avevo un maglione leggero di cotone con le mani-che fino ai gomiti. Perciò prima di uscire la pistola me l’ero messa dietro alla schiena, sotto al maglione; non si vedeva. Sembravo un tizio ricco che andava a comprare il regalo per la fidanzata. Gli occhiali me l’ero tolti, se no quella avrebbe capito prima. Entrai. C’era una donna non giovane. Aveva i capelli biondo cenere, raccolti. Mi ricordo che aveva giacca e gonna viola scuro. «Buona sera» mi disse. «Buona sera» risposi. Le sorrisi e anche lei mi sorrise, gentile. «In che cosa posso servirla?» chiese. Tirai fuori la calibro38 e gliela puntai alla faccia. «Muoviti. Esci di lì e vai a prendermi due orologi.» Quella era diventata bianca, aveva gli occhi di fuori, gli occhi del terrore. Aveva messo le mani avanti, cominciato a tremare. Balbettò qualcosa mentre usciva da dietro al bancone. «Muoviti!» le urlai ancora più forte. Lo sentivo il suo terrore. Il braccio le tremava talmente forte che non riu-sciva ad aprire la vetrina con le chiavi. «Muoviti, ti dissi!» e feci un passo avanti verso di lei. A quel punto piagnucolava, sbavava dalla bocca. Aveva un santo dalla sua parte, perché riuscì ad aprire la vetrina. Gli orologi me li presi io, che minchia insistevo a fare, quella non ce l’avrebbe mai fatta. Mi girai, vidi l’occhio proprio dove aveva detto Stefano e ci sparai un colpo. Lo cen-trai subito. La gioielleria detonò come una bomba, come se esplodesse. Scattò l’allarme, ma a quel punto io ero già sulla moto dietro a Fanuzzu. Quello in tre secondi aveva già bruciato metà strada. Vedevamo la gente

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sul marciapiede con le mani tra i capelli. Alcuni si erano accovacciati quando avevano sentito lo sparo…

*** Quella sera c’era la cena alla masseria e la macchina, lasciata Palermo, aveva percorso per quasi un’ora strade sterrate in mezzo a colline nere come il petrolio, distese di ulivi, vigneti, campi. Ogni tanto qualche co-niglio selvatico correva nella luce dei fari. Natale era concentrato nella guida su quello sterrato maledetto, Giuseppe accanto, Stefano dietro. I fari avevano illuminato all’improvviso una figura al bordo dello sterrato, accanto a un recinto. Come uno spettro, un pastore che controllava le sue pecore. Giuseppe, il braccio destro fuori dal finestrino, aveva appena al-zato la mano per un debole saluto. Quello si era inchinato, si era tolto il cappello. Poi arrivarono. C’erano due macchine parcheggiate sotto a un pergolato abbandonato che ormai cadeva a pezzi, botti di vino sfasciate, vasi di fi-chi d’india, quattro guardiani davanti alla porta con le mitragliette a tra-colla. “Salutamo don Giuseppe”, “Salutamo don Stefano”, “Salutamo Natale” dissero. Giuseppe era entrato per primo. C’erano Mario, Nino, c’era Di Mauro e poi a capotavola c’era lui, lo zu’ Tommaso. Avevano già cominciato a mangiare, perché s’era fatto tardi. Sulla tavola illumina-ta dai moccoli accesi c’erano vassoi di olive, i taglieri con i pecorini, formaggi di capra. C’era un grosso vassoio di ricotta e una teglia enorme di pasta al forno che la moglie di qualche contadino aveva preparato per lui.

*** «Baciamo le mani» gli dissi. Feci per prendergli le mani, ma lui mi fermò. Mi indicò le tre sedie libere in fondo al tavolo. «Sì, sì, accomodati, non ti preoccupare…» Io avevo già capito. E mi era passata la fame. Avevano parlato di un tizio che si era comprato una Maserati, di un capo mandamento che si era fatto l’amante. Non avevo capito di chi parlasse-ro, non avevo ascoltato quasi niente. Poi lui si alzò.

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«Alzati Giuseppe» mi disse. E fu lui a venire verso di me. Con i suoi occhi grigi, calmi. «Giuseppe, gira voce che oggi ti sei fatto una gioielleria.» Io, muto, guardavo le croste del pane sul tavolino. «Che minchia ti passa per la testa, ah?» cominciò a urlare «che minchia ti prende?» «Diventasti un latru da quattro piccioli? Che minchia c’hai in testa? Vuoi finire all’Ucciardone come i picciriddi?» Poi lo disse: «O pensi che perché sai scannare i cristiani puoi andartene in giro a fare tutto quello che ti passa pì a tiesta?» Tutti gli altri zitti, muti. Fumavano e guardavano i piatti sudici. E io sen-tii un male dentro, forte, peggio di un cazzotto, una fucilata. Avevo fatto arrabbiare uno dei due uomini ai quali avevo dato la mia vita. E poi ave-va ragione; non potevo fare tutto quello che mi pareva.

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Me lo fai questo caffè? Lui era lì in piedi davanti al frigorifero, lei lì in piedi davanti ai fornelli. Si guardavano ma nessuno diceva niente. Bianca sentiva che avrebbe vo-luto riprendere fiato e colore in faccia. Lui lo notò e decise di aiutarla. «Allora, me lo fai questo caffè?» «Certo, come no!» Tirò fuori dall’armadietto il barattolo del caffè, preparò la caffettiera. Vide che lui si era mosso. Stava guardando lo stereo sopra il frigorifero e le tre file di cassette una sopra l’altra. Mina, Madonna, Mia Martini, Fiordaliso, Venditti, Battiato, Loredana Bertè. Lo vide allungare la ma-no; fece uscire appena appena una cassetta dalla fila - una delle ultime in alto, se no veniva giù tutto - poi la rimise al suo posto. «Mi piace la musica» gli disse lei mentre metteva la caffettiera sui for-nelli, accendeva il gas «quelle sono tutte cassette che mi sono registrata io.» «Quasi tutte donne…» «Sì. Mi piacciono le cantanti che cantano canzoni agli uomini.» «Gianna Nannini piace pure a me. Mi piace Fotoromanza.» «Sì, è bella» fece lei. Si teneva a distanza, appoggiata ai fornelli, le braccia incrociate; stava riprendendo colore. «Vivo da sola, capisci? Mi fanno compagnia. Mi piace alzare il volume, è un modo per evadere.» La guardò aprire di nuovo l’armadietto, tirare fuori il barattolo dello zuc-chero e poi le tazzine, i piattini, i cucchiai. Sembrava tranquilla, allora Giuseppe cominciò a osservare un po’ da distanza le foto attaccate con i magneti sul frigorifero. C’era lei da bambina in braccio a suo padre, lei un po’ più grandicella al mare, in mezzo a tutti e due i genitori. Poi due Polaroid. La sua faccia e quella di un’amica, guancia a guancia, prende-vano tutta la fotografia. «Lì sono insieme alla mia amica Rosa, eravamo all’Addaura» gli disse lei anche se lui non aveva chiesto niente.

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Guardò l’ultima Polaroid. Bianca se l’era fatta da sola in quella casa, ap-pena dopo essersi trasferita; un primo piano con i capelli più corti, guar-dava da un’altra parte e sorrideva. “Bella questa foto” pensò lui. E pensò anche che di quelle cose che aveva appena visto in quella cuci-na, lui non aveva mai avuto niente. Bianca versò il caffè, chiese quanto zucchero, gli passò la tazzina, poi si rimise lì dov’era, appoggiata ai fornelli. Lo guardava lì in piedi, con il piattino in mano, girare il cucchiaino nel caffè. Guardò quell’anello all’anulare destro, quei due grossi bracciali d’oro che ora tintinnavano, facevano rumore, si sentivano da lì. Pensò a quel gesto che faceva chissà quante volte al giorno e ora lo faceva lì, in casa sua. «Buono. Grazie» le disse lui e posò il piattino sul tavolo «posso fuma-re?» «Sì, fuma pure.» Gli passò un bicchiere dall’armadietto. «Non ce l’hai un posacenere?» «No, io non fumo. Non ti preoccupare, tanto poi lo lavo.» «Veramente non fumi?» «No che non fumo. Siamo in Sicilia, hai mai visto una della mia età, da sola, che si mette pure a fumare?» «Appunto. È ora che cominci. Te la vedesti mai una della tua età, che sta da sola e che non fuma?» «Non lo so…» scosse la testa lei e sorrise. «C’è un terrazzo in questa casa?» «Sì che c’è, ma non si può fumare qui, scusa?» e le venne da ridere. «No. Qui siamo al chiuso. Qui ti viene di più da tossire. Avanti, fammi vedere dove sta questo terrazzo! Che fai, ti scanti?» «No che non mi scanto.» Attraversò la cucina diretta ad aprire quella porta che si era ricordata di chiudere. Lui, sullo stipite della porta, si mise di lato per farla passare. Gli passò vicino, gli sfiorò la giacca con un braccio, con la faccia ora cu-pa; alzò appena gli occhi per guardarlo in faccia, lui le fece l’occhiolino. Sul terrazzo le accese una Marlboro e gliela mise tra le labbra, poi se ne accese subito un’altra per sé. «Avanti. Fatti una bella tirata. Non così, più piano, ma devi essere più decisa.»

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Mentre cercava in tutti i modi di reprimere i colpi di tosse, lei pensava che quella sigaretta passata da un paio di labbra all’altro era stato il loro primo, vero gesto intimo. «Devi sentire il fumo che dal petto ti va nella gola e nel naso, poi puoi buttarlo fuori, mi capisti?» Bianca fece cenno di sì con la testa. «Avanti, con calma, ma decisa, se no tossisci…» “Ne avrai bisogno, fidati.” Andava già leggermente meglio, e se non altro quella benedetta nicotina la stava aiutando e il fatto di portare la sigaretta alla bocca era un gesto che la calmava. «Quanti anni hai Giuseppe?» chiese e gli porse il bicchiere per scuotere la cenere. «Trentatré. Tu?» «Dieci di meno.» «Anche tu vivi da solo?» «E come no? Sì.» «E dove?» «A Monte Pellegrino. C’ho una specie di villetta.» «E che lavoro fai?» “Eccoci, ci siamo.” «Ne faccio più di uno…» «Dimmene almeno uno, scusa…» «C’ho un’impresa, sono una specie di appaltatore. Quando mi dicono che c’è un’azienda che vuole costruire un palazzo, come quello laggiù con la gru, io vado a sentire e cerco di prendermi quel cantiere, capisci? C’ho un po’ di ragazzi che lavorano per me, che tengono famiglia, capisci? Io cerco di farli lavorare.» Bianca faceva segno di sì con la testa, pensava a un’impresa di muratori. «E il secondo?» «Il secondo… sono nelle spedizioni. Al porto.» «Che spedizioni?» «Mah, un po’ di tutto. Vini, bottiglie, sigarette. Lì lavoro con un amico mio, Stefano si chiama, a volte manco lo sappiamo cosa andiamo a spe-dire. Vieni, ti faccio vedere una cosa.» Giuseppe si appoggiò con i gomiti alla balaustra del terrazzo e quando Bianca si avvicinò le mise un braccio sulle spalle. Fece per indicarle qualcosa di sotto.

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«La vedi quella macchina laggiù? Quella Fiat Regata grigia?» «Sì.» «Sopra ci sta un tizio che lavora con noi, Natale si chiama. Mi sta aspet-tando perché dopo dobbiamo andare al porto.» «Ho capito…» disse Bianca non trovando strano che a Palermo le spedi-zioni si facessero di notte. «Può darsi che quel tizio lo rivedrai ancora con me. Mi aiuta, capisci? Ci occupiamo della borgata. Controlliamo che tutti stiano bene, che siano tutti contenti…» Bianca lì per lì non ci fece caso. «E ti piace quello che fai?» «E come no? Certo che mi piace!» «Sembri uno che sta bene, che ha un bel po’ di soldi.» «Ringraziando Nostro Signore, non mi lamento. E a te piace il tuo lavo-ro?» «Certo. Io faccio la fioraia. A tutte le donne piacciono i fiori…» gli fece un sorriso che accese il terrazzo, lo stendino dei panni, i vasi trascurati di lavanda, rosmarino, basilico. Giuseppe non sorrise, si accese un’altra sigaretta. «Quasi mu scurdavo. Un regalino ti feci.» Si mise la sigaretta in bocca e aprì la giacca quel tanto che bastava per prendere dalla tasca interna un pacchettino. Lei lo seguì con lo sguardo e avrebbe davvero potuto dire che ormai tutta quell’angoscia e quell’ansia fossero roba di ieri; poi i suoi occhi si fermarono un secondo su qualco-sa, ma si trattò di un secondo soltanto, lui aveva già richiuso la giacca. «È per mìa?» e sorrise. «Pì mìa no di sicuro!» Bianca prese quel pacchettino col profumo che le aveva comprato Salva-tore e avrebbe voluto scartarlo, ma lui la fermò. «Aprilo più tardi. Bianca, io ora me ne devo andare.» «Già te ne vai? Va bene, vado solo a mettere un secondo questo di là.» Non aveva intenzione di restarsene lì con quella scatola in mano. «Aspettami» le scappò detto. Indossava un vestito nero fiorito di papaveri rossi e viole del pensiero, il corpetto del vestito smanicato a spalline larghe le lasciava le braccia scoperte. Giuseppe guardò quelle spalle bellissime entrare in camera. “Ti aspetto, ti aspetto, cara Bianca, sapessi quante minchiate ti ho rac-contato! Cosa ti dovevo dire? Ti avrei ammazzata dalla paura, avresti

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strabuzzato gli occhi come quella degli orologi, avresti iniziato a trema-re, a piagnucolare. Sto cercando di non farti paura, Bianca, perché io qua ci voglio tornare.” «Scusa, ma tu non hai mangiato? Devi mangiare?» chiese lei di nuovo sul terrazzo. «No… non lo so quando mangio.» «E dai, fermati mezz’ora. Ti faccio un piatto di pasta.» Giuseppe non le rispose. La fasciò con le sue braccia, la sua testa si pie-gò su di lei che lo vide abbassarsi per baciarla. E sentì il suo peso, il suo odore, la sua pelle. Anche lei l’aveva abbracciato e dopo quel bacio ce n’era stato un altro e altri ancora. Aveva guardato quel viso da vicino, quel neo sulla guancia sinistra, sopra la barba; ci aveva posato le labbra. E aveva pensato che avrebbe dovuto immagazzinare più dettagli possibili di quel momento. Perché già lo sapeva, gli sarebbero serviti domani e in tutti gli altri giorni che sarebbero venuti dopo, senza di lui. E che non gliene fregava niente se quel tipo aveva qualcosa di strano negli occhi, lei voleva che fosse suo e che da quel momento in poi avrebbe fatto di tutto per tenerselo vicino. Lui invece aveva pensato che era la prima volta, da quando era un lati-tante, che stava facendo una cosa normale. E che quella normalità era in-credibile, era semplice, era tranquillità, era pace. E che quella pace, come quella casa, come quel terrazzo, come quella ragazza, erano quasi irreali, come tutte le cose che si provano per la prima volta. E che in quel mo-mento, almeno per quella ragazza, aveva smesso di essere invisibile. E che tutto ciò era l’inizio e la fine allo stesso tempo.

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Il disordine mentale Rimasta da sola, Bianca si era trovata in una serata di disordine mentale, esattamente come quella precedente. Aveva girovagato da una stanza all’altra senza essere presente nei suoi gesti, in quello che faceva. Aveva scartato il pacchettino del profumo e aveva sorriso da sola, poi aveva la-vato le tazzine del caffè, il bicchiere-posacenere. Era tornata un paio di volte a guardare il pacchetto di sigarette che lui le aveva lanciato e che lei aveva acchiappato al volo sul pianerottolo. «Tieni, ti lascio questo» le aveva detto, poi aveva sceso le scale di corsa, non le aveva detto più niente. Verso le dieci e mezza si era accesa una sigaretta ed era tornata sul ter-razzo a fare pratica, stavolta da sola, e aveva ripensato a tutto, sempre di più. Poi aveva deciso di andarsene a letto e cercare di riposare. Aveva il viso che bruciava, si sentiva stanca. Non aveva mangiato niente, tutto quel disordine di pensieri non gliel’aveva permesso. “Sono stata una sciocca a preoccuparmi tanto; tutta questa tensione per niente… alla fine è andata bene, no? Non aveva cattive intenzioni, mi ha pure portato un regalino. E io che quasi non ci ho dormito, non mangio da due giorni. Non aveva cattive intenzioni, anzi, abbiamo parlato nor-malmente, no?” “È come se una parte di lui fosse sempre distratta, però. Ha quello sguardo, ha qualcosa. Però gli piaccio. Quando mi ha dato un bacio, ho perso la testa. Gesù, meno male che si è fermato lì, perché io avevo ve-ramente perso la testa! Avrebbe potuto andare avanti, ma non l’ha fatto. Certo che avrebbe potuto, io gli avevo pure spianato la strada quando l’ho invitato a cena. Che sciagurata che sono!” “Però non è rimasto. Se n’è andato. Sarà davvero andato al porto per lavoro? Meglio che non ci penso, se no sono già gelosa…” “Ho avuto come la sensazione che non fosse convinto di quello che mi stava dicendo. Come ieri, ho la sensazione che nasconda qualcosa, qualcosa di illegale, di illecito. Anzi, ne sono quasi sicura. Il problema è che non me ne frega niente, può nascondere quello che vuole…”

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“No, non è vero, cioè… non lo so. Fino a che punto potrei arrivare?” “Magari mi sbaglio. Ha una croce al collo, ha pure nominato Nostro Si-gnore, vuol dire che, anche se fosse… non sarebbe così grave, no?” “Devo preoccuparmi? Devo avere paura? No, dai, alla fine oggi con me non ha fatto niente di male.” “Sì, è così. Non devo ricominciare come ieri. Anzi, guai a me!” “Ecco, se ci penso, mi fa di nuovo male lo stomaco. Come ieri.” “Devo smetterla di stare così. Non devo avere paura. Sul terrazzo c’era buio, poi è stato solo un secondo… è impossibile, sono io che ho visto male.” Poi era riuscita ad addormentarsi e quella mattina, appena aveva aperto gli occhi, aveva fatto subito il punto della situazione. Sentiva ancora il disordine nella sua testa, la confusione. Era domenica. Era il giorno di punta in negozio: ci sono i pranzi dai parenti, la gente va a comprare i fiori da portare nelle case, nei cimiteri, Maggio è il mese delle comunio-ni, delle cresime. “Devo pensare alle ordinazioni, c’è la serra da chiamare… ho finito il nastro per le coccarde e mi sono scordata di passare dal cartolaio! Ora chi lo sente a Tonino?” “Come faccio, con la testa così da un’altra parte, a dare retta a tutti?” aveva pensato, e alla fine aveva deciso che non sarebbe andata al nego-zio. “Ho bisogno di una pausa, fermarmi un giorno mi farà bene…” Aveva telefonato al signor Tonino per avvertirlo, ma le aveva risposto la moglie. Bianca aveva spiegato che non sarebbe andata al lavoro perché non si sentiva bene, un po’ di influenza forse. Alla signora non era parso strano; dopotutto, salvo rare eccezioni, Bianca era sempre stata presente al negozio, perciò quella telefonata non sapeva di bugia. E se ne era ri-masta lì, seduta al tavolo di cucina, a fissare a lungo la tazza di tè e a cercare di mandare giù un po’ di colazione. Si era sforzata, aveva lottato con i biscotti. I suoi occhi si erano piantati su quell’angolo dove soltanto undici ore prima c’era lui, e aveva sentito di nuovo una fitta, un crampo che saliva, saliva… “Perché non gli ho chiesto quando e se l’avrei rivisto? Ho avuto la fac-cia di invitarlo a cena e non ce l’ho fatta a chiedergli la cosa più impor-tante. Va bene. Fai come cavolo vuoi, non dirmi niente, tanto lo so che torni…”

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Aveva voglia di vedere la sua mamma. Sarebbe andata a pranzo da lei, ma non come tutte le altre domeniche che ci andava così, per abitudine; quel giorno aveva voglia di lei, della signora Vincenza, così silenziosa, così forte. C’erano quarantatre anni di differenza tra lei e sua madre; Bianca era arrivata tardi, quando nessuno se l’aspettava più, quando la madre ormai aveva perso le speranze e smesso di pregare alla Madonna. Vincenza era una donna piccola ma forte come una roccia. Era rimasta vedova da un po’ ormai, ma amava tanto la sua unica figlia che aveva sacrificato la sua vicinanza pur di lasciarla andare da sola, in quella casa. Era andata contro le convenzioni sociali, le chiacchiere da pianerottolo, e in questo lei e sua figlia erano molto simili. Aveva sessantasei anni, era anziana, viveva in silenzio per quei pranzi la domenica, le cucinate per le feste comandate da passare con i parenti, un po’ di compagnia delle vici-ne, i ricami per le nascite, i matrimoni. A marzo era andata a Roma con la gita della parrocchia per assistere alla messa del Papa. Una tirata in pullman di due giorni, una roba massacrante. Aveva fatto le fotografie, le aveva fatte sviluppare. Davanti si vedevano le teste della gente, poi una finestrina e lui piccino piccino, lontanissimo. Bianca sapeva che dietro a quella calma, quella tristezza velata degli oc-chi, sua mamma aveva trovato da qualche parte la forza per sopportare gli scossoni che la vita le aveva messo davanti, e forse ce l’avrebbe fatta a sostenere anche quello. L’avrebbe ascoltata senza dire una parola, a-vrebbe tirato un sospiro, poi sarebbe andata avanti come sempre. Forse. Poi si era convinta che in fondo non c’era bisogno di farle sapere quanto era stata sciagurata e aveva deciso di non dirle assolutamente niente. A pranzo, nonostante lo stomaco avesse fatto resistenza, Bianca era riuscita a mangiare, boccone dopo boccone, un piatto di pasta fatta in casa, buo-nissimo. Quel piatto, come l’abbraccio quando era entrata, erano stati benefici, un posto sicuro del quale quel giorno aveva bisogno. Nel primo pomeriggio avevano suonato il campanello e per Bianca fu come una vertigine. Era corsa sul pianerottolo, si era affacciata dalle sca-le. Rosa. Già; Rosa, il mare, se ne era totalmente dimenticata. «Rosa, sali per piacere, ti devo dire una cosa!» le aveva urlato dal quarto piano. «Rosa non mi sono sentita bene, oggi non sono neanche andata in nego-zio.»

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«Mischina, cosa c’è? Ti vedo, sei pallida, Bianca, stanca sei?» aveva chiesto Rosa con quegli occhi neri, bellissimi, che scrutavano sincera-mente preoccupati il viso dell’amica. «Sì, forse… lo sai, è una vita che non mi prendo un giorno… o forse sarà un po’ di influenza, chi lo sa. Dai Rosa, vieni che ti faccio il caffè» e a-veva iniziato a tirare fuori i barattoli, a preparare la caffettiera. «Bianca, cosa c’è? Sei strana. E ti dimenticasti di telefonarmi, vero?» «Sì Rosa, scusa.» Guardò la sua amica seduta al tavolino. Si metteva sempre lì, sceglieva sempre quella sedia. Rosa. Rosa era come tutte le cose essenziali, quelle di ogni giorno, di cui si ha bisogno per vivere. Le sorrise con amore e le fu spontaneo raccontarle tutto. «Rosa, ho conosciuto un ragazzo, anzi un uomo, perché ha dieci anni più di me. Sai venerdì, dopo che io e te ci siamo prese il caffè?! È venuto al negozio, mi ha offerto un gelato.» «E perché fai quella faccia, scusa? Non sei contenta?» «Sì, come no, il fatto è che ieri sera è venuto qua.» «Oh Gesù! Pazza sei! E come mai lo facesti già venire qua a casa tua? Che ti passò per la testa?» «Sì lo so… sono stata una cretina, Rosa.» «E com’è andata? Lui com’è?» «È questo il punto Rosa, lui mi piace. È un bel tipo, alto, moro, fatto be-ne; su quello niente da dire. È che ha qualcosa di strano, capisci? È vesti-to bene… mi ha detto che fa tre lavori, ma non credo sia vero. Cioè, non ha l’aria del santarellino, capisci?» «Sì, Bianca, come no. Se è grande e ha quell’aria lì, magari è solo uno che si è fatto qualche anno all’Ucciardone. Sai che novità qua a Paler-mo!» «Sì, infatti» e tutte e due avevano sorriso con gli occhi mentre soffiavano sulle tazzine del caffè. «Bianca, però... non sono fatti miei, non so cosa sia successo qua ieri se-ra e non voglio saperlo. Ma cerca di stare attenta, mi capisti?» «Un bacio, Rosa, mi dette solo un bacio.» «E poi? Come siete rimasti?» «Niente mi disse, se ne andò.» «Ed è per questo che oggi stai così?» «Sì. Mi fece pure un regalino, sai? Sta di là, è un profumo.» «Vedi? Pure gentile te lo trovasti.»

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«E pure ricco! Mi disse che c’ha una villetta al Monte Pellegrino.» «Pure? Ma ce l’ha un amico questo qua da farmi conoscere?» si era mes-sa a ridere Rosa. «La finisti? Non lo so Rosa, non lo so se ti conviene…» Poi erano tornate di nuovo serie. «Bianca. Mi devi promettere che starai attenta, mi capisti?» «Sì, Rosa. Te lo prometto.» Uscito dal portone di quella palazzina, Giuseppe si era infilato in mac-china e Natale si era guardato bene dal fare commenti o qualsiasi do-manda, eccetto l’unica che il suo lavoro gli richiedeva: «Dove andiamo, don Giuseppe?» «All’Arenella, da Fanuzzu» fu la risposta e Natale mise in moto. Giuseppe si accese una sigaretta, aprì il finestrino, poi si girò a guardare quell’uomo che ormai da anni era la sua ombra. Lo guardò guidare in si-lenzio attraversare mezza Palermo come sempre, con una sigaretta sotto a quei grossi baffi neri, curati, le guancione olivastre sempre ben rasate, e pensò che quello era uno dei due uomini di cui lui si fidava ciecamente, perché “lui sì che era una brava persona!”. L’altro, manco a dirlo, era Stefano. «Natale, da quanto è che lavori per me?» «Ad aprile si fecero quattro anni, don Giuseppe.» «Dai tempi del Falco?» «Sì.» «E basta con ‘sto “don”, Natale! Quante ne abbiamo passate insieme, ah? Non è ora che mi chiami solo Giuseppe?» «Non ce la faccio, ma come vussia desidera.» Giuseppe si era messo a ridere. “Sono quattro anni che questo vede più a mìa che alla moglie, sono quattro anni che questo ogni santo giorno è lì pronto a essere scannato per me, e ora non ce la fa a chiamarmi per nome…” “Mi ha aspettato dappertutto, di giorno, di notte, mi ha guardato le spal-le quando io non mi reggevo in piedi. Mi potrebbe essere padre, lui ora avrebbe la sua stessa età. Forse è anche per questo che tengo lui come soldato, anche se ormai non corre quasi più… cos’è di me che rispetta tanto?” Stefano dal primo piano aveva riconosciuto il rumore del motore della macchina, ma era uscito lo stesso sul terrazzo. Non si fidava mai, nem-

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meno dei rumori che sentiva tutti i giorni, che conosceva a memoria. Non si fidava, controllava sempre. La porta era socchiusa e Giuseppe l’aveva trovato nella luce giallognola della cucina che stava oliando la pistola, il resto della casa era buio. «Minchia, non ti stufasti di stare sempre con chistu cosu in mano?» e gli aveva dato una pacca sulla spalla. Stefano aveva riso, aveva puntato la pistola verso la finestra e poi se l’era sistemata sotto il braccio, sotto la giacca. «Pronto sei?» aveva chiesto all’amico. «E come no?» «Minchia, Giusè, quanto profumo ti mettesti? E poi… mi sbaglio o sei un poco in ritardo?» «No, hai ragione. È che avevo un appuntamento con una ragazza.» «Sì? E dove? Al Capo o con quelle della Favorita?» Aveva pensato automaticamente a quel tipo di donne che lui e il suo a-mico si sbattevano nelle macchine o nei cessi dei night-club. «La finisti? Con una ragazza normale, una ragazza vera, ti dissi.» «Bedda Madre! E chi è? Della tua famiglia è? O della mia?» «Nessuna famiglia, Fanuzzu. Non c’entra niente. Minchia, poi, ti fai i cazzi tuoi?» Stefano lo guardò un po’ così, poi pensò: “Chi minchia se ne fotte di sapere chi sia questa donna fuori di testa, tanto durerà poco.” «Diamoci un po’ di carica Giuseppe, c’ho pure fame. Non ho mangiato niente.» «Nemmeno io. Amunì, prepara due strisce.» Scesero per le scale al buio e Stefano mise nel portabagagli una borsa grigia da viaggio. Natale era un bravissimo autista, ma ci fosse stato bi-sogno di una fuga sarebbe stato troppo lento, perciò in casi come quello guidava sempre Giuseppe. Andarono all’appuntamento in una stradina dietro al porto, la zona delle rimesse e dei depositi cargo. L’altra macchina era già là ad aspettarli. «Questi cornuti non lo vedono che c’è troppa luce?» aveva detto Giusep-pe. C’era un lampione acceso a trenta metri dalla macchina che li aspettava. Giuseppe si avvicinò a fari spenti. Quando quei tizi aprirono le porte e fecero per scendere, lui uscì dalla macchina e si piazzò davanti al cofano, Natale accanto. Proteggevano Stefano, che era andato ad aprire il porta-

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bagagli. Un minuto dopo nello stesso portabagagli c’era un’altra borsa strapiena di milioni. Rifecero la stessa strada. «Minchia Giuseppe, quanti saranno?» «Dopo li contiamo Stefano, ora talìamo u’ panorama.» Paia di gambe nelle calze a rete ancheggiavano qua e là, qualche manina chiamava, invitava dall’alto dei tacchi a spillo, dalle giarrettiere, le mini-gonne, le facce dipinte di trucco pesante. Stefano dal finestrino abbassato rispondeva ai saluti, urlava complimenti, soffiava indietro baci. «Che si fa Giusè, glielo vogliamo fare un regalino a queste belle signori-ne?» «No Stefano, c’ho fame. E poi non ti bastò quella che ti ho portato ieri sera?» «Giuseppe, vedi che mi stai scassando la minchia! E lei, Natale, non vuole favorire?» Natale aveva riso, poi aveva scosso la testa. «Don Fanuzzu, lo sapete. Tengo moglie e poi io sto lavorando!» «Miii, che sarà mai! Voi pensate solo a travagliare!» Tutti si misero a ridere. E Stefano non era solo allegro, era felice. Si erano fermati in una pizzeria dietro al Mercato del Pesce, le cameriere stavano già tirando le sedie sui tavoli. Era ora di chiusura, era tardi. Ma il proprietario vedendoli entrare forse aveva capito qualcosa; fece cenno di sì con la testa alle ragazze e quelle li fecero accomodare. Un posto triste, spoglio, con le pareti che avrebbero avuto bisogno di una bella mano di bianco, due o tre quadri tremendi di clown che avrebbero avuto bisogno di sparire. La cameriera alla quale era toccato prendere le ordinazioni si era sentita male a servirli. Su quello anziano niente da dire, aveva ordinato la sua pizza ed era stato tutto il tempo in silenzio a fumare con gli occhi sul ta-volo. Ma gli altri due, quelli giovani, avevano cambiato di continuo idea sul vino, avevano fatto cadere il posacenere. Lo avevano fatto apposta per tenerla lì e infastidirla con battute abbastanza pesanti sulle cosce ab-bondanti, sul sedere troppo grosso che ballava sotto il grembiule. La guardavano e poi commentavano, si dicevano quelle cose come se lei non esistesse, come se fosse invisibile. E per loro due lo era. Tutti li ave-vano però lasciati fare, compresa lei. Poi erano arrivate le pizze. “Gesù, grazie” aveva pensato Natale “così per un po’ stanno zitti.” E invece Stefano, mentre tagliava la pizza a spicchi, aveva iniziato a ri-dere.

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«Fanuzzu, che minchia c’hai da ridere? Facci ridere pure a noi» aveva detto Giuseppe. «Stavo pensando… te lo ricordi quel giorno di quel tizio, quello che si chiamava Pio?» Giuseppe aveva capito, ma fece finta di no. «Quello su quella Fiat da morto di fame…» «Stefano, abbassate la voce…» aveva detto Natale. «Sì, e allora?» «Ti ricordi che quel giorno c’ero pure io?» Giuseppe aveva la bocca piena, faceva di sì con la testa ma non aveva ancora capito cosa ci fosse da ridere. «Te scendesti di corsa dalla macchina e lo facesti ballare col mitra a lui e a quello della scorta…» «Minchia Fanuzzu, tutto fuori, sei? Abbassa la voce!» Si era fatto serio, ma voleva vedere dov’era la barzelletta in tutta quella storia. A Natale, che invece aveva già capito perché quel giorno c’era pu-re lui, stava passando la fame. «Ti ricordi che poi andammo tutti al circolo e che lu zù Aurelio ci aspet-tava lì?» «Mi ricordo, mi ricordo.» «Minchia che risate! Urlavi, facevi il verso du’ puddicino e dicesti, anzi urlasti “morìu ù Pio!” E lu zù Aurelio ti sentì, venne fuori e ti ricordi co-sa ti disse?» Giuseppe se lo ricordava benissimo e pure Natale. E a nessuno dei due veniva da ridere. «No Stefano, che mi disse?» «Bravo, bravo, lo fai bene il pulcino. Le bestie le fanno bene alle be-stie…» Non si mise a ridere, anzi prese tempo. Posò la forchetta e il coltello sul piatto, si girò a guardare Natale. «Senti un po’ Stefano… e tu te lo ricordi cosa fece dopo lu zù Aurelio?» «Ci offrì da bere a tutti, mi sembra.» «Bravo. Ci offrì da bere. E cosa disse per brindare?» «Chi se lo ricorda…» «Disse: “alla Sicilia libera e bella!”.» «Eh… e allora?» «Fanuzzu, fammi u’ piacere; io e te di quel brindisi non ci abbiamo mai capito niente. Come non ci avevamo capito niente di tutto quel discorso

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che ci fece su quel Pio. Perché gli dava tanta noia, ah? Libera da cosa, ah? Quel tizio, quel Pio, chi era, Stefano? Io e te manco lo sappiamo chi era. Quel giorno feci il testa di minchia e tutti vi metteste a ridere, ma cosa ci ha insegnato lu zù Aurelio, ah?» Ora Stefano non rideva più nemmeno con gli occhi. Guardava nel piatto come Natale. «Che quando si tratta di ammazzare cristiani non c’è niente da ridere.» Natale si fece il segno della croce. Giuseppe bevve un sorso di vino poi sbatté il bicchiere sul tavolo. Aveva una faccia che faceva paura. Quando si alzarono lui fu l’ultimo a uscire. Le cameriere non si avvicinarono, a-spettarono vicino al bancone. Buttò i soldi sul tavolo come faceva sem-pre, così a caso; due banconote volarono per terra. Si piazzò nel mezzo, guardò quelle persone che non vedevano l’ora che se ne andasse, fece abbassare lo sguardo a tutti poi finalmente uscì. Entrò in casa, buttò la giacca di pelle sul divano e la pistola dietro di es-sa. Andò in camera, si sfilò le scarpe senza sciogliere i lacci e le scara-ventò lontano, poi si buttò sul letto così com’era. I pensieri correvano, iniziavano ad accavallarsi, poi si fermarono sull’unica cosa di quel gior-no per lui degna di nota. Erano passate appena quattro ore dai momenti su quel terrazzo, eppure gli sembravano giorni. Si sentiva stanco. Pensò che - va’fan’culo - un giorno di quella settimana sarebbe andato di nuovo incontro a quell’inizio e a quella fine. Fine anteprima.Continua...