Veneto: un compendio dei problemi aperti Ferruccio Gambino · preordinato dai governi e dalle loro...

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Processi migratori internazionali e cause storico-sociali del fenomeno migratorio in Italia e nel Veneto: un compendio dei problemi aperti Ferruccio Gambino (Treviso, 12.11.2010) 1. LE DIMENSIONI CORRENTI DELLE MIGRAZIONI INTERNAZIONALI Per avviare una discussione che spero fruttuosa sulle migrazioni correnti suggerisco di cominciare con alcuni dati generali sulle dimensioni internazionali dei fenomeni migratori in atto; poi richiamerò brevemente quei processi storici dell’epoca moderna che aiutano a situare in una prospettiva di lungo periodo il quadro attuale. Potremo così dibattere quali siano i vincoli cogenti ma anche le opzioni disponibili nei prossimi anni in tema di migrazioni. Aggiungo un’avvertenza: a costo di allungare l’esposizione con l’uso del femminile, cercherò spesso di esplicitare la doppia dimensione delle migrazioni, poiché la rappresentazione dei movimenti migratori esclusivamente al maschile ha tradizionalmente oscurato l’aspetto di genere dei fenomeni qui discussi. Nel 2010 i migranti, generalmente definiti come “residenti in un paese diverso da quello di nascita per più di un anno”, sono circa 214 milioni (di cui la metà donne), 1 cifra relativamente stabile della popolazione mondiale, essendo cresciuta soltanto dello 0,1% tra il 2005 e il 2010. Dunque, sui 6miliardi e 634milioni di abitanti del globo 2 i migranti sono il 3,1%, certamente non una percentuale alta, anche se in tre Paesi essa risulta superiore al 50% della popolazione. 3 Questi 214 milioni di individui sono disaggregabili in cinque categorie principali. permanenti, ossia coloro che hanno deciso di stabilirsi definitivamente nel loro nuovo Paese; lavoratrici/lavoratori a contratto, che ricevono un permesso di soggiorno di pochi mesi o al più di pochi anni e che sono private/i del diritto di richiamare i propri familiari, come nel caso di gran parte di coloro che 1 International Organization for Migration (Iom), World Migration Report 2010. The Future of Migration, Ginevra,, Iom, 2010, p. 115. 2 United Nations Department of Economic and Social Affairs (Desa), Trends in Total Migrant Stock: 2008 Revision, Un Desa, New York, 2007. 3 I tre Paesi sono il Qatar, gli Emirati arabi uniti e il Kuwait. Il primato della percentuale dei nati all’estero sul totale della popolazione spetta al Qatar, con l’ 86,5%, seguito dagli Emirati arabi uniti (70%) e dal Kuwait (68.8%). L’Arabia saudita è al decimo posto, con il 27,8%. In termini assoluti, gli Stati uniti mantengono il primato di residenti immigrati (42 milioni), seguìti dalla Federazione russa (12 milioni), dalla Germania (11 milioni) e dall’Arabia saudita (8 milioni). 1

Transcript of Veneto: un compendio dei problemi aperti Ferruccio Gambino · preordinato dai governi e dalle loro...

Processi migratori internazionali e cause storico-sociali del fenomeno migratorio in Italia e nel Veneto: un compendio dei problemi aperti

Ferruccio Gambino

(Treviso, 12.11.2010)

1. LE DIMENSIONI CORRENTI DELLE MIGRAZIONI INTERNAZ IONALI

Per avviare una discussione che spero fruttuosa sulle migrazioni correnti suggerisco di

cominciare con alcuni dati generali sulle dimensioni internazionali dei fenomeni migratori in atto;

poi richiamerò brevemente quei processi storici dell’epoca moderna che aiutano a situare in una

prospettiva di lungo periodo il quadro attuale. Potremo così dibattere quali siano i vincoli cogenti

ma anche le opzioni disponibili nei prossimi anni in tema di migrazioni. Aggiungo un’avvertenza: a

costo di allungare l’esposizione con l’uso del femminile, cercherò spesso di esplicitare la doppia

dimensione delle migrazioni, poiché la rappresentazione dei movimenti migratori esclusivamente al

maschile ha tradizionalmente oscurato l’aspetto di genere dei fenomeni qui discussi.

Nel 2010 i migranti, generalmente definiti come “residenti in un paese diverso da quello di

nascita per più di un anno”, sono circa 214 milioni (di cui la metà donne),1cifra relativamente

stabile della popolazione mondiale, essendo cresciuta soltanto dello 0,1% tra il 2005 e il 2010.

Dunque, sui 6miliardi e 634milioni di abitanti del globo2 i migranti sono il 3,1%, certamente non

una percentuale alta, anche se in tre Paesi essa risulta superiore al 50% della popolazione.3 Questi

214 milioni di individui sono disaggregabili in cinque categorie principali. permanenti, ossia coloro

che hanno deciso di stabilirsi definitivamente nel loro nuovo Paese; lavoratrici/lavoratori a

contratto, che ricevono un permesso di soggiorno di pochi mesi o al più di pochi anni e che sono

private/i del diritto di richiamare i propri familiari, come nel caso di gran parte di coloro che

1 International Organization for Migration (Iom), World Migration Report 2010. The Future of Migration, Ginevra,, Iom, 2010, p. 115.

2 United Nations Department of Economic and Social Affairs (Desa), Trends in Total Migrant Stock: 2008 Revision, UnDesa, New York, 2007.3 I tre Paesi sono il Qatar, gli Emirati arabi uniti e il Kuwait. Il primato della percentuale dei nati all’estero sul totale della popolazione spetta al Qatar, con l’ 86,5%, seguito dagli Emirati arabi uniti (70%) e dal Kuwait (68.8%). L’Arabia saudita è al decimo posto, con il 27,8%. In termini assoluti, gli Stati uniti mantengono il primato di residenti immigrati (42 milioni), seguìti dalla Federazione russa (12 milioni), dalla Germania (11 milioni) e dall’Arabia saudita (8 milioni).

1

lavorano con il cosiddetto contratto nelle monarchie del Golfo persico/arabo; professionisti,

solitamente impiegati presso compagnie transnazionali o in posti qualificati di imprese del Paese di

destinazione; lavoratrici/lavoratori senza documenti, ossia i cosiddetti irregolari, sia che

all’ingresso in un Paese straniero risultino privi di documenti validi sia che si trattengano oltre la

scadenza del visto; infine, nella quinta categoria rientrano coloro che sono registrate/i come

rifugiate/i e come richiedenti asilo politico, ovvero “chi ha fondate ragioni per temere

persecuzioni…”, secondo la definizione delle Nazioni Unite.4 E’ ovvio che fra queste cinque le

categorie menzionate possono sorgere sovrapposizioni. In generale le sovrapposizioni sono più

frequenti tra i veri o presunti turisti che si trattengono oltre la scadenza del visto d’ingresso e tra le

lavoratrici/i lavoratori in posizione irregolare nei vari sistemi nazionali d’impiego. In alcuni casi

la/il migrante in regola diventa una/un migrante irregolare semplicemente perché lo stato ospitante

cambia le sue regole. Inoltre, non tutti i professionisti qualificati sono immuni da restrizioni; ad

esempio, negli Stati Uniti molti di loro operano sotto contratto a tempo determinato e non godono

del diritto all’immediato ricongiungimento famigliare.

Come in altre fasi storiche, anche nel primo decennio del ventunesimo secolo si assiste a

vari conati di disciplinamento dei flussi a livello mondiale. Si tratta di una doppia selezione. Il filtro

più severo è applicato contro l’immigrazione giudicata dai vari governi come socialmente

pericolosa. Il filtro può diventare un blocco che si estende più o meno dichiaratamente a

popolazioni di intere regioni, sottintendendo paure di terrorismo o di disordini pubblici, entrambi

termini pigliatutto che andrebbero sempre vagliati e analizzati, poiché possono nascondere secondi

fini discriminatori. Per contro, un filtro più opaco per selezionare forza-lavoro sperabilmente docile

nei confronti di chi comanda è quello costituito dai burocrati statali e dai reclutatori formali e

informali. Essi dispongono di un certo spazio di manovra per il collocamento delle/dei migranti nei

Paesi di destinazione. Da più di un ventennio il potere di una burocrazia delle migrazioni svincolata

da controlli effettivi è incrementato dalle pretese urgenze produttive che impongono il just-in-time

4 Del totale di 214 milioni di migranti , circa il 10-15% è la frazione di coloro che sono prive/i di documenti regolari.

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anche al reclutamento di chi è disponibile a lavorare e non soltanto alle scorte di materiali. In

queste urgenze, le condizioni di vita delle/dei nuove/i arrivate/i sono trattate come grattacapi di

second’ordine che un’immaginaria temporaneità del soggiorno dovrebbe risolvere da sola. Nella

nostra società occidentale la provvisorietà della presenza delle/dei migranti è una comoda

giustificazione per lenire i sensi di colpa che l’accoglienza inadeguata suscita in coloro che sono

comodamente stanziali.5

Le/i migranti seguono le loro strategie6, ma queste possono entrare in contrasto con il corso

preordinato dai governi e dalle loro burocrazie per i flussi migratori. Solitamente le autorità

preposte rappresentano il corso preordinato come un cammino privo di asperità. Di fatto esso piano

non è quasi mai, poiché vi si inseriscono varie istituzioni tra cui le agenzie di lavoro pubbliche,

semipubbliche e private, gli ingaggiatori più o meno legali di individui singoli e di squadre e quegli

enti di categoria che svolgono opera di intermediazione, spesso con appositi uffici nelle aree di

origine dei migranti. I reclutatori vanno incontro a richieste di manodopera che si manifestano in

tempi più o meno ridotti e che non sempre si combinano con i tempi lunghi dei governi in tema di

migrazione. Il reclutamento just-in-time è praticato prevalentemente in quei settori produttivi che

sono difficilmente delocalizzabili - come ad esempio l’edilizia abitativa – nei quali il ricambio

lavorativo (turnover) è elevato, in ragione del deterioramento delle condizioni di lavoro e dei livelli

salariali.7

I datori di lavoro tendono a segmentare specifici tipi di lavoratori per determinate

occupazioni; nulla di sorprendente, poiché, soprattutto in presenza di legislazioni lacunose, essi

seguono i loro interessi. Ciascun datore di lavoro considera la segmentazione come uno strumento

per abbassare i suoi costi privati di produzione. Ad esempio, nelle grandi periferie urbane in Asia,

così come lungo i confini meridionali degli Stati Uniti, l’incasellamento nel posto di lavoro si

svolge generalmente lontano dalle ispezioni e dai controlli pubblici, mentre le burocrazie dei Paesi 5 Gambino, Ferruccio, “Il momento dell’accampamento”, in Migranti nella tempesta. Avvistamenti per l’inizio del nuovo millennio, Verona, Ombrecorte 2003, pp. 101-116.6 Papastergiadis, Nikos,The Turbulence of Migration: Globalization, Deterritorialization and Hybridity, Cambridge, U.K., Polity Press, 2000. 7 Stalker, Peter, L’immigrazione, Roma, Carocci, 2003, pp. 75-85.

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da cui i migranti provengono fanno spesso finta di guardare altrove. Sui confini dell’Unione

europea e al crescere del bisogno di braccia, alcuni centri e campi di raccolta di migranti privi di

documenti (gli appellativi variano) possono trasformarsi in informali bacini di manodopera e

dotarsi di rudimentali uffici di collocamento, ad esempio in Ucraina. All’interno dell’Unione

europea, grazie ai decreti di espulsione ed episodicamente anche alle fughe dai centri di detenzione,

coloro che sono privi del diritto di residenza si trasformano in parte in lavoratori irregolari, mentre i

caporali diventano i loro opachi agenti di ingaggio.

Riassuntivamente, nella lunga storia delle migrazioni moderne, ancora oggi le migrazioni

libere si intrecciano con elementi di illibertà e d’irreggimentazione. Tali elementi non sono altro

che l’ombra lunga proiettata dalle vicende delle migrazioni coatte, vicende tutt’altro che concluse.

Insisto dunque nell’affermare che le migrazioni coatte non sono soltanto un pallido ricordo dei

primi secoli della modernità o degli anni 1939-45 ma che esse spiegano in parte tendenze e strategie

correnti.

2. PRIMA DELLE MIGRAZIONI CONTEMPORANEE

Per millenni le migrazioni forzate e la schiavitù sono andate di pari passo. Il millennio

scorso non ha certo fatto eccezione. Al contrario, schiavitù e servitù a tempo determinato si

sviluppano in dimensioni ben più vaste di quelle dei tempi precedenti, a causa degli incrementi

demografici e dell’apertura di nuovi commerci di lunga distanza. A partire dalla seconda metà del

quindicesimo secolo la tratta europea e araba degli schiavi si sposta progressivamente dal

Mediterraneo verso le coste dell’Africa occidentale. Grazie a questo spostamento diminuiscono e

poi si esauriscono le reciproche incursioni a scopo di asservimento e di rapina da parte sia dei

cristiani sia dei musulmani nel Mediterraneo, ma cristiani e musulmani scaricano gran parte del

costo umano del loro accomodamento convergendo sull’Africa occidentale per le loro razzìe.

Già nel quindicesimo secolo il miglioramento della convivenza sulle coste del Mediterraneo

dipende sempre più dal fatto che gli schiavisti europei e arabi compiono le loro depredazioni lungo

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le coste subsahariane dell’Atlantico meridionale. Mentre i mercanti arabi dirigono il loro traffico di

schiavi prevalentemente verso l’Africa settentrionale e orientale, i mercanti europei moltiplicano

gli accordi con i capi locali africani per creare grandi bacini di schiavi da condurre al lavoro forzato,

prima in Europa e poi soprattutto nelle Americhe.

Dall’inizio della colonizzazione delle Americhe fino al 1830 la maggioranza dei migranti

nelle due Americhe - contrariamente a quanto si impara su qualche manuale scolastico – non sono

europei bensì africani ridotti in schiavitù. Gli africani deportati tra il 1450 e il 1807 (anno della

proclamazione dell’illegalità della tratta da parte della Gran Bretagna) sono circa 11,7 milioni, di

cui un terzo donne. Di questi deportati poco meno di 2 milioni muoiono durante il viaggio e 9,8

milioni giungono a destinazione. A loro va aggiunto circa un milione di schiavi trasportati più o

meno clandestinamente dalle altre potenze europee e dai trafficanti delle Americhe tra il 1807 e il

1830. Al confronto, l’emigrazione di europei verso le Americhe fino al 1830 è minore, consistendo

in circa 3,3 milioni di individui. Di questi europei, circa un milione e 200mila emigrano

nell’America settentrionale e nei Caraibi, poco più della metà come servi a tempo determinato - e

non come schiavi a vita. Più di due milioni - soprattutto spagnoli e portoghesi – si insediano

nell’America meridionale.8

Tra le ragioni per cui la popolazione africano-americana risulta oggi minoritaria negli Usa e

in altri Paesi americani non va dimenticato il fatto che la mortalità degli schiavi africani è ben più

alta di quella degli europei nel diciassettesimo e diciottesimo secolo. Anche se altri due milioni di

schiavi vengono trasportati clandestinamente nelle Americhe dal 1830 agli anni 1860,9 è nel

medesimo periodo che l’immigrazione di massa dall’Europa diventa soverchiante rispetto a quella

africano-americana, soprattutto verso gli Stati Uniti, dove già nel trentennio che precede la guerra

8 Curtin, Philip, The Atlantic Slave Trade: A Census, Madison, Wis., University of Wisconsin Press, 1969 e Hoerder, Dirk, Cultures in Contact. World Migrations in the Second Millennium, Duke University Press, Durham, N.C., and London, 2002, pp. 187

9 David Brion Davis, “The Universal Attractions of Slavery”, New York Review of Books, Dec. 17, 2009, pp. 72.-74. Per una ricostruzione storica dell’abolizione della schiavitù fino allo scorcio del secondo millennio, Drescher, Seymour,Abolition: A History of Slavery and Antislavery, Cambridge University Press, Cambridge, U.K., New York, N.Y., 2009.

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civile (1861-65) giungono quasi 3 milioni di europei.10 In totale, tra la fine delle guerre

napoleoniche (1815) e il 1939 i migranti europei che si avviano verso altri continenti sono circa 50-

55 milioni, un quinto della popolazione d’Europa dell’inizio dell’Ottocento. Circa 35 milioni si

dirigono verso l’America settentrionale, 8 milioni verso l’America meridionale e il resto verso altri

continenti. Soltanto 7 milioni rientrano in Europa.11

Queste migrazioni europee sarebbero ben lontane dall’europeizzare una larga parte delle

Americhe se non intervenisse la tragedia dei popoli autoctoni. Nel secolare processo di penetrazione

coloniale vengono travolti dalle malattie e dal lavoro schiavile i nove decimi della popolazione

amerindia, che era di circa 90-112 milioni attorno al 1492 e che negli anni ottanta del

diciannovesimo secolo è ridotta a circa 10 milioni di individui12. Questa immane catastrofe finirà

per sovrastare i rapporti tra indigeni e colonizzatori.

Quando nel già ricordato anno 1807 la Gran Bretagna dichiara illegale la tratta degli schiavi

dall’Africa verso le sue colonie caraibiche, gli Stati Uniti ne seguono l’esempio, ma entrambi gli

stati si guardano bene dall’abolire la loro schiavitù. Nel giro di due decenni anche le altre potenze

coloniali europee si adeguano alla posizione britannica dichiarando illegale la tratta. Si tratta di una

presa di posizione più formale che effettiva. Di fatto esse lasciano correre, adottando una linea di

ampia tolleranza nei confronti dei trafficanti di schiavi nell’Atlantico.

Dal canto suo, la Gran Bretagna abolisce la schiavitù nelle sue colonie caraibiche nel 1834

ma vi organizza poi la tratta di servi a tempo determinato dall’India e dalla Cina, per sopperire alla

mancanza di schiavi africani che avevano abbandonato le piantagioni. Altrettanto fanno la Francia e

gli altri paesi coloniali nell’Ottocento, anche se ricorrono meno spesso a tratte transoceaniche. In

generale, la servitù temporanea negli imperi coloniali andrà in crisi soltanto negli anni Venti del

ventesimo secolo, al crescere della capacità di resistenza dei popoli colonizzati. Intanto procede un

altro processo di schiavizzazione. Nella seconda metà del diciannovesimo secolo cresce il traffico di10 Hoerder, DirkWorld Migrations in the Second Millennium, Duke University Press, Durham, N. C Hoerder, Dirk, Cultures in Contact. and London, 2002, pp. 189-90.

11 Hoerder, Dirk, cit., pp. 331-332. 12 Ibid., pp. 189-190.

6

schiavi sulle coste orientali dell’Africa ad opera sia di mercanti arabi sia di trafficanti europei che

forniscono manodopera coatta alle piantagioni, alle miniere e alla rete dei trasporti africani13 .

Questo incremento è legato all’Assalto all’Africa degli ultimi tre decenni dell’Ottocento, ovvero

alla penetrazione coloniale europea nei territori interni., alla quale partecipa a suo modo anche

l’Italia, come vedremo.

Verso la metà dell’Ottocento, ovvero alla vigilia dell’Assalto europeo all’Africa, il numero

degli schiavi nelle Americhe ammonta a 5,5 milioni, ossia è pari a un terzo dei circa 17 milioni di

schiavi allora in vincoli in Africa e in Asia. Tuttavia neppure a coloro che non sono schiavi è

permesso migrare liberamente dall’Africa e dall’Asia verso l’Europa o le Americhe - né allora né

durante i successivi cent’anni. In breve, per quasi cinque secoli e mezzo - dalla seconda metà del

quindicesimo secolo fino alla Seconda guerra mondiale - dall’Africa e dall’Asia si giunge in

occidente soltanto in catene. Questo esodo coatto e le angosce che ne derivano plasmano la visione

del mondo di circa diciotto generazioni di donne e uomini - soprattutto di donne e uomini che

abitano l’Africa subsahariana. Non può mai venire sottolineata abbastanza l’importanza per le/gli

africane/ e per le/gli asiatiche/i di questo sbarramento invisibile ma effettivo da parte degli europei

che dura per ben 450 anni. E’ soltanto quando i Paesi colonizzati riconquistano la loro indipendenza

– in generale tra la Seconda guerra mondiale e gli anni 1980 - che dall’Africa e dall’Asia si può

sperare di giungere in Europa e nelle Americhe come donne e uomini liberi.

Questa prospettiva, per cui la conquista dell’indipendenza dovrebbe garantire il diritto

formale alla libertà di movimento, è di ardua comprensione nella sua portata storica per gli europei

e per i discendenti degli europei nelle Americhe. Tuttavia se non si tengono in considerazione sia la

repressione delle migrazioni libere dei non-europei nel corso dei secoli sia la sedimentazione di un

passato di rapimenti di massa, siamo condannati ad assolvere un passato che in altri continenti non

passa. E’ soltanto alla luce della barriera secolare imposta dagli europei agli “altri” che possiamo

comprendere l’aspirazione delle giovani africane e asiatiche e dei giovani africani e asiatici a

13 Janet J. Ewald, “Crossers of the Sea: Slaves, Freedmen, and Other Migrants in the Northwestern Indian Ocean, c. 1750-1914”, American Historical Review, 105: 1 (2002), pp. 69-91.

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esperire liberamente un mondo che è stato precluso alle loro madri e ai loro padri. Se siamo

disposte/i a comprendere la volontà di migrare di tanti individui e gruppi dell’Europa orientale

verso occidente dopo i 70 anni del regime sovietico o i 45 anni dei regimi degli altri Paesi del patto

di Varsavia, dobbiamo riconoscere l’impulso a migrare di africane/i e asiatiche/i, escluse/i per

secoli dall’accesso all’occidente.

La conquista della libertà di movimento internazionale degli ex-schiavi e degli ex-servi è

avvenuta attraverso molte rotture degli equilibri socio-politici esistenti. Non ci sono stati regali.

Qui, semplificando, accenno soltanto a quattro fasi di rottura che ritengo fondamentali. La madre di

tutte le vittorie è quella degli schiavi di Haiti – i primi schiavi a emanciparsi da soli nella storia.

All’inizio del diciannovesimo secolo gli haitiani sconfiggono due eserciti napoleonici e proclamano

la repubblica, in una successione di eventi che scuotono profondamente il mondo atlantico e che

inducono la Gran Bretagna ad abolire la tratta degli schiavi dall’Africa (1807). La seconda è

l’abolizione della schiavitù nelle Antille britanniche nel 1834. La terza è l’abolizione della schiavitù

nel corso della guerra civile negli Stati Uniti (1863) due anni dopo l’abolizione della servitù della

gleba in Russia. Segue l’abolizione della schiavitù nel resto delle Americhe, da ultimo in Brasile

(1888). La quarta rottura è la fine della segregazione razzista negli Stati Uniti con una lotta che

comincia nel corso della guerra civile e che viene contenuta e repressa per più di 60 anni, durante

cui quasi esclusivamente gli europei possono entrare come immigrati negli Stati Uniti - e persino

essi con crescente difficoltà dopo lo scoppio della guerra 1914-18 e la rivoluzione russa del 191714.

La lotta contro la segregazione razzista riprende, prima in sordina, dopo la Seconda guerra

mondiale, poi si afferma vigorosamente nel Sud negli anni 1950 e infine vince a livello federale

negli anni Sessanta.

Alla metà degli anni Sessanta, quando si delinea ormai la vittoria della desegregazione, la

proposta di Martin Luther King di una legge dell’immigrazione negli Stati Uniti che dichiari

14 Dal 1850 al 1920 l’immigrazione asiatica verso gli Stati Uniti conta 600mila arrivi, di cui 320mila cinesi e 240mila giapponesi. Per imporre restrizioni all’immigrazione cinese sono emanate tre leggi federali, nel 1882 , nel 1884 e nel 1888. L’immigrazione asiatica riprende negli anni 1940.

8

annualmente le quote di immigrati ammissibili senza discriminare né gli africani né gli asiatici

viene finalmente approvata. E’ legata a questa vittoria negli Stati Uniti e ancor più alla conquista

dell’indipendenza dei paesi africani, la lunga lotta in Sud Africa per l’abolizione della segregazione

razzista (1991). Finalmente sembra che da tutta l’Africa si possa uscire e in tutta l’Africa si possa

tornare come donne e uomini libere/i. Ma è così?

3. IMMIGRATE/I VERSO UN PAESE DI SECOLARE EMIGRAZIONE

L’immigrazione in Italia comincia proprio quando il Movimento per la desegregazione

(chiamato anche Movimento per i diritti civili) diventa vincente negli Stati Uniti, creando un diffuso

impatto antirazzista nel resto del mondo occidentale, oltre che in Africa e in Asia. Anche se la

discriminazione in varie gradazioni persiste, il crasso razzismo della separazione fisica per colore

della pelle nei luoghi pubblici entra in una fase di dissolvenza dalla metà degli anni 1960.

La coincidenza temporale di crisi della segregazione e di inizio dell’immigrazione

nell’Europa meridionale - e in particolare in Italia - è carica di significati e di conseguenze.15 Nel

1973, per la prima volta dagli anni dell’unificazione, i rimpatri dei migranti italiani superano gli

espatri, mentre l’immigrazione comincia a diventare visibile.16 Per comprendere la portata

dell’inversione di tendenza degli anni 1970 occorre riandare alle vicende migratorie dell’Italia

moderna.17

L’Italia unita nasce quasi federalista e quasi anticolonialista. Nei primi anni dello stato

unitario sembrano prevalere i progetti sia delle ampie autonomie locali all’interno sia delle “mani

nette” all’estero, ovvero della rinuncia al colonialismo. La stessa destra storica comincia a

governare auspicando una struttura statale non accentrata, ma poi compie una svolta accentratrice

per il timore che i cattolici fedeli al Vaticano di Pio IX si impadroniscano dei poteri locali. Quanto

15 Sulle migrazioni italiane nell’epoca moderna e in particolare dalla fine del Settecento, v. Patrizia Audenino e Maddalena Tirabassi, Migrazioni italiane Storia e storie dall’Ancien régime a oggi, Milano, Bruno Mondadori, 2008.16 Ibid., p. 166.17 Ibid., pp. 1-77.

9

al principio anticolonialista – quello mazziniano e della sinistra liberale per cui il popolo oppresso

di ieri non dovrà diventare il popolo oppressore di domani - lo stato italiano infrange tale principio

già verso la fine degli anni 1870 con le due prime spedizioni militari nel Corno d’Africa per

impadronirsi della baia di Assab. Durante la seconda di queste spedizioni (1879), quando è capo del

governo l’ex-mazziniano Benedetto Cairoli, l’Italia impone l’apartheid, così avviando nel segno

del razzismo la sua avventura coloniale in Africa.18 Grazie a un bilancio che privilegia le spese

militari, lo stato italiano muove truppe per le sue conquiste sia sulle coste del Mar Rosso sia poi in

Libia (1911-12), offrendo anche la vaga prospettiva di uno sbocco africano a quanti sono desiderosi

di emigrare, mentre i grandi capitali privati restano prudentemente a guardare. Questi miraggi

migratori - che attirano alcune decine di migliaia di italiani prima nel Corno d’Africa, poi in Libia e

infine in Etiopia - si dissolvono a mano a mano che i pericoli bellici si combinano con le magre

prospettive offerte dalla penetrazione italiana19.

Nel periodo 1876-1915 partono dall’Italia 16,66 milioni di migranti, nella stragrande

maggioranza tenendosi alla larga dall’espatrio sotto la protezione delle cannoniere nazionali nel

Mar Rosso. Essi ripongono le loro speranze nelle Americhe ancor più nei Paesi europei20, mentre è

limitata l’emigrazione italiana verso la riva meridionale e orientale del Mediterraneo.21 Sempre nel

18 Benedetto Cairoli è preceduto e seguìto alla guida del governo da Depretis, poi da Crispi e da Zanardelli, tutti ex-mazziniani e tutti fautori dell’avventura colonialista nel Corno d’Africa. V. Angelo Del Boca, Gli italiani in Africa orientale. Dall’Unità alla marcia su Roma, Bari Laterza, 1976, pp. 100-111, 115-116, 489-718. In particolare, va notatoche con una sola Ordinanza ministeriale, quella del 24.12.1879 per la baia di Assab, il governo Cairoli intende salvare la faccia proibendo formalmente la schiavitù ma si affretta a correre ai ripari disponendo all’art. 15 dell’Ordinanza medesima che “gli indigeni e gli indiani abbiano residenza separata da quella degli europei e dei parsi”, ovvero intimando il regime dell’apartheid nella colonia.19 L’occupazione italiana nel Corno d’Africa viene contrastata a più riprese e segna una storica battuta d’arresto con la sconfitta di Adua (1896). In Libia, dopo l’invasione italiana (1911-12) la crisi dell’apparato coloniale durante la guerra1915-18 provoca l’abbandono di vaste aree che vengono riprese dalla guerriglia, poi sconfitta in una crudele riconquista tra il 1922 e il 1931. Circa 35.000 coloni italiani si trasferiscono in Libia dalla metà degli anni 1930. Ancorapiù breve è la permanenza di gran parte degli italiani in Etiopia dopo la conquista fascista (1935-36). Circa 40.000 italiani si trovano ad Addis Abeba al momento della sconfitta dell’esercito italiano. Essi vengono salvati dalla clemenzadell’imperatore Hailè Salassiè. Verso la fine degli anni 1960 il governo libico impone l’ultimo rimpatrio ai circa 20mila emigrati rimasti in Libia dopo la liquidazione del colonialismo italiano da parte delle truppe degli Alleati.. 20 Nel periodo 1876-1915 i quattro principali paesi transoceanici di destinazione degli italiani sono nell’ordine gli Stati Uniti, l’Argentina, il Brasile e il Canada, per un totale di 7milioni e 285mila migranti, ai quali vanno aggiunti i 13mila che arrivano in Australia, mentre nelle quattro principali aree europee di emigrazione, nell’ordine la Francia, la Svizzera,la Germania, il Benelux, si contano 6 milioni e 67mila migranti, ai quali se ne aggiungono 69mila in Gran Bretagna. Si veda Audenino, P. e Tirabassi T., op.cit., p. 23.21 Audenino, Patrizia e Tirabassi, Teresa, cit., pp. 55-61, che notano l’arrivo di circa 300.000 migranti italiani sulle rive meridionale e orientale del Mediterraneo, colonie italiane escluse, nel periodo 1876-1925. In larga parte i migranti rientrano in Italia al crescere sia dell’ostilità a causa dell’invasione della Libia (guerra del 1911-12) sia del nazionalismonei Paesi rivieraschi.

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medesimo periodo 1876-1915, la regione di massima emigrazione è il Veneto, seguìto nell’ordine

dal Piemonte dalla Lombardia, dalla Campania e dalla Sicilia.22 Dal canto loro, le classi dirigenti

italiane prima del fascismo sono divise in tema di emigrazione ma finiscono per favorire quelle

transoceaniche, in modo da scoraggiare il ritorno dei migranti che portano in Italia nuovi modi di

vita e rivendicazioni di migliori condizioni. Anzi, lo stato italiano esercita un’occhiuta vigilanza

poliziesca sulle comunità di emigrati, persino nei posti più sperduti, mentre lesina le necessarie

dotazioni finanziarie per l’assistenza ai migranti da parte dei consolati, che restano perlopiù

dominio di appartenenti ai ceti nobiliari . Va aggiunto che i migranti italiani sono stati esposti per

più di cento anni alle tempeste provocate dalle politiche guerrafondaie dei governi liberali e poi

fascisti. Basti pensare agli italiani residenti negli imperi centrali durante la guerra 1914-18 e a quelli

residenti nei Paesi alleati (Stati Uniti, Canada e Australia compresi), durante la guerra 1940-45.

Alle imprese dell’imperialismo italiano il movimento operaio e una parte del mondo

cattolico si oppongono all’interno e all’estero come possono, finché nella guerra civile spagnola i

volontari antifascisti italiani combattono in campo aperto contro il Regio esercito, in uno scontro

che per molti decenni, dopo la repressione del cosiddetto brigantaggio postunitario - e le

conseguenti emigrazioni - era sembrato impensabile ai più. Sempre nella seconda metà degli anni

Trenta un accordo tra i capi nazisti e fascisti avvia all’emigrazione volontaria mezzo milione di

italiani verso la Germania, il subappalto di manodopera più mortifero della storia italiana

contemporanea, poiché in larga parte questi migranti subiscono le conseguenze della guerra in

Germania23. La loro vicenda dischiude la pagina più tragica della storia del ventesimo secolo, ossia

la riduzione in schiavitù nei territori occupati dal nazismo e dal fascismo di milioni di individui che

vengono poi ulteriormente discriminati e sterminati o messi al lavoro coatto nei campi di

22 Nel periodo 1876-1915 partono 1milione e 822mila dal Veneto, 1milione e 540mila dal Piemonte, 1milione e 342mila dalla Lombardia, 1 milione e 475mila dalla Campania e 1 milione e 352mila dalla Sicilia. 23 Brunello Mantelli, Camerati al lavoro. I lavoratori italiani e migrati nel Terzo Reich nel periodo dell’asse (1938-43),Firenze, La Nuova Italia, 1992 e Cesare Bermani, Al lavoro nella Germania di Hitler, Torino, Einaudi , 1997. Mezzo milione di migranti italiani lavorano in Germania nel periodo 1938-43 e soltanto in parte rientraro in Italia nel corso del1943. Dal settembre del 1943 al maggio del 1945 i lavoratori forzati italiani in Germania sono circa milione. Circa 600mila militari italiani tradotti in Germania dopo l’8 settembre 1943 sono arbitrariamente privati del loro status di prigionieri di guerra, diventando “internati militari italiani” senza più la protezione delle convenzioni internazionali.

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concentramento, mentre in Corea, in Manciuria e in altre regioni della Cina il nazionalismo

giapponese fa altrettanto e mentre i gulag nell’Urss distruggono le vite di altri milioni di individui.

In altri termini, mentre nei secoli precedenti l’emigrazione forzata e la schiavitù si

prolungano nel corso del tempo lasciando ai coatti almeno la possibilità di riprodurre la vita umana,

per contro nel ventesimo secolo le migrazioni forzate e la riduzione in schiavitù tendono a

compiersi entro tempi brevi, a escludere completamente la riproduzione della vita umana e a

infliggere il massimo del danno – fino all’annichilimento fisico - ai gruppi perseguitati, confidando

nella complicità o almeno nel silenzio di coloro che ne hanno notizia.24

In Italia, dopo il 1945 e nonostante gli sforzi diplomatici dei primi governi centristi a favore

dell’emigrazione transoceanica, l’esodo verso altri continenti è ormai ridotto a cifre modeste. In

particolare, gli Stati Uniti dell’amministrazione Truman oppongono un diniego cortese ma fermo

alle pressanti offerte di lavoratori da parte del governo italiano per un programma straordinario di

migrazione. E’ giocoforza che l’emigrazione transoceanica del dopoguerra si concentri in quattro

paesi allora a corto di manodopera: Argentina, Australia, Canada, Venezuela, per un totale di

1.100mila persone tra il 1946 e il 1961. Tuttavia il baricentro dell’emigrazione italiana si sposta

ormai verso l’Europa centrale. Nel medesimo periodo 1946-61 lo sbocco principale, quello verso

tre Paesi europei, Francia, Germania e Svizzera, è quasi il doppio, due milioni di migranti, a cui se

ne aggiungono poco meno di due milioni dal 1961 al 1970; nel medesimo decennio 1961-1970

l’emigrazione nei quattro Paesi transoceanici si ferma a un totale di 300.000 unità.25

Come già nel passato, da oltreoceano e dai Paesi dell’Europa centrale le sudate rimesse dei

migranti sostengono sia i redditi dei parenti rimasti in Italia sia la bilancia dei pagamenti italiana26.

Tuttavia, contrariamente a quanto capitava nel passato con i rientri da oltreoceano, il ritorno in Italia

dai paesi europei è agevole e frequente e incrocia sia le grandi migrazioni interne verso le maggiori

24 E’ quanto si osserva, ad esempio, sulla brevità dei tempi dei genocidi perpetrati in Ruanda (1994) e poi nelle due guerre nella Repubblica democratica del Congo (1997-98 e 1998-2003).25 Rielaborazione su dati tratti da Audenino, Patrizia e Tirabassi Teresa, Migrazioni italiane, cit., p. 138.26 Sulla vicenda delle rimesse dei migranti italiani dall’estero, P. Corti, N. Sanfilippo (a cura di), Storia d’Italia, Annali XXIV, Migrazioni, Torino, Einaudi, 2009, pp. 249-283.

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città e verso il nord industriale sia un costante aumento dei redditi in Italia27. In breve, potendo

scegliere, le italiane e gli italiani emigrano assai più verso l’Europa centrale che oltreoceano, nella

speranza di rientrare a casa. In questo ciclo migratorio avviene un fenomeno sociale che coglie di

sorpresa i governanti centristi della fine degli anni 1950, ovvero la formazione di crescenti

aspettative e rivendicazioni di migliori condizioni di vita da parte di quanti tornano in Italia. Si

tratta di istanze che sono basate non su astratte teorie di progresso ma sui superiori standard di vita

osservati nell’Europa centrale ma ormai anche in grandi città come Genova, Milano e Torino.28 A

sua volta, il miglioramento delle condizioni di vita in Italia tra la fine degli anni 1950 e i primi

anni 1960 produce un primo fenomeno visibile, anche se modesto, di attrazione di migranti in Italia.

Forse confondendo il sacro con il profano, ma certamente con forte senso del concreto, si parla

allora di miracolo economico italiano (1957-63), un processo che attira l’attenzione della gioventù

di Paesi più poveri dell’Italia, compresa la gioventù delle ex-colonie italiane dell’Africa orientale.

In realtà, un’immigrazione di minuscola portata verso l’Italia inizia già dopo la Seconda

guerra mondiale, quando alcuni centri per rifugiati, allestiti per i rimpatriati dalle ex-colonie italiane

e per i profughi istriani e dalmati, vengono adibiti alla prima accoglienza di stranieri, soprattutto di

cittadini provenienti dai Paesi dell’Europa orientale nel corso della Guerra fredda. Per parecchi

anni tali centri fungono da punti di smistamento temporaneo in vista dell’emigrazione definitiva

verso i paesi ricchi, in particolare gli Stati Uniti, il Canada, l’Australia. L’Italia è terra di soggiorno

provvisorio in attesa di un visto d’ingresso in terre più fortunate. Poi l’emigrazione verso questi

paesi subisce ripetute battute d’arresto con i primi segnali di rallentamento economico alla fine

degli anni 1960 e ancor più a séguito della crisi petrolifera del 1973, quando persino la Germania

blocca temporaneamente l’immigrazione. Quindi l’Italia diventa per parecchi migranti in transito un

27 Va ricordato che, contravvenendo in parte alle leggi italiane che limitano la mobilità geografica dalla campagna alla città, le/i giovani che si inurbano dopo la fine della guerra 1940-45 instaurano reti di rapporti tali da assicurarsi la sopravvivenza e la ricerca di lavoro già nel periodo della ricostruzione (1946-51), a dispetto di controlli e restrizioni delle forze dell’ordine e delle autorità locali. Poi in Italia comincia un’emigrazione interna di proporzioni bibliche. Dal 1955 al 1975 ben 25 milioni di italiane/i trasferiscono la residenza in altro comune. Tardivamente, soltanto nel 1961, viene legalizzata la libera scelta della residenza sul territorio italiano.28 Su questo aspetto mi permetto di rimandare a Gambino, Ferruccio, “Carichi di lavoro nella fabbrica diffusa del Veneto” in Gambino, Ferruccio, Mingione, Enzo, Pristinger Flavia (a cura di), Distanze e legami, Roma, Carocci, 2003,pp. 15-40 e in particolare pp. 21-22.

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luogo accettabile di sistemazione di ripiego, prima nelle grandi città poi nelle aree più promettenti

dal lato dell’occupazione, tra le quali il Veneto, una regione che dalla fine degli anni 1960 conosce

una notevole crescita economica che nei decenni seguenti finirà per colmare in larga parte il divario

rispetto al Triangolo industriale.

Nei primi anni 1970 le migranti e i migranti che giungono in Italia provengono in

prevalenza da quattro flussi principali: donne eritree, somale, etiopi e filippine occupate come

collaboratrici famigliari; giovani maschi tunisini come pescatori e braccianti in Sicilia; jugoslavi

come edili; rifugiati politici dalla Grecia, dal Cile, dall’Iran e da altri Paesi dominati da dittatori e

satrapi. Per la prima volta dai tempi dell’unificazione italiana si profilano nella penombra della

società italiana figure che recano con sé storie inquietanti, tali da infrangere le certezze progressiste,

almeno per quella minoranza italiana che si mostra disposta ad ascoltare. Esse/i sono i testimoni di

un’umanità e di un’epoca che non possono essere raccontate secondo i canoni delle soporifere

armonie televisive italiane. Il mondo narrato da chi arriva avendo cambiato più Paesi che scarpe è

assai diverso da quello dei mezzi di comunicazione dominanti. In molte/i italiane/i le storie degli

esuli sono destinate a cambiare la percezione di quello che viene ancora chiamato Terzo Mondo.

Una prima ammissione indiretta dell’impossibilità di mantenere il vecchio quadro di

riferimento è l’esigenza di cambiare la vigente legislazione fascista che disciplina la presenza degli

stranieri e che la riduce a problema di ordine pubblico. Viene approvata una prima legge di tutela

del 1986 (legge 943/1986, detta legge Foschi) poi sostituita dalla legge del 1990 (39/1990, ovvero

legge Martelli) che affronta anche il problema delle espulsioni. In un primo tempo la legge

Martelli sembra applicabile soprattutto a migranti extraeuropei, prevalentemente africane/i e, ma

dopo la caduta del Muro di Berlino e gli iniziali sbarchi albanesi in Puglia essa viene applicata

anche per le espulsioni di migranti dell’Europa sud-orientale.

Largamente imprevista sino al 1990, l’immigrazione dai paesi dell’Europa sud-orientale

verso l’Italia risulta imponente nel ventennio successivo. Dai confini dell’Europa orientale sono

passati in gran parte gli ingressi senza documenti, anche se nell’opinione pubblica - e grazie ad

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arrivi spettacolarizzati dai media - si è radicata l’impressione che gli ingressi irregolari provengano

perlopiù dall’Africa attraverso il Mediterraneo. Nel 1996 per la prima volta i permessi di soggiorno

rilasciati a cittadini stranieri superano il milione (1.095.622) di cui l’86,1% extra-Ue29.

Si può convenire sul fatto che tale spettacolarizzazione impressiona i teleutenti, soprattutto

se i flussi migratori subiscono inaspettate accelerazioni. Non è difficile creare apprensione e ripulsa

nella popolazione di un territorio dove a lungo l’arrivo di migranti è risultato improbabile e dove

poi di colpo approdano migliaia di persone stipate su qualche carretta del mare, mentre le autorità

preposte all’accoglienza si lasciano - o intendono lasciarsi - cogliere impreparate. E’ una variante

della paura dell’invasione, l’allarme che esprime angosce ancestrali legate alla memoria delle

razzìe nel Mediterraneo; ma è anche una prima avvisaglia di un’ansia prolungata. Essa tocca le

fasce della popolazione che si sentono emarginate, trascurate, o addirittura abbandonate dagli stessi

enti pubblici oltre che dalla società in generale. Il malcontento può covare sentimenti ostili nei

confronti non solo degli stranieri ma anche degli autoctoni più fortunati, sentimenti che alla lunga

possono esplodere nelle forme e nelle direzioni più impreviste, soprattutto se permangono i traumi

conseguenti alla scarsità dei beni e servizi razionati, come sono in generale i servizi pubblici e se si

intensificano le ansie generate da una persistente precarietà. Spesso la portata di questo smarrimento

è stata sottovalutata sia per calcolo politico sia per ignavia burocratica sia anche per la speranza

progressista di poter replicare le favorevoli congiunture economiche prevalenti fino agli anni 1970.

Se per contro si tratta di flussi pressoché costanti, via terra, in punti di traffico dove la

nebulosa dei viaggiatori rimane indistinta per caratteristiche fisiche, di colore della pelle, di

nazionalità, di religione, come succede ai valichi dell’Italia nord-orientale, allora l’apprensione

tende a svanire. Questa è la modalità con la quale i migranti dei paesi dell’Europa sud-orientale

sono entrati in Italia nel ventennio scorso, a differenza di molti africani e asiatici. E’ un contrasto

d’ingresso che può apparire illogico, ma logico o illogico che sia, esso ha strutturato l’immigrazione

in Italia dei decenni scorsi.

29 Audenino, Patrizia, Tirabassi, Teresa, op., cit., p. 167.

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All’inizio del 2010, secondo l’Istat i cittadini stranieri residenti in Italia sono 4 e 235mila,

superando il numero degli italiani che risiedono all’estero alla fine del 2008, che sono 3milioni e

853mila30. Questo secondo dato non comprende coloro che, pur avendo rinunciato alla nazionalità

italiana, si sentono ancora appartenenti all’Italia per origine e lingua. Si può dunque dire che

all’inizio del secondo decennio di questo millennio gli italiani residenti all’estero sono in numero

che approssima quello degli stranieri residenti in Italia.31 I dati sono rilevanti, poiché ci permettono

di introdurre un tema che merita discussione, ossia il grado di apertura che l’Italia si è data nel

recente passato e che intende darsi o che è comunque destinata a darsi nel prossimo futuro.

4. SUI GRADI DI APERTURA DELLA SOCIETA’ ITALIANA NEL PASSATO E NEL

FUTURO

A costo del rischio di apparire attardati alla generazione che oggi è tra l’infanzia e la prima

giovinezza, non possiamo sottrarci al compito di tracciare a grandi linee qualche scenario ipotetico

a proposito dell’Italia dei prossimi anni, prendendo spunto dalle vicende del passato e del presente.

Date le migliaia di chilometri di coste italiane e soprattutto data la storia italiana degli scorsi

cinquemila anni, è semplicemente comico presentare l’Italia come un paese tradizionalmente chiuso

ai forestieri, anche se l’emigrazione ha segnato ben più profondamente dell’immigrazione la

società italiana nell’Ottocento e nei primi 70 anni del Novecento.

L’esodo italiano, così come la secolare e intensa mobilità all’interno della Penisola, è anche

la risultante del vicolo cieco nel quale le classi dirigenti degli stati italiani si rinchiudono tra il

sedicesimo e il diciassettesimo secolo, quando l’economia italiana è ormai in crisi profonda sia per

l’aggressività in armi sia per la concorrenza commerciale dei maggiori stati nazionali europei sia

30 Istituto nazionale di statistica (Istat), Popolazione. La popolazione straniera residente in Italia al 1° gennaio 2010, Roma, 12 ottobre 2010 ; Fondazione Migrantes, Rapporto italiani nel mondo 2009, Idos Edizioni, Roma, 2009. Per il Veneto nel contesto italiano e internazionale, v. l’eccellente studio di Anastasia, Bruno, Bertazzon, Lucia, Fincati, Veronica, Galmuzza, Maurizio, Rasera, Maurizio e Savini, Giovanni, presso la Regione Veneto, Osservatorio Regionalesull’Immigrazione, Assessorato ai flussi migratori, Immigrazione straniera in Veneto. Rapporto 2010, Milano, Franco Angeli, 2010.31 Secondo Caritas/migrantes, Immigrazione. Dossier statistico 2010. XX Rapporto sull’immigrazione, Roma, Idos, 2010, p. 5, “includendo tutte le persone regolarmente soggiornanti seppure non ancora iscritte all’anagrafe, si arriva a 4 milioni e 919mila”.

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ancor più per la debole struttura degli stati italiani. Tale debolezza dissipa il primato finanziario e

commerciale italiano conquistato in Europa tra il Duecento e il Quattrocento, escludendo in larga

parte gli stati italiani dal commercio transoceanico. Le classi dirigenti italiane reagiscono a tale

congiuntura arretrando verso le campagne dell’interno, lontano da un mondo che va cambiando e

che non intendono considerare. La rendita signorile e lo sfruttamento della popolazione contadina

sono i miseri puntelli sui quali si reggono i rapporti sociali, che rimangono sostanzialmente

stagnanti per due secoli.

Gli stati italiani si cullano nella pia illusione di essere bastevoli a se stessi, coprendo così la

moltitudine dei disagi, che vanno dall’alta mortalità infantile alla bassa aspettativa di vita, al

predominio di rapporti servili nelle campagne, al massiccio analfabetismo, all’assolutismo e alla

tirannide nella sfera pubblica, anche se non manca la consolazione delle arti, che risultano tra le

poche voci dell’esportazione e che varcano le frontiere con i tanti prestatori d’opera, artigiani e

intellettuali in cerca di un destino migliore. Poi giunge il brusco risveglio della Rivoluzione

francese, quando persino una parte dell’aristocrazia fondiaria si scuote perché teme di perdere sia il

dominio sui “suoi” contadini sia la conservazione della propria ricchezza. Al momento

dell’unificazione questa tentazione di chiusura sembra debellata per sempre. Tuttavia essa si

ripresenta in varie forme, dalle guerre doganali della fine dell’Ottocento all’autarchia fascista e

alla nostalgia dell’Italia passata - auspice la destra dello schieramento politico - negli anni

successivi alla guerra 1939-45, quando c’è chi vuole che gli italiani continuino a piangersi addosso

per la sconfitta.32 Tuttavia, la stragrande maggioranza della popolazione rifiuta attivamente la valle

di lacrime, volendo vivere anziché rimanere all’ombra dei cipressi – dove potrebbe annidarsi

qualche uomo forte.

Domandiamoci: in presenza di una congiuntura socio-economica negativa, la tentazione

della chiusura potrebbe rispuntare oggi? E se così fosse, quali forme assumerebbe? Innanzitutto - e

32 Chi scrive conserva qualche ricordo della campagna elettorale del 1948. In uno dei comizi a cui dovette assistere, circa un terzo del patetico discorso dell’oratore fu dedicato alla consegna delle navi da guerra italiane ai sovietici nel porto di Odessa per le riparazioni a norma del Trattato di pace. Un’altra lunga parte del discorso fu un’arringa contro lo smantellamento dei forti militari italiani lungo il confine con la Francia.

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prima di qualsiasi considerazione demografica - tutti i discorsi tendenti alla chiusura partono da

un’ipotesi non dichiarata e forse neppure pensata, ossia che l’Italia nei prossimi decenni continui

comunque a esercitare una forte attrazione nei confronti degli stranieri, sia in quanto consumatori di

prodotti italiani sia in quanto potenziali migranti che aspirano a risiedere in Italia.

In altri termini, i meritevoli ragionamenti di quei demografi i quali sostengono che il

declino demografico e l’invecchiamento della popolazione italiana saranno compensati dai flussi

migratori finiscono per dare come ovvio quel che ovvio non è, ossia che l’Italia continui a esercitare

una forte attrazione nei confronti degli stranieri nei prossimi decenni, come se questa forza di

attrazione fosse perenne e non si dovesse conquistare giorno dopo giorno con un’attività di lunga

lena. Può essere utile consultare il barometro sulle migrazioni globali dell’Economist, che è rivolto

a 61 paesi. Secondo tale barometro l’Italia dispone attualmente di un indice di attrazione che la

situa al diciassettesimo posto e di un indice di accessibilità che la colloca al ventinovesimo posto;

ma l’indice di bisogno di migranti sospinge l’Italia al secondo posto, immediatamente dopo il

Giappone e, come il Giappone, principalmente a motivo dell’invecchiamento della popolazione.33

Ora, a fronte di questi dati, si può convenire perlomeno sul fatto che l’indice di attrazione

decide in larga misura l’andamento delle altre due voci, accessibilità e bisogno di migranti. In altri

termini, se l’economia italiana fosse in forte crisi e conseguentemente se l’attrattiva esercitata

dall’Italia declinasse in modo pronunciato, non si porrebbe né la questione dell’accessibilità (per

mancanza di aspiranti a migrare) né tantomeno l’esigenza di aprire le porte ai migranti. In altri

termini, l’Italia si troverebbe al contempo con un’economia dissestata, con una popolazione

invecchiata, e in più privata della prospettiva di un ringiovanimento demografico.

A questo quadro si può forse contrapporne un altro, che non ha dato buona prova di sé nei

decenni scorsi: trasferire i capitali all’estero in modo che gli altri lavorino per”noi”, a salari

33 Cit. in Fondazione Migrantes, Rapporto italiani nel mondo 2009, Idos Edizioni, Roma, 2009. Sulle prospettive demografiche a livello mondiale fino al 2030, v. Nicholas Eberstadt, “World Population Prospects and the Global Economic Outlook: The Shape of Things to Come”, The American Enterprise Institute, Working Paper Series on Development Policy, Number 5, February 2011: http://www.aei.org/docLib/EberstadtAEIDevelopmentPolicyWorkingPaperFINAL.pdf.

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inferiori ai nostri. Ma chi è il “noi”? Detto altrimenti e semplificando, quegli italiani che possono

permetterselo diventano padroni altrove e tutti gli altri si arrangiano alla meno peggio in Italia.

Potrei citare fior di economisti statunitensi che negli anni 1970 andavano predicando questa

politica, la quale toglieva potere di contrattazione alle/ai salariate/i e che ha smantellato intere aree

industriali all’interno degli Usa per trasferirle all’estero, come poi è di fatto avvenuto.

In realtà, si tratta di operazioni che hanno condotto a grandi disastri sociali. Nel breve

periodo queste operazioni di delocalizzazione trovano una certa riuscita con il trasferimento di

risorse in Paesi relativamente piccoli. Tuttavia, in generale occorre rammentare che già in passato

persino i Paesi piccoli sono stati capaci – rivoltandosi contro lo scambio diseguale con economie

colonialiste più potenti – di battere queste ultime, come ci hanno insegnato, ad esempio, le guerre

del Vietnam e di Algeria tra i primi anni 1950 e i primi anni 1960. La strategia della

delocalizzazione in paesi economicamente più deboli è sostenibile per un po’ di anni, ed è

largamente praticata sia da quei circa 22mila imprenditori italiani che con scarsissimi capitali sono

andati a tentare la fortuna in Romania sia da altre migliaia che sono andati alla ventura in altri Paesi

dell’Europa sud-orientale e nel Maghreb.34 Tuttavia le proiezioni ci dicono che – salvo disastri

sociali e calamità naturali - lo standard di vita in tali paesi, a cominciare dalla Romania, sembra

forse destinato a elevarsi nei prossimi decenni, e, con lo standard di vita, sono probabilmente

destinati a elevarsi anche i costi del lavoro vivo. In una tale situazione, né l’Italia potrà esercitare

grande attrazione verso potenziali migranti provenienti dall’Europa sud-orientale né tantomeno gli

imprenditori italiani in Romania potranno lucrare vantaggi comparati dalle loro aziende, a meno

che, per una strana piega del destino, essi trovino altri sbocchi alle loro merci, un’eventualità che in

ogni caso arricchirebbe esclusivamente le loro tasche. In breve, occorre comprendere lucidamente

quali sono le conseguenze sociali di un blocco dell’immigrazione e di una delocalizzazione radicale.

34 Su questo argomento, v. Sacchetto, Devi, Il Nordest e il suo Oriente.Migranti, capitali e azioni umanitarie, Verona, ombre corte, 2004, in particolare pp. 109-190; Gambino, Ferruccio e Sacchetto, Devi (a cura di) Un arcipelago produttivo. Migranti e imprenditori tra Italia e Romania, Roma, Carocci, 2007.

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5. UN’IPOTESI DI BLOCCO DELL’IMMIGRAZIONE

Avanzo un’ipotesi che non solo non mi trova d’accordo ma che ritengo moralmente

riprovevole anche perché si tratta di una terra tradizionalmente ospitale fin dalla notte dei tempi.

Tuttavia intendo discutere l’ipotesi per fare chiarezza e per trarne qualche conclusione che spero

utile. Un blocco delle migrazioni è forse (insisto sul forse) militarmente praticabile in uno stato

mediterraneo – Italia compresa – pur essendo quasi proibitivo sul piano finanziario per il massiccio

impiego delle forze armate necessarie. Occorre tuttavia prevederne le conseguenze non soltanto in

termini di spese delle casse pubbliche ma anche in termini di scenari sociali all’interno e all’estero.

Una politica univoca ed enunciata una volta per tutte di blocco delle migrazioni provoca

effetti drastici. Gli Stati Uniti l’hanno praticata, seppure in forma attenuata, tra l’inizio degli anni

1920 e la guerra 1940-45, quando passarono, tra l’altro, attraverso quella che finora risulta essere la

più grave depressione economica della loro storia, nel decennio 1929-38. Contrariamente al vigente

accordo commerciale tra Canada, Stati Uniti e Messico (il cosiddetto Nafta) che esclude flussi

migratori liberi, in particolare dal Messico agli Stati Uniti, l’immigrazione in Italia non può essere

bloccata, se non eccezionalmente, qualora i migranti provengano da altri Paesi dell’Unione

europea, e specificamente da quelli dell’Europa sud-orientale. Ma secondo le previsioni, questa

immigrazione è destinata ad affievolirsi se le condizioni di vita e di lavoro migliorano nell’Europa

sud-orientale.

E’ difficile prevedere quali siano le eventuali forme dell’irrigidimento dei sistemi d’impiego

in Italia in presenza di un blocco dell’immigrazione, ma è agevole immaginare che qualche settore

produttivo – anche nel Veneto – scomparirebbe o verrebbe almeno ridotto a ben modeste

dimensioni. All’estero, le ripercussioni di un blocco dell’immigrazione in Italia assumerebbero tratti

piuttosto inquietanti. Oltre alle difficoltà di esportazione per alcune filiere produttive, si potrebbe

profilare qualche azione di boicottaggio di paesi esclusi dall’immigrazione. Queste azioni sembrano

di là da venire e comunque trascurabili perché partirebbero da Paesi oggi economicamente

vulnerabili, ma sulla distanza esse possono assumere una certa viscosità, poiché di solito

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coinvolgono endemicamente la popolazione più che le strutture statali e soprattutto perché – come

ci insegna la storia recente – Paesi deboli possono diventare forti. Tuttavia le azioni di boicottaggio

potrebbero combinarsi con ritorsioni internazionali. In breve, le conseguenze possono risultare

imprevedibili, soprattutto se rimane a lungo in vigore un quadro di regole incerte e manipolabili in

tema di decisioni vitali, come i flussi, i permessi di soggiorno, i regimi pensionistici e soprattutto se

le regole vengono lasciate in balìa di gruppi di interesse e di pressione.

Nel lungo periodo, il mancato rispetto delle regole e degli impegni internazionali è foriero di

contraccolpi, perché, come diceva l’ex operaio delle strade ferrate Abraham Lincoln, si può

certamente ingannare, ma non si può ingannare sempre, dovunque e tutti. Un anticipo delle

conseguenze è dato dalle vicende italo-somale degli ultimi trent’anni, vicende che ci hanno

procurato e ci procurano una pessima fama in Africa, benché i mezzi d’informazione italiani

minimizzino: all’inizio degli anni 1980, grandi promesse italiane, presto disattese; poi

recrudescenza del regime dittatoriale, poi caduta del regime medesimo, poi una struttura statale che

va letteralmente in fallimento. Da anni l’ex-colonia italiana è in mano a bande armate, nessuna delle

quali risulta dominante. In Somalia si conta oggi un medico ogni 28mila abitanti. La Somalia ha la

peggiore situazione mondiale dopo il Ciad per alcune vaccinazioni mancate ed è al diciassettesimo

posto nel mondo per incidenza della tubercolosi 35 Questi e altri dati e situazioni che volgono al

negativo pesano in Africa e pesano sugli italiani, gli ex-colonialisti. Dopo l’indipendenza e nel

momento del bisogno, si continuava a promettere per poi abbandonare il campo. L’opinione

pubblica africana ne ha preso nota..

6. SERRE MIGRATORIE PER FORZA -LAVORO IRREGGIMENTAT A

Chiamo trapianto di forza-lavoro lo statuto informale che vincola la/il migrante al singolo

datore di lavoro, clonando i livelli salariali del paese di origine della/del migrante e vietando il

ricongiungimento familiare. E’ con questi costi umani che si edificano vere e proprie serre

35 The Economist, Pocket World in Figures, 2011 Edition, London, U.K., Profile Books, 2010, p. 84-85

21

migratorie che devono mantenersi isolate rispetto alle condizioni di vita prevalenti in un

determinato Paese ma che finiscono poi per segnare la società tutta di quel Paese.

Indubbiamente i superchirurghi contemporanei dei trapianti di forza-lavoro sono le monarchie del

Golfo persico-arabo. Negli scorsi 60 anni le agenzie delle monarchie del Golfo, forti delle loro

vertiginose rendite petrolifere, hanno richiamato nei rispettivi paesi flussi migratori da varie aree

del mondo e in particolare dall’Asia. Trattenendo i passaporti dei migranti e quindi impedendo loro

di uscire liberamente dai paesi del Golfo, quasi tutte le monarchie petrolifere del Golfo hanno di

fatto vincolato la/il migrante al proprio datore di lavoro e su questa base hanno imposto altri due

vincoli: un livello salariale che non si discosti significativamente dai salari del paese di origine

della/del migrante e il veto al ricongiungimento familiare se non in casi di graziosa concessione.

Lo statuto stigmatizzante veniva e viene applicato parzialmente ed episodicamente in molte

altre parti del mondo, compresa l’Europa e l’America settentrionale - anche nei decenni successivi

alla Seconda guerra mondiale - e continua a mietere i suoi frutti avvelenati. In larga parte i migranti

senza documenti si trovano in condizioni che si avvicinano a quelle di chi è vincolata/o nelle

monarchie del Golfo; e anche in Italia. Si è passati a trapianti di popolazione che risultano

altrettante serre migratorie a regime speciale: dalla provincia dello Zenjiang nella Cina meridionale

a Prato, dall’Egitto alla periferia milanese, dalle rive del fiume Senegal agli aranceti e ai campi di

pomodoro della Campania. Questa è la strada della sperequazione e della concorrenza sleale tra gli

stessi datori di lavoro, dei parapiglia dei vari caporalati che si contendono le braccia, della tentata

corsa al ribasso della forza-lavoro, corsa che di recente in Italia ha subìto vari contraccolpi, a

motivo delle lotte di gruppi di migranti per un lavoro decente - se non dignitoso, come pure

prescriverebbe la Costituzione.

Le serre migratorie possono rimanere varianti subordinate ma vitali del generale sistema

“regolare” di impiego, anche se in periodi di crisi economica la quantità dei trapianti tende a

crescere. Può questo modello diventare diffuso in un determinato territorio o regione o addirittura a

livello nazionale? Può diventarlo a due condizioni: se a ergersi come bande armate dominanti o

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subordinate riescono varie cosche di varia origine, purché abbiano un interesse diretto in questo

asservimento intrinsecamente mafioso della forza-lavoro, e se le condizioni di vita dei paesi di

provenienza rimangono drasticamente inferiori a quelli dei paesi di destinazione.

Queste due condizioni sono purtroppo presenti sulla riva settentrionale del Mediterraneo, e

in particolare su quella italiana, dove a macchia di leopardo prospera la criminalità organizzata e

dove il divario di reddito pro-capite rispetto alla riva meridionale sta in un rapporto di 14 a 1. Si può

ricordare che il divario di reddito pro-capite a distanza altrettanto ravvicinata tra Stati Uniti e

Messico è di 6 a 1, ma occorre aggiungere che lì il governo federale e i governi locali non hanno

ignorato il problema e hanno cercato almeno di alleviarlo, tanto che già negli anni 1990 alcuni

governatori di stati al confine con il Messico sostenevano che vanno risolti i problemi sociali sul

confine meridionale prima di avventurarsi in guerre in contrade remote. Non altrettanto sembra

avvenire all’interno dell’Unione europea, dove accordi bilaterali parziali – ad esempio tra Italia e

Libia o Spagna e Marocco – non mettono al riparo da persistenti e forti tensioni che sono il risultato

di un abissale differenziale di reddito a breve distanza che è davvero unico al mondo.

I trapianti stanno proliferando anche in altre aree dell’Unione europea, dalla Polonia alla

Cecoslovacchia alla Romania, creando serre migratorie di cittadini mongoli, filippini, e di altri paesi

asiatici. In ogni caso, le serre migratorie sono un insieme di strategie che permette ai datori di

lavoro di premere al contempo per il blocco formale dell’immigrazione regolare e per strutturare

l’immigrazione irregolare più o meno illegalmente in una soluzione di perenne e finta

provvisorietà, grazie alle ampie e acclarate complicità di quelle sfere pubbliche che di fatto

erodono la convivenza.

7. A OGNUNO IL SUO?

Occorre a questo punto formulare qualche considerazione finale cominciando dal tema

delle/dei giovani. Nel 2008, secondo l’Ocse, la percentuale di studenti stranieri iscritti nelle

università italiane è del 3% del totale. L’Italia è al ventiseiesimo posto sui 33 paesi considerati, in

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assoluto il valore più basso dell’Europa occidentale. Gli studenti stranieri di oggi potrebbero

diventare gli organizzatori di scambi internazionali intensi nel futuro prossimo. Ad esempio, con un

numero di imprenditori che si aggira attorno alle 122mila unità in Romania, si potrebbero -con un

po’ di lungimiranza - progettare scambi di qualche rilievo. Altrettanto si potrebbe fare per quanto

riguarda la Cina o più Paesi del continente africano, il cui numero di studenti in Italia è assai basso.

Eppure enorme e insoddisfatta rimane la sete di conoscenza e di esperienza delle giovani e dei

giovani di questi Paesi. mentre qui, al proliferare delle facoltà universitarie e in presenza di una crisi

economica persistente il numero degli studenti italiani tende a ristagnare e addirittura potrebbe

declinare.

Quanto alle/agli studentesse/i e studiose/i italiane/i che vanno all’estero, di per sé il loro

esodo non è necessariamente negativo, anche se va osservato che tra il 2001 e il 2005 le/i laureate/i

italiane/i emigrate/i sono passate/e da 39mila a 60mila.36 E’ negativo il fatto che non si compiono

più azioni mirate per riportarle/i in Italia, mentre fino a qualche anno fa c’era, ad esempio, un

modesto ma meritorio 5% di posti universitari riservati a coloro che intendevano affrontare un

concorso universitario e tornare dall’estero. Si tratta di una tendenza ben diversa da quella della

Cina e dell’India che risale fin dai primi anni 1950, quando questi paesi cominciarono a recuperare

e a incoraggiare capillarmente il ritorno dei loro scienziati sparsi per il mondo occidentale.Queste

politiche di lungo raggio sono tra i fattori di avanzamento della ricerca in Paesi considerati arretrati,

i cui progressi poi lasciano di stucco parecchi commentatori occidentali chiusi nei loro orticelli.

Il giorno dopo lo si vede dalla sera. Il fatto che la legge Bossi-Fini escluda il recupero dei

versamenti per la pensione per chi lascia l’Italia non è un buon segno. Addirittura in un paese

africano un comitato di ex-migranti che erano tornati a casa prima della Bossi-Fini aspetta ancora il

recupero dei contributi versati. Questa, in termini televisivi, è davvero cattiva pubblicità ma più

seriamente è politica irresponsabile che finiremo probabilmente per pagare cara come Paese che

ruba sulle sofferte pensioni dei migranti rientrati in patria..

36 Patrizia Audenino, coautrice di Migrazioni italiane, cit., in www.Iperstoria.it, intervista a cura di Matteo Sanfilippo, in data 10.8.2008.

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Possiamo tollerare, per esempio,che in Italia la raccolta delle arance e dei pomodori

corrisponda al salario della paura e della miseria per i migranti? Eppure in queste operazioni sono

coinvolti lavoratrici e lavoratori stranieri che intendono vivere e lavorare in Italia nei prossimi anni,

ma che intendono vivere e lavorare in condizioni più dignitose di quelle attuali. Nessuno se la sente

di dire apertamente che invece è bene per i settori in crisi che le loro condizioni rimangano tali e

quali, ma molti agiscono come se questa fosse la linea politica da seguire. Una linea di condotta di

tal fatta può essere vantaggiosa per il singolo imprenditore nel breve periodo, ma alla lunga ci porta

al fallimento sociale, e sotto gli occhi non solo dei vicini di casa.

In generale, l’Italia - e al suo interno il Veneto - sono oggi nelle condizioni di esercitare

all’estero e di subire dall’estero un’attrazione in condizioni di reciprocità bilanciata.37 Se questo

momento viene speso male, c’è da domandarsi quali saranno le condizioni nelle quali potremo

trovarci tra dieci o quindici anni. Questo è l’interrogativo al quale ognuna/o di noi - volente o

nolente - è tenuta/o a rispondere di fronte alle generazioni che si affacciano al mondo. I danni di una

risposta sbagliata sono difficilmente riparabili.

Sono ormai in molti, anche in Italia, a sostenere che nei prossimi decenni gli scambi con

l’Africa diventeranno più intensi, che l’Europa ha bisogno dell’Africa, così come essa ha bisogno

dell’Europa. Se così potrà essere, molte delle nostre categorie dovranno essere corrette e rivedute

ma soprattutto molte ferite del passato andranno rimarginate.

.

37 Sulla reciprocità, v. Recchi, Ettore,, “Reciprocità. Un nome per tre concetti, ”, Stato e mercato, No. 39 (dicembre 1993), pp. 467-500.

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