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GIOVANNI TURRA Sen ċ che gnesuni pi romai intenž. Poesia e dialetto in Luciano Cecchinel , in “Quaderni Veneti”, 33, pp. 143-171, Ravenna, Longo, giugno 2001 1. Nella rustica varietà veneta parlata a Revine-Lago, nell’alta valle del Soligo, ultimo avamposto della marca trevigiana, al confine con il Bellunese, scrive, non senza una ricerca arcaizzante, Luciano Cecchinel (1947), per il quale il dialetto, «parlar de na òlta», costituisce il codice di una poetica catabasi, che dischiude le porte alla morte: Fa đonture vèce le scròca le tòle đe la cripia suta, al crecolèa sul tabià ’l fien fa đe pas liđieri che vien e ‘l bala ‘l si al nò ‘l caveđon par sora i òs scarniđi đel mur… đès su sòte pic e scanžìe òrbe e fređe đal scur tante onbrìe le proa a pian, a pian a đrežarse co tante đe schene scanađe e tel fun se vet insembrarse frònt e žeje e ganase scuniđe… 1 Maria Corti ha ricordato come ogni poeta «compromesso col dialetto crea il suo dialetto, che non è quasi mai quello effettivamente parlato» 2. Nel caso d i Cecchinel l’adozione di una varietà individuatissima nella koiné regionale esibisce senz’altro il carattere soggettivo dell’opzione, ma è anche recupero archeologico più originariamente autentico, per cui si danno pura, suspiri, fursi, romài e simili, invece di pure, sospiri, forse, ormai, in uso nel dialetto, ma irrimediabilmente coincidenti con gli omofoni in lingua, e fardei in luogo di fradei, che costituirebbe, quest’ultimo, per l’annullamento della metatesi, uno scarto minimo rispetto alla norma, poco più che un vezzo vernacolare. Anche la parlata di Revine-Lago, insomma, è stata progressivamente sostituita da una varietà dell’italiano. Per motivare la propria scelta, Cecchinel potrebbe sottoscrivere quanto Zanzotto ha dichiarato per sé all’inizio della propria esperienza dialettale: Mi è capitato davanti un parlare perso nella diacronia e nella sincronia veneta, fino al paradosso ed all’irrealtà di una citazione paleoveneta, un parlare un po’ inventato, un po’ ricalcato da troppo alti modelli, nel quale l’allarme per i diritti della glottologia e della filologia non riusciva a tenere a bada la voglia di stracciare i margini, di andar lontano, di «correre fuori strada» 3. Al tràgol jért è stato ristampato nel 1999 presso l’editore milanese Scheiwiller . Il sottotitolo recita con sufficiente eloquenza: Poesie venete 1972-1992, ed è subito segnalato che si tratta di una edizione riveduta e ampliata rispetto alla prima del 1988 4, la quale già rivelava «un poeta dai tratti perfettamente formati» 5. «Riveduta» indica il generale riassestamento dello schermo ortografico (balza agli occhi la sostituzione del segno diacritico <∫> con <ś>, per indicare la sibilante sonora) e la tendenza a ricondurre i versi irregolari a una metrica più rigorosa 6; «ampliata» si riferisce invece all’aggiunta delle poesie di Sen ċ 7, il secondo libro pubblicato nel 1990 (La nina nana del vènt, Feliže, No i se mesteghéa, no, i to sen ċ, E i fila ‘ncora i cric, Sora ’l žendre đe le me veje), e di due inediti (I me insuni sđefađi e Al pèđo mistier che Cristo l’à inventà); intatte la titolazione e la ripartizione delle sezioni. La raccolta è costruita secondo un disegno poematico che scandisce un’esperienza di attraversamento: «Sono partito dall'interno di una cultura contadina, vivendola in vari modi e momenti: prima in chiave contemplativa e dopo in chiave di consapevolizzazione virulenta, infine in chiave di disfacimento e rovinismo» 8. La prima delle tre sezioni, Garnèi e fastuc («Granelli e festuche»), tratteggia una condizione edenica, adolescenziale e giovanile. L’autore «è riuscito a ricreare lo stupore fantastico e la svagata irrequietezza del

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GIOVANNI TURRA

Senċ che gnesuni pi romai intenž. Poesia e dialetto in Luciano Cecchinel , in “Quaderni

Veneti”, 33, pp. 143-171, Ravenna, Longo, giugno 2001

1. Nella rustica varietà veneta parlata a Revine-Lago, nell’alta valle del Soligo, ultimo avamposto della

marca trevigiana, al confine con il Bellunese, scrive, non senza una ricerca arcaizzante, Luciano Cecchinel

(1947), per il quale il dialetto, «parlar de na òlta», costituisce il codice di una poetica catabasi, che dischiude

le porte alla morte:

Fa đonture vèce le scròca

le tòle đe la cripia suta,

al crecolèa sul tabià ’l fien

fa đe pas liđieri che vien

e ‘l bala ‘l si al nò ‘l caveđon

par sora i òs scarniđi đel mur…

đès su sòte pic e scanžìe

òrbe e fređe đal scur tante onbrìe

le proa a pian, a pian a đrežarse

co tante đe schene scanađe

e tel fun se vet insembrarse

frònt e žeje e ganase scuniđe… 1

Maria Corti ha ricordato come ogni poeta «compromesso col dialetto crea il suo dialetto, che non

è quasi mai quello effettivamente parlato» 2. Nel caso di Cecchinel l’adozione di una varietà

individuatissima nella koiné regionale esibisce senz’altro il carattere soggettivo dell’opzione, ma

è anche recupero archeologico più originariamente autentico, per cui si danno pura, suspiri,

fursi, romài e simili, invece di pure, sospiri, forse, ormai, in uso nel dialetto, ma

irrimediabilmente coincidenti con gli omofoni in lingua, e fardei in luogo di fradei, che

costituirebbe, quest’ultimo, per l’annullamento della metatesi, uno scarto minimo rispetto alla

norma, poco più che un vezzo vernacolare. Anche la parlata di Revine-Lago, insomma, è stata

progressivamente sostituita da una varietà dell’italiano.

Per motivare la propria scelta, Cecchinel potrebbe sottoscrivere quanto Zanzotto ha dichiarato per sé

all’inizio della propria esperienza dialettale:

Mi è capitato davanti un parlare perso nella diacronia e nella sincronia veneta, fino al paradosso ed

all’irrealtà di una citazione paleoveneta, un parlare un po’ inventato, un po’ ricalcato da troppo alti

modelli, nel quale l’allarme per i diritti della glottologia e della filologia non riusciva a tenere a bada la

voglia di stracciare i margini, di andar lontano, di «correre fuori strada» 3.

Al tràgol jért è stato ristampato nel 1999 presso l’editore milanese Scheiwiller. Il sottotitolo recita con

sufficiente eloquenza: Poesie venete 1972-1992, ed è subito segnalato che si tratta di una edizione riveduta e

ampliata rispetto alla prima del 1988 4, la quale già rivelava «un poeta dai tratti perfettamente formati» 5.

«Riveduta» indica il generale riassestamento dello schermo ortografico (balza agli occhi la sostituzione del

segno diacritico <∫> con <ś>, per indicare la sibilante sonora) e la tendenza a ricondurre i versi irregolari a

una metrica più rigorosa 6; «ampliata» si riferisce invece all’aggiunta delle poesie di Senċ 7, il secondo

libro pubblicato nel 1990 (La nina nana del vènt, Feliže, No i se mesteghéa, no, i to senċ, E i fila ‘ncora i

cric, Sora ’l žendre đe le me veje), e di due inediti (I me insuni sđefađi e Al pèđo mistier che Cristo l’à

inventà); intatte la titolazione e la ripartizione delle sezioni.

La raccolta è costruita secondo un disegno poematico che scandisce un’esperienza di attraversamento:

«Sono partito dall'interno di una cultura contadina, vivendola in vari modi e momenti: prima in chiave

contemplativa e dopo in chiave di consapevolizzazione virulenta, infine in chiave di disfacimento e

rovinismo» 8.

La prima delle tre sezioni, Garnèi e fastuc («Granelli e festuche»), tratteggia una condizione edenica,

adolescenziale e giovanile. L’autore «è riuscito a ricreare lo stupore fantastico e la svagata irrequietezza del

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fanciullo che scopre la realtà che lo circonda e insieme il proprio cuore, s’inoltra nel paesaggio, se ne

imbeve – colori, profumi, suoni, come altrettante promesse» 9.

:

Ah! al tośat bon de i canp co ’l vea se

al sughéa cet al fondi s-cèt de la man

e ‘l stendéa te i đènt al ciaro,

al fea na òlta par tute la fađiga goja,

grant l’oler ben te l’uđor đe suđor e đe fien,

dolž al pan de i poreti 10.

.

Da quell’infanzia felice, presto diventata una sorta di età dell’oro, l’io poetante si distacca con una presa

di coscienza consegnata alla seconda sezione, Calif («Foschia»), in cui trema «l’ultimo ciaro / de’ n tenp

scur romai pers» («l’ultimo chiarore / di un tempo scuro ormai perduto»). La cultura contadina conosce una

crescente emarginazione dietro il premere di nuovi e più aggressivi modelli, che tuttavia innescano un

processo di resistenza e di sfida, in cui il dialetto acquista toni aspri e duri: «Se un tempo la poesia dialettale

presupponeva la vitalità dei dialetti, oggi si fonda sul loro inarrestabile declino» 11.

E cusita no i se mesteghéa, nò,

parlar đe na òlta, i to senċ

[…]

E rabioso fa na saca torđesta

che la ghe scanpa a man che đàđia

reòltete su i đènt

đe chi che te ciol senža olérte 12.

Lingua del passato, lingua perduta, ma anche e soprattutto «lingua della poesia», secondo la definizione

di Giotti 13, il dialetto è qui rivendicato rabbiosamente, con un tono da invettiva non dissimile da quello di

Zanzotto: «e topi e serpi hanno tanto comperato / ormai da queste parti; ma guarda / che più s’è fatta

proprietaria la talpa» 14; a topi, serpi e talpe corrispondono in Cecchinel gli epiteti ingiuriosi di slèf

(«lacché») e di lingere («canaglie»), affibbiati alla genia dei nuovi ricchi, venuti su con la recente

industrializzazione del Nord-Est. Agisce anche la lezione di Loi, fustigatore anni addietro dei facili

entusiasmi per il «miracolo» economico: «Rassa de malnat, rassa de troj, / gnanca la lengua avi tegnü de

cünt…» 15.

Nella sezione conclusiva, Fulische («Fuliggine»), si registra un incupimento che conduce l’autore a una

sorta di «accanimento masochistico» 16 sulla propria amarezza. Egli ricorre affannosamente a voci

idiomatiche, al fine di pronunciare scongiuri contro i propri incubi e le proprie ossessioni: la poesia Crośe

crośat, ad esempio, è basata su una tipica formula apotropaica, con cui, come avvertono le Note al testo 17,

si accompagna il gesto di disegnare a terra, col piede o con uno stecco, delle croci; ugualmente stilemi

religiosi superstiti quali novena, rosario, vèndre trist, antania («litania») appaiono desemantizzati, pur se

venati dall’eco nostalgica dell’antica devozione. I confini tra il sé e l’altro-da-sé sono sfumati, sul soggetto

incombe la medesima condanna alla rovina che incalza il suo mondo:

Paron đe ‘n gnent che l’é stat tut,

sior romài sol đe besteme caìne,

co la me figura ingropađa

e risađa đe ženđađure

fa la scorža cròta đe na žareśèra

fae prožesion

capato đe ‘n carnaval trist,

co i òci gròsi đe la loc spolmonađa

e ‘l fia lònc đel baśalisc senža cresta

e le žate žòte đe i gir stremiđi

fin a i tèrmen frugađi

đe na anđreona che i me à asà vèrta 18.

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2. La raccolta è tutta percorsa da una pulsione regressiva che conduce l’io in frantumi a una sorta di

disseminazione nel paesaggio, inteso come realtà incisa dall’uomo, ma anche negli animali e negli oggetti

inanimati. Fenomeni tipici del magismo, come il sincretismo di io e non-io, l’egomorfismo e una più diffusa

antropizzazione, il cui schema sembra sotteso a questa poesia, dimostrano quanto stretta e funzionale risulti

l’identificazione con l’immaginario primitivo dell’alta valle del Soligo:

la testa che la gira, che la peśa fa

na poja levađa

e le pianz le piere e le scaje

fa sote ‘l stròž đe le taje

e đet e onge i à i bar đe stravès

e suspiri storni đe bòcoi vèrti 19.

Il dialetto di Revine, con i suoi tratti arcaici, le sue agglutinazioni consonantiche e fonosimboliche,

appare lo strumento del rituale di partecipazione e annullamento officiato dal poeta-stregone («stròlego

strambo e romit» si definisce Cecchinel):

In questa sua poesia l’autore si presenta come colui che vuole riassorbire in se stesso, e farsene

carico, quello che c’è stato di maligno, di crudo, nella millenaria quotidianità umana, cercando di darle

un senso: ed egli coglie d’istinto che solo il dialetto, conservato nella sua più rude e quasi defatigante

purezza, è il linguaggio che ci consente di comunicare con quel mondo, ci unisce al suo sangue ed ai suoi

amori 20.

Con la sua parola vagamente sciamanica egli evoca il mondo dei morti, consegnati a una sospensione

eterna, in un intreccio insolubile di origini e lutto, innocenza e disgregazione. Il dialetto è in questo caso

«segnale di diversità antropologica» 21, e scopre un bisogno di resistenza all’erosione culturale diffuso tra

gli ultimi poeti dialettali:

E mi ò i śgriśoi fin entro tel mèđol

e me sènte gner su đa la tèra

al senċ đe cior đe òlta su an tràgol,

đe scanpar su là te na caśèra,

par scalđar su ‘n larin tut al ženđre

patòc senža pi ciari đe ran,

par fonđar pian i tòc đel me vènđre

te ‘n coat scur đe fien e đe stran,

par far gner đa đrio ‘l fun đe la žera

sora i còs đe le piere crepađe

i nostri vèci đa sote tèra,

ombrìe biślònghe e stralunađe 22.

La poesia è qui interrogazione di ombre, «mili e pò mili àneme pasade» («mille e poi mille anime

trascorse»), ma le domande restano senza risposte. Alla tragica solitudine del soggetto non è accessibile che

la consolazione di una pronuncia carica delle struggenti sonorità di un mondo ormai spettrale che preme

inquieto nelle pieghe delle cose e del paesaggio. «Despèrs da no so quanti ani» («disperso da non so quanti

anni»), i suoi movimenti seguono la geodetica continuamente franta di chi è preda di una forza che lo

possiede e lo trascina:

A stroz de lonc

valòi e crep

par bosc e pra

co quei ‘ndati qua su

e i senċ de na mas-cia

e la nibia dolža

đe i troi che i se đesfa

fin tel vin bojènt

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che ‘ s-ciant a la òlta

al ien đa i fastuc 23.

Il poeta infatti s’inerpica per gli stretti vicoli del paese o lungo percorsi montani, mentre si sente braccato

da ansie capaci di alterare ogni percezione. La febbre, la fatica, il sonno, l’ubriachezza, più in generale stati

di coscienza alterati, intervengono in aggiunta a provocare nuove visioni:

La cantéa đó sote le siole la jara,

al fret al stenđéa fin tel méđol,

sote sòn đe luna la strađa ciara

la paréa na scorža đe bréđol.

Fursi era l’ultima sera đe l’an

e tòrgoi đe most đolž e pesa,

ingrumađi te ‘n sònċ calt fa ‘n pastran

se ‘nđea su la strađa revèsa 24.

Non impunemente si ripercorrono questi aspri sentieri, questi tràgoi jérti: sullo sfondo del libro è

un’immensa folla di trapassati, «gli affaticati per eccellenza, anche se per loro si vuol sempre parlare di

pace» 25, ai quali il termine dei patimenti è destinato soltanto «fuor della vita», come viene descritto nel

secondo coro dell’Adelchi. Non sono propriamente spettri, ma essenze di natura, parti di uno scenario

assolutamente insostituibile, che ogni uomo venuto sulla terra ha incarnato e in cui ha lasciato qualche vaga

traccia:

Col primo vèrs

đe la cavaleta insonađa

ancora ‘l vent fresc su la pèl

e po’ la guaž đo sul pra lis

e śgriśolamènt fis đe pež

e đe entro in caśèra

sote l’òcio cet đel žércol đel lat

imbarlumì đa le fiame e đal fun

buśnamènt cativo e mèstego

đe spiriti e spiriti in traža 26.

Le «comparse» di Cecchinel sono figura degli antichi lavori manuali svolti, come avveniva nella poesia

di Zanzotto 27, il grande nodo della linea ascendente del poeta di Revine-Lago. Non irrigidite ancora in

allegorie, non solubili nemmeno in mere individualità accidentali, esse mediano, in quanto creature

poetiche, il particolare e l’universale, il singolo che ha nome e cognome («Tu vea ’n nòme sbaljà: / tu te

ciaméa Feliže») 28, e l’idea, la categoria che tutti i singoli comprende e spiega.

Parimenti, molte volte nella sua opera compaiono piante e api (af e bespe indifferentemente), e lo

stormire delle une come il ronzio delle altre («susuro đe bèspe», «buśnor insonà đe le af») 29 percorrono il

testo con un brivido, che suscita echi o presagi di arcane presenze, possibilità o memoria di esse:

Segur qualcosa i me vea đita

al peverèl e la stela inđorađa

e la mènta co l’erba stranuđèla,

canđelier spauriđi sote ‘l falđin,

formighèr bustoliđi

in tra i lenċ đel restèl… 30

Gli alberi, in contatto con un mondo limitrofo, trasmettono inquietanti e sollecitanti vibrazioni.

Esprimono quella che, nella grammatica e stilistica della rappresentazione del sogno, è una procedura

fondamentale, la compresenza cioè dello statuto doppio di vita e morte, di presente e passato 31. È così

motivata la straordinaria evidenza de «le àgreme fise e i susuri del lenċ» («le lacrime dense e i sussurri del

legno») 32i, con cui il poeta riscrive il celebre episodio dantesco di Pier delle Vigne: «Uomini fummo, e or

siam fatti sterpi».

Allo stesso modo, il riferimento al ronzio delle api appartiene all’escatologia orfica e fa capo alla

credenza che l’anima sia uccello o ape che s’invola dalla bocca del morto 33ii. Altrove, come nell’Eneide, le

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anime dei morti sono paragonate al numero delle foglie cadenti: «Quam multa in silvis autumni frigore

primo / lapsa cadunt folia […]» (Aen., VI, 309-310). Qui s’innesta probabilmente la frequentazione del

Pascoli. Nei Canti di Castelvecchio le foglie «Volano come uccelli, / morte nel bel sereno: / picchiano nei

ramelli / del roseo pesco, pieno / de’ suoi cuccoli già» 34. Bàrberi Squarotti ha sottolineato come qui la

memoria classica si unisca con le antiche tradizioni magiche del mondo contadino 35. Altrettanto avviene

nella poesia di Cecchinel.

Questo accrescimento della dimensione ontologica delle piante e delle api conferisce loro una vibrazione

nuova, una crescita di sovrasensi, e provoca un movimento rovesciato nei confronti del poeta; un

movimento che, anziché andare dal poeta verso la natura, investendola di significati simbolici o metaforici o

psicologici, com’era nei romantici, va dalla natura stessa e dal suo fremito verso il poeta.

La vita sembra perciò configurarsi quale perenne mancanza e acerbo convivere con la morte di uomini,

professioni e cose che solo lo scrivere, in una poetica anamnesi, permette temporaneamente di esorcizzare:

Par la porta in crèpiti

che la criđa stremiđa

su i pòlis inbriaghi

qualcheđuni đovéa pura pasar

co i vestì rùspeghi

đel vènđre trist

par đir: era qua che se pođéa

i restèi e i falđin,

qua su sta scanžìa la polènta

al reparo đa i gir,

là era le onbrìe stranbe đel larin

e qua l’aqua che la savéa đa fun 36.

Questa condizione autobiografica si salda con un processo storico ben più ampio, lo smantellamento cioè

delle culture originarie che ha travolto anche il microcosmo del poeta: «un mondo violentemente superato e

sommerso come dall’onda di un maremoto» 37, constatava con amarezza Bandini a proposito di

Meneghello. Su tutto ciò, compassionevolmente, si è pronunciato Rigoni Stern:

Lei ha il vero dono del poeta: testimoniare e rendere veri tempi e luoghi nella loro essenza storica.

Quel suo dialetto, poi, sembra arrivato a noi da tempi che paiono remotissimi e che invece, almeno da

parte mia, sono dell’infanzia. Come vorrei anch’io rievocare così come lei l’antica lingua «cimbra» dei

miei avi! Troppe cose perdiamo lungo la strada di questo tempo frettoloso e superficiale 38.

La poesia «in dialetto» 39 di Cecchinel nasce come testo vivo di una distruzione in atto, di un eccidio di

sentimenti amori amicizie, di valori e speranze, dapprima lungamente contrastato 40 e alla fine onnipotente

e irresistibile.

Il dialetto diviene così oggetto di un’accorata nostalgia, la nostalgia di chi viva in una civiltà giunta a un

tracollo linguistico e di sistema, al desolato e violento «je ne sais plus parler» rimbaudiano, citato prima da

Pasolini 41 e ripreso poi in una commossa circonlocuzione di Zanzotto: «vecio parlar che no so pi, / che me

se à descunì / dì par dì ‘nte la boca (e tu no me basta)» 42. Un giudizio di Villalta sull’impiego del dialetto

in Filò avverte:

L’equivoco sarebbe quello di individuare nel dialetto il traguardo raggiunto di una riconquista del

dire edenico, l’identificazione di un luogo certo e autonomo nel quale il dire si sottrae alla logica

dell’espropriazione del senso nella comunicazione. Il petél della Beltà già indicava una condizione

precisa: l’adulto mima l’espressione infantile, nella quale il bimbo invece semplicemente «si trova», e a

quella rinvia come canzonatura o desiderio di portarsi nella medesima situazione; situazione però dalla

quale, se non come deformazione mimetica, e grottesca, l’adulto è irrimediabilmente escluso 43.

Anche per Cecchinel l’adozione del dialetto è l’ultimo atto; viene così delineandosi una dialettica

totalmente in perdita fra istanze che tendono a ristabilire un contatto con la disfatta realtà sociale e culturale

della contrada, e la consapevolezza dell’impossibilità di ancorare il presente a un sostrato antropologico che

sfugge a qualunque tentativo di riesumazione o rappresentazione.

In questa situazione di emergenza e di culture in dissolvimento, la poesia resta forse l'unica dimensione

di resistenza e sopravvivenza: «La mia poesia è dimessa, non mai dimissionaria. Una rivendicazione etica,

aperta all'invettiva - anche laddove questa è solo latente -, è sempre presente o rintracciabile» 44. Non più

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dunque poesia come suprema ambizione umana, ma unico rifugio consentito nello sprofondamento della

vita, nella riconosciuta disintegrazione dei valori. Essa è «scarsa e incerta ricompensa al silenzio degli dèi,

al frastuono delle cose» 45:

No l’é pi ređità no, tośat,

se no l’é ređità i grun đe ślama

đe sta tèra romai senža lat,

reoltađa e fata onta e grama

đa na jènt biśa che co i so schèi fa jara

la à cređest đe ciorse a meśura

al re đe castela e la so śmara

qua đó sul pian e la su là in jertura 46.

3. In Cecchinel la forma poetica – la poesia intesa come «forma» – sembra avere una funzione di

scongiuro dell’insostenibilità del reale. Nella lirica d’apertura della prima sezione, Ðébol l’é ’l parfun, ad

esempio, il penultimo verso tronco di ogni strofa è seguito da un trisillabo, a isolare la rarità dell’esperienza

sensoriale descritta, la delicatezza e la labilità della percezione:

Ðébol l’é ‘l parfun de la ròśa salvàrega

- la lo cuna fursi l’aria đel bòsc –

che sol le śgnare che ‘l jaž l’à secà

pól sentir 47.

La regolarità dei ritmi della sua poesia rinserra un caos in fermento ed ebollizione sotto una forma

all’apparenza impertubata. A ciò contribuisce la predilezione per i parisillabi (per lo più decasillabi e

ottonari), senza però escludere endecasillabi e novenari e versi più brevi, come il settenario:

Al me can ghe par fursi đa strani

che rèste ‘nđé che no l’é gnessuni

(decasillabo di 3-6-9ª)

(decasillabo «trocaico» di 4-7-9ª)

Entro in tra ‘l fun đel larin (ottonario tronco)

Tanti ani ‘ndrio su la strađa par Tóvena

mi e ‘n pore tośat de crośèra

(endecasillabo sdrucciolo a minore di 4-7-10ª)

(novenario di 2-5-8ª)

O che ‘l bef mael fa na lora (ottonario piano)

O đal žinis-cio biśo

đe le lastre đe i cuèrt 48

(settenario piano)

(settenario tronco)

Soprattutto nella prima e nella seconda sezione è ricorrente la rima, quasi sempre facile e disposta

convenzionalmente (baciata, intrecciata, alternata) all’interno di strutture strofiche fisse; piuttosto rara

l’assonanza (pež: vènt; despèrde: žendre; còrž: nòt):

I tornéa pian đa ti

i me insuni sđefađi

ma par troi parfumađi,

fior vestiđi đe ti

Nina nana đe na òlta

che sol che ‘l vènt dès al scolta

đal stran a stròž đe i cortivi

te ’n calif fis… malgalivi

đa le storie đel carol

su te i lenċ đel piol

Par scalđar su ’n larin tut al žendre

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patòc senža pi ciari đe ran,

par fonđar pian i tòc đel me vèndre

te ‘n coat scur đe fien e đe stran 49.

Trasferite al dialetto, le forme metriche italiane sembrano ritrovare una loro verginità. Quartine e sestine

non producono quegli effetti di risonanza, spesso affioranti negli esiti in lingua, su cui pesa il vincolo della

tradizione: «Si direbbe che il dialetto consenta un uso primario e non riflesso degli schemi metrici» 50.

Attraverso l’adozione non infrequente di un enjambement debole che isola, a inizio di verso,

complementi di specificazione, complementi oggetto, predicati verbali e attributi, provocando lo sfasamento

di melos e logos, il poeta mira ad ottenere un ritmo sincopato che valorizzi al meglio l’irta tessitura

espressionistica del suo dialetto:

Anca đoman la not

la intajarà su par đe là

al so đugàtol đe jaž…

E mael al pež al revèsa

i braž scanađi đal scur

e ‘l bulighéa in tra le batuđe

stòrte inbriaghe

‘l fogo ‘nđat l’à asà croste

đe ženđre e đe fret 51.

Egli sfrutta al meglio le potenzialità fonico-ritmiche della parlata delle Prealpi trevigiane, si affida spesso

alla capacità generativa dei suoni, insiste sui nessi velare + vibrante e sulle dentali occlusive e fricative. I

frequenti monosillabi e le tronche in consonante sono inoltre speculari alla natura scheggiosa dei suoi

materiali e rendono bene questa sensazione quasi di ansito, la difficoltà dell’esistere e del dirsi:

L’ultima macia đe luna fa lat fresc spandest

A stròž đe lònc

valòi e crèp

par bòsc e prà

co quei ’ndati qua su

Te ’n coat scur đe fien e đe stran

Cađene đe òs la tòrž la nòt 52

Si tratta di una parola spuria, satura di significati; essa costituisce un segno necessario della cosa, sembra

esserne un’emanazione. Scrive Meneghello in Libera nos a Malo: «La parola del dialetto è sempre

incavicchiata alla realtà, per la ragione che è la cosa stessa, appercepita prima che imparassimo a ragionare,

e non più sfumata in seguito, dato che ci hanno insegnato a ragionare in un’altra lingua» 53.

Al fine di rendere appieno l’espressività di una pronuncia quanto più autentica e di evitare ambiguità, il

poeta mobilita un meticoloso e spiazzante apparato ortografico, irto di segni diacritici 54, e non lesina, in

chiusura di volume, un ampio corredo di note lessicali. Cecchinel ha incontrato straordinarie difficoltà nel

realizzare sulla pagina questi suoni mai scritti prima. L’alfabeto italiano sembra uno strumento imperfetto a

rendere la parlata di Revine-Lago, come fu per «l’aga pì fres-cia» («l’acqua più fresca») del paìs, nella

Dedica che apre le Poesie a Casarsa di Pasolini 55, e per la «parlèta frisca» di Tursi, in epigrafe a ’A terra

d’u ricorde di Pierro 56. Il poeta s’ingegna come può, adotta soluzioni che poi abbandona, perché ritenute

imprecise (si pensi alla sostituzione, tra la prima e la seconda edizione, di <∫> con <ś>). La sua ossessione è

quella di non tradire, con una grafia approssimativa, la sostanza fonica del dialetto, inseguendo il fantasma

dell’oralità. Alla fine, con la progressiva messa a punto di un proprio sistema autonomo, fonetico e

grammaticale, egli «ci dà il profumo del dialetto delle sue valli come preziosa e pienamente attestata

coerenza anche linguistica, così che l’auctor letterario diventa, come nel caso di Pierro, poeta ugualmente

garante e creatore di lingua, auctor linguistico» 57.

Tutto ciò impedisce alla poesia di Cecchinel il dissolvimento nell’assoluto e nel metafisico: se nella

poesia in lingua i riferimenti e le ambientazioni possono risultare secondari, quasi casuali, quella in dialetto

vuole invece luoghi segnati e toponimi (Pra de la Pośa, Pian de le Fémene, Gran Crośère, Tóvena,

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Nàdega, Catadral de San Bòlt, Canpedèi, Sant’Antòni, Pranolz, Valmorèl, Pian de le Zércole, Val de Làip,

Jertura, Boral, Piaje, Salt de le Dàlmede), con precisione assoluta; fino al deittico:

co quei ‘ndati qua su

an baśalic su par là ‘l gomitea

scanpar su là te na caśèra

là pian pian ghe riva a le reja pođađa

bòt fròi fa de tos

e dès su sote pic e scanzìe 58

Il poeta sperimenta il suo ambiente come significativo, sospingendo il dato autobiografico sulla soglia

dell’emblematicità. Il proprio luogo natio, o quello della propria famiglia e della propria stirpe, sono sentiti

con forza appassionata, come una di quelle forme di identità alle quali non si potrebbe rinunciare senza

essere cancellati dal piano della storia:

a noi che savònsi tégnerse a mènt

come i cai e le śbroje de le nostre man

le òlte, i salt e i concòi de i tragoi e i troi 59

Egli circoscrive un microcosmo in termini geografici non meno che linguistici, eppure anche entro

quegli spazi familiari e rassicuranti si insinua una devastante impossibilità di certezze. Infatti, quanto più

febbrilmente si rinnovano i tentativi delle dramatis personae, in cui l’io si proietta, di fissare un dato, di

tenere fermo almeno un elemento, tanto più angosciosa s’impone la labilità delle cose: «L’estraneità si è

insinuata anche nel cuore dell’universo dialettale. E proprio là dove lo scenario è più familiare, essa si rivela

più drammaticamente» 60. Contro ogni estetica della nostalgia e del rifugio, Cecchinel ha dimostrato come

il disagio dell’uomo contemporaneo non conosca eccezioni geografiche:

P a e śe

Paeśe rùspego đe burigòt,

đe onbrìa umiđa e petađiža,

ingateđamènt cròt

đe pòrteghi e cortivi

fin a tariói alti stuśađi,

nđove che mi vae a scur,

rùmola đe la piera,

nđove che fraže,

žinìs-cio đe calžina,

nđove che vae in žerca strac đe uđor vèci,

scròc, susuri, lumin…

pèrs in ti, no pose, no vui scanpar,

inmprésteme ‘n ciaro, an ciaro sol

te sto scur tenđro e fis,

sol lèđer al me nàser

te la to mort,

al me morir tel to ultimo vìver,

te la luna śmariđa đe le piere,

paeśe meo s-cèt đe maśiere 61.

Nella poesia di Al tràgol jért l’io resta sempre in primo piano, centrato o decentrato che si presenti, nel

momento stesso in cui tenta una topografia, descrive i luoghi intorno a sé, nello spazio del suo orizzonte

visibile e vivibile: «spazio del dimorare che si apre a un mondo; del paesaggio come χωρa, non “territorio”

calcolabile» 62. Il poeta di Revine-Lago ragiona sul senso del proprio essere lì e non altrove, verifica e

soppesa lo stato dei propri rapporti con la dimora e la lingua che lo ospitano, non esistendo una condizione

umana eterna e immutabile, semmai una situazione umana. Perciò il repertorio vastissimo degli oggetti, dei

colori, degli animali, delle piante, delle situazioni umane rappresentate non è mai fine a se stesso, ma

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sempre conferisce peso e intensità di presenza a quanto si viene dicendo: non si tratta di verità calate

dall'alto, ma proferite necessariamente, in un contesto spazio-temporale preciso e labilissimo.

4. Cecchinel non fa un uso totalmente transitivo della metafora dove balzi in primo piano il significato

ad essa delegato, limitandone così l’autonomia a favore dell’identificazione con l’ego scriptor; al

contrario sottolinea la componente realistica degli oggetti e delle situazioni rappresentate. Indubbiamente

la figura sta per qualcos’altro, condizione psicologica o contenuto morale, ma è prima di tutto un fatto

pienamente oggettivo:

La particolare relazione intrattenuta con il simbolismo fa sì che, nonostante taluni episodi di liricità

pura, del resto ai limiti della tenuta del sistema, la poesia in dialetto si mostri di solito estranea alle

predilezioni metafisiche e ai corredi simbolici di quella linea della tradizione europea, che da Valéry a

Eliot giunge fino a Montale. All’intellettualismo, che proietta l’oggetto in un vuoto in cui esso si fissa in

una durezza quasi araldica, l’autore dialettale, obbedendo al «genio» del suo mezzo, oppone la sua

fedeltà al concreto […] 63.

Vi è insomma nel dialettale un naturalismo di partecipazione, non solo simbolico: «ogni frammento di

spazio-tempo, di natura e di colore è chiamato a patire qualcosa di particolare» 64. Così gli animali di

Cecchinel, tratteggiati con competenza zoologica, sono certamente ipotiposi del poeta, ma vivono anche di

una loro vita autonoma. La lunga consuetudine della sua poesia con grilli, cavallette, volpi, coturnici

s’intona a quella pena del vivere che, leopardianamente, investe tutte le creature. Il dialetto si caratterizza

perciò come lingua della pietas:

le cavalete e i cric che i stornis la val fin su su

le žime, al criđar đe fan đe la bolp

Fa l’angonia đe ‘n cator

al to criđar ultimo

al se a inbuśà đó agremośo

tel torcolamènt negro đe i crep

na coca la criđa cofà ‘n cortèl

che i sie đrio uśar su ‘n tai đe manèra 65

Orfeo, l'archetipo del poeta, è intimamente correlato all'usignolo e al suo carmen, secondo un

procedimento poetico di armonia imitativa. Ancora per il tramite del Pascoli (si veda ad esempio la perizia

ornitologica de La civetta nei Poemi Conviviali), ne Al tràgol jért si leggono «’l vèrs dolž dei rosignoi al

jožoléa» e «al rosignol romit» 66. L’affermazione apodittica «sol i oci che ’l scur l’à inorbì i pol véđer»

(«Solo gli occhi che l’oscurità ha accecato / possono vedere») chiarisce i riferimenti al mito: come Omero,

altro modello archetipico, o l’indovino cieco Tiresia, il poeta ha perso la vista, ma disvela gli eventi. Egli

diventa voyant, secondo la lezione di Rimbaud, mediante «lo sregolamento di tutti i sensi» 67, mentre la sua

dimestichezza con il buio onirico (sòn, sònc, gatoi de sòn) gli conferisce un’andatura da semivivo o da

sonànbol («sonnambulo»).

Questo sentimento cresce quando il poeta batte in ritirata e si rinserra nella propria turris eburnea di

«murate jerte e inferiađe» («mura ripide e inferriate»), in cui realizzare «al đes-ciorse ultimo»

(«l’estraniamento ultimo»). Il suo «è un parlare che non salva» 68, «una lingua che più non si sa» 69: il

poeta biascica «senċ che gnesuni pi romai intenz» («segni che nessuno più ormai intende») 70, investendo

la parola del significato scritturale di signum. Il suo annunzio, per nulla lieto, si riduce a una cadenza

martellante:

mi, caròl carolì de canàgola,

fae mamì de mi panevin 71.

Con lo strumento dell’allitterazione onomatopeica, l’insistenza sulle sillabe –ca- -ro- -ma- -mi- simula

un balbettio che crea un caratteristico moto di ripiegamento dell’io su se stesso, rinviando allo stato di

impotenza in cui si trova il poeta; ma sarà questo un balbettare non da vecchiaia, da malafede, bensì da

lavorio non ancora pervenuto a conclusione, incoercibile e lucente, seppure condannato in partenza. Non per

nulla Cecchinel si definisce «scođraž žòt žabot» 72 «ultimo nato, zoppo e balbuziente»; balbuziente come lo

Zanzotto «infante» (nell’accezione più letterale del termine), e per questo impotente, de Gli Sguardi i Fatti

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e Senhal: «Io volevo una vo una volta venire all’ospedale / per vedere il tuo bene arrivare e partire il tuo

male» 73; e infirme come l’albatro di Baudelaire: «ses ailes de géant l’empêchent de marcher».

Il suo umore di lutto, i suoi oscuri presentimenti, l’ostinato attaccamento a ciò che era, il rifiuto netto

della realtà precludono ogni via di scampo. Non può esserci salvezza, se non l’estrema protesta di chi si dà

fuoco:

Co i me sèst e vèrs stranbi

đespèrs đa no so quanti ani

fae ciaro stremì

sote i caveđài đe le stele

par na śventađa

che à ‘ncora đa végner 74.

Prima Orfeo vedeva morire Euridice; adesso muore il poeta stesso, conclude il proprio calvario nel

sacrificio ultimo di un Venerdì di Passione, «vèndre trist», «vèndre sant». Cecchinel si ritiene responsabile

della sofferenza umana, ma non lascia ad altri l’assoluzione:

par fondar pian i tòc del me vèndre

te ‘n coat scur de fien e de stran 75.

Vittima silenziosa, non mai arreso, non mai piegato, egli vive il proprio tempo con dolore, con la ragione

e con l'anima, da intellettuale che deve rendersi conto di ciò che sta accadendogli intorno, e da scrittore,

traendone motivo più di dramma o di protesta che di elegia.

Il poeta in dialetto non testimonia meno del poeta in lingua la scissione dell’individuo contemporaneo,

ma solo il secondo la patisce anche come una frattura irrimediabile che, minando l’unità del soggetto, ha

pregiudicato il suo rapporto con il mondo («Non sono mai stato certo di essere al mondo») 76. Nel poeta

dialettale la divisione dell’io sollecita, al contrario, un’adesione solidaristica all’universo delle proprie

origini, concreto sebbene fatiscente e svuotato, in opposizione polemica all’esperienza di estraneità offerta

dalla società di massa. Pur nella consapevolezza dell’aleatorietà del proprio sforzo, Cecchinel ripropone il

modello del «nido» pascoliano in cui l’orizzonte torni familiare e l’io si ricomponga. Il ricordo dei morti è

un dovere continuo, senza tregua ed evasioni, per il quale è necessario vivere:

Mi son l’ultimo vècio đe sto paeśe.

In te la me mènt

l’é poret al cuèrt đe laste

e ’l cođolà lis l’é ‘n larin grant

che ’l fogo ‘nđat l’à asà croste

đe ženđre e đe fret 77.

5. L’accesso alla pagina delle giacenze mnestiche avviene con la discontinuità e l’intermittenza proprie

di quanto transita sotto la soglia della coscienza. Il poeta è improvvisamente visitato dai ricordi, ma essi

stentano a disporsi secondo un prima e un dopo, attuano piuttosto forme di compresenza, ora caotica ora

illuminante:

e ti tu levéa ’l cortel fa ‘n spersòrio

come par salvar al to žércol

de storia śbrindolađa che ‘ndéa.

[…]

Đès al to žércol no ’l fa pi paura.

L’é ’ndat romài in śbrìndole de memoria 78.

L’esperienza sembra esplosa nella pluralità dei frammenti restituiti dalla «memoria involontaria», e solo

nella soggettività del poeta essi possono ritrovare un elemento di aggregazione. Imporre un ordine alla

propria esistenza, al di là della dispersione e vanificazione nei giorni, sembra implicare una coscienza, da

parte dell'autore, che composizione unitaria si possa dare soltanto attraverso

una giustapposizione di frammenti che rifiutano di saldarsi in un vero raggiungimento finale, […]

immagine della rovina della parola e della vita, dell’insufficienza dell’opera e della conoscenza;

edificazione di rovine, appunto, ma anche solo puntello residuo del paesaggio rovinoso che ci tocca in

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sorte, come suggerisce uno degli ultimi versi di The Waste Land (1922) di Thomas Stearn Eliot: «These

fragments I have shored against my ruins» 79.

Se il frammento è una delle forme privilegiate di espressione dell’età contemporanea, Cecchinel

possiede una sensibilità molto critica e aggiornata quanto estremamente turbata, un senso del rapporto col

mondo vissuto come urto improvviso e lacerazione: il ritegno espressivo che non viene mai meno, nelle

parattatiche asprezze come nei sussulti analogici e nelle anastrofi, altro non è se non l’estremo tentativo di

contenere nell’espressione poetica, comunque eufemizzante anche se atroce, l’orrore universale della fine,

ormai storicamente attestata.

Egli ha tentato un recupero del poemetto quale strumento per dare ordine e continuità, per estrarre un

significato da un’esperienza che immancabilmente gli si propone come frammentaria, ai limiti del

solipsismo e inclusiva di un mito di ineffabilità. Cecchinel perviene così a una struttura accumulativa,

composta di una molteplicità di schegge liriche, atomi di riflessioni discreti se non proprio irrelati. La figura

dominante nei testi è perciò l’enumeratio: «Il modello per una precisione elencatoria che vuole sottrarsi alla

pura descrizione sembra essere il Whitman di Leaves of grass» 80.

La caśèra su sote ’l crùcol, la porta de

lenċ

vèrta, la strisa đe sol tel scur fresc,

garnèi e garnèi levađi che arž,

i restèi pođađi su la batuđa, la manèra

piantađa sul žoc, le scaje e i s-ciauž su

la manđra, al làip sut đe piera đolža,

i falđin picađi a la rama đel pež, al furigar

đel vènt in tra mež, l’aqua che la

sguataréa tel cođèr 81

Qui l’unità di misura è rappresentata dalla sintassi delle immagini, dalla rapinosa simultaneità e cosmica

arbitrarietà associativa. Tutto si dispone ad un riferimento pittorico; un quadro della realtà distorto «in una

forma che è oscuramente aggressiva anche verso colui che crede di guardare da un punto neutro» 82:

i pra rośa e bròśa sote ‘l žiel de žera, sora i

bosc ženđre đe castagnèr,

l’aqua želèste, blu, viola in contra le larghe đe

oro đe le canèle col primo ciaro e đel paluc

sèc e la biava

fiévere đe color

đa le invierađe đe bosc screcolośi 83.

A tratti le colorazioni fredde e cupe, «al sol sènpro pi đébol» («il sole sempre più debole»), la

prefigurazione della morte possono ricordare, assai più per polingenesi che per legame con una tradizione,

una vasta e vaga zona espressionistica, tutta novecentesca, da Campana a Rebora, da Trakl a Benn, da Blok

a Esenin e Jòzsef:

Al me can ghe par fursi đa strani

che rèste ’nđé che no l’é gnessuni

in tra ‘l bosc mort e ’l lac injažà

la sera pi biśa đe i ultimi ani

Anca đoman la not

la intajarà su par đe là

al so đugàtol đe jaž 84

Cecchinel s’iscrive a buon diritto nell’alveo della poesia simbolista e postsimbolista, italiana e non solo,

anche per il ricorso a procedimenti ormai grammaticalizzati a partire dai vociani 85: il sostantivo, privo

dell’articolo, è assolutizzato per accrescerne al massimo le potenzialità semantiche; le similitudini sono

spesso utilizzate con l’omissione della congiunzione «come» (cui corrispondono «fa» e «cofà» nel dialetto

di Revine-Lago). Alcuni esempi:

la montagna mare biśa insonađa,

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al sol schirat rosat ingelà in tra ran senža

na foja,

[…]

la manèra stela đe arđènt che la cai sora la

rađis,

i os tirađi sache torđeste,

le vene venc 86.

Le violente analogie ricompongono i propri termini in unità superiori, grazie all’ellissi dei verbi

copulativi (o aventi funzione copulativa) e all’impiego dell’apposizione in luogo dei complementi

predicativi dei soggetti.

Quanto fin qui reperito configura una serie di eccezioni rispetto all’uso meramente transitivo o veicolare

di una lingua. Nel celebre saggio sul linguaggio del Pascoli, Contini sostenne che

quando si usa un linguaggio normale, vuol dire che dell’universo si ha un’idea sicura e precisa, che si

crede in un mondo certo, ontologicamente molto ben determinato, in un mondo gerarchizzato dove i

rapporti stessi tra l’io e il non-io, tra l’uomo e il cosmo sono determinati, hanno dei limiti esatti, delle

frontiere precognite 87.

Le eccezioni alla norma significheranno allora, come avveniva per il Pascoli, che il rapporto fra l’io del

poeta e il mondo è un rapporto critico, non più tradizionale: «La realtà è comunque “dira”, quasi sempre

“non augurabile” e v’è una partecipazione al vissuto del “tutti” fatta ormai esperta del tramonto di molte

illusioni scientifico-tecnologiche nate due o tre secoli fa» 88.

Il frammentismo di Cecchinel cela in grumi e in pregnanze emblematiche una carica di drammatica

inquietudine, ben lontana dall'idillio lirico e naturalistico di chi si mantiene ancora al di qua rispetto al senso

delle cose. La sua scrittura procede per giustapposizioni e aggregazioni di sensazioni e immagini, fino a

cogliere, attimo per attimo, il senso oscuro e profondo dei misteriosi atti che governano l'esistenza: i «sénċ

sparpagnadi», liberati sbloccando «al cađenaž đur / đel stàul stracolmo e orbo» («il catenaccio duro dello

stabbio stracolmo e cieco»), non riescono a comporsi in un ordine, mentre intorno spira «an siroc malsan»

(«uno scirocco malsano») 89.

Alle idee di molteplicità e di varietà si associano quelle di aleatorietà e di confusione, e l’enumerazione è

il mezzo più adeguato per esprimere il caotico e precario convergere di cose e accidenti. E proprio gli

utensìli, ormai inservibili, divengono lo scenario dell’alienazione del soggetto: restèi, manèra, faldin, «la

carucola ondesta, al portante che ’l pica in calibro sul žei lònc de la jerta» («la carrucola lubrificata, il

portante che pende in equilibrio sul ciglio lungo dell’erta») 90. La realtà è ingigantita con un’ottica

ravvicinata che, insistendo metonimicamente sui particolari, ottiene effetti deformanti.

Il poeta affonda e si perde nella iperrealistica, allucinatoria evidenza delle cose, che la parola dialettale

provvede a incrementare, fin là dove esse sono veramente fondate e non costituiscono più un mero rinvio

psicologico:

e la pólvera la é sol pólvera

e le ortighe le é ortighe e l’ é come

se gnesuni fuse vegnest qua su

sote i caveđai đe le stele 91

.

Quanto Contini ebbe a scrivere sull’espressionismo di Jules Romains, rifacendosi in quella sede alle

parole dello psicologo Heiss, definisce ottimamente anche l’atteggiamento di Cecchinel:

La sua visione scopre ovunque violente analogie e rapporti insospettati e, animando la natura,

riconosce in essa un gioco di forze vive e concepisce tutta la vita come creazione continua, incessante

sorgere, divenire e passare, gonfiarsi e riassorbirsi di immagini sovrumane, le quali esistono come unità,

anche se non abbiamo per loro un nome 92.

Il pensiero, l'emozione, l'impulso immaginativo o psichico del poeta hanno bisogno di proiettarsi in una

forma già costituita, di trovare un sostegno esterno, culturale o realistico, comunque comunicativo, che

liberi la sua individualità creativa da se stessa, dalla propria rischiosa ineffabilità. Le cose non sono solo

cose, ma sparsi pensieri della sua anima, come se per mezzo di esse si riuscisse ad esprimere certi

sentimenti che, in altro modo, resterebbero non solo indefinibili, ma anche privi di espressione.

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L’eccesso di nominazione risulta quindi figura del vuoto, meglio dell’horror vacui. Si veda l’abuso dei

fitonomi: canpagnòi, prìmole, viole, biava, formènt, ànes, mènta, vinanza, fràsen, càrpen, casia, rore, erba

da lat, erba stranudela, denéver, rédega, peverèl, stela indorada, jàśena, faghèr, làres, nośelèr, agróst,

gavinèi, fioret de strafoi, sanbughèr, ortighe, jaenèra, alcuni dei quali (come cavaréśeghe, agróst, erba del

diàul, śgarlasà e pežòla) sono di erbe dannose «a causa del loro rapido allignare che può rendere

improduttivi i pascoli» e pericolose per il bestiame «a causa della loro tossicità» 93.

Questa precisione è però soltanto illusiva; non vi è icasticità di rappresentazione, bensì insinuazione

linguistica: una forma di evasione espressionistica, là dove il poeta ricorre a una nomenclatura precisa.

Sopra un fondo livido e confuso emergono dei primi piani netti, i quali si giustificano soltanto in rapporto a

un orizzonte che resta indeterminato. Insomma, questa troppo evidente chiarezza è eminentemente

evocativa: quanto il Pascoli chiamava «errore dell’indeterminatezza» 94 e Cecchinel voleva sventare, è

esposto in una parola sfuggente per ultraspecialismo, sebbene artisticamente precisissima.

6. Il poeta di Revine-Lago deve fare i conti con la distruzione del proprio universo, necessaria premessa

al suo dire: a partire dagli anni Sessanta, infatti, «il dialetto si è imposto all’attenzione come perdita, e poi

ogni giorno è andato perdendo qualcosa di più, insieme al cambiamento di tutti i referenti reali, offrendosi

quindi come dato oggettivo, e non metafora, di un vasto mutamento antropologico» 95.

La parola dialettale, «perduta» dai parlanti, viene ritrovata dai poeti, che sempre più la recuperano come

spazio separato, sottratto all’omologazione dilagante e alla distruzione delle culture e delle differenze.

Perciò la denuncia alloglotta di Cecchinel è forma della radicale separazione dell’individuo dal suo contesto

storico e sociale, e incide con nuovo strazio l’immagine del presente:

par che la caśera śvođađa

la è cativa

fa la malađižion

đe na mare đrio ’nđar 96.

Al messaggio della poesia in lingua, si aggiunge l’ostinato richiamo all’irriducibile diversità di quel

millenario ordine del mondo, di quell’idea della persona, di quel rapporto con la realtà, violentemente

superati e sommersi nel volgere di pochi anni.

Note

1 «Come articolazioni vecchie crocchiano / le assi della greppia asciutta, / crepita nel fienile il fieno / come di passi

leggeri che vengono / e oscilla appena appena l’alare / sopra le ossa scarnificate del muro… / e adesso su sotto ganci e

scansie / orbe e fredde per il buio tante ombre / provano pian piano a drizzarsi / con tante schiene affaticate / e nel fumo

si vedono unirsi / fronti, ciglia e guance incavate…», L. CECCHINEL Incantamènt par gnent, in Al tràgol jért (L’erta

strada da strascino). Poesie venete 1972-1992, edizione riveduta e ampliata, Postfazione di A. Zanzotto, Scheiwiller,

Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1999, p. 116. Tutte le citazioni delle poesie di Cecchinel provengono da questa

edizione, che sarà indicata con la sigla TJ. Le traduzioni sono dell’autore.

2 M. CORTI, Dialetti in appello, in Metodi e fantasmi, Milano, Feltrinelli, 1969, p. 116.

3 A. ZANZOTTO, Note a Filò, in Filò (1976), ora in ID, Le poesie e le prose scelte, a cura di S. Dal Bianco e G.M.

Villalta, Milano, Mondadori, 1999, pp. 539-540.

4 L. CECCHINEL, Al tràgol jért, 1972 – 1984, Pederobba (TV), Edizioni I.S.C.O, 1988.

5 F. BREVINI, Le parole perdute. Dialetti e poesia nel nostro secolo, Torino, Einaudi, 1990, p. 378.

6 In Tóvena via là sotto Nađega (pp. 33-35), ad esempio, l’alternanza di endecasillabi e novenari regolari, prima assente,

restituisce sulla pagina, con un tipico movimento oscillatorio, il passo incerto e claudicante degli ubriachi. Il titolo è

stato portato da nove a dieci sillabe – in entrambi i casi l’ultima parola è «Nàdega», quindi sdrucciola -, per

l’introduzione del deittico. Il primo verso comincia con l’aggettivo «tanti», assente nella prima versione; il secondo

aggiunge «pore» («povero») al «tośat de crośèra» («ragazzo di crocevia»); il terzo sostituisce «co» (congiunzione) con

«đrioghe» («dietro», preposizione); il verso 17 inserisce il monosillabo riempitivo «pò»; il 19 «su», anch’esso

riempitivo; il 22 semplifica il ductus: «co i òci fa đe viole smariđe» in luogo de «che la véa òci fa đe viole smariđe»; il

25 si allunga di due sillabe, «an poc»; il 27 sostituisce il monosillabo «tant» con l’ossitono «cusì»; il 38 l’articolo

determinativo femminile plurale «le» con l’aggettivo dimostrativo femminile singolare «quela»; infine il 40 inserisce

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ancora il riempitivo «su». Questo tipo di riassestamento è presente anche in Mažarol, al v. 94: «e la é tant ciara e cruđa

la fragola», in luogo de «e la é ciara e cruđa la fragola». Ma la revisione del secondo Al tràgol jért prevede anche altri

tipi di apporti e di modifiche. Nella prima edizione, infatti, la chiusa di Al troi vècio del fien constava di tre versi («Al se

ferma e me fia la vèrž / par an s-ciant i só oci fondi / sote ‘l fià đel lumin»; «Si ferma e mia figlia apre / per un attimo i

suoi occhi fondi / sotto l’alito del lumino»), cassati per un eccesso di riservatezza, in quanto sarebbero premonizione di

un dramma familiare, e sostituiti nella seconda edizione da un nuovo distico, che però già porta la stimmate del lutto,

per il riferimento pittorico dell’ultimo emistichio («E l’é uđor vèci đe fien e đe fun / e ‘l ciaro in sfeśa đe na luna biśa»;

«E ci sono odori vecchi di fieno e di fumo / e il chiarore di fessura di una luna cupa»).

7 L. CECCHINEL, Senċ, Conegliano, El Levante por el Poniente, 1990. Alcuni suoi testi sono stati inseriti inoltre in Via

terra. Antologia di poesia neodialettale, a cura di A. SERRAO, Udine, Campanotto, 1992. Una breve silloge di inediti,

Sanjut de stran («Singhiozzi di strame») è compresa in Cinque poeti in dialetto veneto. Andrea Zanzotto, Cesare

Ruffato, Luciano Caniato, Luciano Cecchinel, Gian Mario Villalta, «In forma di parole», XVIII, 3, 1998, pp. 143-175.

La poesia Al pèđo mistier che Cristo l’à inventà è stata inclusa ne Il pensiero dominante. Poesia italiana 1970-2000, a

cura di F. LOI e D. RONDONI, Garzanti, Milano, 2001, pp. 107-109. L’unica – finora – prova in lingua è stata consegnata

alla plaquette Testamenti, Milano, Edizioni En plein, 1997.

8 Da un’intervista inedita a L. Cecchinel, raccolta da chi scrive il 25 marzo 1998, in occasione del quarto appuntamento

della manifestazione culturale «LEGGERLE. Cantieri poetici del Triveneto», tenutasi presso la libreria «Becco giallo»

di Oderzo (TV).

9 M. MUNARO, Sull’“erta strada” della poesia con Cecchinel, in Il potere, L’urlo, L’erta strada. Considerazioni di e su

Luciano Caniato, Marco Munaro, Luciano Cecchinel, Conegliano, Litografia Battivelli, 1994, p. 53.

10 «Ah! il ragazzo buono dei campi quando aveva sete / asciugava quieto il fondo schietto della mano / e stringeva nei

denti la luce, / faceva una volta per tutte la fatica voglia, / grande l’amore nell’odore di sudore e di fieno, / dolce il pane

dei poveri», Moros spauridi, TJ, pp. 39-40.

11 BREVINI, Dialetti e poesia nel Novecento, in La poesia in dialetto. Storia e testi dalle origini al Novecento, tomo III,

a cura di F. B., Milano, Mondadori, 1999, p. 3211.

12 «E così non si addomesticano, no, / parlare di una volta, i tuoi segni / […] / E rabbioso come un virgu lto ritorto / che

sfugga a mani che stentano / rivòltati sui denti / di chi ti prende senza veramente volerti», No i se mesteghéa, nò, i to

senċ, TJ, p. 88.

13 V. Giotti citato in P.P. PASOLINI, La lingua della poesia (1956), ora in ID, Passione e ideologia, Torino, Einaudi,

1985, p. 243.

14 A. ZANZOTTO, Profezie o memorie o giornali murali, XVI, in La Beltà (1968), ora in ID, Le poesie e le prose scelte,

cit., p. 341.

15 Cfr. F. BREVINI, Le parole perdute cit., p. 85.

16 Ivi, p. 379.

17 TJ, p. 165.

18 «Padrone di un niente che è stato tutto, / signore ormai solo di bestemmie crudeli / con la mia figura annodata / e

striata di screpolature brucianti / come la scorza malandata di un ciliegio / faccio processione, / cappato [avverte

l’autore in nota: «cappato: appartenente a confraternita religiosa. I cappati, partecipando in occasione di ricorrenze

religiose solenni a processioni in chiesa o in paese, indossavano una mantellina bianca e un vistoso camice rosso»] di un

carnevale amaro, / con gli occhi grossi dell’allocco spolmonato / e il fiato lungo del basilisco senza cresta / e le zampe

zoppe dei ghiri sfiniti / fino ai confini consumati di un androne che mi hanno lasciato aperto», Mazarol, TJ, pp. 133-

134.

19 «La testa che gira, che pesa come una poiana levata»; «e piangono le pietre e le schegge / come sotto lo strascino dei

tronchi / e dita e unghie hanno i cespugli di traverso / e sospiri ebbri di boccioli aperti», TJ, pp. 23, 50.

20 A. ZANZOTTO, Postfazione, cit., p. 173.

21 F. BREVINI, Le parole perdute cit., p. 361.

22 «Ed io ho i brividi fin dentro il midollo / e mi sento venir su dalla terra / l’impulso a prendere al più presto una strada

di montagna, / a fuggire su là in una casera, / / per riscaldare su un focolare tutta la cenere / fradicia senza più chiarori di

rame, / per affondare lentamente i rintocchi del mio venerdì / in un giaciglio scuro di fieno e di strame, / / per far venire

dietro il fumo della sera / sopra le venature delle pietre screpolate / i nostri vecchi da sottoterra, / ombre bislunghe e

stralunate», Agrost, TJ pp. 82-83.

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23 «Vagando lungo / valloni e dirupi / / per boschi e prati / con quelli morti qui su / / e i segni di una femmina / e la

nebbia dolce / dei sentieri che si disfanno / / fin nel vino bollente / che un po’ alla volta / sale dalle festuche», A stròž,

TJ, p. 57.

24 «Cantava giù sotto le suole la ghiaia, / il freddo stringeva fin nel midollo, / sotto sonni di luna la strada chiara / pareva

una scorza di betulla. / / Forse era l’ultima sera dell’anno / e torbidi di mosto dolce e moccio, / raggrumati in un sogno

caldo come un pastrano, / andavamo sulla strada rovescia», Tòvena via là sote Nàdega, TJ, p. 33.

25 A. ZANZOTTO, Postfazione, cit., p. 170.

26 «Col primo verso della cavalletta assonnata / ancora il vento fresco sulla pelle / e poi la rugiada giù sul prato liscio / e

rabbrividimento fitto di abeti / e dentro in casera / sotto l’occhio quieto del cerchio del latte / abbagliato dalle fiamme e

dal fumo / brontolio cattivo e mansueto / di spiriti e spiriti in traccia», Al troi vècio del fien, TJ, p. 76.

27 Specificamente nella sezione Mistieròi di Idioma (1986), ora in ID, Le poesie e le prose scelte, cit., pp. 782-795.

28 «Avevi un nome sbagliato: / ti chiamavi Felice», Feliže, TJ, p. 71.

29 «Sussurro di api»; «brusio assonnato delle api», TJ, pp. 54, 87.

30 «Di sicuro qualcosa mi avevano detto / il timo e la verga d’oro / e la menta con l’arnica, / candelieri spauriti sotto la

falce, / formicai abbrustoliti / tra i legni del rastrello…», TJ, p. 48.

31 Cfr. in merito S. AGOSTI, Interpretazione della poesia di Sereni, in Modelli psicanalitici e teoria del testo, Milano,

Feltrinelli, 1987, pp. 87-104.

32 TJ, p. 18.

33 Cfr. VIRGILIO, Georgicon libri, IV, 219-227. Su questo passo Biotti precisa: «Gli antichi non chiamavano api

indistintamente tutte le anime […], ma solo quelle destinate a vivere secondo giustizia e a ritornare di nuovo nel luogo

di origine dopo aver compiuto azioni gradite e accette agli dei», in VIRGILIO, Georigiche. Libro IV, a cura di A. BIOTTI,

Bologna, Pàtron Editore, 1994, p. 188. Cfr. anche M. BETTINI, L’ape e la farfalla, in *Antropologia e cultura romana,

Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1986, pp. 205-227. 34 G. PASCOLI, Foglie morte, in Canti di Castelvecchio (1903), Milano, Mondadori, 1967, p. 85.

35 Cfr. G. BÀRBERI SQUAROTTI, Simboli e strutture della poesia del Pascoli, Messina-Firenze, D’Anna, 1966, p. 30.

36 «Per la porta decrepita / che cigola allo stremo / sui cardini ubriachi / qualcuno doveva pure passare / coi vestiti ruvidi

/ del venerdì amaro / per dire: era qui che si appoggiavano / i rastrelli e le falci, / qui su questa scansia la polenta / al

riparo dai ghiri, / là erano le ombre strane del focolare / e qua l’acqua che sapeva di fumo», La casèra rebandonada, TJ

p. 124.

37 F. BANDINI, Dialetto e filastrocca infantile in «Libera nos a malo» e «Pomo pero», in Su /Per Meneghello, a cura di

G. Lepschy, Edizioni di comunità, Milano, 1983, p. 73.

38 Da una lettera inedita di M. Rigoni Stern indirizzata a L. Cecchinel, in data 13 febbraio 1992.

39 «Una cosa è poesia in dialetto, una cosa è poesia dialettale. La poesia dialettale il suo nutrimento maggiore lo trova in

atteggiamenti e sentimenti connessi al colore esterno e all’ambiente delle parole che usa; è più folclore che poesia. La

poesia in dialetto invece non accetta folclore e al dialetto chiede soltanto l’espressione e il suono, la qualità intima che si

richiede a ogni altra lingua», P. PANCRAZI, Giotti poeta triestino, in Ragguagli di Parnaso, a cura di C. GALIMBERTI,

Milano-Napoli, Ricciardi, 1967, III, p. 177.

40 Sul passato da intellettuale engagé di Cecchinel si legge in Notizia: «Dopo un’esperienza in campo amministrativo

come sindaco del suo paese, ha partecipato all’attività di gruppi operanti per l’organizzazione di base del territorio. Si è

impegnato, in particolare, nella costituzione di cooperative nel settore agricolo», TJ, p. 188.

41 P.P. PASOLINI, Introduzione a Poesia dialettale del Novecento, a cura di M. Dell’Arco e P.P. Pasolini, Parma,

Guanda, 1952, p. CXVIII.

42 «Vecchio dialetto che non so più, / che mi ti sei estenuato / giorno per giorno nella bocca (e non mi basti)»: Filò

(1976), ora in ID, Le poesie e le prose scelte, cit., p. 530.

43 G.M. VILLALTA, La costanza del vocativo. Lettura della trilogia di Andrea Zanzotto: «Il Galateo in Bosco, Fosfeni,

Idioma», Milano, Guerini e Associati, 1992, p. 71. A proposito del petél, in una nota de La Beltà si legge: «Nello stesso

dialetto si dice petél la lingua vezzeggiativa con cui le mamme si rivolgono ai bambini piccoli, e che vorrebbe

coincidere con quella in cui si esprimono gli stessi» (Le poesie e le prose scelte, cit., p. 352).

44 Da un’intervista inedita a L. Cecchinel cit.

45A. ZANZOTTO, Con Virgilio, in ID, Fantasie di avvicinamento, Mondadori, Milano, 1991, p 344.

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46 «Non c’è più eredità, no, gioventù, / se non sono eredità i grumi di fango / di questa terra ormai senza latte, / rivoltata

e ridotta unta e sterile / / da una gente cupa che con i suoi soldi come ghiaia / ha creduto di prendersi a misura / il re del

castello e la sua stizza / qua giù sul piano e su là sull’erta», Agrost, TJ p. 83.

47 «Debole è il profumo della rosa selvatica / - lo culla forse la brezza del bosco / che solo le narici che il ghiaccio ha

disseccato / possono sentire», Ðébol l’é ‘l parfun, TJ, p. 11.

48 «Al mio cane sembra forse strano / che resti dove non c’è nessuno»; «dentro tra il fumo del focolare» «Tanti anni

addietro sulla strada per Tovena / io e un povero ragazzo di crocevia»; «o che beve da solo come un imbuto da botte»;

«o dal muschio grigio / delle lastre di pietra dei tetti»; «o sulla terra dura», TJ, pp. 27, 29, 33, 35, 77.

49 «Tornavano piano da te / i miei sogni disfatti / ma per sentieri profumati, / fiori vestiti di te.»; «ninna nanna di una

volta / che solo il vento adesso ascolta / dallo strame vagabondo dei cortili / in una foschia fitta… accidentati / dalle

storie del tarlo / sui legni sordi del ballatoio»; «per riscaldare su un focolare tutta la cenere / fradicia senza più chiarori

di rame, / per affondare lentamente i rintocchi del mio venerdì / in un giaciglio scuro di fieno e di strame», TJ, pp. 31,

46, 82.

50 F. BREVINI, Le parole perdute cit., p. 111.

51 «Anche domani la notte / intaglierà su per di là / il suo giocattolo di ghiaccio»; «e solitario il pino rovescia / le braccia

spossate dall’oscurità»; «e si agita tra i battenti / storti ubriachi»; «il fuoco trascorso ha lasciato croste / di cenere e di

freddo», TJ, pp. 42, 53, 78, 141.

52«L’ultima macchia di luna come latte fresco versato»; «Vagando lungo / valloni e dirupi / / per boschi e prati / con

quelli morti qui su»; «in un giaciglio scuro di fieno e di strame»; «Catene di ossa torce la notte», TJ, pp. 15, 57, 82, 89;

il corsivo è mio.

53 L. MENEGHELLO, Libera nos a Malo (1963), Milano, Mondadori, 1986, p. 37.

54 Si pensi all’uso della <đ> e della <ž>, che rendono i suoni interdentali tipici della pedemontana trevigiana,

rispettivamente <dh> e <zh>, all’uso di <ċ> per la palatale in fine di parola e di <ś> per la sibilante sonora. Nella Nota

linguistico-ortografica compare un ringraziamento al professor Paolo Peruch «per l’aiuto prestato nella trascrizione

fonetica», TJ, p. 158.

55 P.P. PASOLINI, Dedica, in Poesie a Casarsa (1942), ora in Bestemmia. Tutte le poesie, Milano, Garzanti, 1993, p.

1191

56 A. PIERRO, S’i campène di Paske, in ’A terra d’u ricorde (1960), ora in Poeti dialettali del Novecento, a cura di F.

Brevini, Torino, Einaudi, 1987, p. 233.

57 A. ZANZOTTO, Postfazione, cit., p. 183.

58 «Con quelli morti qui su»; «fuggire su là in una casera»; «un basilisco [avverte l’autore in nota: «basalisc: animale

fantastico che il sembiante di serpente crestato fa simile a un drago; col suo sguardo oppure con il suo alito addormenta

la vittima designata»] su di là vomitava»; «là piano arrivano all’orecchio appoggiato»; «e adesso su sotto ganci e

scansie», TJ, pp. 57, 82, 89, 100, 116; il corsivo è mio.

59«A noi che sapevamo tenere a mente / come i calli e i coaguli delle nostre mani / le svolte, i salti, i rilievi di strade da

strascino e sentieri», Incantamènt par gnent, TJ, p. 120.

60 F. BREVINI, Le parole perdute cit., p. 154.

61 «Paese scabro di vicoli diroccati, / di ombra umida e attaccaticcia, / groviglio malato / di portici e cortili / fino a

piccoli altari alti spenti, / dove io vado al buio, / talpa della pietra, / dove rovisto, / muschio di calcina, / dove vado alla

ricerca stanco di odori vecchi, / crocchi, sussurri, lumini… / perso in te, non posso, non voglio fuggire, / prestami una

luce, una luce solo / in questa oscurità tenera e fitta, / solo leggere il mio nascere / nella tua morte, / il mio morire nel

tuo ultimo vivere, / nella luna sbiadita delle pietre, / paese schietto di macerie», Paese, TJ, pp. 101-102.

62 G. SCALIA, Avviso, in Cinque poeti in dialetto veneto, cit., p. 15. Tutto ciò potrebbe forse autorizzare un richiamo

all’opera di Heidegger. Scrive infatti il filosofo tedesco: «Il colloquio del pensiero con la poesia mira a evocare

l’essenza del linguaggio, affinché i mortali imparino nuovamente a dimorare nel linguaggio» (M. HEIDEGGER, Il

linguaggio nella poesia [1950], in In cammino verso il linguaggio, Milano, Mursia, 1990, p. 46). Il linguaggio della

poesia sarebbe quindi «la casa dell'essere» (ID, Essere e tempo [1927], Torino, Utet, 1969, p. 128).

63 F. BREVINI, Introduzione, in Poeti dialettali del Novecento, a cura di F. B., cit., p. XVIII.

64 A. ZANZOTTO, Postfazione, cit., p. 176.

65 «Le cavallette e i grilli che frastornano la valle fin sulle cime, il gridare di fame della volpe»; «come l’agonia di un

coturnice / il tuo gridare ultimo / si è imbucato lacrimoso / nel contorcimento nero dei crepacci»; «una chioccia grida

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66 «Il dolce verso degli usignoli gocciolava»; «l’usignolo solitario», TJ, pp. 38, 131.

67 A. RIMBAUD, A Paul Demeny, Charleville, 15 maggio 1871, più nota come La lettera del veggente, in ID, Opere,

Milano, Feltrinelli, 1964, p. 144, traduzione di I. Margoni.

68 A. ZANZOTTO, Postfazione, cit., p. 179.

69 G. PASCOLI, Addio!, in Canti di Castelvecchio, cit., p. 168.

70 TJ, p. 141.

71 «Io, tarlo tarlato di collare / faccio da me stesso di me un grande fuoco», TJ, p. 153.

72 TJ, p. 54.

73 A. ZANZOTTO, Gli Sguardi i Fatti e Senhal (1969), ora in Le poesie e prose scelte, cit., p. 365.

74 «Con i miei versi e gesti strani / sperduto da non so quanti anni / faccio luce allo stremo / sotto i solchi iniziali delle

stelle / per un colpo di vento / che deve ancora venire», TJ, p. 55; il corsivo è mio. Si legga ancora a p. 154: «e fursi te

n’antro an de la fan / la me ultima traža / na fiantigoleta / la śluśarà đa in tra le stele, / fa ‘n tośatel lontan / la batolarà

pian tel vènt, / tel screcolàmènt alt de i ran / infasađi đal nef, / par altri oci e altre reje» («E forse per un altro anno della

fame / la mia ultima traccia / come una piccola favilla / rilucerà di tra le stelle, / come un bambino lontano / bisbiglierà

nel vento, / nello scricchiolio alto dei rami / fasciati dalla neve, / per altri occhi e altri orecchi»).

75 «Per affondare lentamente i rintocchi del mio venerdì / in un giaciglio scuro di fieno e di strame», TJ, p. 82.

76 E. MONTALE, Non sono mai stato certo di essere al mondo, in Satura (1971), ora in Tutte le poesie, Milano,

Mondadori, 1984, p. 311.

77 «Io sono l’ultimo vecchio di questo paese. / Nella mia mente / è povero il tetto di lastre di pietra / e l’acciottolato

liscio è un focolare grande / sul quale il fuoco trascorso ha lasciato croste / di cenere e di freddo», Angonia de

primavera, TJ, p. 141.

78 «E tu levavi il tuo coltello come un aspersorio / quasi per salvare il tuo cerchio / di storia a brandelli che andava. / / […] /

/ Adesso il tuo cerchio non fa più paura. / È andato ormai in brandelli di memoria», Feliže, TJ, p. 72.

79 G. FERRONI, Dopo la fine. Sulla condizione postuma della letteratura, Torino, Einaudi, 1996, p. 22.

80 F. BREVINI, Le parole perdute cit., p. 378.

81 «La casera su sotto il cocuzzolo, la porta di legno aperta, la scia di sole nell’ombra fresca, granelli e granelli levati

che ardono, / i rastrelli appoggiati sullo stipite, la scure piantata sul ceppo, le schegge e i fuscelli sullo spiazzo, il

truogolo asciutto di pietra dolce, / le falci appese al ramo dell’abete, il frugare del vento in mezzo, l’acqua che

sciaguatta nel bossolo per la cote», Cantar del pra, TJ, p. 21.

82 A. ZANZOTTO, Postfazione, cit., p. 175.

83 «I prati rosa e brina sotto il cielo di cera, sopra i boschi di cenere e castagni / l’acqua celeste, azzurra, viola contro le

distese d’oro delle cannelle alla prima luce e dell’erba di palude secca e del granoturco»; «febbri di colori / dalle vetrate

di boschi scricchiolanti», TJ, pp. 15, 37.

84 «Al mio cane sembra forse strano / che resti dove non c’è nessuno / tra il bosco morto e il lago ghiacciato / la sera più

grigia degli ultimi anni»; «Anche domani la notte / intaglierà su per di là / il suo giocattolo di ghiaccio», TJ, pp. 27, 42.

85 Cfr. G. CONTINI, Espressionismo letterario (1977), in ID, Ultimi esercizi ed elzeviri, Torino, Einaudi, 1989, pp. 41-

105.

86 «La montagna madre grigia assonnata, / il sole scoiattolo rossiccio gelato tra i rami senza una foglia, / […] / la scure

stella d’argento che cade sopra la radice»; «le ossa ridotte virgulti torti / le vene vimini», TJ, pp. 15-17, 67.

87 G. CONTINI, Il linguaggio di Pascoli (1958), in Varianti e altra linguistica, Torino, Einaudi, 1970, p. 219-245.

88 A. ZANZOTTO, Postfazione, cit, pp. 172-173

89 Crośe crośat, vv. 1-2, 7, TJ, p. 153. 90 TJ, p. 25.

91 TJ, p., p. 126.

92 G. CONTINI, Espressionismo letterario, cit., p. 62.

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93 TJ, Note al testo, p. 159.

94 G. PASCOLI, Il Sabato, in Prose I, Milano, Mondadori, 1971, p. 64.

95 A. ZANZOTTO, Un’esperienza comune nel dialetto, in Cinque poeti in dialetto veneto, cit., p. 19.

96 «Perché la casera svuotata / è cattiva / come la maledizione / di una madre morente», La casèra rebandonada, TJ, p.

125.