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VENERDÌ SANTO «PASSIONE DEL SIGNORE» Gv 18,1-19,42; Is 52,13 - 53,12; Sal 30; Eb 4,14-16; 5,7-9 Non vi è Antifona d'inizio; la solenne azione liturgica comincia con la preghiera silenziosa di tutta l'assemblea. Al posto della Colletta il sacerdote innalza l'Orazione (non si dice Preghiamo) O Dio, che nella passione del Cristo nostro Signore ci hai liberati dalla morte, eredità dell’antico peccato trasmessa a tutto il genere umano, rinnovaci a somiglianza del tuo Figlio; e come abbiamo portato in noi, per la nostra nascita, l’immagine dell’uomo terreno, così per l’azione del tuo Spirito, fa’ che portiamo l’immagine dell’uomo celeste. Per Cristo nostro Signore. In questo Venerdì Santo nella Liturgia della Chiesa è presente solo la “Parola”; il sacramento tace per far posto all’evento o, meglio, alla contemplazione dell’avvenimento, il mistero pasquale, che ha permesso la realizzazione di tutti i sacramenti. Il Figlio di Dio, il Servo sofferente che si fa carico delle colpe dell’intera umanità per redimerla, colui che imparò l’obbedienza dalle cose che patì affinché l’uomo potesse avere la vita eterna, dona la sua carne martoriata così come aveva annunciato, e lascia che il suo sangue divenga fonte di vita per tutti; un sacrificio che lo eleva a “sommo sacerdote”, perfetto ed eterno. Oggi il nuovo popolo di Dio, la Chiesa, medita la Passione del suo Signore, si prostra in adorazione della Croce, commemora la sua origine dal costato di Cristo, prega e intercede per la salvezza di tutto il mondo; il popolo di Dio, pur guardando al sacrificio cruento di Gesù, non è condizionato da un lutto inconsolabile, perché vede la prospettiva gloriosa della Risurrezione, quando il Figlio tornerà nella gioia del Padre. In tale contesto, il racconto della sofferenza di Gesù con la profezia di Isaia riguardo al servo di JHWH, la preghiera universale per ogni uomo del mondo, l’adorazione della Croce e la comunione eucaristica, sono i quattro momenti nei quali il fedele celebra la passione del Salvatore e nei quali vive la sua stessa sofferenza e quella di tutti gli uomini, perché in questo Venerdì Santo si celebra ogni dolore: il dolore del Cristo e quello d’ogni essere umano, come ricorda anche la Liturgia della “Parola”. Nella prima lettura, tratta dal libro del Profeta Isaia, non è facile distinguere tra senso collettivo e individuale del Servo sofferente, ma alla luce neotestamentaria egli è sicuramente Cristo Gesù. Il brano, infatti, rivela l’agire salvifico di Dio che, però, realizza il suo atto di potenza presentando il suo Servo nella massima umiliazione, tanto che gli uomini non l’accettano perché appare “percosso da Dio”, come avvenne per Gesù; una sofferenza voluta da Dio per la salvezza dell’intera umanità. Nella seconda lettura, tratta dalla lettera agli Ebrei, è rievocato il sacerdozio e i sacrifici del tempio, per evidenziare la grandezza del sacerdozio e del sacrificio di Cristo. Egli, con un atto di estrema umiltà, si è reso in ogni cosa simile ai fratelli; una realtà dovuta dalla sua missione sacerdotale, che lo rende capace di comprendere i dolori perché è passato attraverso i patimenti e le sofferenze che lo hanno reso causa di salvezza, sacerdote perfetto. Il brano evangelico riporta la Passione del Signore nella versione di Giovanni, e sottolinea come lo scandalo della Croce sia il vero e definitivo sacrificio pasquale, che riunisce in un’unica realtà il popolo della nuova alleanza.

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VENERDÌ SANTO

«PASSIONE DEL SIGNORE» Gv 18,1-19,42; Is 52,13 - 53,12; Sal 30; Eb 4,14-16; 5,7-9

Non vi è Antifona d'inizio; la solenne azione liturgica comincia con la preghiera silenziosa di tutta l'assemblea.

Al posto della Colletta il sacerdote innalza l'Orazione (non si dice Preghiamo) O Dio, che nella passione del Cristo nostro Signore ci hai liberati dalla morte, eredità dell’antico peccato trasmessa a tutto il genere umano, rinnovaci a somiglianza del tuo Figlio; e come abbiamo portato in noi, per la nostra nascita, l’immagine dell’uomo terreno, così per l’azione del tuo Spirito, fa’ che portiamo l’immagine dell’uomo celeste. Per Cristo nostro Signore.

In questo Venerdì Santo nella Liturgia della Chiesa è presente solo la “Parola”; il sacramento tace per far posto all’evento o, meglio, alla contemplazione

dell’avvenimento, il mistero pasquale, che ha permesso la realizzazione di tutti i

sacramenti. Il Figlio di Dio, il Servo sofferente che si fa carico delle colpe dell’intera umanità per redimerla, colui che imparò l’obbedienza dalle cose che patì affinché l’uomo

potesse avere la vita eterna, dona la sua carne martoriata così come aveva annunciato,

e lascia che il suo sangue divenga fonte di vita per tutti; un sacrificio che lo eleva a “sommo sacerdote”, perfetto ed eterno. Oggi il nuovo popolo di Dio, la Chiesa, medita

la Passione del suo Signore, si prostra in adorazione della Croce, commemora la sua

origine dal costato di Cristo, prega e intercede per la salvezza di tutto il mondo; il popolo

di Dio, pur guardando al sacrificio cruento di Gesù, non è condizionato da un lutto inconsolabile, perché vede la prospettiva gloriosa della Risurrezione, quando il Figlio

tornerà nella gioia del Padre. In tale contesto, il racconto della sofferenza di Gesù con

la profezia di Isaia riguardo al servo di JHWH, la preghiera universale per ogni uomo del mondo, l’adorazione della Croce e la comunione eucaristica, sono i quattro momenti nei

quali il fedele celebra la passione del Salvatore e nei quali vive la sua stessa sofferenza

e quella di tutti gli uomini, perché in questo Venerdì Santo si celebra ogni dolore: il dolore del Cristo e quello d’ogni essere umano, come ricorda anche la Liturgia della

“Parola”.

Nella prima lettura, tratta dal libro del Profeta Isaia, non è facile distinguere tra senso collettivo e individuale del Servo sofferente, ma alla luce neotestamentaria egli è

sicuramente Cristo Gesù. Il brano, infatti, rivela l’agire salvifico di Dio che, però, realizza

il suo atto di potenza presentando il suo Servo nella massima umiliazione, tanto che gli uomini non l’accettano perché appare “percosso da Dio”, come avvenne per Gesù; una

sofferenza voluta da Dio per la salvezza dell’intera umanità. Nella seconda lettura, tratta

dalla lettera agli Ebrei, è rievocato il sacerdozio e i sacrifici del tempio, per evidenziare

la grandezza del sacerdozio e del sacrificio di Cristo. Egli, con un atto di estrema umiltà, si è reso in ogni cosa simile ai fratelli; una realtà dovuta dalla sua missione sacerdotale,

che lo rende capace di comprendere i dolori perché è passato attraverso i patimenti e

le sofferenze che lo hanno reso causa di salvezza, sacerdote perfetto. Il brano evangelico riporta la Passione del Signore nella versione di Giovanni, e sottolinea come

lo scandalo della Croce sia il vero e definitivo sacrificio pasquale, che riunisce in un’unica

realtà il popolo della nuova alleanza.

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PRIMA LETTURA

Dal libro del profeta Isaìa (52,13 - 53,12)

Ecco, il mio servo avrà successo,

sarà onorato, esaltato e innalzato grandemente. Come molti si stupirono di lui

- tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto

e diversa la sua forma da quella dei figli dell’uomo -,

così si meraviglieranno di lui molte nazioni;

i re davanti a lui si chiuderanno la bocca,

poiché vedranno un fatto mai a essi raccontato

e comprenderanno ciò che mai avevano udito.

Chi avrebbe creduto al nostro annuncio? A chi sarebbe stato manifestato il braccio del Signore?

È cresciuto come un virgulto davanti a lui

e come una radice in terra arida.

Non ha apparenza né bellezza

per attirare i nostri sguardi,

non splendore per poterci piacere.

Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire,

come uno davanti al quale ci si copre la faccia;

era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima.

Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze,

si è addossato i nostri dolori;

e noi lo giudicavamo castigato,

percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per le nostre colpe,

schiacciato per le nostre iniquità.

Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui;

per le sue piaghe noi siamo stati guariti.

Noi tutti eravamo sperduti come un gregge,

ognuno di noi seguiva la sua strada;

il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti.

Maltrattato, si lasciò umiliare

e non aprì la sua bocca;

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era come agnello condotto al macello,

come pecora muta di fronte ai suoi tosatori,

e non aprì la sua bocca.

Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo;

chi si affligge per la sua posterità?

Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi, per la colpa del mio popolo fu percosso a morte.

Gli si diede sepoltura con gli empi,

con il ricco fu il suo tùmulo,

sebbene non avesse commesso violenza

né vi fosse inganno nella sua bocca.

Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori.

Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo,

si compirà per mezzo suo la volontà del Signore.

Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce

e si sazierà della sua conoscenza;

il giusto mio servo giustificherà molti,

egli si addosserà le loro iniquità.

Perciò io gli darò in premio le moltitudini,

dei potenti egli farà bottino,

perché ha spogliato se stesso fino alla morte

ed è stato annoverato fra gli empi,

mentre egli portava il peccato di molti

e intercedeva per i colpevoli.

Parola di Dio.

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Is 52,13 - 53,12

Sofferenza e morte del Servo (4° carme)

La seconda parte del libro di Isaia (Is 40-55), chiamata anche Deuteroisaia, contiene

una serie di oracoli rivolti ai giudei esuli in Mesopotamia per annunciare loro la fine

dell’esilio. Nel Deuteroisaia emergono la figura e l’opera di un personaggio misterioso, il «Servo di JHWH», di cui trattano quattro composizioni poetiche, i «Carmi del Servo di

JHWH». Nel quarto carme del Servo di JHWH viene narrata la conclusione del suo

ministero e della sua vita, e al tempo stesso si abbozza una spiegazione della sofferenza. Il brano comprende un oracolo di JHWH (52,13-15), seguito da una lamentazione

collettiva (53,1-10), e poi da un altro oracolo di JHWH (53,11-12).

Oracolo iniziale (52,13-15)

JHWH annuncia che, in contrasto con le sue sofferenze attuali, il Servo sarà un giorno

onorato ed esaltato, anzi avrà un successo tale da far stupire re e nazioni. Lo scopo dell’oracolo, che è chiaramente rivolto agli israeliti, è fornire una chiave di lettura del

brano successivo, nel quale si parla invece della sofferenza e della morte del Servo.

Lamentazione collettiva (53,1-10)

Al termine dell’oracolo divino prende la parola il profeta; egli si fa interprete di un gruppo

di persone che hanno assistito alla tragedia del Servo e la sentono come un evento che

le interpella personalmente. Il brano inizia con una interrogazione retorica: «Chi avrebbe creduto al nostro annuncio? A chi sarebbe stato manifestato il braccio del

Signore?» (v. 1): ciò che sta per essere narrato è tanto straordinario da sembrare

incredibile. Eppure si tratta di un messaggio che viene da Dio e contiene una rivelazione della sua potenza (il «braccio») in favore di Israele, che paradossalmente si manifesta

proprio nell’umiliazione del Servo.

Viene poi descritta l’esperienza fatta dal Servo durante il periodo di attività profetica che ha preceduto la sua tragica fine (vv. 2-3). Con la metafora del «virgulto» l’autore

vuole forse suggerire che al Servo compete la dignità messianica (cfr. Is 11,1; Ger

23,5). Ma direttamente si riferisce alla sua vita stentata nel deserto della sofferenza, che lo ha privato di qualsiasi bellezza o splendore. L’assenza di bellezza esteriore non è

una descrizione del suo aspetto esterno, ma un’immagine con la quale si vuole mettere

in luce il rifiuto che il suo messaggio ha suscitato, descritto nei carmi precedenti in termini di insuccesso e di persecuzione. Coloro in nome dei quali l’autore parla sono

chiaramente i giudei che si trovano in esilio e forse pensano già al ritorno, ma secondo

modalità che non si armonizzano con quelle indicate dal Servo.

La riflessione dell’autore passa poi alle cause di quanto è capitato al Servo (vv. 4-5). In forza della solidarietà che lo legava al gruppo degli esuli, egli ha sperimentato le loro

stesse sofferenze, aggravate però dall’esplodere nei suoi confronti di una violenza piena

di astio immotivato. Vedendo le sofferenze del Servo l’autore e i suoi compagni avevano pensato che egli fosse colpito, castigato da Dio a causa dei suoi peccati. Ma poi hanno

capito che era diventato oggetto di cattiverie e di persecuzioni per essersi fatto solidale

con il gruppo degli esuli, pur dissociandosi dai loro progetti ispirati da sentimenti di rivalsa e di violenza. Di conseguenza la sofferenza che si è abbattuta su di lui era sì un

castigo (correzione), che però era causa di salvezza proprio per coloro che lo

perseguitavano, i quali in forza delle sue piaghe hanno ottenuto la guarigione, cioè hanno superato la loro violenza e ostilità.

Difatti la sofferenza sperimentata dal Servo e da lui accettata con pazienza ha attuato

la riconciliazione con Dio (vv. 6-7). Nel linguaggio biblico il termine «peccato» e i suoi sinonimi vengono spesso usati per indicare non solo la colpa, ma anche le sue

conseguenze (sofferenza e morte). Il Servo ha preso su di sé non tanto le colpe, quanto

piuttosto le conseguenze dell’infedeltà del popolo che, a causa del proprio peccato, era

stato disperso come un gregge senza pastore. Egli si è comportato come un agnello che

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si lascia condurre al macello senza opporre resistenza, come la vittima dei sacrifici:

neppure i maltrattamenti più atroci lo hanno fatto desistere dall’atteggiamento non

violento assunto fin dall’inizio. La vicenda del Servo si conclude in modo tragico (vv. 8-9). Alla fine il Servo è stato

condannato, ucciso e sepolto con gli empi. Tutto ciò è avvenuto non a causa di crimini

commessi da lui, ma «per l’iniquità del popolo». Dal canto suo egli non ha ceduto neppure un istante alla violenza e all’inganno. Il fatto di aver rifiutato la violenza lo ha

portato a essere la prima vittima della violenza altrui.

Con la sua morte però non è stata detta l’ultima parola (v. 10). JHWH ha voluto che il Servo passasse attraverso la sofferenza, ma ha stabilito che, avendo «offerto» se stesso

in «espiazione», viva a lungo e abbia una grande discendenza. La lunga vita promessa

al Servo dopo la sua morte indica il successo della sua opera e la rinascita del popolo. Per mezzo suo infatti si compie la volontà di Dio, cioè la conversione del popolo e il suo

ritorno nella terra promessa. Direttamente non si parla di una glorificazione del Servo

nell’altra vita o una sua risurrezione dopo la morte.

Oracolo conclusivo (vv. 11-12)

Negli ultimi due versetti JHWH riprende la parola per confermare il successo del Servo

(vv. 11-12). Al termine della sua sofferenza, cioè dopo la sua morte, il Servo vedrà (oppure «farà vedere») la luce e si sazierà (oppure «farà saziare») della conoscenza di

JHWH: egli raggiungerà dunque un rapporto pieno con Dio, o meglio condurrà ad esso

tutto il popolo. Egli, il giusto per eccellenza, prendendo su di sé le iniquità dei «molti», vale a dire di tutto il popolo, li renderà giusti, cioè li riconcilierà pienamente con Dio.

Egli riceverà in premio la moltitudine per riunirla e condurla a JHWH, e questo in forza

della solidarietà che lo ha unito fino alla morte con i peccatori.

Il tema centrale di questo carme è quello della sofferenza e della morte del Servo. Sembra accertato che i giudei esuli abbiano svolto un ruolo non indifferente nella sua

uccisione, ma non è detto che ne siano i principali responsabili. Essi infatti hanno reagito

negativamente alla sua predicazione. Egli ha annunciato una strategia non violenta per

fare ritornare il popolo nella Terra, ma i capi non ne hanno voluto sapere. Il Servo muore, ma ottiene con la morte quello che non aveva realizzato in vita.

Il significato della morte del Servo viene normalmente spiegato mediante il concetto di

“espiazione vicaria”, che farebbe di lui la figura di Gesù che muore in croce al nostro posto. Secondo questa interpretazione egli avrebbe svolto il ruolo di vittima sacrificale,

offrendo se stesso in sacrificio al posto del popolo peccatore e attirando su di sé la pena

che spettava ad esso. Questa interpretazione non è corretta perché il concetto stesso di espiazione vicaria non è presente nel mondo biblico, dove il sacrificio è concepito

come un ricordo dell’alleanza; esso ha il potere di purificare il popolo e di riconciliarlo

con Dio in forza non della morte della vittima ma della misericordia infinita di Dio. Nel caso del Servo, si può dire che egli è stato assimilato alla vittima sacrificale in quanto

è stato fedele fino alla fine al progetto di Dio che aveva decretato il ritorno degli esuli.

Egli era perfettamente consapevole che esso si sarebbe attuato non per mezzo della violenza, ma semplicemente perché Dio sarebbe intervenuto con la sua potenza. Proprio

per la sua fede nell’intervento divino egli è diventato il paladino della non violenza attiva.

Questa scelta gli ha provocato la dura reazione di persone non preparate e divise da odi

e rancori inveterati, le quali hanno riversato su di lui le loro tensioni. Egli dunque ha preso su di sé non i peccati del popolo, ma le loro conseguenze. La sofferenza e la morte

del Servo sono la conseguenza dei peccati del popolo con il quale si è reso solidale a

motivo della sua fedeltà verso JHWH. In lui la sofferenza assume così un significato nuovo, diventando il segno dell’amore e della fedeltà indefettibile di Dio e quindi il mezzo

per eccellenza con cui il peccato è eliminato e gli esuli, ormai riconciliati, possono

ritornare nella loro terra.

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SALMO RESPONSORIALE (Sal 30,2.6.12.13.15-17.25) (31)

Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito.

In te, Signore, mi sono rifugiato,

mai sarò deluso;

difendimi per la tua giustizia.

Alle tue mani affido il mio spirito;

tu mi hai riscattato, Signore, Dio fedele. R/.

Sono il rifiuto dei miei nemici

e persino dei miei vicini,

il terrore dei miei conoscenti;

chi mi vede per strada mi sfugge.

Sono come un morto, lontano dal cuore;

sono come un coccio da gettare. R/.

Ma io confido in te, Signore;

dico: «Tu sei il mio Dio,

i miei giorni sono nelle tue mani».

Liberami dalla mano dei miei nemici

e dai miei persecutori. R/.

Sul tuo servo fa’ splendere il tuo volto,

salvami per la tua misericordia. Siate forti, rendete saldo il vostro cuore,

voi tutti che sperate nel Signore. R/.

SALMO 30 (31)

Supplica fiduciosa nell'afflizione

Il ritornello di questo bellissimo Salmo (Padre, nelle tue mani affido il mio spirito),

secondo l’Evangelista Luca è stato pronunciato da Gesù sulla Croce; è il grido di chi ha riposto tutta la sua fiducia nel Signore ed è cosciente che sarà aiutato. Attorno a lui è

presente l’ostilità e lo scherno degli uomini, persino degli amici più cari lo hanno

abbandonato; nonostante questo egli continua a rifugiarsi nel Signore, l’unico che “tiene nelle sue mani i suoi giorni” e che “farà splendere il volto del suo Servo”. La sua fiducia

è così grande che può incoraggiare anche gli altri (Siate forti, riprendete coraggio, o voi

tutti che sperate nel Signore). Gli studiosi affermano che questa preghiera (inizialmente di lode e di fiducia,

successivamente di dolore per la persecuzione, e infine di gioia di speranza) esprime le

tre virtù fondamentali, e cioè: stare saldi nella fede, sperare sempre, amare il Signore.

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SECONDA LETTURA

Dalla lettera agli Ebrei (4,14-16; 5,7-9)

Fratelli, poiché abbiamo un sommo sacerdote grande, che è passato

attraverso i cieli, Gesù il Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della fede. Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che

non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato

messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato.

Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per

ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al

momento opportuno.

[Cristo, infatti,] nei giorni della sua vita terrena, offrì preghiere e

suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da

morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito. Pur

essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto,

divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono.

Parola di Dio.

CANTO AL VANGELO (Cf. Fil 2,8-9)

Gloria e lode a te, Cristo Signore!

Per noi Cristo si è fatto obbediente fino alla morte

e a una morte di croce.

Per questo Dio lo esaltò

e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome.

Gloria e lode a te, Cristo Signore!

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Eb 4,14-16; 5,7-9

Gesù sacerdote misericordioso

Nella seconda sezione dello scritto (3,1-5,10) viene affrontato il tema del sommo

sacerdote «misericordioso e fedele», preannunciato in 2,17-18. Gesù può e deve essere considerato come il sommo sacerdote «fedele». Ma Gesù è anche un sommo sacerdote

«misericordioso».

In Eb 4,14 - 5,10 l’autore mostra come la piena solidarietà di Cristo con gli uomini rappresenti un elemento costitutivo del suo sacerdozio. Il testo si può facilmente

dividere in due parti: la prima (4,14-16) ha un evidente carattere esortativo; la seconda

parte contiene invece una descrizione del ruolo e della condizione del sommo sacerdote dell’AT, cui fa seguito l’applicazione a Cristo (5,1-10). La liturgia propone solo la prima

parte e alcuni versetti della seconda.

L’adesione a Cristo sommo sacerdote (Eb 4,14-16)

Il tema di Gesù come un sacerdote degno di fede diventa il punto di partenza di una pressante esortazione: «Poiché abbiamo un sommo sacerdote grande, che è passato

attraverso i cieli, Gesù il Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della fede» (v.

14). Sebbene il sacerdozio di Cristo sia stato consumato sulla croce, esso continua a

esercitarsi ancora oggi nei «cieli», dove egli è penetrato con la sua morte cruenta e ormai siede alla destra della maestà «divina». L’appellativo «Figlio di Dio» è attribuito

qui direttamente al «Gesù» storico, allo scopo di sottolineare ancora una volta il

fondamento del suo ruolo sacerdotale: in quanto Figlio, egli è un sacerdote potente, capace di «salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si accostano a Dio, essendo

egli sempre vivo per intercedere a loro favore» (7,25). In Gesù morto e risorto si è

attuato quel «sacerdozio» di cui le istituzioni cultuali dell’AT erano soltanto un’«ombra»: questa certezza deve spingere il credente a «mantenere salda», cioè a rinnovare e

rinvigorire la sua «professione di fede». Solo così potrà entrare in un rapporto vivo con

lui e godere i frutti della sua mediazione sacerdotale.

All’esortazione iniziale fa seguito una frase esplicativa con cui si esclude una possibile

interpretazione errata del sacerdozio di Cristo (v. 15). La grandezza del sacerdozio di Cristo non esclude, anzi esige che egli sia solidale con la famiglia umana, che deve

rappresentare davanti a Dio: egli infatti è «uomo» in mezzo agli uomini e perciò è

capace di comprendere fino in fondo i loro limiti e i loro peccati. Il verbo «compatire»

non significa semplicemente una qualche partecipazione alla sorte dell’altro, ma una vera e propria consonanza di affetti profondi: è l’amore che spinge a patire con chi

patisce! Gesù ha dimostrato questa sua compassione perché proprio lui, che è e rimane

sempre il «Figlio di Dio», si è assoggettato ai limiti e alle prove comuni della vita, compreso il dramma della morte, come un qualsiasi essere umano.

La solidarietà di Gesù con l’umanità ha però un limite: egli si assimila in tutto alla

condizione umana «escluso il peccato». Si afferma così la perfetta santità di Cristo, che esclude ogni sua partecipazione alla comune situazione di peccato. In realtà questa

prerogativa non diminuisce la sua solidarietà con gli uomini, anzi rappresenta la

condizione indispensabile perché egli possa effettivamente andare loro incontro e salvarli. Un peccatore infatti ha bisogno prima di tutto di essere lui stesso salvato: solo

chi è santo può salvare gli altri. La santità quindi non impedisce a Cristo di essere

totalmente simile a noi: al contrario, gli consente di essere «redentore» in senso pieno, senza limiti di sorta. Inoltre lo costituisce modello della vita nuova, redenta, che tutti i

credenti devono ormai condividere.

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L’autore conclude con una nuova esortazione (v. 16). L’invito iniziale a mantenere salda

la professione di fede viene qui ripreso sotto forma di richiamo ad accostarsi con piena

fiducia al «trono della grazia», cioè alla presenza del Dio misericordioso. Dopo che Cristo «ha attraversato i cieli», Dio non deve essere più ricercato in un santuario terreno, ma

proprio là dove egli si trova, cioè nel suo santuario celeste. In forza della mediazione di

Cristo i credenti devono ormai sentirsi sicuri che Dio non negherà loro la salvezza e l’aiuto necessario tutte le volte che ne avranno bisogno.

Cristo sommo sacerdote «compassionevole» (Eb 5,7-9)

Nella seconda parte della pericope l’autore mostra come il sacerdozio di Cristo debba

essere compreso specialmente a partire dal suo atteggiamento di solidarietà e compassione nei confronti dei peccatori. A tale scopo egli propone anzitutto una

definizione di sacerdote quale emerge dall’esperienza del popolo ebraico e poi la applica

a Cristo (5,1-10). La liturgia omette la descrizione del sacerdozio levitico e le

affermazioni riguardanti la chiamata di Cristo come sacerdote, proponendo soltanto i versetti riguardanti la sua solidarietà con l’umanità, quale appare dalla sua preghiera

per essere liberato dalla morte: «nei giorni della sua vita terrena, offrì preghiere e

suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito» (v. 7). Se è vero infatti che per ottenere il

sommo sacerdozio bisognava essere chiamati, è vero anche che esso era un onore, per

ottenere il quale parecchi erano disposti persino ad affrontare aspre guerre. Il sacerdozio di Cristo invece è tale che neppure l’unico abilitato ad esercitarlo aveva il

desiderio di accedervi perché implicava già in partenza l’identificazione con la vittima, e

quindi la totale offerta di sé al Padre; l’onore certamente sarebbe venuto con l’ingresso nei cieli, ma la via per accedervi passava per la croce. È questo che ha spaventato Cristo

stesso quando stava ormai per raggiungere il culmine della sua opera sacerdotale.

Egli infatti, giunto al termine della sua vita terrena «offrì» a Dio preghiere e suppliche.

Prima che sulla croce, la sua offerta sacrificale ha avuto dunque luogo nell’orto degli

Ulivi, dove ha rivolto al Padre la sua preghiera, accompagnata da «forti grida e lacrime».

Le «preghiere e suppliche con forti grida e lacrime» sono quasi certamente quelle che Cristo ha elevato a Dio durante la sua passione. Nel testo della Passione non si parla di

«forti grida e lacrime», ma solo di una preghiera accorata di Cristo: è chiaro che l’autore

di Ebrei, pur avendo in mente i fatti accaduti nel Getsemani, non si riferisce ai vangeli scritti, ma alla tradizione orale.

Più difficile da spiegare è il significato di «venne esaudito». Se con la sua preghiera Gesù voleva ottenere di essere liberato dalla morte, di fatto non è stato esaudito.

Secondo una interpretazione, l’autore non intenderebbe semplicemente la morte fisica,

ma il tipo di morte affrontata da Cristo. La morte è intesa come lo strumento mediante il quale gli uomini sono tenuti sotto la schiavitù del diavolo, e di conseguenza riguarda

direttamente solo i peccatori. Da questa morte Cristo è stato effettivamente liberato

non solo perché Dio gli ha dato la forza per superare la prova, ma anche e soprattutto perché si è servito della sua morte fisica per eliminare la morte stessa in quanto realtà

collegata con il peccato, trasformandola in un grande gesto di affidamento a Dio.

L’autore fa poi una riflessione: «Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì» (v. 8). L’«obbedienza» che Cristo imparò dalla sua sofferenza consiste nell’adesione

radicale al progetto di Dio, che lo ha guidato nelle scelte decisive della sua vita. La

sottomissione alla volontà del Padre viene presentata spesso nel NT come un aspetto caratteristico del comportamento di Gesù. Ma ciò che la lettera agli Ebrei mette

maggiormente in luce, in piena sintonia con il racconto evangelico della passione, è il

fatto che questa obbedienza non sia stata spontanea e quasi scontata, ma abbia

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richiesto una notevole dose di impegno e di fatica per superare la naturale paura della

morte. L’aspetto più specifico del sacerdozio di Cristo sta quindi nell’accettazione libera,

anche se sofferta, della morte, che certo non è stata voluta dal Padre, ma imposta dalle circostanze concrete della storia.

Dall’esperienza terrena di Cristo l’autore ricava questa conclusione: «Reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono» (v. 9). Proprio a

causa della sua obbedienza Cristo «fu reso perfetto». Nell’AT l’appellativo di «perfetto»

compete non a Dio, ma all’uomo che adempie tutto ciò che, in campo morale o rituale, è richiesto per poter accedere a Dio. La «perfezione» ottenuta da Cristo non deve però

intendersi in senso morale: essa è piuttosto quella che gli deriva dall’aver raggiunto il

«fine» della sua esistenza terrena, cioè dall’attuazione della salvezza che il Padre aveva progettato di realizzare per mezzo suo in favore degli uomini. L’obbedienza di Cristo ha

come risultato la salvezza eterna di tutti coloro che «gli obbediscono». Obbedire significa

qui accettare la totalità del messaggio di Cristo, ma soprattutto seguire l’esempio che

egli ha offerto a tutti nel suo affidarsi all’amore del Padre, anche quando poteva sembrare che il Padre l’avesse abbandonato.

L’autore della Lettera agli Ebrei si è assunto l’arduo compito di presentare la vicenda

umana di Gesù in termini sacrificali. Il concetto di sacerdozio implica la possibilità di

compiere un’efficace mediazione tra Dio e gli uomini. La mediazione perfetta però esige che il sacerdote sia veramente rappresentativo delle due parti in causa: solidale con Dio

e al tempo stesso con gli uomini. In questo senso Gesù rappresenta il sacerdote ideale,

perché è il «figlio di Dio», ma nello stesso tempo si è fatto simile a noi. La prova più grande, a cui è stato sottoposto Gesù nel suo radicale assimilarsi agli

uomini, è la morte: da essa egli, in quanto Figlio, aveva il diritto di essere esentato, e

invece le è andato incontro coscientemente, pur sentendone la naturale ripugnanza (5,7). Nell’accettazione, pur sofferta, della morte Gesù realizza il massimo di amore

verso Dio e verso gli uomini. Verso Dio tale amore si manifesta in forma di radicale

«obbedienza» (5,8); verso gli uomini assume i caratteri della più totale «condivisione».

Proprio per questa dimensione di amore, totalmente libero e perciò anche estremamente sofferto, la morte di Cristo è presentata come un vero «sacrificio»: la

stessa preghiera, con cui domanda di essere liberato dalla morte, ma al tempo stesso

si affida al Padre, diventa un’offerta sacrificale (5,7). Non stupisce pertanto che il Padre gradisca questa offerta al punto tale da farla rifluire, come dono di salvezza, su tutti gli

uomini (5,9). A questo sacrificio totalmente nuovo e diverso si ricollega il sacerdozio di

Cristo.

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VANGELO

PASSIONE DI NOSTRO SIGNORE GESÙ CRISTO

SECONDO GIOVANNI

(18,1 -19,42) Catturarono Gesù e lo legarono

In quel tempo, Gesù uscì con i suoi discepoli al di là del torrente Cèdron, dove c’era un giardino, nel quale entrò con i suoi discepoli.

Anche Giuda, il traditore, conosceva quel luogo, perché Gesù spesso

si era trovato là con i suoi discepoli. Giuda dunque vi andò, dopo aver

preso un gruppo di soldati e alcune guardie fornite dai capi dei

sacerdoti e dai farisei, con lanterne, fiaccole e armi. Gesù allora,

sapendo tutto quello che doveva accadergli, si fece innanzi e disse

loro: «Chi cercate?». Gli risposero: «Gesù, il Nazareno». Disse loro

Gesù: «Sono io!». Vi era con loro anche Giuda, il traditore. Appena disse loro «Sono io», indietreggiarono e caddero a terra. Domandò

loro di nuovo: «Chi cercate?». Risposero: «Gesù, il Nazareno». Gesù

replicò: «Vi ho detto: sono io. Se dunque cercate me, lasciate che

questi se ne vadano», perché si compisse la parola che egli aveva

detto: «Non ho perduto nessuno di quelli che mi hai dato». Allora

Simon Pietro, che aveva una spada, la trasse fuori, colpì il servo del

sommo sacerdote e gli tagliò l’orecchio destro. Quel servo si

chiamava Malco. Gesù allora disse a Pietro: «Rimetti la spada nel fodero: il calice che il Padre mi ha dato, non dovrò berlo?».

Lo condussero prima da Anna

Allora i soldati, con il comandante e le guardie dei Giudei, catturarono

Gesù, lo legarono e lo condussero prima da Anna: egli infatti era

suocero di Caifa, che era sommo sacerdote quell’anno. Caifa era quello che aveva consigliato ai Giudei: «È conveniente che un solo

uomo muoia per il popolo». Intanto Simon Pietro seguiva Gesù

insieme a un altro discepolo. Questo discepolo era conosciuto dal

sommo sacerdote ed entrò con Gesù nel cortile del sommo sacerdote.

Pietro invece si fermò fuori, vicino alla porta. Allora quell’altro

discepolo, noto al sommo sacerdote, tornò fuori, parlò alla portinaia

e fece entrare Pietro. E la giovane portinaia disse a Pietro: «Non sei

anche tu uno dei discepoli di quest’uomo?». Egli rispose: «Non lo sono».

Intanto i servi e le guardie avevano acceso un fuoco, perché faceva

freddo, e si scaldavano; anche Pietro stava con loro e si scaldava. Il

sommo sacerdote, dunque, interrogò Gesù riguardo ai suoi discepoli

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e al suo insegnamento. Gesù gli rispose: «Io ho parlato al mondo

apertamente; ho sempre insegnato nella sinagoga e nel tempio, dove

tutti i Giudei si riuniscono, e non ho mai detto nulla di nascosto.

Perché interroghi me? Interroga quelli che hanno udito ciò che ho

detto loro; ecco, essi sanno che cosa ho detto». Appena detto questo,

una delle guardie presenti diede uno schiaffo a Gesù, dicendo: «Così

rispondi al sommo sacerdote?». Gli rispose Gesù: «Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male. Ma se ho parlato bene, perché mi

percuoti?». Allora Anna lo mandò, con le mani legate, a Caifa, il

sommo sacerdote.

Non sei anche tu uno dei suoi discepoli? Non lo sono!

Intanto Simon Pietro stava lì a scaldarsi. Gli dissero: «Non sei anche

tu uno dei suoi discepoli?». Egli lo negò e disse: «Non lo sono». Ma

uno dei servi del sommo sacerdote, parente di quello a cui Pietro

aveva tagliato l’orecchio, disse: «Non ti ho forse visto con lui nel

giardino?». Pietro negò di nuovo, e subito un gallo cantò.

Il mio regno non è di questo mondo

Condussero poi Gesù dalla casa di Caifa nel pretorio. Era l’alba ed

essi non vollero entrare nel pretorio, per non contaminarsi e poter

mangiare la Pasqua. Pilato dunque uscì verso di loro e domandò:

«Che accusa portate contro quest’uomo?». Gli risposero: «Se costui

non fosse un malfattore, non te l’avremmo consegnato». Allora Pilato

disse loro: «Prendetelo voi e giudicatelo secondo la vostra Legge!».

Gli risposero i Giudei: «A noi non è consentito mettere a morte nessuno». Così si compivano le parole che Gesù aveva detto,

indiando di quale morte doveva morire.

Pilato allora rientrò nel pretorio, fece chiamare Gesù e gli disse: «Sei

tu il re dei Giudei?». Gesù rispose: «Dici questo da te, oppure altri ti

hanno parlato di me?». Pilato disse: «Sono forse io Giudeo? La tua

gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai

fatto?». Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero

combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno

non è di quaggiù». Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?».

Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per

questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità.

Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce». Gli dice Pilato: «Che

cos’è la verità?».

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E, detto questo, uscì di nuovo verso i Giudei e disse loro: «Io non

trovo in lui colpa alcuna. Vi è tra voi l’usanza che, in occasione della

Pasqua, io rimetta uno in libertà per voi: volete dunque che io rimetta

in libertà per voi il re dei Giudei?». Allora essi gridarono di nuovo:

«Non costui, ma Barabba!». Barabba era un brigante.

Salve, re dei Giudei!

Allora Pilato fece prendere Gesù e lo fece flagellare. E i soldati,

intrecciata una corona di spine, gliela posero sul capo e gli misero

addosso un mantello di porpora. Poi gli si avvicinavano e dicevano:

«Salve, re dei Giudei!». E gli davano schiaffi.

Pilato uscì fuori di nuovo e disse loro: «Ecco, io ve lo conduco fuori,

perché sappiate che non trovo in lui colpa alcuna». Allora Gesù uscì,

portando la corona di spine e il mantello di porpora. E Pilato disse

loro: «Ecco l’uomo!». Come lo videro, i capi dei sacerdoti e le guardie

gridarono: «Crocifiggilo! Crocifiggilo!». Disse loro Pilato: «Prendetelo

voi e crocifiggetelo; io in lui non trovo colpa». Gli risposero i Giudei:

«Noi abbiamo una Legge e secondo la Legge deve morire, perché si

è fatto Figlio di Dio».

All’udire queste parole, Pilato ebbe ancor più paura. Entrò di nuovo

nel pretorio e disse a Gesù: «Di dove sei tu?». Ma Gesù non gli diede

risposta. Gli disse allora Pilato: «Non mi parli? Non sai che ho il potere

di metterti in libertà e il potere di metterti in croce?». Gli rispose

Gesù: «Tu non avresti alcun potere su di me, se ciò non ti fosse stato

dato dall’alto. Per questo chi mi ha consegnato a te ha un peccato

più grande». Via! Via! Crocifiggilo!

Da quel momento Pilato cercava di metterlo in libertà. Ma i Giudei

gridarono: «Se liberi costui, non sei amico di Cesare! Chiunque si fa

re si mette contro Cesare». Udite queste parole, Pilato fece condurre

fuori Gesù e sedette in tribunale, nel luogo chiamato Litòstroto, in ebraico Gabbatà. Era la Parascève della Pasqua, verso mezzogiorno.

Pilato disse ai Giudei: «Ecco il vostro re!». Ma quelli gridarono: «Via!

Via! Crocifiggilo!». Disse loro Pilato: «Metterò in croce il vostro re?».

Risposero i capi dei sacerdoti: «Non abbiamo altro re che Cesare».

Allora lo consegnò loro perché fosse crocifisso.

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Lo crocifissero e con lui altri due

Essi presero Gesù ed egli, portando la croce, si avviò verso il luogo

detto del Cranio, in ebraico Gòlgota, dove lo crocifissero e con lui altri

due, uno da una parte e uno dall’altra, e Gesù in mezzo. Pilato compose anche l’iscrizione e la fece porre sulla croce; vi era scritto:

«Gesù il Nazareno, il re dei Giudei». Molti Giudei lesserò questa

iscrizione, perché il luogo dove Gesù fu crocifisso era vicino alla città;

era scritta in ebraico, in latino e in greco. I capi dei sacerdoti dei

Giudei dissero allora a Pilato: «Non scrivere: “Il re dei Giudei”, ma:

“Costui ha detto: Io sono il re dei Giudei”». Rispose Pilato: «Quel che

ho scritto, ho scritto».

Si sono divisi tra loro le mie vesti

I soldati poi, quando ebbero crocifisso Gesù, presero le sue vesti, ne

fecero quattro parti - una per ciascun soldato -, e la tunica. Ma quella

tunica era senza cuciture, tessuta tutta d’un pezzo da cima a fondo.

Perciò dissero tra loro: «Non stracciamola, ma tiriamo a sorte a chi

tocca». Così si compiva la Scrittura, che dice: «Si sono divisi tra loro le mie vesti e sulla mia tunica hanno gettato la sorte». E i soldati

fecero così.

Ecco tuo figlio! Ecco tua madre!

Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre,

Maria madre di Clèopa e Maria di Màgdala. Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre:

«Donna, ecco tuo figlio!». Poi disse al discepolo: «Ecco tua madre!».

E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé. Dopo questo, Gesù,

sapendo che ormai tutto era compiuto, affinché si compisse la

Scrittura, disse: «Ho sete». Vi era lì un vaso pieno di aceto; posero

perciò una spugna, imbevuta di aceto, in cima a una canna e gliela

accostarono alla bocca. Dopo aver preso l’aceto, Gesù disse: «È

compiuto!». E, chinato il capo, consegnò lo spirito. Qui ci si genuflette e si fa una breve pausa.

E subito ne uscì sangue e acqua

Era il giorno della Parascève e i Giudei, perché i corpi non

rimanessero sulla croce durante il sabato - era infatti un giorno

solenne quel sabato -, chiesero a Pilato che fossero spezzate loro le

gambe e fossero portati via. Vennero dunque i soldati e spezzarono

le gambe all’uno e all’altro che erano stati crocifissi insieme con lui.

Venuti però da Gesù, vedendo che era già morto, non gli spezzarono

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le gambe, ma uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito

ne uscì sangue e acqua. Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua

testimonianza è vera; egli sa che dice il vero, perché anche voi

crediate. Questo infatti avvenne perché si compisse la Scrittura: “Non

gli sarà spezzato alcun osso”. E un altro passo della Scrittura dice

ancora: «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto».

Presero il corpo di Gesù e lo avvolsero con teli insieme ad aromi

Dopo questi fatti Giuseppe di Arimatèa, che era discepolo di Gesù,

ma di nascosto, per timore dei Giudei, chiese a Pilato di prendere il

corpo di Gesù. Pilato lo concesse. Allora egli andò e prese il corpo di

Gesù. Vi andò anche Nicodèmo - quello che in precedenza era andato da lui di notte - e portò circa trenta chili di una mistura di mirra e di

àloe. Essi presero allora il corpo di Gesù e lo avvolsero con teli,

insieme ad aromi, come usano fare i Giudei per preparare la

sepoltura. Ora, nel luogo dove era stato crocifisso, vi era un giardino

e nel giardino un sepolcro nuovo, nel quale nessuno era stato ancora

posto. Là dunque, poiché era il giorno della Parascève dei Giudei e

dato che il sepolcro era vicino, posero Gesù.

Parola del Signore.

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Gv 18,1-19,42

La passione del Signore

Nel Libro della gloria (Gv 13-21), in cui si narra la piena manifestazione di Gesù come

Figlio di Dio, Giovanni riporta, subito dopo i discorsi da lui pronunciati nell’ultima cena,

il racconto della sua passione e morte (Gv 18-19), che forma un tutt’uno con essi e con il successivo racconto della risurrezione. In questa parte del vangelo il racconto di

Giovanni scorre parallelo a quello dei sinottici: ciò significa che molto presto si è formata

nella comunità primitiva un’ampia esposizione degli ultimi avvenimenti della vita Gesù, a cui hanno attinto sia i sinottici che Giovanni. È però significativo il fatto che questi

abbia operato una drastica scelta all’interno del materiale tradizionale. Nei sinottici la

«storia della passione» in senso largo inizia con il complotto delle autorità giudaiche contro Gesù, due giorni prima di Pasqua, cioè prima dell’ultima cena; in Giovanni,

invece, esso inizia l’arresto di Gesù.

Si possono distinguere nel racconto quattro unità letterarie:

1) Arresto di Gesù (18, 1-11)

2) Gesù davanti ad Anna e a Caifa (18,12-27) 3) Processo di Gesù davanti a Pilato (18,28-19,16a)

4) Crocifissione, morte e sepoltura di Gesù (19,16b-37)

L’arresto di Gesù (18,1-11)

L’evangelista non presenta dunque Gesù come la vittima di un ignobile complotto, ma

come colui che, dotato di preveggenza divina, si confronta con il potere delle tenebre, costringendolo, con la sua stessa apparizione, a prostrarsi di fronte a lui. È chiaro che

in questa prospettiva non vi è posto per il racconto dell’agonia di Gesù e per il dettaglio

riguardante il bacio di Giuda: colui che attraverso la morte va gloriosamente verso la vittoria non può essere triste e chiedere, anche se solo per un attimo, la sua liberazione,

come pure è impossibile che egli abbia un contatto fisico con il traditore, che appare qui

come il rappresentante per eccellenza del potere delle tenebre. Il rifiuto del ricorso alle armi mostra come Dio non abbia bisogno di esse per compiere le sue opere

meravigliose, mentre la preoccupazione di Gesù per la liberazione dei discepoli indica

come egli stia andando coscientemente incontro alla morte per la loro salvezza.

Gesù davanti a Anna e a Caifa (18,12-27)

Il racconto giovanneo della passione prosegue con la scena della comparsa di Gesù di fronte alle autorità giudaiche.

Secondo Giovanni, diversamente da quanto riferiscono i sinottici, Gesù non è stato

presentato al sinedrio e non ha subìto un vero e proprio processo, ma è stato solo interrogato da Anna, ex sommo sacerdote e suocero di Caifa, che forse svolgeva il ruolo

di capo della polizia del tempio (18,12-14). Caifa non svolge nessun ruolo, se non quello

di consegnare Gesù a Pilato, quando Anna, al termine dell’interrogatorio, glielo invia. Tuttavia la sua comparsa non è senza importanza, in quanto, con le parole dette

precedentemente e qui ricordate (cfr. 11,50: «È meglio che un uomo solo muoia per il

popolo») egli aveva indicato involontariamente il significato degli eventi che si stavano svolgendo.

Nella sua relazione dell’interrogatorio di Gesù Giovanni ha dunque voluto semplicemente

dare spazio alle due risposte date da Gesù, dalle quali risulta la sua autorità divina, che si è rivelata nel suo annuncio pubblico e ufficiale fatto a tutto il popolo. Riferendo lo

schiaffo dato dalla guardia, l’evangelista ha voluto mettere in risalto il rifiuto che il suo

popolo gli ha opposto. Mentre Gesù, interrogato da Anna, si appella coraggiosamente

alla sua predicazione, il portavoce dei discepoli, testimone privilegiato di quanto Gesù

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ha annunciato, interrogato da semplici servi, nega di essere suo discepolo, cioè di aver

mai ascoltato le sue parole. Se al centro del racconto vi è il rifiuto del popolo giudaico,

simboleggiato nello schiaffo della guardia, nella sua cornice vi è il rinnegamento da parte del discepolo più qualificato: sia i giudei che i discepoli, anche se in modi diversi,

fanno dunque parte delle tenebre che circondano Gesù.

Il processo davanti a Pilato (18,28-19,16a)

Caifa, al quale Gesù è stato inviato da Anna al termine dell’interrogatorio, lo consegna immediatamente a Pilato. Ha luogo quindi il processo di fronte all’autorità romana, che

rappresenta per Giovanni la scena centrale della passione. L’episodio viene riletto in

chiave teologica mediante l’introduzione di numerosi dettagli, alcuni dei quali attinti senza dubbio da antiche tradizioni. Il racconto è scandito da un continuo andirivieni di

Pilato, che si muove dall’interno del palazzo, dove si trova Gesù, al suo esterno, dove

si trovano i giudei: costoro infatti, essendo la vigilia di Pasqua, non vogliono entrare in

un luogo abitato da gentili per non contaminarsi (18,28). In base a queste entrate e uscite del governatore il racconto si divide in sette quadri, di cui i primi tre servono a

spiegare la regalità di Gesù (18,29-40), quello centrale descrive la sua intronizzazione

(19,1-3), e gli ultimi tre illustrano la sua presentazione al popolo (19,4-16).

Nei primi tre quadri l’evangelista vuole sottolineare come sia proprio Gesù, tradito dai

suoi e consegnato indifeso nelle mani del più grande potere dell’epoca, a dirigere gli eventi della storia in vista della sua esaltazione sulla croce. Ma più ancora egli vuol far

comprendere come, proprio nel momento del massimo rifiuto oppostogli dal suo popolo,

appare nel modo più chiaro la sua regalità, derivatagli dal fatto di rivelare il Dio fedele, salvatore di Israele e di tutta l’umanità.

Il quarto quadro del processo di fronte a Pilato occupa solo pochi versetti, ma

rappresenta il culmine di tutta la scena. L’intenzione dell’evangelista è quella di mostrare come il processo a Gesù sia culminato,

contro la volontà stessa degli accusatori e del giudice, in una specie di intronizzazione

regale. Ma proprio da questa scena appare chiaro che la regalità così proclamata non si

basa sul potere umano, ma sulla sofferenza accettata come espressione della fedeltà suprema (verità) di Dio e del suo inviato: Gesù appare così come il Servo di JHWH, nel

quale giungono a compimento le speranze collegate sia alla linea regale-messianica che

a quella profetica. Gli ultimi tre quadri del processo (19,4-16) corrispondono a quella che, nelle cerimonia

di intronizzazione regale, era l’apparizione del sovrano in pubblico per ricevere gli

omaggi del popolo e annunciare la sua vittoria sui suoi nemici. Il processo è così concluso. L’evangelista sorvola sul fatto che Pilato abbia pronunciato

la condanna formale di Gesù e si limita a dire che lo ha consegnato per essere crocifisso.

Per lui è importante sottolineare che fino all’ultimo Pilato l’ha presentato come il re dei giudei. A prima vista sembra che egli abbia incaricato i giudei di crocifiggerlo, ma in

realtà ha solo ceduto alle loro richieste. In seguito apparirà che gli esecutori materiali

sono stati i soldati romani. L’evangelista osserva che tutto ciò avvenne verso mezzogiorno (ora sesta), nella vigilia di Pasqua (Parasceve), la festa che commemorava

la liberazione dall’Egitto e la sovranità di Dio su Israele; poco dopo, verso le 15, avrebbe

avuto inizio l’immolazione degli agnelli pasquali: sarà precisamente l’ora in cui Gesù,

secondo la tradizione sinottica, morirà in croce.

Secondo i vangeli sinottici Gesù ha annunciato durante la sua vita terrena la venuta del

regno di Dio e ha compiuto i segni che ne attestavano la presenza, anche se in forma ancora modesta e nascosta. Giovanni invece trascura quasi completamente, durante il

suo racconto della vita pubblica di Gesù, il tema del regno, ma ne fa il motivo dominante

della passione. È chiaro quindi che secondo lui il regno di Dio non è disgiungibile dalla

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persona del re messia. E in effetti Gesù è diventato re soltanto attraverso la sofferenza

e la morte in croce.

Il racconto giovanneo del processo di fronte a Pilato mostra come i giudei, non riconoscendo in Gesù l’inviato di Dio, senza volerlo abbiano fatto sì che egli fosse

solennemente proclamato re addirittura dal rappresentante di Roma che, sebbene

riluttante, ne ha pronunciato la condanna a morte. Essi dunque sono diventati gli strumenti inconsci, anche se colpevoli, di un progetto più grande, che ha come scopo la

piena manifestazione della dignità regale di Gesù. E proprio nel processo di fronte a

Pilato Gesù appare non solo come re, ma anche come il Figlio dell’uomo, il Figlio di Dio e il giudice universale.

Mediante questa strategia narrativa Giovanni vuol far vedere come i titoli di gloria

attribuiti a Gesù non debbano essere intesi secondo criteri umani, ma unicamente nella prospettiva del Servo sofferente di JHWH. In realtà per Gesù, come per tutti coloro che

hanno saputo impegnarsi fino in fondo per il bene del loro prossimo, la vera gloria non

consiste nel dominare sugli altri, ma nel rendere testimonianza alla verità, cioè alla

fedeltà di Dio, fino al limite estremo della morte.

La morte di Gesù (Gv 19,16b-42)

L’avvicinarsi della Pasqua non lascia tempo a ulteriori ripensamenti e formalità. Perciò

alla scena del processo di Gesù fa seguito immediatamente l’esecuzione della sua

condanna. I suoi ultimi momenti sono narrati in sei quadri successivi, a carattere fortemente simbolico: la crocifissione (19,17-22), la divisione dei vestiti (19,23-24), il

dialogo con Maria (19,25-27), la morte di Gesù (19,28-30) e il colpo di lancia (19,31-

37); a conclusione viene narrata la sepoltura di Gesù (19,38-42). Nei cinque quadri che compongono la scena della morte di Gesù l’evangelista ha fatto

risaltare come in essa egli ha attuato fino in fondo il progetto divino, rivelando così la

sua regalità e realizzando la salvezza dell’umanità mediante il dono purificatore dello Spirito. Ora egli vuole far comprendere che questo dono è presente e disponibile nei

sacramenti della chiesa, nella quale si rende visibile e operante l’unità tra tutti gli uomini

realizzata dalla morte di Cristo. Al centro di questa chiesa, formata dai discepoli e da

tutti coloro che crederanno sulla loro parola, vi è Maria, madre, modello e ispiratrice costante nel cammino di fede che trae origine appunto dalla croce di Gesù.

Giovanni ha omesso molti importanti dettagli riportati dai sinottici. Fra questi si possono

ricordare l’agonia di Gesù nel Getsemani, il bacio di Giuda, la fuga dei discepoli, il

processo davanti al sinedrio, gli oltraggi in casa del sommo sacerdote e presso la corte di Erode, gli scherni ai piedi della croce, l’episodio dei ladri crocifissi con Gesù, il suo

grido di sconforto sulla croce e le tenebre al momento della sua morte. Queste omissioni

sono però compensate da numerose aggiunte: lo spavento delle guardie al momento dell’arresto di Gesù, il suo colloquio con Anna e molti dettagli riguardanti il processo di

fronte a Pilato. Giovanni poi è l’unico a menzionare la discussione circa il contenuto

dell’iscrizione da affiggere alla croce, la citazione del Sal 21 a proposito della divisione delle vesti, le parole rivolte a Maria e al discepolo prediletto e infine il colpo di lancia.

La passione di Gesù è raccontata da Giovanni in modo tale da metterne in luce, sulla

linea di quanto aveva già intuito la tradizione più antica, l’intima connessione con la sua risurrezione. In pratica per il quarto evangelista non si tratta di due eventi autonomi,

quasi di due scalini nel cammino di Gesù verso il Padre, ma di due aspetti di un’unica

realtà salvifica. Anzitutto nella passione di Gesù l’evangelista ha visto infatti l’espressione suprema della sua gloria, cioè l’opera per eccellenza di quel Dio che da lui

si è fatto rappresentare per portare a termine la salvezza del suo popolo e di tutta

l’umanità: in altri termini per Giovanni Gesù non è stato glorificato perché è stato

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obbediente fino alla morte di croce, ma ha glorificato Dio ed è stato da lui glorificato

precisamente sulla croce, in quanto espressione suprema di quell’amore che costituisce

la grandezza stessa di Dio e del suo inviato.

È quindi sulla croce che si attua il mistero della salvezza, intesa come rivelazione piena

del rapporto che unisce Gesù al Padre e come coinvolgimento in esso dell’umanità mediante il dono dello Spirito. In altre parole, morte, risurrezione, ascensione al cielo,

intronizzazione alla destra del Padre, dono dello Spirito, tutto trova la sua realizzazione

nell’innalzamento di Gesù sulla croce. L’arresto, l’interrogatorio di Anna, il processo di Pilato, non sono altro che fasi preparatorie, le quali preannunciano e anticipano, come

d’altronde tutta la vita di Gesù, questo momento di gloria e di salvezza