Utopie di Strapaese cap. 4 - La città dei numeri uno

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UTOPIE DI STRAPAESE La città dei numeri uno Mi hanno ferito nella cosa che ho di più caro, l’immagine. Silvio Berlusconi

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Estratto da tesi di laurea specialistica "Utopie di Strapaese - Urbanizzazione e potere da Littoria a Milano Due passando per Disneyland" (versione integrale), Luca Di Ciaccio, SdC La Sapienza Roma, 2010.

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UTOPIE DI STRAPAESELa città dei numeri uno

Mi hanno ferito nella cosa che ho di più caro, l’immagine.Silvio Berlusconi

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1. Un’utopia in venditaMilano Due, località Segrate, un giorno di pioggia. Il paesaggio sembra di polistirolo espanso, con abitanti di polistirolo espanso. Guardie private al perimetro della finta città. Studi televisivi e cigni in un laghetto solcato da un ponticello di legno altoatesino. Sui bidoni e sui cartelli il logo del Biscione è ancora nitido, come nuovo. Le facciate dei palazzi sono colore rosso “terra di Siena”, abbastanza conservate, con poche scrostature. Stranite conifere garantiscono uno sfondo sempreverde al panorama. Il clima è fresco. Durante il tragitto per arrivare fin qui ho scrutato a lungo il paesaggio della periferia est milanese. Vi cercavo, senza ritrovarle, le tracce di un resoconto di viaggio che avevo letto tempo prima. Un testo che evocava una sorta di percorso iniziatico. L’avvicinamento progressivo a qualcosa di nuovo e al tempo stesso familiare. «Appena oltre il Lambro ritrovi la dolce Bassa natìa con un brivido lungo e impensato. La strada è ampia, a duplice corsia. Patetiche braide – i cassînn – sopravvivono in un paesaggio che ancora le capisce, cioè le comprende e le contiene. Tuttavia se ne stanno umili e pudiche in disparte, e proprio dal loro intonaco dimesso intuisci il miracolo imminente. Ecco infatti, oltre la curva, un rosseggiare improvviso di case non altere ma nobili, e così improvvidamente intonate con il tradizionale mattone lombardo che le prospettive scandinave della nuova città non ti allarmano per nulla». Sono parole del giornalista e scrittore Gianni Brera. Stampate in un volume che si intitola Milano 2: una città per vivere1. Pubblicato nel 1976, a quartiere quasi ultimato e in buona parte già abitato, dalla Edilnord Centri Residenziali. La Edilnord è la società che fa capo a tale intraprendente e giovane imprenditore milanese, Silvio Berlusconi, responsabile dell’operazione. Il terreno, grande circa 700mila metri quadrati, era stato acquistato nel 1969. In meno di dieci anni e con ingenti capitali di finanziamento una cittadella di circa diecimila abitanti sorse dal nulla.

1 Aa. Vv, Milano 2: una città per vivere, 1976

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Cammino sugli appositi sentieri, delimitati e separati, paralleli e obliqui senza mai incontrarsi, quello per i pedoni, quello per le biciclette, quello per le auto. Osservo le scuole, l’asilo, la chiesa, il lago artificiale, i negozi sotto i portici, lo sporting club, le piscine, i parcheggi sotterranei, gli alberghi, il centro congressi, i palazzi degli uffici, gli studi Mediaset. Sulla piazza antistante il laghetto baby sitter annoiate incrociano frotte di impiegati in pausa pranzo, tutti a dar da mangiare ai cigni che allungano spasmodico il collo sulle rive. So di trovarmi in un quartiere simbolo. Un bizzarro mix tra la città ideale del rinascimento italiano e une versione sterilizzata e un po’ kitsch del sogno suburbano americano. È facile qui sentirsi inseguiti dall’ombra del suo creatore, quel Berlusconi che tra la fine dei Sessanta e l'inizio dei Settanta confidò ai suoi primi soci di impresa: «Io farò una città dove c’è tutto, dalla clinica dove si nasce al cimitero»2.

I primi anni Sessanta furono un periodo d’oro per l’edilizia a Milano. Nel corso di un decennio circa 600.000 persone, l’equivalente della popolazione di una grande città, si trasferirono nel capoluogo lombardo e nei suoi dintorni3. Attorno alla periferia della città i palazzoni residenziali crescevano come funghi. L’Italia della Ricostruzione aveva lasciato il posto all’Italia dello sviluppo accelerato. Il volto delle città e del territorio cambiava. Mancava, tuttavia, un modello regolatore, una prospettiva di lungo respiro: i pochi piani regolatori realizzati, quello di Milano era del 1953, non sapevano opporsi alla crescita disordinata. Anzi, le connivenze tra funzionari pubblici e immobiliaristi contavano più della legge: il fenomeno della speculazione edilizia dilagava, anche perché la domanda tirava. L’idea di realizzare una sorta di città satellite destinata a ceti abbienti non aveva molti precedenti, perlomeno in Italia. Ciò che si voleva costruire era una gemma urbanistica pensata per la nuova borghesia delle professioni, tecnocrati e manager che puntano all’abitazione come «parte del

2 G. Ferrari, Il padrone del diavolo, 1990, p. 93 J. Foot, Milano dopo il miracolo. Biografia di una città, 2001, p. 58

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circuito jet – carta di credito – club d’affari – beni in leasing»4. Un azzardo imprenditoriale. Una visione del futuro.

Milano Due era un’utopia in vendita. Rileggo le vecchie inserzioni pubblicitarie: «la città dei numeri uno», «una città per vivere», «la città in campagna», «il nuovo volto della città». A distanza di oltre trent’anni sembrava anticipare molte cose. Lo stesso volume della Edilnord, chiunque avesse acquistato all’epoca un alloggio ne riceveva una copia, è un collage significativo. Basterebbe lo slogan di apertura: «Milano 2: un’esperienza completa e affascinante, una proposta da meditare, un suggerimento concreto per il futuro della città». Che a sua volta riprendeva quelli pubblicati nelle inserzioni sui giornali, come il prestigioso Corriere della sera. Insistenza sulla novità del progetto, con toni quasi utopici («Milano 2: un nuovo modo di costruire»; «Una proposta abitativa d’avanguardia»). Ricorso continuo alla legittimazione fornita dai saperi tecnici («Soluzioni urbanistiche veramente inedite»). Abuso della retorica del fare («Dopo tante parole finalmente un’iniziativa concreta»). Spudorata capacità di negare ogni evidenza («Un’alternativa all’espansione edilizia disordinata e parassitaria»). Attenzione alla sfera di una libertà individuale e quasi ludica («Proposte abitative per le diverse esigenze», «Il diritto di giocare»). Molto dell’armamentario comunicativo del futuro “presidente operaio” è già leggibile in questi frammenti.Il progetto Milano Due rappresentava, tra la fine dei Sessanta e l’inizio dei Settanta, nel pieno dell’era della contestazione, l’affermazione – passo dopo passo – del paradigma dello status symbol. Non si trattava semplicemente di complessi residenziali, bensì della manifestazione spaziale di un nuovo stile di vita. Berlusconi si assicurò che i residenti fossero isolati dagli aspetti “sgradevoli” della vita cittadina: traffico, criminalità, immigrazione, operai scioperati, la città stessa. La “nuova

4 G. Ruggeri, M. Guarino, Berlusconi. Inchiesta sul signor Tv, 1994, p. 46

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Milano” fu creata secondo una serie di caratteristiche architettoniche innovative. Il quartiere era separato in modo netto dal resto della città, delimitato da muri, ponti, strade. Gli edifici erano per la maggiorparte orientati verso l’interno del complesso e raramente verso il territorio circostante, circondati da verde e con un laghetto centrale. Un efficiente sistema di portineria e vigilanza, sia diurna che notturna, completava il quadro della sicurezza interna. Il caso di Milano Due è esemplificativo della ridefinizione dei canoni che sono alla base dei processi di progettazione e costruzione dello spazio urbano, e inoltre è simbolicamente legato alla profonda trasformazione che caratterizza la vita culturale italiana dalla fine degli anni Settanta5. L’eterno profumo di Strapaese si mischia alle luci seducenti della neotelevisione. La “rivoluzione conservatrice”, ossimoro efficace per descrivere le trasformazioni politiche che alfine ne matureranno, era già lì. In tutto ciò, solo agli inizi, l’idea della televisione era considerata appena un servizio aggiunto, un fringe benefit, qualcosa di simile al frigobar e allo schermo nelle camere d’albergo, un dippiù per incrementare le vendite. «Come gli mettiamo la piscina – è il ragionamento di Berlusconi – mettiamogli anche la televisione a circuito chiuso»6.

2. Valige di soldi e città di sogni

L’idea venne a Berlusconi mentre sorvolava con l’elicottero la periferia e i campi ai confini di Milano. Individuò una vasta area di proprietà del conte Leonardo Bonzi, nel comune di Segrate, a ridosso del Parco Lambro, già lottizzata e in procinto di essere ceduta in parti separate. L’area fu acquistata alla fine del 1968 da una nuova società, sempre del ramo Edilnord. Il terreno acquistato aveva una forma grosso modo rettangolare, e si pensò di insediarvi tre nuclei di edifici. In base alla convenzione stipulata dal conte Bonzi con il Comune di Segrate, l’impresa realizzatrice

5 E. Bazzaco, N. Origoni, Mia Milano: quale città, in www.eddyburg.it 6 G. Ferrari, Il padrone del diavolo, 1990, p. 47

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dell’insediamento avrebbe dovuto accollarsi parte degli investimenti relativi alle infrastrutture, attraverso il versamento di denaro o l’esecuzione di opere. Per Berlusconi la condizione non fu un problema: lui cominciava a pensare in grande, costruire un solo palazzo o un gruppo coordinato di palazzi, come aveva fatto in passato, non gli conveniva più. Dal Comune riuscì a ottenere anche una variante in base alla quale il 10 per cento della volumetria totale sarebbe stato destinato ad uffici7. Voleva costruire una piccola nuova città, realizzare uno dei più vasti e ambiziosi progetti residenziali del dopoguerra.

Lui, prima il “Berlusca”, detto con ironia lombarda, poi il “Dottore”, poi il “Cavaliere”, e oggi, con deferenza, il “Presidente”, con una scansione del suo medagliere onomastico sempre maiuscolo e in traiettoria verticale, ad ogni trasformazione sempre cancellando le porzioni minacciose del suo passato, già allora – agli inizi – è lo stereotipo del self-made man, l’uomo che si è fatto da solo. Nato nel 1936 da una famiglia del ceto medio in un quartiere operaio di Milano, cominciò a lavorare come cantante e cabarettista sulle navi da crociera. Una volta laureato in giurisprudenza, fece il suo ingresso nel mondo degli affari durante il boom economico. Dopo un breve periodo in cui lavorò per altri, decise di provare a mettersi in proprio, cercò i terreni su cui edificare e preparò un progetto edilizio, aiutandosi coi finanziamenti della piccola banca in cui lavorava il padre8. Nel 1963, dopo questa modesta partenza, Berlusconi fece un improvviso e inaspettato salto di qualità con un megacomplesso residenziale per 4000 persone, il corrispettivo di un paese di discrete dimensioni, in una posizione non molto promettente fuori Milano, località Brugherio, dominata da stabilimenti industriali e chimici e isolata dai negozi e dal resto della popolazione. Il fatto che un gruppo di investitori fosse disposto ad affidare a un ventisettenne alle prime

7 Ibidem, pp. 33-348 J. Foot, Milano dopo il miracolo. Biografia di una città, 2001, p. 119

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armi un progetto di quella portata riflette il clima di boom edilizio che si respirava nella Milano dei primi anni Sessanta e nel contempo dice molto delle capacità persuasive di Berlusconi9.

Brugherio fu, per molti versi, il suo primo grande affare e definì lo schema della sua carriera futura. Per il progetto fu assoldato un gruppo di architetti giovanissimi, alcuni ancora studenti all’ultimo anno di università, guidati da Guido Possa, e che in buona parte ritroveremo nei futuri progetti edili berlusconiani10. Già allora l’idea era quella di «offrire un ambiente e non semplicemente un appartamento soleggiato»11. Quando il progetto fu avviato, nel 1964, il mercato aveva iniziato a cambiare direzione e nel 1965, quando i primi 140 appartamenti furono completati, era in una fase di stallo. Per cercare di risollevare le vendite fu lanciata una campagna pubblicitaria, anche con l’apertura di un punto vendita al centro di Milano. Gli slogan pubblicitari e la persuasione del cliente, come raccomandava sempre il capo, erano già metà dell’opera. Per esempio, uno dei claim del progetto era: «Quando a Milano piove, a Brugherio c’è sempre il sole!». E fa niente se non era esattamente vero: a Brugherio c’è lo stesso clima di Milano – nebbioso, grigio e umido – con l’aggiunta dello smog delle fabbriche12. Dopo il primo palazzo rimasto invenduto, i soci volevano chiudere. Berlusconi insiste. Di fronte allo stallo del mercato e alla carenza di acquirenti privati è capace di inventarsi anche metodi di persuasione meno ortodossi. Le sue biografie autorizzate sono ricche di aneddoti in odore di mito. Come quella volta che, per salvarsi dal fallimento di Brugherio, decise di puntare sul mercato dei fondi professionali. Così, tra raccomandazioni di vecchi amici e corteggiamenti di segretarie, si impegnò nel convincere i dirigenti di un importante fondo pensionistico ad acquistare un blocco di appartamenti,

9 G. Fiori, Il venditore, 2004, pp. 29-3110 G. Ferrari, Il padrone del diavolo, 1990, p. 1611 Ivi12 A. Stille, Citizen Berlusconi, 2006, pp. 34-35

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aiutandosi con un’elaborata messinscena. Per la vista al cantiere di questi potenziali salvatori dell’affare, egli mise al lavoro tutti i suoi uomini per ripulire, rassettare e rifinire tutto ciò che potevano, in modo che quel posto sembrasse il più finito e presentabile possibile. Per il giorno della visita Berlusconi fece in modo che un nutrito gruppo di suoi parenti venisse al cantiere, fingendosi clientela interessata all’acquisto di appartamenti. Il piano sembrava funzionare quando arrivò «una cugina un po’ scema», secondo le parole dello stesso Berlusconi, e iniziò a salutare e abbracciare tutti i parenti. Il volto del dirigente del fondo pensioni si rabbuiò quando divenne ovvio che era stato raggirato. «Che strano, evidentemente tutti i vostri clienti non fanno parte di una cerchia molto ampia, visto che si conoscono tutti». Poi si accese una sigaretta, gettò il pacchetto nella toilette e disse a Berlusconi: «Caro giovanotto, qui è tutto molto bello, bucolico ma, vede, ho appena finito le sigarette, quante ore mi ci vogliono per comprarne un altro pacchetto?»13. La visita, quel giorno, fu un disastro totale ma Berlusconi si diede da fare per ribaltare la situazione. Alla fine il fondo di previdenza acquisto un discreto numero di appartamenti a Brugherio, le banche finanziatrici concessero nuovi generosi mutui, il mercato immobiliare conobbe una fase di ripresa. In particolare il costruttore Berlusconi fece tesoro della lezione del pacchetto di sigarette: era necessario dare appeal alle zone periferiche, e soprattutto servizi. Così fu anticipata la realizzazione di alcune strutture utili, come le scuole, il campo giochi, una manciata di negozi e il mini-market, la cui realizzazione era prevista soltanto al termine dei lavori. Berlusconi si applicò sulla commercializzazione dei prodotti, sulla cura dei dettagli, sui rapporti con i clienti. Non bastava vendere case: bisognava vendere il verde, i servizi, i negozi, la sicurezza, il divertimento dei bambini, la signorilità14. «La novità sostanziale stava nel ribaltamento psicologico imposto da Berlusconi alla mentalità dei suoi clienti. Fino a quell’epoca, un quartiere

13 G. Ferrari, Il padrone del diavolo, 1990, pp. 24-2514 Ibidem, pp. 28-32

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periferico sembrava destinato alle fasce meno abbienti. Lui invece ribattezzò Brugherio con lo slogan: “Un paradiso per quattromila”. E i proprietari dei suoi mille appartamenti finirono per crederci, mentre gli urbanisti scuotevano il capo increduli»15.

Così il progetto Brugherio fece di Berlusconi un importante imprenditore immobiliare e gettò le basi per la sua impresa successiva di maggior respiro, Milano Due. A Segrate, 712.000 metri quadrati pagati tre miliardi di lire, un progetto residenziale di medio-alto livello per 10mila persone16. Il volume totale edificato ammontava a 1.709.000 metri cubi, di cui 1.282.000 per il residenziale, 142.000 per il direzionale, 285.000 per le attrezzature17. È interessante notare come colui che più tardi si presenterà come un “costruttore di città” all’inizio intervenga nell’edilizia non costruendo assolutamente nulla: compra le aree, ottiene i permessi, fa la pubblicità e vende, ma il mestiere del muratore lo lascia fare ad altri. Preferisce delegare questo lavoro ad imprese specializzate. In un vecchio libro del 1981, gli architetti Alessandro Balducci e Mario Piazza avevano ricostruito con efficacia gli scenari in cui questa operazione si collocava: «L’interesse è concentrato tutto sul controllo e sulla gestione degli investimenti, e i risultati positivi delle due operazioni (Edilnord e Milano Due) sono riscontrabili proprio sotto questo punto di vista dal fatto che Berlusconi riesca a realizzare due interventi partendo da una disponibilità di capitali propri praticamente nulla. La cura fin nei minimi particolari della commercializzazione e della pubblicità non è comparabile ad alcun altro intervento di questo tipo. Tutta l’attività è condizionata al consolidamento e allo sfruttamento più razionale possibile di rapporti privilegiati sia con il mondo politico che con il mondo finanziario»18. Di certo è difficile impelagarsi nella questione dei finanziamenti che il giovane costruttore

15 Ibidem, pp. 31-3216 G. Fiori, Il venditore, 2004, p. 3617 Aa. Vv, Milano 2: una città per vivere, 1976, p. 2418 A. Balducci, M. Piazza, Dal parco sud al cemento armato, 1981

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andava rastrellando, sul come li ottenesse, su quali itinerari tortuosi, anche attraverso banche e società straniere, essi seguissero. La bassa cucina degli affari immobiliari, d’altronde, era spesso alimentata da scambi di favori, tangenti, complicità con il potere politico. Prescinderne non doveva essere facile. Quando il discorso prende questa piega viene in mente quella scena del Caimano, il film di Nanni Moretti, la valigia che cada dal soffitto dell’ufficio, miliardi e miliardi di vecchie lire che si spandono nell’aria, tutti quei soldi caduti dal cielo, una domanda ossessiva, «da dove vengono tutti quei soldi?». Ci si ferma lì.

3. Reparto vendite

Le politiche urbane e il “fare città” rispecchiavano le consuetudini nella gestione della res publica italiana, prodiga di connivenze tra sistema politico e mondo imprenditoriale. La proliferazione di convenzioni tra amministratori e proprietari di terreni, per esempio, era in quegli anni un fenomeno generale nell’area milanese. Lo schema è sempre quello: il proprietario dei terreni fa qualcosa di pubblica utilità per il Comune e quelli del Comune gli concedono di costruire. La “compromissione giuridica” di molte parti della periferia operata tramite il sistema delle convenzioni aveva, di fatto, preparato per l’immissione sul mercato fondiario, nel corso degli anni Sessanta, una riserva di terreni sui quali avrebbero preso forma alcune tra le più importanti speculazioni del decennio successivo19. Il passo successivo sarà quello di passare da un sistema di regole definite dalla pianificazione urbanistica a quella che invece si può definire una vera e propria “urbanistica contrattata”, frutto di pressioni e mercanteggiamenti di potere20. Al tempo stesso, gli anni di Milano Due erano anni di ricomposizione degli attori presenti sul mercato immobiliare dell’area milanese. Un periodo in cui la molteplicità e la frammentazione di

19 Ibidem20 E. Bazzaco, N. Origoni, Mia Milano: quale città, in www.eddyburg.it

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iniziative e imprenditori che avevano caratterizzato gli anni del boom lasciava il posto a un mercato più selettivo, caratterizzato soprattutto da poche operazioni di grande portata, promosse da alcune tra le maggiori società immobiliari italiane. Una situazione che mutava i rapporti di forza tra promotori, istituzioni locali, partiti politici. Fu proprio la lottizzazione di Milano Due promossa dalla Edilnord berlusconiana a inaugurare, nell’area milanese, un «modello di urbanizzazione a larga scala» divenuto in seguito comune. Come annotano Piazza e Balducci: nel negoziato con Berlusconi «il ruolo dell’amministratore comune è del tutto subordinato all’operatore immobiliare, in pratica le condizioni che vengono “imposte” all’Edilnord non intaccano mai le intenzioni e i progetti della società. I patti convenzionali sono tutti concentrati sulla realizzazione, a carico della Edilnord, di opere di urbanizzazione primaria e secondaria. Queste opere sono già tutte previste nei progetti della società perché sono un elemento che caratterizza il tipo di intervento»21. Alcune peculiarità sembravano allora distinguere la Edilnord da altri operatori del mercato edilizio: un’ampia disponibilità di capitale finanziario, una crescente tendenza verso la diversificazione delle proprie attività e, almeno a Milano Due, una concentrazione sulle fasi iniziali (organizzazione, progettazione) e finali (gestione) dell’operazione, delegando a imprese esterne la fase della costruzione vera e propria22. In fondo, Berlusconi ci tiene a non essere confuso con un banale palazzinaro. «Chi è il palazzinaro?» gli chiedono in un’intervista. E lui: «Uno che improvvisa il cantiere, costruisce uno stabile, ma non pensa nemmeno al marciapiede, di cui deve incaricarsi il Comune»23.

Gli architetti che progettano Milano Due sono una piccola squadra di giovani laureati da poco, alcuni già reduci dall’impresa di Brugherio: Guido Possa, Enrico Hoffer, Giancarlo Ragazzi e un gruppo di esterni che di volta in

21 A. Balducci, M. Piazza, Dal parco sud al cemento armato, 198122 Ibidem23 R. Gervaso, La mosca al naso, 1980

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volta li affianca. Nella Edilnord, tra una trasformazione societaria e l’altra, oltre a Silvio Berlusconi ci sono il fratello Paolo, il suo compagno di liceo Romano Comincioli, il capo delle relazioni esterne Vittorio Moccagatta, il giornalista Giorgio Medail, l’eterno braccio destro Fedele Confalonieri. Berlusconi li imbarca tutti sull’aereo e li porta a vedere le new town del nord Europa, in Gran Bretagna, in Olanda, in Svezia24. Grazie a interviste rilasciate dallo stesso Berlusconi, in una vecchia biografia scritta dal giornalista Giorgio Ferrari, oppure in un lungo colloquio registrato nel 2000 da Paolo Guzzanti e pubblicato nove anni dopo in un suo libro, è possibile ricostruire i passi della nascita di questa “nuova città” direttamente dalla testimonianza del suo creatore. È lui stesso a spiegare che «preferivo avere a disposizione degli architetti giovani, con cui stabilire un rapporto di collaborazione fortemente interattivo, con cui poter progettare e adattare, discutendo i problemi man mano che affioravano»25. Uno dei primi problemi da affrontare fu quello della circolazione stradale. Berlusconi insisteva per avere una città senza auto, o almeno una città in cui auto e pedoni non avrebbero mai dovuto incrociarsi. Per Milano Due il suo team adottò la soluzione di tre circuiti del tutto indipendenti per vetture, biciclette e pedoni. «Mi venne l’idea di trattare il traffico automobilistico alla stregua di un fiume che scorre, cioè abbassato di qualche metro rispetto al livello delle abitazioni e attraversato da numerosi ponticelli aventi pendenze minime, in modo da favorire il transito di pedoni e biciclette. In questo modo diventava possibile accedere a tutti i servizi senza incontrare neanche un’automobile. Il sogno di chiunque, insomma»26. Un’altra questione decisiva fu quella dei servizi. Grande rilievo venne dato alle scuole e ai loro differenti raggi d’affluenza: brevi per gli asili, uno per ciascuna delle tre unità di Milano Due; più estesi per le due scuole elementari e per l’unica scuola media. Numerosi erano i parchi giochi destinati ai

24 P. Madron, Le gesta del Cavaliere, 1994, p. 2125 G. Ferrari, Il padrone del diavolo, 1990, p. 1826 Ibidem, pp. 34-35

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ragazzi secondo le diverse età. Il progetto prevedeva inoltre un edificio religioso, uno Sporting Club e una piazza centrale che si affacciava su un piccolo lago artificiale. «Era necessario vivificare il quartiere. Ricordo che per vendere i negozi decisi di differenziare le locazioni a seconda delle potenzialità di quel mercato per il singolo negozio, per cui a certi negozi ho dovuto cedere anche gratuitamente i locali perché era importante avere certi negozi, anche se non c’era un livello di vendita da giustificarli. Avrebbe dovuto esserci anche un grande centro diversificato per le mostre, ma il Comune non me lo lasciò fare»27. Si decise che le costruzioni fossero di tre tipi: accanto alle costruzioni basse a schiera, ospitanti al piano terra sotto i “portici” i negozi, ci sarebbero state palazzine più alte, con la loro forma ad “elle” e a “c”, poi ci sarebbero state le “torri” con appartamenti più lussuosi, e infine altri stabili avrebbero ospitato un hotel, un residence, palazzi di uffici. «Anche il concetto di personalizzazione dell’appartamento – precisa Berlusconi – venne ampliato: al cliente volevo dare la possibilità di collocare le pareti divisorie del suo appartamento e di scegliere i materiali per i rivestimenti interni»28. L’ambiente fu progettato valorizzando il verde, inteso come tessuto connettivo dell’intero quartiere e dell’arredo urbano. «Pensando a Milano Due realizzavo l’idea della “casa di campagna in città”, di una casa che offriva molte delle comodità proprie di una città, senza doverne sopportare il caos, lo smog, la penuria di spazio. Ero convinto che Milano Due avrebbe attratto abitanti, prima ancora che per l’accuratezza delle finiture o per le felici soluzioni date agli appartamenti, per il fatto che soddisfaceva il desiderio di un diverso stile di vita»29. Milano Due tuttavia non voleva essere una vera e propria “città-satellite”, ma piuttosto una “città-figlia” della grande metropoli, capace di svolgere, a differenza dei quartieri costruiti secondo i criteri dell’edilizia popolare, un ruolo attivo. Sotto il progetto di Milano Due stava un’ambizione

27 P. Guzzanti, Guzzanti vs Berlusconi, 2009, p. 9628 G. Ferrari, Il padrone del diavolo, 1990, p. 3529 Ivi

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smisurata. Berlusconi all’epoca disse: «Superato il concetto del quartiere dormitorio (quello che serve unicamente al pernottamento senza possibilità di divertimento, di comunicazione, di relazioni sociali) e del quartiere ghetto (dove esistono attrezzature capaci di favorire la vita comunitaria embrionale e il divertimento, ma limitatamente alla piccola comunità residente con tutti gli inconvenienti relativi, e cioè vita privata sotto controllo, pettegolezzo eccetera), è stato allora pensato un quartiere “aperto” che, per la sua particolare conformazione, consenta ai residenti di conservare la privacy nelle zone residenziali e di instaurare nei luoghi di incontro, appositamente concepiti, una osmosi vitale e di rinnovamento continuo con la grande città; un quartiere cioè che, superdotato per quanto riguarda le attrezzature commerciali, sportive, ricreative e culturali, funga da polo d’attrazione nei confronti della città stessa, dando vita a un flusso di scambi sconosciuto ai quartieri fino ad ora realizzati. Un quartiere pilota che, profittando di questa prerogativa e di altre particolari caratteristiche ambientali, possa costituire un teatro ideale per lo sviluppo armonico della vita sociale, familiare, individuale»30. Un progetto, dunque, che va al di là della pura e semplice speculazione immobiliare. C’era «la voglia e l’orgoglio di inventare una nuova formula urbanistica»31. Ma anche quella di vendere, conquistare clienti. «Devi conoscere ciò che vendi e devi soprattutto far capire i vantaggi che può dare a chi lo acquista. Questo valeva soprattutto quando si dovevano vendere le case: io non dicevo che bella casa, ma illustravo come sarebbe cambiata la vita di chi ci fosse andato ad abitare»32. Racconterà in seguito Berlusconi: «Ho cominciato dall’edilizia perché, finita l’università, ho creduto, guardandomi in giro e con pochi soldi che avevo in tasca guadagnati quando ero studente, che quello fosse un settore che poteva dare i profitti più alti: si costruiva a 100 e si vendeva a 200. Sono entrato nell’edilizia, ma ho cercato di innovare. Le

30 Ibidem, p. 3631 P. Guzzanti, Guzzanti vs Berlusconi, 2009, p. 9832 Ibidem, p. 159

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innovazioni sono state molte, ne cito una per tutte: quando l’edilizia ha cominciato a perdere i vantaggi dell’avviamento, anziché costruire case sparse abbiamo costruito dei quartieri. Così, una volta finita la prima parte del quartiere, c’era la possibilità di vendere anche tutto il resto, fornendo tra l’altro dei servizi che esulavano dal concetto ristretto di “casa”. Ed è in questo modo che abbiamo avuto successo»33.

Dopo le precedenti esperienze, Berlusconi si convince che qualsiasi operazione imprenditoriale funzionava solo se la si sapeva vendere bene. Così, nell’autunno 1969, dà avvio ai lavori di Milano Due pensando prima di tutto ad una “vetrina” per il pubblico. «Cominciammo con la costruzione della portineria centrale, dei primi edifici in cui predisporre gli appartamenti campione, di un campo giochi, di un tratto di strada attraversato da un piccolo ponte, di un bar e di alcuni altri servizi. Ci tenevo così tanto a questa “zona vetrina” che decisi di non dare il via alla campagna promozionale fino a che non fosse stata completata»34. Furono comprate delle paginate pubblicitarie sul Corriere della sera, usando lo strumento, allora inedito, della “pubblicità redazionale”, foto e articoli sull’idilliaca vita del quartiere, scritti con grafica e stile del tutto simili ai normali pezzi del quotidiano. La risposta degli acquirenti fu, da subito, più che soddisfacente. «I primi anni ero il venditore principe, per cui ero lì vendevo io, facevo le trattative io. Stavo nel quartiere tutta la settimana, mi occupavo personalmente di molte cose, poi seguivo anche la parte progetti, perché c’erano questi giovani miei amici architetti che erano bravissimi, ma amletici, assediati dai dubbi, e io dovevo esserci»35. I prezzi, inizialmente convenienti, salirono subito. I primi appartamenti venduti nel 1971 costavano 125mila lire al metro quadro, ma solo due anni dopo si viaggiava sopra le 350mila, e nel 1981, a costruzione ormai ultimata, arriveranno a 1.800.000. E

33 G. Ferrari, Il padrone del diavolo, 1990, pp. 36-3734 Ibidem, p. 3735 P. Guzzanti, Guzzanti vs Berlusconi, 2009, p. 116

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ancora di più se si comprava sulle “torri giardino”, fortilizi del lusso con palestra, piscina, sala giochi e terrazze36. I tempi di consegna invece erano piuttosto lunghi (due o tre anni), ma proprio questo lasso di tempo consentiva a Berlusconi di finanziare le operazioni. I primi ad acquistare a Milano Due furono dei clienti che avrebbero voluto metter su casa a Brugherio ma che si erano trovati di fronte al tutto esaurito. La domanda per la cittadella in costruzione a Segrate si fece così sostenuta che l’impresa si mise ad adottare il sistema delle “ricevute provvisorie”, vincolanti solo per il compratore e non per l’impresa costruttrice, imponendo anche il rogito prima dell’ingresso nell’appartamento. «Alla media borghesia bisognava dare l’idea di un salto di qualità, anche se per noi non comportava nessuna spesa in più. Per questo ho fatto delle case che vendevo molto prima degli altri e a un prezzo superiore»37. L’anno del boom fu il 1973: Berlusconi disponeva di 30 accompagnatori e di 13 venditori. Nel solo mese di maggio il valore degli appartamenti venduti ammontava a 7 miliardi, di cui 1 miliardo e 700 milioni raccolto in un solo weekend38. Per quella tipologia immobiliare, d’altronde, si trattava quasi di un monopolio. Verso la metà degli anni Settanta si impose però una nuova crisi del mercato. Allora, per vendere case e uffici la Edilnord decise di ricorrere nuovamente agli investitori istituzionali (anche di un certo livello, come la Banca d’Italia, la Ras Assicurazioni, l’Ente Previdenziale Medici) che nei periodi di recessione erano gli unici a potersi permettere acquisti. Grazie a queste cessioni arrivarono a Milano Due molte famiglie affittuarie39. Nel 1977 il mercato del frazionato riprese vigore. Furono completati il Centro Direzionale e la piazza che si affaccia sul laghetto artificiale. Dopo un tentativo di realizzare un piccolo polo fieristico (fu lanciata la manifestazione “Milano Vende Moda”), la maggiorparte degli spazi furono acquistati da

36 P. Madron, Le gesta del Cavaliere, 1994, p. 2137 P. Guzzanti, Guzzanti vs Berlusconi, 2009, pp. 159-16038 G. Ferrari, Il padrone del diavolo, 1990, pp. 38-4139 Ibidem, p. 50

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grandi aziende per i loro uffici, come la Ibm. I rendiconti di Milano Due parlavano chiaro: quel milione e quattrocentomila metri cubi di costruzioni su 713mila metri quadrati di superficie erano diventati un grande business40. Alla fine del 1979, quando tutto ormai era pressoché costruito, le abitazioni ancora disponibili raddoppiarono di valore. Un appartamento a Milano Due era ormai uno status symbol. Addirittura si parlò di replicare il modello all’estero. A quanto pare, Berlusconi cominciò a trattare il progetto di una San Paolo Due in Brasile e perfino quello di una Teheran Due in Iran, su invito della sorella dello Scià di Persia allora ancora al potere41. Non se ne fece nulla, ma in compenso si tentò di replicare più vicino. Berlusconi ci provò con Milano Tre, nel comune di Basiglio, ben più lontana dalla vera Milano, che però non sarà affatto la fotocopia del precedente successo. Risente di un mercato che ondeggia, della nuova legge urbanistica Bucalossi che stabiliva un aumento degli oneri relativi all’edificazione dei suoli, dei frequenti cicli negativi nel business dell’immobiliare. Risente anche di un Cavaliere edilizio già crepuscolare, quello che annoiato dai vecchi giocattoli ormai guarda altrove, alla tv, ultima frontiera del nuovo42. Uno strumento cresciuto proprio, inaspettatamente, sotto i portici di Milano Due. Scriverà un biografo francese, Eugène Saccomano: «Fa lesto i suoi conti. Tre soli piccoli minuti di pubblicità televisiva valgono il prezzo d’un appartamento in un complesso residenziale che ci sono voluti anni a costruire e che ha richiesto investimenti molto costosi»43.

4. Garden cities

40 Ibidem, pp. 50-5141 P. Madron, Le gesta del Cavaliere, 1994, p. 2642 Ibidem, pp. 30-3443 E. Saccomano, Berlusconi: le dossier vérité, 1994, p. 63

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Gira e rigira, tra una convenzione e un mutuo, spunta sempre la visione di quello che la città rappresenta e di come potrebbe diventare in futuro. Quando istruiva i venditori della Edilnord che dovevano piazzare appartamenti nella “città dei sogni” di Milano Due, Berlusconi ripeteva ogni volta le tre regole fondamentali per conquistare il cliente. Primo: regalare un fiore alle signore, poiché sono sempre le mogli che decidono gli acquisti e mai i mariti. Secondo: accendere la tv su TeleMilano, emittente di quartiere, vantarla come un optional esclusivo che non esiste altrove. Terzo: schiacciare al momento giusto, con sapienza scenica ed opportuno effetto sorpresa, il pulsante che alza o abbassa le tapparelle elettriche44. Non che bastino un telecomando e un alzapersiane elettrico per farci entrare nel regno suburbano di Utopia, tuttavia è innegabile come dietro la costruzione ex novo di città o pezzi di città, esulando dai casi di pura speculazione immobiliare, ci sia un progetto di organizzazione sociale, una visione della convivenza umana e dell’evoluzione delle sue forme.

Abbiamo visto come molti autori, teorici ed empirici, si sono occupati, in ogni epoca, della città e della sua, diciamo così, “visione morale”. Mentre nel passato gli studiosi non si erano curati dell’architettura e dell’estetica del progetto urbano, la crescita delle maggiori città europee e nordamericane nel XIX secolo fece sorgere le nuove professioni dell’ingegneria civile e della pianificazione urbana. Si sa che in passato erano stati fatti molti tentativi di creare la città perfetta, con pochissimi risultati sul piano pratico. Ma nell’Ottocento il bisogno forzato di imprimere una pianificazione a un’espansione delle metropoli che pareva non conoscere sosta impresse un nuovo impeto alla progettazione urbana utopistica. I manuali di architettura e sociologia urbana spiegano di due tendenze concorrenti nella visione utopica della nuova città, entrambe però concordi sul fatto che, per quanto la moderna metropoli industriale fosse riuscita a incanalare il commercio e ad

44 P. Madron, Le gesta del Cavaliere, 1990, p. 38

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organizzare il controllo politico, lo aveva fatto ad un costo in termini morali, spirituali, etici e ambientali non più sopportabili45. Nella prima corrente di pensiero viene incluso quel coro di voci appartenenti all’opinione pubblica colta che vedeva nel modello di città classico e rinascimentale l’apice della civiltà moderna, preoccupandosi in particolare dell’impatto che la rivoluzione industriale poteva avere sulle occupazioni tradizionali e le comunità locali. Sia i commentatori liberali che quelli conservatori trovavano che vi fosse qualcosa di negativo nella città industriale e commerciale, ma ciò che univa queste visioni “tradizionaliste” o, già all’epoca, “nostalgiche” era la ricerca di quella che Bruno Zevi chiamava la “città a scala umana”. Si andava così a invocare, e progettare, un revival delle comunità civiche a bassa densità, sotto le varie definizioni di new town e garden cities46. La seconda corrente di pensiero è associata invece alla rivoluzione estetica e artistica del modernismo, con il suo innamoramento per le linee minimaliste, pulite e astratte, che doveva diventare la firma collettiva di una nuova generazione di urbanisti ai quali la città appariva come un luogo dalle infinite possibilità sperimentali47. Le Corbusier ne fu il simbolo, attraverso il progetto della “città funzionale” e con il passaggio dalla scala orizzontale a quella verticale, espresso in modo particolare nelle unité d’habitation, blocchi di torri geometricamente ordinate che sarebbero poi diventate emblematiche dei programmi di edilizia popolare che cominciarono a definire il paesaggio urbano delle città grandi e piccole di tutto il mondo, a partire dagli anni Cinquanta. D’altronde fu il suo best-seller Verso un’architettura, pubblicato nel 1923 a contenere la famosa (o famigerata) affermazione secondo la quale, come un aereo è una macchina fatta per volare, così «una casa è una macchina fatta per abitare»48.

45 S. Parker, Teoria ed esperienza urbana, 2006, pp. 77-7846 Ibidem, p. 7847 Ivi48 Ibidem, pp. 88-89

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Sicuramente ciò che sembra fare al caso nostro è la prima delle due correnti di pensiero, quella che poi sfocerà nello sviluppo del City Beautiful Movement, del New Town Movement, del Garden City Movement. Il suo massimo ispiratore è Ebenezer Howard, un inglese emigrato negli Stati Uniti a ventuno anni, dove trovò lavoro come stenografo a Chicago e si appassionò a talune letture di pensatori spiritualisti alla Withman o utopisti alla Bellamy, e una volta tornato in Inghilterra divenuto impiegato del tribunale di Londra. di Londra. Non doveva essere molto indaffarato sul lavoro se nel 1898 trovò il tempo per illustrare le sue teorie in Tomorrow, a paceful path to real reform, opuscolo ripubblicato quattro anni dopo col titolo che lo rese famoso, L’idea delle città giardino. Questo diventò il manifesto di un nuovo movimento per la pianificazione, la Garden City Association, che Howard aveva contribuito a fondare e che avrebbe esercitato un forte influsso sulla pianificazione urbana contemporanea in tutti i paesi anglosassoni49. Come ogni utopista che si rispetti, alla base del suo piano c’era una big idea: salvare la città dal congestionamento e la campagna dall’abbandono. La tesi di Howard era piuttosto semplice: egli pensava che, tra il risiedere in città oppure in campagna, ci fosse una terza alternativa «nella quale tutti i vantaggi della vita cittadina più esuberante e attiva e tutte le gioie e le bellezze della campagna si ritrovano in una perfetta combinazione; e la certezza di poter vivere questa vita costituisce la calamita che darà i risultati per i quali noi tutti stiamo lottando – lo spontaneo muoversi della popolazione, dalle nostre affollate città verso il cuore della nostra buona madre terra, fonte, insieme, di vita, felicità, ricchezza e potere»50. La città giardino da lui immaginata avrebbe unito i vantaggi della vita urbana ai piaceri della campagna (uno slogan destinato, insomma, ad avere successo). In un certo senso Howard – e non è il solo nella storia – non ha fiducia nelle grandi città, e pensa che queste debbano essere divise in piccole unità autosufficienti. Per il

49 Ibidem, pp. 79-8550 E. Howard, L’idea delle città giardino, 1962, p. 5

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compianto Bruno Zevi, «come scrittore e sognatore di nuove comunità, Howard è l’ultimo della lunga schiera di utopisti del XIX secolo; come statista e realizzatore, è, più che un profeta, il primo campione dell’urbanistica moderna»51. Non che lui fosse il tipo autoritario che desiderava «muovere la gente di qua e di là, come pedine su una scacchiera», ma era convinto che «le città giardino fossero semplicemente i veicoli di una ricostruzione progressista della società capitalistica che l’avrebbe resa simile a un’associazione cooperativa di comunità affini». L’uso della metafora della calamita voleva proprio mettere l’accento sulla sua convinzione che, per riuscire ad affermarsi, la città giardino deve vendersi da sé, deve essere una comunità di elezione invece che obbligatoria52. L’essenza della città utopistica di Howard è la comunità autonoma tipica del villaggio feudale, collegata a un limitato sviluppo industriale e messa in condizione di utilizzare i moderni mezzi di trasporto per collegare l’uno con l’altro i centri urbani. Caratteristica importante del progetto è, infatti, che questi “satelliti” fossero collegati tramite ferrovie a una città centrale, in un insieme urbano che Howard designava con il termine di “città sociale”. Al fine di impedire che le città si fondessero l’una con l’altra, vi sarebbe stata, tra un insediamento e l’altro, una cintura verde di proprietà comune, formata da «campi, siepi e terreno boschivo»53.

Nel 1902 Howard mise alla prova le sue idee acquistando terreni a Letchworth, un paesino a circa 35 miglia a nord di Londra e facendo costruire un prototipo della città giardino. Poiché spesso l’urbanista ha sentimenti totalitari, la vita nella città fu regolata minuziosamente. Tutto era organizzato, non solo venne prescritto il rapporto tra case e giardini, ma si vietò di aprire negozi in locali di abitazione, si obbligò a cambiare zona agli artigiani che volevano

51 B. Zevi, Storia dell’architettura moderna. Dalle origini al 1950, 1961, p. 7052 S. Parker, Teoria ed esperienza urbana, 2006, p. 8153 Ibidem, p. 82

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diventare piccoli industriali, si limitò il numero di professionisti in ogni quartiere in modo che ognuno potesse avere abbastanza clientela54. Nonostante tutto, il modello delle garden cities ebbe una forte influenza sulle politiche urbane di vari governi, specialmente in Nord Europa e negli Stati Uniti. Soprattutto nell’Inghilterra del dopoguerra si svilupparono molte new town, che potremmo definire figlie delle città giardino. Le new town seguono generalmente uno schema urbanistico definito: al centro si trova un’area amministrativa-commerciale, circondata interamente da quartieri residenziali, separati a loro volta da parchi e piccole aree agricole, caratterizzati da colorate villette a schiera con il tradizionale giardino55. Così, da un lato le new town sono diventate dei discreti quartieri residenziali, con gestione e prezzi da classe medio-alta, per liberi professionisti o manager che lavorano nella vicina metropoli e non certo per piccoli operai e agricoltori come immaginava quell’utopista di Howard. Dall’altro verso invece le new town hanno costituito la premessa per l’isolamento e il degrado di quartieri periferici destinati a ceti medio-bassi, poveri o immigrati, come quelle banlieues parigine agitate, agli inizi degli anni Duemila, dai fuochi di un’esasperata rivolta.

In Italia si ritrovano vecchi esempi ispirate alle città giardino. È il caso del quartiere Montesacro a Roma, edificato a partire dagli anni Venti lungo la via Nomentana per opera del governatorato di Roma e dell’Istituto case popolari. Quella di creare la garden city più grande d’Europa era un’ambizione dichiarata, ma l’espansionismo edilizio dei decenni successivi fagocitò tutta la zona. Altro esempio molto gettonato, sempre a Roma, è la Garbatella. Realizzazione ispirata alle garden cities, che la grandeur mussoliniana non riuscì a stravolgere (ma si limitò ad aumentarne la cubatura). Talmente ben disegnato, da non aver bisogno nemmeno di un semaforo. E ora, ovviamente, inglobato dal resto della città. Esistono anche esempi più

54 S. Ballinetti, New town, old dream, in “Europa”, 3 aprile 200955 S. Parker, Teoria ed esperienza urbana, 2006, p. 83

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sfortunati. Uno è Librino, quartiere periferico di 70 mila abitanti a sud ovest della città di Catania, pensato intorno alla metà degli anni Sessanta come città satellite modello. Peccato che il progetto, affidato all’architetto giapponese Kenzo Tange, non produsse l’effetto sperato. Il risultato – si legge in un documento della direzione ambientale del comune – è «un’autostrada con le case attorno, in cui socializzare era complicato. Un progetto inespresso e incompiuto. Un quartiere che però non ha abbandonato la sua peculiarità rurale e in cui ancora oggi è possibile vedere mandrie di pecore che brucano l’erba»56. Negli anni del boom economico per frenare la crescita incontrollata delle grandi città (Roma, Napoli, Milano, Torino) vennero proposti faraonici progetti di new town da realizzare anche in Italia. Si parlò molto della costruzione di due new town, una a nord e una a sud di Roma, collegate alla capitale tramite due superstrade, ma poi il progetto cadde nel vuoto57. Allo stesso modo, negli anni Ottanta, nacque in ambito politico craxiano il progetto di “MiTo”, presunta new town da insediare tra Milano e Torino, e lo stesso allora premier Craxi vagheggiava “Mediterranea”, di qua e di là del Ponte sullo Stretto, pure quello da realizzare58.

La visione di Howard incontrò un terreno fertile negli Stati Uniti, dove ci si ispirò molto alla garden city. A partire da Levittown, il famoso grande sobborgo di Filadelfia fatto di casette con giardino, laghetti e popolazione benestante e preferibilmente bianca. Lo studio di Herbert Gans del 1967, che passò lì più di un anno della sua vita, divenne uno dei classici della sociologia urbana (o forse, più precisamente, suburbana)59. Erano gli anni Sessanta, culla di grandi fermenti e contestazioni ma pure quelli in cui nacque il modello dell’American way of life. Gli Stati Uniti si popolarono di una nuova borghesia, né urbana né rurale:

56 S. Ballinetti, New town, old dream, in “Europa”, 3 aprile 200957 Aa. Vv., New Town, in it.wikipedia.org58 F. Ceccarelli, Il sistema del mattone, in “La Repubblica”, 9 dicembre 200859 S. Parker, Teoria ed esperienza urbana, 2006, p. 110

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bravi padri di famiglia che ogni sera tornano dai grattacieli delle metropoli alle villette prefabbricate, mogli annoiate e premurose, abili tanto nell’allevare marmocchi quanto nel miscelare vermut e gin, vicini ficcanaso, bambini che scorazzano tra il vialetto d’ingresso, l’altalena e il prato tosato di fresco. In cantina, magari, un rifugio antiatomico chiavi in mano, conseguenza della propagandata minaccia sovietica, spaventapasseri provvidenziale per l’ordine costituito. «Una diffusa voglia di conformismo» per usare le parole di Richard Yates, uno dei migliori scrittori che affondò la penna e i denti in quella realtà60. Sia Gans che altri studiosi misero in luce quella che si potrebbe definire col termine di “mentalità suburbana”, che doveva diventare l’autentica identità popolare dell’America nel dopoguerra e la cui migliore esemplificazione si trova in un altro famoso studio sociologico, quello di William White sulla città di Park Forest, nell’Illinois. Park Forest viene presentata come un’enclave della classe media, sostanzialmente bianca, progettata per persone con poco più di trent’anni, dove erano le donne, spesso casalinghe, a mantenere le relazioni sociali, con un melting pot di religioni che però si arresta di fronte alla possibile ammissione dei neri, dando adito a sentimenti che si fondavano «non tanto sull’odio razziale quanto sulle paure di natura economica e sociale». In questo suo studio degli anni Cinquanta, intitolato How the New Suburbia Socialises, White arrivava a una conclusione sul rapporto tra carattere e ambiente per cui sarebbe il luogo a determinare il carattere di chi ci vive. Scriveva: «Un tempo la gente odiava ammettere che il proprio comportamento fosse determinato da qualcosa che non fosse la propria libera volontà; questo però non vale per quelli che vivono nei sobborghi, che hanno piena consapevolezza del potere pervasivo esercitato su di loro dall’ambiente. Questo infatti è uno degli argomenti di cui preferiscono parlare; e con questa crescente curiosità tutta laica verso la psicologia, la psichiatria e la sociologia, essi discutono della loro vita sociale usando una terminologia clinica che ci sorprende. Ma non la vivono con disagio,

60 R. Yates, Undici solitudini, 2009, p. 10

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perché le cose stanno così, sembra che dicano, e il trucco non è combatterla ma comprenderla»61. È questa la vittoria di una città chiusa, una città che non è una città, e che già pare anticipare le tendenze future delle gated communities, dei villaggi monoculturali e semiprivati.

L’idea originariamente utopica si rivolte nel suo contrario, nel fortino assediato. Così gli Stati Uniti diventano, a partire dagli anni Ottanta, anche la prima patria della gated communities. Letteralmente: comunità protette da barriere. “Città private” in cui trovano rifugio (è proprio il caso di dirlo, e infatti vengono chiamate anche “città fortezza”) cittadini con ottime possibilità economiche, in fuga dalle città “centrali” a causa della paura del contatto con i criminali ma anche con i poveri, immigrati o meno. Un fenomeno destinato a una continua crescita. In queste aree, di fatto sottratte allo spazio e alla regolamentazione pubblici, ci sono regolamenti interni estremamente rigidi che arrivano fino ad imporre la tinteggiatura dei muri, la manutenzione dei prati o a vietare le corde per il bucato o le aste per le bandiere. In molte community ogni abitante deve chiedere l’accordo preventivo degli architetti dell’associazione prima di ridipingere la nuova casa o di piantare alberi in giardino. In genere si tratta di comunità formate da cittadini sostanzialmente omogenei per reddito, etnia, cultura, atteggiamenti e attese nei confronti della vita. Evidentemente non tutto è così semplice come sui depliant pubblicitari: ci sono dei nemici interni, come la delinquenza giovanile, e degli agguerriti oppositori esterni che, quando si ritengono lesi dalla privatizzazione di un bene pubblico (reti stradali, parchi o servizi pubblici rimasti compresi nelle enclave) fanno causa e la vincono62. Tutto richiama alle strategie difensive, dalla militarizzazione dell’architettura degli edifici all’innalzamento di barriere verso i settori popolati da differenti strati sociali, dall’introflessione di spazi commerciali e di svago fino alla

61 S. Parker, Teoria ed esperienza urbana, 2006, p. 11162 A. Gazzola, Intorno alla città. Problemi delle periferie in Europa e in Italia, 2008, p. 54

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trasformazione di abitazioni private in veri castelli fortificati.

Pensare che George Simmel, appena pochi decenni prima, credeva che gli abitanti giovani delle campagne si calassero nella folla inebriante della metropoli, con lo scopo di fuggire dal conformismo e dalla monotonia di quei luoghi. Difficilmente avrebbe sospettato che, per molti milioni di americani, europei, occidentali, il confort e il senso di sicurezza forniti dal conformismo e dalla monotonia delle piccole città sembrassero offrire una prospettiva assai più attraente rispetto alla pazza folla della metropoli63.

Nel giugno del 1970 il rampante costruttore Berlusconi si portò tutta la sua banda di giovani architetti e manager in giro per il Nord Europa, allo scopo di visitare gli hinterland di Londra, Stoccolma, Copenaghen, e loro famose new town. Il viaggio, a quanto pare, si rivelò una delusione: le new town straniere erano destinate a ceti meno abbienti, erano nettamente separate dalla città, avevano una densità abitativa troppo bassa, la presenza di servizi e negozi era scarsa. Diverse da quello che avevano in mente. Il viaggio fruttò solo qualche soluzione di dettaglio, come la disposizione dei vialetti per la zona vetrina, che si ispirava ad un’ambientazione osservata a Cambridge. «Mi resi conto – affermò Berlusconi – che Milano Due era qualcosa di totalmente nuovo. Il che quasi mi faceva paura»64. Ma l’ego del creatore di Milano Due non si imbarazzava certo per paragoni impegnativi. In una delle sue benevole biografie scopro che l’Utopia di Thomas Moore è un libro che spesso Berlusconi raccontava di regalare agli amici. Di più: lo fece direttamente pubblicare in Italia, in cinquecento copie numerate e rilegate in oro dalla sua prima casa editrice, nel 1978, in occasione del quinto centenario della nascita dello scrittore. «Ancora universitario, avuto tra le mani il libro di Thomas Moore, mi sono innamorato di Utopia e ho incominciato a sognare di costruire un giorno una città

63 S. Parker, Teoria ed esperienza urbana, 2006, p. 11264 G. Ferrari, Il padrone del diavolo, 1990, p. 39

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perfetta che si chiamasse così». Non lo diceva per scherzo. E difatti l’intervistatore gli chiede: c’è riuscito? «Non ci sono evidentemente riuscito, ma progettando nuove unità urbane, sia in Italia che in altri Paesi, ho tentato sempre di avvicinarmi il più possibile a un modello di città, un mio modello, senza colate di cemento, senza condomini ad alveare, senza automobili, che potesse essere, per i suoi abitanti, il teatro ideale per una vita più serena»65.

5. Milano Due

L’ingresso, venendo da nord, è una piccola rotonda erbosa un po’ spellacchiata, da cui si protendono tre lampioni curvilinei, di colore rosso, alti una decina di metri. Al centro delle due corsie di ingresso il cartello “Milano Due”. Sulla destra l’analogo cartello con la scritta “Milano” barrata di rosso, su cui la manina di qualche tifoso di calcio deve aver cancellato la vocale finale, così si legge “Milan”, come la squadra di proprietà del presidente. In realtà non esisterebbe nessun confine amministrativo, sia di qua che di là è sempre Comune di Segrate. La prospettiva è un lungo viale in leggera discesa, tra filari di abeti e condomini rossastri, con ai lati un doppio sentiero leggermente rialzato, mattoncini e lastre, pedoni da un lato, biciclette dall’altro, come accuratamente segnalato da un altro cartello. All’orizzonte si intravedono dei ponti. È questa la strada centrale, indicata sulle mappe come “Strada di spina Milano Due”, che io percorro arrivando in autobus e che molti abitanti del posto transitano in automobile, ribassata di un paio di metri rispetto al resto del complesso. La rete dei percorsi pedonali e ciclabili non la attraversa a livello, ma tramite una serie di ponti. La percorribilità pedonale del quartiere era uno degli aspetti su cui la campagna promozionale degli anni Settanta insisteva di più, con implicazioni al tempo stesso ecologiche e di lifestyle. «La rivincita sulle auto», «Milano Due: operazione aria pulita». La separazione dei percorsi pedonali e veicolari era

65 S. D’Anna, G. Moncalvo, Berlusconi in concert, 1994, p. 112

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ovviamente presentata come una soluzione rivoluzionaria, profondamente innovativa. Nessuno ci aveva mai pensato prima: «Milano Due è il primo esempio di città dotata di un triplice sistema stradale completamente differenziato»66. Quella della specializzazione funzionale dello spazio stradale era in realtà da molto tempo un tema non solo ricorrente, ma persino banale del dibattito urbanistico. Milano Due ne fa un’operazione sistematica e vagamente spettacolarizzata, come si conviene alla volgarizzazione di una soluzione che, ormai slegata da alcuna ricerca disciplinare, serve soprattutto a costruire un’immagine di qualità, una nuance di apprezzabile decoro67. Ho l’impressione che questa chiave di lettura sarà una costante nella mia breve osservazione – diciamo etnografica – di questa cittadella.

Ai lati della strada di spina, a ogni scalinata che la collega coi percorsi ciclo-pedonali, accurati cartelli segnalano le residenze e i negozi e le attività sociali che si trovano nei pressi. Ci sono molte panchine, qualche cabina telefonica, genere ormai diventato vintage per i progressi della telefonia mobile, ma qui ancora tenuta in perfetto stato, e poi delle mappe nello stile delle mappe comunali che nelle grandi città servono a indirizzare il turista disorientato. Ringhiere, lampioni, pali, cancelli del quartiere sono tutti di un tipico e compatto colore rosso, marchio cromatico di identificazione del quartiere, come una silenziosa linea di demarcazione tra ciò che è dentro e ciò che è fuori. La fluidificazione e soprattutto canalizzazione dei percorsi per veicoli motorizzati avviene attraverso rotonde e strade che innervano il quartiere come vene sottopelle, fino ai garages posti sotto i palazzi residenziali, sotto i complessi di uffici, sotto i prati da cui capita, all’improvviso, di vedere aprirsi delle grandi prese d’aria. Un semiotico si soffermerebbe a riflettere sul fatto che ogni percorso narrativo viene esplicitato, si tratta di un ipercodifica, come avrebbe detto

66 Aa. Vv, Milano 2: una città per vivere, 1976, p. 4467 F. De Pieri, P. Scrivano, Milano 2, abitare nel marchio, in “Il Manifesto”, 14 luglio 2001

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Eco trent’anni fa, vale a dire la predisposizione di sceneggiature e di istruzioni per l’uso, in questo caso relativamente ai luoghi, come del resto si confà a un posto creato avendo bene in mente valori sia utopici sia pratici. Più prosaicamente, mi viene in mente un vecchio monologo comico di Beppe Grillo, prima della sua trasformazione in guru della contestazione politica. Raccontava di una volta che era stato a Milano Due: «Tutto ordinato, pulito, perfetto… Entri e c’è un laghetto con un cartello con su scritto “laghetto”, poi trovi un ponticello e c’è scritto “ponticello”. Poi dici: “Mica mi stanno prendendo per il culo?”, e c’è un cartello che dice “Si, ti stiamo prendendo per il culo”»68.

Secondo i promotori dell’operazione Milano Due, a beneficiare della separazione tra i sistemi di circolazione e di mille altri dettagli strutturali dovevano essere soprattutto i bambini. «Una città per i bambini», «A scuola da soli», «Il diritto di giocare». Promesse mantenute, a quanto pare. In un quartiere chiuso, e senza il pericolo dell’attraversamento stradale, accadeva spesso che i bambini fossero autorizzati a uscire di casa da soli. Una delle loro mete doveva essere sicuramente il parco giochi. Lo visito è scopro che molto è cambiato. Il fortino degli indiani, si dice, è bruciato. Del ranch dei cowboys, del laghetto, della pompa di benzina non restano più molte tracce. Ho negli occhi le fotografie, molto animate, pubblicate sul volume promozionale della Edilnord del 1976. Ora gli stessi luoghi mi sembrano irriconoscibili. Il fatto è che Milano Due sta invecchiando. Nel corso della mia visita incontrerò pochi bambini. Forse, per effetto del suo stesso successo, il quartiere ha conosciuto poco ricambio di popolazione. Un destino paradossale per un luogo in cui lo spazio dei bambini costituiva una sorta di surrogato dello spazio pubblico e in cui asili, scuole, parchi gioco erano forse i veri servizi offerti ai residenti69. Sulle 68 B. Grillo, Tutto il Grillo che conta: dodici anni di monologhi, polemiche, censure, 2006, p. 16069 F. De Pieri, P. Scrivano, Milano 2, abitare nel marchio, in “Il Manifesto”, 14 luglio 2001

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giostre oggi non c’è nessuno. In compenso, si presenta ai miei ricordi la trama agghiacciante di un breve racconto scritto da J. C. Ballard nel 1988, tradotto in italiano col titolo Un gioco da bambini. Da parte dello scrittore inglese, una delle critiche più destabilizzanti ai progetti architettonici che vagheggiavano di utopie urbane. La storia è quella di un elegante e raffinato complesso residenziale ad ovest di Londra dove, nonostante i dispositivi di sicurezza, le telecamere, le mura di cinta, viene commessa una terribile strage. Tutti gli abitanti adulti del residence vengono uccisi. Nessuno vuole crederci, ma alla fine si scoprirà che gli assassini sono i figli dei residenti, i quali «si sentivano imprigionati per sempre in un universo perfetto»70. L’omicidio di quei genitori che avevano realizzato per loro quella utopia residenziale non rappresentava l’atto di fondazione di una setta o un gesto rituale, ma la semplice eliminazione dell’ultimo ostacolo da rimuovere per conquistare la propria identità.

Ovviamente quella di Ballard è solo un’iperbolica metafora e il mio un pensiero probabilmente fuori luogo. Nulla di sanguinoso o di efferato è mai accaduto a Milano Due nei suoi oltre trent’anni di esistenza. Anzi essa mi appare come un mondo in cui la criminalità è stata sconfitta, non c’è neanche un angolo dove si spaccia droga, la disoccupazione è una parola sconosciuta, l’inquinamento atmosferico non è percepito. Impressione chiaramente superficiale. Eppure è vero che in tutti questi anni di vita e un paio di generazioni la mappa di questo luogo non ha lasciato fuori – come quasi sempre capita – buchi, zone grigie, aree marginali che si siano trasformate in luoghi anomici, ovvero quei luoghi che fatalmente finiscono per aprire le porte al terribile antisoggetto di tutte le città e i centri residenziali contemporanei: il degrado, l’insicurezza, infine la paura. La quale, respinta fuori dalla porta grazie al meccanismo della costruzione di un mondo perfetto, può sempre rientrare dalla finestra. Niente di tutto questo, almeno in maniera eclatante, a Milano Due. I bambini della cittadella

70 J. G. Ballard, Un gioco da bambini, 2007, p. 60

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berlusconiana sono cresciuti benissimo, a quanto pare. Uno di questi è Andrea M., 24 anni, con lui ho appuntamento sulla scalinata davanti lo Sporting Club, autentica istituzione della vita sociale di quartiere. Andrea vive a Milano 2 da quando aveva due anni. «Sono nato a Milano, ma siccome mio padre ha sempre rivolto moltissime attenzioni nei miei confronti, in primis riguardanti il benessere, per potermi far crescere in un ambiente con aria salubre, con tanto verde e con poco traffico e pericoli, ci siamo trasferiti qui». Ancora adesso vive coi genitori, lavora in un’azienda di componenti elettronici, con il suo stipendio di mille euro al mese sarebbe difficile trovarsi un appartamento da solo, men che meno a Milano Due. «Questo è sempre stato un posto esclusivo e riservato, un residence d’elite… secondo me qui chiunque si troverebbe immerso in un paradiso, e come puoi ben immaginare in paradiso solitamente ci si sta da dio». Da piccolo ci stava benissimo, le scuole, le giostre, i prati, gli amici, le partite di calcetto. Arrivato all’adolescenza, mi dice, Milano Due invece comincia a stare stretta. «Quando avevo 14, 15 anni, volevo cominciare a spostarmi altrove, per i giri a Milano o paesi limitrofi, ma a quell’età o hai un motorino per uscire da solo, oppure devi chiamare un taxi ma costa troppo, altrimenti gli autobus sono pochi, e alle 23 e 30 finiscono le corse… uscire fuori la sera diventava difficile». Il fatto è che avere pochi collegamenti coi mezzi pubblici faceva parte del gioco, era un prezzo da pagare all’esclusività. «Milano Due è nato per essere e rimanere un residence esclusivo, e questo significa per poche persone. Per esempio, esisteva un progetto per prolungare la linea della metropolitana dal centro fino a Milano Due, ma sono state fatte proteste e alla fine non è stato realizzato. C’erano dei progetti per aprire pub, cinema, locali di tendenza, ma sono stati tutti contestati in quanto sarebbero stati dei mezzi di attrazione delle masse… e come sai, spesso e volentieri, purtroppo, le masse di turisti, arrivano, consumano, sporcano e poi se ne tornano a casa, violando la tranquillità del posto». Andrea non gira più tanto per Milano Due, ormai la sua vita sociale si è spostata altrove, a Milano città. Gli chiedo se frequenta lo Sporting Club, che mi

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sembra ancora un punto di ritrovo per la comunità. Dice che è vero, mi ha dato appuntamento qui anche perché è uno dei posti centrali del quartiere, ma lui ha smesso di frequentarlo. Una retta di 3.000 euro l’anno gli sembrava esagerata per una palestra. «Ma anche una retta così esageratamente alta è fatta apposta, affinché non sia una cosa accessibile a tutti». Gli chiedo se ci sono stati, a suo avviso, dei cambiamenti nel corso degli anni rispetto alle abitudini di chi vive nel quartiere e al tipo di gente che ci abita. Se, insomma, Milano Due può ancora vantarsi di essere quel paradiso di esclusività. «Purtroppo no. Quando ero piccolo, Milano Due era un posto d’elite, frequentato ed abitato solo da signori con la esse maiuscola. Gente benestante, raffinata, dai bei modi, altamente cordiale. Con il passare degli anni, e con l’aumento del benessere, a Milano Due è venuto ad abitare anche chi prima non se lo poteva permettere. E soprattutto sono venute ad abitare moltissime coppie giovani della nuova generazione. Queste nuovi abitanti non hanno nulla a che vedere con lo spirito originale di Milano Due. Spesso si tratta di persone molto arroganti, cafone, altezzose. I classici “macellai arricchiti”, lontani anni luce dai veri signori di Milano Due che purtroppo stanno via via scomparendo con il passare degli anni». Non esiste più la Milano Due di una volta, insomma. Significativo che a dirmelo sia proprio un ex bambino di Milano Due, un ragazzo cresciuto qui, fiero di questo quartiere “esclusivo” e, mi pare di capire, anche di chi l’ha creato. «Guarda che ancora oggi, quando parlo con qualcuno e dico che abito a Milano Due, loro si tirano giù il cappello».

L’effetto di chiusura comunque funziona. Una volta entrati a Milano Due non si percepisce il mondo esterno. Gli alberi, molto cresciuti, conferiscono buona consistenza al trattamento paesaggistico. Le case sono orientate verso l’interno del quartiere, e raramente verso l’esterno, verso Milano o la vicina Segrate. In giro poca gente, tranne nell’area degli uffici, ma le persone che incrocio sembrano avere un’aria molto più rilassata, perfino sorridente,

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rispetto agli abitanti che incrocio nella vicina e caotica Milano. Le strade sono pulite e silenziose. E sembra quasi di camminare in un plastico (passatemi l’affermazione anche se è chiaro che nessuno può mai aver camminato in un plastico). Non incutono timore nemmeno i sorveglianti che vigilano, per conto del complesso condominiale o delle aziende private che hanno sede lì, sulla tranquillità del quartiere. Praticamente una specie di utopia. Mi viene il sospetto che anche a questo posto possa applicarsi il concetto di città espresso da Michel Foucault, la chimera della città perfetta che suddivide gli spazi, affida ad ognuno il suo compito, e ha utopicamente come fine quello di analizzare e trovare uno spazio, stabilito e disciplinato, per la persona71. Non è forse questo un caso di eterotopia pianificata, un’enclave di eccezione che bilancia la parte dominante della città? Gli edifici di Milano Due non sono stati costruiti né troppo alti, né destinati esclusivamente a singole famiglie. Ogni edificio è circondato da una zona verde, destinata a restare tale per tutto l’anno grazie alla messa a dimora di incongrui alberi sempreverdi di montagna. Gli edifici stessi sono costruiti con mattoni di un rassicurante colore marrone, per differenziarli dall’ultramoderno cemento bianco, associato al fallimento di altri progetti edilizi nella zona di Milano. Gli edifici non sono propriamente “belli”. Si possono riconoscere nelle costruzioni alcuni elementi e soluzioni linguistiche prese a prestito da alcune ricerche architettoniche di punta di quegli anni, specialmente da quelle che più si erano poste, in area lombarda, il problema di elaborare soluzioni per una committenza “borghese”. In parte l’originalità di Milano Due è stata “inventata” come componente chiave del mito berlusconiano. Ad esempio, il quartiere di Milano San Felice, anch’esso nella zona di Segrate, fu costruito ed occupato prima di Milano Due ed è sicuramente da qui che Berlusconi e i suoi collaboratori presero alcune idee. Ma in questo caso tutto si gioca su un piano diverso, che non è più quello dell’architettura “alta” o della coerenza linguistica dell’oggetto: si tratta piuttosto di

71 S. Parker, Teoria ed esperienza urbana, 2006, p. 205

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un’edilizia speculativa che incorpora nel progetto elementi eterogenei ma riconoscibili, già entrati in qualche modo in un immaginario condiviso72. «I colori sono quelli della città, di quando la città non era stata mangiata dal fumo delle macchine e delle ciminiere» scrive Natalia Aspesi sul volume della Edilnord, poco dopo aver accostato una «Milano 1 per trovarsi al centro di tutto» a una «Milano 2 per ritrovare se stessi»73.Un indizio significativo è che mentre le architetture di Milano Due non erano “firmate”, ma ufficialmente affidata all’ufficio tecnico Edilnord, la campagna per la vendita degli alloggi giocava in compenso con forza sulla corporate identity, sulla partecipazione al progetto di aziende i cui nomi e i cui marchi fossero riconoscibili, come garanzia di qualità: Max Meyer e Louis de Poortere, B Ticino e Saint Gobain.

Le residenze in cui è diviso il quartiere hanno un’onomastica rassicurante, a metà tra lo zodiacale e il paesaggistico, nomi come Acquario, Andromeda, Archi, Betulle, Cedri, Fontanile, Orione, Mestieri, Poggio, Ponti, Sassi, Spiga. In totale fanno 28 residenze, ciascuna con propria portineria. Mi colpisce la perfetta manutenzione del luogo, nella tenuta dei giardini, nell’ordine di caseggiati e viali, negli accessori come cestini e segnaletica griffati col marchio del Biscione e ancora ben conservati. Una caratteristica del Berlusconi costruttore era proprio quella di non “uscire” dalla propria città, ma rimanervi come “gestore dei servizi” (attrezzature sportive, alberghi, etc.). Un paragone che, facendo le dovute tare, viene in mente è quello con le utopie urbanistiche di ispirazione totalitarista: il demiurgo costruttore continua a seguire e accudire gli abitanti della sua comunità per il resto della loro vita. Mai come in questo caso ciò è stato raggiunto, si potrebbe pensare: il Cavaliere si inventa costruttore di città, ma anche fornitore di spettacoli per i suoi abitanti, editore

72 F. De Pieri, P. Scrivano, Milano 2, abitare nel marchio, in “Il Manifesto”, 14 luglio 200173 Aa. Vv, Milano 2: una città per vivere, 1976, pp. 32-33

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delle riviste e dei libri che possono leggere, assicuratore per le loro polizze, impresario per le loro televisioni e i cinema, proprietario della squadra di calcio vincente per cui fare il tifo, infine leader del partito di maggioranza relativa e comandante in capo del loro (e di tutti gli altri) governo.

Nel parlare con chi abita a Milano Due colpisce la percezione di un senso di radicamento, sia pure problematico. La strategia di “creazione di un luogo” e di organizzazione della domanda che era al centro della campagna promozionale degli anni Settanta alla fine ha funzionato. Mi perdo nell’intrico di viali, non distinguo più una residenza dall’altra, una fontana da un posacenere, una persona da un’insegna. Mi fermo al Centro Civico, un edificio a un piano dove sono concentrare alcune funzioni pubbliche comunali: la biblioteca, il ritrovo degli studenti, alcune associazioni. Tra queste c’è l’Associazione Residenti. Approfitto dell’ora di apertura al pubblico per chiedere qualche informazione. Non è difficile avvicinare Pierpaolo C., perché il locale dell’Associazione è vuoto. Essendo alla vigilia di un ponte festivo si prevedono poche visite. Lo affianco mentre spolvera scaffali e recupera vecchi documenti. Mi spiega che l’Associazione Residenti conta solo qualche centinaio di iscritti, spesso persone anziane o di mezza età. Organizzano attività ludiche e ricreative ma fanno anche da tramite per lamentele e problemi rispetto al Comitato di Circondario o allo stesso Comune. Gli chiedo di lui. È pensionato, lavorava nel settore del marketing aziendale. Vive a Milano Due dal 1994. Prima ha vissuto molti anni a Roma, per lavoro. Qui si trova bene, «non cambierei mai», «è come vivere in campagna». Il fatto che a Milano Due «c’è un turnover di abitanti inferiore ad altri quartieri» ne sarebbe la dimostrazione. Ciò che è cambiato negli anni, mi spiega Pierpaolo, è che «Milano Due non fa paese», molti negozi chiudono, non sa dire con che criterio un commerciante assennato potrebbe venire ad aprire un negozio da queste parti, oggi come oggi. Resiste un nutrito panorama di associazioni e volontariato. «Ci sono molte associazioni. C’è la parrocchia che organizza anche incontri

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e concerti, c’è lo Sporting Club. C’è la maratona della Stramilano2 a primavera, sull’onda della Stramilano originale, la festa dell’uva in autunno, i mercatini dell’usato. C’è un discreto campionato di calcio. Poi ogni estate, una volta l’anno, organizziamo la musica in piazza, chiamiamo quei gruppi di un tempo, degli anni Sessanta, che piacciono a noi che abbiamo quell’età». La sicurezza, un tempo prerogativa degli abitanti del quartiere, comincia ad essere un problema. Osservando i primi piani delle case è facile notare grate alle finestre e cassettine di allarmi di ultima generazione. La presenza di un esiguo numero di sorveglianti (i “verdoni”, così chiamati per la caratteristica divisa verde) non è riuscita a tenere lontana la paura degli “zingari” e dei “ladri” neppure a Segrate. Che tipo di reati si verificano a Milano Due? «Nella maggiorparte dei casi si tratta di furti di automobili, poi c’è qualche scippo, qualche furto in appartamento. Da un paio d’anni però si verificano alcuni atti di delinquenza più grossi, risultano dei furti in appartamento di notte, mentre i proprietari stessi dormivano in casa, addirittura qualche rapina a mano armata nei negozi». Il sindaco di Segrate sostiene che i reati commessi nel quartiere, per numero e per tipologia, siano inferiori a quelli di altre aree. Secondo Pierpaolo il sindaco tutto sommato ha ragione. È chiaro che i ladri siano invogliati a venire a rubare nelle case della zona più benestante. Aggiungiamoci poi che qui ci si sente come abitanti di un piccolo centro, quindi il vissuto è maggiore, le voci si spargono, spesso si ingigantiscono. «Occhio, però. Non pensare che Milano Due sia un ghetto per ricchi. Guarda che anche qui ci sono degli operai, degli immigrati, forse anche dei poveri».

Scorrendo alcuni dati pubblicati nel dicembre 2008 in un’inchiesta del settimanale L’Espresso, si scopre che su 6.204 residenti di Milano Due, si contano 350 dirigenti, 184 imprenditori, 150 ingegneri, altrettanti medici, 700 ricchi pensionati e un solo eroico muratore. Si scopre anche che molti starebbero vendendo le loro case per trasferirsi in zone dove si possono avere gli stessi servizi ma a costi più contenuti. “Fuga da Milano Due” si intitolava il pezzo, e in

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effetti era piuttosto pessimista. A quanto era scritto, le agenzie immobiliari devono fare i salti mortali per riuscire a piazzare su un mercato fermo da anni edifici che dopo tre decenni hanno bisogno di ristrutturazioni e che comunque costano, solo di spese condominiali, più di 3.000 euro l’anno. Dal 1991 ad oggi, infatti, la popolazione di Milano Due è calata di 1.048 unità e il fenomeno è in continua progressione. È pure vero che la popolazione media invecchia e molti figli lasciano le case dei genitori per andare a vivere altrove. In difficoltà sono proprio le coppie di giovani, che non possono permettersi case come quelle dove sono cresciuti e abbandonano il villaggio dove sono nati. Resistono gli affitti a medio termine, soprattutto a dirigenti di aziende estere che pagano 750 euro al mese per un bilocale. «Ma anche gli stranieri sono in calo – si lamentava, intervistata, la titolare di un’agenzia immobiliare – perché per un trilocale ormai vecchiotto devono pagare 1700 euro al mese più le spese. E anche loro hanno capito che è più conveniente spostarsi in altre zone». L’Espresso puntava il dito anche sull’allarme sicurezza. Dalla vicina stazione dei carabinieri contano 30 furti in appartamento all’anno, altrettanti colpi tentati, qualche rapina, 20 scippi e numerosi furti d’auto. Addirittura, massima sirena d’allarme, le signore si sarebbero organizzate per accompagnare a turno i figli a scuola, «perché a mandarli soli non si sa mai»74.

Mentre sto per congedarmi dall’Associazione Residenti arriva Roberto C., signore anziano ma dall’aria battagliera che, per prima cosa, si tiene a sincerarsi che non sia un giornalista. Non faccio nemmeno in tempo a citarglielo che mi dice che è ancora infuriato per quell’articolo dell’Espresso di un anno fa, «Milano Due non è l’inferno descritto in quel pezzo, chiaramente scritto per ragioni di attacco politico». Dice che non è per la crisi economica che non c’è ricambio nel quartiere, è che quelli che vivono qui spesso stanno bene e non se ne vogliono andare, ma da un

74 G. D’Imporzano, 2009 Fuga da Milano Due, in “L’Espresso”, 5 dicembre 2009

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paio d’anni stanno rientrando famiglie giovani e con figli che comprano appartamenti. Appurate le mie intenzioni di ricerca e non bellicose comincia a parlare con me. Roberto C. non è un semplice residente, ma un autentico veterano di Milano Due. Abita qui dal 1972, agente di commercio in pensione, fa parte anche lui dell’Associazione Residenti, inoltre è vice presidente del Comitato di Comprensorio. Mi illustra le funzioni di questo Comitato, che a quanto pare svolge le funzioni di una specie di proconsolato della cittadella rispetto all’autorità comunale di Segrate. Mi spiega che esiste un Amministratore di Comprensorio, una specie di mini-sindaco, coadiuvato da un comitato di nove persone. Ogni anno si svolge un’assemblea generale per il rinnovo delle cariche. Inoltre, all’interno del quartiere, ogni residenza ha il suo custode, più le guardie interne (12 dipendono dal Comprensorio, altre sono delle aziende private). «Una specie di autogestione, insomma». I rapporti con il Comune sono ottimi, «l’attuale sindaco di Segrate, eletto con Forza Italia, è pure un residente storico di Milano Due». Mi rivela che, indicativamente, il budget del Comprensorio è così ripartito: 40% per il verde, 40% per la vigilanza, 20% per le spese generali. Un budget cospicuo, faccio notare, con quello che costano le spese condominiali. Risponde che non devo dare retta a tutti quelli che si lamentano delle spese condominiali troppo alte, a conti fatti si paga il giusto rispetto ai servizi offerti. Mi pare di intravedere gli eterni scenari da baruffe condominiali e lotte all’ultimo sangue sui decimi catastali, terreno da sempre minato. Una volta fu lo stesso Berlusconi a ricordare di quando nella sua Milano Due fu il legislatore delle spese condominiali, «quindi un’esperienza in cui mi sono formato proprio in trincea, sentendo da vicino la signora Maria o il commendatore Giuseppe che protestavano. Quando uno ha fatto la Bicamerale sembra ridicolo, però erano problemi»75. Secondo Roberto, il vero problema di Milano Due oggi sono il traffico e i parcheggi. Ma come, non era la città senza auto? Il fatto, mi spiega, è che il numero dei possessori di auto è aumentato. E c’è chi

75 P. Guzzanti, Guzzanti vs Berlusconi, 2009, pp. 117-118

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teme anche l’avvio di nuovi progetti edificatori nei terreni circostanti rimasti vuoti. Allo stesso tempo bisogna fare i conti con presenze ingombranti, come quella del mega-ospedale San Raffaele, la casa di cura dove un prete attivissimo, don Verzè, dice che l'immortalità terrena non sarà peccato76, nel frattempo macinando sempre nuovi lotti di terreno, e che pure fu provvidenziale per ottenere, negli anni Settanta e con buoni agganci politici lo spostamento delle rotte dei fastidiosi aerei in decollo da Linate77.

La storia di Roberto è la storia di una di quelle circa duemila famiglie (poche provenienti da Milano, molte da fuori) che nel corso degli anni Settanta hanno decretato il successo di una delle operazioni immobiliari più spettacolari dell’hinterland milanese. È la storia della scelta di andare a vivere in un luogo capace di offrire servizi e qualità dell’abitare che non sembrava possibile trovare altrove, a Milano e dintorni. «Nel ‘72 mi sono fidato, quando sono venuto a vedere era tutto desolato, c’era solo una residenza e un plastico di come sarebbe dovuto essere tutto. Era una scommessa venire a vivere qui. Ma dovevo sbrigarmi, le case andavano via velocemente, c’erano liste di attesa lunghissime. Alla fine ha deciso mia moglie, sì in effetti aveva ragione Berlusconi con la sua teoria di marketing. A quei tempi c’era ancora lui in persona che girava per il quartiere, salutava i clienti, dava ordini. Ho potuto personalizzarmi l’appartamento, scegliere arredi e disposizione come dicevo io, questa era una cosa che mi piaceva molto. E, alla fine, devo dire che Milano Due è venuta sù proprio come stava in quel plastico». Vorrei dirgli che anche a me sembrava poco fa di camminare in un plastico, ma invece gli chiedo se anche lui ha notato dei cambiamenti negli abitanti e nella comunità di Milano Due, col passare degli anni. Mi dice che quando arrivò qui con la famiglia erano contenti, perché dava l’impressione di un paese. Anche negli aspetti potenzialmente negativi: un

76 S. Rossini, Sono il bisturi di Dio. Intervista a don Luigi Verzé, in “L’Espresso”, 30 aprile 200477 A. Stille, Citizen Berlusconi, 2006, pp. 40-41

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posto dove ci si conosce tutti, e tutti credono di sapere tutto di tutti, con gli immancabili pettegolezzi. Ricorda le prime riunioni di comprensorio fatte al bar sotto i portici, oppure allo Sporting Club. Anche lui è preso dalla nostalgia del “pioniere”, dal non riconoscere più quelli che sono arrivati dopo e abbandonano i “valori fondanti” della comunità. Anche lui soffre della nostalgia per “la Milano Due di una volta”, in questo singolarmente accomunato al ragazzo poco più che ventenne incontrato prima. «Molti altri, specialmente i nuovi arrivati o quelli più giovani, non fanno vita di quartiere, non sentono la comunità. Usano il quartiere come un dormitorio. Questa per me è una cosa preoccupante: quando non ci saranno più questi comitati di residenti, questi vecchi dirigenti, che fine farà Milano Due? Non c’è una seconda leva. Molti si lamentano della troppa calma, ma io dico che anche in città la sera è lo stesso mortorio». Come per tutti i residenti di vecchia data, anche nella libreria di Roberto campeggia una copia del volume della Edilnord, Milano 2: una città per vivere. All’interno ci sono molte fotografie, di qualità diseguale (tra i fotografi compare anche Paolo Berlusconi). Testi che saccheggiano il gergo delle relazioni tecniche degli architetti e degli urbanisti. Occasionalmente, brevi inserti letterari firmati tra gli altri da Gianni Brera, Natalia Aspesi, Enzo Siciliano, Isa Vercelloni. Evidenzio l’ironia del destino di molte firme “di sinistra”, sicuramente avverse al sistema berlusconiano nei decenni successivi, che si sono ritrovate a tessere l’elogio dell’idea berlusconiana di Suburbia degli anni Settanta. Non potevano certo immaginare, mi dice, eppure quello che lui ha fatto era già allora sotto gli occhi di tutti. In bene, si intende. È irritato da quelli sono accecati dal pregiudizio politico, da quelli che quando sentono “vivo a Milano Due” subito ti guardano male perché odiano Berlusconi, come quelli che quando gli dici “sono di Latina” subito fanno la faccia brutta e pensano a Mussolini.

Una cosa è chiara: Milano Due non era solo un progetto residenziale, era una dichiarazione culturale. L’ha ben descritta il giornalista Alexander Stille: «In un’epoca in cui gli squatter occupavano le case come gesto di affermazione

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politica e in cui vi era una forte pressione sociale perché le persone si dissociassero da tutto ciò che era borghese, Milano Due era un’oasi di lusso e abbondanza all’americana, un mondo separato rispetto al centro di Milano, dove i cortei degli studenti di destra e di sinistra si scontravano e si lanciavano bottiglie molotov per le strade. Milano Due era un luogo dove un uomo poteva portare un rolex e una donna indossare una pelliccia senza timore né vergogna. Naturalmente il denaro più stagionato di Milano viveva ancora nella riservata eleganza dei palazzi del centro attorno a via Manzoni o nelle vecchie ville fuori città, ma Milano Due offriva una vita di consumismo esibizionista a una nuova classe di manager in ascesa, dirigenti di medio e alto livello, mediatori finanziari e pubblicitari. Nella cultura sinistrorsa dell’epoca, Milano Due rappresentava una sorta di contro-controcultura che anticipava la versione italiana del fenomeno “yuppie” degli anni Ottanta»78.

6. La tv e il Biscione che ti aspetta

Sotto i portici molte vetrine sono vuote da anni, colpa dell’apertura di alcuni supermercati, colpa dei prezzi più competitivi della vicina Milano, colpa della crisi e dei portafogli più leggeri, i generi che resistono maggiormente, a una veloce osservazione, sono parrucchieri e centri benessere e sportelli bancari. I rari negozi superstiti, a quanto pare, sono stati ribattezzati Cartier dalle “sciure” che preferiscono la vicina Esselunga per riempire i carrelli di offerte e fare la raccolta punti79. Proprio qui, in una di queste vetrine, vide la luce Telemilano, piccola televisione locale divenuta mano a mano nazionale. Negli anni Settanta uno dei servizi inclusi nell’acquisto di una casa a Milano Due era il collegamento a una televisione privata via cavo. Da principio, si trattò di una decisione di ordine estetico: si

78 A. Stille, Citizen Berlusconi, 2006, p. 3979 G. D’Imporzano, 2009 Fuga da Milano Due, in “L’Espresso”, 5 dicembre 2009

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voleva evitare il “pugno nell’occhio” causato dalla vista della selva di antenne individuali sui tetti dei palazzi. Viene in mente la singolare concordanza con Pasolini, che pure riservava sprezzanti ironie alla visione delle antenne sulle case degli italiani. Al tempo della costruzione del quartiere la televisione privata in Italia non esisteva ancora, ma non molto tempo dopo questa emittente locale avrebbe costituito la rampa di lancio per l’ingresso esplosivo di Berlusconi nel mercato televisivo. All’inizio furono appena 2600 i televisori collegati, quelli delle famiglie di Milano Due. Il canale trasmetteva informazioni sulla vita del quartiere, vecchi documentari, programmi realizzati per gli studenti delle scuole, rubriche di salute realizzate col vicino ospedale San Raffaele, trasmissioni indirizzate prevalentemente a un pubblico casalingo e femminile. Per Berlusconi offrire un canale tv ai suoi inquilini costituiva un valore aggiunto, un piacevole optional. Bisognava assecondare e investire sul sentimento del “vivere bene”, ormai diventato valore di vita a tutti gli effetti. Già da questo è possibile rintracciare le linee di fondo che guideranno la sua politica nel futuro. La tv è uno degli attrezzi del vivere bene, merce tra le merci, oggetto estraneo a qualsiasi processo educativo o divulgativo80. Racconterà Berlusconi che all’inizio il progetto era ancora più particolare: «A Milano Due è cominciata la televisione interna, per mettere in grado le mamme di potere seguire i propri ragazzi in tutte le situazioni. Da casa, con una televisione a circuito chiuso, nata appunto con l’intento di fare vedere la piscina, la palestra, il campo giochi, la scuola, era un servizio in più per una città modello, avanzata. Milano Due, per intenderci, ha anche il riscaldamento centralizzato, un’unica centrale garantisce il caldo a tutto il quartiere».81 Una tv, insomma, più per guardarsi che per guardare, nel vero senso del termine. Una vita televisiva che tende a farsi vita quotidiana. E poi anche viceversa, ma qui il discorso si farebbe più

80 V. Susca, Berlusconi il barbaro ovvero il primo tra gli ultimi, in A. Abruzzese, V. Susca, Tutto è Berlusconi, 2004, p. 5981 P. Guzzanti, Guzzanti vs Berlusconi, 2009, pp. 93-94

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complicato. «Ricordo che la prima annunciatrice era la mia vicina di casa» mi aveva raccontato Roberto, abitanti del quartiere fin dai primi tempi. Mi era sembrata, involontariamente, una metafora perfetta. I programmi televisivi visti come dei contenitori, e a essere contenuti siamo proprio noi, le nostre vite materiali e immateriali, le nostre pulsioni e i nostri desideri, consci e inconsci.

TeleMilano ebbe una partenza in sordina. Berlusconi all’inizio ne diventa socio di minoranza, per una decina di milioni di lire prende il 25%. Poi rileva tutto a una lira, debiti compresi82. L’impulso alla crescita fu dato da un’inaspettata decisione della Corte Costituzionale nel 1976: la televisione privata era legale, purché rimanesse nell’ambito locale. In assenza di una legislazione adeguata in proposito, fiorirono emittenti in tutta Italia e Berlusconi iniziò a costruire il suo impero mediatico. La sua strategia, come ha osservato Giuseppe Fiori nella biografia Il venditore, prevedeva quattro fasi tattiche connesse l’una all’altra. Prima fase: la pubblicità. Berlusconi creò speciali squadre di venditori. La sua televisione riuniva il mezzo, il messaggio e la centralità della vendita. Come ebbe a dire, «io non vendo spazi, vendo vendite». I profitti dell’azienda pubblicitaria di Berlusconi, Publitalia, aumentarono di 73 volte tra il 1980 e il 1984. La tv di Berlusconi «capovolse il nostro modo di guardare la tv. Invece di interpretarla come una serie di programmi con interruzioni pubblicitarie, Berlusconi considerava la televisione “libera” e “privata” come un vasto territorio per la pubblicità, uno straordinario veicolo di comunicazione commerciale»83. Seconda fase: i programmi, soprattutto giochi a quiz, telenovelas, telefilm americani e film, che spesso venivano cambiati secondo il volere degli sponsor. Lo spettacolo aveva la funzione di attrarre consumatori. Terza fase: le star, che cominciarono a comparire personalmente negli annunci pubblicitari. Quarta fase: la sede a Milano (il logo dell’azienda

82 P. Madron, Le gesta del Cavaliere, 1994, p. 3883 F. Colombo, Le tra stagioni, in “Problemi dell’informazione” n. 4, 1990, p. 590

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berlusconiana, il famoso Biscione, era un simbolo di Milano e della casa automobilistica Alfa Romeo), con la rapida estensione della copertura a tutto il Paese. TeleMilano iniziò a trasmettere via etere, fuori dalla cittadella originaria di Milano Due, nel 1978, in seguito all’installazione di un’antenna sul grattacielo Pirelli84. Nel 1980 prese il nome di Canale 5, primo tassello dell’impero Fininvest, poi Mediaset, scalando ascolti e fatturati, modificando il costume degli italiani, le loro abitudini e i loro consumi, il linguaggio e i loro sogni. Il negozietto sotto i portici di Milano Due era stato abbandonato da tempo. Berlusconi e il suo centro operativo milanese furono in grado di battere qualsiasi forma di concorrenza, per mezzo di una controversa legislazione e di importanti appoggi politici, come quello del Partito Socialista di Craxi allora al governo.

La logica vincente, immaginata e realizzata dal momento in cui Berlusconi si tramuta in costruttore non più di case e città ma di spettacoli e immaginari, sembra seguire quella logica che Walter Benjamin indicava come tipica dell’industria culturale. Il passaggio di ciò che era quantità in qualità. Lo sfruttamento accanito della voglia del popolo che ora si fa chiamare pubblico di intrattenersi, divertirsi, comprare. È il primo – decisivo – avvicinamento tra Berlusconi e l’immaginario collettivo italiano. Il feedback è palpabile, le sue tv sono amate e seguite. Non sono mosse da istinti pedagogici, non educano per forza gli spettatori, non ne censurano i desideri più profondi, non promuovono ideologie di Stato ma di mercato. Assecondano l’edonismo emergente della società italiana e il desiderio di spettacolo85. Berlusconi alimenta quindi il proprio successo economico insinuandosi nei luoghi, costruendoli e promuovendoli, lì dove la vita sociale si dispiega e prende una forma. La città di cemento prima, quella elettronica poi. Come ha scritto Alberto Abruzzese: «Ha edificato il suo

84 G. Fiori, Il venditore, 2004, pp. 91-9585 V. Susca, Berlusconi il barbaro ovvero il primo tra gli ultimi, in A. Abruzzese, V. Susca, Tutto è Berlusconi, 2004, pp. 61-62

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impero, speculando alacremente e abilmente sul mattone e sull’immagine cinetelevisiva. Sul più tradizionale strumento di costruzione del territorio fisico e sul più avanzato strumento di comunicazione immateriale di cui si serve la civiltà di massa. Due modi selvaggi di arricchire. Ma anche due forme dell’abitare. Dalla centralità della casa alla centralità della tv: è la storia della Prima Repubblica»86. È la costruzione di un popolo. Ciò, nonostante risulti chiaro che «l’impero di Sua Emittenza è fuorilegge», basato sull’aggiramento e la violazione delle regole87. Allo stesso tempo egli abbatte il tempo delle morigeratezze statali in favore di un edonismo privato e individualista. Ancora Abruzzese: «Le emittenti private, con vecchi film o rozze sceneggiate in studio, oroscopi o persino dibattiti politici, invadono la notte. Il tempo Rai è vinto. La città di Stato non regge la domanda di evasione. Il cittadino (anche se nella dimensione di avanguardia di massa) viene sequestrato al rapporto equilibrato tra tempo di lavoro e tempo libero. Gli spazi e gli orari tradizionali non bastano più»88.

«Torna a casa in tutta fretta, c’è un biscione che ti aspetta»: è pubblicizzata così la trasformazione di TeleMilano in Canale 5. È molto più di uno slogan di successo, è lo zeitgeist, lo spirito del tempo di un’Italia stanca, spaventata dalla vita pubblica e politica, attratta dal privato, dal ritorno in famiglia, dall’individualismo. I valori della neotelevisione – privata e soprattutto berlusconiana, metropolitana e certamente suburbana – erano espressione e contribuirono a creare gli anni edonisti del secondo boom degli anni Ottanta. Si tratta del periodo storico in cui l’ascesa dell’economia dell’immagine coincide con una profonda ristrutturazione del sistema produttivo. Aumenta la quota economica di terziario e servizi, vanno in crisi le grandi produzioni industriali, si moltiplicano le piccole imprese. L’abbandono della politica, il declino dai valori

86 A. Abruzzese, Elogio del tempo nuovo. Perché Berlusconi ha vinto, 1994, p. 5087 G. Fiori, Il venditore, 2004, p. 10588 A. Abruzzese, L’intelligenza del mondo, 2001, p. 121

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collettivi, il cosiddetto riflusso nel privato non erano altro che un riflesso. «I varietà, i telequiz, gli innumerevoli spot pubblicitari, le fasce orarie sponsorizzate e i telefilm importati sostituivano i vecchi punti di riferimento in declino: la chiesa, i partiti di sinistra, il movimento sindacale, i valori di parsimonia e sacrificio»89. Per altri versi, Carlo Freccero ha osservato: la tv commerciale veniva a dare un’identità alle periferie, che non trovavano risposta nelle grandi narrazioni politiche di allora. E ha aggiunto: in una Italia dominata dall’informazione e dalla politica il pubblico voleva divertirsi. Essere inizialmente privi di telegiornali era un elemento di forza, non di debolezza, di quelle televisioni90. Molti dei neoabitanti di Milano Due furono i protagonisti del boom finanza / pubblicità / moda degli anni Ottanta, quando Milano si scrollò di dosso la sua fosca immagine di città industriale. La cittadella di Segrate diventerà sede di molte aziende del gruppo economico berlusconiano, come Publitalia, e residenza di molti suoi dipendenti, comprese alcune star delle sue televisioni. Nel piccolo centro di produzione tv, proprio davanti al laghetto dei cigni, vengono ancora registrate due trasmissioni emblematiche del gruppo: il Tg4 di Emilio Fede e il varietà satirico Striscia la notizia di Antonio Ricci. Passeggiando per il quartiere inciampo in due ragazzini che tornano da scuola. Indicano col dito lo studio a vetrata all'angolo della strada e sorridono. Dentro c’è Emilio Fede e una segretaria che gli spalma del cerone sulla faccia.

In quei luccicanti anni Ottanta Marco B. è un ragazzino adolescente che staziona davanti gli studi di Canale 5, a Milano Due: ogni giorno vede entrare e uscire personaggi televisivi ed inizia a fermarli per conoscerli, affascinato da quel mondo. Oggi è un professionista 34enne, a Milano Due ci lavora con la sua agenzia di management artistico e organizzazione eventi e ci è anche venuto a vivere,

89 S. Gundle, S. Parker, The New Italian Republic, 1996, cit. in J. Foot, Milano dopo il miracolo. Biografia di una città, 2001, p. 12290 G. Crainz, Autobiografia di una Repubblica, 2009, p. 134

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comprandosi un appartamento con la sua fidanzata. Lo incontro nel suo ufficio, open space da creativo ma non troppo disordinato, televisore acceso su un programma pomeridiano di Canale 5 dove l’onorevole Alessandra Mussolini sbatte per terra un giornale e strepita che lei coi video hard non c’entra niente. Chiedo a Marco da dove viene questa attrazione per Milano Due. «Da ragazzino vivevo a Milano città eppure già mi piaceva frequentare questo posto. All’età di tredici/quattordici anni avevo una comitiva di amici e il nostro punto di ritrovo era proprio il laghetto dei cigni». Conta molto, mi sembra, la prospettiva del sogno: il sogno degli anni Ottanta, il sogno della tv e della carriera, il sogno di un eden sereno e benestante. «Milano Due è stata davvero di moda per qualche anno, ora si è normalizzata, in un certo senso già appartiene al passato. Sebbene un passato ottimamente mantenuto. L’allure borghese, la classe della Milano da bere degli anni Ottanta, la tv e la pubblicità rampante, quello era il mondo di riferimento di Milano Due, quel mondo che io guardavo con desiderio già da ragazzino». Marco dice di aver scelto di venire a vivere qui perché puoi avere tutto a portata di mano, perché c’è silenzio e tranquillità, perché se dovesse avere un figlio c’è un ambiente sicuro in cui farlo crescere. Le stesse caratteristiche per cui molte persone, soprattutto giovani, odiano Milano Due. C’è troppa calma, dicono. Io ho vissuto abbastanza nel caos del centro città, dice Marco, per apprezzare il contrario. Nonostante ciò lui non sta tutto il tempo dentro Milano Due. «Vado a Milano almeno due volte al giorno, per appuntamenti e pranzi di lavoro ma anche perché mi impongo di non farmi rinchiudere qui, di non assuefarmi. È facile fossilizzarsi qui. Specialmente per chi, come me, ha la casa e il lavoro a pochi metri di distanza». Mi ripete più volte questo concetto: «Per me Milano Due è una specie di Truman Show. Vivi una realtà che non si realizza altrove, è come stare in una bolla». Il problema è che Milano Due sta invecchiando, aggiunge. A quanto pare c’è una chiusura, un tappo generazionale anche qui. I prezzi troppo alti delle case impediscono ai figli della prima generazione, o a quelli che potrebbero esserlo, di riuscire a venire a vivere in questo quartiere. Come se

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non bastassero i prezzi del mercato immobiliare, solo adesso in leggero calo per la congiuntura economica, ci sono spese condominiali altissime. Mi rivela che con la sua fidanzata deve pagare circa 400 euro al mese per un appartamento di 100 metri quadri. Gli appartamenti poi sono tutti di taglio grande, pensati per le famiglie di un tempo, con due o tre figli. Poco adatti per un giovane single o una coppia. Insomma, è chiaro: «I giovani oggi non hanno accesso a Milano Due. Loro, i vecchi residenti, lo hanno bloccato». Marco racconta di essere l’unico giovane nella residenza dove abita. Si lamenta che è difficile farsi amici in questo quartiere, creare relazioni di vicinato, quando lui esce di casa la mattina spesso i vicini di palazzo nemmeno lo salutano. Resiste un certo congenito snobismo, l’idea di appartenere a una classe superiore, anche solo per il fatto di vivere qui. «Comunque da Milano Due sono usciti tanti ragazzi, nati e cresciuti qui, che ora sono in molti punti chiave della classe dirigente milanese. Io la chiamo la P2 di M2, passami il gioco di parole. In fondo quella di Milano Due è anche una lobby. Pensa che al piano di sopra c’era l’appartamento di Dell’Utri. La prima moglie di Paolo Berlusconi vive ancora qui. Lo stesso presidente, Silvio, possiede una torre di appartamenti qui, se li tiene per le diverse esigenze. Le veline di Striscia, nel loro contratto, hanno un appartamento garantito a Milano Due. Fede lavora qui e vive nella residenza a nord, vicino al San Raffaele. Ogni tanto capitava di vedere Vianello giocare sul campetto di calcio, in fondo la famosissima Casa Vianello del telefilm esiste nella realtà ed è domiciliata qui a Milano Due». È il mondo del sogno berlusconiano, pazientemente coltivato, butto lì. Si, mi risponde, ma fondamentalmente è un mondo invecchiato. «Quella che si trovava negli anni 80 era davvero una Milano rampante, “Milano da bere” come diceva la pubblicità, e qui si respirava davvero l’aria di un Truman Show di bella gente. La cosa è scemata. Oggi è un po’… bho, forse come Lugano». Come dimostrazione dei meccanismi sociali di Milano Due, si mette a spiegarmi come funziona lo Sporting Club, quello dove ci sono palestre, piscina, campi da calcio e da tennis, sauna, sala

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per giocare a burraco, insomma il vero fulcro del bon vivre del quartiere. Ovviamente, all’insegna della vera esclusività. Non basta iscriversi (pagando un abbonamento di circa 1.500 euro l’anno) ma occorre acquistare una quota, come una società per azioni, e le quote sono limitate e costano 5.000 euro cadauna. Nel tempo, dice, si è creato un commercio sottobanco di quote, a prezzi stratosferici, in un sistema un po’ opaco che a me ricorda quello delle licenze dei tassisti.

Marco mi racconta inoltre delle famiglie che vengono la domenica a stendere la tovaglia del picnic nel prato di fronte a casa sua, come se fosse un parco. Una scena che per un attimo mi evoca la ricerca della felicità, i consumatori che premono sulle mura del quartiere felice, che cercano l’invasione (ma il quartiere felice, sia chiaro, non concede permessi di soggiorno a nessuno, come lo Sporting Club). Milano Due, in fondo, attrae perché è glamour. Il glamour, per dirla con John Berger, non può esistere senza l’invidia sociale come emozione comune e diffusa. Lo scrittore inglese ha attirato l’attenzione su alcuni elementi che servono a farci capire la sottigliezza di questo album di paesaggi in apparenza così scontato, così fuori dal tempo, eppure di successo. La società industriale moderna si è avviata verso la democrazia, scrive, per poi fermarsi a metà strada. Il glamour – ovvero lo stile, la classe – scaturisce da questo: «la ricerca della felicità individuale è stata riconosciuta un diritto universale», tuttavia la nostra situazione è tale che gli individui si sentono impotenti91. In compenso, tutto ciò che ci circonda è improntato alla pubblicità. E la pubblicità è il processo di produzione del glamour. Spiega Berger: «La pubblicità parla di relazioni sociali, non di oggetti. La sua non è una promessa di piacere, ma di felicità. Felicità misurata dall’esterno, col metro di giudizio degli altri. La felicità di essere invidiati è glamour. Essere invidiati è una forma solitaria di rassicurazione»92. Ma è un sistema così ben

91 J. Berger, Questione di sguardi, 2007, pp. 133-15092 Ibidem, p. 134

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costruito, difficile da decifrare. «La pubblicità è, per sua natura, nostalgica. Deve vendere il passato al futuro. Da sé non è in grado di soddisfare gli standard che essa stessa pone. E di conseguenza tutti i suoi riferimenti alla qualità sono vincolati alla retrospettiva e al tradizionale. La pubblicità deve volgere a proprio vantaggio l’educazione dello spettatore-compratore medio. Riferimenti imprecisi o insignificanti non importa: non devono essere comprensibili, ma semplicemente rinviare a lezioni culturali imparate a metà»93. Rileggo le parole chiave: glamour, nostalgia, pubblicità. Colgo una provvisoria illuminazione: Milano Due come il Mulino Bianco di quel famoso spot degli anni Ottanta/Novanta con la famiglia di campagna che fa colazione felice. Idea patinata, posticcia e però indubbiamente efficace di un “ritorno alla natura”, di un felice rinchiudersi nei confini del proprio orto, della propria comunità. Forse Milano Due potrebbe collocarsi in una visione “di destra”, della media borghesia rampante e poco desiderosa di contaminazioni, in cerca di una “casa di campagna in città” e dunque addomesticata, con tutti i confort. E invece il Mulino Bianco in una visione “di sinistra”, di quella media borghesia pseudo-colta, disillusa dalla politica e in cerca di un’isola di introiezione per dimenticare, magari un casale in campagna o un agriturismo. Diceva ancora Berger, chiudendo il cerchio, che «la pubblicità trasforma il consumo in un surrogato di democrazia»94. Mi viene in mente che nel 1993, alla vigilia dell’entrata in politica di Berlusconi, in allegato al settimanale satirico Cuore, uscì una musicassetta intitolata Forza Italia, nella quale, oltre alle canzoni Voglia di Biscione e Ritmo politico, era presente un pezzo intitolato La vendetta del Mulino Bianco. Ne riporto una strofa, a mio avviso particolarmente significativa: «Il mio mulino non è proprio un mulino / sono due camere al Tiburtino / e al mattino io mi sveglio affranto / altro che biscotti mi ci vuole un trapianto / apro la finestra, senti che casino / sirene,

93 Ibidem, pp. 141-14294 Ibidem, p. 151

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grida e squilli di telefonino / le nove del mattino, sono così stanco / e questo non succede nel Mulino Bianco».

7. L’architetto di fiducia

L’architetto che ha progettato Milano Due vive e lavora ancora lì. Lo studio Ragazzi and Partners lo trovo sotto i portici della residenza Archi. Giancarlo Ragazzi, insieme col collega Enrico Hoffer, è il principale progettista del centro residenziale di Segrate e di tutte le altre imprese residenziali berlusconiane. È anche quello che per i mondiali di calcio del ’90 realizzò l’ampliamento dello stadio milanese di San Siro. L’ho contattato via email e lui si è detto subito disponibile per un’intervista. Devono essere ancora molti gli studenti che fanno ricerche o tesi su Milano Due, gli spiego che però io non provengo da una cattedra di architettura. «Lei quanti anni ha, ventisei? Vede, io quando ho progettato questa città di diecimila abitanti aveva appena trent’anni, così come i miei colleghi, così come lo stesso imprenditore Berlusconi. E abbiamo rischiato molto». Gli chiedo com’è nata l’idea di Milano Due, negli anni Sessanta. «Noi partivamo dall’idea secondo cui l’urbanistica del futuro sarebbe stata un’urbanistica che prevede sul territorio delle città policentriche. Quello che noi ci siamo detti all’epoca è che a Milano il concetto di città policentrica era già in nuce, cioè già esisteva, non era da inventare. Perché il territorio milanese era già molto armato, dal punto di vista delle infrastrutture, e anche presidiato da una serie di poli urbani stratificati nel tempo, già dotati di una loro identità, di un loro senso di appartenenza. E se io ho una comunità che non ha senso di appartenenza quella non è una comunità, è un qualche cosa di fluttuante, in cerca di un’identità». Il punto nodale lo mette subito in chiaro: in quell’epoca abitare in centro era da privilegiati e borghesi, abitare in periferia era da classe operaia o da straccioni. C’era grande fame di abitazioni e di speranze, ma non c’erano vie di mezzo, almeno nell’immaginario popolare. «Noi abbiamo detto: ma se rompiamo col cliché di sviluppo, di saturazione degli isolati,

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nella griglia urbana tradizionale… evidentemente si poteva fare qualche cosa che non si poteva realizzare all’interno della città storica, ormai saturata nelle sue parti, e questo discorso ha portato all’invenzione di un’alternativa alla griglia urbana fatta di isole». Si mette a disegnare su un foglio. Mi spiega il reticolato urbano, il modello tradizionale di strade e isolati, la soluzione del modello a penisola, con i percorsi pedonali separati, la strada di spina centrale, i ponti di sovrapposizione, il modello insomma tanto vantato da Milano Due. Ma da dove arrivava l’ispirazione, c’erano dei modelli architettonici cui rifarsi? A leggere il libro promozionale della Edilnord si legge di un pantheon di riferimenti piuttosto eclettico. Si parla dei Neighbourdhood Unity nelle new town inglesi, delle Superquadra di Brasilia, delle unità di vicinato francesi e dei Grand Ensembles, e perfino dei Superblocchi sovietici. Pare di leggere il primo manifesto dei valori di Forza Italia, che prendeva riferimenti politici a destra e a manca, da Einaudi a don Sturzo, da Cattaneo a Gioberti, da Craxi a Reagan. «Innanzitutto sfatiamo questo mito delle new town. Cioè noi le new town le abbiamo studiate, abbiamo capito che cosa era stata la loro idea, da Ebenezer Howard a tutti gli altri, siamo andati a vederle, ma abbiamo pensato che era una battaglia persa in partenza. Nel senso che queste città non avevano un’anima, un’identità forte, e quindi avrebbero fatalmente fatto perno di nuovo per le possibilità di lavoro su Londra, sulla downtown, vanificando praticamente il discorso di decentramento. Non era quello che faceva per noi. È maturato così nella nostra testa il concetto che la città madre è fondamentale. In questo telaio di città policentrica, abbiamo detto, c’è spazio anche per dei poli minori, che possono fare da filtro per quelle esigenze che normalmente gravitavano come risposta sul centro della città madre, provocando naturalmente tutte le conseguenze non volute di intasamento, di sovraffollamento durante il periodo diurno, e scarsa risposta in termini di servizi… Perché questo succedeva: periferie parassitarie che intasavano città senza più spazi liberi. Tant’è che poi succedeva che la gente non trovava posto nelle scuole, negli asili nido, nei servizi…». Chiedo se già all’epoca non

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ci fosse un fenomeno di fuga dalla città da parte delle classi borghesi medio-alte, a cui il loro progetto si rivolgeva. «Assolutamente no. All’epoca venire ad abitare in periferia voleva dire una caduta di status symbol, non era assolutamente ricercata. Infatti noi abbiamo rischiato molto con questa proposta di Milano Due, perché nessuno era intenzionato ad abitare fuori».

O forse l’idea dello status symbol suburbano già c’era, bastava solo sapere annusare l’aria, saperla cogliere. «In questo Berlusconi è stato bravissimo. Lui era un giovane imprenditore con una certa propensione al rischio, cercava qualcosa di diverso, qualcosa che potesse rappresentare la sua consacrazione. Io lo conobbi proprio quando lui vendette uno dei suoi primi appartamenti a mio fratello, e io gli raccontai un po’ di mie idee sulla città… Ecco, si decise di puntare tutto su segmenti di mercato che mai avrebbero pensato di abitare fuori città, con delle proposte concentrate su alcuni elementi chiave: il recupero di spazi ampi, il verde, la sicurezza… il tutto presentato come una grande, grandissima conquista». Sull’architettura di Milano Due i commenti dell’epoca non furono molto generosi. Spulciando vecchie pubblicazioni d’architettura ho ritrovato opinioni, come quella di Vercelloni, che tracciano un elogio del quartiere, definendolo come un progetto innovativo e osservando finanche influenze di Le Corbusier95, oppure mi sono imbattuto in vari commenti sprezzanti o critiche affilate, come quella di Squarcina che parla di un quartiere concepito secondo la filosofia dell’autosegregazione96. Persino un biografo ufficiale di Berlusconi, in un libro del 1994 per il resto assai benevolo, non si trattiene da qualche commento dispregiativo e scrive che «di mattina per i vialetti deserti di Milano Due ci si sente soli, e vien da rimpiangere le voci e i rumori della metropoli»97. Ricorda Ragazzi: «Lei si immagina nel 1968, nel 1970, cosa era 95 V. Vercelloni, La storia del paesaggio urbano di Milano, 1988, p. 14396 A. Schiavi, E. Squarcina, M. Malvasi, Trasformazioni territoriali in contesto metropolitano. I casi di Settimo Milanese e di Segrate, 1999, p. 19297 P. Madron, Le gesta del Cavaliere, 1994, p. 22

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considerato criminale all’epoca. Era criminale essere un’impresa privata, era criminale lavorare con le banche, era criminale anche avere un supermercato con gli espropri proletari che facevano. Ricordo che anche la facoltà di Architettura era allo sbando: i professori non riuscivano a tenere le proprie lezioni. Alcuni architetti erano arrivati sulla soglia di abbandonare la professione, perché in una società come la nostra si sentivano al servizio del capitale, strumentalizzati. Quanto a noi, gli attacchi a livello locale erano amplificati dai media che ci avevo messo al centro dell’attenzione. Su Milano Due furono scritte numerose tesi, perlopiù fortemente critiche. Per non parlare di certi professionisti che tentavano di cercare eventuali scheletri nell’armadio per affondare la barca. Svariate commissioni d’inchiesta furono nominate dalle segreterie dei partiti. Insomma gli attacchi erano così numerosi che la mattina aprivamo i giornali per vedere cosa si diceva su di noi quel giorno». Ma col passare del tempo anche questo fu un test per stabilire che Milano Due non era un quartiere qualsiasi, ma una vera e propria comunità. «Anche oggi si verificano attacchi della stampa per motivi pressoché politici. Ebbene, guardi i vari giornali di quartiere, veda come di fronte a certi attacchi scatta per primi dagli stessi abitanti la reazione di difesa. Questo vuole dire che qui c’è un senso di appartenenza consolidato. In molti altri quartieri la gente rimarrebbe apatica, non gliene fregherebbe niente di una critica sul giornale».

Berlusconi, mi dice, era fissato con le rifiniture. «Non ho più lavorato con un committente. Era fissato per il verde, per il tipo di alberi da impiantare, per le rifiniture nelle case, per il mantenimento della qualità del tempo. Tutto doveva essere preciso, a posto. Appena un condominio era terminato, si procedeva a recintarlo con eleganti palizzate in legno che lo separavano dalle parti ancora in costruzione. Se nel corso del tempo Milano Due non è stata abbandonata dall’alta borghesia lo si deve anche al fatto che Berlusconi non ha abbandonato Milano Due. Ad esempio con la costante opera di manutenzione che prima era assicurata dalla Edilnord. Operazione dai costi

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contenuti ma molto efficace sul piano dell’immagine. Qui se un rubinetto perdeva, otto anni dopo, era ancora compito nostro aggiustarlo». C’era dialettica tra committente e architetti? «C’era un confronto continuo e lui comunque sapeva darci fiducia. Ricordo, per esempio, la fatica che facemmo per convincere Berlusconi ad abbandonare le tinte pastello usate nelle precedenti realizzazioni e ad optare per il rosso mattone e il marrone». Gli chiedo se l’auspicio di chi ha progettato Milano Due fosse quello di una gated community all’italiana, una cittadella in teoria autosufficiente, con le scuole, i servizi, i negozi, insomma un posto da cui un suo abitante potrebbe non uscire mai. «Ma noi non volevamo questo. Noi volevamo che ci fosse un rapporto con la città madre, e sarebbe stato anche assurdo pensare il contrario vista la vicinanza e il potere di attrazione di una città come Milano Qui noi abbiamo innestato anche un centro direzionale, un albergo, un centro televisivo, uno spazio congressi, apposta per favorire uno scambio con l’esterno. Per questo non ci piacevano le new town inglesi, con le loro cinture verdi di isolamento».

A distanza di quarant’anni dalla posa della prima pietra, se c’è qualcosa che a Milano Due funziona è la manutenzione. Ma si sa che in economia non esistono pasti gratis, e se c’è una cosa di cui quasi tutti i condomini si lamentano sono le spese troppo alte. Mi viene da dire a Ragazzi che è facile realizzare l’utopia di Milano Due perfettamente manutenuta per chi se la può permettere, sarebbe più difficile forse una Milano Due per ceti medio-bassi, una Milano Due di case popolari. «Questi sono temi sostanziali. I redattori di una rivista di architettura svedese un paio di anni fa vennero a intervistarmi perché volevano sapere come era stata organizzata la manutenzione di Milano Due. Facevano il confronto con altre new town come quelle che hanno loro, che sono molto degradate, e volevano capire cosa c’era di diverso nel nostro discorso. Ed è molto semplice. Noi partiamo da una situazione che è sotto gli occhi di tutti: l’ente pubblico non ha mai disponibilità economica per garantire un livello manutentivo delle parti pubbliche nel territorio. Per cui noi abbiamo dato il minimo

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di legge di attrezzature pubbliche da manutenere, e ci siamo invece accollati privatamente, attraverso il comprensorio pagato dai condomini, la manutenzione di aree che sono a destinazione pubblica, come parchi gioco, parcheggi, strade da asfaltare. Apparentemente qualcuno dice che c’è una valanga di spese condominiali. Ma non è del tutto vero, se spalmiamo il carico sui grandi numeri del quartiere e facciamo un raffronto coi servizi offerti. Qui abbiamo pensato pure a una vigilanza sempre attiva, che se uno rimane bloccato in ascensore il sabato sera, quando non c’è nessuno, viene ad aprire». Mi rimane il dubbio su dove vadano tutti gli abitanti di Milano Due il sabato sera, ma insisto sull’altro punto. Una Milano Due per i poveri, detto brutalmente, non sarebbe possibile? «Allora, lei deve sapere che Milano Due ha pressoché un terzo degli abitanti che sono cosiddetti “poveri”. Al tempo della costruzione del quartiere fu fatta una promozione di lancio, cosicché le parti centrali furono vendute a prezzi d’occasione, quasi da case popolari, e vennero via subito. Il mio appartamento, quarant’anni fa, costava 30 milioni, e certo adesso si è rivalutato molto. La famiglia di nostri dirimpettai invece erano operai, lavoravano qui alla Rizzoli, e sono ancora lì adesso, non hanno abbandonato. Quando poi i figli crescono è la città madre che diventa il punto di riferimento, ovvio. Ma senza i contenuti non si può fare qualcosa di attrattivo. Le faccio un esempio. Quando, tre o quattro anni fa, realizzai un progetto per un eventuale piano casa di Milano, il primo criterio fu: guai a creare dei ghetti. Chi può arrivare al massimo a permettersi una casa con un investimento di 300mila euro deve essere inserito, come nella città storica, nello stesso edificio, nello stesso contesto. Bisogna mischiare le varie famiglie, eliminare le ghettizzazioni di ali o quartieri tutti di case popolari o convenzionate, trovare degli innesti mirati. A un certo punto, all’epoca, quando eravamo pieni di velleità giovanili, protestammo per questa cosa. Dicevamo: come mai nella legge 167 per le case popolari c’è la proibizione assoluta per i privati di realizzare qualsiasi iniziativa? Così si creano ghetti, di poveri o di ricchi che siano. Ma è vero adesso abbiamo una problematica che allora non avevano ancora

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per la testa, cioè quella dell’integrazione multietnica, e qui la situazione si fa più difficile».

Ragazzi mi fa l’esempio della chiesa del quartiere. «Noi realizzammo una chiesa pluriconfessionale, ma non è mica partita. Perché ognuno difende il suo orto, gli islamici la loro moschea, che sta qui vicino a Segrate e ogni tanto finisce sui giornali, i cattolici la loro chiesa. Si, ci sono rapporti di collaborazione però noi pensavamo fosse possibile qualcosa di più. Se lei va nella chiesa di Milano Due vedrà che ci sono pareti per creare spazi modulabili di preghiera, pluriconfessionali, d’altronde allora eravamo anche in una situazione di post-concilio ecumenico che favoriva questo tipo di interpretazione. Però adesso qualcosa è cambiato, sono un po’ tutti quanti sulla difensiva. Per esempio prima non appariva il simbolo della croce fuori dalla chiesa, non a casa la chiesa era dedicata a Dio Padre, non c’erano santi, proprio per cercare di fare un unico luogo di partecipazione religiosa, mentre il sacerdote attuale ha insistito per metterla a tutti i costi, e ben visibile». La croce fuori la chiesa, oltre che simbolo di una riscossa identitarista, sembra suggerire anche altro: la comunità, una volta ambientata, imprime il suo segno sul luogo, lo adatta alle sue esigenze, anche al di là delle intenzioni. «Sicuramente si è creata una comunità, che ha anche imparato ad autogestirsi, per esempio con il Comitato di Comprensorio eccetera. Se lei pensa ad alcuni dettagli che allora erano novità, come la stazione tv via cavo, oppure il teleriscaldamento centralizzato. Qui vede il concetto di identificazione del prodotto, cosa su cui noi puntavamo. Guardi questa mappa dall’alto della nostra zona… qui vede la città che si sfalda, perde la sua maglia di isolati man mano che va verso l’esterno. Noi volevamo qualcosa di fortemente identificativo. Il contrario di certa architettura ideologica dell’epoca. Noi abbiamo fatto l’anti-Corviale. Cioè la suddivisione in nuclei da 100 famiglie, a loro volta suddivisi in 3 o 4 edifici che formavano un’identità ambientale di appartenenza, anche rispetto alle aree circostanti. L’importante è che ci sia l’identificazione». L’architetto mi racconta che la prima percezione

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dell’esistenza di un “mondo esterno” a Milano Due la hanno gli studenti delle scuole medie del quartiere, comunali e non private, con l’arrivo di una popolazione studentesca più diversificata. «Non è un ghetto per ricchi, come molti dicono». La composizione sociale inevitabilmente è cambiata, molti negozi hanno chiuso, le giovani famiglie con figli sono diventate coppie di anziani, ma a suo avviso la situazione demografica si sta riequilibrando. È vero che i prezzi sono ancora alti, poco accessibili, «evidentemente è ancora un posto molto ambito». Nella sua attività di politico ha citato più volte l’esempio di Milano Due: non dimenticatevi che sono stato capace di costruire dal nulla una città di diecimila abitanti che ancora funziona, gli abbiamo sentito dire più volte. Nel 2002 fu lo stesso Berlusconi, da capo di governo, a chiamare l’architetto Ragazzi («il suo architetto di fiducia» scrissero i giornali) per progettare una piccola cittadella da costruire a San Giuliano di Puglia, paese distrutto da un terremoto98. I giornali dell’epoca parlarono di una “San Giuliano Due”, allo stesso modo in cui etichettarono come “L’Aquila Due” i progetti di ricostruzione a base di new town lanciati sempre dal premier Berlusconi dopo il terremoto abruzzese del 200999. Si arrivò perfino a vagheggiare di un piano edilizio a base di una specie di Milano Due in ogni capoluogo di provincia100. «Eh no, qui non sono d’accordo» ribatte Ragazzi. «Ci vuole una collocazione nel territorio, un’interpretazione del contesto. Bisogna sapere come collocarsi in base alle caratteristiche geografiche e sociali di un sito. Milano Due è molto milanese. Non si può prenderla e portarla così com’è a L’Aquila o altrove».

Se negli anni Ottanta Milano Due rappresentava l’immagine di una Milano rampante, del sogno berlusconiano ricco e televisivo, che immagine ha la Milano Due di oggi? «Un modo di abitare tranquillo, normale e al tempo stesso 98 R. Bagnoli, L’architetto amico che progettò Milano 2: il premier mi ha chiamato, ci sto lavorando, in “Corriere della sera”, 4 novembre 200299 Aa. Vv., Berlusconi: “Tre mie case per gli sfollati”, in www.corriere.it100 G. Rondinelli, Riparte il piano case. “Faremo le new town”, in “Il Tempo”, 24 gennaio 2009

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eccezionale. Il palcoscenico non è garanzia di un’opera di qualità, bisogna che la costruiscano gli attori. Però il palcoscenico conta e qui l’abbiamo realizzato bene. Abbiamo centrato il prodotto». Come vede Milano Due tra altri trent’anni? «Dipende da vari fattori. In primis dalla mobilità del lavoro, dall’instabilità che porta un sistema di mercato del lavoro che si gioca su un territorio più ampio. Inoltre c’è il problema della sicurezza, che oggi è percepito con molta più apprensione. Poi sarà molto importante l’evoluzione del concetto di famiglia. Però bisogna dire che i nostri appartamenti qui sono modulari, flessibili, possono essere ridisegnati e nuovamente suddivisi». Dovesse progettarla oggi come la disegnerebbe? «Sarebbe diverso, anche nel tipo di utenza. Bisognerebbe capire che cosa sono in grado di dare gli attuali insediamenti, quelli che portano nella downtown di Milano una massa enorme di potenziali utenti. Se questa massa enorme non trova soddisfazione, ritornerebbe d’attualità quello che abbiamo proposto quarant’anni fa, un modello opposto a quello superconcentrato…». Mentre ci salutiamo l’architetto Ragazzi insiste per mostrarmi una cartina del mondo del National Geographic, su cui con dei grafici a barre altissime è spiegato l’aumento della popolazione mondiale nelle grandi città, specialmente in Asia, da qui al 2050. Questa è la mia ossessione mi dice, come se tutto quello di cui finora avevamo parlato non contasse più, è un fenomeno inarrestabile, lei ci deve meditare, anche io su questo ci sto sbattendo la testa.

8. Spot elettorali

Per pranzo vado nel sushi bar appena inaugurato, con visione del laghetto dei cigni dalla vetrata. Marco, il giovane agente di comunicazione, mi aveva accennato ai “cinesi di Milano Due”, un vero business-case di successo: gestiscono ristoranti, comprano case e locali nel quartiere, fanno ottimi affari. Ora è tutto un via-vai di signore che si congratulano e personale Publitalia in pausa pranzo. Al centro della piazza una specie di obelisco, opera dello

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scultore Filippo Panseca, celebra il primo decennale della città, con una frase scolpita alla base: «A perenne ricordo della costruzione di Milano Due, Silvio Berlusconi pose». Provo a immaginarmi, su quella stessa piazzetta, in una sera umida dell’estate del 1979, Mike Bongiorno e il Cavalier Berlusconi, in piedi su una cassetta di legno, che arringano una folla di pubblicitari e amministratori delegati101. Bongiorno, ingaggiato con un contratto d’oro, fu la prima star televisiva a lasciare la televisione di Stato. Colui che aveva lanciato il successo della tv in Italia, “unificando il Paese più di Garibaldi” disse qualcuno, svolse ancora un ruolo fondamentale nel passaggio al nuovo sistema, aderendo entusiasticamente al primato della pubblicità. Anche lui rimase stregato da Milano Due, come racconterà nella sua biografia. Lo vide quando era ancora in costruzione e subito nella sua rubrica sulla Domenica del Corriere scrisse di questo «modernissimo quartiere» con «architetti lungimiranti» e con la sua «piccola tv via cavo al servizio della comunità di cittadini»102.

Nei sotterranei poco illuminati del Jolly Hotel c’è ancora, con un enorme tavolo a ferro di cavallo, la sala Botticelli, dove si tennero le prime riunioni in gran riserbo sulla nascita di Forza Italia, reclutatori e agenti Publitalia ogni settimana a rapporto da Marcello Dell’Utri103. Qui dentro, all’inizio degli anni Novanta, si è studiato e perfezionato il modo di estrarre da quei sogni degli italiani finora plasmati dalla tv un elettorato. Da quell’elettorato un partito. Da quel partito un potere. Da quel potere la sua sopravvivenza. Da quella sopravvivenza il suo trionfo. Dopo la Città dei Numeri Uno, dopo la Televisione che vende consumi, ecco che nasce Forza Italia, poi infine Popolo delle Libertà. Berlusconi entrò ufficialmente in politica agli inizi del 1994, coi vecchi partiti della Prima Repubblica spazzati via dagli scandali della corruzione, coi suoi interessi da difendere. “Scese in campo” con un filmato trasmesso da varie reti

101 M. Bongiorno, La versione di Mike, 2007, p. 271102 Ibidem, p. 258103 P. Madron, Le gesta del Cavaliere, 1994, p. 213

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televisive in cui prometteva “un nuovo miracolo italiano”, guidò il suo partito con uno stile manageriale e manipolò il suo messaggio per adattare e modificare l’opinione pubblica104. Come hanno scritto Alberto De Bernardi e Luigi Ganapini, il successo di Berlusconi come uomo politico era anche il riflesso di una serie di cambiamenti epocali nella società italiana e di norme culturali «in virtù delle quali il manager-imprenditore si presenta come modello idealizzato di guida e la società civile è concepita come un insieme di soggetti atomizzati, non più divisi da discriminanti di classe e portatori di interessi e valori conflittuali, ma omogeneizzati dal consumo»105. Nella scalata al potere politico Berlusconi fece un uso specifico della sua immagine legata a Milano, e naturalmente anche dei suoi vanti da costruttore di città ideali. Negli opuscoli elettorali sulla vita del Cavaliere – dallo stile rigorosamente agiografico, sorprendentemente simili a quelli di vent’anni addietro delle Edilnord che pubblicizzavano gli appartamenti di Milano Due – si legge di «un nuovo modo di concepire la città, il sogno di Berlusconi urbanista». Accanto a una luminosa foto aerea del quartiere Milano Tre si trova una didascalia alquanto evocativa: «Qui un tempo c’era una palude». Nel maggio 2009, in una prefazione a una riedizione di questi opuscoli allegati a Libero, il giornalista Vittorio Feltri, all’epoca direttore di quel quotidiano, se ne esce con una formula perfetta, che potrebbe essere ironica se non fosse che è serissima: «Dopo Milano Due, ora la grande scommessa si chiama Italia Due»106.

Mi sono segnato una definizione di Milano Due opera di Michele Serra: «Lustra e asettica, funzionale e smemorata, comoda e post-italiana»107. Che comunque l’operazione Milano Due, intesa non soltanto come speculazione immobiliare ma come “creazione di un luogo”, sia riuscita appare evidente. Oggi il quartiere è anche dotato dei suoi

104 J. Foot, Milano dopo il miracolo. Biografia di una città, 2001, p. 122105 A. De Bernardi, E. Ganapini, Storia d’Italia 1860-1995, 1996, p 511106 Aa. VV. Berlusconi tale e quale, 2009107 M. Serra, L’Amaca, in “La Repubblica”, 5 novembre 2002

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strumenti di comunicazione: da un lato c’è Milano 2 Notizie, il mensile dell’Associazione Residenti, pieno di informazioni e lamentele sulla vita concreta delle residenze; dall’altro lato è molto frequentato, in particolare da giovani, il gruppo web di Facebook su Milano Due, invece pieno di nostalgici amarcord di quando i bambini andavano da soli a scuola, le mamme facevano la spesa sotto casa, ovunque c’erano biciclette a disposizione dei residenti, nel bar dei Portici era facile incontrare personaggi famosi ecc. In molti si sono in qualche modo riconosciuti nel quartiere, forse soprattutto grazie al potente collante costituito da una quasi totale assenza di differenziazione sociale. Il sindaco di Segrate, Alessandro Alessandrini, giunta di centrodestra, è anche un residente della prima ora e, intervistato sul blog della parrocchia, dice di vedere il futuro, oltre che il presente, di Milano Due assolutamente roseo: «Il quartiere in questi anni si è saputo preservare in maniera straordinaria. Il suo bello, però, è che non si è mai chiuso a riccio, ma è sempre stato aperto alle novità anche grazie alla sua vicinanza a Milano. Rispetto ai tempi d’oro del fortino qualche cambiamento in peggio c’è stato. Il traffico, per esempio, è aumentato. Ma sono aumentati anche i servizi. Soprattutto quelli pubblici. Parlo del Centro civico e degli spazi ricavati per le associazioni. Oggi, poi, stiamo assistendo a un ripopolamento che ha portato a un aumento del numero dei bambini piccoli. In tanti fuggono da Milano e approdano qui. Come biasimarli! Sapete qual è la caratteristica doc di Milano due? Che ha mantenuto le fattezze di un paese. Le persone si conoscono tra di loro, si salutano sulle scale e si incontrano fuori. Non solo i ragazzi formano compagnie, anche gli adulti e gli anziani, aiutandosi a vicenda»108. Altrettanto positivo (come potrebbe essere altrimenti?) è il bilancio del creatore del quartiere, Silvio Berlusconi: «Credo che Milano Due sia venuta fuori praticamente senza difetti. Tutta la gente che ha preso appartamenti lì è stata felicissima di viverli, pochissimi hanno lasciato, pochissimi appartamenti sono in vendita, il prezzo è sempre stato tale da aver fatto fare un

108 A. Ferrari, Milano Due, che futuro?, in www.parrocchiadiopadre.it

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grandissimo affare a chi ha optato per l’acquisto, i figli sono venuti su molto bene e si sono allontanati da Milano Due soltanto quando sono arrivati a un livello di scuola che lì non era presente»109. Emblematico un suo discorso del 1989 ai giovani appena usciti da un master nelle sue aziende, con modalità comunicative che abbiamo imparato a conoscere: «Quando sono giù di morale, mi metto le mani in tasca e la mattina vado a passeggiare a Milano 2. Ricordo quante persone avevo contro: li avevo contro tutti, ma proprio tutti. C’era la macchina politica e burocratica perfetta per impedire, per proibire, per ritardare, per ostacolare. C’erano i Pretori comunisti, la Prefettura, i sindacalisti, i Verdi di allora, la signora Bonomi Bolchini, i giornali della Rizzoli, quelli degli aerei con le loro rotte di decollo e di atterraggio e il frastuono dei motori. Nonostante tutto questo, nonostante l’efficienza di questa macchina che avevo contro, sono riuscito a costruire una città di diecimila abitanti. È stato difficile, ma senza abnegazione non si può fare nulla. Bisogna mettercela proprio tutta»110.

Non tutti gli abitanti di Milano Due si sono in seguito riconosciuti nelle scelte politiche di Berlusconi, né si sono tutti sentiti “milanesi alla seconda”. Ma il ricordo che conservano di Milano Due rimane spesso positivo: positivo come può essere il vivere in una società apparentemente priva di contrasti e differenze. Certo, non è un american-style garden suburb, come ha scritto The Economist. Non è neppure uno spazio rigidamente chiuso e protetto, una gated community all’italiana, come tante se ne stanno diffondendo pure nel nostro Paese in questo inizio di millennio. Come hanno scritto De Pieri e Scrivano in un’inchiesta sul Manifesto, ciò che differenzia Milano Due, che rende questo luogo a suo modo paradigmatico, è il salto di scala dell’intera operazione, non soltanto quella edilizia e immobiliare. Milano Due è il simbolo di una strategia di comunicazione in cui le scelte architettoniche e progettuali

109 P. Guzzanti, Guzzanti vs Berlusconi, 2009, p. 89110 S. D’Anna, G. Moncalvo, Berlusconi in concert, 1994, p. 316

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risultano soltanto la parte di un tutto e i cui tempi sono enormemente dilatati111. Lasciandomi alle spalle Milano Due mi ripeto che è importante capire attraverso quali strade il potere, politico ed economico, tenta di costruire oggi le sue forme di legittimazione, di appiattire e sopire i possibili contrasti sociali e ideologici.

9. Lo Strapaese al governo

Se la metropoli è stata il medium principale, nonché la metafora più efficace dell’esperienza moderna, e se la televisione ne ha rilanciato la potenza comunicativa nella fase tardo-moderna, allora la new town berlusconiana dove si colloca? Sicuramente sulla stessa linea dell’urbanistica anti-urbana all’italiana, lungo lo stesso sentiero su cui abbiamo trovato i borghi littori del Duce e le lucciole scomparse di Pasolini, il canto della via Gluck di Celentano e l’ideologia pubblicitaria del Mulino Bianco. A ogni tappa, però sempre alzando la posta. Fino ad arrivare lì dove i processi di smaterializzazione e mediatizzazione del territorio a opera dello sviluppo tecnologico si sono spinti a lacerare ogni trama della modernità. Là dove a “fare società” non è più né il cittadino né il telespettatore ma il consumatore individuale. Come abbiamo visto, Berlusconi col suo sogno di Suburbia coglie i passaggi dell’immaginario collettivo italiano, insinuandosi nei luoghi, nei territori. Il passaggio dalla centralità della casa alla centralità della tv, dalla città di mattoni alla città elettronica (sebbene ancora pre-internet). Poi il passaggio dalla città di Stato alla città privata, dalla città sociale alla città individuale. La tv aveva iniziato già da anni a splendere nei reticoli abitativi delle città, dei paesi e delle prime periferie urbane d’Italia, l’altro passaggio decisivo, quello dalla socializzazione della piazza alla socializzazione offerta dalla tv era già avvenuto. Sebbene a costo di uno scontro tra interessi corporativi, capitali culturali ma anche

111 F. De Pieri, P. Scrivano, Milano 2, abitare nel marchio, in “Il Manifesto”, 14 luglio 2001

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generazioni. Come scrive Vincenzo Susca «le culture della piazza – che sono anche quelle del libro e dei conflitti fisici, dell’autorità e del popolo, della religione e dell’arte – non hanno mai cessato di resistere alle culture dei media»112. Le mura delle città e delle case si fanno limiti valicabili attraverso i viaggi concessi dalle nuove dimore mediatiche. In fondo, le origini della televisione, prima dei colori, prima del bianco e nero, erano già inscritte nella storia della metropoli ottocentesca, dei suoi linguaggi, del suo “vissuto”. Basta citare Simmel: «La base psicologica su cui si erge il tipo delle individualità metropolitane è l’intensificazione della vita nervosa, che è prodotta dal rapido e ininterrotto avvicendarsi di impressioni esteriori e interiori»113. Difatti, nella seconda metà del Novecento, lo schermo televisivo si salda direttamente all’immaginario collettivo nel momento in cui si apre allo «spettacolo del consumo»114. Come avevano fatto le Grandi Esposizioni Universali nell’Ottocento, la televisione mette in vetrina costumi, merci e sogni collettivi, consente all’uomo qualunque di sapere tutto di tutti, di vivere «oltre il senso del luogo»115. Così, nell’eterno Strapaese italiano, si può ragionevolmente arrivare ad affermare che «la vera esperienza metropolitana, in Italia, l’immaginario collettivo la consuma e produce attraverso la televisione»116. In tutto ciò serviva qualcuno che facesse saltare le vecchie serrature. Per questo Berlusconi, emerso tra strati sociali resi già omogenei dalla sensibilità televisiva, è apparso – già parecchio tempo prima della sua formale entrata in politica – un “liberatore” per alcuni e un “invasore” per altri. Anche perché «ha fatto da catalizzatore di una socializzazione incompiuta, di un processo di modernizzazione che in Italia non ha reso possibile il

112 V. Susca, Berlusconi il barbaro ovvero il primo tra gli ultimi, in A. Abruzzese, V. Susca, Tutto è Berlusconi, 2004, p. 33113 G. Simmel, La metropoli e la vita dello spirito, 2001, p. 36114 M. Morcellini, Lo spettacolo del consumo. Televisione e cultura di massa nella legittimazione sociale, 1986115 J. Meyrowitz, Oltre il senso del luogo. L’impatto dei media elettronici sul comportamento sociale, 1995116 A. Abruzzese, L’intelligenza del mondo, 2001, p. 226

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trapasso da una società pre-televisiva a una società televisiva»117.

Cosa c’è quindi di urbano nella televisione e nella cultura di massa che presumibilmente ha veicolato? La questione è complicata. Naturalmente la cultura di massa è sempre stata in un certo senso moderna, e le città italiane hanno man mano costituito dei centri naturali di industrializzazione, consumo e modernità. Tuttavia il mosaico urbano e il mutevole panorama cittadino non si riflettevano nelle prime emissioni televisive, nel castigato bianco e nero della prima Rai di Stato, che invece si limitava a programmi educativi, rappresentazioni teatrali, telequiz girati negli studi o in provincia. Quella provincia che – territorialmente, e non solo – costituiva (e costituisce) buona parte del Paese. L’elemento “urbano” che stiamo cercando era un’entità molto più effimera, più ideologica che concreta, più mitica che reale. I “tipici valori urbani” menzionati da John Foot rispecchiavano il cambiamento di ideali introdotto dal boom economico del secondo dopoguerra, ma in modo appena percettibile. Legando lo sviluppo dei media a quello della formazione delle “comunità immaginate” nazionali. Più tardi la tv privata, la tv di Berlusconi, è stata “americana” in un modo molto più evidente di prima. In un crogiolo di eccessi urbani, glamour e consumismo, fece della “modernità” una virtù118. Una modernità, però, sempre ancora a valori e decori tradizionali, a rassicuranti ancoraggi paesani, come l’ossimoro delle “case di campagna in città” di Milano Due ci insegna. Una convivenza tutta italiana di ipermodernità e nostalgia.

Così non si può sottovalutare Milano Due, ennesima incarnazione, perfino gradevole e riuscita, dello Strapaese italiano, pure nella sua versione americaneggiante. Forse, come ha scritto recentemente L’Unità, «bisognerebbe scomodare il Gran Lombardo, la Brianza trascolorata del

117 Ibidem, p. 34118 J. Foot, Milano dopo il miracolo. Biografia di una città, 2001, p. 126

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Maradogal – provincia sudamericana creata, tra barocco e grottesco, dalla penna dell’ingegner Carlo Emilio Gadda – per comprendere il successo di Milano Due. Sopra le villette, l’aspirazione alla tranquillità, sotto “l’orrido garbuglio”, i pasticci, la solitudine dell’hidalgo-ingegnere Putibutirro»119. Assistiamo, per dirla con Silverstone, alla «suburbanizzazione della sfera pubblica», una dimensione che mette in gioco molto ambiti: la sfera politica, la sfera collettiva, i mezzi di comunicazione, lo stile di vita. L’ambiente del suburbio «mette in luce la qualità peculiare della cultura moderna negando la tradizionale differenza tra natura e cultura, fondendole». E la televisione, sempre lei, si adatta perfettamente alla realtà suburbana. Fino alla politica: «la politica nei sobborghi, e dei sobborghi, è ancora prevalentemente una politica casalinga di interessi privati, conformismo ed esclusione condotta all’interno di strutture politiche che sono, in genere, scarsamente riconosciute e tantomeno contestate»120. Non a caso il successo edilizio di Milano Due non è centrato tanto sullo scenario metropolitano bensì su quello suburbano. Ha ragione il sociologo Aldo Bonomi quando dice che l’anima di Berlusconi, ora che è diventato leader dello schieramento politico di centrodestra e capo del governo, va ricercata in quella “città infinita” del Settentrione, rappresentata dal territorio lombardo e oltre, dove il modello è il capannone, la casa con giardino e garage e l’immancabile nanetto di Biancaneve. «Basta aver percorso l’autostrada Torino-Trieste per capire i punti di riferimento dei nuovi soggetti. Il paesaggio è dato dai capannoni attorniati da villette con i nanetti nel giardino e la Bmw nel garage sotto casa. Questo è il modello. Il vero simbolo del berlusconismo non è la televisione, ma è il capannone e la villetta con i nanetti nel giardino. Ecco l’anima profonda del berlusconismo»121. Come sosteneva Tommaso Labranca in un suo volumetto di qualche anno fa sull’estetica del 119 J. Bufalini, Decoro borghese ossessione milanese, in “L’Unità”, 17 settembre 2009120 R. Silverstone, Televisione e vita quotidiana, 2000, pp. 90-134121 A. Bonomi, Il chiunque e la moltitudine, in A. Abruzzese, V. Susca, Tutto è Berlusconi, 2004, p. 247

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pecoreccio italiano, «non possiamo non dirci brianzoli»122, perché la Brianza è prima di tutto un luogo dell’anima, ebbene, forse parte di questa «comunità immaginaria brianzola» si è formata grazie (anche) a Berlusconi e al suo “corpo elettronico”, tradizionale e moderno al tempo stesso123.

«Agli architetti italiani dell’epoca non piaceva – ha spiegato, intervistato dall’Unità, Fulvio Irace, storico dell’architettura al Politecnico di Milano – quell’idea neoconservatrice di anti-città. I laghetti, la chiesa, il centro sportivo, la selezione forte dei gruppi sociali e non la condivisione che si crea in un quartiere urbano». È l’ideale del sobborgo americano dove il capofamiglia la sera si rifugia e, chiudendo la porta, si lascia alle spalle lo stress, il traffico, ma anche la vitalità, i rumori, le attività del mondo urbano. E trova la moglie ad aspettarlo, con i bambini stanchi ma felici. L’idea di Milano Due e Milano Tre è esattamente la stessa, secondo Irace, «solo che Berlusconi la interpreta a un livello più popolare, ma progettata da buoni architetti»124. Un’incarnazione, tra tante, del sogno borghese. Ma pure un’espressione azzeccata della mutazione dei tempi, della capacità di sentire l’aria che tira. Quando alcuni ricercatori dell’università di Los Angeles iniziarono nell’anno 1968 ad intervistare le matricole, gli studenti indicarono l’«acquisire una filosofia di vita» come la priorità numero uno della propria istruzione, mentre «ottenere un buon posto di lavoro e fare soldi» si trova sul fondo della classifica. Nei venticinque anni seguenti quei valori furono letteralmente invertiti: «fare soldi» schizzò in vetta e «acquisire una filosofia di vita» sprofondò negli abissi della classifica. Inoltre i ricercatori furono sorpresi dalla scoperta di una forte

122 T. Labranca, Estasi del pecoreccio, 1995123 F. Boni, Il superleader. Fenomenologia mediatica di Silvio Berlusconi, 2008, pp. 43-45124 J. Bufalini, Decoro borghese ossessione milanese, in “L’Unità”, 17 settembre 2009

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correlazione tra la quantità di televisione che gli studenti guardavano e l’espressione di priorità materialistiche125.

Un errore da evitare nell’avvicinarsi a Milano Due è quello di considerare Silvio Berlusconi e il quartiere da lui costruito come due sinonimi. Una trappola in cui cade sia la letteratura di segno beatificante, come certi opuscoli elettorali o biografie accomodanti, sia la letteratura di segno decisamente opposto, che riduce il tutto a una «scandalosa speculazione finanziaria» di un «palazzinaro coperto da prestanome e coi capitali di anonime finanziarie svizzere»126. La questione è più banale e più complicata al tempo stesso.

Certamente c’è qualcosa che richiama l’ideologia politica del berlusconismo, ma anche del leghismo degli ultimi anni. Innanzitutto il non vergognarsi più del proprio decoro borghese, il non dissimulare più quel sentimento di diffidenza che fa alzare gli steccati. Riemerge così la dicotomia tra fuori e dentro, tra amici e nemici. Come nel discorso politico: da una parte si propone l’immagine di una società omogenea, coesa, sostanzialmente pacificata, dove non esistono conflitti né di classe né di interessi, con una sfera pubblico-sociale anestetizzata; dall’altro lato si propaganda una visione della politica come combattimento contro estranei o nemici, come energia che emana da un popolo in rapporto diretto col suo leader, senza intrusioni di poteri terzi127. Ma non basta. Certamente c’è il collegamento complesso con la retorica anti-urbana e le creazioni di città e borghi nel ventennio fascista, in un contesto del tutto diverso ma con la simile ambizione di voler assecondare la propaganda e plasmare nuovi soggetti sociali attraverso la creazione di un territorio. Volendo azzardare un parallelo: lì uno Stato che si fa Impresa, qui un’Impresa che si fa Stato. Forse riassumibile nell’opinione che «a differenza di Mussolini, Berlusconi non ha mai

125 A. Stille, Citizen Berlusconi, 2006, p. 406126 G. Ruggeri, M. Guarino, Berlusconi. Inchiesta sul signor Tv, 1994127 C. Galli, Volontà di potenza, in “La Repubblica”, 17 ottobre 2009

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preteso di trasformare gli italiani, lui ha aderito agli italiani, e aderendo a noi ci ha cambiati più di quanto abbia potuto l’indottrinamento del regime»128. Ma ancora non basta. Certamente c’è il cerchio del pensiero antiurbano che sempre avvolge l’Italia, l’idea di base di un ritorno alla cultura campagnola e contadina, il rilancio del genius loci, insomma lo Strapaese riveduto e corretto che, paradossalmente, unisce l’estetica berlusconiana di Milano Due con la retorica di regime dei borghi dell’Agro Pontino, con il padano premoderno Celentano cresciuto nella via Gluck, con l’abuso del ruralismo populista e decadente di Pasolini. È tanto, ma non abbastanza. Perché alla fine anche Milano Due è un pezzo di città, che riflette solo in parte le logiche di chi l’ha promossa e finisce per portare le tracce di una stratificazione complessa di culture, aspirazioni, vissuti.

128 A. Cazzullo, L’Italia de noantri, 2009, p. 124