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1 UNO Master in giornalismo - Università Cattolica del Sacro Cuore Milano 2007

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Il crepuscolo dei giornalisti. Storia di una professione in via di estinzione

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UNOMaster in giornalismo - Università Cattolica del Sacro Cuore Milano

2007

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Una produzione Master in Giornalismo a stampa e radiotelevisivo, Almed, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Corso di tecniche di impaginazione e teorie del desk

Professori Claudio Castellacci e Federico Mininni, coordinamento Tino Mantarro Anno Accademico 2006/2007

2 Il mestiere di giornalista. Crepuscolo o alba?

6 La stampa e i suoi cannibali di Giacomo Susca

10 Come si diventa giornalisti di Davide Galli

14 Sulle orme dei cronisti da film di Laura La Pietra

18 Il mondo a casa nostra, vite da corrispondenti di Eugenio Buzzetti

22 Ultime notizie dal fronte, rischi e censure di guerra di Simona Sincinelli

26 Keep on reporting di Alessandro Giberti

28 Maledetta pubblicità tutto gira intorno a lei di Daniela Verlicchi

31 Un cronista per la scienza di Daniele Montanari

34 Spie in redazione, se il giornalista si crede 007 di Pierpaolo Lio

36 Ridere senza Cuore di Igor Greganti

40 Lo sport si racconta con i numeri di Luca Balzarotti

46 Fratelli separati alla nascita di alessandra Farina

50 Siamo figli di un Dio minore? di Giacomo Susca

foto di copertina Laila Pozzo

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I famigerati anni CinquantaPossibile che i famigerati anni Cin-quanta – quelli che lo scrittore e gior-nalista Oreste del Buono aveva bol-lato come «i peggiori anni della no-stra vita» – erano stati più liberi e piùveri di quella «meravigliosa» alba de-gli anni Ottanta che si stava allora vi-vendo?Massimo Fini polemizzando con unarticolo apparso sull’Unità – in cui sitessevano le lodi di un evoluzioni-smo giornalistico in cui avrebbe pre-so corpo un modo nuovo di fare in-formazione, basato sul gusto dellascoperta, dell’indagine, del confron-to – scriveva di essere spiacente percoloro che «per propria impostazio-ne ideologica, sono costretti a pensa-re che la storia evolva costantementeper il meglio fino alla liberazione fi-nale, ma tutto questo non è vero.Non è vero che il '68 abbia coincisocon una maggiore libertà della stam-pa e dei giornalisti. Nel '68 il confor-mismo cambiò solo di segno, da de-stra passò a sinistra». E via di seguito,con tutto un elenco di fatti che di-mostravano come la stampa nostra-na sarebbe stata «quanto di più pro-na al potere politico, di meno indi-pendente, di più conformistico chesia mai stato dato di vedere in Italia».

La stampa houseorgan della politicaCosa diceva Fini? Che la stampa èl’house organ del potere politico estrumento di consenso («Basta vede-re la sequela di interviste ad uominipolitici che occupano le pagine deinostri maggiori quotidiani e settima-

nali»). Che una volta il giornale era ilportavoce degli interessi del cittadi-no e ora è il contrario. Che dal gior-nalismo è scomparsa la storia, il rac-conto. Al suo posto ci sono la politi-ca o gli interessi pseudoculturali diuna ristretta cerchia di personaggi (equi citava un’inchiesta di copertinadi Panorama dal titolo «Come si di-vertono gli italiani» dove si scoprivache gli italiani-tipo erano la duches-sa Marina Lante della Rovere, la con-tessina Ilaria Agnelli, il comunista dilusso Lucio Lombardo Radice).L’analisi di Fini era impietosa. Passa-va dallo spiegare i meccanismi dicontrollo di un’azienda editoriale, al-l’accusare di connivenza i sindacatidei giornalisti e dei poligrafici. Per-ché mai? «Perché l’assistenzialismoha fatto comodo agli editori e ai sin-dacati, ma ha assassinato la profes-sione. Si è preferita la sicurezza allalibertà». Con il risultato di aver crea-to il fenomeno delle concentrazioniche permette a due o tre grandi grup-pi editoriali di controllare contrat-tualmente i giornalisti più prestigio-si e a dettare le condizioni per resta-re nel giro. «Uscire da uno di questigruppi significa infatti non avere al-ternative o averne pochissime, signi-fica rinunciare alla firma, alla noto-rietà, al denaro per andare a lavorarealla periferia degli Imperi o fra i lorointerstizi. Pochi sono disposti a farequesta scelta».Insomma l’equazione di Fini nonfaceva, già allora, una grinza. Dice-va: «Se il giornalista non ha merca-to non ha neppure alcuna capacitàcontrattuale. E non ha libertà». Manon solo. «Oggi il mestiere è mono-

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All’alba degli anni Ottanta, usciva un’inchiesta dal titolo «Il crepuscolo dei giornalisti». A dirigere il coro della polemica era il giornalista Massimo Fini

Il mestiere di giornalistaCrepuscolo o alba?

Un quarto di secolo più tardi gli studenti del Master di Giornalismo dell’Università Cattolica riprendono i temi dellapolemica e raccontano il mestiere di giornalista all’alba del terzo millennio

Ventisei anni fa, per l’esattezza: era

l’aprile del 1981, il Corriere Medico,

quotidiano che faceva allora parte

dell’Editoriale del Corriere della Sera,

pubblicava nel suo inserto culturale

monografico del sabato (a cura

di Claudio Castellacci) un’inchiesta

dal titolo «Il crepuscolo dei giornalisti»,

ovvero «Carta stampata: crisi

di una professione», illustrata

dai disegni dell’allora sconosciuto

Franco Matticchio. Qui accanto è

riprodotta la copertina dell’inserto.

Si partiva da una tesi di fondo,

sostenuta dal giornalista Massimo Fini,

secondo cui era «opinione diffusa

che dopo il ’68 la stampa italiana

avesse conosciuto una straordinaria

stagione di libertà, di anticonformismo,

di indipendenza dal potere politico»,

ma che questa stagione si fosse,

allora, appannata.

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polizzato da una burocrazia pseu-dointellettuale, amorfa, paurosaquanto avida che non vuole corrererischi, che non vuole sorprese e che,per questo, è sostanzialmente dispo-sta a dire sì a tutto».

È arrivata l’epoca del samizdatNon mancava la ciliegina sulla tor-ta su cui puntare il dito, ovvero laneo-nata classe manageriale a cui leaziende – passate da una conduzio-ne familiare a una industriale – ave-vano affidato le loro sorti. ScrivevaFini: «Al manager, il giornalista sca-dente [NdA, col senno di poi oggisuggeriremmo a Fini di aggiungerela dizione: «Direttore scadente»] vaa meraviglia perché gli permette diessere il vero dominus della situa-zione».L’ultima annotazione riguardava le«nuove tecnologie» che non erano,in quell’alba degli anni Ottanta, le«nuove tecnologie» a cui penserem-mo oggi, bensì si trattava della foto-composizione che stava rimpiazzan-do le vecchie linotype a piombo eche già faceva intravedere notevolirisparmi nei costi di gestione, rispar-mi che qualcuno si illudeva avrebbe-ro favorito la nascita di nuove inizia-tive editoriali. «Più che una speran-za è un’illusione», chiosava Fini.«Per chi ha amato questo mestierecosì bello e affascinante è venutal’epoca del samizdat».

Un coro (pressoché)unanimeA questo «j’accuse» si affiancavano,nell’inchiesta, altre voci autorevoli.Giorgio Bocca concordava con Finiche il giornalismo di informazioneaveva perso l’appuntamento conl’editoria autonoma, che si era arriva-ti all’assurdo di un convegno di gior-nalisti in cui si era teorizzato che do-vere del giornalista stesso non era da-re le informazioni, ma difendere leistituzioni.Paolo Pietroni, all’epoca direttore delCorriere Medico, il quotidiano che

ospitava l’inchiesta, scriveva che ilgiornalista, da Piccolo Faraone eradiventato Grande Impiegato e chese, all’epoca, avesse potuto ancorascegliere cosa fare da grande avrebbedetto: «Il giornalista, mai».Guido Gerosa intervistava GianniMazzocchi, un mito dell’editoria –l’uomo che aveva inventato e creatoDomus, Il Mondo, l’Europeo, Quattro-ruote – che gettava acqua sul fuocodicendo di non vedere poi così tan-ta decadenza. «Sono i tempi checambiano. Certo il giornalismo ditrent’anni fa era brillante, ma devodire che i giornali oggi sono ben fat-ti tecnicamente. Sono faziosi, maperché vogliono esserlo». Qual è,dunque, la differenza tra il grandegiornalismo di ieri e quello di oggi,chiedeva infine Gerosa a Mazzocchi.«Oggi il giornalismo è stato uccisodalla televisione. Allora c’era la gio-ia di poter scrivere e la gioia di legge-re. Oggi la gioia di poter scriverenon so se ce l’hanno questi giova-notti; ma la gioia di leggere ce n’ècerto ben poca».Gian Franco Vené, inviato di puntadell’Europeo, se la prendeva con i di-rettori-manager che badano più agliinteressi dell’azienda che a quelli delpubblico, confezionando giornalisempre più pieni di opinioni e menodi storie. Che bisogno c’è di buonicronisti, si chiedeva polemico Vené,in giornali che hanno come unicamira quella di fare opinione?Mario Pasi, critico musicale del Cor-riere della Sera, ironizzava su quantoerano grigi gli anni Cinquanta e suquanto invece erano belli i nuovigiornali con le loro specializzazioni:dai problemi dei giovani a quelli del-la donna, dello stomaco, dell’am-biente e così via. «I giovani comin-ciarono a firmare pezzi ventiquattroore dopo la assunzione, i titoli mi-gliorarono, così come le foto, la gra-fica, i contenuti. Ora sì che il giorna-le è un servizio. Resta un dubbio», sichiedeva però Pasi «perché solo il 7per cento degli italiani compra unquotidiano?».

I giornali siassomigliano tuttiL’intervento di Gianni Mura, inviatodi Repubblica, cronista sportivo erededel grande Gianni Brera, era lapida-rio: «I nostri giornali si assomiglianotutti, invertendo i redattori il prodot-to non cambia. Quando abbiamocominciato noi il sogno era fare l’in-viato. Non dico Pechino o Parigi, ba-stava Parma o Cuneo. Si parlavamolto poco di audience e di target. Imanager dovevano ancora essere in-ventati e non se ne sentiva la man-canza. Il nostro è ormai un mestieredi gente seduta. Possibilmente da-vanti al televisore, specie i direttori. Igiornali sono pieni di inviti a accen-dere la tivù, di programmi tivù, dipersonaggi tivù, tanto che ci si po-trrebbe chiedere a chi conviene che igiornali facciano da cassa di risonan-za alla tivù».Solo Natalia Aspesi si tirava fuori dalcoro citando come esempio di buongiornalismo le pagine culturali di Re-pubblica e delle sue prestigiose fir-me. «A me sembra che poter leggereun bell’articolo al giorno sia già mol-to». Quello su cui era invece d’accor-do con gli altri era sulla classe mana-geriale. «Quelli sì che sono peggiora-ti. Mettono insieme delle porcherieche anche l’ultimo giornalaio gli di-rebbe: dottore non lo faccia; poi fan-no un buco enorme, previsto da tut-ti ma non da loro. Si autopunisco-no? Neanche per sogno, dicono: tut-ta colpa dei giornalisti».

L’inchiesta degli studentiInsomma, queste le premesse. Unquarto di secolo dopo abbiamo vo-luto chiedere agli studenti del se-condo anno del Master di Giornali-smo a stampa dell’Università Catto-lica di Milano, anno accademico2006/07, di riprendere il tema e diraccontare oggi il mestiere di gior-nalista analizzato in dodici suoiaspetti – tanti quanto il numero distudenti permetteva. Il risultato èquello che segue.

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«I manager? Mettonoinsieme delle porcherieche anche l’ultimogiornalaio gli direbbe:dottore non lo faccia; poifanno un buco enorme,previsto da tutti ma nonda loro. Siautopuniscono? Neancheper sogno, dicono: tuttacolpa dei giornalisti»

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MMassimo Fini, le chiediamo un nuo-vo giudizio venticinque anni dopo ilsuo perentorio «hanno assassinato lanostra professione». È stato trovatoil colpevole dell’omicidio?Torno a ripetere quello che avevo giàsostenuto agli inizi degli anni Ottan-ta. Il declino della carta stampata,anzi, non si è arrestato ma acuito. Iresponsabili sono diversi, però laprima indiziata resta la televisione.Oltre ad averla uccisa, la tv ha can-nibalizzato il giornalismo attraversoi propri contenuti. E questo dispia-ce perché la stampa non sembra ingrado di sfruttare la potenzialità chele appartiene: l’approfondimentodelle notizie. Invece i direttori digiornali preferiscono sprecare ognigiorno otto-nove pagine con lechiacchiere della “politica politican-te”. Un processo che si era manife-stato agli inizi degli anni Settanta lapolitica ha messo le mani sull’infor-mazione e da allora non l’ha piùmollata. Un peccato, ribadisco, poi-ché tv assassina non può, per sua na-tura, approfondire.

Altro che alba, allora, stiamoassistendo a un definitivocrepuscolo…

La chiusura dei giornali tradizionaliè probabile, ma tutta da dimostrare.Piuttosto è la che tecnologia ha pre-so il sopravvento sui saperi e sull’in-terpretazione dei fatti. Nelle case deigiornalisti non c’è più una bibliote-ca, solo internet e schermi al plasma.I nuovi media se ne avvantaggiano,però si tratta di una perdita secca peril giornalismo. Se da un lato, infatti,si aprono spazi di libertà – che tutta-via sono inverificabili – dall’altra si

rafforzano i vecchi poteri economi-ci e politici che dominano la scenadei mezzi d’informazione. Non pos-siamo farci nulla, è un trend da ac-cettare così com’è.

E le scuole, i master, i corsi di laureain giornalismo? Si può ancoradiventare giornalisti, quando questisono in via d’estinzione?

Non ho mai creduto alle scuole digiornalismo, al massimo hannoqualche utilità per introdurre i gio-vani nell’ambiente attraverso gli sta-ge. Il nostro è un mestiere che si ap-prende facendolo; come diceva

qualcuno, è “un mestiere che si facon i piedi prima ancora che con latesta”. Oggi, grazie al mercato asfit-tico e al precariato senza garanzie,assistiamo a una selezione al contra-rio della forza lavoro. Tradotto: ipiù talentuosi si arrendono e vannoavanti i più scaltri, che molto spes-so non sono i più bravi. Mentre glieditori hanno speculato, la respon-sabilità di tutto ciò è anche del sin-dacato.Se i giornali non hanno al propriointerno un ricambio generazionale,si finirà come l’Unione Sovietica

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Foto di Laila Pozzo ,disegni di FrancoMatticcio

Un mestiere affascinante ed emozionante ridotto a misero lavoro impiegatizio. Fenomenologia di una professione in declino

La carta stampata e i suoi cannibali

Altro che alba, a ventiseanni di distanza dal suo allarme:“hanno assassinato la nostra professione”,Massimo Fini raddoppia. La colpa della crisi? Sempre della televisione. Ma anche del sindacato e degli editori

di Giacomo Susca

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che è morta per autosoffocamento.Sbagliato aver difeso in passatoqualsiasi posizione, compresi i nul-lafacenti. Il ’68 aveva un’ideologia difondo. I giovani non devono impa-rare dagli adulti. Un’autentica idio-zia. D’altronde nelle redazioni si èspenta la passione a insegnare, a farriscrivere dieci volte i pezzi che nonvanno. E quindi i ragazzi si ritrova-no a imparare un mestiere teorico inlaboratori asettici, le scuole, chespesso non hanno nulla a che vede-re con la realtà del mercato.

Difficoltà che sono alla base delconflitto tra editori e sindacati aproposito del rinnovo del contrattonazionale di lavoro giornalistico,che manca da oltre 800 giorni.

Ripeto che ho pochissima stima diquello che fa e sostiene il sindacato.Bisogna ammettere comunque lacolpevole intenzione degli editori anon sottoscrivere un nuovo contrat-to: avere alle dipendenze giornalistimalpagati significa controllare me-glio quello che scrivono. L’autono-mia professionale è legata alle retri-buzioni. Utilizzare i giovani senzaassumerli è una canagliata, conside-rando che spesso i giornali sonooberati da gente, coperta da ogni tu-tela, che non lavora affatto. E cosìlavora di più chi sta fuori dalle reda-zioni, cioè i collaboratori.

È condivisibile lo sciopero per questacausa?

Probabilmente è uno strumento uti-le, a patto che aderisca tutta la cate-goria. E questo mi sembra negli ulti-mi mesi non sia accaduto.

Vertenza sindacale a parte,qualcuno mette in discussionel’esistenza stessa dell’Ordine. Leicosa ne pensa?

L’Ordine, al momento, serve a benpoco. Inutile l’esame di Stato, per-ché sei giornalista solo se un editoreti assume. Poi c’è un problema, an-che etico, riguardo a chi ha il poteredi selezionare chi merita di entrare afar parte della professione. Ma l’eti-ca è caduta da tempo e l’Ordine nonha fatto nulla per riaffermarla.Quanto al potere disciplinare, chedovrebbe giustificarne la sopravvi-venza, è soltanto simbolico oltre chepericoloso.

Ha parlato di etica. Uno dei nodifondamentali è il rapporto trapubblicità e informazione.

Oggi tutto è più importante dell’ar-ticolo che si scrive, della notizia, apartire dall’aspetto grafico. Assistia-mo a un totale piegarsi alla pubblici-tà, invece noi giornalisti su questopunto abbiamo sempre voluto illu-derci del contrario. I giornali nasco-no e muoiono per gli interessi poli-tici ed economici che ci sono dietro,a causa degli investimenti sempremaggiori che necessitano. Un quar-to di secolo dopo l’articolo su Spe-ciale Sabato, purtroppo, questi ele-

menti nocivi sono andati degradan-dosi e accentuandosi.

Che i giovani abbandonino ognisperanza di entrare nel mondo,ormai diventato mitico, delgiornalismo?

Nonostante tutto, quando il giorna-lismo può essere fatto davvero è unmestiere così bello e affascinante,perché ti fa vedere il mondo con oc-chi diversi, che esercita un fascino ir-resistibile. Per riuscire serve una de-terminazione feroce e massima di-sposizione al rischio, compreso ilprecariato a oltranza. L’importante ènon morire sul desk, questo è un la-voro che si fa 24 ore su 24. Evitandodi rinchiudersi nelle gabbie doratedelle redazioni.

Missione o vocazione?Dovrebbe essere una vocazione. Sidice che il giornalista nasca orfano emuoia vedovo. Purtroppo oggi è ri-dotto a impiegato. È desolante, lo ri-conosco. Invece la prima caratteristi-ca del reporter deve essere la curiosi-tà, l’intelligenza selettiva. Le struttu-re lavorative impediscono di utiliz-zarle entrambe.

Per chiudere: cosa non è cambiatorispetto agli anni Settanta, originetemporale dei mali del giornalismoitaliano?

Niente è come ieri, a parte alcune(abili) firme. La novità vera sono inuovi mezzi, anche se la storia inse-gna che il loro uso è spesso stato im-poverente. Il filosofo Umberto Ga-limberti sostiene che psiche e technèdebbano andare insieme, altrimentisi crea uno scollegamento dramma-tico. Infatti la realtà sociale, rispettoal mondo ricreato sui giornali, appa-re scollegata.Così come la libertà, agognata suimedia del futuro, se fine a se stessaha poca incidenza sulla vita reale. Iostesso ho creato il mio MovimentoZero tramite un blog, ma poi ho de-ciso di chiuderlo: si finiva per parlar-si addosso senza costrutto. Ancoraoggi è preferibile incontrare la gentein carne e ossa.

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vi”. Senza questo controllo, è chiaroche le scuole sembrano troppe, per-ché chi vi esce si va ad aggiungere aprecari, collaboratori e professionistidisoccupati. Ma per risolvere questasituazione, penso che le scuole do-vrebbero diventare l’unico canale diaccesso alla professione. Ovviamen-te con la Laurea obbligatoria per gliaspiranti giornalisti. A quel punto, lescuole potrebbero essere anche cin-quanta, ma le possibilità di occupa-zione non mancherebbero. Ora, in-vece, il fabbisogno di mercato nonc’è. Forse nel futuro ci sarà di piùnell’on-line, nelle web Tv, negli uffi-ci stampa. E per tutti questi media lescuole daranno una preparazione si-curamente più adeguata».

Come giudica l’esperienza dellascuola di giornalismo creataalcuni anni fa direttamente dallacasa editrice Rizzoli?

«Quando le scuole nascono diretta-mente nelle società editoriali, ci so-no rischi di commistioni e interfe-renze imbarazzanti. Sarebbe megliose fosse l’Ordine a organizzarle epromuoverle. L’Ordine che, del re-sto, ha il dovere di vigilare sulla for-mazione e la professionalità dei gior-nalisti iscritti».

Quale sarà lo spazio riservato perle scuole nella futura riformadell’Ordine dei giornalisti?

«Sicuramente nella bozza di riformaci sarà un ruolo fondamentale rico-nosciuto alle scuole. In questo modo

si potrà risolvere il problema dellanecessità della Laurea per l’accessoalla professione, come è giusto chesia per una professione intellettualecome il giornalismo. Obbligo diLaurea che era peraltro già contenu-to all’interno della bozza Siliquini».

Secondo lei, ci sono differenzeevidenti tra giornalisti di scuola egiornalisti formati sul campo?

«Ovviamente non si possono ricono-scere così, a prima vista. Complessi-vamente, però, chi esce dalla scuolaha un bagaglio culturale più robusto,formato da conoscenze che altrimen-ti uno non imparerebbe mai, soprat-tutto in un ambiente come il lavorosul campo. E poi, ciò che risalta mag-giormente è che chi ha frequentatouna scuola è in grado di analizzaremeglio i fatti e sviluppare più sensocritico per i fenomeni».

E a livello pratico, ci sonodifferenze?

«Sul piano lavorativo, credo che cisia una miglior capacità di adatta-mento ai nuovi lavori, in particolareper quanto riguarda i new media.Mentre chi ha avuto esperienze, peresempio, per anni soltanto in crona-ca, farà molta più fatica a riadattarsial nuovo mercato. E sarà forse obbli-gato a frequentare corsi di aggiorna-mento. Cosa che invece non dovran-no fare gli allievi delle scuole di gior-nalismo, che saranno preparati ad af-frontare anche realtà di giornalismonon tradizionale».

«Io sono una grande sostenitricedelle scuole di giornalismo. Ci sonocose che il lavoro sul campo nonpuò insegnare, cose che in redazio-ne nessuno ti spiega. Senza dubbiola genialità e il talento sono doti cheuno possiede per natura, ma lascuola è in grado di dare un sensomorale, un orgoglio di fondo per laprofessione». Le parole sono di Va-leria Palumbo, da oltre un anno ca-poredattrice a L’Europeo. Nel 1987ha vinto uno dei venti posti dellascuola di giornalismo della Rizzoli,superando la concorrenza di altriduemilaquattrocento aspiranti gior-nalisti. E da allora ha cominciato alavorare stabilmente per Rcs, con ilsuo primo impiego alla redazione diCapital. Oggi, a distanza di anni,non ha dubbi sull’utilità e l’impor-tanza delle scuole di giornalismonella formazione dei futuri profes-sionisti.

Valeria Palumbo, lei hafrequentato la scuola di

Sfide future, nuovi media, pregi e di-fetti del giornalismo attuale. Ma an-che la sicurezza che nella prevista ri-forma dell’Ordine dei Giornalisti, al-le scuole sarà riconosciuto un «ruolofondamentale». Di questo e altroparla Ruben Razzante, direttore del-la Scuola di Giornalismo di Potenza.Con un occhio di riguardo per ciòche le scuole potranno significare peril futuro della professione.

Ruben Razzante, le scuole digiornalismo sono davvero utili?

«Il mito del giornalista che si fa sulcampo ormai è tramontato. Oggi leesperienze pratiche confermano chele scuole formano in modo moltopiù completo e globale. Io penso in-fatti che i giornalisti che escono dal-

le scuole abbiano una cultura gene-rale superiore. C’è un bagaglio di no-zioni sempre più necessarie al nuovomercato dei media, per esempio no-zioni di diritto, di economia, di sto-ria. Tutte materie che solo nelle scuo-le vengono insegnate in modo siste-matico. E poi non bisogna dimenti-care che chi accede a una scuola digiornalismo deve avere una Laurea,cosa invece non richiesta per chisvolge un praticantato in redazione».

Le scuole hanno difetti?«Credo che il limite della scuola po-trebbe essere di non coltivare a suffi-cienza la parte pratica del lavoro, e didare poco spazio alle attività di labo-ratorio. Questo potrebbe mettere lescuole in una posizione di inferiori-

tà rispetto alle redazioni. Però dico“potrebbe”, perché a quanto mi risul-ta questo nella realtà non avviene. Ilmio è un discorso solo teorico. Sequalche scuola privilegiasse troppo lateoria sulla pratica sarebbe sicura-mente un problema. Ma, ripeto, soche non è così. Anche perché, attra-verso il periodo di stage, gli studentipossono avere l’opportunità di per-fezionare la loro preparazione sulcampo».

Negli ultimi anni, laproliferazione delle scuole haricevuto però alcune critiche.

«La proliferazione delle scuole in re-altà verrebbe meno criticata se ci fos-se più controllo sui praticantati d’uf-ficio, i cosiddetti praticantati “abusi-

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Nella foto sopraValeria Palumbo,caporedattrice aL’Europeo, a ventunoanni è entrata nellaScuola di giornalismodella Rizzoli.

Nell’ultimo decennio si sono moltiplicate le scuole di giornalismo che ogni anni consentono a circatrecento praticanti di accedere all’esame di Stato

Come si diventa giornalisti

Crolla il mito del reporter che si forma solo sul campo, oggi per intraprendere la professione e affrontare le sfide dei nuovi media serve preparazione culturale e deontologica.

di Davide Galli

Giornalisti si nasce o si diventa? Domanda retorica, questione oziosa.Perché ci si potrebbe chiedere la stessa cosa per qualunque altra profes-sione. E la risposta sarebbe sempre la stessa: le doti, le qualità natura-li, l’istinto si possono avere solo dalla nascita, per dono e non per me-rito. Ma il mestiere e le sue tecniche no, con le inclinazioni hanno po-co a che fare.Nel caso del giornalismo, a riprova della necessità di imparare il me-stiere, ci sono le istituzioni deputate a questo insegnamento, le scuo-le. Giornalisti si diventa, dunque? Sì, ma non in un modo soltanto. Igiornalisti di oggi, e i giornalisti di domani, si dividono infatti tra quel-li formati sul campo, e quelli usciti dalle scuole. La differenza, tra lo-ro, non si intuisce a prima a vista, ovviamente. Nessun marchio sta im-presso a indicare questa o quell’appartenenza. Però un dato è sicuro:le scuole di giornalismo negli ultimi anni si sono moltiplicate. Con laconseguenza che si sono moltiplicati anche i giornalisti che in questesi sono formati. Oggi, le scuole esistenti in Italia sono sedici. Ogni anno consentono a15-20 aspiranti professionisti di accedere all’esame di Stato. Facendo ilcalcolo, si ricava un totale di quasi 300 potenziali giornalisti «scolasti-ci» all’anno. E il dato è solo provvisorio, destinato presto a crescere.Perché le scuole hanno avuto una vera proliferazione nell’ultimo de-cennio.

Da qui, una certezza: il futuro del giornalismo sarà sempre più segna-to da professionisti di scuola, e meno di campo. Del resto, già oggi lapossibilità di svolgere un praticantato in redazione è una rarità, che ra-senta il miraggio.Questa situazione, dunque, cosa porterà in più, o in meno, al mestie-re del giornalista? Su quali vantaggi i giornalisti di scuola potrannocontare nell’affrontare le sfide del giornalismo del futuro? Le sfide deinew media, dell’informazione digitale, delle regole deontologiche chedevono confrontarsi con la cultura dell’immagine. Le risposte sono complesse, con spazio per le opinioni, anche diver-genti. Per chiarire le idee, per capirne di più, di tutto questo abbiamoparlato con chi, per esperienza presente o passata, di scuole di giorna-lismo se ne intende. Innanzitutto con Ruben Razzante, direttore dellascuola di Potenza, uno dei giuristi che presto metteranno mano alla ri-forma dell’Ordine professionale. Quindi con due professionisti affer-mati, con alle spalle diverse esperienze scolastiche: Valeria Palumbo,caporedattrice de L’Europeo, ex alunna della scuola di giornalismo del-la Rizzoli; e Paolo Perazzolo, caporedattore cultura di Famiglia Cristia-na, che ha frequentato l’“Ifg” una decina di anni fa. Infine, con unostudente «fresco» della scuola dell’università Cattolica di Milano, cheha recentemente vissuto un’esperienza di stage insolita e interessante,all’Ansa Pechino.

Teoria e pratica, un binomio ormai inseparabileRuben Razzante: «Nella futura riforma dell’Ordine alle scuole sarà sicuramente riconosciuto un ruolo fondamentale»

Tutto quello che soltanto

una scuola può offrirePalumbo: «Ma genialità e talento

sono doti innate»

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diana. Una visione più ampia dellaprofessione e delle problematicheche implica. Senza una scuola teori-ca, mancano i termini di confronto,e il giornalista rischia di appiattirsisul proprio lavoro meccanico».

E dal punto di vistadeontologico?

«Senza dubbio anche la deontologia èfondamentale. La scuola insiste moltosul profilo etico. E in questo senso for-ma in modo più completo, come nonè possibile che faccia una carriera chesi sviluppa solo sul campo».

Quali possono essere i limiti diuna scuola?

«Il limite della scuola è che è unascuola. Perciò ognuna, in quanto ta-le, dovrebbe cercare di essere il più

possibile vicina al lavoro di un gior-nale vero, accentuando il suo tagliopratico. La parte teorica è fondamen-tale, ma non deve prevalere. Il ri-schio, altrimenti, è di creare un di-stacco eccessivo tra formazione e la-voro. Mentre è indispensabile che trale due cose ci sia un contatto strettis-simo».

Che differenza c’è tra giornalistidi scuola e non?

«La qualità professionale di chi hafrequentato una scuola è superiorealla media. Questi, poi, hanno unbackground culturale che gli altrinon possiedono. In parole povere,hanno uno sguardo che mira più inalto».

Parlando di futuro, comecambierà secondo lei laformazione dei giornalisti?

«Adesso, purtroppo, la formazionegiornalistica vive una fase drammati-ca, con una proliferazione eccessivadi corsi di Laurea che promettono difar diventare giornalisti. Ma questo èun grave inganno. A mio parere, do-vrebbero esistere pochissime scuole,valide come praticantato e con con-tatti stabili con il mondo del lavoro.Poche scuole in grado di prepararenel migliore dei modi i giornalisti delfuturo. Molti corsi inutili, invece, an-drebbero eliminati. Perché oggi si stacreando un caos veramente deva-stante».

Giornalismo della Rizzoli, circaventi anni fa. Una scuola cheoggi non esiste più.

«Io sono entrata nell’87, a ventunoanni, in quella che ai tempi era unascuola di avanguardia. Lavoravamoin desk, su computer connessi in re-te, già come nel giornalismo del fu-turo. Quello è stato il primo veroesperimento di computer in rete».

Quali erano i criterid’ammissione alla scuola?

«Venivano ammessi al concorso sololaureati con medie di voti molto alte.Io, a dire il vero, non ero ancora lau-reata, ma avevo ventuno anni e mimancavano solo due esami alla Facol-tà di Scienze Politiche. Ricordo cheper l’ammissione si presentarono qua-si duemilaquattrocento persone. Persolo venti posti. D’altra parte, a queitempi la Rizzoli aveva un turn over diottantuno giornalisti all’anno. Questosignificava che la casa editrice sceglie-va, su questi ottantuno, di formarne eassumerne venti di qualità».

Come si svolgeva il lavoro nellascuola?

«La durata totale era di due anni, in-tervallati da veri stage. Durante i pe-riodi nella scuola, si faceva molto la-voro pratico, di scrittura e di redazio-ne, più varie lezioni di antropologia,diritto, storia e altro ancora. Poic’erano anche attività più particolari:per la cronaca nera, per esempio,guardavamo dei film polizieschi, e

poi scrivevamo articoli tratti delletrame dei film».

Dove ha svolto gli stage?«Gli stage erano una componentefondamentale della scuola. La miaprima esperienza è stata alla Gazzet-ta dello Sport, per circa quattro me-si, durante l’estate. Poi sono stata unmese ad Amica. E poi ho fatto altriquattro mesi a Capital, dove sonostata assunta al termine della scuola».

C’è qualcosa che secondo lei solola scuola può insegnare?

«Sicuramente ci sono cose che il la-voro sul campo non può insegnare,cose che in redazione nessuno tispiega. Penso alle tecniche di scrittu-ra: la costruzione delle frasi, le paro-le da non usare, l’aggettivazione. Poici sono le questioni del diritto: que-sto è un altro dramma per la prepara-zione giornalistica. Perché queste co-se si imparano solo con una scuola.E senza una preparazione globale, sinaviga nel vuoto».

E qualcosa che si impara solo sulcampo?

«Credo che una scuola non potràmai insegnare come si struttura unrapporto di redazione, né come fun-zionano assunzioni e mobilità. Poi,senza dubbio, la genialità e il talentosono doti che uno possiede per natu-ra, che non si possono trasmettere.La scuola però è in grado di dare unsenso morale, un orgoglio di fondoper la professione. E questo è molto

Per non «appiattirsi sul lavoro mec-canico», per avere uno «sguardo chevada al di là della fabbricazione del-la notizia» quotidiana. E per avere«un profilo deontologico in sensopiù completo». Secondo Paolo Pe-razzolo, caposervizio cultura di Fa-miglia Cristiana, la scuole sono fon-damentali per la formazione dei gior-nalisti del futuro. Anche se forse,adesso, un po’ troppe.

Paolo Perazzolo, quando e qualescuola ha frequentato?

«Ho frequentato la scuola di giorna-lismo Ifg, nel biennio ‘96-’97. Sonostati due anni abbastanza impegnati-vi, ma molto utili».

Come era impostato il lavoro?«L’impostazione era quella classica:si abbinava una parte teorica a unapratica. Al mattino c’erano le lezioniteoriche, tenute da giornalisti e do-centi. Per esempio si studiava diritto,storia del giornalismo, tecniche discrittura. Nel pomeriggio, invece, cisi dedicava alla pratica. Venivamo di-visi in gruppi, e a turno facevamo la-voro di agenzia, di radio e sul giorna-le della scuola, Tabloid».

C’è un aspetto che ricorda come ilpiù utile per la sua formazione?

«Ricordo che un lavoro molto utileera la lettura critica dei quotidiani.Al mattino, sempre durante la primaora, ogni giorno un giornalista ci gui-dava nella lettura dei giornali. E que-sto secondo me è stato importante,perché mi ha insegnato una capacitàcritica che altrimenti non avrei impa-rato».

Dove ha svolto gli stage?«Il primo l’ho fatto a Famiglia Cri-stiana. Poi sono stato un mese a Tele-lombardia. Infine sono stato due me-si ad Avvenire e altri due mesi anco-ra a Famiglia Cristiana».

Ritiene sia stata più importantela parte teorica o quella pratica.

«Ovviamente ritengo più utile la par-te di stage. Insomma, è stata un’espe-rienza di giornalismo vero in testatevere. Con il vantaggio, però, di ave-re alle spalle una salda preparazioneteorica».

Che cosa dà in più la scuolarispetto alla formazione sulcampo?

«La cosa in più che può dare la scuo-la è uno sguardo che vada al di là del-la fabbricazione della notizia quoti-

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cansi tre scellini,l'operaio producesoltanto un equivalentedel valore della forzalavoro già pagato dalcapitalista, poichédunque, col valore diuna creazi

cansi tre scellini,l'operaio producesoltanto un equivalentedel valore della forzalavoro già pagato dalcapitalista, poichédunque, col valore diuna creazi

importante: più si è professionisti,meno si è corrompibili. E più si ha lapossibilità di entrare nel mondo del-l’editoria in modo “puro”».

In modo «puro»?«Per chi come me è entrato alla scuo-la di giornalismo della Rizzoli, nonci sono stati padrini di nessun tipoche spingessero. Chi invece entra nellavoro in modo sospetto, ha certe la-cune che finisce col portare semprecon sé».

Dunque una scuola, anche inprospettiva futura, può dare unapreparazione più completa?

«Penso di sì. Soprattutto può forma-re professionisti preparati ad affron-tare il lavoro su vari mezzi, e crearefigure che siano borderline tra stam-pa, radio e Tv. Chi inizia direttamen-te sul campo, invece, rischia di chiu-dere il proprio orizzonte al mezzoche ha praticato per primo».

E lo stesso discorso vale anche peril giornalismo on line?

«Certamente. Purtroppo è una que-stione mentale: i giornalisti, da uncerto punto della loro carriera, rifiu-tano i progressi della tecnica. Io stes-sa ho dei colleghi che rifiutano inter-net. Però questo è un errore, perchéinternet è un mezzo con grandi pro-spettive, non ancora sfruttate a fon-do. Anche da questo punto di vista,la scuola prepara per il futuro, per unmondo e una professione che stannocambiando».

Antonio Talia, studente dell’Università Cattolica, ha vissuto un’esperienza formativa particolare

«Tre mesi a Pechino per uno stage all’Ansa»Opportunità che solo una scuola può dare. Esperienze di giornalismo altrimenti impos-sibili da realizzare. Antonio Talia, attraverso la scuola di giornalismo dell’università Cat-tolica, ha trascorso i tre mesi dell’estate 2006 in Cina, a Pechino, per uno stage nellasede dell’Ansa. È lui stesso a raccontarci come è andata.«A livello di metodo - dice - la scuola mi ha dato molto, perché in Cina si è trattato di fa-re un lavoro di agenzia. In questo senso, il corso che mi è servito di più è stato quello di“Tecnica di agenzia”. È stato lì che ho imparato il modo di scrittura e le regole specifi-che di un lancio d’agenzia o di un take. Sicuramente la formazione data dalla scuola miha permesso di affrontare il lavoro con preparazione. Riguardo all’ambiente di Pechino,soltanto io e il mio capo eravamo italiani. In agenzia lavoravano poi altri due giornalisticinesi, che però non parlavano italiano. Loro si occupavano di tradurre i comunicati dalcinese all’inglese. Mentre noi li traducevamo, in seguito, dall’inglese all’italiano. Perquesto, posso dire che l’inglese è stato fondamentale, molto più del cinese, che ho stu-diato solo privatamente. La scuola non ti può preparare alle cautele necessarie al lavoroin un Paese con una dittatura. Queste sono cose per cui bisogna imparare a muoversida soli. Del resto, nel periodo in cui sono stato in Cina non ho mai avuto problemi. An-che se è capitato di battere notizie “fastidiose”».

«Le scuole indispensabili,ma oggi sono diventate troppe»

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SSiamo cresciuti con un modello digiornalismo alla Woodward e Ber-nstein, nella speranza di diventarecome i due cronisti che smascheraro-no uno dei maggiori scandali ameri-cani: il Watergate. Credevamo che ilgiornalista potesse essere davvero ilcane da guardia della società, così ab-biamo inseguito il sogno di diventa-re cronisti con grande coraggio, vo-glia di fare, curiosi e desiderosi digiustizia, come Robert Radford eDustin Hoffman in Tutti gli uominidel Presidente, interpreti dei giornalistidel Washington Post che incastraronoil presidente Richard Nixon, nel1972. Volevamo essere dei reporter smaga-ti, disposti a sacrificare giorni e nottiper riuscire a dimostrare la fondatez-za delle nostre intuizioni, per nonsottometterci alle logiche malsane diun potere più grande di noi. E il ci-nema ci ha sempre fatto credere chetutto questo era possibile. Perché lastoria ci insegnava, senza andare ol-treoceano, che si poteva trarre ispira-zione anche da Luigi Barzini o da In-dro Montanelli. Con caparbietà abbiamo inseguitoun mito, credendolo realtà. E lo era.Ma allora, cinquanta, quarant’annifa, prima dell’imperante informazio-ne televisiva, prima dei telefoni cel-lulari, prima di internet e dei satelli-tari. E solo adesso, entrando nelle re-dazioni, nelle agenzie, nei quotidia-ni, nei settimanali ci siamo trovati difronte quella verità cui finora nonvolevamo credere. Perché oggi i gior-nali si fanno con Internet, con gli ar-chivi, con le agenzie. Tra le sette e leotto di sera. I cronisti non immagi-nano cosa succeda fuori dalla reda-zione: non sanno se si sono consu-mati omicidi o se sono avvenuti de-gli incidenti. Nelle redazioni, alle ot-to di sera non si è ancora deciso co-

sa verrà pubblicato e il più delle vol-te si finisce col pescare a piene manidall’Ansa, a fare ricerche nell’archi-vio, a fare “copia e incolla” delle di-chiarazioni dei politici. «È la fine delgiornalismo», si indignano i cronisti.Ma poco si fa per cambiare la situa-zione. Si contano sulle dita di una mano igiornalisti che in Italia non si sonoarresi a questo sistema autoreferen-ziale in cui i quotidiani riprendono– quando non li copiano – i lanci diagenzia e i notiziari televisivi delgiorno prima, appiattendo così ledifferenze, riverberando a più livellie con mezzi diversi le stesse notizie,senza aggiungere nulla a quanto giànoto. Nella sezione “Cronaca” deiquotidiani nazionali c’è tutto trannequello che dovrebbe esserci: dallapresentazione di un libro alla pole-mica, al gossip. Manca ciò che acca-de alla gente comune, il racconto

della realtà di tutti i giorni. E se siscrive di un tragico evento – il seque-stro di un bambino, l’uccisione diuna persona – la cronaca dimenticadi spiegare la dinamica degli eventi,non risponde ai perché della gente esi affida alle chiacchiere di paese.Non c’è più quella novità e quell’ap-profondimento che noi giovani so-gnavamo di fare, affondando nellapoltrona di una sala oscura. Il mitosi è infranto. Ci siamo svegliati dalsonno. E adesso è giunto il momen-to che qualcuno risponda alle nostredomande. Prima fra tutte: dov’è fini-ta la cronaca? Che posto occupa neigiornali? E soprattutto: cos’è la cro-naca? Il pettegolezzo? Lo spettacolo?E poi, dov’è finito il cronista, am-messo che da qualche parte ancora ilgiornalista abbandoni la scrivaniaper raccontare la realtà fuori la reda-zione? Nelle agenzie? Nei giornalilocali? Dove?

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Dalla finzione cinematografica alla realtà delle redazioni. Come il reporter “cane da guardia”della società è diventato un sedentario impiegato dell’informazione

Sulle orme dei cronisti da film

L’ideale romantico del giornalista borsa a tracolla e sigaretta in bocca, mentre prende appunti per strada ha ormaiil sapore di un’illusione svanita: i giornalisti trovano le notizie stando comodamente seduti ad una scrivania.

di Laura La Pietra

Il tramonto del modello di giornalismo coniato da Egisto Corradi

No alle scarpe, i cronisti preferiscono il mouseNon sono passati molti anni da quando il celebre inviato del Corriere della Sera EgistoCorradi pronunciò una frase destinata a diventare una sorta di memorandumprogrammatico per chiunque avesse intenzione di avvicinarsi a questa professione: «Il giornalismo si fa con la suola delle scarpe». Nonostante oggi il mercato dellecalzature proponga modelli sempre più comodi e confortevoli, sempre di meno icronisti escono dalle redazioni. Non si scende più in strada per raccontare cosaaccade quotidianamente alla gente comune. E di chi è la responsabilità di questa situazione? Dei giornalisti, sicuramente, ma nondel tutto. «Redigere le cronache dalle redazioni non è la massima aspirazione di chivuole fare il cronista», commentano in modo unanime i redattori di cronaca. E’ unproblema che investe tutti i settori dell’informazione: dall’economia alla politica, allosport: i redattori scrivono quello che viene richiesto loro dai capi e, di solito, ladomanda è sedersi davanti al computer e cercare su siti di informazioni italiani estranieri, blog, forum e archivi di agenzia delle notizie “appetitose” che possanoriempire i “buco” presente in pagina. Chi ha lo scrupolo di verificare le notizie lo fa pertelefono. Così alla cronaca “battuta sulle strade”, si è sostituita la cronaca “a suon diclick del mouse”. Il sistema dell’informazione è cambiato in modo irreversibile, vittimadel sensazionalismo e della velocità.

Nella pagina accantoil primo articolodell’inchiesta Watergateuscito sul WashingtonPost e alcune scene trattedal film “Tutti gliuomini del presidente”.In alto a destra i duecronisti autori delloscoop Bernsteine Woodward

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Vorrei avere i soldi per comprare ilCorriere e chiuderlo il giorno dopo».Paolo Chiarelli, per quarant’annicronista di nera del quotidiano di viaSolferino, ripete con amarezza que-sta battuta in voga tra i giornalisti,ma aggiunge: «Chiuderlo per riaprir-lo e farlo tornare il quotidiano idea-le in cui sono cresciuto». E comenon credergli. Nel panorama giorna-listico italiano, tra gli anni ‘60 - ‘70,il Corriere della Sera era certamenteuna delle realtà più stimolanti per igiovani apprendisti: il Corriere era ilquotidiano con la Q maiuscola. Ri-corda Chiarelli: «Giravano nella re-dazione della cronaca personaggi ec-cezionali: da Egisto Corradi a DinoBuzzati, a Indro Montanelli. Noigiovani cronisti eravamo dei privile-giati: ascoltare gli aneddoti di Corra-di di ritorno dal Vietnam o da altrezone di guerra era un momento di li-bidine pazzesco». Ma il fascino nonbasta per raccontare cosa accade nelmondo: «Il Corriere è stato una scuo-la», commenta. «Mi è servito come labuona educazione che danno i geni-tori: la dura gavetta, i quattro anni diattesa per firmare un articolo, la ri-cerca e la verifica delle fonti, la regi-strazione accurata delle testimonian-ze e la competizione con le altre te-state sono stati il bagno di umiltà ecuriosità che i grandi giornali - nazio-nali e non - hanno fatto fare ai giova-ni giornalisti».

Eppure la storia dimostra come spes-so anche le macchine e i sistemi cheall’apparenza sembrano “perfetti”possono incepparsi. E a poco servo-no le manutenzioni successive: tor-nare all’ottimo funzionamento ini-ziale è impossibile. Così, al Corrierequalcosa fece saltare gli ingranaggiche tenevano insieme il giornale. «Ri-cordo bene il momento in cui ho ca-pito che sarebbe cambiato il modo difare cronaca. Nei pressi di Pavia eraderagliato un treno e il vicedirettorechiese a Fabrizio Gatti, che allora eraal Corriere, di fare un’inchiesta in duepuntate sull’evento; ma non per ac-certare di chi fossero le responsabili-tà o sapere se fosse un errore umanoo se c’erano stati guasti al locomoto-re. No, il vicedirettore chiese un’in-chiesta su cosa pensava la gente delposto. Tu dirai, beh Gatti sarà statoinviato sul posto… Macché. Il vice-direttore gli disse: “Le inchieste piùbelle si fanno in archivio”. E lo spedìin archivio a cercare vecchie dichiara-zioni di passeggeri di treni deragliatiin passato, aggiungendo: “Rimpastaantiche situazioni e lamentele”. Il ri-sultato fu che Fabrizio Gatti fece co-me gli era stato detto, ma non uscìmai la seconda puntata dell’inchie-sta. Facile immaginare il perché: l’in-chiesta mancava di attualità e di inte-resse per il pubblico». Fu allora che, secondo Paolo Chiarel-li, il giornalismo del maggiore quoti-

diano italiano, si trovò davanti a unbivio: da una parte la via da seguiresarebbe stata quella del “copia e in-colla” dall’archivio, dalle agenzie edai giornali locali; dall’altra la stradadel seguire la cronaca in presa diret-ta, di persona. Nel corso degli anni,sono sempre di più i giornalisti chescelgono la via più comoda e sempli-ce offerta da Internet e dalle agenziedi stampa, che i cronisti che, in nomedi un ideale, rifiutano questo mododi fare giornalismo.La cronaca si è sottomessa allo spet-tacolo e al commento, dimentican-do i valori e gli ideali su cui era fon-dato il Corriere della Sera degli annid’oro, quel Corriere che aveva raccon-tato in diretta la strage di Piazza Fon-tana, che dava del tu al CommissarioCalabresi, che arrivava prima e me-glio degli altri giornali. «Mai unaquerela: era questo l’imperativo. Chine aveva ricevuta una era guardatomale in redazione. Significava chenon si era stati rigorosi, nè col fattonè con le fonti. L’abilità del cronistasi misurava sulla capacità personaledi entrare in contatto con le fonti.Fare cronaca non significava sempli-cemente seguire il “giro di nera” o di“bianca”, andare in questura, alla po-lizia, dai Carabinieri o al Palazzo co-munale. Oggi l’unica cosa che contaè che il cronista sia in grado di scrive-re un articolo di 60 righe, a partiredai lanci di agenzia a disposizione».

Sopra via Solferino, dove dal ha sede la redazione del Corriere della Sera

Nelle foto sopra,Giuseppe Guin,caporedattore della cronaca del quotidiano localeLa Provincia di Como

Il cronista di nera Paolo Chiarelli ricorda il momento in cui capì che stava cambiandoil modo di trattare la cronaca al Corriere della Sera

«Le inchieste si fanno in archivio» La risposta del vicedirettore di via Solferino a Fabrizio Gatti stravolse il giornalismo:

alla dura gavetta, oggi molti preferiscono la via del “copia e incolla”

Intervista ai responsabili della cronaca di Ansa Milano e della Provincia di Como,Gabriele Tacchini e Giuseppe Guin

Parola d’ordine: «Uscire dalle redazioni»Alla base della professione c’è sempre stato il rapporto diretto e costante con il territorio e i cittadini.

Impossibile pensare di fare i giornalisti “a tavolino”, seduti dietro una scrivania

Ma dov’è finita la cronaca? Una do-manda semplice, forse ingenua. Ep-pure non esiste in merito un parerecondiviso. Molti giornalisti ritengo-no che la cronaca in senso strettonon ha più motivo d’essere: interes-sa solo se gli eventi trattati roguarda-no morti o individui dal passatooscuro. Nel migliore dei casi però, larisposta è un’altra: la cronaca è di ap-pannaggio esclusivo di agenzie egiornali locali, troppo inseriti nel ter-ritorio e a contatto con i cittadini perpoterne ignorare le esigenze. Forti diqueste considerazioni, abbiamo cer-cato di capire cosa vuol dire oggi vi-vere di cronaca insieme a GabrieleTacchini, responsabile di Ansa Mila-no, e a Giuseppe Guin, capocronistade La provincia di Como. Per i duegiornalisti, provenienti da esperienzemolto diverse - Tacchini ha iniziatocome cronista sportivo nel quotidia-no vercellese La Sesia, mentre Guinha collaborato con il Corriere della Se-ra e il Corriere del Ticino - , fare crona-ca non è riscrivere i comunicatistampa che arrivano in redazione, nélimitarsi a seguire gli eventi prepara-ti ad hoc per la stampa. Fare cronacasignifica uscire dalla redazione, en-trare in contatto con la gente, anda-

re sul luogo in cui accadono gli even-ti che diventeranno notizia e rico-struirli con autorevolezza e attendi-bilità, lasciando spazio a più vocipossibili.

Come è cambiato il lavoro di cro-nista rispetto a vent’anni fa?

Tacchini: «La tecnologia ha fatto cam-biare il modo di lavorare. Anche inagenzia. Ricordo quando si scrivevacon la macchina da scrivere o il pez-zo veniva dettato ai dimafonisti chelo trasmettevano con le telescriventi.Con i telefonini, i videofonini e In-ternet è cambiato tutto: il ritmo e ilmodo di lavorare. Internet, però,non è una fonte per l’agenzia. È unsupporto. Alle fonti bisogna andaredirettamente, di persona: non si fa ilgiornalista a tavolino. Un esempio:negli anni ‘70, se accadeva un delittoin una zona periferica buia, non ser-vita dai mezzi, in piena notte si chie-deva al vicino dell’assassinato di fareuna telefonata…oggi non è così…».Guin: «È cambiata la tecnologia. Og-gi si usano molto Internet, i blog, iforum o i siti di informazione. Lenotizie circolano più velocemente.Prima bisognava interpellare moltepersone. Ma nella cronaca locale In-ternet è usato solo come banca di da-

ti. È con il telefono che il cronista re-sta in contatto costante con il territo-rio. Il cittadino è fonte e protagoni-sta delle notizie. E poi ci sono moltiinformatori, che dai centri di potere,lanciano l’allarme e mettono in aller-ta il giornalista».

Un ritratto del cronista ideale?Tacchini: «In agenzia si è sempre scel-to la rapidità e l’attendibilità. Pur-troppo, però, il cronista non è quasimai presente al momento in cui ac-cade un fatto, così deve ricostruiregli eventi grazie alle sue conoscenzeparticolari e alle dichiarazioni dellepersone che interpelli. Basarsi soltan-to su Internet per scrivere i propri ar-ticoli, significa produrre qualcosa dimonco e parziale». Guin: «Il cronista deve andare fuori.Uscire dalle redazioni. Raccoglie no-tizie per strada: alla scrivania non sifa cronaca, anche se è quello che fa lamaggior parte dei giornalisti. Il cro-nista deve andare nei bar, nelle stra-de, al Tribunale, al Comune, nei luo-ghi della cultura e del potere… Oggii giornalisti, anche locali, sono inva-si da comunicati stampa e da e-mail.Ma il giornalismo è fuori».

Nell’era dell’informazione diffusa,che senso ha fare cronaca?

Tacchini: «Per chi lavora in agenzia haun senso profondo. Perché, anche sea volte lo si dimentica, l’agenzia scri-ve per le altre testate. Ed essere atten-ti e accurati nella raccolta delle testi-monianze è fondamentale perché arischio è tutto il sistema dell’infor-mazione, qualsiasi ambito consideri,sport, cultura o politica: alla base c’èsempre la cronaca».Guin: «Per fare cronaca non basta da-re notizie, bisogna saperle racconta-re e scriverle. E il cronista è un narra-tore. Per fortuna in provincia non sirischia l’appiattimento della cronacacome accade nei quotidiani naziona-li che usano le stesse fonti di infor-mazione. La nostra realtà è diversa:le nostre fonti sono le piazze, le stra-de, le associazioni, le circoscrizioni.Il cronista deve essere in contattocon il territorio e con i cittadini. Unacosa è certa: il lavoro del cronistanon è morto».

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consiglio a chi vuole intrapren-dere questa professione: «Aigiovani giornalisti consiglierei:scegliete un collega affermatoche vi piace e studiatene la scrit-tura, il modo di usare gli agget-tivi, lo stile». Riotta ricorda l’in-segnamento impartitogli daUgo Stille, storico corrispon-dente da New York per il Corrie-re della Sera: «Ho imparato lapassione fredda della ragione, ilgiornalismo analitico e razioci-nante. Una lezione di indipen-denza, di distacco». La difficoltà di affrontare que-sto lavoro, secondo il direttoredel Tg1, non consiste nello sve-gliarsi presto o nei fusi orari: «Èl’accettare di essere cambiatodalla realtà che ti attraversa.Non sei un buon giornalista se,qualunque argomento tu copra,ti scivola sopra come l’acquasulla lavagna. Maturare in ter-mini di carriera significa allora

sforzarsi di migliorare la propriavocazione sentimentale».Che cosa serve al corrisponden-te? Quali devono essere le suecaratteristiche, le sue propensio-ni? E quali gli errori da evitare?Tiziano Terzani non ha dubbi:«Dal punto di vista pratico, to-glietevi dai modelli degli altri;dal punto di vista teorico abbia-te un solo giudice, la coscien-za». Una forte dimensione eticaper Terzani è la base per fare unbuon lavoro. Non è, però, l’uni-co fattore: «Il giornalismo nonè mettere le scarpe che ti ha la-sciato qualcuno o il berrettotrovato su una sedia. Il mondoavrà sempre bisogno di questomestiere che è essere gli occhi,le orecchie, il naso dell’altro cheè rimasto a casa». Ma se la continuità con il passa-to “mitico” della professione ri-mane, la preparazione persona-le è diventata, con il passare de-

gli anni, un fattore determinan-te: «Specializzazione è prepa-rarsi nel senso di fare tanto ho-mework, i compiti a casa, primadi coprire le storie che dovrairaccontare. Un corrispondenteha il passo lento; il suo metro digiudizio si raffina piano. Essereun corrispondente è innestarsiin un Paese, mischiarsi alla gen-te, andare alle radici e scovareuna misura, tirare il filo di unasituazione qualche volta com-plessa».Un giudizio, questo, che rie-cheggia anche nelle paroleun’altra importante firma delCorriere della Sera, MaurizioChierici, per lungo tempo in-viato in America Latina: «Il pro-tagonista di un reportage è l’uo-mo. Il laboratorio di un giorna-lista, il centro del suo lavoro, èl’uomo». Una forte dimensioneetica della professione però nonbasta, ammonisce Chierici, se

«Vuoi fare il giornalista, hai unabella laurea a Milano? Non ser-ve, sai quanti sono al tuo stessolivello… Vatti a studiare l’ara-bo, magari. Fossi un venticin-quenne non avrei dubbi: impa-rare le lingue». È questo per Ti-ziano Terzani, per trent’annicorrispondente dall’Asia per ilDer Spiegel e poi collaboratoreper il Corriere della Sera e la Repu-blica, il modo migliore per en-trare nel giornalismo con le car-te giuste. E il primo requisitoessenziale di un futuro corri-

spondente. Per molti giovaniche si avvicinano alla professio-ne, il mestiere del corrispon-dente è, come dice Piero Otto-ne, editorialista del quotidianola Repubblica, l’unico lavoro chevorrebbero fare. Il corrispon-dente è un lavoro che affascina:essere sempre in prima linea,dove le cose accadono. E rap-presenta un traguardo profes-sionale.Ma chi è il corrispondente? Co-me è cambiato il suo lavoro nelcorso degli anni? L’arrivo della

televisione nelle case degli ita-liani ha contribuito come nes-sun altro evento del ventesimosecolo a modificare il rapportotra i lettori (trasformatisi nelfrattempo in telespettatori) e lastampa. A fare le spese di que-sto cambiamento sono state perprime le corrispondenze dal-l’estero che dovevano reinven-tarsi per attirare la lettura di chipoteva tranquillamente vederesul piccolo schermo le immagi-ni evocate dai giornalisti inviatinelle zone calde dell’informa-zione.Superata, quindi, la lunga fasedell’esotismo letterario, le corri-spondenze che compaiono suigiornali cambiano registro emantengono inalterato il lorofascino. La possibilità di com-piere errori, anche grossolani, èsempre dietro l’angolo.«Niente è più patetico - diceLucia Annunziata, editorialistade La Stampa e conduttrice delprogramma di informazione te-levisiva In mezz’ora - del giorna-lista che si precipita in un mo-mento di crisi, scende affanna-to dall’ultimo jet prima che l’ae-roporto chiuda, ha il computera tracolla, non conosce nessunoe finisce per costruire il suo ar-ticolo sul fragile telaio del reso-conto del tassista».Gianni Riotta, per anni corri-spondente da New York per ilCorriere della Sera e oggi diretto-re del Tg1, propone qualche

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Un tempo erano semplici viaggiatori che si trovavano sui fatti, quasi per caso. Oggi, i corrispondenti sonosulle prime pagine dei giornali più importanti e scrivono libri di successo.

Il mondo a casa nostra,vite da corrispondenti

Reporter: il mestiere di chi racconta il mondo stando sui fatti. I ricordi e le esperienze dei giornalistiche sono stati testimoni della grande storia e delle piccole vicende. Un lavoro che è cambiato molto,

ma che continua ad affascinare di Eugenio Buzzetti

Sono sempre di più i libri dei corrispondenti

Dagli articoli al successo editoriale

Alcuni titoli sono già dei classici, altri lo diventeranno: ilibri dei corrispondenti incontrano il favore del grandepubblico e scalano le classifiche di vendita.

Non solo articoli. Tra gli scaffali delle librerie, oggi, sono semprepiù i libri giornalistici scritti dai corrispondenti delle testate piùimportanti. Da tutte le parti del mondo che si trovano sotto iriflettori della cronaca, i libri dei corrispondenti occupano unaposizione sempre più preponderante tra le novità editoriali.Alcuni titoli sono ormai dei classici: In Asia di Tiziano Terzani,che raccoglie trent'anni di corrispondenze per il Der Spiegel, itre libri di Alberto Moravia sull'Africa, o Un'idea dell'India,scritto durante il suo viaggio nel subcontinente, fino ad arrivareai libri sulla Cina di Federico Rampini,corrispondente daPechino per la Repubblica, che negli ultimi anni hadocumentato lo sviluppo della nuova area geopolitica di Cindia.Tra gli stranieri, da non dimenticare, Cronache mediorientali diRobert Fisk, corrispondente da Beirut per il New York Times,che raccoglie più di trent'anni di corrispondenze dal Medio

Tiziano Terzani con lesue corrispondenzedall’Asia harappresentato l’antiFallaci per eccellenza, neisuoi libri e nei suoireportage si entra conempatia nelle realtàraccontate

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plusvalore che ottieni mettendole gambe in spalla. Presto, amio avviso, viaggeranno comeinviati anche i cronisti di crona-ca cittadina». Quello dell’invia-to non sarà più, dunque, un la-voro legato soltanto alle grandidistanze e ai fatti di rilevanzainternazionale, ma anche aiproblemi della vita quotidianadei lettori, affrontati in una pro-spettiva più completa, e forseanche più globale.L’esperienza dei vecchi colleghipuò servire, però, anche comemonito a non ripetere alcunivecchi errori del passato, in cuispesso i corrispondenti anchedelle testate più importanti so-no caduti. Qualcosa, insomma,anche in questo lavoro, secon-do Lucia Annunziata, è finitoper sempre: «L’inviato-trottola alargo raggio, quello che un gior-no si fa le elezioni nelle Filippi-ne, la settimana dopo è in Bo-snia e poi segue le presidenzialiamericane, rappresenta un mo-dello perdente. Un modello fi-nito. Io elogio il corrispondenteche è la talpa cieca che si abituaal buio scavando tunnel sotto lapelle della storia». Un nuovo ti-po di inviato. Molto diversodallo stereotipo secondo cui sia-mo abituati a immaginarlo e chesempre secondo la Annunziatadeve svolgere un compito bendefinito: «Ho perfezionato ilconcetto di inviato d’area. Si-gnifica trovarsi sul posto primadegli altri, perché storia e geo-grafia, per te che hai consuetudi-ne, hanno meno segreti. Gli in-viati si catapultano a eventocompiuto. Certe volte ci vuoleun giorno, due, di viaggio. Tem-

po perso. Conta essere vicini al-la storia». La capacità di coglie-re i cambiamenti, e di starne alpasso, è fondamentale: ma, for-se si tratta di qualcosa di conna-turato al mestiere e non di unanovità. Di qualcosa che deve fa-re parte necessariamente del ba-gaglio culturale di un inviato, dariscoprire ogni giorno.Non può mancare, infine, quel-l’attenzione per il particcolaredi colore che rende veritierauna storia. Credibile ed umana.È il tocco finale, l’attenzioneper il dettaglio, la cra per il par-ticolare che può dare alla corri-spondenza il valore di una vertestimonianza. Lucia Annun-ziata ricorda l’inegnamento chele diede un suo collega più an-ziano, Giuliano Zincone: «Miha insegnato che il giornalismonon è soltanto senso della noti-zia e deontologia, ossequio alleregole. Lui era di quelli che, dal-le tragedie dei boat people chefuggivano dal Vietnam, scrive-va: la vecchietta ha una radioli-na accesa e cerca di ascoltare lapartita di football. Fissare e rac-contare il gesto minimo di ag-grapparsi ad una radiocronacati dice infinitamente di più, sul-lo spaesamento di un’esistenzaspecifica, sul trauma di un boatpeople disperato, che non un im-ponente affresco socio-politicofarcito di aggettivi dissonanti enumeri di statistica».Tagliare anche questo traguardodi indipendenza e maturità nonè, però, un obiettivo di facileportata: «Devi metterci grossoimpegno. Devi sapere bene co-sa vuoi. La tua voce, di cosa sivuole occupare: mafia, politicaestera, donne, Terzo Mondo?Prendete l’impegno con un sog-getto e mantenetelo, con coren-za e passione totali. Vuol direallacciare un patto forte con larealtà, con quella scheggia o bri-ciola di realtà che diventa te».Non un semplice spettatore,dunque, e neppure solo testi-mone: seppure non partecipedella storia a cui assiste, il corri-spondente deve sentirla pro-pria.

non è supportata da un costan-te aggiornamento su quanto ac-cade nel mondo: «Mentre tuscrivi, il mondo gira. Le nuoveidee, le correzioni soccorronola superficialità e la fretta a pat-to di inzupparsi di realtà. Il la-voro del giornalista si trasfor-ma, ricomincia sempre dacca-po».Anche Ezio Mauro, direttore dela Repubblica ed in passato corri-spondente da Mosca, si soffer-ma a ragionare sul lavoro delgiornalista che vive all’estero espedisce corrispondenze ai gior-nali del proprio Paese: «Il corri-spondente ha sulle spalle un pe-so gigantesco. Ha la responsabi-lità di dare al suo giornale ilsenso politico complessivo diciò che avviene là dove lui sta.Deve coprire, spesso, un Paeseenorme. Un continente. Che aseconda dei casi produce siste-mi di informazione molto di-versi. In Russia i fatti li deve, o

li doveva ai tempi miei, cercarecon il lanternino. È solo, succe-de di tutto e tutti i giorni il mo-saico va composto con tessere aincastro». La caratteristica fon-damentale, allora, di un buoncorrispondente, per Ezio Mau-ro, è la capacità di discernere ifatti importanti da quelli secon-dari e dare ad ognuno il giustopeso. Per Mauro: «Al corrispon-dente serve un potente sensocritico. È importante che non sifaccia prendere dall’elementoromantico della sua impresa.Lui non è partecipe della storia.Come cittadino potrà preferireche vinca Gorbaciov. Ma, comegiornalista, nel bene e nel male,deve guardare e registrare». Fare il corrispondente, come siè visto, muta assieme al concet-to stesso di informazione.Gianni Riotta elenca alcuni deicambiamenti che hanno segna-to la storia di questa professio-ne: «Il nostro mestiere è stato

segnato dalle tecnologie. E letecnologie rischiano di crearedue razze di giornalisti: una dadesk, che sta sempre seduta inredazione; e un’altra categoriache esce, gira e trova storie, scri-ve». Ma sul ruolo che dovràavere questo tipo di giornalistanel futuro, Riotta ipotizza duediverse possibilità, ovvero laspecializzazione e la capacità dispostarsi verso i fatti: «Se devodire qual è la mia specializza-zione, io dico solo: studiare ilcambiamento: sociale, politico,tecnologico. Il mio obiettivo èdi essere un inviato, un narrato-re spedito sul confine del cam-biamento. In un mondo in cuil’informazione è sempre piùglobalizzata e costituisce unflusso indistinto, basta collegar-si ad una banca dati on line pernon prendere buchi, ma non èquesto il valore dell’inviato:Chi è Deng Xiaoping, quantofuma, come cammina, è un

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“ Niente è più patetico del giornalista che si preccipita in un momento

di crisi, scende affannato dall’ultimo jet prima che l’aeroporto chiuda,

ha il computer a tracolla, non conosce nessuno e finisce

per costruire il suo articolo sul fragile telaio del resoconto del tassista”

Oriana Fallaci, una dellepiù importante reporterdi guerra di sempre,famosa per le sueinterviste ai potenti dellaterra e per lo stileaggressivo, nei pezzicome nella vita. Nellapagina accanto RyszardKapuscinski

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bile stabilire su quale delle due autoviaggio». A tutto questo si aggiungeil problema della lingua: molti repor-ter non parlano l’arabo per cui, nonsolo incontrano maggiori difficoltànel muoversi e parlare con la gentecomune, ma sono anche più facil-mente identificabili dai gruppi crimi-nali.Il risultato è che spesso i giornalistisono costretti a fare riferimento astringer e producer, abitanti del po-sto che collaborano con i reporterstranieri, procurando loro le storie, leinformazioni e i contatti. Fonda-mentale è perciò avere uno stringeraffidabile e competente, perché daquesto derivano le fonti di volta involta diverse. In ogni caso l’inviatodi guerra opera in un ambiente infor-mativo molto ricco: accanto aglistringer ci sono le agenzie di stampa,le testate locali e le televisioni. Insie-me naturalmente ai militari.

Gli embeddedÈ quanto accade in special modo peri giornalisti embedded, quelli cioèche si recano in un teatro di guerra alseguito delle truppe del loro esercitoo degli alleati. Un modo di lavoraresu cui si è molto discusso, con repor-ter e cittadini divisi tra chi sostieneche per gli embedded, profonda-mente influenzati dalle autorità mi-litari, sia impossibile sapere comevanno effettivamente le cose e quan-ti ritengono sia comunque un’occa-sione per riuscire a conoscere megliouna realtà. «Di fatto molto dipendeda qual è l’esercito con cui ci si deveconfrontare», ribadisce BarbaraSchiavulli. «Se stai con le truppe sta-tunitensi puoi fare qualunque cosa,compreso seguire i medici che vannoa prendere i feriti al fronte. Simile lasituazione con gli israeliani, che con-sentono un facile accesso alle notiziecome dimostra l’ultima guerra in Li-

bano, durante la quale sono trapela-te molte informazioni talvolta noci-ve per lo stesso governo di Tel Aviv».Abbastanza complessi sembrano in-vece i rapporti con l’esercito italiano.Due i motivi: «Da un lato si cerca ditenere i giornalisti lontani dalle azio-ni militari per dimostrare che i solda-ti sono impegnati in una missione dipace e non in una guerra, dall’altroc’è l’ossessione a non far capitarenulla ai reporter perché l’omicidio oil ferimento di uno di essi a Nassiryaavrebbe provato che la situazionenon era affatto idilliaca», chiarisceOliviero Bergamini, inviato Rai.«Nonostante le numerose difficoltàcon cui un embedded si deve con-frontare sono comunque convintovalga la pena andare. Sebbene si arri-vi sul posto con i militari e si giriscortati dalle pattuglie, si ha comun-que la possibilità di vedere le cose inprima persona, parlare con la gente e

In principio fu Howard Russell. Na-sce infatti con le sue corrispondenzedalla Crimea, pubblicate da The Ti-mes nel 1854-55, la figura dell’invia-to di guerra moderno: Russell sispinse fino al campo di battaglia, fuil primo a scoprire errori nelle strate-gie militari e soprattutto a documen-tare una sconfitta dell’esercito britan-nico, come accadde nella battaglia diBalaclava. Da allora la figura del reporter diguerra ha subito molteplici trasfor-mazioni, causate e agevolate dal-l’evoluzione delle tecnologie dellecomunicazioni di massa. Ma se il la-voro dell’inviato si è trasformato neltempo, alcuni problemi sono rimasticostanti: il rapporto con le fonti, conle autorità militari e i meccanismi dicensura sempre più sottili e tentaco-

lari. La prima vittima della guerra, sidice spesso, è l’informazione. Del re-sto di fronte a un conflitto per le au-torità politiche e militari diventa as-solutamente necessario mobilitare ilconsenso dell’opinione pubblica,sminuire le sconfitte ed esaltare levittorie per tenere alto il morale dicittadini e soldati. Questioni chepuntualmente si sono presentate an-che in occasione dell’ultimo conflit-to in Iraq. Con le aggravanti del ca-so: una guerra impopolare in buonaparte del mondo occidentale e unPaese sprofondato nel caos, in cuigruppi criminali e affiliati ad Al-Quaeda considerano un obiettivoogni occidentale, giornalisti compre-si. Una situazione che è andata pro-gressivamente degenerando. «All’ini-zio del conflitto infatti c’era la possi-

bilità di muoversi nel Paese sebbenecon tutte le difficoltà del caso», sot-tolinea Sergio Ramazzotti, free-lanceautore di numerosi reportage daAfrica, Sud America, Medio oriente,Estremo oriente e in Iraq dopo l’in-vasione americana del maggio 2003.«Le fonti locali erano assolutamenteaccessibili e la popolazione era cor-diale, ospitale e disponibile a dare in-formazioni, rilasciare dichiarazioni ea far vedere quale era la realtà quoti-diana». Il vero ostacolo era piuttostoun altro. «I marines cercavano di li-mitare i movimenti di chi non eraembedded, rendendo impossibilel’accesso ad alcune zone con la scu-sa ufficiale che c’erano sparatorie oper altre ragioni di sicurezza. A que-sto va aggiunta una certa reticenza arispondere a domande specifiche sul-le operazioni in corso e persino a da-re informazioni di carattere genera-le». Dal 2004 però, con l’aumentare del-le difficoltà per gli eserciti, il compi-to degli inviati sul campo si è com-plicato non poco. «Oggi in questiposti la tutela è inesistente», raccon-ta Barbara Schiavulli, free-lance daotto anni impegnata in teatri di guer-ra. «A differenza di altre realtà, comead esempio a Gaza dove ci si può ac-creditare presso gli israeliani e si ri-schia relativamente poco, i reporterin Iraq sono un possibile bersaglio.Risulta quindi difficile lasciare l’al-bergo, girare per strada, incontrare lagente. Quando intendo uscire devoperciò prendere un appuntamento eorganizzare percorsi specifici. Manon basta. Spesso mi vedo costrettaa vestire con gli abiti tipici delle don-ne sciite per non essere riconosciutacome occidentale e a pagare due au-tisti, in modo tale che non sia possi-

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Alcuni reporter di guerra al lavoro durantel’ultimo confitto in Iraq,uno dei più sanguinosisul fronte della stampa

Dai reportage di Russell in Crimea ai giornalisti embedded in Iraq. Cosa in quasi cento anni (non) è cambiato per gli inviati

Ultime notizie dal fronte,rischi e censure di guerra

Esposti al pericolo, impegnati a sopravvivere tra eserciti nemici, guerriglia e fuoco amico, sempre alla ricerca di brandelli di verità da raccontare. Fenomenologia di un mestiere al limite.

Storie di cronisti attratti dai campi di battaglia. di Simona Sincinelli

Diari on-line: il nuovo volto dell’informazione

Blog d’assaltoDa Salam Pax a Lakshmi Chaudhry, il conflitto irachenoraccontato dai civili

Maggio 2003. In pochi giorni nascono in Rete un centinaio di blogche raccontano l’offensiva militare Usa in Iraq. Sono diari on linecon testimonianze di inviati di guerra, reportage di giornalisti free-lance, racconti del soldati al fronte, insieme a commenti dinavigatori Internet. A lasciare il segno però sono soprattutto i diaridi civili iracheni e in particolare Where is Read, di Salam Pax, che halavorato come interprete per giornalisti occidentali, e BaghdadBurning, della giovane programmatrice Lakshmi Chaudhry. Grazieai loro post è possibile conoscere i problemi della popolazione civilee osservare la guerra dal punto di vista della gente comune. Aproposito dell’assedio della città di Falluja Riverband, questo ilnickname della ragazza, scrive: «Le persone non hanno da mangiaree bevono acqua contaminata. Ci sono cadaveri per le strade enessuno vuole correre il rischio di lasciare la propria abitazione perseppellirli. Molti bruciano i corpi in giardino».

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I costiUn inviato di guerra costa infatti al-meno diverse centinaia se non addi-rittura mille dollari al giorno. Per l’al-bergo le redazioni devono sborsarequotidianamente tra i 50 e i 300 dol-lari, per l’interprete tra i 50 e i 200, aseconda del Paese e dei rischi, perl’autista tra i 100 e i 300 e a questobisogna aggiungere l’assicurazione elo stipendio degli inviati. Tutte speseche per le televisioni sono ancora piùalte che per i giornali, non solo per-ché serve più personale, almeno duegiornalisti e un montatore, ma ancheperché bisogna pagare per prenotareil satellite e trasmettere i servizi chevengono a costare tra i 500 e i milleeuro ciascuno. Accanto a questo ristretto gruppo di

inviati delle grandi testate, che pos-sono contare su ampie risorse, si èandata così creando progressiva-mente una fascia bassa di giornalistidi testate alternative, siti internet ofreelance. Questi giornalisti arrivanonei teatri di guerra con mezzi di for-tuna, con associazioni non governa-tive, viaggiando su pullman o in al-cuni casi con l’esercito. «In Iraq so-no entrata al seguito degli americanisu una jeep kwaitiana senza targa esempre in auto ero riuscita a rag-giungere l’Afghanistan, dove invecealtri colleghi hanno preferito varca-re la frontiera a piedi con i milizianidell’Alleanza del Nord», ricordaSchiavulli. Una volta arrivati sul po-sto poi questi giornalisti lavoranocon pochi mezzi a disposizione, cor-

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I giornalisti embeddedseguono le truppegovernative in ognimovimento. Come lorosono esposti a pericoli esono cotretti a scrivere incondizioni proibitive

“Si cerca di tenere i giornalisti lontani dalle azioni militari

per dimostrare che i soldati sono impegnati in una missione di pace

e non in una guerra. Al tempo stesso c’è l’ossessione a non far capitare

nulla ai reporter perché il ferimento o l’omicidio di uno di essi a Nassirya

proverebbe che la situazione non è affatto idilliaca”

Aprile 2003. Le truppe americaneentrano a Baghdad.

rono i rischi maggiori e sono menotutelati persino dalle stesse testateper cui scrivono. «Generalmente mireco in un Paese su incarico di ungiornale, so già quindi per chi sto la-vorando, dove devo andare e qualetaglio dare agli articoli. In ogni casoperò sono generalmente io a dovercoprire tutte le spese, che mi vengo-no eventualmente rimborsate soloin un secondo momento», affermaRamazzotti. «Nei primi anni spen-devo addirittura più di quello cheguadagnavo», conferma Schiavulli.«Ultimamente invece le cose sonomigliorate e oggi riesco abbastanza acontrattare sul prezzo di un articolo,nonostante molto dipenda dallaguerra. In Iraq per esempio c’è unamerce di scambio non da poco per-ché l’argomento interessa e perchéio sono l’unica free-lance a recarsinel Paese. Ad ogni mondo è fonda-mentale prendere accordi con i gior-nali prima di partire così da fare uncalcolo dei costi da sostenere, dalviaggio all’interprete, e sapere diconseguenza quanti pezzi è necessa-rio far pubblicare per poter coprirele spese e guadagnare qualcosa. Ilche solitamente significa scriveredavvero parecchio». Certo le difficoltà non mancano, mail desiderio di conoscere e documen-tare gli eventi è troppo forte. «Vado inquesti Paesi per raccontare storie an-che se è rischioso. Non ci sono testi-monianze che valgono una vita, mase questo è il mio lavoro devo farlonel migliore dei modi, talvolta ri-schiando molto», sostiene Schiavulli.A ciò si aggiunge una forte curiosità.«Sono andato in Iraq spinto da unacerta rabbia e incredulità per ciò chegli americani si apprestavano a fare,unitamente a un grande interesse perquesta guerra che si è senz’altro di-stinta per la disparità delle forze incampo: da una parte un esercito ine-sistente dall’altro l’apparato militarestatunitense, una macchina estrema-mente agguerrita e ben organizzata,al punto da riuscire a gestire il conflit-to non solo sotto il profilo strategico,ma anche da quello mediatico», con-clude Ramazzotti. «Chi si trovava sulposto doveva decidere se stare con imilitari o con i civili e una volta fattaquesta scelta era impossibile passaredalla parte opposta per guardare daentrambi i punti di vista questo che,come tutti i conflitti, è sempre piùspesso percepito nel mondo occiden-tale come un evento asettico, moltoe forse troppo distante perché possadavvero coinvolgerci».

Le altre fontiE se per gli embedded l’esercito è lafonte di informazione principalequesto non significa affatto che sial’unica a cui poter attingere. Chiara-mente il giornalista deve essere abilee saper sfruttare a proprio vantaggioogni piccola occasione. «Quando an-davo in città e incontravo il capo del-la polizia irachena o i medici di unospedale cercavo sempre di farmi da-re i loro numeri, così da poterli chia-mare dall’interno della base. Con iltempo sono inoltre riuscito a procu-rarmi dei contatti forti, tra cui quel-lo di un giovane collaboratore del-l’Associated Press che mi teneva in-formato e girava immagini per meimpossibili da realizzare. Io tuttavia,quando passavo per la città, non lochiamavo mai per evitare che mi po-tessero aggredire. In queste situazio-ni servono sempre attenzione e pru-denza perchè uno stringer in fondopuò essere chiunque, magari unaspia», sottolinea Bergamini. Durante i primi mesi di missione ita-liana in ogni caso non era nemmenotroppo complesso riuscire a racco-gliere testimonianze dirette dei citta-dini iracheni. All’inizio le truppe en-travano a Nassirya con una certa fre-quenza e portavano i giornalisti conloro. In queste occasioni i reporterpotevano parlare con la gente per

strada, chiedere loro un giudizio sul-l’operato dell’esercito italiano. Que-sti contatti con gli abitanti del postosono però progressivamente dimi-nuiti. In seguito all’attentato alla ba-se di Camp Mittica e in misura anco-ra maggiore dopo la battaglia deiponti del 2004, i militari hanno sti-pulato un accordo non scritto, ma difatto evidente, con le autorità localiper cui non entravano più in città esi limitavano a pattugliarla solo mol-to superficialmente dall’esterno. Econ il passare del tempo gli incontricon i cittadini di Nassirya si sono fat-ti sempre più sporadici. Non solo. Amano a mano che la situazione sulcampo si faceva sempre più criticaanche i rapporti tra inviati e militarisi sono fatti più difficili. «L’alloggiodei giornalisti è stato spostato in unluogo totalmente isolato e come senon bastasse i reporter venivano ac-compagnati dappertutto, in mensa eperfino quasi al gabinetto», aggiungeBergamini. «Era quindi molto com-plicato riuscire ad attingere a fontidiverse dall’addetto dell’ufficio stam-pa, il quale, ovviamente, fornivasempre la versione più edulcorata deifatti. Così, a quel punto, andare aNassirya diventava una cosa quanto-meno problematica, considerando irisultati e la spesa elevata che le testa-te dovevano sostenere».

farsi un’idea di quale sia complessi-vamente la situazione nella zona.Naturalmente sarebbe meglio poter-si muovere autonomamente ma aNassirya, per esempio, era oggettiva-mente difficile, sia per problemi disicurezza sia per le condizioni clima-tiche decisamente poco favorevoli,con temperature torride che poteva-no raggiungere i 50 gradi all’ombra».Certo è che, almeno in un primo mo-mento, pur stando all’interno dellabase di Camp Mittica era possibileessere informati su quanto accadevanella provincia di Nassirya. La baseitaliana era di fatto un piccolo paesee ospitava circa 3 mila persone. Gliinviati erano alloggiati in una partedel campo, dove era stato allestitouno spazio apposito con delle barac-che, gli uffici e un dormitoio, nonlontano dai reparti operativi, tanto èvero che si potevano vedere le colon-ne di mezzi uscire per andare in mis-sione. Da questa zona i reporter ave-vano l’opportunità di allontanarsi egirare per la base, parlare con tutti,dai soldati semplici agli ufficiali. «Erapossibile avere informazioni, oltreche dall’ufficio stampa, da chi avevapreso parte direttamente alle opera-zioni. In questo modo si potevanosfruttare le rivalità interforze per ave-re maggiori dettagli su quanto stavaaccadendo», afferma Bergamini.

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desiderio di continuare a riportare laverità e a informare le persone. Inquesto caso, il giornalismo diventaquasi una missione, un contratto fir-mato in bianco e quindi privo diqualsiasi tipo di garanzie. Il giornali-sta opera una scelta irreversibile, dacui dipenderà il proseguimento stes-so della sua vita. Si tratta di una de-cisione consapevole e, apparente-mente, persino controproducentedal momento che operare in un regi-me chiuso, in cui la libertà di stampanon è garantita, vuol dire non riusci-re neanche a diffondere il proprio la-voro.E quindi, per chi si scrive? Per quale

motivo la scelta di rischiare la pro-pria vita diventa una scelta dotata disenso? Evidentemente il giornalistache si trova immerso in un regime dacui viene considerato un nemico, ri-sponde, nell’esercizio della sua pro-fessione, a una logica differente ri-spetto a quella di un collega di unPaese libero. La sua informazione èrecepita come controinformazione,come menzogna o come verità sco-moda a seconda del punto di vista dichi la riceve. Questo è esattamente il risultato chequesto tipo di giornalista vuole otte-nere. Informare diventa uno stru-mento differente. Non si informa so-

lo per mettere a parte di qualcosa.Ma per ottenere un effetto seconda-rio. Spesso l’obiettivo è quello di ri-svegliare le coscienze assopite dellepersone, sia che esse siano all’inter-no, sia all’esterno del Paese stesso.Il mondo è pieno di esempi in que-sto senso. Ogni Stato “critico” ha isuoi martiri. Un caso significativo è quello rap-presentato da Cubanet.org.Cubanet è un sito internet con basenegli Stati Uniti, a Miami. Si avvaledi una trentina di giornalisti indipen-denti distribuiti un po' in tutta l'iso-la. Il focus del lavoro di questi gior-nalisti è proprio ciò che è più invisoal regime dei fratelli Castro. Libertàdi opinione, associazione e pensiero.Quasi nessuno a Cuba può leggereciò che i trenta giornalisti scrivono,dal momento che il regime controllaseveramente Internet e gli accessi alweb sono, oltreché sottoposti a cen-sura da parte della polizia politica, li-mitatissimi.Nove giornalisti sono già stati arre-stati dal regime. Le pene inflitte seve-rissime. Si arriva fino a 20 anni dicarcere. Gli altri però continuano ainformare pur sapendo i rischi a cuivanno incontro.Armando Soler è uno di loro. «Scri-vere e informare la gente sulla realesituazione a Cuba è un obbligo mo-rale. Noi siamo perfettamente a co-noscenza del fatto che prima o poi lapolizia ci verrà a prelevare. Ma nonpossiamo smettere di informare».Interessante è il modo in cui i gior-nalisti di Cubanet aggirano i divietidel regime. «Dal momento che il re-gime controlla il web, noi dettiamoper telefono i nostri articoli alla sededi Cubanet, a Miami. Il problema èche anche la polizia lo sa, anche per-ché noi non lo nascondiamo affatto.Siamo controllati in ogni nostro spo-stamento. Nessuno può dire conesattezza quando le forze dell'ordinedi Castro decideranno di arrestarci.Anche perché non lo fanno a segui-to di particolari articoli su materie ri-tenute sensibili. Tutte le denunce chenoi facciamo sono materie sensibiliper il regime. Ogni tanto, semplice-mente decidono di arrestarci. Que-sto è tutto».Ma per chi scrivono i giornalisti diCubanet? «Scriviamo - dice Soler -perché non si dimentichi la situazio-ne a Cuba. Scriviamo per chi è inte-ressato a sapere come vanno le coserealmente sull’isola. Ma, in fondo,scriviamo per noi stessi. Per il nostrofuturo».

La libertà di stampa e il giornalismoindipendente non cessano di esiste-re in un preciso, drammatico mo-mento. La loro scomparsa arriva do-po una lunga agonia, fatta di un sus-seguirsi di piccoli attacchi. Esatta-mente in questo modo si sta spe-gnendo il giornalismo libero in Rus-sia».Così, Oksana Celisheva, giornalistae attivista per i diritti umani, denun-cia, dalle pagine dell’Independent, lastrategia che il Governo di VladimirPutin sta mettendo in atto per con-trastare le voci scomode in Russia. Laprofessione giornalistica in moltiPaesi del mondo è un esercizio mol-to rischioso. Il Commitee to Protect Journalists diNew York ha rivelato che Anna Polit-kovskaja è stata la tredicesima gior-nalista russa morta per mano di unsicario dal 2000.Secondo Carlo Gallo, esperto diRussia per la società di consulenzasulla sicurezza Control Risks, «casi co-me quello della Politkovskaja e di

Paul Klebnikov, il direttore di ForbesRussia ucciso nel 2004, potrebberoessere solo la punta dell'iceberg. Dimolte altre esecuzioni non si sa nul-la. I cronisti locali che indagano sul-la corruzione rischiano spesso ag-gressioni o perfino la morte». L’ultimo caso, in termini di tempo,riguarda Ivan Safronov, giornalistadel quotidiano Kommersant, morto il2 marzo scorso a Mosca dopo essereprecipitato in circostanze misterioseda una finestra del palazzo dove vi-veva. Non si è certi sulla dinamicadell'incidente. Omicidio, suicidio,tragica fatalità. Tutte le ipotesi sonoaperte.Ovviamente è importante sapere co-sa sia successo esattamente all’ex co-lonnello delle truppe missilisticherusse Safronov. Ma non è la cosa piùdecisiva. Il dato più sconcertante èl’abitudine che abbiamo sviluppatoa considerare possibile che in alcuniPaesi un giornalista venga arrestato oaddirittura ucciso solo in ragione delproprio lavoro.

In questo, il partito della compres-sione delle libertà è più che mai tra-sversale.Nell'annuale graduatoria della liber-tà di stampa stilata da Reporters Wi-thout Borders, nelle ultime 20 posizio-ni troviamo Paesi molto diversi traloro per situazione politica, econo-mica e religiosa, ma unificati soltan-to dal tratto comune del mancato ri-spetto delle libertà individuali. Russia, Siria, Arabia Saudita, Iran,Cina, Cuba e Corea del Nord. Questa è la lista nera dei regimi doveè più difficile svolgere l'attività giorna-listica. Quali che siano le motivazioniformali addotte di volta in volta daquesto o quel regime per giustificarela compressione o addirittura il tenta-tivo di annientamento della stampalibera, il risultato è uno solo. In que-sti Paesi, come in molti altri, la profes-sione e la vita stessa del giornalista so-no continuamente minacciate.Per questo motivo, è completamen-te inutile operare dei distinguo tra idiversi Stati. E' davvero così impor-tante conoscere le differenti giustifi-cazioni degli ayatollah iraniani o delregime castrista a Cuba? Il risultato èsoltanto uno: i giornalisti vengonoostacolati, minacciati e arrestati.Non solo: vengono abbandonatinelle carceri per lungo tempo in atte-sa di un processo - che, questo sì, sa-rebbe interessante analizzare detta-gliatamente Paese per Paese - la cuisentenza è spesso già scritta.E allora ecco che, di norma, coloro iquali vogliono continuare a esercita-re il mestiere di giornalista ma alcontempo non disdegnano di conti-nuare a vivere, scelgono l’esilio. Abbandonano la propria nazione,temporaneamente o per sempre, econtinuano a occuparsi delle patriesventure dall’estero. Oppure non si arrendono, spinti dal

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Illustrazione di TaharZbiri, China su carta,collezione privata

Non solo informazione: nei regimi autoritari la professione giornalistica diventa missione civica.La trasmissione di notizie diventa un pericoloso gioco a due con il potere.

Keep on reportingGiornalismo e privazione di libertà. Quando il reporter sfida censure e divieti dell’autorità in nome della libertà a

informare e ad essere informati. Focus sul partito trasversale dei censori internazionalidi Alessandro Giberti

La storia di Darsi Ferrer, medico dell’Havana che ha scelto la strada della dissidenza

Quando la società civile non si allinea«Siamo cresciuti con il mito dell’uguaglianza, credendoci. Ben presto abbiamocapito come stanno le cose realmente a Cuba, e a quel punto non collaborare conla dittatura è diventato un obbligo morale»

«No es fàcil». Il dottor Darsi Ferrer sceglie l’espressione più comune tra gli habanerosper sintetizzare la situazione che vive sull’isola. La sua è una storia particolare. Non èun giornalista e non vuole farlo. Il suo mestiere è un altro. Darsi è un medico. O meglio,era un medico. Ora è un dissidente. Ha perso il lavoro quando ha deciso di non colla-borare più con la dittatura. Da quel giorno ha subito minacce, percosse e diversi arrestida parte della polizia politica dei fratelli Castro, la temutissima seguridad social. «Ognicinque-sei settimane mi arrestano. L’ultima volta mi hanno prelevato da casa alle cin-que di mattina. Con me c’era mio figlio di tre mesi. A loro queste cose non interessano:mi hanno portato alla unidad lasciandolo da solo per sei ore. Io non mi faccio intimorire.Continuo a oppormi alla dittatura con ogni mezzo. Presto servizio medico gratuitamen-te agli abitanti del quartiere dove vivo. Per fermarmi dovranno uccidermi per strada».

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tare, in quel periodo: io mi senti-vo libera di fare accostameni az-zardati, ad esempio di metteredelle scarpe gialle sotto la pubbli-cità di un vestito di Gucci».

Ora non più: le scelte dei re-dattori sono, almeno in parte,etero-dirette. Lo spazio è poco, lapubblicità troppa: bisogna lavo-rare sui temi che propone il diret-tore, che spesso sono dettati di-rettamente dall’ufficio marketing.E come si fa a dire di no al diret-tore? Mirella Moretti chiarisce ilconcetto: «Da un punto di vistapratico, nulla è cambiato nel la-

Sorprende davvero l’interesse dialcuni settimanali italiani per lastoffa a spina di pesce. Inutile do-mandarsi il perché, o forse trop-po complicato. Fatto sta che asfogliare Style Magazine di no-vembre, il lettore si imbatte in unpezzo, anzi un un intero servizio,sullo spinato da uomo. A chi ser-ve? È la prima reazione di molti.Tolti i 2 o 300 lettori di Style fol-lemente appassionati di giacche alisca di pesce, quale valore infor-mativo ha questo servizio? Aguardarlo bene, in realtà, offrenotizie di prima mano su mar-che, prezzi e materiali dei com-pleti che mostra, corredati anchedi testimonial illustri. Poco menoche un catalogo, insomma. Servi-zi come quello di Style pongonoil problema della presunta separa-zione tra informazione e pubbici-tà. Sicuramente lo pone a FrancoAbruzzo, il presidente dell’Ordi-ne dei giornalisti della Lombar-dia. Quella di Abruzzo è una ve-ra e propria «crociata» contro lacommistione tra pubblicità egiornalismo. Prima di tutto per-ché questa fondamentale distin-zione è contenuta nella Carta deidoveri del giornalista (oltre chenell’articolo 44 del contratto na-zionale di lavoro), sulla quale co-me presidente dell’Ordine è chia-mato a vigilare. Ma soprattuttoperché è un convinto sostenitoredi un’informazione trasparente enon condizionata da una pubbli-cità pervasiva. Oltre ad essere ilpresidente di uno degli ordini re-gionali più attivi nel processare igiornalisti per questo tipo di ille-citi deontologici (l’ultimo caso ha

coinvolto Gianni Gambarotta, exdirettore de Il Mondo, condanna-to alla radiazione per aver accet-tato 30mila euro da GiampieroFiorani e Gianfranco Boni dellaBanca Popolare di Lodi, in cam-bio della benevolenza del diretto-re per le rispettive banche), hapromosso varie iniziative anti-commistione. Recentemente halanciato la cosiddetta «operazio-ne Azimut» per smascherare ini-ziative, come quella promossadalla nota società di gestione delrisparmio milanese che allestivale sue conferenze stampa a Dubaiper illustrare i risultati della tri-mestrale, invitando i giornalistidelle principali testate a trascorre-re qualche giorno in alberghi a 5stelle a spese della società. E co-me Azimut, Max Mara, PowerEnterprise, Coin e altre, tutte conil «vizietto» di offrire viaggi-pre-mio in cambio di articoli favore-voli, o meglio, redazionali nonpagati. Contro queste invasionidi campo della pubblicità, il pre-sidente dell’Ordine propone dirilanciare ed ampliare le regoledeontologiche (soprattutto quel-le contenute nel contratto giorna-listico). L’obiezione di coscienza,lo sciopero della firma e le dimis-sioni per lesione della dignitàprofessionale, secondo Abruzzo,potrebbero fare più di molti scio-peri per richiamare all’ordine glieditori. Scrive infatti nella rela-zione finale dell’assemblea gene-rale dell’Ordine del 24 marzo2005: «La pubblicità costituisceuno dei perni sui quali si reggeoggi il sistema dei mass media.Non va demonizzata a patto che,

voro giornalistico: solo in certicasi, giustamente condannati dal-l’ordine, alcune redattrici sonostate sanzionate per aver accetta-to denaro in cambio di pubblici-tà occulta o vere e proprie campa-gne pubblicitarie accolte sulle pa-gine di moda. Ma questi sono ca-si isolati». I vincoli pubblicitariinvece fanno parte della routineinformativa di tutti i giornali. Alpunto che sono proprio gli inser-zionisti pubblicitari a «fare» datraino alle vendite. Un caso pertutti è Velvet, il più recente sup-plemento di Repubblica: 578 pagi-

pubblicità». C’era un tempo incui le inserzioni erano merce ra-ra, anche nelle riviste di moda, ri-corda Mirella Moretti: «Nel ‘78,quando ho iniziato io ad Amica,le inserzioni bisognava guada-gnarsele. Nonostante questo, iomi sentivo molto più libera diadesso nel progettare servizi e re-portage». La pubblicità era fonda-mentale come e forse più di ades-so (a causa dell’aumento del prez-zo della carta e della crisi deglianni ‘80), ma redazione e ufficiomarketing erano due realtà benseparate: «era più facile sperimen-

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Nonostante l’impegno dell’Ordine, la separazione tra informazione e «marchette» è pura utopia. Ma non èsempre stato così. Piero Pantucci e Mirella Moretti (Amica) spiegano cos’è cambiato negli ultimi 20 anni

Maledetta pubblicità,tutto gira intorno a lei

Impossibile farne a meno, ma anche tencerla a debita distanza. Così l’informazione diventa spuria e lecommistioni sono all’ordine del giorno. In un mercato editoriale che mette al centro le inserzioni, l’etica

passa in secondo piano. E anche il ruolo del giornalista. di Daniela Verlicchi

Oggi la pubblicità èonnipresente nella cittàcome nei giornali, conuna continuità che nonconosce interruzioni

a tutela primaria del lettore, ri-mangano tracciati con chiarezza iconfini tra le diverse sfere delgiornalismo, del marketing e delmessaggio promozionale. Neicontratti di lavoro è stata previstauna trasparente separazione tranotizie e pubblicità attraverso ri-gorose norme di comportamentoche oggi vengono sistematica-mente eluse o erose». Alla base diquesto principio sta la credibilitàdel giornalismo stesso come fon-te d’informazione indipendente enon influenzata, (senza una chia-ra distinzione tra giornalismo epubblicità, infatti, chi può garan-tire che un servizio ben confezio-nato non sia in realtà il risultatodi pressioni multiple da parte de-gli inserzionisti a supporto di ve-rità a loro favorevoli?). Principisacrosanti, in teoria, che si tra-sformano in scomode norme de-ontologiche da aggirare quandosi ha a che fare con i bilanci diaziende editoriali, sempre più si-mili a forme di groviera senza gliinvestimenti pubblicitari. Diffici-le anche per un prodotto «pulito»dal punto di vista della separazio-ne tra informazione e pubblicitàcontare su un qualche premio intermini di copie vendute. La pub-blicità ormai fa parte della mac-china editoriale, esattamente co-me le rotative, la carta o la mentedei giornalisti. Il problema forse èmettere sullo stesso piano tuttiquesti ingredienti.

Ma non è sempre stato così,spiega Mirella Moretti, ex-capore-dattrice moda di Amica: «Quindi-ci anni fa non si conoscevano an-cora tutte le potenzialità della

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ne a colori, 41 sponsor precedo-no il primo articolo della rivista,che, per giunta, parla del trucco edell’abbigliamento di Bianca Bal-di, la top model di copertina. Enon è un’eccezione. Il velluto in-terpretato da 26 famosi stilisti,l’automobile più desiderata dagliitaliani e gli ombretti più trendy(con tanto di marche e prezzi, ov-viamente): questi i servizi di pun-ta di Velvet. E c’è poco da stupir-si, spiega l’ex caporedattrice mo-da di Amica. Il supplemento diRepubblica è solo l’ultimo «proget-to editoriali ad essere venduto so-prattutto agli inserzionisti: i rica-vi delle edicole sono secondari»rivela Mirella Moretti. «I marchipiù prestigiosi pagano poco lapubblicità, a volte non pagano af-fatto: sono loro che attirano i let-tori». Come nelle vetrine dei loroatelier. Così i giornali diventanocataloghi di moda. E i giornalisti,come produttori di un’informa-zione indipendente, diventanoinutili. Non bisogna generalizza-re, però. «I supplementi dei quo-tidiani sono un capitolo a parte:nascono come contenitori dellapubblicità eccedente nel giorna-le-madre, costano poco e (per ra-gioni distributive) vendono piùdelle riviste», ricorda Moretti.

«Non che una volta ci fosseuna separazione rigida - precisaPiero Pantucci, sindacalista emembro del Cdr di Amica duran-te la direzione Petroni - ma alme-no i confini tra pubblicità e infor-mazione erano percepibili e c’eraqualche tentativo di mantenereuna certa autonomia da parte deigiornalisti». Pantucci ha condivi-

so con Mirella Moretti gli anni delboom pubblicitario ad Amica, cheallora era venduto come supple-mento femminile al Corsera. Neglianni’80 la crisi generale dell’edito-ria e la gestione controllata delCorriere avevano aperto un bucoenorme nel bilancio del settima-nale. La diffusione non bastava acoprire i conti. Ed è allora che si«scopre» l’importanza della pub-blicità. Importanza che col tempodiventa via via più ingombrante.«Il problema principale è quellodelle fonti» secondo Pantucci. E ilsistema è ormai entrato nella rou-tine informativa: «Quando ad unredattore viene assegnato un servi-zio, gli vengono fornite anchefonti precostituite (agenzie, co-municati stampa, documenti pro-dotti dalle aziende e non): mate-riale molto interessante, intendia-moci, che ha l’apparenza e la so-stanza del prodotto giornalistico».Se a questo si aggiunge la cronicamancanza di tempo che regna nel-le redazioni e la debolezza di cer-te posizioni contrattuali (peresempio quelle dei collaboratori odei praticanti), il gioco è fatto.

Il giornalista spesso è sogget-to, più o meno consapevolmente,ad una sorta di «moral suasion»,denuncia Pantucci, esercitata daldirettore stesso per conto dell’uf-ficio di pubblicità. «Molto, quin-di, è nelle mani del direttore:l’unico della redazione che hacontatti con l’ufficio marketing».Sta a lui, quindi, bilanciare l’auto-nomia professionale con la neces-saria attenzione agli investimentipubblicitari. Anche dal punto divista sindacale, secondo Pantucci,

i tempi sono cambiati: «Una vol-ta avevamo alle spalle redazioni,non dico compatte, ma attente amantenere una certa autonomiarispetto alla pubblicità. Redazioniche seguivano il sindacato. Orami sembra che i giornalisti abbia-mo capitolato sui loro principi,soprattutto su quello della separa-zione tra informazione e pubbli-cità. Quando si deve combattereper un contratto giornalistico peri collaboratori, la deontologia pas-sa in secondo piano».

Inutile nascondersi dietro undito, secondo Pantucci: la que-stione è anche di tipo contrattua-listico. O di sopravvivenza delmestiere, secondo Mirella Morel-li. Con un buon supporto grafico,molto materiale pubblicitario euna mano in grado di mettere tut-to questo in forma «commestibi-le» ai lettori, i giornalisti, sembra,non servono più. E rischiano diessere sostituiti. O lo sono già sta-ti, osserva Moretti: «Le redazionidi molti femminili sono compo-ste solo da due capi-desk e unostuolo di assistenti che non sonogiornaliste e si limitano ad un ac-curato copia e incolla di materialepubblicitario». Delle semplicimacchine impastatrici che si pre-occupano di creare testi giornali-stici leggibili e graditi agli editoriattraverso gli ingredienti che han-no a disposizione: comunicatistampa e inserzioni pubblicitarie.Per gli editori è molto vantaggio-so: meno giornalisti, meno dilem-mi deontologici, stesso prodotto,confezionato persino più veloce-mente. E soprattutto a costi infe-riori. La pubblicità scaccia i gior-nalisti dalle redazioni. Stop, fine,game-over? Fine dell’informazio-ne indipendente? Forse no.

Il giornalismo è molto piùche un copia-incolla informazionisu una pagina bianca. La ricerca distorie, il confronto di fonti diver-se e la contestualizzazione si pos-sono fare anche a partire da scarnicomunicati stampa. E il risultato èun prodotto più appetibile al pub-blico, e quindi anche agli investi-tori. Si tratta di scommettere suprodotti giornalistici di qualitàche non escludano la pubblicitàma la utilizzino per vendere co-pie. Di essa l’editoria non può piùfare a meno. Ma può resistere aisuoi tentativi di stravolgere il lin-guaggio e il contenuto del giorna-lismo. È una sfida. La sfida del fu-turo.

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Il New York Times sotto osservazione

Tutto il mondo è paese Se in Italia la separazione tra informazione e pubblicità è un mito, all'estero è poco più che un miraggio

In questo caso, la proverbiale esterofilia degli italiani non ha ragion d’essere. Se qui è arduotracciare una linea di confine tra informazione e pubblicità, all'estero non è più semplice.Basta sfogliare le pagine del New York Times per rendersene conto. Nella pagina oblungadel più autorevole quotidiano newyorkese, le inserzioni occupano quasi tutto lo spazio. È lapubblicità, insomma, a farla da padrona. E questo porta a scelte grafiche quantomenoazzardate, impensabili nei nostri quotidiani, come quella di affiancare due o tre inserzioni apagina intera. Spesso gli articoli vengono relegati nell'angolo in alto a destra: tre colonne ditesto che galleggiano in un mare di pubblicità. Nell’inserto culturale la confusione è persinomaggiore. Accanto a un articolo sugli accessori femminili di moda, campeggia la pubblicitàdi una borsa di Ralph Lauren. Un servizio sui matrimoni di star e subrette è tatticamenteinserito tra la foto di un abito da sposa e la pubblicità di un locale per cerimonie.Coincidenze? Quantomeno internazionali.

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I

Non solo alambicchi: oggi la ricerca ha bisogno di una nuova figura di comunicatorecapace di declinare il linguaggio dei laboratori in forme di largo consumo

Un cronista per la scienza

Trasmettere al pubblico i contenuti delle nuove scoperte sta diventando un compito sempre più difficile.Serve una solida preparazione e la capacità di ricondurre gli specialismi sui sentieri della quotidianità

di Daniele Montanari

Il 23 marzo 1989 il chimico america-no Stanley Pons e il collega britanni-co Martin Fleischmann sconvolseroil panorama mediatico mondiale an-nunciando di essere riusciti a realiz-zare la leggendaria “fusione fredda”,uno dei più grandi miti energeticidella storia. La notizia era priva diqualsiasi avallo della comunità scien-tifica, ma per diverso tempo fu la-sciata libera di percorrere le prateriedell’informazione con un passo de-gno dei cavalli dell’Apocalisse. Al-l’apparir del vero, rimediò una sono-ra caduta che rintronò a lungo nel-l’imbarazzato circuito dei media: la

sirena dello scoop aveva ammaliatoanche specialisti abituati a una lungaconvivenza con cautela e approfon-dimento. Da allora ne è passata parecchia diacqua sotto i ponti: oggi il giornali-sta scientifico ha a disposizione stru-menti di indagine e verifica che do-vrebbero scongiurare il pericolo dialtre Caporetto informative. La suafigura ha ormai acquistato piena cit-tadinanza nel mondo della cartastampata: i maggiori quotidiani na-zionali ospitano settimanalmenteuna sezione dedicata agli approfon-dimenti dei fatti di scienza e diversi

periodici hanno saputo guadagnarsil’attenzione dei lettori soffermando-si esclusivamente su queste temati-che. «Al Corriere il giornalista scientificoha ormai uno status riconosciuto epartecipa alle quotidiane riunioni diredazione», sottolinea Giovanni Ca-prara, responsabile scientifico delCorriere della Sera. «In televisione in-vece la situazione è molto diversa:nei sette principali telegiornali man-ca completamente questo tipo di fi-gura, ed è un’assenza che si avverte».Ma quali sono le sue peculiarità?«Credo che il giornalismo scientifico

Il cammino della scienzacontinua ad aprireprospettive affascinanti,su mondi complessi eancora misteriosi

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scienziati italiani più citati nella let-teratura scientifica internazionale. Ilpresidente Pier Mannuccio Mannuc-ci ha commentato l’iniziativa dicen-do che «la questione di offrire un’in-formazione corretta e trasparente nelsettore bio-medico è di grande attua-lità e di primaria importanza», vistoche «la sanità è più che mai sotto esa-me e una comunicazione errata, sen-sazionalistica e superficiale potrebbeoffuscare tutto quello che di buonoi centri di ricerca e di cura hanno fat-to finora e stanno continuando a fa-re». L’ambito, quindi, è inscindibilmentelegato a una prospettiva etica. «Quisi svolge veramente una funzione diservizio», spiega Edoardo Rosati,medico e giornalista, consulentescientifico di Oggi e curatore dell’ul-tima edizione del dizionario Medicodel Corriere. «Diamo informazioniche hanno un immediato ritornopratico e da cui può dipendere la sa-lute delle persone». «Bisogna avereun senso di responsabilità maggiorerispetto a quello richiesto dalla co-mune prassi giornalistica», gli fa ecoPaolo Rossi Castelli di Ok Salute.«Chi scrive di medicina deve averecompleta padronanza della materiache sta trattando. Spesso invece se neoccupano persone totalmente digiu-ne di terminologia specialistica, cheusano parole a sproposito senza ren-dersi conto del danno che possonoprocurare».Deposto l’armamentario retorico, il

giornalista medico vede nel lettoreun potenziale paziente in cerca di in-formazioni che possano aiutarlo amigliorare lo stato di salute. Per rag-giungere questo obiettivo, come ri-corda Castelli, «spesso bisogna sem-plificare, che non vuol dire essere im-precisi, ma dire cose esatte in un lin-guaggio immediatamente compren-sibile, arrivando anche a qualchecompromesso». L’importante co-munque è «mantenersi nel giustomezzo nell’esposizione delle terapieed evitare toni trionfalistici che pos-sono alimentare false speranze. Pur-troppo, spesso invece la gente co-struisce le proprie aspettative su tito-li ad effetto che verrebbero pronta-mente smentiti da una lettura com-pleta degli articoli».Il rapporto con le fonti qui assumeuna declinazione tutta particolare:«Ci si trova spesso di fronte a medicie professori con una scarsa propen-sione a comunicare, che devono es-sere rapportati con un pubblico incerca di informazioni immediata-mente spendibili», nota Rosati. «Mac’è anche chi incappa nella tentazio-ne di presentare conclusioni certeper guadagnarsi un opportuno ritor-no mediatico». Alla difficile opera di mediazione trastudiosi e lettori si aggiungono le in-sidie del marketing: «Bisogna semprevagliare l’attendibilità della fonte»,sottolinea Castelli. «Gli studi prove-nienti da università, Cnr, Istituto Su-periore di Sanità o comunque pub-

blicati su riviste come Nature, Scienceo il New England Journal of Medicine sirivelano in genere estremamente ri-gorosi. Aziende e centri privati, inve-ce, tendono spesso a far passare no-tizie prive di riscontro per favorire lacommercializzazione di determinatiprodotti: qui entra in gioco la com-petenza del singolo giornalista e lasua capacità di svolgere un’adeguatafunzione di filtro». «Perché si usanocosì spesso i nomi commerciali dellemolecole, quando si ha a disposizio-ne la loro classificazione chimica?»,si chiede a questo proposito Rosati,ricordando tante «cartelle stampa sufarmaci nuovi poi rivelatisi soltantovecchi prodotti collocati sul mercatoin maniera diversa».Se per strutturare la comunicazionein maniera efficace è senz’altro indi-spensabile «uno stile accattivante,che strizzi l’occhio al lettore senza in-dulgere allo spettacolo e sottrarre at-tenzione alla notizia», anche in ambi-to medico l’impostazione grafica as-sume un ruolo fondamentale. «È unodei settori che si prestano di più all’il-lustrazione», nota Castelli. «Un’im-magine scelta bene riesce a trasmette-re l’equivalente di dieci pagine di te-sto in un tempo infinitamente piùbreve. Ma può anche spaventare, piùo meno inconsciamente. Fra i lettorici possono essere molti malati, percui va valutato attentamente il possi-bile impatto emotivo di una fotogra-fia, evitando di indulgere a coloritu-re drammatiche».

Oggi la ricerca stasempre più diventandopatrimonio condivisograzie all’opera didivulgazione delgiornalista scientifico

si distingua dagli altri soprattutto perdue motivi», osserva Piero Bianuccidella Stampa, ideatore nel 1981 delsupplemento TuttoScienze. «Il primoè che dura nel tempo: penso, adesempio, alla mia intervista del 1982a Carlo Rubbia, in cui il fisico an-nunciava la sua scoperta da premioNobel. Il secondo è che continua adessere al centro dell’immaginariocollettivo: la scienza riesce ancora astupire e meravigliare la fantasia, nonè solo patrimonio di pochi eletti».Sulla stessa linea d’onda MassimoMurianni del mensile Newton che, dalaureto in filosofia, pur soffermando-si sulla «necessità di una conoscenzaspecifica della materia, stimolata dal-la curiosità» afferma che «ai fini del-la comunicazione non sono necessa-rie competenze da scienziato». Per il giovane Sergio Pistoi, a lungocorrispondente di Reuters Health, conalle spalle un’esperienza da ricercato-re biomedico all’estero, il giornalistascientifico «pur non essendo moltodiverso dagli altri, dovrebbe averecomunque una preparazione parti-colare che lo aiuti a familiarizzarecon la materia, mettendolo in condi-zione di distinguere il vero scienzia-to dal falso». D’altra parte, Caprara sottolinea co-me rispetto agli altri giornalismi que-sto richieda «un approccio più preci-so e definito alla notizia. Qui, alla fi-ne, non c’è molto da discutere: si ri-mane sempre sullo sfondo di un’og-gettività marcata, che non lascia mol-to spazio a elementi di contorno. Inquesto senso, ci potrebbe essere unacerta affinità col giornalismo econo-mico». Con cui si condivide anche lasfida della semplificazione, che pas-sa comunque per la competenza:«Bisogna sapere dieci per comunica-re uno. Se si ha alle spalle un buonbagaglio di conoscenze, diventa piùfacile presentare un tema anche com-plesso in termini giornalistici», osser-va Bianucci. L’obiettivo è un’espo-sizione comprensibile che, pur nonsvilendo la complessità dei fatti, evi-denzi gli elementi umani che fannoda contorno alle scoperte.Con l’avvento di internet, il giorna-lista scientifico è comunque entratoin possesso di un ulteriore strumen-to di approfondimento e verifica cheha dato nuovo spessore all’informa-zione, ridisegnando il rapporto conle fonti. Oggi è possibile, ad esem-pio, verificare una notizia visitando isiti dei più importanti centri di ricer-ca o le sezioni ad hoc di testate comeNew York Times, Bbc ed El Mundo,

che sfruttano al meglio le risorsemultimediali. «Internet è un mezzoche permette di arrivare a chiunque,una biblioteca immensa in cui peròbisogna saper scegliere con discerni-mento», commenta Cristina Nadot-ti, della redazione scientifica di Re-pubblica.it. Concorda Murianni: «Èuno strumento fondamentale, cheperò può rivelarsi pericolosissimo senon viene gestito con le dovute cau-tele, specialmente al di fuori dei sitiufficiali», dove spesso si fa soltantofolklore.In ambito scientifico il processo diselezione delle notizie segue logicheche non si distanziano troppo daquelle della comune prassi giornali-stica. Secondo Caprara, «si scelgonosoprattutto argomenti che possonoriscuotere interesse al di fuori dei cir-cuiti specialistici. I misteri delle stel-le, ad esempio, che sono di certo piùaffascinanti dei meccanismi cellula-ri». D’altra parte, spesso una notiziadi richiamo può stimolare il lettoread addentrarsi in questioni più com-plesse e prive di particolare appeal.Fondamentale, in questo senso, ilruolo della grafica, come sottolineaMurianni: «Prima si vede, e poi si ap-prende leggendo: la stampa vienepercepita in modo diretto, e l’impo-stazione grafica dà un istintivo carat-tere all’articolo, stabilendo spesso ilsuo destino».A diciotto anni di distanza, la sin-drome da fusione fredda sembra or-mai soltanto un lontano ricordo.Come precisa Caprara, «dopo avereappreso la notizia da una determina-ta fonte, bisogna sempre consultaregli esperti del settore, per avere qual-che elemento in più che permetta di

verificarne l’attendibilità». L’indipen-denza del giornalista, insomma, è ga-rantita dalla sua competenza. Peral-tro, conclude Bianucci, «in ambitostrettamente scientifico è più facilerimanere indenni da pressioni ester-ne, a differenza di quanto accade nelsettore salute, spesso al centro delleattenzioni delle case farmaceutiche».

Il giornalista medicoNegli ultimi anni i rapidi e continuisviluppi della ricerca medica hannoevidenziato la necessità di una nuo-va figura di comunicatore che, graziea una solida preparazione teorica,riuscisse a tradurre in termini giorna-listici i risultati ottenuti nei laborato-ri. Se l’attenzione verso la sfera dellasalute ha raggiunto i livelli attuali, losi deve in parte anche a chi, sugli in-serti dei quotidiani o fra le pagine diriviste specializzate, si è periodica-mente incaricato di declinare il temain forme di largo consumo.Un percorso irto di ostacoli, visti gliinteressi che gravitano attorno al set-tore. Già la Carta internazionale del-la professionalità medica riconosceinfatti che «il giudizio professionaleriguardante un interesse primario co-me la salute dei cittadini può essereinfluenzato indebitamente da un in-teresse secondario». Proprio l’esigenza di definire meglioi termini di una corretta opera di di-vulgazione ha spinto recentementeanche l’Ordine dei Giornalisti dellaLombardia a promuovere l’adozionedi una carta deontologica sull’infor-mazione bio-medica che ricalca quel-la toscana. Il documento è stato pre-parato in collaborazione con il Grup-po 2003, associazione che riunisce gli

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Parla Giorgio Santocanale, segretario e tesoriere dell’associazione

L’Ugis e la sfida della divulgazione«Il giornalista scientifico ha di fronte un compito sempre più complesso. Le scoperte si susseguono con un ritmo frenetico che ostacola l’opera di approfondimento»

L’Unione Giornalisti Italiani Scientifici è nata nel 1966, pochi mesi prima dell’Internatio-nal Science Writers Association londinese, con il compito statutario di “facilitare, valo-rizzare e promuovere l’informazione scientifica e tecnica”. «Allora il compito del giorna-lista scientifico era più facile, perché le scoperte erano più dilatate nel tempo», notaGiorgio Santocanale, segretario e tesoriere. «Oggi invece va incontro a ritmi freneticiche ostacolano l’opera di approfondimento». Anche nell’era di internet per Santocanale«il principale strumento di lavoro del buon giornalista resta sempre l’agenda personale,fondata su un rapporto di reciproca fiducia con le fonti, che purtroppo a volte può esse-re tradita, anche involontariamente». Resta quindi una sfida dell’attendibilità in parteancora da vincere, per continuare a fare presa su «un pubblico comunque sempre affa-scinato dal cammino della scienza».

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IIn un paese dove è stata inventa-ta la parola “dietrologia”, che èpoi assurta allo stato di scienza,dove l'ombra di servizi segretideviati ha accompagnato l'interastoria repubblicana e dove la fa-ma dei giornalisti non è mai sta-ta delle migliori, lo scandalo Si-smi-Farina è suonata come laconferma dei timori e dei sospet-ti della gente comune. Il piùgrande scandalo nei rapporti“pericolosi” tra giornalisti e 007prende avvio il 6 luglio 2006,nell’ambito dell’inchiesta dellamagistratura milanese sul casodel rapimento di Abu Omar,l’imam della moschea di vialeJenner.La extraordinary rendition del-l’imam venne eseguito da undrappello di agenti della Cia conl’appoggio e la copertura del Si-

smi, il nostro servizio segreto mi-litare agli ordini del generale Ni-colò Pollari. Sui giornali di quel giorno appa-re il nome “Betulla”, nome in co-dice del giornalista Renato Fari-na, vicedirettore del quotidianoLibero, che ha lavorato, comepoi ha egli stesso ammesso, perconto di Pio Pompa, a capo del-l’ufficio riservato del Sismi di viaNazionale 230, a Roma, deditoal “dossieraggio” di svariate per-sonalità del mondo politico,giornalistico, industriale e dellamagistratura italiana. La fonte“Betulla” ha lavorato, retribuitocon assegni per un totale di sette-mila euro, come informatore perquesta centrale di spionaggio oc-culta, pubblicando finti dossierfatti ad arte per screditare Roma-no Prodi, pubblicati su Libero, e

cercando di ottenere informazio-ni sullo stato dell’indagine con-dotta dai pubblici ministeri Ar-mando Spataro e FerdinandoPomarici sul rapimento AbuOmar, attraverso una finta inter-vista. La risposta dell’organo diautogoverno della professione,l’Ordine dei giornalisti, è stata lasospensione per dodici mesi diFarina/“Betulla”. «Renato Farina ha strumentaliz-zato la professione giornalistica»,afferma Franco Abruzzo, presi-dente dell’Odg della Lombardia.«Ponendosi al servizio del Sismi,con il quale, almeno dal 2004,ha mantenuto un rapporto co-stante. Così facendo, ha com-promesso la sua dignità e quelladell’Ordine al quale appartiene.Ha piegato l’esercizio della liber-tà di stampa a fini estranei ai do-veri di indipendenza e autono-mia, lealtà e buona fede, osser-vanza delle leggi e rispetto deilettori propri di chi svolge unafunzione di pubblico interesse,qual è quella del giornalista. Conquesto comportamento Farinaha violato il Contratto naziona-le, la legge professionale, la Car-ta dei Doveri e la legge 801 del1977 sui servizi segreti».La gravità della vicenda è confer-mata da Falco Accame, espertodi 007 ed ex membro della Com-missione Difesa. «Il caso Sismi-Farina è gravissimo. Di una gra-vità superata soltanto dai rappor-ti che si instaurarono tra agentisegreti e magistrati nell’epoca

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L’inchiesta della magistratura milanese sul caso Abu Omar ha scoperchiato un fenomenoche si credeva estinto con la fine degli anni di piombo

Spie in redazione,se il giornalista si crede 007

Il caso “Betulla/Farina” è solo l’ultimo esempio di cronisti invischiati in rapporti “perversi”con i servizi segreti. Una triste spy-story all’italiana che ha messo in luce i pericoli e le difficoltà

di auto-regolamentazione della categoria di Pierpaolo Lio

Approvata alla Camera l’ultima Riforma dei Servizi Segreti

Nuove regole per i James Bond

Da oggi sedi di partito, di sindacato e giornalisti professionisti saranno “off limits”per i nuovi Sismi e Sisde. Per legge

Sismi e Sisde vengono sostituiti da Sie (Servizio di informazione per la sicurezza ester-na) e Sin (per la sicurezza interna), che devono rispondere al presidente del Consiglio.L’attività delle due strutture è coordinata dal Dis (Dipartimento Informazioni per la Sicu-rezza), che prende il posto del Cesis. Aumentano i componenti del Comitato parlamen-tare di controllo sui Servizi (Copaco) e sono vietate “operazioni improprie” nei confrontidi partiti, sindacati e giornalisti professionisti. Sono alcune delle novità della riforma deiServizi Segreti, approvata alla Camera, che prevede la possibilità per l’agente di com-mettere reati, ma solo previa autorizzazione. Rischia invece fino a 10 anni di carcere chiusa illegittimamente archivi dei Servizi o ne istituisce di “alternativi”, mentre il magistra-to che viene a conoscenza di attività di intelligence deve informarne il premier per sape-re se è presente il segreto di Stato che, comunque, non può superare i 30 anni.

della P2». Ma alla condanna for-male dell’operato dell’ex vicedi-rettore de Il Giornale prima e diLibero poi, non è seguita la penamassima: la radiazione. SecondoAbruzzo, questa possibilità sa-rebbe stata eccessiva. «Come ab-biamo scritto nella motivazionedel procedimento contro Fari-na», spiega Abruzzo «il Consi-glio ha valutato sia la personalitàdi Farina, che era incensurato sulpiano deontologico, sia il prezzodevastante che lo stesso ha giàpagato sul piano dell’immaginee della credibilità dopo l’esplo-sione dello scandalo. Nella mo-derna società dell’informazione,i mezzi mediatici sono in gradodi incidere profondamente suldecoro e sulla dignità di una per-sona. La sanzione massmediati-ca è più incisiva e affittiva oggidella stessa pena o della stessasanzione disciplinare soprattuttoquando il protagonista è un pro-fessionista». Il caso Farina, però, non è isola-to nella storia della stampa italia-na, dove sono stati diversi i casidi rapporti non consoni tra spiee giornalisti. Come ricorda Gian-ni Barbacetto nell’articolo “Laguerra segreta del Supersismi”,apparso sul numero del 14 luglio2006 di Diario, «l’Italia ha la me-

moria corta e ha dimenticato illungo elenco di giornalisti ven-duti ai servizi: da Giorgio Zicari,capocronista de il Corriere dellaSera, a Guido Giannettini, daMario Tedeschi a Giorgio Tor-chia, dagli uomini de il Borghesea quelli de il Secolo d’Italia, fino aGuido Paglia, oggi alto dirigenteRai, ieri autore di scoop impossi-bili (riuscì a scrivere del ritrova-mento di un arsenale di armi dei“rossi” a Camerino il giorno pri-ma che fosse “scoperto” dai cara-binieri)».Sembra difficile, quindi, trovaresoluzioni per un problema chepuò essere esiziale per il proces-so democratico di uno stato. «Lalegge che hanno infranto i nostriServizi e l’ex giornalista di Liberoè del 1977», ricorda Accame, chefu tra coloro che la prepararono«e, all’articolo 7, primo comma,vieta ai giornalisti di collaborarecon i servizi segreti e, agli agentisegreti di assoldare giornalisti.Una legge che, però, come si èvisto, è servita a poco ed è facil-mente aggirabile.Il problema è che non c’è un ve-ro controllo sulla nostra intelli-gence, che fa ciò che vuole. Infat-ti, per controllare, bisogna cono-scere, ma troppo spesso chi è de-putato a controllare non ha alcu-

na idea della materia. Dobbiamoprendere esempio dai nostri col-leghi anglosassoni che alla leggefanno seguire adeguati controlli.Bisogna istituire veri comitati dicontrollo e fornire al Copaco, lacommissione parlamentare suiservizi segreti, un nucleo di inve-stigatori, magari ex dipendenti diSismi e Sisde, al servizio dellalegge che operino per scoprire see quando gli 007 procedono fuo-ri dalla legalità. Invece, la nuovariforma allo studio della com-missione continua sulla nostratradizione di poco controllo edefficacia». Da parte di molti,compreso la Fnsi, il sindacatonazionale dei giornalisti, sono ar-rivate pesanti critiche all’Ordineper la poca severità adottata nelcaso. «Delibere come quella dell’Ordi-ne dei Giornalisti della Lombar-dia, che prevede la scandalosa eridicola sospensione per 12 mesidi un giornalista reo confesso diaver collaborato (retribuito) conil Sismi, delegittimano di frontealla categoria e all’opinione pub-blica lo stesso ruolo e la funzio-ne dell’organismo di autogover-no deontologico dei giornalisti.Renato Farina», sostiene PaoloServenti Longhi, segretario gene-rale della Fnsi, «andava radiatodall’Ordine e non sospeso per 12mesi. A questo punto occorreche i giornalisti italiani riflettanoseriamente su una istituzioneche, in questo caso, tende a giu-stificare comportamenti inaccet-tabili di iscritti. L’istituzione or-dinistica ha un senso solo se tu-tela l’interesse colletti’o dei citta-dini e dei tanti giornalisti chefanno onestamente il loro me-stiere, senza “stipendi” corrispo-sti dalle fonti». Il problema, quindi, del rappor-to, spesso perverso, tra giornalistie fonti, specialmente nel caso deiServizi segreti, è non solo unpunto dolente per il giusto fun-zionamento dello Stato e per il ri-spetto delle istituzioni democra-tiche, ma è anche una minacciaalla credibilità della professione edelle sue forme di autogoverno,già in crisi per altri motivi.

Spie e giornalisti sono dasempre protagonisti dellepellicole hollywoodiane,in questo modo sonoentrati nell’immaginariocollettivo

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NNel marzo del 1992 viene assassina-to a Palermo l’europarlamentare de-mocristiano Salvo Lima, uomo diGiulio Andreotti in Sicilia. Poco do-po un settimanale titola: «ComeJohn Lennon. Lima ucciso da un fanimpazzito. L’ennesima tragedia delloshow-business». A salutare così «l’in-dimenticabile autore di Hey Giulio eLady Madonia» sono quelli di Cuoreche raccontano a loro modo, e forsemeglio di altri, a circa centomila fe-delissimi lettori un fatto di cronacatipicamente italiano, al confine traparlamento e lupara. Per loro c’è iltempo per scrivere un’altra prima pa-gina memorabile: «Scatta l’ora lega-le. Panico tra i socialisti». Poi Cuorechiude i battenti e i suoi stravagantiredattori, da Michele Serra a Vincinoa Ellekappa, si distribuiscono nelletestate “serie”, sancendo la mortedell’ultima delle riviste satiriche.Con la fine di quello storico settima-nale «di resistenza umana», così si

definiva, nato a sua volta sulle cene-ri di Tango come inserto de L’Unità emorto come giornale autonomo nel1996, si è spenta anche una tradizio-ne italiana, il giornalismo satirico,che tanti fogli ha dato alla penisola,da quelli anticlericali tra l’Otto e ilNovecento, al Bertoldo e al Marcaure-lio costretti a fare i conti col regimefascista, al Candido di Guareschi neldopoguerra, fino alla satira corrosiva,colpita continuamente da denunce ecensure, dei redattori de Il male, chevisse a cavallo degli anni ’80.Oggi, dieci anni dopo la chiusuradell’ultimo giornale satirico a diffu-sione nazionale, che arrivò a toccarele 170mila copie in piena Tangento-poli, che fine ha fatto il giornalismosatirico? O meglio, quali spazi ha an-cora a disposizione il giornalista sati-rico? Mentre in Francia, ad esempio,il suddetto può contare ancora sullaresistenza ultradecennale di due con-tenitori importanti come i settima-

nali Le canard enchaîné e Charlie Heb-do, quest’ultimo ancora al centro diforti polemiche in patria per averpubblicato le sfortunate vignette da-nesi su Maometto, in Italia la satira amezzo stampa vive nelle rubriche enelle vignette sparse qua e là sulle di-verse testate. In spazi ben delimitati,quindi, e accanto a pezzi di pura cro-naca o editoriali. «Di questi tempi - spiega uno deifondatori del Male, Vauro Senesiche, come altri suoi colleghi vignet-tisti che provengono da quell’espe-rienza, disegna oggi per un quotidia-no, Il Manifesto - un direttore di ungiornale quando decide di mettere suuna vignetta lo fa con un atteggia-mento conformista, considerandolaniente più che un orpello, da inseri-re in pagina solo perché anche i suoiconcorrenti ce l’hanno». Per fortuna, però, e Vauro ne è con-vinto, «una volta concessole ancheun piccolo spazio, la satira riesce conla sua forza ad allargarsi e a diventa-re una voce. Anche la vignetta, infat-ti, è un modo per fare informazione,perché stimola la capacità critica dellettore e lo avvicina alla lettura delresto del quotidiano». Ma sui giornali italiani, oggi, non cisono solo i vignettisti a offrire unbuon bicchiere di satira. Una certadose la concedono anche alcunigiornalisti, le cui rubriche, da L’ama-ca di Michele Serra al Bonsai di Seba-stiano Messina, entrambe su La Re-pubblica, alle Bananas di Marco Tra-vaglio su L’Unità, spesso diventanoper il lettore veri e propri luoghi diculto quotidiani. «La satira è una manipolazione lin-guistica - racconta Michele Serra -.Chi legge deve intendere fin dalleprime righe che il testo è satirico, enon ha pretese né di obiettività, nédi cronaca, anzi è fortemente sogget-

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A più di dieci anni dalla scomparsa dello storico settimanale la satira resta confinata in spazi angusti, inmezzo alle altre notizie. Per chi quel giornale l’ha diretto la colpa è della tv.

Ridere senza CuoreSerra: «La satira è forte solo quando riesce ad esprimersi in testate e gruppi di lavoro. Ma oggi gli autori restano

distanti gli uni dagli altri e vanno a guadagnarsi la pagnotta in tv, dove al massimo possono dedicarsi alla comicità» di Igor Greganti

Esce da Rizzoli un volume che ripercorre i cinque anni dello storico settimanale satirico

Il passato che fa MaleVincino: «Fu un’esperienza irripetibile e stupenda. Eravamo liberi di scrivere ecolpire chi volevamo. Riuscimmo a far arrabbiare l’intero arco politico italiano».

Rizzoli ha voluto ricordare i cinque anni terribili della satira italiana riportando alla memo-ria degli italiani l’avventura de Il Male, il settimanale che fece arrabbiare tutto il mondopolitico italiano con le sue vignette feroci. Il Male fu fondato da Giuseppe Zaccaria nelfebbraio del 1978, amava mischiare la realtà con il falso. Questo settimanale resterà nel-la memoria degli italiani anche grazie ai numerosi falsi delle prime pagine dei quotidianiitaliani. Tra le prime pagine false de Il Male c’è quella del Bild del 29 febbraio 1980 cheanticipa di nove anni la caduta muro di Berlino, con tanto di gente che entra ed esce dal-la porta di Brandeburgo. La sua satira si scontrava spesso con il dolore delle tragediedella politica italiana e con la morte dei grandi statisti di allora. Tutti ricordano che i re-pubblicani acquistarono centinaia di copie de Il Male, per poi bruciarle, dopo che il set-timanale aveva titolato sulla morte di Ugo La Malfa paragonandola alla scomparsa di unatartaruga. Nel caso del rapimento Moro, il settimanale fu duro e impietoso riproducendol’immagine dello statista nelle mani delle Br intento a lavare i piatti o mentre si scusa congli italiani perché nelle istantanee delle Brigate rosse non indossava abiti Marzotto.

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coli spazi che coraggiosamente leconcedono alcuni giornali. Tuttavia,è proprio nel momento in cui le li-bertà vengono compresse, e anche ilgiornalismo serio diventa accondi-scendente e non fa il suo mestiere,che la satira svolge una vera attivitàdi supplenza dell’informazione». Su Internet, intanto, che non si famancare nulla, vivacchiano una de-cina di siti e blog satirici. D’altronde,fu proprio su un portale, che Lia Ce-li, reduce dall’esperienza con Miche-le Serra & Co., decise di trasferirenel 1997 un pezzo del suo Cuore, cheresiste tuttora. Un’altra realtà dura a morire nel pa-norama della stampa satirica italianaè certamente il Vernacoliere. A diri-gerlo ed editarlo è sempre lui, MarioCardinali, che il mensile livornese loha conosciuto anche sotto un’altraveste. Nel 1961, infatti, lo fondò colnome di Livornocronanca. Era un pe-

riodico di controinformazione, manel 1982 arrivò la svolta e il giornaledivenne Livornocronaca – il Vernaco-liere, un mensile satirico scritto pertre quarti in vernacolo livornese. No-me e identità che resistono ancora inuna testata che è certamente la piùsboccata d’Italia, e che, nonostantela volgarità manifesta, vende tra lequaranta e le cinquantamila copie,non solo a Livorno, ma anche in al-tre regioni del centro-nord.Al Vernacoliere lavorano più di ventipersone, tra redattori, collaboratori evignettisti, la maggior parti dei qualinella vita svolge professioni di tuttorispetto, dal musicologo alla filosofa.Ma è l’assoluta e voluta mancanza dirispetto a trovare sfogo, invece, nellepagine delle settimanale. E nelle lo-candine che lo pubblicizzano. Nonraggiungono certo tutte le edicole,ma quando si trovano non si può fa-re a meno di leggerle. Febbraio 2007:

«Troppi veleni per aria. Appello derGoverno. Bisogna scurreggià di me-no. Anche dall’intestino sortano tan-fate dannose per l’ambiente». E an-cora: «Busce cià un cardano ner cer-vello. S’è fatto le lastre ma ‘un si vo-le operà. E ‘ntanto séguita a bombar-dà». Pieno di parolacce e delle sue classi-che notizie inventate e paradossali,arricchito, però, anche dalla presen-za di alcuni editoriali seri, scritti dalsuo direttore, il Vernacoliere detieneun record che lo pone completamen-te fuori dalle regole dell’editoria mo-derna, ma nella tradizione dei gior-nali satirici: vive senza pubblicità.Anche su Cuore, del resto, solo unavolta apparve una reclame: era ilgiorno del lancio della Fiat Punto. Ilsettimanale bolognese pubblicò gra-tuitamente una pagina intera per laRenault Clio, che protestò a lungoper indebito utilizzo del marchio.

tivo. È un’allegra e tendenziosa di-storsione della realtà». Tuttavia, no-nostante la peculiarità del suo lin-guaggio, più vicino alla soggettivitàdell’arte che all’oggettività della cro-naca, il giornalista satirico svolgeun’importante funzione politica, nelsenso più ampio del termine. «Labuona satira - continua Serra - è so-prattutto quella capace di far emerge-re le storture e i difetti, non solo deisingoli politici, ma di un’intera epo-ca, con i suoi consumi, le sue manie-re e le sue manie». E il giornalista sa-tirico, in fondo, è il primo dei mora-listi. Per l’ex-direttore di Cuore, difat-ti, «il giornalista che scrive in formasatirica non fa altro che utilizzareuna forma di pudore personale, unasorta di antidoto che gli permette disconfiggere la retorica». Se qualcosanon va e lui ne vuole parlare, «piut-tosto che salire sullo scranno del cen-sore di turno, preferisce imboccare il

terreno dell’imprevedibilità e dellasorpresa, che è quello della satira». Da sempre quest’ultima, inoltre, hal’obiettivo di impallinare il potere echi lo rappresenta. Per spiegarlo inparole semplici e crude: «Tra un po-litico e un giornalista satirico deveintercorrere lo stesso rapporto chec’è tra la vittima e il suo killer». Lapensa in questi termini Marco Trava-glio, che aggiunge: «Colui che fa sa-tira deve far ridere e far incazzare.Deve rappresentare uno strumentodi controllo, l’arma di difesa del cit-tadino comune nei confronti del po-tere. Senza limiti, se non quelli delcodice penale e senza appartenere adalcun partito. Esistono solo due co-mandamenti: assumere il propriopunto di vista e da quello sparare,con la penna, a chiunque passi a tiro.Se il politico si complimenta e ride,hai fallito». Oggi, secondo Michele Serra, pro-

prio la mancanza, da qualche annoormai, di un importante giornale disatira testimonia che il ruolo delgiornalista satirico è in crisi. «Le vi-gnette godono ancora di buona salu-te - spiega - ma la satira scritta sta ma-le. Questa, infatti, dimostra di essereforte solo quando riesce ad esprimer-si in vere e proprie testate e gruppi dilavoro, come successe con Cuore an-ni fa». Le cause di questa crisi? «Cre-do che sia la tv - prosegue Serra - asottrarre energie alla nascita di unnuovo giornale di satira. Molti auto-ri satirici oggi per portare a casa lapagnotta lavorano in tv e non riesco-no a dedicarsi ad altri progetti. Conl’ulteriore distorsione che la tv odier-na assorbe completamente la satiranella comicità e le fa perdere il suolinguaggio». Travaglio è ancora più diretto. «In tvdi satira non ce n’è più, è stata ster-minata. Si rifugia nei teatri e nei pic-

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Nella pagina precedentealcune copertine delsettimanale satiricoCuore diretto da MicheleSerra

In alto alcune copertinedel settimanale satiricolivornese Il Vernacoliere

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la carta stampata a vincere la timi-dezza delle telecamere e a utilizzareil piccolo schermo come vetrinapubblicitaria di se stessi: apparireper farsi conoscere ed essere apprez-zato dal lettore. Da questo punto divista anche la crescente popolarità diinternet ha offerto un’opportunitàin più di dialogo con il pubblico: suisiti dei quotidiani sportivi e delleprincipali testate i giornalisti dellacarta stampata aprono finestre didialogo con i lettori. Il giornalistasportivo, oggi, non è più legato a unmedium come negli anni Ottanta,ma passa con disinvoltura dalla car-ta stampa, alla televisione, al web. Negli anni dello specialismo impe-rante, sta paradossalmente sparendo

la figura del critico, sostituita da cal-ciatori, ciclisti o automobilisti a finecarriera. Secondo Cucci questa ten-denza è un altro segnale dello «scadi-mento del mestiere: quando i giorna-listi sportivi hanno bisogno di com-mentare chiamano ex giocatori checon la lingua italiana non hannopropriamente un bel rapporto. Oggisi va alla ricerca dello specialismo esi salta la mediazione del racconto. Ilrisultato è sotto gli occhi: basta vede-re quante copie si leggono oggi. Pri-ma la Domenica Sportiva facevaun’audience del 20%, oggi non rie-sce a raggiungere questo risultatonemmeno sommando gli spettatoridi Controcampo. Fanno ascolti le di-rette, anche quando non hanno la te-

lecronaca. Significa che l’appassiona-to è competente e non ha più biso-gno della mediazione che prima eraimpensabile. Al di là della televisio-ne, di internet e delle evoluzioni tec-nologiche è questa la più grande dif-ferenza tra oggi e ieri». Rispetto aglianni Ottanta, i lettori sono diventatipiù competenti e lo sportivo cercanel giornale la conferma delle pro-prie idee. Tanto che il giornale si ètrasformato in un foglio di bandierasul modello del Foglio o del Riformi-sta: «Il rapporto tra giornalista e let-tore è cambiato. Non sei più tu a for-nire l’opinione, ma ti dicono: “com-plimenti la pensa come me”. Siamostati prevaricati persino dai lettori edagli spettatori».

Gianni Brera, il più grande giornali-sta sportivo, cominciava così la cro-naca di una partita di Coppa Cam-pioni in Ungheria. «Budapest e l’an-sa del Danubio fra rive illuminate datremolanti ceri per i morti. S’indovi-na la città estenuata sotto la Citta-della che fu dei turchi»: era la metàdegli anni Settanta. Trent’anni do-po, dello stile di Brera e della scuoladi giornalisti che a lui facevano rife-rimento - riuniti sotto l’etichetta dei“brerini” - non ci sono più tracce. Ilgusto per il racconto si è attenuato,i reportage narrativi che facevano dacornice alle cronache degli eventisportivi sono pressoché un ricordo.Se con Brera il mestiere del giornali-sta sportivo veniva paragonato a unautore di romanzi, oggi questa pro-fessione assomiglia sempre più al la-voro di uno scienziato: le figure re-toriche e i barocchismi hanno lascia-to spazio a tecnicismi e a un lessicoche procede per numeri e schemi. A spiegare l’evoluzione del mestieredegli ultimi vent’anni è Italo Cucci,

ex direttore del Guerin Sportivo, ilpiù antico settimanale sportivo ita-liano, e autore di Tribuna Stampa,un’opera in cui Cucci riassume lastoria del giornalismo sportivo. «C’èun momento storico in cui abbiamoabbandonato il modello di Brera perseguire la strada di un addetto ai la-vori, un allenatore che parlava perore in televisione con numeri, sche-mi, lavagne», spiega Cucci. «Si trat-ta di Arrigo Sacchi che a fine anniOttanta è stato ingaggiato dal presi-dente del Milan, Silvio Berlusconi».L’ex direttore del Guerin Sportivo ve-de nel 1989 l’inizio del dopo Brera,segnato dal passaggio da un model-lo di giornalista narratore a uno piùtecnico. Nel ciclismo, ad esempio, ilgusto per il racconto rendeva auten-tici romanzi le cronache delle piùimportanti corse a tappe. «Ricordodi aver vissuto delle tappe dove unapozza d’acqua era sufficiente perispirare una cronaca» racconta GianPaolo Ormezzano, per anni il croni-sta di riferimento di parecchi Giri

d’Italia. «Oggi invece una pozzad’acqua ha senso solo se ci annegadentro un bambino. Con l’avventodella televisione, la cronaca sportivasarebbe rivalutata solo se la scrivesseHemingway, solo che i poeti oggimancano. Gli stimoli che avevamo araccontare e a “inventare”, quelli chehanno dato avvio al giornalismo im-magignifico delle grandi cronacheciclistiche, non ci sono più. La televisione ha ucciso il raccontoe ci ha indotto a scrivere in modosensazionalistico, ad aumentare leinterviste che fino a dieci anni fanon erano così diffuse. A utilizzaregli sportivi come testimonial pubbli-citari». La popolarità della televisio-ne ha indotto anche i giornalisti del-

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Nella foto a destraGianni Brera insieme

al numero dieci del Milan e della

Nazionale degli anniSettanta, Gianni Rivera.

Il giornalista paveseaveva ribattezzato

il talentuoso calciatorerossonero “Abatino”

Viaggio tra le trasformazioni del giornalismo sportivo degli ultimi vent’anni.Le testimonianze di Italo Cucci e Gian Paolo Ormezzano

Lo sport si raccontacon i numeri

Nel dopo Brera tramonta il gusto per il racconto: schemi e cifre sostituiscono la scrittura immagignifica. Cresce la specializzazione ma viene meno la critica

di Luca Balzarotti

Il direttore più giovane della storia del giornalismo e autore di diversi romanzi

Brera e i «brerini», una lingua che ha fatto scuola «Il mio vero nome è Giovanni Luigi Brera. Sono nato l’8 settembre 1919 a San ZenonePo, in provincia di Pavia, e cresciuto brado o quasi fra boschi, rive e mollenti. Io sonopadano di riva e di golena, di boschi e di sabbioni. E mi sono scoperto figlio legittimodel Po». Basterebbe l’incipit dell’autobiografia di Brera per capire l’inventiva e lapadronanza della lingua dello scrittore che più di tutti ha influenzato il giornalismosportivo italiano. Fu il più giovane direttore della storia del giornalismo: all’età di 30 annifu chiamato a dirigere La Gazzetta dello Sport. Oltre alla Gazzetta Brera scrisse anchesul Giorno, sul Giornale, sul Guerin Sportivo e sulla Repubblica inaugurando uno stileche ha fatto scuola non solo nel campo sportivo, tanto che fu coniato il terminespregiativo “brerini” per quei giornalisti che si rifacevano al suo stile senza lo stessotalento linguistico. I detrattori, invece, lo classificarono come un grande “paroliere”.Brera abbinava competenza sportiva a una penna da scrittore e amava cimentarsi neiromanzi: nel 1978 Il corpo della ragassa venne adattato per il cinema da AlbertoLattuada e diretto da Pasquale Festa Campanile.

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Andrea Aloi è direttore delGuerin Sportivo, il primosettimanale sportivo. Di cosa sioccupa un periodico che tratta disport?

«Un settimanale di sport come ilGuerino oggi punta molto sulla foto-grafia di qualità. Il fermo immaginedelle azioni più significative deglieventi trasmessi sul satellite. E poil’approfondimento, soprattutto ver-so il calcio estero che fino a pocotempo fa veniva trattato in modo su-perficiale. Oggi il giornalista sporti-vo deve sviluppare competenze suicampionati europei».

Quale aggettivo qualifica meglioil giornalista sportivo oggi?

«Sicuramente calciofi-lo: basta guardare cosaera prima la DomenicaSportiva e cosa è diven-tata ora. Questo perchél’80% della diretta spor-tiva è calcio. Il fatto chein tv si consumi essen-zialmente calcio ha in-dotto giornalisti, diret-tori ed editori a pensareche solo il calcio facciavendere, dimenticandoche i primi giornalisportivi sono nati gra-zie al ciclismo. La tele-visione ha reso l’infor-mazione più pigra: lacarta stampata va solo arimorchio della tv, a di-scapito dell’approfon-dimento. Oggi mancail coraggio».

Perché manca ilcoraggio?

«Subiscono la pressio-ne di chi esercita poteresulla stampa: l’addettostampa, i dirigenti diun grande club e losponsor cercano dicreare loro stessi infor-mazione scavalcando la professione.Se fino a qualche anno fa cercavanodi condizionare o indirizzare l’infor-mazione, oggi invece sono loro a co-

municare quello che va detto. C’èpoi un secondo aspetto: chi si occu-pa per tanti anni della stessa societàtende a esserne condizionato».

Si lavora come l’inviato diguerra?

«Esatto: quanto è successo in Iraqvale anche per lo sport, dove il gior-nalista è diventato embedded a unasquadra: viaggia insieme, si muovesullo stesso aereo, dipende dalla cor-tesia dell’ufficio stampa di una certasocietà. Tutto è molto più burocra-tizzato: le interviste vengono con-cordate e l’addetto stampa controllaquello che scrive il giornalista. An-che il giornalista si trova immischia-to in una serie di vincoli che lo por-

tano ad avere un tono espressivo piùneutro, per non urtare nessuno. Lavivacità e la vis polemica è venutameno per non bruciarsi delle oppor-

tunità importanti».Con Calciopoli i giornalistisportivi non hanno fatto bellafigura: molti sapevano ma nondicevano. Si è trattata diun’occasione persa per la stampa?

«Certamente. Moggi aveva dei pote-ri molto forti sulle testate: potevacercare di mettere in cattiva luce ungiornalista, poteva impedire a ungiocatore di andare in tv causandouna perdita di ascolti e quindi di sol-di. Finché Moggi e Giraudo erano aivertici della Juventus, i giornalistiche “davano fastidio” erano costrettia seguire le cronache di altre societàsportive: diversi colleghi sono statiallontanati dalla Juventus».

A livello discrittura, quali sonostati i cambiamentipiù significatividegli ultimi anni?«La televisione hafatto dell’informa-zione sempre piùuno spettacolo e hacondizionato laprofessione: suiquotidiani o suisettimanali si tendead andare a rimor-chio della televisio-ne, con un’infor-mazione più brevee spettacolare: lacronaca è più com-mentata rispetto aprima. Il giornalistadeve ricordarsi diessere innanzituttoun cronista. Oggi,invece, si dimenti-ca troppo spesso ilruolo di testimonea favore di quellodell’interprete. Lascrittura si è unifor-mata, ma verso ilbasso: è venuto

meno l’aspetto letterario della scuo-la di Brera anche se rimangono firmedi qualità, come Gianni Mura e Ro-berto Beccantini».

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A sinistra, la copertina

di un numero del settimanale sportivo

interamente dedicata al calcio.Nella paginaa fianco, durante unatappa alpina del Girod’Italia, Fausto Coppi

chiede l’interventodei meccanici per

liberare la catena dellabicicletta dal fango

Come si lavora in un settimanale sportivo? Andrea Aloi, direttore dello storico Guerin Sportivo,racconta l’evoluzione di una professione sottoposta a continui condizionamenti

«Il giornalista sportivo, embedded e calciofilo»La carta stampata assorbe le trasformazioni della televisione dove il calcio la fa da padrone. Negli ultimi anni

i medialavorano a stretto contatto con una società e dipendono dalla cortesia di un addetto stampa

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Roberto Beccantini è giornalista pro-fessionista dal 1952. Prima di diven-tare caporedattore della Stampa halavorato per anni come inviato ed èun testimone autorevole di come ècambiato questo mestiere. «Il piùgrande cambiamento è stato intro-dotto dalla televisione. Prima deglianni Ottanta, l’inviato era il centrodell’evento, oggi è la periferia. L’in-viato era depositario della verità,quello che diceva era oro colato e lacronaca dell’evento era l’oracolo.Penso ai mondiali del Settanta, allastorica Italia Germania. La partital’avevo vista, ma tutto ciò che è suc-cesso intorno l’ho letto dai giornali.Oggi si lavora in modo diverso: c’èun continuo scambio tra chi è sulposto e chi segue l’avvenimento dal-la redazione ed è fondamentale lavo-rare in tribuna stampa con il suppor-to della televisione».

Se dovesse trovare un aneddoto per fotografarequesta trasformazione…

«Nella cronaca degli sport interna-zionali si riesce a fotografare meglioil cambiamento: negli anni Settantae Ottanta, a Tuttosport e poi alla Gaz-zetta dello Sport, sono stato il primoad occuparmi di calcio estero. Alloraper avere la cronaca di InghilterraSan Marino ero in contatto telefoni-co con l’addetta stampa di San Mari-no che era a Wembley. Oggi o sul sa-tellite o su internet trovo in temporeale tabellino e marcatori».

Questo a livello tecnico. Per quanto concerne il linguaggio, invece?

«Dopo Gianni Brera, che ha intro-dotto il gusto del racconto, c’è statoun evento nel calcio che ha modifi-cato il lessico del giornalista sporti-vo. Si tratta dell’avvento di ArrigoSacchi sulla panchina del Milan: erail 1988 e da allora siamo passati daun linguaggio “slow food” a uno“fast food”. Un’ulteriore accelerazio-ne al fenomeno è stata impressa dal-la riduzione del formato dei giorna-li: se prima il pezzo standard era di80 righe oggi si è ridotto a 60 massi-

mo. Nessuno fa più la cronaca di unevento: prevale lo “spogliatoio”, cioèl’atmosfera di un evento, le reazionidei protagonista».

Come si induce il lettore a farsileggere?

«Rispetto a vent’anni anni fa, biso-gna essere più bravi a crearsi un pub-blico: ecco perché, anche per chi scri-ve, è importante apparire in video,aprire un blog su internet. Chi va inedicola non compra il giornale, ma il“suo” giornalista di riferimento e ilgiornalista cerca il dialogo con il let-tore: confronta la propria opinionecon quella dello sportivo».

Con il proliferare di addettistampa personali, che difficoltà siincontrano a ottenere le intervistedagli atleti?

«Risulta sempre più complicato: unavolta andavi al campo d’allenamen-to e la possibilità di avere o menol’intervista dipendeva dalla voglia

dell’atleta di parlare. Oggi è moltopiù difficile perché la società orga-nizza l’evento, sceglie una persona algiorno ed è la stessa per tutti i gior-nalisti».

Spagna 1982, Germania 2006:24 anni di telecronaca…

«La telecronaca è cambiata: da Mar-tellini del Mondiale spagnolo a Ca-ressa di Berlino il tono è molto piùgridato. Sono cambiati i vocaboli, ilritmo, il volume: tutto è più strillato.C’è più voglia di apparire con la pro-pria voce».

Quali conseguenze ha provocatol’effetto internet?

«Internet è un grande archivio, riccodi contenuti. Indubbiamente hacambiato la professione e ha offertouna possibilità in più per farsi cono-scere: io stesso sul sito della Stampaho una mia rubrica, cosa che nonavrei mai ipotizzato vent’anni fa,quando ero inviato».

Nella foto qui sopraRoberto Beccantini,inviato ai Mondiale inMessico del 1970, haraccontato per la Stampala storica Italia -Germania (4-3).Qui a destra Gigi Rivaabbraccia GianniRivera, autore del quartogol azzurro

Nella foto alla pagina afianco Beckembauer esce

dal capo dopo il fischiofinale con la spalla

destra lussata

Roberto Beccantini, caporedattore della Stampa, traccia un ritratto del giornalista sportivo.Un’analisi dettagliata di come si lavora oggi

«Il segreto è creare il proprio pubblico»Il lettore si sente rappresentato da una firma e non più dal giornale: ecco perché è sempre più importante ritagliarsi

spazi di visibilità in televisione e aprire blog di commento sul sito della testata per cui si scrive

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EEssere assunti direttamente con laqualifica di caporedattore: capitòa Giovanna Calvenzi, entrata inRizzoli nel 1981 nel periodod’oro della professione del pho-to-editor. Calvenzi oggi è un’isti-tuzione non solo fra le mura riz-zoliane, dove ha costruito unacarriera come redattrice iconogra-fica tra le più invidiate in Italia,ma anche fuori. Per i giovani chesi affacciano al mestiere. Allieva del mitico Amilcare Pon-chielli, il primo in Italia ad assu-mere nel 1979 la qualifica di pho-to-editor per l’allora Gruppo Edi-toriale del Corriere della Sera, eprediletta da Paolo Pietroni, ge-niale inventore di testate di suc-cesso targate Rizzoli come Max,Sette e Ok Salute, venne assunta adAmica in un periodo in cui i pe-riodici esplodevano insieme al-l’interesse dei lettori per le paginepatinate e le immagini eccentri-che e curiose. Di lei si ricorda cheebbe il fegato di dire al suo primodirettore, che poi era Pietroni: «Ocaporedattore, o niente». Correval’anno 1985. «Fu Ponchielli a dir-mi che dovevo strappare una ca-rica alta se volevo essere ascoltatadal resto della redazione», ricordaCalvenzi. Per fortuna era quelloche pensava lo stesso Pietroni.

Quei pazzi anni 80Dopo aver ideato nel ‘79 l’Area S(S come salute): quattro mensili eun quotidiano dedicati alla salu-te, Paolo Pietroni prende nell’81la direzione di Amica con il com-pito di svecchiarla. Il femmini-smo è morto. Al governo c’è Bet-tino Craxi, sono gli anni dellaMilano da bere e dell’ultimo, fol-

le Andy Warhol. Pietroni è l’uo-mo giusto al posto giusto. Colto, raffinato, appassionato dicinema e di teatro (era diplomatoall’Accademia dei Filodramm ati-ci di Milano, compagno di corsodi Mariangela Melato), sa ancheinterpretare i gusti popolari. È au-tore del bestseller Sotto il vestitoniente, scritto con lo pseudonimodi Marco Parma. Gli anni Ottanta sono anni disperimentazioni in cui si guardaoltre i confini nazionali in dire-zione di Francia, Inghilterra e Sta-ti Uniti. I periodici vendono be-ne ed esplode, legato al marke-ting, il fenomeno della pubblici-stica di settore. I nuovi investito-ri pubblicitari, tra cui stilisti e ca-se cosmetiche, reclamano spazio.Le aziende editoriali sono in fer-

mento. C’è bisogno di idee nuo-ve e nuovi strumenti per raccon-tare il decennio che si sta apren-do.Nell’85 Pietroni inventa Max,una testata che racconta gli eroi, i“massimi”: vero compendio del-l’estetica del decennio. È il polodell’Essere, opposto al polo del-l’Avere, a cui fanno capo rivistecome Capital, il cui primo diret-tore è Paolo Panerai. «Pietronicrea un’epopea americana madein Italy», ricorda Claudio Castel-lacci, componente della redazio-ne originaria di Max. Nelle fotoricorrono i primissimi piani e idettagli, ripetuti su più pagine co-me in un gioco di specchi. Sguar-do neobarocco, lo definì il semio-logo Omar Calabrese. È lo stiledella rivista statunitense Interview,

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Cosa fanno, come lavorano e cosa pensano del mestiere i photoeditorDalle “discussioni” con i giornalisti ai problemi con i fotografi e i pubblicitari.

A loro immaginee somiglianza

Contribuiscono alla creazione del giornale, solo che anziché dei testi si occupano delle immagini: sono i photo-editor.Con i giornalisti hanno imparato a condividere tutto, anche la crisi che ha investito la professione.

di Alessandra Farina

Imparare il mestiere tra bottega e Università

Photo-editor si diventa Corsi di specializzazione e scuole di fotografia: oggi c’èsolo l’imbarazzo della scelta. Anche se non esisteun percorso definito per entrare nella professione

C'è chi ha frequentato una scuola di fotografia tipo la Bauerdi Milano, come Antonietta Corvetti. Chi ha preso unalaurea in lettere e poi ha lavorato come assistente di unfotografo, come Giovanna Calvenzi. Chi si è specializzatain storia dell'arte ed è approdata alla carta stampata quasi per caso, come Livia Corbò.Unica certezza: un percorso preciso per diventare photo-editor non c'è. Fino a qualcheanno fa, il mestiere si imparava soprattutto in un'agenzia fotografica; oggi esistonocorsi di specializzazione anche all'interno delle università e delle scuole di giornalismo.Il Dams di Bologna, ad esempio, è stato uno dei primi corsi di laurea ad attivareinsegnamenti specifici, sia teorici che pratici. Al Centro sperimentale di cinematografiadi Roma, invece, i corsi di fotografia sono inseriti all'interno del curriculum di regiacinematografica. Con il boom delle scuole di comunicazione e di giornalismo, infine, lafotografia è entrata a pieno titolo fra le materie d'esame.

Amilcare Ponchielli è ilprimo ad assumere laqualifica di photo-editorin Italia, nel 1979, perl’allora GruppoEditoriale del Corrieredella Sera.

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ni «se non a livello estetico».Schiarire, scurire, tagliare sì, manon di più. «Nello sport non sa-rebbe possibile neppure volendo,dato che l’evento sportivo è sottogli occhi di tutti». Più delicata lasituazione per chi lavora nei fem-minili, come Livia Corbò. «Ilproblema maggiore riguarda glistilisti e i marchi, e lo avvertonosoprattutto le giornaliste della re-dazione moda e bellezza. Biso-gna evitare le sponsorizzazioni.Occulte o inconsapevoli. È veroche i giornali sono pagati dallapubblicità, ma quella deve averei suoi spazi. Quando ero a GQ, in

Condè Nast, abbiamo fatto unalotta contro l’invadenza dellapubblicità e abbiamo ottenutoche nei publiredazionali fossescritto “informazione pubblicita-ria”. Prima si scriveva “GQ pro-motion”, ma non si capiva, siconfondeva con un servizio. Lacommistione pubblicitaria d’altraparte è ineliminabile. È la naturadel giornale. Dolce & Gabbana,ad esempio, hanno ritirato lapubblicità dal Sole 24 Ore dopoche era uscita una recensione po-co benevola sul loro nuovo risto-rante. Gli investitori possono ri-cattare i giornali».

divenuta famosa per la scioltezzae informalità delle interviste. AMax lavorano fotografi impor-tanti che poi passano alla moda,come Aldo Fallai che diventa poiil preferito di Armani.«Sono anni fertili», commentaCalvenzi. «L’esperienza più entu-siasmante per me è stata senz’al-tro Sette (supplemento settimana-le del Corriere della Sera, nato sem-pre per impulso di Pietroninell’87, ndr). Fu vero fotogiorna-lismo, un po’ come lo fu Epocanegli anni 50». Proprio per il suolavoro per Sette Giovanna è pre-miata a Parigi nel 1990 con l’ono-rificenza Droit de regard come mi-gliore photo-editor d’Europa. Il periodo è divertente e freneti-co. «Stringevamo accordi conagenzie internazionali. Realizza-vamo servizi con testate straniere.Non puntavamo all’edicola. Ave-vamo grande libertà. Seguivamola logica del supplemento, che èquella di dare lustro e visibilità al-la casa editrice. Potevamo fregar-cene, ad esempio, della “guerradella gnocca” che imperava sullealtre testate. E pure della televi-sione. A Pietroni non è mai inte-ressata. A lui piacevano il teatro,la poesia, la psicoanalisi».

Senza contratto Oggi la vita è diventata più durasia per i giornalisti sia per i pho-to-editor. Sono tempi in cui «glieditori assumono “ricercatori ico-nografici” perché a questi non de-vono fare il contratto da giornali-sta e possono affidare mansionidi segreteria, così risparmiano»,spiega con amarezza GiovannaCalvenzi, che attualmente lavoraa Sportweek, il supplemento delsabato della Gazzetta dello sport. Epensare che «c’è grande richiesta

di addetti all’immagine e che lepersone che vogliono fare questolavoro sono in aumento». A un maggior numero di scuolespecializzate e corsi specifici fa dacontraltare la sclerosi del mercatodel lavoro. «L’ipotesi di far cresce-re i ricercatori iconografici e tra-sformarli in photo-editor è bloc-cata dal fatto che gli editori nonvogliono concedere contratti.Palleggiano i giovani con contrat-ti ridicoli che ne limitano le re-sponsabilità. A Grazia, ad esem-pio, hanno assunto due photo-editor, ma con mansioni di segre-teria o poco più».A chi sceglie di passare dieci oreal giorno davanti a un computera guardare foto e a rispondere altelefono per mille euro al mese enessuna certezza contrattuale –dopo una laurea e corsi di specia-lizzazione in semiotica della foto-grafia – non resta dunque chesperare che lavorare con Calven-zi porti bene, come è stato pertante nuove leve, tra cui MarcoFinazzi, oggi photo-editor di Va-nity Fair e tra i migliori in circola-zione.Giovanna Calvenzi l’ha cono-sciuto all’agenzia Grazia Neri el’ha voluto con sé a Specchio, sup-plemento della Stampa, un’altracreazione di Pietroni. «In agenziafaceva esattamente il tipo di lavo-ro che avrei fatto io», ricorda.«Sceglieva le foto e ci mettevaqualcosa di suo. Una manna peri giornali, a cui fa comodo lavora-re con agenzie serie e qualificateche ti risolvono tutti i problemialla fonte, così a loro basta tenereuna segretaria che si intenda difotografia». Scaricare il lavoro sul-le agenzie, alleggerendo le reda-zioni, «è la stessa logica dei servi-ces» che hanno decimato i gior-

nalisti all’interno delle aziendeeditoriali. «La tendenza in atto èdi eliminare i photo-editor daigiornali, così come i giornalisti»,conclude Calvenzi. Contratto scaduto, scioperi e ver-tenze sindacali sono questioni fa-miliari anche ai photo-editor. «Ilproblema delle aziende editorialiè che non assumono giornalisti.La difesa degli interessi del pho-to-editor è la difesa degli interes-si dei giornalisti», afferma LiviaCorbò, photo-editor di Amica.«L’immagine è una notizia. Ilphoto-editor sceglie e selezionanotizie. È un giornalista a tutti glieffetti. Anche chi si occupa di ri-cerca iconografica dovrebbe es-serlo. Peccato che gli editori nonci sentano. Le sembra giusto?Giusto è che chi si occupa di im-magine sia giornalista».

Diritti e doveri Se il photo-editor, però, gode deidiritti della professione - che co-me si sa sono numerosi e fannogola a tanti -, deve essere consape-vole anche dei suoi doveri. È di qualche mese fa la notiziache Reuters ha licenziato il capodei photo-editor per il MedioOriente, dopo aver scoperto chealcune immagini del conflittoisraelo-libanese, scattate dal foto-grafo free-lance Adnan Hajj, era-no state grossolanamente ritocca-te. Quanto fanno i nostri photo-editor per vigilare sui fotografi esulla loro correttezza? Qual è il lo-ro ruolo nell’educazione giornali-stica del fotografo? Quali proble-mi etici solleva la tecnica digitaleche permette di manipolare le im-magini con molta più facilità?L’etica ai tempi di Photoshopnon preoccupa molto Calvenzi,che nega di operare manipolazio-

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La tendenza in atto è dieliminare i photo-editordai giornali così come igiornalisti.

“ Se il photo-editor gode dei diritti della professione - che

come si sa sono numerosi e fanno gola a tanti - deve essere

consapevole anche dei suoi doveri. È di qualche mese fa la

notizia che la Reuters ha licenziato il capo dei photo-editor per

il Medio Oriente, dopo aver scoperto che alcune immagini

erano state grossolanamente ritoccate”

Associazione dei redattori iconografici

Nel nome del Grin Per far fronte alle esigenze e allenecessità della professione è nato ilGrin, l’associazione dei redattoriiconografici. «La prima lotta», raccontaAntonietta Corvetti, photo-editor diPsicologie Italia di Hachette Rusconi,«è stata quella di far riconoscere illavoro dei photo-editor a livellogiornalistico. Da qualche anno, infatti,l’ordine di Milano consente anche a noidi dare l’esame di Stato a Roma. Altriobiettivi sono far conoscere nuovifotografi, discutere dei problemi deidiritti d’autore. A volte invitiamo allenostre riunioni i direttori dei giornali». Dal Grin è partita anche la richiesta diinserire corsi di fotogiornalismo neiprogrammi delle scuole dell’Ordine,perché, dice Giovanna Calvenzi «c’èsempre da parte dei giornalisti chescrivono la presunzione di sapersiarrangiare. E la fotografia resta vittimadi un falso assioma: quello di essere lasemplice riproduzione della realtà».

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CCosa lega i professionisti dell'infor-mazione - i giornalisti - al sindacatounitario, la Federazione Nazionaledella Stampa Italiana, dopo un seco-lo di storia? Apparentemente un rap-porto particolare, dovuto alle pecu-liarità stesse dell'organismo di rap-presentanza, caratterizzato più di al-tri dalla cifra intellettuale, l'indipen-denza e l'autonomia. Strumenti che troppo spesso, di re-cente, si sono rivelati armi a doppiotaglio nello svolgimento della suaprincipale missione, cioè quella di ri-vendicazione contrattuale. Secondodiversi osservatori il tallone d'Achil-le della Fnsi è la sua effettiva rappre-sentatività rispetto a coloro che do-vrebbe difendere. «In Lombardia,“Capitale dell'editoria” - fa notareAlberto Comuzzi, consigliere teso-riere dell'Ordine dei Giornalisti lom-bardo - risultano iscritti al sindacatocirca 5mila giornalisti: in pratica il 20per cento sul totale tra professionisti,pubblicisti e praticanti. Solo il 5 percento di loro partecipa regolarmentealle elezioni dei propri rappresentan-ti. Sono numeri che gli editori cono-scono molto bene, e che costringonoa riflettere su quanto il sindacato siaancora affidabile e credibile agli oc-chi della categoria».Discutere dei punti di forza e dei li-miti del sindacato è divenuta unaquestione di scottante attualità, vistigli sviluppi (in realtà, mancati) delladelicata vertenza sul rinnovo delContratto nazionale di lavoro gior-nalistico. Una «soluzione soddisfa-cente» è stata invocata niente menoche dal Presidente della Repubblica,Giorgio Napolitano, durante un suointervento pubblico al premio Saint-Vincent di giornalismo (settembre2006). Sull'home page del sito inter-

net della Fnsi (www.fnsi.it) campeg-gia una laconica scritta: «Senza con-tratto da…E il conteggio va avanti:300 giorni, 400 giorni, 500 giorni. Almomento in cui si scrive si è supera-to il giro di boa dei 800 giorni». Manulla lascia presagire una conclusio-ne imminente della vicenda, consi-derato il «muso duro» mostrato a ol-tranza dagli editori. Inevitabile, dunque, se si voglionoindagare gli scenari futuri della pro-fessione, cercare di comprendere co-sa è cambiato nelle dinamiche cheregolano i rapporti tra i giornalisti e ipropri rappresentanti sindacali. Ilgiornalista e filosofo Massimo Fini,ventisei anni fa sulle pagine di Specia-le Sabato dedicato al Crepuscolo deigiornalisti, faceva notare come a par-tire dagli anni Settanta, il sindaca-to aveva reagito alla formazionedi concentrazioni editorialispesso «incoraggiandole», al-lo scopo di «salvare, nel-l'immediato, i posti di la-voro» permettendo che«un grande gruppo fa-gocitasse nel suo ven-tre il piccolo o il me-dio giornale in diffi-coltà economica».Una visione defini-ta «miope» da Fini,che ha contribuitoa favorire le di-storsioni tipica-mente italianedel mercato deimedia e sulpiano della li-bertà di stam-pa, e che - ad-dirittura -avrebbe «as-sassinato la

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Piero Pantucci, membro del Cdr del gruppo Rcs, ci aiuta a interpretare il delicato passaggio dagli anni Settanta a oggi: e i giornalisti si riscoprono più «soli»

Siamo figlidi un Dio minore?

Senza contratto da oltre 800 giorni, nel «muro contro muro» con gli editori s’intravede la crisi del rapporto che lega la categoria al Sindacato unitario.

di Giacomo Susca

Origini e funzioni della FnsiLe origini del fenomeno associativo tra giornalisti italianirisalgono al lontano 1877, quando cominciarono a formarsinumerose associazioni a base territoriale - la più importantedelle quali la romana Associazione stampa periodica italiana(Aspi). La Federazione Nazionale della Stampa Italiana (Fnsi)fu costituita, però, nel febbraio 1908 a Roma su iniziativadelle più prestigiose personalità dell’informazione dell’epoca,tra cui Alberto Bergamini, direttore del Giornale d’Italia. Lafunzione principale era quella di rendere la categoria più unitae indipendente dal potere politico nella lotta per i diritti civili esociali. Nel 1911 fu firmato il primo Contratto nazionale dilavoro giornalistico, proprio nel cinquantesimo anniversariodell’Unità d’Italia. Dopo gli anni del Fascismo, con il ritornoalla libertà, la Fnsi fu rifondata nel 1944 come «liberaassociazione fra le associazioni regionali dei giornalisti», chepuò agire nell’ambito dell’articolo 39 della Costituzione(libertà dell’organizzazione sindacale). Ancora oggi la Fnsi è ilsindacato nazionale unitario dei giornalisti italiani e ha tra isuoi scopi principali: la difesa della libertà di stampa, lapluralità e il pluralismo degli organi d’informazione, la tuteladei diritti e degli interessi morali e materiali della categoria.L’attività prevalente della Fnsi, dunque, è quella di stipularecontratti collettivi di lavoro e di assicurare ai giornalistil’assistenza sindacale anche in collaborazione con leAssociazioni regionali di stampa e le strutture sindacaliaziendali (Comitati e fiduciari di redazione). Nel ConsiglioNazionale della Fnsi sono presenti, a titolo consultivo,giornalisti designati dalle confederazioni sindacali (Cgil, Cisl,Uil e Cisnal) in virtù di un patto di alleanza stipulato nel 1948,con il quale le altre organizzazioni sindacali hannoriconosciuto alla Fnsi la rappresentanza esclusiva degliinteressi della categoria giornalistica.Diversi organi ne definiscono la struttura operativa. IlCongresso Nazionale, con tutti i poteri deliberanti, si riunisceogni tre anni con la partecipazione di circa 200 delegati deigiornalisti professionisti e 100 delegati dei delegati deigiornalisti pubblicisti eletti nell’ambito delle 19 associazionifederate. Il Consiglio Nazionale, organo deliberativo a cui èaffidato il compito di realizzare le decisioni e le deliberazionicongressuali, è composto da 56 consiglieri professionisti e 28pubblicisti eletti in parte direttamente dal Congresso Nazionalee in parte dalle delegazioni delle associazioni regionali; delConsiglio Nazionale fanno parte di diritto, a titolo consultivo, gliex presidenti ed ex segretari nazionali della Federazioneinsieme con altre figure titolari di ruoli e responsabilità neglienti della categoria. Il presidente, che può essere ungiornalista professionista o pubblicista, è espressionedell’unità della categoria, è eletto direttamente dal CongressoNazionale e ha la rappresentanza legale della Fnsi. La Giuntaesecutiva, organo di governo sindacale, eletta dal ConsiglioNazionale, è composta da 9 giornalisti professionisti e da 4pubblicisti. Il Segretario nazionale, giornalista professionista, èeletto dalla giunta esecutiva fra i suoi membri e ha laresponsabilità e la guida operativa del sindacato. Su propostadel Segretario Nazionale la Giunta nomina il Direttore dellaFnsi che ha la responsabilità degli uffici. Il Segretario nazionalepuò essere affiancato da uno o più vicesegretari nazionalieletti tra i componenti della giunta esecutiva. Tra gli Organistatutari vi sono inoltre la Conferenza nazionale dei Comitati eFiduciari di redazione, organo consultivo che riuniscerappresentanti sindacati eletti in tutte le testate e la Consultadei Presidenti delle associazioni regionali.

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professione». Una professione chesopravvive ancora nonostante abbiaattraversato ben due tempeste tecno-logiche: l'avvento del pc nelle reda-zioni e la nascita di Internet. Di cer-to, però, non si avverte più quella“presenza ingombrante” del sindaca-to. La visione assistenzialista sembraoggi entrata decisamente in crisi. Pie-ro Pantucci, membro del Comitatodi redazione di Rcs e componentedella giunta Fnsi negli anni Ottanta,legge tra le pieghe dell'attuale impas-se sul contratto vecchie e irrisoltediatribe. «Sono due i nodi fonda-mentali. Il primo consiste nella ten-denza, da parte degli editori, al depo-tenziamento contrattuale dei dipen-denti. E in ciò la situazione non siscosta molto da altri settori econo-mici». In termini quantitativi, la Fieg(Federazione Italiana Editori di Gior-nali) ha tutta l'intenzione di evitareche il costo del lavoro giornalisticocresca del 5-6 per cento a fronte diun'inflazione che si aggira attorno al2 per cento. Sul fronte opposto, ilComitato di redazione di Repubblicasostiene che l’obiettivo reale deglieditori sia quello di tagliare gli sti-pendi del 30 per cento. «Il secondopunto, specifico per il mondo del-l'informazione, è che gli imprendito-ri mirano a spogliare i giornalisti dal-le guarentigie sindacali, mediante ri-cambi del personale e flessibilitàestrema». Riguardo a una possibile via d'uscita,Pantucci non usa mezze misure: «Lacontrattazione, di per sé, è vista co-me un nemico dagli editori. Il sinda-cato fa bene a insistere sugli aspettieconomici come entità delle paghebase, durata dei rapporti di lavoro, ri-duzione del precariato, ma non devedimenticare traguardi per nulla se-condari come garantire il rispettodell'autonomia, la valorizzazione ela crescita professionale, moderneforme di previdenza e sopratutto lacentralità delle redazioni di fronte adirettori ed editori in quelle decisio-ni che hanno un impatto sull'azien-da». Compiti previsti, peraltro, dal-l'articolo 34 del Contratto. «Ecco, al-meno in questo - continua Pantucci- il sindacato non deve abbandonarela strada intrapresa proprio negli an-ni Settanta. La vera sfida è perciò ag-giornare gli obiettivi alla realtà deinostri giorni». Il contesto attuale pre-senta, però, un problema alla radice.«I giornalisti sono troppi! - riassumePantucci con una battuta-. In ognicaso, fare sindacato oggi rimane dif-ficile perché l’oggetto del contende-

«Siamo arrivati al punto che i giorna-li, per non morire, devono cambia-re». Raffaele Fiengo, ex membro delComitato di redazione del Corrieredella Sera e sindacalista di vecchia da-ta, allarga il punto di vista sulla que-stione a quanto accade oltre confine.«È in atto una trasformazione senza

precedenti, sia di natura tecnologicasia di contenuti. Muta, di conse-guenza, la collocazione dei giornali-sti all’interno dei grandi gruppi mul-timediali. Le regole contrattuali nerisentono giocoforza». Durante il suo intervento agli stati ge-nerali della categoria, lo scorso no-vembre a Roma, Fiengo ha fatto rife-rimento a un dossier apparso ad ago-sto 2006 su The Economist e dal titoloemblematico: «Who killed the new-spaper?». Uno studio ha calcolato chenegli Stati Uniti l’ultima copia di unquotidiano cartaceo sarà probabil-mente venduta nei primi mesi del2043. La morte della stampa soprag-giungerà per mancanza di lettori, e larisorse pubblicitarie testualmente «se-guiranno questi ultimi fuori dalla por-ta». L’assassino, sempre secondo la ri-cerca americana, risponde al nome diInternet. «Negli Usa – spiega Fiengo –il giornalismo di qualità ora abita nelWeb, perché si sono privilegiate poli-tiche di trasferimento di know howdai canali tradizionali a quelli cross-mediali alternativi. Le redazioni cen-trali hanno gradualmente demandatoalle redazioni internet, sfruttando lepotenzialità comunicative delle cosid-

dette continuous news, ossia le notiziein costante sviluppo e aggiornamen-to. Questo comporta diversi cambia-menti sul piano dell’organizzazionedel lavoro e delle garanzie per il per-sonale. Basti pensare a adeguati mec-canismi di turnazione per garantire al-le redazioni dell’on line una copertu-ra di circa 20 giornalisti 24 ore su 24». Il panorama italiano sembra privile-giare ancora la versione cartacea almezzo digitale, eppure Fiengo è con-vinto «che si sta andando nella stessadirezione anche da noi. Lo hanno di-mostrato Corriere.it e Repubblica.it inoccasione di eventi che hanno scon-volto il normale flusso dell’attualità».In concreto, qualcosa si muove an-che in Italia specie nel rapporto coni lettori. «Oggi non è più una strava-ganza vedere pubblicata in prima pa-gina una foto scattata, magari con ilcellulare, da un cittadino comune.Sempre più di frequente, poi, i blogsono utilizzati come fonte da testateautorevoli. Nuovi modelli di giorna-lismo, mi riferisco al citizen journalisto «reporter diffuso» secondo l’infeli-ce traduzione italiana, stanno facen-do il loro ingresso nel sistema. Senzaconsiderare quello che, per ora, staentrando dalla “porta di servizio del-l’informazione”: la costante ascesadella free press in termini di popola-rità e di diffusione è un esempio tan-gibile». Fiengo conclude facendo appello alsenso di responsabilità di giornalistied editori nel rispondere alle sfidedell’informazione, in un futuro cheè già domani. «Le aziende editorialimuovono ingenti capitali e interessiramificati in eventi e attività paralle-le, che spesso sono connesse solo inparte con l’informazione in sensostretto. Nel caso di Rcs, per il soloanno 2006, si è parlato di qualcosacome 4,5 miliardi di vecchie lire».Prima che la ragion di mercato soffo-chi pluralismo e posti di lavoro, «fer-mo restando la difesa del lavoro qua-lificato, in sede sindacale bisogneràragionare su posizioni innovative. Enon incorrere nel grave errore com-piuto in passato: difendere cieca-mente ciò che, invece, è destinato ascomparire».

Se la stampa è in agonia,l’imperativo è esplorare il mondo della convergenza

Il futuro è multicanaleRaffaele Fiengo: «Sbagliato difendere antiche posizioni,

i giornali aprano le porte ai nuovi modelli»

L’esercito dei precari marcia sul WebTra le pagine del sito Il Barbiere della Sera free lance, collaboratori e stagisti si confrontano sui disagi di chi vive fuori da ogni tutela. Voci di aspiranti giornalisti «a tempo determinato»

L’Italia, una Repubblica fondata sul lavoro. «O sugli stage?». Se lo chiedono i precari dell’informazione, che hanno trovato un terreno di confronto/scontronella Rete. Si sono moltiplicati, infatti, i siti internet che ospitano gli sfoghi e leconfessioni dei giovani (o ex tali) aspiranti giornalisti. Il più noto a chi frequentail mondo dei media è sicuramente Il Barbiere della Sera(www.ilbarbieredellasera.com), a metà strada tra il blog, il forum e la bachecadi servizio. Sulle sue pagine, nella sezione «Sempre meglio che lavorare?», sirincorrono gli sfoghi, le denunce, i consigli di free lance, collaboratori esterni,«abusivi», sostituti, praticanti e stagisti. L’indistinto popolo della «ritenutad’acconto» ha trovato così un appiglio per il dialogo. E, a giudicare dal numeroe dalla frequenza degli accessi, l’iniziativa riscuote un certo successo. Ladiatriba sul rinnovo delContratto nazionale èrimbalzata anche tra i«post», gli interventi,sollevando una serie diquestioni chemeriterebbero di essereprese in considerazionedai rappresentanti dellacategoria e dagli stessieditori, che quiqualcuno chiamaancora «i padroni». Qualche esempio?Scrive un tale dalnicknameBandolerostanco: «Senon si riesce a chiudereil contratto la colpa èanche del numeroeccessivo di scuole digiornalismo…Il risultatoè stato il moltiplicarsi diun sottoproletariato digiovani cronisti, disposia lavorare per poco oniente pur di faresperienza». ReplicaLaura: «Se l’accessoalla professione fossecontingentato esoltanto in questomodo si potesse fare ilgiornalista, (laurea +scuola), non sarebbeuna cosa impossibilesmaltirli. Anzi, tuttitroverebbero occupazione perché la selezione la farebbero proprio gli istituti diformazione». CParker, di professione caposervizio, propone invece un’originaleforma di astensione dal lavoro: «Se un giorno le decine di collaboratoridecidessero di fermarsi, cosa succederebbe? Senza preavviso per i redattori,uno “sciopero dei telefonini”. Tutti spenti per un paio di giorni…». Un ragazzopubblicista da tre anni chiede aiuto ai lettori: «Un contratto non me lo fanno, epagare pagano poco. Le scuole costano. Come faccio a diventarepraticante?». Intanto un gruppo di «precari e precarie dell’informazione» neapprofittano per pubblicizzare il lancio di City of gods, «il primo free & freepress - ovvero libero e gratuito» distribuito in 50mila copie a Milano due giorniprima di Natale. Un giornale, un’esperienza questa, tutt’altro che virtuale.

re ha una forte valenza politica. Epoi, non bisogna dimenticare che lanatura del prodotto editoriale non ladecidono certo i rappresentanti Fnsi.È vero, nel decennio a cavallo tra ‘60e ‘70 si sono fatte battaglie per man-tenere in vita testate di tutti i tipi, aldi là degli orientamenti politici e del-le possibilità di reale “sopravviven-za” sul mercato. Non è più così, inItalia ci si è accorti che la stampa nonè il “Quarto potere”, semmai il singo-lo giornalista è una funzione del po-tere. E con questo bisogna convive-re».L’impressione è che lo scontro trapotentati si sia acuito proprio negliultimi mesi, quando l’assoluta in-conciliabilità degli interessi di gior-nalisti ed editori, per niente risoltada un Governo che fatica a svolgerela funzione di arbitro, è sfociata intre giornate consecutive di scioperonelle testate a stampa e radiotelevisi-ve. Dal 22 al 26 dicembre, in conco-mitanza con le festività natalizie, ibanchi delle edicole sono rimastivuoti (o quasi) per 5 giorni. Non eramai successo nella storia del Paese.Sedici, invece, sono state le astensio-ni dal lavoro da giugno 2005, data diapertura della nuova vertenza. Sorgeil sospetto che lo strumento dellosciopero non sia più così efficace perdirimere le controversie. «Purtroppoè così - ammette Pantucci -. Ciò sideve anche alla scelta, che reputosbagliata, di alcuni direttori che han-no preferito astenersi e far uscire co-munque i giornali che dirigono. Inpassato, lo sciopero minava sul seriogli equilibri delle imprese editoriali eli costringeva a sedersi al tavolo del-la contrattazione con atteggiamentocostruttivo. Ma all’epoca la categoriaera più unita, oggi al contrario simoltiplicano le forze centrifughe».Viene il sospetto che organismi co-me i macro sindacati confederati(Cgil, Cisl, Uil), oppure autonomi,alla fine possano rivelarsi interlocu-tori maggiormente qualificati in sededi contrattazione. «A questo deve aggiungersi il fattoche la componente di destra, all'in-terno della Fnsi, è solo una deboleminoranza». Se l'informazione vuo-le sopravvivere alla frammentazionetipica del nostro tempo, la “ricetta” èfin troppo semplice. «Se vogliamoche il sindacato non si riduca a un“nobile feticcio” - è la via d'uscita in-dicata da un suo stesso membro - noigiornalisti dobbiamo assolutamentemostrarci più uniti di quanto lo sia-mo oggi».