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UNIVERSITA’ DI PISA Dipartimento di Scienze Politiche Master di II livello in Analisi, prevenzione e contrasto del crimine organizzato e della corruzione Donne e mafia: la voce di chi ha scelto da che parte stare Candidata: Serena Maria Suraci Matricola: 556728 A. A. 2016 2017

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  • UNIVERSITA’ DI PISA

    Dipartimento di Scienze Politiche

    Master di II livello in

    Analisi, prevenzione e contrasto del crimine organizzato e della

    corruzione

    Donne e mafia: la voce di chi ha scelto da che parte stare

    Candidata: Serena Maria Suraci Matricola: 556728

    A. A. 2016 – 2017

  • A Lea.

    A Rita.

    A Valentina.

    A Donatella, Roberta e Alessandra,

    madre e sorelle di Gianluca,

    per avermi insegnato ad amare,

    oltre la morte.

    Alla mia terra,

    donna amara e bella.

  • INDICE:

    INTRODUZIONE 7

    CAPITOLO I

    Donne e mafie

    1.1 Il ruolo delle donne nelle organizzazioni mafiose. 9

    1.1.1 Trasmissione del codice culturale mafioso. 10

    1.1.2 Incoraggiamento alla vendetta. 11

    1.1.3 Garante della reputazione maschile. 11

    1.1.4 Merce di scambio nelle politiche matrimoniali. 12

    1.2 Donne e cosa nostra. 13

    1.3 Donne e camorra. 14

    1.4 Donne e ‘ndrangheta. 15

    CAPITOLO II

    Donne con e donne contro la mafia

    2.1 Complicità. 17

    2.1.1 “Nonna eroina”, Angela Russo. 19

    2.1.2 “Vedova nera”, Anna Mazza. 20

  • 2.1.3 “Mamma eroina” o “La signora”, Maria Serraino. 21

    2.2 Le lacrime non sono più lacrime, ma parole e le parole sono

    pietre. 22

    2.2.1 Piera e Rita. 24

    2.2.2 Carmelina. 26

    2.2.3 Lea e Maria Concetta. 27

    CAPITOLO III

    La voce di chi ha scelto da che parte stare

    3.1 La scelta. 29

    3.2 Il cambiamento. 30

    3.2.1 L’obiettivo. 31

    3.2.2 Scelte che non sono state scelte. 32

    3.3. Consapevolezze. 34

    3.4 Frammenti. 36

    3.5 L’oggi che ancora pesa. 38

    3.6 Madri ribelli. 40

    CONCLUSIONI 42

  • BIBLIOGRAFIA 44

    SITOGRAFIA 46

  • 7

    INTRODUZIONE

    Il presente lavoro nasce da un sentimento di riscatto della mia terra, la Calabria, e prende

    forma all’interno del percorso di Master.

    L’anno appena trascorso ha dato la possibilità alle mie conoscenze di perfezionarsi, ma

    ancor di più di essere intrise di emozioni, perché a volte per trattare determinati argomenti,

    quali la corruzione e la criminalità organizzata di stampo mafioso, serve sì lucidità ma anche

    una buona dose di decentramento: se io non mi fossi decentrata, immedesimata in quel

    racconto, in quella storia, come avrei mai potuto capire o almeno provare a farlo le emozioni,

    le paure, i ripensamenti di quel magistrato, di quell’amministratore giudiziario, di quella

    donna?

    E proprio una donna ha fatto la differenza.

    Una testimone di giustizia che, senza alcuna pretesa, ha dato la possibilità di far

    conoscere la propria vita privata - nei limiti del possibile -, le proprie paure, il proprio

    coraggio, ma soprattutto ha posto dinanzi agli uditori uno spaccato dell’Italia degli anni

    Settanta, che non pensava e non prevedeva quello che sarebbe avvenuto successivamente:

    ‘persone estranee a fatti di mafia, ma anche a piccoli reati1’ che decidono di denunciare e

    testimoniare contro un sistema criminale, affidandosi allo Stato. Uno Stato che, purtroppo,

    nelle lungaggini burocratiche si attiva in ritardo, facendo sentire questi uomini e queste

    donne abbandonati, senza alcuna protezione, ma disposti a ricominciare da zero in località

    segrete, in luoghi sconosciuti, per amor proprio, dei propri figli, della propria terra.

    Scopo del mio studio non è quello di valutare e tematizzare l’istituto dei testimoni di

    giustizia, argomento attuale e interessante, bensì quello di raccontare una parte di genere

    degli stessi testimoni di giustizia, cioè le storie di donne che sono nate in famiglie mafiose,

    che vi si sono trovate all’interno ‘per sbaglio’, che hanno deciso di opporsi con l’impegno e

    la coerenza in valori e ideali da tramandare ai propri figli.

    Storie di donne che hanno deciso da che parte stare.

    1 Così l’Avvocato Enza Rando, durante la lezione del Master in Analisi, prevenzione e contrasto del crimine

    organizzato e della corruzione, Università di Pisa, 5 maggio 2017.

  • 8

    Non so dove condurrà l’analisi, so però che è necessario dar voce a queste storie, a

    queste donne; continuare a ricordare, tra tutte, Rita Atria e Lea Garofalo è un impegno civile

    affinché queste ‘rose nate e cresciute nel cemento2’ non rimangano tali.

    Nel dar forma a questo studio partirei da una ricostruzione letteraria della figura delle

    donne all’interno delle mafie, valutando il contesto di cosa nostra, camorra e ‘ndrangheta,

    per poi passare a descrivere ruoli positivi e negativi, concludendo con la testimonianza di

    una donna che ha deciso, con fatica, chi vuole essere e come vuole farlo.

    2 A. Sparavigna, Una rosa nel cemento: otto anni dalla scomparsa di Lea Garofalo, Stampo antimafioso, 25

    novembre 2017, (http://www.stampoantimafioso.it/2017/11/25/rosa-nel-cemento-otto-anni-dalla-scomparsa-

    lea-garofalo/).

  • 9

    CAPITOLO I

    Donne e mafie

    Sommario: 1.1 Il ruolo delle donne nelle organizzazioni mafiose. 1.1.1 Trasmissione del codice

    culturale mafioso. 1.1.2 Incoraggiamento alla vendetta. 1.1.3 Garante della reputazione maschile.

    1.1.4 Merce di scambio nelle politiche matrimoniali. 1.2 Donne e cosa nostra. 1.3 Donne e camorra.

    1.4 Donne e ‘ndrangheta.

    1.1 Il ruolo delle donne nelle organizzazioni mafiose.

    , così Leonardo Messina dà

    piena legittimazione al ruolo della donna all’interno dell’organizzazione per il

    funzionamento della stessa, per il perpetuarsi delle tradizioni, del ricatto, del terrore, per la

    formazione delle nuove generazioni. E il collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo continua:

    .

    Analizzare il ruolo delle donne all’interno delle mafie è importante non solo per una

    questione conoscitiva, ma per capire come i casi di genere, a volte di generazione,

    influiscano in modo determinante per configurare e rafforzare le organizzazioni criminali di

    stampo mafioso5.

    La mafia è un’organizzazione criminale che per definizione esclude le donne,

    esercitando un ferreo controllo sulla sfera privata. La mafia è violenza e prospera solo

    quando accompagnata dal consenso: un consenso ‘prodotto’ dall’inefficienza dello Stato,

    dalla speranza di un arricchimento veloce, dal consumo di ‘merci’ mafiose, quali droga ed

    esseri umani.

    E se direttamente le donne non sono protagoniste della violenza, viceversa lo sono del

    consenso, primo fra tutti un consenso familiare: alle donne non è concesso scegliere né dire

    di no, la pervasività dell’organizzazione criminale, gruppo esoterico per antonomasia, le

    3 T. Principato, A. Dino, Mafia donna, le vestali del sacro e dell’onore, Flaccovio Editore, 1997, p. 14. 4 Ibidem, p. 22. 5 Cfr. O. Ingrascì, Donne d’onore, storie di mafia al femminile, Bruno Mondadori Editori, 2007.

  • 10

    porta ad essere ‘degne’ mogli, madri e figlie, legate a questi uomini da un doppio filo:

    .

    Le donne, dunque, tradizionalmente hanno contribuito a rafforzare il sistema mafioso,

    sia attivamente, educando le nuove generazioni ed incitando alla vendetta, sia passivamente,

    garantendo la reputazione degli uomini e fungendo da oggetto di scambio nelle strategie

    matrimoniali dei clan. Per capire meglio questo ‘contributo’, credo sia necessario soffermarsi

    sullo studio portato a compimento dalla Dottoressa Ingrascì7:

    1.1.1 Trasmissione del codice culturale mafioso.

    La principale funzione attiva svolta da una donna all’interno della struttura criminale è

    quella di trasmettere i valori e i concetti ‘giusti’ in contrasto con i principi diffusi dalla

    società civile, poiché scopo delle famiglie mafiose è proprio quello di mantenere il processo

    educativo all’interno delle mura domestiche per evitare qualsiasi contaminazione esterna.

    Nei processi educativi mafiosi, grazie alle donne – madri, si trasmette un sistema culturale,

    basato sulla mera riproduzione di azioni e modi di pensare, ma fondato sulla sua totale

    assimilazione, diventando esso stesso ‘pilastro cognitivo’ dell’individuo.

    La donna, quindi, ha da sempre ricoperto un ruolo significativo come educatrice di futuri

    esponenti criminali che prima di tutto imparano a rispettare i genitori: il padre come

    rappresentante della mascolinità e la madre nel suo ruolo riproduttivo ed educativo.

    Il ruolo biologico della donna colma, in qualche modo, la mancanza di autonomia e la

    sua realizzazione si ha quando dà alla luce un figlio maschio, orgoglio per la comunità: . La donna – madre

    svolge un ruolo di autorità soprattutto quando i padri sono latitanti, avendo un potere tale da

    condurre il maschio verso la scelta più ‘giusta’.

    Cosa differente avviene con le figlie femmine, poiché non sono motivo di orgoglio né

    tantomeno di autorealizzazione, ma semplicemente, nella distinzione di genere e di

    gerarchizzazione dei sessi, vengono educate ad accettare una subordinazione nei confronti

    6 R. Siebert, Le donne, la mafia, il Saggiatore, Milano, 1997, p. 46. 7 Cfr. O. Ingrascì, Donne d’onore, storie di mafia al femminile, Bruno Mondadori Editori, 2007, p. 5 e seguenti. 8 R. Siebert, Le donne, la mafia, il Saggiatore, Milano, 1997, p. 96.

  • 11

    non solo dei maschi della famiglia ma e soprattutto degli uomini che le prenderanno in spose.

    Nella concezione femminile educare una bambina all’accettazione passiva di questi mezzi

    garantirà un riconoscimento, seppure biologico, all’interno di un contesto dominato dal

    maschile.

    Si evince, dunque, un ruolo materno deviato rispetto alla concezione tipica che conduce

    i figli verso il mestiere di criminale in casa.

    1.1.2 Incoraggiamento alla vendetta.

    : la vendetta come compito ideale

    delle donne9 è la seconda funzione attiva che istiga al delitto.

    La vendetta, in termini generali, è un atto di riparazione al torto subito, nella fattispecie

    mafiosa è una sorta di esigenza dei singoli individui, collegata all’onore e alla vergogna: non

    vendicare l’onore era segno di debolezza e provocava un forte sentimento di vergogna.

    La giustizia personale prende il posto di quella statale, la donna incarna questo istituto

    ancora fortemente radicato all’interno delle organizzazioni mafiose: si parla infatti di

    ‘pedagogia della vendetta’ detenuta dalla donna da trasmettere agli uomini, in particolare ai

    figli, per riparare il torto subito. Una riparazione che può avvenire direttamente o

    indirettamente (vendetta trasversale), colpendo un parente dell’assassino. Una riparazione

    simbolica, in quanto spesso ‘calendarizzata’ in una sorta di rito in memoria del morto.

    Si può affermare, quindi, con le parole della sociologa Renate Siebert che “la donna non

    è un soggetto passivo della faida, la donna è un soggetto attivo, è un soggetto che chiede

    anch’essa, e con grande forza, la vendetta e verrà ascoltata, perché rispettata pur se non fa

    parte dell’organizzazione”.

    1.1.3 Garante della reputazione maschile.

    Definite a grandi linee le funzioni attive, è bene porre la nostra attenzione sulle funzioni

    passive portate a compimento, volontariamente o involontariamente, dalle donne.

    Di notevole importanza è la garanzia della reputazione maschile al fine di far ottenere

    al proprio uomo onorabilità, rispettabilità e un’affiliazione formale alla mafia. Per avere

    questi ‘risultati’ alle donne è richiesto un comportamento sessuale ‘corretto’: la verginità

    9 Ibidem, p. 66.

  • 12

    prima delle nozze e la castità successivamente. Castità che dovrebbe essere anche rispettata

    dall’uomo d’onore, da un lato per tutelare la stabilità della famiglia di sangue, dall’altro

    perché le donne – amanti sono inaffidabili, ma ciò non avviene, infatti è pratica comune

    circondarsi di più donne, nonostante un vincolo matrimoniale.

    Inoltre, per detenere la suddetta reputazione, l’uomo è tenuto a ‘proteggere’ la propria

    donna da qualsiasi corteggiamento ed è portato ad avere accanto una donna totalmente dedita

    a lui, fedele, perché il pieno controllo della fidanzata o della moglie che sia, primo legame

    familiare, si riversa nel pieno controllo del territorio di appartenenza. Le donne, quindi,

    sanno come vestirsi, truccarsi, atteggiarsi nella quotidianità e non solo quelle con un marito

    accanto o in galera, ma anche le vedove, costrette a rimanere fedeli all’uomo morto per non

    arrecare disonore alle famiglie di appartenenza.

    1.1.4 Merce di scambio nelle politiche matrimoniali.

    I matrimoni combinati, diffusi nell’Italia meridionale ed in particolare nelle zone ad alta

    densità mafiosa, hanno portato da sempre a trasformare rapporti tra non consanguinei e

    compari in legami di sangue. Le alleanze di sangue divengono fondamentali per la

    sopravvivenza di un clan e per allargare la rete di fiducia tra famiglie mafiose che

    condividono gli stessi valori e finalità criminali, potenziando le dimensioni di una cosca.

    In poche parole, un intreccio matrimoniale dettato da una crescita criminale, dove le

    donne sono oggetto passivo di scambio e spesso l’offerta del sangue virginale rappresenta la

    giusta restituzione del sangue versato nel corso di una guerra tra clan, sancendo la fine della

    faida.

    Donne, quindi, private di autonomia e di amore, che come già detto, forse, riescono a

    trovare, riscattandosi, solo con la nascita dei figli, meglio se di sesso maschile.

  • 13

    1.2. Donne e cosa nostra.

    In Sicilia cosa nostra si basa su una struttura gerarchica rigida, in cui gli appartenenti ai

    clan sono scelti per cooptazione, mentre le donne sono le uniche responsabili della

    trasmissione dei modelli culturali mafiosi nella famiglia e garanti della reputazione dei

    propri uomini10, in quanto sono dominate, usate e, in maniera paternalista, tenute all’oscuro

    dei segreti dell’onorata società, poiché servono e sono funzionali come madri di figli

    maschi11. Le donne di mafia si trovano ad appartenere, a volte anche loro malgrado, a un

    contesto di costrizione, subordinazione, ubbidienza, quasi per uno statuto interno mafioso,

    per una condivisione degli scopi di cosa nostra, per complicità12.

    Ruoli femminili rigidi messi a repentaglio da un momento di crisi apicale

    dell’associazione mafiosa: il fenomeno dei collaboratori di giustizia, che ha consentito di

    disvelare le regole a cui l’organizzazione si è ispirata da sempre, gli stretti legami con le

    istituzioni e la politica13.

    Ruoli minacciati, ma che in realtà sono divenuti fluidi in una lettura più autentica dei

    compiti attuali ricoperti e di quelli probabilmente rivestiti in passato, ruoli che sono stati

    rafforzati attribuendo alle donne un nuovo compito ‘propagandistico14’ di cura della strategia

    comunicativa delle cosche, e mutati, divenendo le donne – mogli “madrine” e “supplenti”

    dei propri uomini, nascondendosi dietro una forte religiosità.

    Si evince che, in cosa nostra, le donne hanno svolto un ruolo attivo negli affari di

    famiglia, essendo divenute, come si accennava, “madrine” nel traffico e nello spaccio di

    droga, “supplenti” in caso di arresto o latitanza dei propri uomini, “collaboratrici” nelle

    attività delittuose, risultando prestanome, proprietarie di quote, intestatarie di società e

    imprese. Il tutto sempre accompagnato da una forte religiosità che riconosce il diritto alla

    violenza dei propri uomini così come il diritto alla vendetta15, che Leonardo Sciascia

    descrive, criticando quelle madri che vincolano l’autostima dei figli e la coscienza che essi

    hanno del proprio valore nell’atto vendicativo:

  • 14

    hanno questo di terribile. Quanti delitti sono stati provocati, istigati o incoraggiati dalle

    donne!16>>.

    1.3. Donne e camorra.

    In Campania la struttura della camorra è talmente fluida da offrire la possibilità di far

    strada alle donne coraggiose e autoritarie17.

    La camorra contemporanea nasce e si sviluppa all’interno di una questione urbana e di

    un modello di città particolare che hanno permesso l’alterazione e l’infiltrazione nelle attività

    napoletane, ‘autorizzando’ la criminalità a dettare legge nel commercio e nella politica, tanto

    da far parlare di una camorra di Stato18.

    La camorra, però, non intende sostituirsi allo Stato, è nata, semplicemente, nutrendo

    obiettivi micro – sociali illegali, e non politici ad ampio raggio19, non escludendo le relazioni

    violente ed illegali, finalizzate all’accumulazione del capitale ed all’acquisizione e gestione

    di posizioni di potere, che rappresentano, da sempre, la principale fonte di guadagno per

    l’organizzazione criminale.

    La Campania, ed in particolare Napoli, non risulta essere la sede di attività finanziarie

    ed imprenditoriali, ma un agglomerato di quartieri che cercano di fronteggiare i problemi

    quotidiani con leggi “alternative”.

    Probabilmente anche per questa ragione la mafiosità femminile campana si è sviluppata

    sin da subito, divenendo una risorsa funzionale alla criminalità organizzata.

    Non è un caso che Marc Monnier, uno dei primi studiosi della camorra, descriva le

    donne campane come delle signore pronte al delitto.

    Le donne napoletane svolgono un ruolo attivo nel tessuto sociale illegale e agiscono

    senza paura di mostrarsi, rispondendo ai bisogni familiari e facendo leva sulla sete di potere

    che le contraddistingue.

    Come evidenzia la sociologa Clare Longrigg, il ruolo che assumono dipende molto dalla

    loro forza di carattere e dalle stesse rivalità che esistono in seno alla famiglia20. Infatti,

    sostiene che

  • 15

    come cosa nostra, la posizione all’interno dell’organizzazione dipende in larga misura dal

    carisma e dalla forza di carattere di una persona. Le donne napoletane, come commenta un

    anziano carabiniere, generalmente sono forti e schiette, ed è probabile che un camorrista

    ambizioso si scelga una moglie con una forte personalità: “Il camorrista è sbruffone,

    esibizionista, ha altre donne. Si sposa una donna con un carattere forte. Lei ha molta

    importanza dentro la famiglia, e conta molto dentro il clan. Quando il marito è in prigione,

    può anche vedere a modo suo21”>>, aggiungendo che le donne mafiose sono degli angeli

    vendicatori spietati, descrivendone una in particolare, Amalia Pizza: .

    Le donne campane, oltre a detenere questi ruoli ‘importanti’, devono essere distinte in

    napoletane e casalesi, queste ultime risentono dell’influenza mafiosa siciliana23, le casalesi

    rispettano il potere maschile, agendo in soccorso dei loro uomini; invece le prime, le

    napoletane, non si fanno frenare dalla cultura maschilista, mostrandosi con maggiore

    vivacità e astuzia.

    1.4. Donne e ‘ndrangheta.

    In Calabria sono gli stessi gruppi familiari a costituire la struttura della ‘ndrangheta e

    all’interno di essa le donne hanno un ruolo centrale e autorevole24, anche se da alcuni atti

    processuali risalenti al Novecento si deduce che , escludendole

    formalmente dai riti di iniziazione, ma coinvolgendole strutturalmente.

    Infatti, le donne vengono ammesse all'organizzazione indossando i panni di un uomo,

    insignendole della carica di “sorella d’omertà26”, titolo riconosciuto a donne legate in

    qualche modo a uomini d’onore.

    21 Ibidem. 22 Ibidem. 23 La struttura casalese è molto simile a quella siciliana, non solo nei rituali d’affiliazione, ma anche in quelli

    di gestione del potere. 24 Cfr. C. Longrigg, L’altra faccia della mafia, Ponte alle Grazie srl, Milano, 1997, p. 9. 25 O. Ingrascì, Donne, ‘ndrangheta, ‘ndrine. Gli spazi femminili nelle fonti giudiziarie. Donne di mafia. Rivista

    Meridiana, p. 39. 26“Il pentito Antonio Zagari sottolinea l’importanza criminale delle donne nelle famiglie legate alla

    ‘ndrangheta: le regole della ‘ndrangheta calabrese non contemplano la possibilità di affiliare elementi

    femmina, tuttavia se una donna viene riconosciuta particolarmente meritevole può essere associata con il titolo

    di sorelle d’ omertà” in R. Siebert, Donne di mafia: affermazione di un pseudo – soggetto femminile, Università

    della Calabria, (http://www.stopndrangheta.it/file/stopndrangheta_1053.pdf).

  • 16

    Le donne non fanno giuramento di fedeltà all'organizzazione, a volte però le si incarica

    di dare assistenza ai latitanti, di far circolare le ambasciate e di mantenere i contatti,

    attraverso i colloqui, tra i detenuti e l’organizzazione esterna, si incaricano di custodire e

    occultare le armi, di vigilare e di acquisire informazioni: una sorta di delega di potere o

    comunque di custodia del potere maschile27.

    Un ulteriore ruolo ricoperto dalla donna è quello di “santista”, la carica più elevata che

    si può avere all'interno della ‘ndrangheta, evidente in particolare nei periodi di conflitto.

    Durante queste fasi si scatenano le più atroci vendette, delle quali le donne sono protagoniste

    indiscusse: , così il giudice Gratteri descrive la

    realtà precedente un assassinio di faida ad Africo, in provincia di Reggio Calabria28.

    E se le vendette servono a porre fine a guerre tra clan, anche i matrimoni combinati

    possono farlo: il sangue del primo uomo ucciso nelle faide viene ‘ripagato’ dal sangue della

    sposa vergine29.

    Il ruolo delle donne all'interno dell’organizzazione è ambivalente, perché da un lato

    cercano di proteggere i loro figli e mariti temendo per la loro incolumità, dall'altro sono loro

    stesse ad incitarli a combattere e a compiere vendette.

    Si può dire che le donne all’interno della ‘ndrangheta .

    27 Cfr. O. Ingrascì, Donne d’onore, storie di mafia al femminile, Bruno Mondadori Editori, 2007, pp. 75, 76,

    77, 78. 28 C. Longrigg, L’altra faccia della mafia, Ponte alle Grazie srl, Milano, 1997, p. 110. 29 Ibidem, p. 112. 30 O. Ingrascì, Donne, ‘ndrangheta, ‘ndrine. Gli spazi femminili nelle fonti giudiziarie. Donne di mafia. Rivista

    Meridiana, p. 52.

  • 17

    CAPITOLO II

    Donne con e donne contro la mafia

    Sommario: 2.1 Complicità. 2.1.1 “Nonna eroina”, Angela Russo. 2.1.2 “Vedova nera”, Anna Mazza.

    2.1.3 “Mamma eroina” o “La signora”, Maria Serraino. 2.2 Le lacrime non sono più lacrime, ma

    parole e le parole sono pietre. 2.2.1 Piera e Rita. 2.2.2 Carmelina. 2.2.3 Lea e Maria Concetta.

    2.1 Complicità31.

    Il ruolo delle donne nella mafia può essere contenuto nel binomio estraneità –

    complicità.

    L’estraneità delle donne è ciò che l’organizzazione criminale ha decretato, traducendo

    la diffidenza nei confronti del sesso femminile nel divieto di appartenenza. L’estraneità

    rappresenta un dato di fatto e una potenzialità. La complicità, d’altro canto, ha l’ambiguo

    fascino del “vorrei, ma non vorrei”; esserci, approfittare delle situazioni, senza avere alcuna

    responsabilità. La complicità può nascere inoltre dall’attrazione per l’uomo violento, una

    sorta di influsso da parte dell’eroe negativo.

    In questo binomio è difficile calare l’idea di emancipazione, poiché da una parte, si

    sottintende l’individualità femminile come acquisizione; dall’altra parte, l’emancipazione

    femminile viene concepita come valorizzazione dell’essere madri, collettivamente e

    socialmente. Questa ambivalenza ha teso a contrapporre le madri alle donne: le donne,

    quando va bene, sono madri in famiglia e individui nella sfera extra – familiare, quando va

    male, sono madri in famiglia e basta.

    Una versione riduttiva del concetto di emancipazione, quindi, che tiene ferma la

    funzione fondamentale della donna all’interno della famiglia.

    Si può affermare, dunque, che l’organizzazione mafiosa, in linea di massima, delimita

    lo spazio femminile alla sfera domestica; tuttavia, tenendo fermo questo ‘principio’, la mafia

    nella sua evoluzione ha fatto e fa uso delle donne anche nella sfera extra – domestica.

    Spiega Anna Puglisi in un’intervista che . Ed è ormai noto che la funzione di prestanome sia largamente diffusa tra le

    mogli, sorelle, cognate e figlie dei mafiosi, da una parte questa azione attiva sarebbe da

    31 L’intero paragrafo prende spunto dalla riflessione posta dalla sociologa Renate Siebert nel suo libro Le

    donne, la mafia, il Saggiatore, Milano, 1997, p. 171 e seguenti.

  • 18

    collegare all’ingente ricchezza prodotta dal traffico di droga, dall’altra parte all’incidenza

    degli accertamenti patrimoniali. Queste funzioni di intermediazione e di copertura

    dimostrano quindi un coinvolgimento attivo delle donne, che essendo dei soggetti giuridici

    autonomi ne portano le responsabilità.

    Come si concilia questa realtà con il divieto esplicito, per le donne, di entrare a far parte

    della mafia? Esistono, o non esistono donne mafiose? Le donne possono aspirare ad una

    “uguaglianza” nella carriera mafiosa e ad una “emancipazione” all’interno di questo

    ambiente?

    Dire che la donna non rivesta un ruolo di protagonista nella famiglia mafiosa, basti

    pensare alle donne di cosa nostra o ‘ndrangheta (un po’ meno alle appartenenti alla camorra,

    visto il ruolo delle “strozzine napoletane”), o che la donna non abbia possibilità di

    “emancipazione” in questo ambiente non significa assolutamente che il ruolo della donna

    sia irrilevante e non significa che le donne non abbiano alcuna responsabilità.

    Tutt’altro. Le donne sono funzionali all’organizzazione mafiosa. Senza la complicità

    attiva delle donne la “signoria del territorio” non potrebbe essere operata: le donne hanno

    responsabilità sia materiali che morali e rivestono ruoli importantissimi a vari livelli.

    Come mogli, le donne rappresentano un sostegno materiale e affettivo per l’uomo

    d’onore, soprattutto in tempi e luoghi segnati dal conflitto con la legge. Le donne divengono

    preziose mediatrici tra clandestinità e legalità, fornendo sostegno logistico, trasformando la

    casa in base operativa.

    Queste donne fungono da tassello importante nel riciclaggio di denaro sporco,

    nell’occultamento delle improvvise ricchezze e nelle svariate operazioni finanziarie.

    Queste donne, nell’evoluzione mafiosa, sono divenute la mente, e non più il braccio,

    delle azioni dei mariti o dei figli.

  • 19

    2.1.1 “Nonna eroina”, Angela Russo.

    Palermitana, nata nel primo decennio del Novecento in una famiglia mafiosa e cresciuta

    come un maschio per soddisfare la mancanza del padre di non aver avuto figli, Angela Russo

    non potendo essere uomo sviluppa un acuto senso di onnipotenza al femminile. In

    un’intervista raccolta da Marina Pino, afferma: .

    Nel febbraio 1982, a settantaquattro anni, Angela Russo viene arrestata insieme ad altre

    ventiquattro persone, tra cui i figli e le nuore, ed immediatamente viene soprannominata

    “nonna eroina” per il ruolo rivelante, e non di semplice gregaria, ricoperto all’interno

    dell’associazione criminale33.

    Reggere le fila dell’ingente traffico di droga tra Sicilia, Puglia e nord Italia, coordinare

    le attività dei familiari, smistare ordini e, a volte, fare la corriera negli Stati Uniti, dà la

    possibilità a “nonna eroina” di rivendicare la sua posizione rilevante all’interno di cosa

    nostra: .

    Si evince che la legge per la donna è rappresentata dalla mafia, sono gli altri ad essere

    nel torto: .

    Un torto nel quale si trova ad essere anche il figlio Salvatore che decide di collaborare

    con la giustizia e che, però, viene ripudiato dalla madre come “vigliacco, disgraziato,

    cascittuni e spione”. La massima espressione della potenza materna al servizio della ‘legge’

    mafiosa si ha quando Angela Russo, rivolgendosi al figlio divenuto pazzo perché pentitosi,

    minaccia: .

    Un modo palese per intimidirlo e per compensare l’esclusione dal comando mafioso,

    non venendo meno responsabilità e complicità. Un modo per affermare che sì era donna, una

    donna però che avrebbe voluto essere un uomo, un uomo mafioso37.

    32 M. Pino, Le signore della droga, La Luna, Palermo, 1988, p. 79. 33 Cfr. T. Principato, A. Dino, Mafia donna, le vestali del sacro e dell’onore, Flaccovio Editore, 1997, p.63. 34 M. Pino, Le signore della droga, La Luna, Palermo, 1988, p. 91. 35 Ibidem. 36 Ibidem. 37 Cfr. R. Siebert, Le donne, la mafia, il Saggiatore, Milano, 1997, p. 227.

  • 20

    2.1.2 “Vedova nera”, Anna Mazza.

    Dopo la morte del marito, Gennaro Moccia, Anna Mazza, soprannominata “vedova

    nera”, prende il testimone, porta avanti la ‘famiglia’, diviene la mente del clan e cerca di

    fondare il primo matriarcato della camorra. Tra i primati che le si annoverano vi è quello di

    essere stata la prima donna in Italia ad essere condannata per reati di associazione mafiosa.

    E inoltre, da abile stratega, la “vedova nera” inventa uno pseudo pentimento, la

    “dissociazione”, per rendere poco veritiere le dichiarazioni del pentito Galasso ed evitare il

    carcere ai figli.

    Anna Mazza inizia a fare affari con i soldi della “mesata”, crea reti di collegamenti per

    ramificare il suo potere e per migliorare le sue imprese, fino ad arrivare a gestire decine di

    miliardi legati all’edilizia pubblica nei comuni a nordest di Napoli38.

    Riesce a far diventare il clan Moccia il clan camorristico più importante nella gestione

    degli appalti edili, nell’acquisto di terreni edificabili e nel controllo delle cave.

    Fino al 1987, anno in cui verrà arrestata, porterà avanti la sua idea di matriarcato della

    camorra, si farà accompagnare da una ‘scorta’ di sole donne, spingerà i propri figli

    all’emulazione: una leggenda raccontata da alcuni camorristi vuole che la madre abbia spinto

    il più piccolo dei figli, Antonio, di soli tredici anni, a vendicare la morte del padre per

    ripagare il sangue con il sangue39.

    38 R. Caprile, Presa la “vedova della camorra”, La Repubblica, 16 luglio 1987,

    (http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1987/07/16/presa-la-vedova-della-camorra.html) 39 M. Di Caterino, Anna Mazza, la “vedova nera” più temuta dai clan, Il Mattino, 26 settembre 2017,

    (https://www.ilmattino.it/napoli/cronaca/anna_mazza_moccia_afragola_camorra-3262860.html).

  • 21

    2.1.3 “Mamma eroina” o “La signora”, Maria Serraino.

    Calabrese, appartenente ad una famiglia tradizionalmente mafiosa, Maria Serraino si

    guadagna il nomignolo di “mamma eroina” per aver conquistato il mercato della droga a

    Milano, dove nel 1963 emigra con il marito e i dodici figli.

    “La signora” al vertice della ‘ndrina Serraino – Di Giovine viene riconosciuta come

    capo indiscusso da Nord a Sud, ‘conduce’ la famiglia nel contrabbando di sigarette e nella

    ricettazione, per poi approdare al commercio di droga e di armi, non solo nell’ambiente

    milanese, ma e soprattutto in quello internazionale40.

    Donna – boss di ‘ndrangheta, matriarca e padrona nel suo feudo in piazza Prealpi,

    gestisce i rapporti con le ‘ndrine calabresi, rifornisce di armi i gruppi alleati per le guerre di

    mafia, stabilisce quali omicidi siano necessari e contemporaneamente agisce da madre

    ‘tradizionale’ di dodici figli, alcuni morti per infarto, altri per l’uso eccessivo della droga

    che la stessa madre tagliava, altri perché divenuti collaboratori di giustizia: Rita ed Emilio.

    La prima perché con le sue deposizioni aveva mandato in carcere l’intera famiglia,

    condannata ad un totale di 1500 anni41, il secondo perché essendo stato da sempre il braccio

    destro della madre l’aveva ‘tradita’, per amore della figlia minore42.

    Maria Serraino viene condannata all’ergastolo e sottoposta al regime del 41 – bis:

    l’unica donna nel Nord Italia, una delle prime nella penisola, ma del resto: .

    40 Cfr. O. Ingrascì, Donne d’onore, storie di mafia al femminile, Bruno Mondadori Editori, 2007, pp. 59, 60,

    61. 41 B. Borromeo, Parla “mamma eroina”, ergastolo per mafia: ‘Portai io la ‘ndrangheta al Nord’, Il Fatto

    Quotidiano, 6 marzo 2015, (https://www.ilfattoquotidiano.it/2015/03/06/parla-mamma-eroina-delle-prime-

    donne-lergastolo-per-mafia-ndrangheta-nord-portai/1483497/). 42 S. Mazzocchi, La ‘ndrangheta narrata a mia figlia, La Repubblica, 16 maggio 2013,

    (http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2013/05/16/la-ndrangheta-narrata-mia-figlia.html). 43 Procura della Repubblica di Milano, DDA, Richiesta di applicazione di misure cautelari nei confronti di

    Agnifili Gianfranco + 121, 16 marzo 1994 in O. Ingrascì, op. cit.

  • 22

    2.2 Le lacrime non sono più lacrime, ma parole e le parole sono pietre44.

    Le parole come pietre di Francesca Serio, madre del sindacalista socialista Salvatore

    Carnevale, colpiscono esecutori e mandanti. La nuova esistenza nasce con la forma della

    tragedia, è oscura, minuziosa, opaca e feroce. È una rivelazione […].

    La morte del figlio le ha aperto gli occhi45.

    La morte del marito, Vito Schifani, uomo della scorta del giudice Giovanni Falcone, ha

    reso Rosaria capace, con pochi gesti e con poche parole, di dire l’indicibile: .

    Rosaria Costa Schifani, giovane moglie e giovane madre, ha un carattere forte, una

    tenacia fuori dal comune e un grande coraggio civile. L’intelligenza delle emozioni, però, la

    contraddistingue. Il coraggio di esprimere i suoi sentimenti più intimi e di farli diventare

    progetto, conoscenza, curiosità fanno sì che Rosaria si accosti al ‘mostro’ che le ha ucciso

    l’amore: .

    Con il suo “viaggio” emozionale, questa donna ha percorso un pezzo importante nella

    presa di coscienza e di conoscenza, un pezzo importante nell’elaborazione del lutto.

    L’esperienza soggettiva della perdita, del lutto, del dolore è divenuta stimolo per una

    forte rivendicazione etica e politica. Questioni private hanno assunto valenza pubblica.

    La storia più intimamente lacerante e conflittuale è quella di Felicia Bartolotta

    Impastato, moglie di un uomo di mafia e madre di un militante di sinistra impegnato contro

    la mafia. Aveva la mafia in casa e non vedeva vie d’uscita: una parte di lei contro un’altra

    parte di lei stessa.

    Ma lei, Felicia, via via, sempre di più, diventa complice del figlio, condivide le sue idee,

    trema per le conseguenze di questo impegno, cercando tuttavia di convincerlo a non esporsi

    pubblicamente. Peppino, invece, aveva iniziato una lotta contro la mafia su più fronti: a

    livello familiare e generazionale contro il padre, a livello politico contro il compromesso

    44 C. Levi, Le parole sono pietre, Einaudi, Torino, 1979, p. 160. 45 Ibidem, p. 166. 46 R. Alajmo, Un lenzuolo contro la mafia, Gelka, Palermo, 1993, p.23. 47 G. Turnaturi – C. Donolo, Familismi morali in Le vie dell’innovazione, Feltrinelli, Milano, 1988, p. 181.

  • 23

    storico tra DC e PCI, contro la speculazione immobiliare e contro il traffico della droga.

    Aveva ‘sfidato’ la mafia con un’arma terribile, de – sacralizzante: l’ironia.

    Giuseppe Impastato viene ammazzato il nove maggio 1978. Aveva trent’anni.

    La madre risponde con tranquillo coraggio: .

    La madre diviene da donna di altri padrona di sé, con la forza dell’intelligenza e delle

    emozioni e come Francesca Serio prende il testimone lasciatole dal figlio: un impegno

    politico per la libertà e per la dignità, contro il sopruso mafioso.

    Scrive Corrado Stajano: (Il

    Messaggero, 8 giugno 1986).

    Sono solo alcune delle donne che hanno testimoniato e lottato a partire da una vicenda

    personale, esponendosi in prima persona attraverso la denuncia, la costituzione di parte civile

    nei processi e collaborando con la giustizia a vari livelli. Una diversità di fondo, sicuramente,

    è costituita dalla relativa vicinanza o lontananza rispetto all’ambiente mafioso stesso. Chi ne

    era vicina, o addirittura chi ha vissuto all’interno, ovviamente, ha compiuto scelte

    estremamente drammatiche, con costi sia materiali che psicologici particolarmente alti.

    Le emozioni come risorsa, le parole che diventano pietre, il dolore che si libera dal

    tradizionale pudore e diventa domanda etica e questione politica.

  • 24

    2.2.1 Piera e Rita.

    È spesso il lutto a fare da sprone. Parlare può inizialmente servire come elaborazione

    del lutto, collaborare può voler dire liberarsi dalle passate costrizioni: si recide una

    dipendenza, si assicura un futuro diverso ai propri figli. La donna innesca un meccanismo di

    cambiamento, compiendo una scelta48.

    Piera Aiello non apparteneva ad una famiglia mafiosa, aveva però sposato Nicola Atria,

    figlio di un esponente della mafia di Partanna per far sì che “smettano gli atti di ritorsione

    contro di me e la mia famiglia49”.

    Sposandosi, accetta il suo destino. Il suocero però viene assassinato mentre lei era in

    viaggio di nozze. Il marito allora decide di portare a compimento una vendetta che gli si

    ritorcerà contro, perché i suoi avversari saranno più veloci e lo uccideranno sotto gli occhi

    della moglie e della figlia di soli tre anni.

    Vedova a ventitré anni, Piera decide di vendicarsi, ma lo fa in modo diverso: .

    La sua vendetta sarà denunciare ciò che sa e ciò che ha visto, onorando l’impegno preso

    con il giudice Paolo Borsellino.

    Piera e la sua bambina vengono fatte sparire grazie al programma di protezione dei

    testimoni e trasferite sotto falso nome in una località segreta.

    Piera diverrà la prima testimone di giustizia donna: un passo compiuto per la figlia che

    le dà la spinta motivazionale e per la famiglia che è dalla sua parte51.

    Motivazione e sostegno che mancano a Rita, sorella di Nicola, amica e cognata di Piera.

    Ciò che non le manca, di certo, è la vendetta. Anche per lei vendicare il padre e il fratello

    sarà un impegno da portare a compimento, ma in modo diverso, quasi ‘nuovo’, scegliendo

    la vita sulla morte.

    Rita Atria decide di parlare, di raccontare tutto ciò che conosce, perché confidatogli dal

    fratello, lo fa con coraggio e determinazione dinanzi ad un giudice che diverrà suo amico,

    Paolo Borsellino. La collaborazione di Rita inizia nella segretezza più assoluta52. Non le fu

    48 Cfr. O. Ingrascì, Donne d’onore, storie di mafia al femminile, Bruno Mondadori Editori, 2007, p.152. 49 B. Argentieri, La rabbia di Piera testimone di giustizia per orgoglio e per amore, Corriere della Sera, 27ora,

    19 ottobre 2012, (http://27esimaora.corriere.it/articolo/la-rabbia-di-piera-testimone-di-giustizia-per-orgoglio-

    e-per-amore/). 50 S. Rizza, Una ragazza contro la mafia – Rita Atria, La Luna, Palermo, 1993, p. 64. 51 Cfr. R. Siebert, Le donne, la mafia, il Saggiatore, Milano, 1997, p.150. 52 Cfr. C. Longrigg, L’altra faccia della mafia, Ponte alle Grazie srl, Milano, 1997, p. 276.

  • 25

    permesso di dirlo nemmeno a sua madre, che una volta venutane a conoscenza iniziò a

    rinnegare la figlia poco più che diciassettenne.

    Rita era sola, il suo appoggio era da un lato l’amica Piera, dall’altro il giudice Borsellino.

    Era sola quando capì davvero chi fossero il padre e il fratello, era sola quando il diciannove

    luglio 1992, in via d’Amelio, il suo amico giudice perse la vita. Era sola quando decise, una

    settimana dopo, di gettarsi da una finestra, scrivendo poco prima sul suo diario: .

    Nella solitudine di Rita e Piera cominciano ad identificarsi molte altre donne: (S. Ferraris, “Mezzocielo”, gennaio

    1993)53.

    53 R. Siebert, Le donne, la mafia, il Saggiatore, Milano, 1997, p. 154.

  • 26

    2.2.2 Carmelina.

    È il tredici agosto 2003, siamo a Mondragone, in provincia di Caserta: Carmelina Prisco,

    un’onesta lavoratrice nella ditta di pulizie della famiglia, sta passeggiando con delle amiche

    in bici, quando la sua vita cambia.

    Tra i tavolini del “Roxy bar” rimane ucciso Giuseppe Mancone, detto Rambo,

    spacciatore della zona, sotto i colpi mortali di Salvatore Cefariello, ercolanese, affiliato al

    clan Birra. Carmelina vede tutta la scena, rimane paralizzata, ma chiama i carabinieri e si

    nasconde con le amiche54.

    Il giorno dopo decide di andare spontaneamente dai carabinieri, raccontando tutto ciò

    che aveva visto. Gli inquirenti iniziano ad indagare, però, sulla vita di Carmelina, sulla sua

    famiglia, sulle sue amicizie. Non credono possa essere una testimone di giustizia

    involontaria, non credono si possa e voglia vincere il muro di omertà in terra di camorra.

    Lo fa solo un Pubblico Ministero, allora alla DDA di Napoli, Raffaele Cantone.

    La ascolta, le fa sentire la presenza dello Stato, “poiché non ha mai pensato di

    trasformare la propria vita, collaborando55”.

    Ma la vita di Carmelina, definita da Cantone “una testimone di giustizia seria e vera”,

    viene trasformata: per tre anni è sotto il programma di protezione, dopo viene abbandonata

    dallo Stato e costretta a fare ritorno nel suo paese d’origine.

    In un’intervista le si chiede il perché ha testimoniato, il perché ha ‘agito’ contro la

    camorra, la sua risposta eloquente non lascia dubbi: .

    A quindici anni di distanza, a Carmelina è rimasta solo la sua dignità.

    54 Cfr. V. Ammaliato, Carmelina, testimone di giustizia, Il Fatto Quotidiano, 14 settembre 2010,

    (https://www.ilfattoquotidiano.it/2010/09/14/carmelina-testimone-di-giustizia/60615/). 55 La mondragonese Carmelina Prisco, quando il coraggio di una testimone di giustizia anticamorra viene

    mortificato. La donna ridotta sul lastrico, CasertaCE.net, 14 marzo 2017, (https://www.casertace.net/88674-i-

    governi-della-vergogna-la-mondragonese-carmelina-prisco-quando-il-coraggio-di-una-testimone-di-giustizia-

    anticamorra-viene-mortific.html). 56 V. Sbrizzi, L’odissea di una testimone di giustizia, intervista di Fanpage.it, 7 ottobre 2012,

    (https://www.fanpage.it/l-odissea-di-una-testimone-di-giustizia-intervista/).

  • 27

    2.2.3 Lea e Maria Concetta.

    Due storie diverse, due donne, una terra, la Calabria, un destino, la ‘ndrangheta, la scelta

    di essere madri ‘normali’. Lea e Maria Concetta decidono di squarciare il velo di omertà in

    cui hanno vissuto e in cui non vorrebbero far crescere i propri figli.

    Lea Garofalo, testimone di giustizia, viene uccisa il ventiquattro novembre 2009, a soli

    trentasei anni.

    Maria Concetta Cacciola, trentuno anni, il venti agosto 2011 decide di ingerire

    dell’acido muriatico, morendo. Si verrà a sapere solo dopo che fu la famiglia a costringerla

    a compiere un tale gesto.

    Lea collabora con la magistratura dai primi anni 2000, dal 2002 viene sottoposta al

    programma di protezione, avendo deciso di testimoniare contro la sua famiglia e quella del

    suo ex compagno Carlo Cosco, padre di Denise.

    Lea racconta ai Pubblici ministeri anni di spaccio e omicidi tra le due famiglie rivali di

    Petilia Policastro, piccolo paese in provincia di Crotone. Cosco temendo per le dichiarazioni

    rese da Lea, decide di trasferirsi a Milano con la scusa di voler intrattenere dei rapporti con

    la figlia diciassettenne, e attira l’ex compagna in via Montello 9, “fortino della ‘ndrangheta”.

    Lea viene sequestrata, uccisa e bruciata.

    Il suo coraggio, la sua scelta di lasciare la Calabria, quella di parlare non sono state vane:

    oggi Denise dice di essere “orgogliosa testimone di giustizia57”, contro il padre e grazie a

    sua madre: .

    Altrettanto forte è la vicenda di Maria Concetta Cacciola, nipote del boss Bellocco e

    indotta al suicidio dalla sua stessa famiglia. Decide di collaborare, portandosi dietro i tre figli

    e accusando la ‘ndrina di Rosarno.

    Nel maggio 2011 arriva il programma di protezione, ma i figli di sedici, dodici e sette

    anni rimangono in Calabria con i nonni. La lontananza si fa sentire, Maria Concetta torna

    dalla famiglia, che le assicura il perdono.

    Il diciassette agosto Maria Concetta Cacciola esprime l’intenzione di riprendere il

    percorso di collaborazione con lo Stato, questa volta portando con sé i figli: la partenza è già

    programmata, le valigie pronte, la libertà nuovamente vicina. Ma uno squillo al telefono

    cellulare di un carabiniere non arriverà mai.

    57 Donna sciolta nell’acido, la figlia: “Con orgoglio contro mio padre”, Corriere della sera, 6 luglio 2011,

    (http://milano.corriere.it/milano/notizie/cronaca/11_luglio_6/donna-sciolta-acido-processo-

    1901029596471.shtml?refresh_ce-cp).

  • 28

    Il venti agosto 2011 la donna si chiude in bagno, ingerendo acido muriatico.

    Nessuno si spiega come sia stato possibile un tale gesto, nemmeno il Pubblico ministero,

    Giovanni Musarò, che durante una requisitoria di condanna dell’intera famiglia ricorda:

    .

    58 A. N. Pezzuto, Giustizia per Maria Concetta, Antimafia Duemila, 28 aprile 2015,

    (http://www.antimafiaduemila.com/home/mafie-news/229-ndrangheta/54926-giustizia-per-maria-

    concetta.html).

  • 29

    CAPITOLO III

    La voce di chi ha scelto da che parte stare

    Sommario: 3.1 La scelta. 3.2 Il cambiamento. 3.2.1 L’obiettivo. 3.2.2 Scelte che non sono state

    scelte. 3.3 Consapevolezze. 3.4 Frammenti. 3.5 L’oggi che ancora pesa. 3.6 Madri ribelli.

    3.1 La scelta.

    Piera, Rita, Carmelina, Lea e Maria Concetta in momenti diversi e con un passato

    diverso hanno compiuto una scelta, hanno deciso come stare al mondo.

    Piera non proveniva da un ambiente mafioso – ci si è trovata un po' per sbaglio e un po'

    per amore – e per la figlia, per garantirle un futuro degno, ha compiuto la scelta più dura:

    ancora oggi vive in località segrete e sotto falsa identità. Rita, invece, era nata e cresciuta in

    una famiglia mafiosa, dopo la morte del padre e del fratello la sua normalità viene ‘ribaltata’

    da verità che non voleva sapere né vedere. Per amore della sua terra decise da che parte stare,

    ma questa scelta presa e vissuta in solitudine a diciassette anni la portò a farla finita, a non

    reggere un’ulteriore perdita come quella del giudice Borsellino.

    Carmelina è una normale cittadina che diviene testimone involontaria di un omicidio

    efferato e senza alcuna pretesa fa il suo dovere: denuncia. Come forse dovrebbe fare ognuno

    di noi. Squarcia il velo di omertà in Campania, ma viene lasciata sola.

    Così come da sole saranno Lea e Maria Concetta. Loro avevano scelto da che parte stare

    prima di tutto dentro le loro famiglie mafiose. Erano donne intelligenti. E pur non avendo

    alle spalle grandi studi, bastarono ad entrambe le esperienze di una vita violenta e repressiva

    per far sì che i loro bambini non vivessero ciò che purtroppo loro avevano visto, sentito,

    condiviso. Lea venne uccisa così come venne condotta alla morte Maria Concetta.

    In queste storie di scelte e di battaglie personali e civili un elemento è comune: la

    solitudine. Una solitudine che ha cercato di spiegare, nonostante non servano parole per

    descriverla, Valentina, testimone di giustizia59. Basta guardarla, “perché dietro agli occhi di

    tutti c’è un desiderio di vita che devi riconoscere60”.

    Valentina è una delle prime donne testimoni di giustizia, è una persona battagliera, che

    ha compiuto un percorso di grande rivoluzione.

    59 Lezione del Master in Analisi, prevenzione e contrasto del crimine organizzato e della corruzione, Università

    di Pisa, 5 maggio 2017. Il suo racconto verrà riportato e analizzato per dar voce alla sua storia, senza mettere

    in pericolo la sua identità. 60 G. Ladiana, Anche se tutti, io no, Editori Laterza, Roma – Bari, 2015, p. 54.

  • 30

    3.2 Il cambiamento.

    Un fiume in piena, una forza della natura. Parole sicure e solo poche volte interrotte

    dall’emozione. La sua testimonianza è il racconto della sua vita, della sua solitudine, delle

    sue sofferenze, ma ancor di più è un monito per tutti noi: si deve e si può fare di più per le

    donne che decidono di non subire, per quelle che vogliono essere libere di studiare, di

    lavorare; si deve e si può fare di più per i giovani, perché non venga mai meno la loro

    innocenza, la loro voglia di conoscenza. Oggi rispetto al passato si sono fatti dei piccoli passi

    e ancora ce ne sono molti da compiere.

    Far parlare Valentina, dar voce al suo vissuto, ascoltarla e rileggerla credo ne valga la

    pena…

    .

    Il cambiamento è stato sofferto, duro, ma voluto. Valentina voleva ribellarsi a quella

    situazione, aveva la consapevolezza di non vivere una vita normale e allora ha cercato dentro

    di sé un obiettivo da raggiungere: aveva compiuto una scelta, guardando avanti e lasciando

    il passato alle spalle.

    La decisione presa in un attimo e maturata nel corso del tempo aveva alla base una spinta

    motivazionale forte: la libertà.

    E se questo era ed è l’input di Valentina, oggi ci sono ventenni e trentenni che possono

    prendere la medesima decisione, ma a volte non trovano l’input, non trovano qualcuno che

    gli dia la spinta, che gli faccia capire che quella non è la vita normale o comunque non è

    giusta, perché esiste il rispetto umano, l’educazione e non solo la prepotenza.

    Decidere di mettere la parola ‘fine’ ad una realtà ‘facile’, dovendo scegliere tra due

    strade, quella stretta e quella larga, comporta un grande atto di coraggio – lo stesso coraggio

    che si dovrebbe avere per rimanere lì –, uno slancio verso un futuro incerto, ma desiderato.

    E nonostante il cambiamento sia giusto, bello, pieno di tante soddisfazioni, dalle parole

    di questa donna si percepisce la grande sofferenza vissuta nel percorso intrapreso: la

    solitudine, l’essere rinnegata da tutti, non avere nessuno.

    Oggi hai una famiglia: fratelli, sorelle, mamma; domani non hai nessuno.

  • 31

    3.2.1 L’obiettivo.

    La forza delle parole rende palpabile la sofferenza di cui, spesso, una scelta è intrisa e

    ancor di più le rinunce a cui si è costretti per vedere un cambiamento.

    La ribellione di Valentina alla sua prima vita ‘normale’ sicuramente è mossa da

    sentimenti interni, che come dice lei avrebbero avuto e avrebbero, tutt’oggi, bisogno di un

    apporto esterno per raggiungere a volte degli obiettivi che a noi risultano essere scontati,

    come la libertà…

    .

    Avere un sogno e perseguirlo, nonostante la sofferenza, nonostante la solitudine, forse

    non si può spiegare né capire.

    Così come non si può comprendere il desiderio di sentirsi ‘normali’, perché pur

    passando dal programma testimoni non poter parlare e farsi conoscere come si vorrebbe è

    un limite, che comporta delle ‘benevole’ omissioni.

    Se per Valentina la scelta di andare verso una vita normale ha prodotto un cambiamento,

    per ogni persona ci sono scelte e desideri diversi da comprendere e sicuramente da

    accompagnare, facendo capire ad ognuno che il dopo potrebbe essere nuovo.

    Sicuramente bisognerebbe parlare, far conoscere ai ragazzi da nord a sud la realtà in cui

    si trovano a vivere e ad affrontare le difficoltà i testimoni di giustizia, bisognerebbe aprire

    gli occhi ai più giovani, non dimenticando però di stare accanto alle donne, perché .

    Se l’obiettivo di Valentina era quello di raggiungere la normalità, essendo libera e

    realizzando i suoi sogni, sicuramente in quest’ultima battuta ha preso l’impegno con la sua

    coscienza di raggiungere un altro obiettivo: che non ci sia più nessuna come lei.

    Ed essendoci passata, avendo vissuto la sofferenza, la solitudine, l’abbandono conosce

    ciò di cui ha bisogno una donna che vorrebbe allontanarsi da quel contesto, ma anche un

    ragazzo – essendo stata una ragazza a cui non è mancato nulla, se non l’esempio – che invece

    avrebbe bisogno di sapere che a quella vita ‘facile’, ma crudele, ci siano delle alternative.

  • 32

    3.2.2 Scelte che non sono state scelte.

    In questo racconto vi sono molte omissioni per tutelare Valentina e per tutelare la sua

    famiglia, ma al tempo stesso sono presenti e quasi necessari dei passaggi per comprendere i

    motivi della sua scelta dinanzi a scelte che non erano sue…

    .

    Valentina aveva una famiglia, ma non sopportava le prepotenze, ci si è opposta,

    nonostante fosse da sola e non avesse più la normalità di prima che comportava il non fare

    nulla, perché o tutto arrivava o tutto era dovuto. Era normalità, ma non libertà.

    La sua libertà ha inizio con il non avere nessuno e legarsi ad un poliziotto. Le uniche

    persone che questa donna si è ritrovata accanto sono stati poliziotti e carabinieri che le sono

    stati molto vicino, qualcuno di loro lo faceva per lavoro, qualcuno per compassione, qualcun

    altro con compassione, anche, perché magari arrivi a fare tenerezza. Con loro ha girato tutta

    l’Italia, spostata da destra a sinistra. In un anno sei traslochi. Farlo perché te ne devi andare,

    perché magari qualcuno ti ha visto, qualcuno ti ha trovato, qualcuno ti ha intercettato non è

    facile.

    Quando Valentina decise di divenire testimone, lo Stato era ancora alle prime armi,

    sapeva come gestire i collaboratori e non sapeva come gestire i testimoni, quindi è stata

    un’esperienza per loro e purtroppo un colpo per lei, perché comunque questo sottile

    passaggio dalla famiglia mafiosa alla famiglia “legale” la faceva sentire stretta: era vincolata

    di là in un modo e vincolata di qua in un altro, con gli spostamenti notturni, le testimonianze

    in giro per l’Italia, l’assegno di mantenimento.

  • 33

    .

    La solitudine di Valentina, un po' per volta, viene colmata dall’accompagnamento di

    Don Luigi Ciotti e dell’associazione Libera.

    La forza di Valentina è sempre stata la sua intelligenza: porsi delle domande, capire cosa

    volere per il proprio futuro e ancor di più per il proprio presente.

    E questa intelligenza la avvicina a Lea, a Rita, a Piera…

  • 34

    3.3 Consapevolezze.

    La determinazione di Valentina, il sogno di libertà e anche quello di normalità che oggi,

    con fatica, ha raggiunto e vive quotidianamente hanno dietro, purtroppo, conoscenze e

    consapevolezze che in un contesto mafioso sono quasi ‘innate’…

    .

    Quando Valentina decise di collaborare, nonostante si fosse vista e sentita sola, aveva

    dinanzi a sé un mondo che, forse, era quello che voleva: una chance per potersi salvare.

    Sapeva cosa lasciava dietro e allora è andata avanti, sapeva che la sua famiglia era

    mafiosa, essendoci nata, sapeva come si ragionava nella sua così come in tutte le famiglie

    mafiose: se gli uomini parlano, le donne devono stare altrove.

    Anche se a volte dipende dai soggetti, perché potrebbe essere proprio la donna ad

    indirizzare gli uomini, la donna è la mente e l’uomo il braccio.

    Bisogna stare attenti a quelle donne che hanno sete di potere, perché non si ha idea di

    cosa possano fare, dove possano arrivare: .

    La consapevolezza di sapere chi sei, dove sei e come stai al mondo, ce l’abbiamo tutti,

    la consapevolezza è innata. Lo sai, se poi vuoi far finta di non sapere è un altro discorso che

    fa comodo. Così come fa comodo rimanere lì o scegliere di cambiare.

    Pur essendo difficile, il cambiamento ci vuole. Bisogna lavorarci tanto però, perché

    dopo non si può tornare indietro, nonostante lo Stato fosse impreparato sui testimoni ed

    essendo Valentina una delle prime, non ha mai avuto il cambio di generalità.

    Ti alzi tutti i giorni e tutti i giorni devi dire una bugia…

  • 35

    Io non rinnego la mia famiglia, anche se poteva finire tutto con la morte di mio

    padre…>>.

    Valentina nel suo racconto ricorda quanto a quindici anni faceva comodo avere il

    motorino, faceva comodo a diciotto anni avere la macchina, faceva comodo andare in giro e

    non pagare niente. E pur avendo dentro la consapevolezza che fosse tutto sbagliato, non

    aveva una madre o una sorella o un fratello che le dicesse ‘guarda che…’, anzi era il

    contrario.

    La consapevolezza di sbagliare nella vita precedente c’era, solo che è stata

    metabolizzata con il tempo, fino ad arrivare ad oggi.

    .

  • 36

    3.4 Frammenti.

    I ricordi, a volte, possono sembrare una vittoria sulle scelte imposte dagli altri, altre

    volte sono macigni che provocano dolore, dolore per morti che in realtà sono vivi.

    Valentina lo spiega bene, parlando dell’uomo scelto per fare un dispetto alla famiglia e

    provando a raccontare delle mancanze affettive che ancora oggi sono ferite aperte.

    .

    Tutto ciò rientra nel progetto di vita di Valentina: voleva una famiglia, una famiglia

    normale senza imposizioni, senza mafia, senza dover andare in carcere a portare qualcosa o

    a fare le visite. Non voleva quella vita e quello era il suo unico obiettivo.

    E pur di non avere quello ha accettato di sposarsi. E la sua famiglia ha accettato

    quell’uomo perché pensava di plasmarlo, però non l’ha fatto perché non era nel suo DNA,

    non riusciva ad entrare in quella mentalità, proprio perché proveniva da una famiglia

    normale.

    Non ha avuto alternative.

    Così come non ha avuto alternative sua madre, perché anche lei era una vittima. Già da

    ragazzina. Poteva trovare pace con la morte del marito e, invece no, è cresciuto il figlio.

  • 37

    faceva arrabbiare perché dovevamo avere paura di mio fratello, senza poterci ribellare – è

    perché ho capito tante cose che egoisticamente non potevo né volevo vedere>>.

    Nella vita di oggi, a Valentina torna in mente proprio una frase della madre: ‘se riesci a

    contare cinque amici sul palmo di una mano sei ricca’, lei non ci riesce tanto…

    Però ha tutti, sua madre è viva, c’è ma non c’è…

    .

  • 38

    3.5 L’oggi che ancora pesa.

    Tra le sofferenze e i rimpianti che Valentina si porta dietro sicuramente c’è una grande

    mancanza dello Stato italiano: era una delle prime testimoni, lo Stato non sapeva come agire

    e allora, ancora oggi, .

    Un’altra grande mancanza sicuramente è stata la scuola che non ha contribuito a dare

    una visione del mondo diversa, perché a quei tempi se eri fortunata ti facevano andare a

    studiare, ma sempre sotto controllo, perché l’istruzione non serviva e non serve tutt’oggi.

    Nonostante l’amarezza, Valentina è fiduciosa: .

    Perché se non si opera nelle scuole, se non si dà un’alternativa concreta le parole sono

    inutili e la criminalità organizzata continuerà a fare il suo corso: .

    La storia di Valentina è un punto di orientamento per poter capire le donne che decidono

    di ‘scappare’ e anche i giovani, quando compiono una scelta, quella scelta, e si ‘avventurano’

    verso il cambiamento. Una comprensione che non li lascerà soli, basti pensare

    all’accompagnamento di Libera, come associazione, alle tante donne e ai tanti giovani che

    hanno osato ribellarsi, prendendo in mano la propria vita. E questo è importante. La

    solitudine ci sarà sempre, perché il distacco, la rottura con la famiglia non è gestibile. Ma

    non si troveranno mai soli. Sono degli incontri, a volte, casuali a fare la differenza...

    Questo è il passaggio determinante: con chi parli? A chi puoi dire la verità?

    Oggi si deve fare di più: un ragazzo deve avere il diritto di scegliere, una donna deve

    avere il diritto di scegliere. Alcune volte una donna non ha alternative. Ci potrebbero essere

    occasioni.

    Ma se tutto fosse strutturato, garantito, nonostante le difficoltà, tutto andrebbe meglio.

    Anche la libertà, la normalità, la semplicità dei piccoli gesti quotidiani sarebbe

    diversa… e nell’ultima battuta di Valentina si comprende:

  • 39

    Ho dovuto confessare tutto. Sono riuscita a dirglielo dopo un anno e mezzo. Lui sa tutto

    ed è mio complice. Mi asseconda. Mi monitora perché ci tiene.

    Quando hai paura di perdere una persona non hai il coraggio di dire la verità, ma le

    paure devono essere affrontate. Se c’è un problema lo devi risolvere.

    Sono stata fortunata, è vero, ma perché ho sempre affrontato le cose.

    Rimandare non serve a niente>>.

  • 40

    3.6 Madri ribelli.

    Figlie educate alle regole di ‘famiglia’, spesso spose – bambine, madri giovanissime, e

    donne cancellate in un matrimonio d’inferno, hanno intrapreso un cammino costellato di

    tormenti come sassi affilati. Qualcuna è tornata indietro, con esiti fatali. Quasi tutte sono

    emerse, a tentoni, da un presente di carcere o di case – prigioni, di gocce di ansiolitico e

    amori clandestini.

    E hanno deciso di collaborare con la giustizia dietro il sogno di un uomo a cui non

    prudessero le mani, di un’idea diversa di felicità e, soprattutto, di figli liberi di scegliere il

    proprio destino61. Da qualche tempo queste donne sono anche madri ribelli.

    A Reggio Calabria un gruppo di mamme ha chiesto al presidente del Tribunale dei

    minori, Roberto Di Bella, di allontanare i loro bambini dai contesti in cui loro sono nate e

    cresciute: una piccola ribellione all’omertà grazie alla presenza dello Stato. Una rivolta

    difficile e silenziosa per sfuggire al controllo della ‘famiglia’ quella di queste madri che, pur

    di dare un futuro diverso ai propri figli, rischiano la morte62.

    E forse il nuovo fronte della lotta alla criminalità organizzata è l’allontanamento dei

    minori dal nucleo familiare, affinché non siano più costretti ad impugnare pistole o ad avere

    confidenza con la droga63.

    L’esperienza inizia in Calabria con venti mamme, mogli di mafiosi, figlie di mafiosi,

    sorelle di mafiosi, nipoti di mafiosi, a volte mafiose anch’esse, condannate al 416 – bis ed in

    attesa di una sentenza definitiva, ma pronte a tutto per i propri figli. Un giorno si sono

    presentate dal presidente Di Bella e gli hanno detto con le parole più semplici che avevano:

    .

    E oggi la scelta d’amore di queste donne, insieme alla forza del presidente Di Bella,

    definito ‘ladro di bambini’, ha portato ad un protocollo da estendere su tutto il territorio

    nazionale e firmato dal Governo, dal Procuratore Nazionale Antimafia, dalla Conferenza

    Episcopale Italiana e da Libera nella persona di Don Luigi Ciotti, che afferma:

  • 41

    viscerale verso i propri figli cercano un’altra strada per non farli crescere nella cultura

    mafiosa64>>.

    Le parole di una madre rivolte al proprio figlio non lasciano spazio a dubbi sulla scelta

    compiuta: .

    64 F. Tonacci, ‘Toglieteci i figli o saranno mafiosi’, la scelta d’amore di venti mamme, La Repubblica, 3

    febbraio 2018 (http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2018/02/03/toglieteci-i-figli-o-

    saranno-mafiosi-la-scelta-damore-di-venti-mamme17.html).

  • 42

    CONCLUSIONI

    Il lavoro portato a compimento, come già anticipato nell’introduzione, non si poneva

    alcun obiettivo se non quello della conoscenza.

    Conoscere uno spaccato dell’Italia degli anni Settanta, dove collaboratori e testimoni di

    giustizia iniziavano a fidarsi dello Stato, e comprenderne le dinamiche credo sia essenziale

    per una formazione umana e anche scientifica.

    Capire come sia ‘strutturata’ la donna all’interno delle tre organizzazioni mafiose

    italiane e quali siano i compiti rispettivamente assegnati, penso possa contribuire a far

    comprendere quanto, spesso, le donne si comportino da uomini e quanto le organizzazioni

    dipendano dalle stesse, non più relegate al ruolo di mogli e madri.

    E se, scientificamente, gli studi assegnano alle donne dei ruoli attivi e passivi.

    Umanamente parlando non si possono tralasciare i racconti di vita vissuta di donne nate in

    famiglie mafiose, ribellatesi alle stesse, donne trovatesi ‘per sbaglio’, donne che non

    conoscevano il ‘mostro’, ma che la morte gli ha messo dinanzi.

    Ed è su queste figure ‘positive’ che spero si possa riversare tutta l’attenzione, perché

    Piera e Rita hanno fatto la differenza in Sicilia, Maria Concetta in Calabria come Lea, anche

    se quest’ultima ha lasciato un segno profondo in Lombardia…

    Ed è al loro sacrificio che si deve un enorme riconoscimento, alle loro paure e alla loro

    intelligenza di innato coraggio si devono verità e giustizia, sempre.

    Così come, da oggi, conoscendo la storia di Valentina, si deve a lei una vita normale.

    Perché pur essendoci un’impreparazione dello Stato, non ha mai smesso di crederci, non ha

    mai perso di vista il suo obiettivo di libertà, smuovendo la propria coscienza e quella di altri,

    affinché non ci siano più donne come lei, o perlomeno lasciate da sole.

    E a Valentina e a tante altre rose nel deserto credo si possano rivolgere questi versi:

  • 43

    che però grida ancora vendetta

    e soltanto tu riesci

    ancora a piangere,

    poi ti volgi e vedi ancora i tuoi figli,

    poi ti volti e non sai ancora dire

    e taci meravigliata

    e allora diventi grande come la terra

    e innalzi il tuo canto d’amore65>>.

    65 Alda Merini, A tutte le donne.

  • 44

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