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ALMA MATER STUDIORUM UNIVERSITÀ DI BOLOGNA FACOLTÀ DI MEDICINA E CHIRURGIA CORSO DI LAUREA IN INFERMIERISTICA IL RUOLO DEL NURSING NELLA PREVENZIONE SECONDARIA DELLE MALATTIE CARDIOVASCOLARI Tesi di laurea in Infermieristica Clinica III PRESENTATA DA RELATORE Laureanda Cinzia Molino Prof.ssa Lorella Fabbri CORRELATORE Dott. Pierluigi Semprini SESSIONE II Anno Accademico 2005-2006

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ALMA MATER STUDIORUM

UNIVERSITÀ DI BOLOGNA

FACOLTÀ DI MEDICINA E CHIRURGIA

CORSO DI LAUREA IN INFERMIERISTICA

IL RUOLO DEL NURSING NELLA PREVENZIONE

SECONDARIA DELLE MALATTIE

CARDIOVASCOLARI

Tesi di laurea in Infermieristica Clinica III

PRESENTATA DA RELATORE Laureanda Cinzia Molino Prof.ssa Lorella Fabbri

CORRELATORE Dott. Pierluigi Semprini

SESSIONE II Anno Accademico 2005-2006

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“Il consiglio nel cuore dell’uomo è come acque profonde, ma l’uomo di discernimento è quello che l’attingerà “ Proverbi 20:5 “Counsel in the heart of a man waters, but the man of discernment is one that will draw it up.” Proverbs 20:5 “Rat im Herzen eines Mannes ist wie tiefe Wasser, aber der Mann von Unterscheidungsvermögen, der wird ihn herausschöpfen.“ Sprüche 20:5

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INDICE

INTRODUZIONE 1

Capitolo 1. PANORAMICA SULLA DIMENSIONE EPIDEMIOLOGICA DELLE MALATTIE CARDIOVASCOLARI 5

1.1. Lo studio INTERHEART 5

1.2. Le malattie cardiovascolari in Italia 11

1.2.1. Distribuzione dei fattori di rischio in Emilia Romagna 13

1.3. Prevenzione secondaria delle malattie cardiovascolari 18

1.3.1. Che cos‘è la prevenzione secondaria 18

1.3.2. Una questione di stile 18

1.3.3. Quali rischi? 21

1.3.4. Come prevenire 21

1.4. La riabilitazione cardiologica 23

1.4.1. Definizione 23

1.4.2. Componenti dell‘intervento di cardiologia riabilitativa 23

1.4.3. Le fasi della cardiologia riabilitativa 26

1.4.4. Modelli organizzativi e percorsi clinici 27

1.5 Lo stato della cardiologia riabilitativa in Italia.

Il progetto ISYDE 28

1.5.1 Piano Nazionale Sanitario e Piano

Regionale Prevenzione 31

1.5.2. Le nuove raccomandazioni dell‘AHA sulla CR 34

Capitolo 2. ADERENZA TERAPEUTICA A LUNGO TERMINE 35 2.1. Che cos‘è l‘aderenza 35

2.1.1. Un problema di notevole importanza 36

2.1.2. Gli effetti della scarsa aderenza aumentano con

l‘aumentare delle malattie croniche a livello mondiale 36

2.2. In che modo il nursing può migliorare l‘aderenza 42

2.3. La non aderenza in cardiologia riabilitativa 45

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Capitolo 3. IL RUOLO NURSING NELLA PREVENZIONE

CARDIOVASCOLARE 47 3.1. Il ruolo nursing nella prevenzione 50

3.1.1. Il ruolo tecnico 50

3.1.2. L‘educatore alla salute 51

3.1.3. Il supporto psicologico 55

3.2. I luoghi della prevenzione 60

3.3. Gli strumenti della prevenzione 64

3.3.1. La cartella infermieristica 65

3.4. Dati in letteratura 67

3.5. Riferimenti normativi 69

3.6 La formazione degli infermieri professionali

in campo preventivo 69

Capitolo 4. LA TEORIA DELL‘AUTOEFFICACIA E LA SUA APPLICAZIONE AL NURSING IN CR 73 4.1. La teoria dell‘autoefficacia 74

4.1.1. I processi attivati dal senso di autoefficacia 75

4.1.2. Il valore adattativo di convinzioni di autoeffocacia

ottimistiche 79

4.2. L‘autoefficacia come fattore di promozione della salute 82

4.3. La teoria dell‘autoefficacia di Bandura: una guida per la

pratica infermieristica nella riabilitazione cardiologica 82

4.4. L‘importanza di strutturare una corretta comunicazione

durante il programma riabilitativo 85

4.4.1 Teoria delle aspettative di autoefficacia 85

4.5. L‘importanza di coinvolgere i familiari negli interventi

psico-educativi dei pazienti di CR 88

4.6. Un modello teorico per l‘approccio individuale nella CR

che unisce due teorie: AUTOEFFICACIA e

RAPPRESENTAZIONE DI MALATTIA 89

4.6.1. Relazione tra rappresentazione di malattia e

autoefficacia 90

4.7. Il modello di cura interattivo 91

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4.8. La General Perceived Self-Efficacy Scale (GSES) 94

4.8.1. Studio sulla relazione tra GSS e aderenza su

un gruppo di pazienti di CR riminesi 94

Conclusioni 97

Ringraziamenti 99 Bibliografia 101

Allegato 105

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INTRODUZIONE

La mancanza di un approccio multidisciplinare è certamente tra le cause di scarsa incisività degli interventi nel campo della prevenzione secondaria delle malattie cardiovascolari.

Per approccio multidisciplinare intendo il coinvolgimento di cardiologi, infermieri, terapisti della riabilitazione, dietisti, così come psicologi nella progettazione di interventi individualizzati e quindi in grado di rispondere ai bisogni dei singoli pazienti.

In particolare coloro che operano nell’area del nursing possono svolgere un ruolo di primaria importanza che può essere riassunto in tre differenti livelli:

1) un livello tecnico, che mira alla cooperazione con il cardiologo per effettuare esami strumentali per la definizione del profilo di rischio del paziente;

2) un secondo livello consiste nel fornire informazioni, dare supporto nell’affrontare la malattia, così come intervenire appropriatamente durante la sua evoluzione nel tempo, quindi come un educatore di salute per i pazienti;

3) infine l’infermiere può agire da supporto psicologico per entrambi, paziente e familiari, indispensabile sia nella fase acuta per rassicurarli sull’andamento della cura, sia successivamente sulla possibilità di riacquistare una buona qualità di vita.

L’ospedale rappresenta il luogo ideale per la prevenzione secondaria, quanto meno nelle prime fasi dell’intervento. Comunque, i risultati ottenuti durante l’ospedalizzazione andrebbero rapidamente perduti se non fossero adeguatamente seguiti e supportati a medio e lungo termine con un programma di follow-up strutturato.

Lo sviluppo di ambulatori specialistici potrebbero costituire un collegamento tra ospedale e territorio, quindi tra specialista e medico di base.

Lo staff di base di un ambulatorio specialistico dovrebbe prevedere la presenza di un cardiologo e di un infermiere qualificato, con formazione specifica in cardiologia e prevenzione cardiovascolare.

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Personale con queste caratteristiche potrebbe coordinare in autonomia,nell’ambito di protocolli standardizzati gli ambulatori sul territorio collegando informazioni tra pazienti, medici di medicina generale e altri ambulatori ospedalieri. In questo modo sarebbe garantito un anello fondamentale della continuità assistenziale.

La non aderenza dei pazienti alle terapie prescritte e ad altri consigli del personale sanitario come cambiamenti nello stile di vita, è un problema riconosciuto e diffuso.

Non ci sono consistenti e conclusive evidenze sull’efficacia dei vari approcci per migliorare l’aderenza, ma molta enfasi viene data all’importanza del supporto psicosociale del paziente, della qualità della comunicazione e della relazione tra personale sanitario e paziente.

L’apprendimento da parte del personale infermieristico di competenze comunicative adeguate acquisisce un’importanza fondamentale per migliorare l’aderenza, e per assistere i medici e gli psicologi nel gestire i fattori di rischio psicosociali (stress, ansia, depressione, ecc.) che non sono solo fortemente correlati a scarsi outcome di salute, ma che richiedono un’elevata qualità di erogazione dell’assistenza per ottimizzare i risultati.

Tra le varie teorie, quella cognitivo-comportamentale si è dimostrata efficace in una vasta gamma di condizioni, inclusa l’ansia e la depressione, malattie da stress post-traumatico e altre malattie.

Ogni professionista della Cardiologia Riabilitativa dovrebbe pertanto fare propri i principi base di questa, come di altre teorie comportamentali, al fine di erogare un’assistenza strutturata basata su modelli teorici che si sono dimostrati efficaci.

Spero che i lettori di questa tesi riconosceranno che non è possibile migliorare la qualità della vita delle persone con malattie cardiovascolari con un approccio semplicistico.

L’implementazione a livello locale deve rivolgere particolare attenzione al superamento delle barriere CULTURALI, ORGANIZZATIVE, ECONOMICHE che fino a questo momento non hanno consentito ai servizi di Riabilitazione Cardiologia di svilupparsi in maniera capillare ed omogenea sul territorio nazionale.

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Spero inoltre che ogni infermiere della riabilitazione possa trovare utili spunti di riflessione per migliorare la propria pratica assistenziale.

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CAPITOLO 1

PANORAMICA SULLA DIMENSIONE EPIDEMIOLOGICA DELLE MALATTIE CARDIOVASCOLARI

"L’intero pianeta è minacciato da una pandemia di malattie

cardiovascolari capace di uccidere più di quanto la morte nera abbia fatto nel medioevo” così, senza mezzi termini, si è espresso Jean Pierre Bassand, presidente del Congresso europeo di cardiologia svoltosi a Monaco nel 2004. Le malattie cardiovascolari sono responsabili di una morte su tre nel mondo e di una su due nei paesi occidentali e le previsioni non sono molto allegre. Per il 2020, infatti, gli esperti dell’OMS prevedono un aumento di 250.000 morti l’anno per le malattie legate al cuore anche nei paesi in via di sviluppo. Ma non è finita qui. Secondo i più recenti dati, sempre fonte OMS, nei paesi occidentali le malattie cardiovascolari sono responsabili del 50% delle morti, pari a 17 milioni ogni anno, contro il 27% dovuto ai tumori. Fino ai 65 anni il problema è essenzialmente maschile, fino a tre volte di più, poi i dati si equilibrano fino ad arrivare a una maggiore mortalità femminile. Ma quali sono i fattori di rischio e sono uguali in tutto il pianeta? Di questo si è occupato lo studio INTERHEART, pubblicato on line sulla rivista Lancet il 3 settembre. 1.1 LO STUDIO INTERHEART

Lo studio nasce dalla constatazione che sebbene oltre l’80% del peso globale delle malattie cardiovascolari ricada sui paesi più poveri, la conoscenza dei fattori di rischio viene in gran parte dai paesi più sviluppati. Succede così che l’effetto degli stessi fattori di rischio sulle malattie coronariche in molte regioni del mondo sia pressoché misterioso. I ricercatori hanno così organizzato uno studio caso-controllo standardizzato su infarti del miocardio verificatisi in 52 paesi, rappresentativi di tutti i continenti. Sono stati arruolati complessivamente 15152 casi e 14820 controlli. I risultati? I killer del cuore sono nove: fumo, alti livelli di colesterolo, ipertensione, diabete, obesità addominale, stress, mancanza di

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consumo quotidiano di frutta e verdura, consumo di alcol e mancanza di esercizio fisico. Tutti fattori ripetutamente evocati ma che, e qui sta la novità di INTERHEART, sembrano scatenare l’infarto allo stesso modo in tutte le regioni e in tutte le popolazioni del mondo, indipendentemente dall’etnia. Se, infatti, si valuta il rischio relativo, per il fumo il valore è di 2,87, per i livelli di colesterolo è di 3,25, per l’ipertensione 1,91, per il diabete 2,37, per l’obesità addominale 1,12, per i fattori psicosociali 2,67, per il consumo di frutta e verdura 0,70, per il consumo di alcol 0,91 e, infine, per l’attività fisica 0,86. Si calcola che, tutti insieme i nove fattori permettano di prevedere il rischio di un attacco di cuore nel 90% dei casi. Un chiaro segnale che l’approccio preventivo deve essere uguale in tutto il mondo, calibrato, naturalmente, a seconda delle differenze economiche e culturali. Si tratta, infatti, di nemici evitabili di cui i più pericolosi sembrano fumo e obesità che sono responsabili di due attacchi cardiaci su tre.

Combatterli, perciò, sottolineano i ricercatori, è la principale sfida dei prossimi anni. Al momento le stime non sono ottimiste visto che il numero dei fumatori è in aumento in Asia e in molti paesi in via di sviluppo, al punto che il fumo potrebbe diventare la prima causa di morte nel 2020. E anche l’obesità rappresenta una seria minaccia per la salute globale. La sfida è lanciata ora sta alle singole nazioni raccoglierla.

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LE MALATTIE CRONICHE SONO LA PRINCIPALE CAUSA

DI MORTE IN QUASI TUTTI I PAESI1

Il 60% di tutti i decessi è dovuto alle malattie croniche

1 Organizzazione Mondiale della Sanità, 2005, ”Prevenire le malattie croniche: un investimento vitale”.

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PAR: dall’inglese Population Attributable Risks

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1.2 LE MALATTIE CARDIOVASCOLARI IN ITALIA Le malattie cardiovascolari rappresentano ancora la principale causa di

morte nel nostro Paese, essendo responsabili del 44% di tutti i decessi. In particolare la cardiopatia ischemica è la prima causa di morte in Italia, rendendo conto del 28% di tutte le morti, mentre gli accidenti cerebrovascolari sono al terzo posto con il 13%, dopo i tumori.

Chi sopravvive a un attacco cardiaco diventa un malato cronico. La malattia modifica la qualità della vita e comporta notevoli costi economici per la società. In Italia la prevalenza di cittadini affetti da invalidità cardiovascolare è pari al 4,4 per mille (dati Istat). Il 23,5% della spesa farmaceutica italiana (pari all’1,34% del prodotto interno lordo), è destinata a farmaci per il sistema cardiovascolare (Relazione sullo stato sanitario del Paese, 2000).

I seguenti dati sono tratti da un articolo

presentato sul quotidiano “La Repubblica” del

4 settembre 2006

140 mila INFARTI OGNI ANNO 47 mila

PERSONE MUOIONO PER INFARTO ACUTO DEL MIOCARDIO

70 mila SONO CURATI IN OSPEDALE 6/1

IL RAPPORTO TRA UOMINI E DONNE COLPITI DA INFARTO

1/4 NON ARRIVANO IN TEMPO IN OSPEDALE 30 mila

INTERVENTI DI BY-PASS EFFETTUATI OGNI ANNO

44% 100 mila INTERVENTI DI ANGIOPLASTICA

DELLE PERSONE CHE HANNO UN INFARTO MUORE

235 mila 10%

PERSONE CHE OGNI ANNO MUOIONO PER MALATTIE CARDIOVASCOLARI

ITALIANI CHE PRENDONO FARMACI PER IL CUORE

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UOMINI E DONNE A RISCHIO

età tra 40 e 70 anni

PRESSIONE

SOFFRONO DI IPERTENSIONE PRESSIONE UGUALE O SUPERIORE A 160/195 uomini donne 33% 30%

COLESTEROLO

COLESTEROLO SUPERIORE A 240 mg uomini donne 20% 24%

FUMO

FUMANO IN MEDIA OGNI GIORNO uomini donne 39% 21%

VITA SEDENTARIA

NON SVOLGE ALCUNA ATTIVITÁ FISICA uomini donne 36% 46%

ALIMENTAZIONE

SONO OBESI uomini donne 18% 22%

DIABETE

GLICEMIA SUPERIORE A 126 mg uomini donne 18% 22%

Fonte: Osservatori Epidemiologici Cardiovascolari

UOMINI 220 mila NUOVI CASI OGNI ANNO

DONNE 36 mila NUOVI CASI OGNI ANNO

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1.2.1 distribuzione dei fattori di rischio in EMILIA ROMAGNA Pressione artesiosa

Colesterolemia

Sedentarietà

Fumo

Obesità

Glicemia

Pressione arteriosa

Negli uomini il valore medio della pressione arteriosa sistolica (massima) è pari a 141 mmHg, nelle donne a 134 mmHg. Negli uomini il valore medio della pressione arteriosa diastolica (minima) è pari a 88 mm Hg nelle donne è 81 mmHg.

Il 41% degli uomini e il 30% delle donne è iperteso (pressione arteriosa uguale o superiore a 160/95 mmHg oppure sotto trattamento specifico); il 20% degli uomini e il 17% delle donne è in una condizione a rischio, in cui il valore del pressione sistolica è compreso fra 140 e 159 mmHg o quello della diastolica è compreso fra 90 e 95 mmHg.

Pressione arteriosa

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Colesterolemia Negli uomini il valore medio della colesterolemia è 206 mg/dl, nelle

donne è 211 mg/dl. Negli uomini il valore medio della HDL-colesterolemia è di 52 mg/dl, nelle donne di 63 mg/dl. Il 18% degli uomini e il 23% delle donne ha una ipercolesterolemia (valore uguale o superiore a 240 mg/dl), mentre il 40% degli uomini e il 36% delle donne è in una condizione di rischio, presentando il valore della colesterolemia compreso fra 200 e 239 mg/dl.

Colesterolemia

Sedentarietà Il 30% degli uomini e il 39% delle donne non svolge alcuna attività

fisica durante il tempo libero.

Sedentarietà

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Fumo Il 28% degli uomini fuma in media 17 sigarette al giorno, contro il 23%

delle donne che ne fuma 13 in media al giorno.

Fumo

Obesità Il 23% degli uomini e il 19% delle donne è obeso e ha in media un

indice di massa corporea di 27 per gli uomini e per le donne.

Obesità

Glicemia Negli uomini il valore medio della glicemia è 92 mg/dl, nelle donne è di

88 mg/dl.

L’8% degli uomini e il 4% delle donne è diabetico (glicemia superiore a

126 mg/dl), mentre il 6% degli uomini e il 2% delle donne è in una

condizione di rischio, in cui il valore della glicemia è compreso fra 110 e

125 mg/dl.

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Glicemia

L’infarto del miocardio è la patologia più frequente del mondo occidentale ed è in continua crescita in relazione all’innalzamento della vita media. I risultati riminesi di questa patologia sono stati presentati a un convegno mondiale di Cardiologia svoltosi recentemente a Barcellona.

Nel corso del 2005 sono stati 306 gli infarti acuti trattati presso l’ospedale “Infermi” di Rimini. Tale numerosità si colloca al 2° posto in regione e al 3° livello nazionale dopo Firenze e Bologna.

Analizzando la casistica degli ultimi cinque anni (dal 2001 al 2005 sono 1031 i casi di infarto accertati nella provincia di Rimini), il team di cardiologi guidato dal dr. Piovaccari, primario della cardiologia dell’ospedale “Infermi” di Rimini, ha potuto constatare che l’incidenza di questo tipo di infarto è pari all’1,4%.

La mortalità totale per infarto miocardico acuto (compresi i casi gravissimi) si aggira intorno all’8%.

L’ospedale di Rimini ha il primato in Emilia-Romagna per quanto riguarda l’accesso all’unità coronaria dei pazienti colpiti da infarto (85% dei casi). La media regionale è del 66%.

Per quanto riguarda lo scompenso cardiaco in Romagna sono circa

20mila le persone che ne sono affette e oltre 2000 i morti ogni anno. Nella sola provincia di Rimini si registrano 5000 ammalati e quasi 500 decessi all’anno” afferma il dr. Flavio Bologna, responsabile del Centro scompenso cardiaco dell’ospedale “Infermi “ di Rimini nel 2005.

“Lo scompenso cardiaco è la prima causa di morte nel nostro paese oltre che il maggior costo in assoluto per ricoveri ospedalieri. Eppure solo 2 italiani si 100 sono in grado di descrivere i sintomi della malattia e solo 30

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su 100 la ritengono una patologia grave. Non solo, 1 italiano su 3 è convinto che si tratti di una normale conseguenza dell’invecchiamento e non di una malattia legata a una grave alterazione cardiaca” sottolinea Alessandro Boccanelli, membro italiano del Direttivo SHAPE e direttore della Cardiologia dell’Ospedale S. Giovanni di Roma.

“Il numero di malati di scompenso cardiaco aumenta in maniera esponenziale con l’età. Tuttavia si stimano in quasi 300mila gli scompensati ‘giovani’, di età inferiore ai 60 anni” spiega Andrea di Learda, coordinatore dell’area scompenso cardiaco di ANMCO. Lo scompenso cardiaco, nonostante il netto miglioramento delle cure cardiovascolari, è in crescita” avverte Giuseppe Di Pasquale, presidente ANMCO “perché, aumentando la sopravvivenza di malattie cardiovascolari come l’infarto, aumenta il numero di persone a rischio scompenso”.

Ma quali sono esattamente le malattie cardiovascolari? Nella definizione di malattie cardiovascolari, rientrano tutte le patologie

a carico del cuore e dei vasi sanguigni. Le più frequenti sono quelle di origine arteriosclerotica, in particolare le malattie ischemiche del cuore, tra cui l’infarto acuto del miocardio, l’angina pectoris, le cardiomiopatie, l’insufficienza cardiaca, le aritmie e le malattie cerebrovascolari, fra cui l’ictus ischemico ed emorragico.

-Arteriosclerosi -Ictus -Infarto acuto del miocardio -Attacco ischemico transitorio (tia) -Angina pectoris -Fibrillazione striale

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1.3. PREVENZIONE SECONDARIA DELLE MALATTIE CARDIOVASCOLARI 1.3.1. Che cos’è la prevenzione secondaria? La Scottish Intercollegiate Guidelines Network ha definito la

PREVENZIONE SECONDARIA come la “identificazione e modificazione dei fattori di rischio attraverso l’introduzione di cambiamenti nello stile di vita, terapia farmacologica, e Riabilitazione Cardiologica”.

La prevenzione secondaria è stata raccomandata come “strategia chiave” per la riduzione delle malattie cardiovascolari.

Per coloro ai quali è stata diagnosticata una malattia cardiovascolare, essa comprende la gestione a lungo termine dei fattori di rischio. Ciò significa che può essere raggiunta smettendo di fumare, mangiando cibo più salutare (ridurre i cibi ricchi di grassi, incrementare l’assunzione di frutta, vegetali e fibre) facendo dell’attività fisica, mantenendo un peso ideale, consumando gli alcolici in modo moderato, aderendo ad un’appropriata terapia farmacologica, mantenendo i valori della Pressione arteriosa a / o sotto i 140/90 e il livello di colesterolo a / o sotto i 5 mml/l. 2 (Vedi allegato n. 2)

1.3.2.Una questione di stile “Lo stile di vita dei malati di cuore europei continua ad essere molto

preoccupante”, a questa amara conclusione sono giunti gli autori dello studio Euroaspire II, pubblicati su Lancet nel 2001.

Una nuova ricerca, questa volta pubblicata sul New England Journal of Medicine, affronta di nuovo la prevenzione cardiovascolare secondaria, quella cioè successiva a un infarto acuto o a un by-pass aortocoronarico. I toni sono meno apocalittici, ma il principio resta lo stesso: non abbassare la guardia.

2 Murphy AW et al, 2005, The SPHERE Study. Secondary prevention of heart disease in general practice: protocol of a randomised controlled trial of tailored practice and patient care plans with parallel qualitative, economic and policy analyses”, Current Controlled Trials Cardiovascolar Med, 6:11

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E' noto e ben documentato che, in una popolazione di cardiopatici, la riduzione dei fattori di rischio cardiovascolare ha effetti particolarmente benefici su mortalità e morbilità; ciò nonostante il controllo di tali fattori, persino in pazienti in cui la cardiopatia ischemica si è manifestata in modo tanto grave da causare infarto o imporre la rivascolarizzazione, è fortemente deludente.

I dati dello studio Euroaspire II, eseguito qualche anno dopo lo studio Euroaspire I (vedi la Tavola 1), parlano chiaro: la percentuale di fumatori è lievemente salita (e purtroppo soprattutto fra i pazienti al di sotto dei 50 anni di età, il 40 per cento dei quali fuma dopo solo sei mesi da un evento ischemico), gli obesi sono aumentati del cinque per cento, il controllo dell'ipertensione, pur leggermente migliorato, rimane comunque molto scadente (quasi la metà dei pazienti presenta valori di pressione arteriosa superiori a 140/90) e i diabetici sono aumentati di quasi il quattro per cento.

Solo il controllo della colesterolemia è nettamente migliorato (in precedenza era pressoché nullo), anche se quasi il 60 per cento dei pazienti ha tuttora valori che superano i 200 mg/100 mL (vedi la tabella 1 nella pagina seguente).

Tavola 1. EUROASPIRE

Sono stati recentemente pubblicati (Lancet 2001; 357: 995) i risultati dell'indagine Euroaspire II, messi a confronto con quelli della precedente indagine Euroaspire I, effettuata nel 1995-96. Lo studio è stato condotto in nove paesi europei, tra cui l'Italia, su 3.379 cardiopatici ischemici sei mesi dopo un infarto miocardico o un intervento di rivascolarizzazione, e si ritiene sia rappresentativo delle singole situazioni nazionali. Lo studio Euroaspire I aveva precedentemente coinvolto 3.500 pazienti negli stessi paesi, e aveva mostrato la presenza di ampi margini di possibile riduzione del rischio cardiovascolare, mediante l'intervento su fattori quali fumo, obesità, ipertensione e ipercolesterolemia. Lo scopo della seconda indagine era verificare se, a distanza di anni, vi fosse stato un miglioramento nel controllo dei fattori di rischio. I pazienti esaminati in entrambi gli studi sono di provenienza ospedaliera, in media 400 per ciascun paese.

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Tabella2. Cosa fare dopo l'infarto con i farmaci sullo stile di vita

ASA smettere di fumare beta-bloccanti dieta mediterranea statine esercizio fisico ACE-inibitori riduzione del

sovrappeso controllo del diabete programmi di

riabilitazione cardiologica

controllo meticoloso della pressione arteriosa

olio di pesce

I risultati mostrano perciò una

clamorosa contraddizione tra le

conoscenze disponibili e la loro

trasferibilità pratica, che dipende

dall’accettazione da parte degli

individui di norme ritenute

salutari. (vedi tabella 2)

Tabella1. Due tappe a confronto

paesi fumo obesità

(BMI ≥ 30) ipertensione (≥ 140/90)

colesterolemia > 200 mg%

diabete mellito

E I (%) E II (%) E I (%) E II (%) E I (%) E II (%) E I (%) E II (%) E I (%) E II (%) Repubblica Ceca

22,1 19,3 31,4 40,1 62,5 46,4 89,4 72,5 21,8 21,5

Finlandia 12,8 21,6 29,6 33,6 55,7 52,6 83,3 42,6 15,4 18,7 Francia 25,0 24,2 33,4 37,5 50,6 55,0 84,8 60,2 16,7 27,5 Germania 16,8 16,8 22,7 30,6 57,9 65,8 84,1 66,3 13,5 13,5 Ungheria 23,3 30,1 23,3 36,8 51,3 41,4 89,0 60,2 26,6 21,1 Italia 18,6 15,1 22,4 23,6 57,7 56,6 92,6 56,9 17,2 21,8 Olanda 31,8 28,3 18,9 27,7 55,8 53,8 91,2 44,3 10,3 13,2 Slovenia 13,3 14,6 19,2 28,0 53,4 63,4 89,0 68,3 17,4 23,8 Spagna 12,1 17,8 27,8 34,1 55,2 49,4 80,4 53,0 22,9 35,2 Media 19,4 20,8 25,3 32,8 55,4 53,9 86,2 58,8 18,0 21,9

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1.3.3. Quali rischi ? Già a un anno dall’intervento di bypass il 70-80% dei pazienti è in grado

di tornare a lavorare. A cinque anni, invece, i sintomi anginosi ricorrono nel 15% dei pazienti

mentre il 10% è vittima di eventi ischemici. Del resto nei pazienti con un infarto post-operatorio il rischio di eventi sia ischemici sia anginosi raddoppia rispetto a quelli che non hanno avuto un infarto. L’ictus, invece, è meno comune come problema a lungo termine. Fino al 27% dei pazienti sottoposti all’intervento, manifesta, inoltre, problemi cognitivi. Memoria, concentrazione, capacità di astrazione e di comprensione linguistica, possono lentamente arrugginirsi in pazienti cardiopatici a cui è stato inserito un bypass. I dati non sono univoci. Si va dal 5 al 33% di deterioramento cognitivo a sei mesi dall’intervento. La ragione, come spiegato di recente sul New England da Mark Newman, primario del reparto di anestesia cardiotoracica al Duke Hospital, sta nella formazione di piccoli emboli o grumi di sangue capaci di raggiungere il cervello, con una gravità di sintomi che varia da individuo a individuo. Sempre restando nell’area mentale, quello di bypass è l’intervento chirurgico che più facilmente comporta depressione. Una percentuale di pazienti compresa tra il 25 e il 50%, infatti, ha sintomi di depressione già prima dell’intervento, si tratta di pazienti che soffrono in particolar modo lo stress emotivo e che mancano dell’adeguato supporto sociale. Un fenomeno questo che, comunque, in almeno metà dei pazienti si risolve a pochi mesi dall’intervento. Esiste poi una percentuale di pazienti pari al 18% che non sono depressi prima del bypass, ma hanno un significativo aumento di sintomi depressivi in seguito. Questi pazienti sono i più esposti a ricadute cardiache anche fatali.

1.3.4. Come prevenire La situazione comunque non è senza soluzione. I fattori di rischio,

infatti, sono ben conosciuti e si dispone di farmaci efficaci e di linee guida molto chiare, si tratta di seguirle con il dovuto scrupolo. Che cosa dicono? Per ridurre il rischio cardiovascolare post-operatorio è necessario modificare lo stile di vita (fumo, esercizio fisico e dieta). I pazienti

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arruolati nello studio BARI (Bypass Angioplasty Revascularization Investigation), citato sempre sul New England, hanno incrementato significativamente i loro comportamenti salutistici a un anno dal bypass coronarico. I pazienti fumatori sono calati dal 24% al 12%, quelli attivi fisicamente sono aumentati dal 16% al 47% e la percentuale di pazienti che hanno seguito una dieta a basso contenuto di grassi è cresciuta dal 34 al 72%. Ma quali sono i risultati conseguiti? I numeri sono inequivocabili. I pazienti che smettono di fumare hanno una aumentata sopravvivenza dal 3 al 5% a cinque anni dall’intervento e fino al 15% a vent’anni, rispetto a quelli che hanno continuato a fumare. Altrettanto dicasi per la probabilità di ripetere l’intervento o di incorrere in un altro infarto, valori che dimezzano. Può essere considerato anche il ricorso alla terapia sostitutiva con nicotina, che comunque diminuisce il rischio. Meno documentato, invece, il rapporto tra rischio e esercizio fisico. Esiste comunque uno studio che evidenzia l’associazione tra un programma di riabilitazione cardiaca, basato sull’esercizio aerobico e la riduzione del rischio cardiaco post-chirurgico, con un significativo aumento anche della qualità della vita. Come a dire niente di meglio di un programma di riabilitazione cardiaca per scongiurare il pericolo depressione. Quanto agli aspetti psicosociali dopo un anno dall’intervento la maggior parte dei pazienti riscontra drastici miglioramenti nella capacità di affrontare le attività quotidiane. L’80% almeno non ha limitazioni per quel che concerne la vita sociale, sessuale e il tempo libero. Per conseguire questi risultati, però, non si può prescindere dal supporto sociale che conduce alla riduzione dei sintomi depressivi e a minori limitazioni funzionali. Anche approcci come rilassamento, meditazione e consulti individuali sembrano basilari per ridurre la percentuale di eventi cardiaci e migliorare la qualità della vita. Organizzare programmi di prevenzione è così possibile, fondamentale, però, è affrontare tutte le parti della questione attraverso un approccio integrato tra cardiologi, medici di base e altri operatori sanitari. Ma che cos’è la Riabilitazione Cardiologica (CR) e com’è organizzata in Italia?

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1.4 LA RIABILITAZIONE CARDIOLOGICA (CR)3 La Riabilitazione Cardiologica (CR), è oggi riconosciuta come il

modello standard per il trattamento globale del paziente cardiopatico in fase post-acuta o cronico, e in particolare, costituisce il modello più efficace per la realizzazione di una prevenzione secondaria “strutturata” e a lungo termine. Le analisi economiche disponibili sull’argomento suggeriscono che la CR è un intervento costo-efficace dopo un evento coronario acuto.

1.4.1. Definizione L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha definito la

Cardiologia Riabilitativa (CR) come un processo multifattoriale, attivo e dinamico, che ha come fine quello di favorire la stabilità clinica, di ridurre le disabilità conseguenti alla malattia e di supportare il mantenimento e la ripresa di un ruolo attivo nella società con l’obiettivo di ridurre il rischio di successivi eventi cardiovascolari, di migliorare la qualità della vita e di incidere complessivamente in modo positivo sulla sopravvivenza. La CR rappresenta un intervento „strutturato“ che riguarda in maniera particolare la gestione della fase post-acuta di malattia e che prevede percorsi specifici per la prevenzione secondaria. Tale intervento deve anche prevedere, in continuità assistenziale, un intervento a lungo termine.

1.4.2. Componenti dell’intervento di cardiologia riabilitativa Il ruolo della Cardiologia Riabilitativa si è molto evoluto negli ultimi 20

anni. I primi programmi di CR sono stati sviluppati negli anni 60-70 a seguito della documentazione dei benefici della mobilizzazione precoce durante l‘ospedalizzazione prolungata dopo un evento coronarico. L‘esercizio fisico era la componente principale di tali programmi che venivano essenzialmente proposti a pazienti sopravvissuti ad in infarto miocardico non complicato ed avviati all‘attività fisica in genere molto

3 Giannuzzi P,Griffo R, Urbinati S, Tassoni G, Baldi C, Sommaruga M. et al., 2005, “Linee-guida nazionali su cardiologia riabilitativa e prevenzione secondaria delle malattie cardiovascolari”.

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tardivamente dopo l‘esito acuto. Le preoccupazioni circa la sicurezza dei programmi di esercizio fisico alla dimissione di un evento cardiovascolare hanno indotto lo sviluppo di programmi strutturati di CR, altamente controllati dai clinici e supervisionati con l‘ausilio di monitoraggio elettrocardiografico. La sicurezza e i benefici di programmi supervisionati di training fisico di moderata intensità sono stati così largamente studiati e confermati .

Negli ultimi 10 anni le indicazioni alla CR hanno poi subito importanti variazioni in rapporto all‘evoluzione demografica e alle caratteristiche dei pz., riflettendo largamente l‘evoluzione ed i progressi nella cura globale del cardiopatico: i programmi di CR sono stati quindi proposti con successo anche ai pz. post-infartuati con complicazioni o dopo un intervento di by-pass coronarico o di angioplastica coronarica (PTCA). Infine, anche in conseguenza del progressivo invecchiamento della popolazione, è aumentato considerevolmente il numero di anziani avviati alla CR, molti dei quali affetti da coronaropatia severa, diffusa patologia vascolare e da gravi comorbidità e disautonomie. Inoltre l‘implementazione della CR è risultata particolarmente utile nei pazienti con scompenso cardiaco cronico, aritmie e portatori di stimolatori cardiaci.

Nel frattempo, anche lo scenario cardiologico di riferimento si è fortemente modificato: la degenza molto breve e orientata alla soluzione esclusiva del problema acuto non consente un adeguato intervento di stratificazione del rischio residuo, la valutazione funzionale e globale, l‘ottimizzazione terapeutica, l’educazione-informazione sanitaria, la ripresa di un‘adeguata attività fisica in regime di sicurezza e l’impostazione di significative modificazioni dello stile di vita.

In questo contesto, Linee Guida Nazionali e autorevoli Agenzie di salute pubblica e di ricerca, hanno ampliato l‘obiettivo dei programmi di CR ed enfatizzato la necessità di programmi strutturati gestiti sia in ambito degenziale che ambulatoriale come strumento di riferimento per un efficace intervento sul territorio.

Attualmente si riconosce che la combinazione di un adeguato monitoraggio ed intervento clinico, un programma di esercizio fisico e di

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interventi strutturati educativi e psicologici rappresentino la forma più efficace di CR.

I programmi di CR includono le seguenti componenti:

a) assistenza clinica volta alla stabilizzazione; b) valutazione del rischio cardiovascolare globale; c) identificazione di obiettivi specifici per la riduzione di ciascun

fattore di rischio; d) formulazione di un piano di trattamento individuale che includa:

1. Interventi terapeutici finalizzati alla riduzione del rischio; 2. Programmi educativi strutturati dedicati e finalizzati ed un

effettivo cambiamento dello stile di vita (abolizione del fumo, dieta appropriata, controllo del peso, benessere psicologico;

3. Prescrizione di un programma di attività fisica finalizzato a ridurre le disabilità conseguenti alla cardiopatia, migliorare la capacità funzionale e favorire il reinserimento sociale e lavorativo.

e) interventi di mantenimento allo scopo di consolidare i risultati ottenuti e favorire l’aderenza a lungo termine, garantendo la continuità assistenziale.

Queste componenti si integrano nel progetto riabilitativo individuale che

identifica gli obiettivi da raggiungere nel singolo paziente con gli strumenti a disposizione e nell’intervallo di tempo in cui si prevede di poter effettuare l’intervento.

Gli obiettivi nel breve termine sono; a) perseguire la stabilità clinica; b) limitare le conseguenze fisiologiche e psicologiche della

malattia cardiovascolare; c) migliorare globalmente la capacità funzionale e incidere così

favorevolmente sul grado di autonomia, indipendenza e, quindi, sulla qualità della vita.

Gli obiettivi nel medio e lungo termine sono:

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a) ridurre il rischio di successivi eventi cardiovascolari; b) ritardare la progressione, del processo aterosclerotico e della

cardiopatia sottostante ed il deterioramento clinico; c) ridurre morbidità e mortalità.

1.4.3. Le fasi della cardiologia riabilitativa La CR si articola in tre fasi “classiche” che sono: Fase 1 La Fase 1 si svolge durante la fase acuta di malattia. Durante questa

fase, la valutazione clinica, la rassicurazione del paziente e dei familiari, l’educazione-informazione sanitaria, la correzione di pregiudizi sulla malattia e sue conseguenze, la valutazione dei fattori di rischio, la mobilizzazione precoce, l’adeguata pianificazione della dimissione sono gli elementi chiave. E‘ opportuno coinvolgere la famiglia a partire da questa fase precoce. Un infermiere adeguatamente addestrato in tecniche di counseling può migliorare la conoscenza sia del paziente che dei familiari sulla malattia cardiaca e contribuire a ridurre l’ansia e la depressione rispetto a chi riceve un’assistenza convenzionale di routine.

Fase 2 La Fase 2 ha storicamente preso la forma di un programma strutturato di

valutazione globale del rischio e di intervento complessivo comprendente attività fisica in ambiente ospedaliero e il supporto educativo e psicologico con percorsi finalizzati a modificare gli specifici fattori di rischio del paziente. E‘ probabile che essa debba includere: a) un intervento informativo, educativo e comportamentale per

modificare credenze sulle malattie cardiache, per incoraggiare la sospensione del fumo e il raggiungimento o il mantenimento di un peso corporeo ideale attraverso un’alimentazione corretta;

b) La riabilitazione lavorativa per il ritorno al lavoro o ad attività lavorative non professionali;

c) Il riferimento nel tempo per un follow-up adeguato all’assistenza primaria con supporto specifico di un team multidisciplinare.

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Fase 3 La Fase 3 include il mantenimento a lungo termine dell’attività fisica e

del cambiamento nello stile di vita. Le evidenze disponibili suggeriscono che entrambi debbano essere perseguiti affinchè i benefici siano persistenti nel tempo. Partecipare ad un gruppo locale di supporto cardiaco o di auto-sostegno, che comprenda attività fisica da svolgere in una palestra o un centro ricreativo, potrebbe contribuire a mantenere l’attività fisica ed uno stile di vita sani.

1.4.4. Modelli organizzativi e percorsi clinici L‘OMS classifica i livelli dell‘intervento riabilitativo in tre categorie in

base alla qualifica del personale, alle dotazioni strumentali, alla complessità e alla specializzazione dell‘intervento:

1-livello avanzato, in un ospedale ad indirizzo riabilitativo, dove sono disponibili servizi e prestazioni di alta specialità, riservati ai pazienti nella fase post-acuta della malattia e a pazienti a rischio elevato; 2-livello intermedio, che si sviluppa all‘interno di un ospedale per acuti, riservato a paziente in fase post-acuta e a rischio intermedio; 3- livello base, a livello ambulatoriale, riservato a pazienti a basso rischio, cronici, stabili, con la finalità di mantenere un alto grado di indipendenza, promuovere un effettivo cambiamento dello stile di vita per un’efficace prevenzione secondaria, e che prevede cure ed interventi anche nell‘ambito della comunità (attraverso palestre, club coronarici).

In pratica, i modelli di CR più diffusi sono quelli sviluppati a livello ospedaliero da team specializzati e comprendono essenzialmente la forma di riabilitazione degenziale per pazienti più complicati, instabili, a medio-alto rischio e disabili, e la riabilitazione ambulatoriale per pazienti più autonomi, più stabili, a basso rischio e che richiedono minore supervisione,

I livelli di assistenza previsti dall’OMS corrispondono di fatto a differenti livelli di CR e a differenti strutture di Cardiologia Riabilitativa che nella realtà italiana si sono sviluppate in coerenza con il DM 7/5/1998 (linee guida Nazionali per la Riabilitazione) e con il supporto delle Linee guida elaborate dalle Società scientifiche nazionali ed internazionali di settore, e che sono riassumibili nel modo seguente:

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1) CR „intensiva“ in regime di degenza che eroga assistenza attraverso ricoveri ordinari o Day hospital destinata a pazienti a medio-alto rischio, disabili o più complessi, che realizza interventi mediamente di 2-6 settimane.

2) CR „intensiva“ in regime ambulatoriale destinata a pazienti a basso rischio, o comunque clinicamente stabili e che non necessitano una speciale supervisione, che realizza interventi mediamente di 4-8 settimane.

3) CR „estensiva“. A completamento del programma iniziale di riabilitazione intensiva, i pazienti dovrebbero essere orientati verso programmi più semplici di mantenimento a lungo termine nel territorio (riabilitazione estensiva) con il supporto di iniziative e servizi nella comunità (palestre, Club coronarici, telecardiologia).

1.5. LO STATO DELLA CARDIOLOGIA RIABILITATIVA IN

ITALIA. IL PROGETTO ISYDE (Italian SurveY on carDiac rEhabilitation) L'incremento delle procedure di rivascolarizzazione coronarica

(chirurgiche e interventistiche), la brevità delle degenze per acuti imposta dalla tariffazione DRG e l'aumento esponenziale dei pazienti affetti da SC critico hanno reso necessario lo sviluppo di strutture cardiologiche deputate alla gestione del paziente in fase postacuta con finalità di tipo riabilitativo e di prevenzione secondaria. Nell’anno 2001 il GICR ha promosso una survey finalizzata alla descrizione e alla valutazione dell' assetto organizzativo della Cardiologia Riabilitativa in Italia. I dati sono stati confrontati con quelli del censimento effettuato nel 1996. Sono state censite 137 strutture di CR (vs 114, +23%), con prevalenza al Centro-Nord (73%), operanti in ospedali pubblici nel 58%, in cliniche private convenzionate nel 23%, in IRCCS nell'8%, in strutture universitarie nel 2% e in altri contesti nel 9%. Si tratta di UO Complesse autonome nel 39%, di UO Semplici nell'ambito di reparti di Cardiologia nel 39% e di altri reparti nel 13%. Complessivamente 58614 pz. (vs 37049, +58%) hanno eseguito almeno un ciclo di CR; le strutture che hanno trattato >100 pz./anno sono passate da 72 (66%) a 95 (86%). La tipologia dei pz. sottoposti a CR è costituita da: cardioperati 54.7% (post-BPAC 39.4% e post-cardiochirurgia non-

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coronarica 15.3%) (vs 55%, =), pz. post-IMA 21.6% (di cui 6.6% sottoposti a PTCA primaria) (vs 30%, -28%), pz. con scompenso cardiaco 9.6% (vs 8%, +20%), con altre forme di cardiopatia ischemia 7.2% (vs 4%, +80%), cardiotrapiantati 0.6%.

Conclusione dello studio: negli ultimi 5 anni la CR in Italia si è sviluppata sia in termini di strutture attive (+23%) che come pazienti trattati (+58%): sono aumentate soprattutto le UO semplici (operanti in regime ambulatoriale o di DH) nell'ambito di UO di Cardiologia, mentre rimane significativa l'anomalia di CR che operano in UO non a conduzione cardiologica. Per quanto riguarda la tipologia dei pazienti trattati circa la metà sono cardioperati, ma in valori assoluti è in aumento quella dei post-IMA e dei pazienti con altre forme di cardiopatia ischemica, per l'esecuzione di programmi di prevenzione secondaria strutturati multidisciplinari. Infine vi è un incremento significativo, anche se distribuito in maniera eterogenea, dei pazienti con scompenso cardiaco che nelle strutture di CR trovano un setting favorevole all'adozione di un approccio omnicomprensivo, multidisciplinare da proseguire a lungo termine.

Secondo lo stesso studio, però, “meno di un terzo dei pazienti eleggibili all’intervento usufruisce effettivamente dei programmi di CR . I dati evidenziano che questi pazienti ricevono spesso una inadeguata assistenza clinica nella fase post-acuta e soprattutto un’insufficiente impostazione della prevenzione secondaria con risultati deludenti sul controllo dei principali fattori di rischio. Il potenziamento di CR oltre che rivolto sistematicamente ai soggetti con infarto e rivascolarizzazione, dovrà essere esteso gradualmente alle altre categorie di pazienti ad alto rischio di eventi (es. diabetici) compatibilmente con le risorse e mirare ad equilibrare le disomogeneità esistenti sul territorio.”

Il dr. Balady, uno dei più noti cardiologi americani che si occupano di cardiologia riabilitativa e preventiva, espone i motivi per cui programmi di riabilitazione cardiologica dovrebbero costituire il primo passo verso programmi di lunga durata in centri di cardiologia preventiva. I programmi di riabilitazione dovrebbero costituire una prima fase di un trattamento omnicomprensivo che comprenda training fisico, alimentazione,

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ottimizzazione della terapia farmacologica anche alla luce di adattamenti indotti dal programma riabilitativo, correzione dei fattori di rischio coronarico e supporto psicologico. Poiché lo scopo principale dei trattamenti del cardiopatico ischemico dovrebbe essere il controllo della progressione della malattia coronarica, il mantenimento di un elevato livello di capacità funzionale dovrebbe costituire un obiettivo prioritario, in associazione alla correzione dei fattori di rischio coronario e al mantenimento di una normale funzione endoteliale. Tali obiettivi possono essere raggiunti creando il presupposto organizzativo di centri di prevenzione cardiovascolare che costituiscano il fulcro dei programmi di mantenimento.

I CENTRI DI CARDIOLOGIA RIABILITATIVA IN

EMILIA-ROMAGNA

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1.5.1. Piano Nazionale Sanitario (PNS) e Piano Regionale Prevenzione (PRP) 2005-2007 L’Intesa Stato, Regioni e Province autonome siglato il 23 Marzo

2005, include il Piano Nazionale della Prevenzione per il Triennio 2005-2007.

Il piano ha 4 finalità generali:

1) la prevenzione cardiovascolare (inclusa la prevenzione delle complicanze del diabete); 2) gli screening oncologici; 3) le vaccinazioni; 4) la prevenzione degli incidenti.

Regioni e Province autonome hanno l’obbligo di preparare i vari piani dettagliati ed eventuali “progetti pilota” per la valutazione degli effetti (efficacia) della prevenzione entro il 30 giugno 2005. Le Regioni hanno deciso di effettuare uno sforzo economico considerevole accettando di vincolare all’attuazione del Piano qualcosa come 240 milioni di euro, più 200 milioni di euro per ciascuno degli anni 2005-2006 e 2007. Al Centro Nazionale per la Prevenzione e il Controllo delle Malattie (CCM) è stato affidato il compito di indicare le linee operative e verificare l’applicazione nonché i risultati delle stesse.

Venendo alla parte che ci interessa si parla di prevenzione primaria e secondaria e sono stati indicati 2 obbiettivi distinti:

a) La diffusione della carta del rischio cardiovascolare (viene identificata la carta del rischio italiana elaborata dall’ISS per la definizione e classificazione del rischio – cuore.exe);

b) La prevenzione attiva delle complicanze del diabete che, sappiamo bene tutti, assume un peso rilevante quando riguarda la prevenzione delle malattie cardiovascolari. La base del Piano Operativo per la prevenzione cerebrocardiovascolare è costituita dal “PROGETTO CUORE” .

L’emanazione di una recente “linea operativa” del Ministero della Salute (CCM) indica nel 31 Dicembre 2005 il termine ultimo entro il

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quale le Regioni devono inviare i progetti relativi al PNP 2005-2007. Ogni Regione deve individuare l’ambito territoriale di attuazione del progetto e le modalità di coordinamento. Passare quindi all’adozione della carta del rischio e stabilire il percorso per la gestione del rischio cardiovascolare utilizzando le diverse competenze professionali come la medicina generale e i servizi e le strutture presenti sul territorio che possono svolgere un’azione di controllo sui FR modificabili.

Schematicamente e per quello che ci riguarda da vicino per la prevenzione secondaria, due sono le aree di maggior interesse nel post-infarto:

1) Interventi sullo stile di vita e riabilitazione fisica e psicologica .

2) Prevenzione e terapia farmacologia. Il documento ministeriale fa riferimento alla letteratura scientifica specifica (prevalentemente: Euroaspire I° e II° e GISSI prevenzione).

Le tappe suggerite dalle Linee Operative per la pianificazione regionale prevedono (quasi testuale):

1. Costituzione, attivazione, o rafforzamento della competenza regionale nella prevenzione cardiovascolare (comitato, commissione, struttura regionale ecc.) anche grazie alla collaborazione delle società scientifiche dell’area cardiologica e della medicina generale.

2. Ogni regione deve dotarsi di mezzi informativi e decidere come utilizzarli (es. Registro Eventi Cardiovascolari, coordinato dall’ISS, registro Accidenti Cerebrovascolari, ecc..)

3. Indicazioni alle strutture ospedaliere presenti sul territorio relative alle modalità di dimissioni del paziente dove viene indicato: - la percentuale del rischio di recidive (valutato attraverso la carta del rischio);

- indicazioni sulla correzione dei fattori di rischio - indicazioni sulla terapia - indicazioni sulla riabilitazione - indicazione sui controlli periodici da eseguire

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4. Offerta servizi (identificazione ed accessibilità di servizi e strutture che operano per favorire il controllo dei fattori di rischio modificabili, anche nella prevenzione primaria)

5. Piano di formazione del personale sanitario nella prevenzione delle recidive

6. Educazione (sanitaria) dei pazienti 7. Individuazione degli indicatori del monitoraggio Nei siti internet che riporto qui sotto, è possibile trovare i piani di

azione e di investimento che ogni regione ha attivato. I siti di riferimento sono:

http://pdf.giofil.it/circopdf/cu.zip www.epicentro.iss.it 1.5.2. Le nuove raccomandazioni dell'AHA sulla CR Il 27 gennaio 2005 Circulation ha pubblicato un nuovo, agile

statement sulla riabilitazione cardiologica che costituisce un aggiornamento rispetto al precedente documento del 1994.

Per l'American Heart Association, viene ribadito in apertura, lo sviluppo di programmi di riabilitazione cardiologica deve essere considerato una priorità, ma si constata purtroppo che attualmente questo intervento è sottoutilizzato: negli Stati Uniti, infatti, solo il 10-20% dei 2 milioni di pazienti eligibili che hanno subito un attacco cardiaco è arruolato in un ciclo di riabilitazione cardiologica.

Tra le principali motivazioni di ciò, secondo gli autori, oltre alla scarsa collaborazione dei medici che non inviano sistematicamente i pazienti ai centri di riabilitazione cardiologica, vi è la ridotta compliance dei pazienti che non vengono adeguatamente sensibilizzati sull'utilità di questi programmi. La ricerca però, indica che un ciclo di riabilitazione cardiologica può determinare una riduzione del rischio di morte cardiaca del 26%. Per quel che riguarda l'organizzazione di un corretto programma di riabilitazione cardiologica, gli autori sottolineano come, accanto al classico training fisico, un posto centrale debba essere occupato dalla valutazione generale e dalla stabilizzazione clinica, da un

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programma educazionale che metta in pratica strategie aggressive finalizzate al controllo dei fattori di rischio, un adeguato counseling nutrizionale e relativo al fumo, un counseling finalizzato al supporto psicosociale e al ritorno al lavoro, infine anche la messa in atto di strategie per ottenere la massima aderenza alle raccomandazioni date.

Riflettendo su queste raccomandazioni notiamo come gli infermieri possano svolgere un ruolo importante per migliorare il grosso problema della non-aderenza dei pazienti. Ma che cosa si intende per “aderenza” ? In che modo il Nursing può migliorarla? Di questo parlerò nel prossimo capitolo.

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CAPITOLO 2

ADERENZA TERAPEUTICA A LUNGO TERMINE

La scarsa aderenza ai trattamenti terapeutici a lungo termine delle malattie croniche è un problema riconosciuto e diffuso. Nel corso degli ultimi 20 anni si è assistito a diverse fasi nello sviluppo di approcci atti ad assicurare l’aderenza dei pazienti con malattie croniche alla terapia a lungo termine. Inizialmente si pensava che il paziente fosse la fonte del “problema della compliance”. Più tardi venne chiamato in causa anche il ruolo dei fornitori di salute. Oggi è riconosciuta la necessità di un approccio deliberativo che cominci con la revisione del modo in cui i professionisti della salute vengono formati e rimunerati e che includa la sistematica eliminazione delle barriere che i pazienti e i loro familiari incontrano quotidianamente mentre si sforzano di mantenere uno stato di salute ottimale.

In questo capitolo prenderò in esame le conoscenze esistenti sul problema della scarsa aderenza e delle sue conseguenze di salute ed economiche e della sfida che essa rappresenta per tutti coloro che operano nel campo delle malattie croniche. La maggior parte del materiale utilizzato in questo capitolo è tratto dal libro “ADHERENCE TO LONG-TERM THERAPIES : evidence for action” pubblicato nel 2003 dalla World Health Organization.

2.1. CHE COS’E’ L’ADERENZA?

Nonostante la maggior parte delle ricerche siano incentrate sulla non-aderenza alla terapia farmacologica, la parola “aderenza” comprende numerosi comportamenti di salute che vanno oltre l’assunzione delle medicine prescritte. I partecipanti al congresso “WHO Adherence Meeting” di Ginevra del 2001 hanno adottato la seguente definizione di aderenza a lungo termine, ricavata dalla fusione delle definizioni di Haynes e Rand:

“La misura in cui il comportamento di una persona, nel prendere le medicine, seguire un regime dietetico e/o apportare cambiamenti nello stile

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di vita, aderisce concordemente alle raccomandazioni di un fornitore dei servizi di salute”.

Inoltre è stata data la seguente definizione di malattia cronica : “Malattie che hanno una o più delle seguenti caratteristiche : sono

permanenti, lasciano delle disabilità residue, sono causate da alterazioni patologiche non reversibili, richiedono un training speciale per la riabilitazione del paziente, o possono richiedere un lungo periodo di supervisione, osservazione e cure”.

2.1.1 Un problema di notevole importanza Nei paesi sviluppati l’aderenza tra i pazienti che soffrono di malattie

croniche è in media solo del 50%. Nei paesi in via di sviluppo le percentuali sono ancora più alte. E’ innegabile il fatto che molti pazienti trovano delle difficoltà a seguire i trattamenti raccomandati.

2.1.2. Gli effetti della scarsa aderenza aumentano con l’aumentare

delle malattie croniche a livello mondiale. Le malattie non-comunicabili (come ipertensione, diabete, depressione),

i disordini mentali, HIV/AIDS e tubercolosi, rappresentano il 54% del peso costituito da tutte le malattie del mondo, e supereranno il 65% nel 2020 (vedi figura 1 pagina seguente). Al contrario di ciò che pensa la maggioranza, le malattie non-comunucabili e i problemi mentali sono più diffuse nei paesi in via di sviluppo, rappresentando il 46% del totale delle malattie per l’anno 2001 e le previsioni dicono che saliranno al 56% verso il 2020 (vedi figura 2 pagina seguente)

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Nel corso degli anni passati i ricercatori hanno accumulato conoscenze

sulla dimensione della scarsa aderenza, le sue determinanti e gli interventi. Sono emerse numerose e importanti lezioni per noi oggi. Quali?

Qui di seguito riporto un riassunto di ciò che è stato evidenziato nel rapporto fatto dall’Adherence To Long-Term Therapies Project (un’iniziativa globale lanciata nel 2001 dalla Non- Communicable Diseases and Mental Health Cluster dell’Organizzazione Mondiale della Sanità).

1) Le conseguenze della non- aderenza sono scadenti risultati di salute e maggiori costi per il sistema sanitario.

La scarsa aderenza compromette seriamente l’efficacia dei trattamenti. Ciò costituisce un problema per la salute pubblica sia a livello della qualità della vita che economico-sanitaria.

Gli interventi di prevenzione primaria (dei fattori di rischio) e secondaria (degli avversi risultati di salute) finalizzati a incrementare l’aderenza possono quindi risultare in un ritorno economico significativamente positivo per l’intero sistema sanitario.

2) Aumentare l’aderenza migliora la sicurezza del paziente. Dal momento che la maggior parte delle cure per le malattie croniche si

basano sull’autogestione (spesso di complesse terapie farmacologiche), sull’uso di tecnologie mediche di monitoraggio e cambiamenti nello stile di vita, i pazienti rischiano potenzialmente la loro vita se non ricevono un

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appropriato supporto da parte del sistema sanitario. Alcuni di questi rischi sono :

- gravi ricadute - aumentato rischio di dipendenza farmacologica - aumentato rischio di reazione di astinenza ed effetti collaterali - aumentato rischio di sviluppare resistenze alla terapia - aumentato rischio di tossicità - aumento delle probabilità di eventi avversi.

3) L’aderenza è un’importante determinante di efficacia del sistema sanitario.

I risultati di salute non possono essere valutati accuratamente se vengono misurati solo sulla base di risorse che utilizzano indicatori e efficacia degli interventi. I risultati di salute della popolazione predetti dai dati di efficacia di trattamento non possono essere raggiunti a meno che non si tenga conto anche degli indici di aderenza per poter pianificare e valutare eventuali progetti.

4) “L’aumento dell’efficacia degli interventi sull’aderenza possono avere un impatto molto più grande sulla salute dei pazienti che qualsiasi miglioramento di specifici trattamenti medici” ∗ 5) Il sistema sanitario deve evolvere per affrontare nuove sfide.

Nei paesi sviluppati, si è assistito nei trascorsi cinquant’anni a un cambiamento nei dati epidemiologici concernenti l’incidenza delle malattie acute e croniche.

I progressi tecnologici in medicina, l’allungamento della vita media hanno portato a un notevole aumento dell’incidenza delle malattie croniche. Ciò ha reso il sistema sanitario, fin’ora incentrato al trattamento delle malattie acute, inadeguato a soddisfare i bisogni di salute della popolazione.

Il sistema sanitario è potenzialmente in grado di migliorare il comportamento di aderenza dei pazienti in quanto esso controlla l’accesso alle cure, i programmi del personale sanitario, la lunghezza delle cure, l’allocazione delle risorse, sistemi comunicativi e informativi, e le priorità ∗ Haynes RB,”Interventions for halping patients to follow prescriptions for medicaations”, Cochrane Database of Systematic Reviews, 2001, Issue 1.

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organizzative. Alcuni esempi del modo in cui il sistema sanitario può influenzare il comportamento dei pazienti sono :

- Il sistema definisce la durata dei ricoveri e degli appuntamenti. Il personale sanitario riferisce che la programmata tabella di marcia non permette loro di educare adeguatamente il paziente a un comportamento di buona aderenza.

- Il sistema determina i finanziamenti e in molti sistemi la mancanza di riconoscimenti finanziari per il counselling e l’educazione dei pazienti minaccia seriamente gli interventi finalizzati ad aumentare l’aderenza.

- Il sistema determina l’allocazione delle risorse in un modo che può risultare in elevato stress e aumentate richieste per il personale sanitario. Ciò è stato associato a una diminuita aderenza da parte dei pazienti che non possono essere seguiti come dovrebbero.

- Il sistema determina la continuità delle cure. E’ stato dimostrato che i pazienti sono più aderenti quando ricevono cure nel tempo dallo stesso fornitore.

- Il sistema determina il livello di comunicabilità con i pazienti. Continui contatti comunicativi (es. follow-up telefonico) che mantengono aderente il paziente alle cure, potrebbe essere la strategia più semplice e costo-efficace per migliorare l’aderenza.

Se queste variabili non vengono utilizzate come basi per il cambiamento, c’è da aspettarsi che l’impatto degli sforzi dei singoli professionisti sanitari e dei pazienti saranno limitati a causa di restrizioni e barriere esterne.

6) I pazienti vanni sostenuti e non biasimati. Nonostante le evidenze del contrario, continua a esserci la tendenza a

focalizzarsi sui fattori relativi al paziente come causa principale del problema aderenza, rispetto alle determinanti relative al personale e al sistema sanitario. Questi ultimi fattori che costituiscono l’ambiente nel quale il paziente riceve le cure, hanno un maggior effetto sull’aderenza.

7) E’ necessario un approccio multidisciplinare. Per fare progressi in questo campo è necessario un maggiore impegno

per un approccio multidisciplinare. Ciò richiederà un’azione coordinata da parte dei professionisti della salute, dei ricercatori e dei dirigenti sanitari.

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8) L’aderenza è simultaneamente influenzata da numerosi fattori. La capacità dei pazienti di seguire i programmi di trattamento, come per

esempio quelli di CR, in modo ottimale è spesso compromessa da più di una barriera, spesso relativa a differenti aspetti del problema.

Essi includono : fattori socio-economici, il sistema sanitario, le caratteristiche della malattia, le terapie mediche, i fattori relativi al paziente. Risolvere i problemi collegati a ciascuno di questi aspetti è necessario, se si vuole aumentare l’aderenza dei pazienti.

9) Gli interventi devono essere personalizzati. Non esiste una singola strategia d’intervento, o un pacchetto d’interventi

che abbia dimostrato di essere efficace su tutti i pazienti, in ogni situazione e contesto. Di conseguenza, gli interventi che mirano all’aderenza devono essere fatti su misura per soddisfare i particolari bisogni di malattia di un individuo. Affinchè ciò avvenga il sistema sanitario e i professionisti della salute devono sviluppare strumenti e mezzi che valutino accuratamente non solo il livello di aderenza, ma anche tutti quei fattori che la influenzano.

10) L’aderenza è un processo dinamico che necessita di essere controllato nel tempo.

Migliorare l’aderenza è un processo continuo e dinamico. Alcune recenti ricerche sul comportamento hanno rilevato che i pazienti possono essere suddivisi a seconda del livello di prontezza a seguire le raccomandazioni di salute. La mancanza di un incontro in questo senso tra il paziente e i tentativi d’intervento del professionista sanitario, significa che i trattamenti vengono spesso prescritti a pazienti che non sono pronti a seguirli. I professionisti sanitari dovrebbero essere in grado di valutare la capacità del paziente di aderire ai trattamenti, provvedere consigli su come farlo e continuare a seguire i progressi del paziente nel percorso del tempo.

11) I professionisti della salute devono essere adeguatamente formati sul problema dell’aderenza.

Il personale sanitario può avere un ruolo significativo nell’accertamento del rischio di non aderenza e nel definire gli interventi per ottimizzarla. Per rendere questa pratica una realtà, i professionisti coinvolti devono poter accedere a percorsi formativi specifici sulla gestione dell’aderenza, e il sistema all’interno del quale lavorano dovrebbe pianificare e sostenere

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sistemi deliberativi che rispettino questi obbiettivi. Per rafforzare l’attività del personale sanitario è necessario fornire loro una “adherence counselling toolkit” cioè un kit di strumenti adeguati per un counselling che mira al miglioramento dell’aderenza, adattabile alle diverse realtà socio-economiche. Il training sull’aderenza per i professionisti dovrebbe includere tre aspetti: conoscenza (informazioni sul tema aderenza), riflessioni e pianificazione (processo clinico di decision making) e azione (strumenti comportamentali per i professionisti della salute).

12) Per avere successo nel migliorare l’aderenza i fattori chiave sono: organizzazione familiare, di comunità e del paziente.

Per un’efficace gestione delle malattie croniche, è necessario che tutti i pazienti, la famiglia e la comunità in cui vive, svolgano un ruolo attivo. Per esempio il supporto sociale formale o informale ricevuto dal paziente dagli altri membri della sua comunità, è stato considerevolmente riportato come un’importante fattore determinante per i risultati e i comportamenti di salute. Esistono evidenze sostanziali che il “peer-support”, cioè il supporto che viene fornito stando insieme ad altri pazienti che hanno lo stesso tipo di problema di salute, può incrementare l’aderenza alle terapie e nello stesso tempo ridurre l’ammontare di tempo che i professionisti sanitari dedicano alla cura dei pazienti con malattie croniche.

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2.2. IN CHE MODO IL NURSING PUO’ MIGLIORARE L’ADERENZA? Come abbiamo visto l’aderenza è un fenomeno multidimensionale

determinata dall’interazione tra cinque fattori principali. (Fig. 3)

Due di questi fattori, quelli relativi al team professionale e al paziente, costituiscono gli elementi chiave della mia ricerca sul ruolo del Nursing nel trattamento delle malattie cardiovascolari. In particolare la comunicazione da parte del personale infermieristico e l’atteggiamento del paziente.

I fattori relativi al paziente rappresentano le risorse, conoscenze, attitudini, credenze, percezioni, e aspettative dei pazienti riguardo alla loro malattia, le motivazioni a gestirla, la fiducia (self-efficacy) nelle proprie capacità di apportare i cambiamenti necessari al proprio comportamento di salute, le aspettative relative ai risultati del trattamento e le conseguenze di una scarsa aderenza, interagiscono in modi non ancora pienamente compresi con il comportamento di aderenza.

Alcuni fattori relativi al paziente che influiscono sull’aderenza sono : dimenticanza; stress psicosociale; ansietà; bassa motivazione; inadeguate conoscenze e abilità nel gestire i sintomi e il trattamento; false credenze riguardo agli effetti dei trattamenti; incomprensione o non accettazione della malattia; mancanza di percezione dei rischi di salute correlati alla malattia; incomprensione delle istruzioni di terapia; basse aspettative dal

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trattamento; scarsa frequenza al follow-up, agli incontri educazionali, motivazionali, comportamentali o di psicoterapia; depressione; frustrazione nel rapporto con il personale medico o non medico; paura di dover dipendere da altri; ansietà per la complessità della terapia farmacologica, e altri ancora.

La motivazione ad aderire a un trattamento prescritto è influenzata dal valore che il paziente vi attribuisce nel seguirlo (rapporto costo-beneficio) e al grado di fiducia nelle proprie capacità di attuarlo. Gli interventi infermieristici sono di cruciale importanza in questi campi. Sono in aumento infatti le evidenze che dimostrano che l’educazione del paziente attraverso il lavoro di infermieri specializzati nel settore sono più costo-efficaci delle cure convenzionali.

La non-aderenza al regime di trattamento costituisce una sfida continua per gli infermieri e per gli altri professionisti della salute. Secondo le stime la percentuale di pazienti che non aderisce ai regimi di trattamento raccomandati varia tra il 20 e l’80%. Gli infermieri sono consapevoli delle conseguenze della non-aderenza e delle relative conseguenze in termini economici per il paziente, per la comunità e il sistema sanitario. Inoltre, gli infermieri hanno molta familiarità con la frustrazione che consegue al fallimento dei trattamenti, agli scarsi risultati di salute e alla insoddisfazione del paziente che accompagnano la mancanza di aderenza. Secondo le stime dell’ International Council of Nurses (ICN) ci sono circa 12 milioni di infermieri in tutto il mondo.

Con un’appropriata comprensione delle dinamiche della non-aderenza e delle tecniche per valutarla e monitorarla, questi milioni di infermieri rappresentano una forza formidabile per aumentare l’aderenza e ottenere migliori risultati dai trattamenti. La loro presenza in tutte le fasi di cura, la loro vicinanza al paziente e il loro elevato numero sono tutti elementi che rendono la figura dell’infermiere ideale per portare avanti strategie atte a incrementare l’aderenza.

Gli interventi infermieristici per migliorare l’aderenza dovrebbero basarsi su approcci innovativi che includono la valutazione e il monitoraggio continuo dei regimi di trattamento e dovrebbe promuovere una relazione terapeutica tra paziente e infermiere rispettosa delle credenze

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e delle scelte del paziente nel determinare quando e come seguire i trattamenti raccomandati.

Le strategie infermieristiche per promuovere l’aderenza includono : 1. Valutare il livello di aderenza, facendo uso di domande

appropriate e rispettose, e non con toni minacciosi; 2. Fare domande su eventuali effetti collaterali dei medicinali e su

come questi influenzano la qualità della vita del paziente. 3. Educare il paziente sulla sua malattia, sull’importanza

dell’aderenza, sull’utilità del trattamento, sui possibili effetti collaterali e su come comportarsi in questi casi;

4. Dare suggerimenti e sollecitazioni su come fare un buon programma quotidiano, che tenga conto dei tempi da riservare alle terapie inserendoli nelle abituali attività giornaliere; su come utilizzare allarmi, suonerie o altri sistemi utili per gestire in modo efficace le terapie;

5. Lodare e rafforzare il comportamento di aderenza, per esempio attraverso tabelle, grafici, figure che mostrano l’impatto delle medicazioni sui segni clinici di malattia: per esempio una più bassa pressione arteriosa, un più basso livello di colesterolo, ecc.;

6. Incoraggiare il paziente a coltivare una buona relazione terapeutica con tutto il personale sanitario, a parlare con i familiari e con altri gruppi di persone affette dalla stessa malattia.

Assicurarsi che il regime terapeutico venga seguito, che la terapia farmacologica e altri trattamenti siano gestiti correttamente, educare, informare, gestire ansia e stress dei pazienti, sono alcuni dei ruoli chiave del personale infermieristico. Gli infermieri posseggono diverse abilità che vanno intercettate e potenziate per promuovere l’ aderenza e migliorare i risultati di salute.

Programmi formativi per infermieri possono migliorare la loro competenza e la consapevolezza circa l’importanza dell’aderenza ai programmi di cura.

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2.3. LA NON ADERENZA IN CARDIOLOGIA RIABILITATIVA L’aderenza è un problema comportamentale che si osserva nei pazienti,

ma le cui cause vanno al di là del paziente stesso. Ciò avviene a causa delle richieste a cui il paziente deve far fronte, che sorgono in relazione al contesto del trattamento. Le richieste consistono nell’imparare nuovi comportamenti, modificare la routine quotidiana, sopportare disagi e scomodità, e persistere nel fare tutto ciò mentre si cerca di ottemperare efficacemente ai vari ruoli familiari e di vita sociale.

Naturalmente non esiste nessun “magic bullet”, come dicono gli americani, per ottenere l’aderenza, ma ci sono sostanziali evidenze che identificano efficaci strategie per cambiare il comportamento. Tutti i professionisti coinvolti nella CR dovrebbero fare propri i concetti base dei meccanismi comportamentali che spiegano l’aderenza.

Il personale infermieristico svolge un ruolo importante e ha l’opportunità di incrementare notevolmente l’aderenza ai programmi di CR, identificando e indirizzando i diversi problemi di aderenza dei pazienti. In ogni situazione in cui è richiesto ai pazienti l’autogestione del trattamento, la non-aderenza è probabile che si verifichi. Di conseguenza la valutazione del rischio di non-aderenza dei pazienti dovrebbe far parte del piano di trattamento e la loro aderenza dovrebbe essere monitorizzata con il follow-up. L’approccio tradizionale è quello di aspettare per identificare quei pazienti che si dimostreranno non-aderenti e quindi provare a “fermare” il problema.

Il rischio di non-aderenza è sempre presente. Gli interventi basati sulla stratificazione del rischio di non-aderenza dovrebbero essere offerti sin dall’inizio, al contrario di ciò che avviene.

La scarsa aderenza in CR persiste perché è un problema resistente agli approcci usuali.

Gli interventi per migliorare l’aderenza non sono stati implementati abbastanza nella pratica; il personale sanitario riporta problemi organizzativi quali mancanza di tempo, di formazione adeguata, di incentivi, ecc.

E’ chiaro che la non-aderenza non è semplicemente un problema “relativo al paziente”.

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Ma qual è la situazione italiana relativa alla CR? Che ruolo hanno gli infermieri di CR e quali problemi devono affrontare? Quali strumenti utilizzano? A che punto è la loro formazione professionale? A queste ed altre domande ancora risponderò nel prossimo capitolo.

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CAPITOLO 3 IL RUOLO NURSING NELLA PREVENZIONE

CARDIOVASCOLARE

“Considerare la prevenzione una pratica clinica quotidiana” è uno degli obiettivi da perseguire per ottenere la riduzione della mortalità e morbilità per malattie cardiovascolari.

La scarsa incisività degli interventi di prevenzione secondaria è documentata dai dati dello studio Euroaspire (vedi pag. 20).

D’altra parte dai dati dello stesso studio si evince che in Italia solo il 17% dei pazienti dopo un IMA viene avviato ad un programma strutturato di prevenzione secondaria, quale la riabilitazione cardiologica, i cui risultati in termini di mortalità, morbilità e miglioramento della qualità della vita sono ormai consolidati.

Secondo la più recente analisi della Cochrane collaboration, infatti, la CR riduce in modo significativo la mortalità totale nei pazienti con malattie coronariche.

Questa metanalisi ha preso in esame 48 trial e 8940 pazienti in cui è stato effettuato un ciclo di riabilitazione cardiologica in pazienti coronaropatici, basato su esercizio fisico, intervento educazionale sui fattori di rischio, e supporto psico-comportamentale. Sono risultate significativamente ridotte mortalità totale (OR 0.80, CI 0.68-0.93), mortalità cardiaca (OR 0.75, CI 0.61-0.96), livello di colesterolemia, di trigliceridemia, valori pressori e percentuale di fumatori.

L’originalità di questa review, rispetto alle precedenti, è stata quella di aver considerato dei trial in cui i pazienti erano stati trattati al meglio delle più recenti terapie per l’infarto miocardico e in cui erano stati arruolati anche pazienti coronaropatici non infartuati.

Secondo gli Autori, l’evidenza scientifica dell’efficacia della riabilitazione cardiologica la rende un provvedimento “evidence-based” nel paziente dopo qualsiasi evento coronarico.

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La frequenza delle riospedalizzazioni, la spaventosa crescita epidemiologica dello SCC sono ulteriori spie di una errata strategia di prevenzione secondaria.

Le cause di questi deludenti risultati sono molteplici: • una discordanza tra la rilevanza prevista per la prevenzione

cardiovascolare dai piani sanitari nazionali e regionali e la esiguità delle risorse ad essa realmente destinata;

• le barriere culturali : a) i percorsi formativi e soprattutto l’aggiornamento degli operatori

sono fondamentalmente orientati all’acuzie; b) la divulgazione delle conoscenze è fortemente influenzata dalla

pressione all’introduzione di nuove e costose tecnologie con una sovrastima dell’efficacia definitiva degli interventi in fase acuta a scapito di quelli preventivi basati soprattutto sul mantenimento a lungo termine di stili di vita corretti;

• la scarsità di incentivi per il personale addetto alla prevenzione ed il mancato riconoscimento tariffario delle attività di counseling;

• l’assenza di collegamenti tra Ospedale e territorio. Gli operatori che accolgono il paziente dopo un evento acuto tendono a

proporre programmi di follow-up monospecialistici rinunciando all’applicazione di componenti efficaci e soprattutto alla loro integrazione.

Si avverte, inoltre, la mancanza di un approccio multidisciplinare a una patologia complessa, multifattoriale, quale quella cardiovascolare, dove solo un lavoro di equipe che impegni più operatori sanitari e in particolar modo il cardiologo, l’infermiere professionale (IP), il terapista della riabilitazione (TdR), il dietista e lo psicologo può ottenere risultati positivi. Infatti per ottimizzare gli interventi di prevenzione secondaria è necessario organizzare un percorso omnicomprensivo, realizzato su misura per il singolo paziente, che si avvii nella fase immediatamente post-acuta della malattia e che preveda:

• Una attenta stratificazione prognostica al fine di identificare i pazienti a maggior rischio;

• L’ottimizzazione della terapia per utilizzare i farmaci raccomandati alle massime dosi tollerate

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• La correzione dei fattori di rischio per evitare o rallentare la progressione della malattia;

• Un’azione diretta sulla funzione endoteliale, utilizzando anche strategie non farmacologiche come il training fisico;

• Un intervento sul profilo psicologico del paziente, strutturato o meno a seconda della gravità.

Nell’ambito delle varie competenze, un ruolo di primaria importanza è quello svolto, o meglio, quello che potrebbe essere svolto, dalle figure professionali di area nursing.

Lo studio Carinex Survey ha analizzato quali siano le figure professionali più frequentemente coinvolte nei programmi di prevenzione secondaria all’interno di strutture di cardiologia riabilitativa (vedi tabella 2).

Nel corso della loro pratica quotidiana, gli IP, iTdR, i Tecnici di cardiologia, possono entrare in contatto con un numero elevato di persone e divenire promotori di “messaggi di salute”.

Gli infermieri che operano in ospedale, poi, assistendo i pazienti durante tutta la degenza, dall’ingresso alla dimissione, contribuiscono fattivamente ai programmi di prevenzione costituendo un anello fondamentale della continuità assistenziale.

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3.1. IL RUOLO NURSING NELLA PREVENZIONE

L’infermiere professionale può intervenire in tutte le strategie di prevenzione codificate già nel 1982 dall’OMS e riportate nel testo delle linee guida 1999, e cioè:

∗ strategia di popolazione, in altre parole modificare lo stile di vita e i fattori ambientali responsabili dell’elevata incidenza delle patologie cardiovascolari nella popolazione generale;

∗ strategia sui pazienti ad alto rischio; ∗ strategia di prevenzione secondaria. In ciascuna di esse l’infermiere svolge un ruolo determinante, che può

diversificarsi in un ruolo puramente tecnico, un ruolo di counseling e in un ruolo di supporto psicologico.

3.1.1. Il ruolo tecnico L’infermiere collabora con il medico per l’esecuzione di indagini

strumentali che consentono di definire il profilo di rischio di ciascun paziente.

La stratificazione del rischio è uno dei momenti centrali di ogni strategia di prevenzione.

L’esiguità delle risorse rende infatti indispensabile concentrare gli interventi laddove il rapporto costo-beneficio è maggiore. In prevenzione primaria è sufficiente conoscere i fattori di rischio per definire il profilo di ciascun soggetto. A tal fine, il modello più utilizzato è certamente il diagramma del rischio elaborato sui dati dello “storico” studio di Framingham. Oggi le carte del rischio europee con il calcolo SCORE e la carta del rischio italiana elaborata dall’ISS consentono di identificare con maggiore precisione i pazienti italiani ad alto rischio. In prevenzione secondaria la carta elaborata sui dati del GISSI Prevenzione costituisce il modello di riferimento.

Personale infermieristico e tecnico, opportunamente preparato, in piena autonomia, potrebbe applicare i modelli delle carte del rischio in base ai dati clinici e laboratoristici di ogni paziente.

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3.1.2. L’educatore alla salute Il counseling, strumento di educazione alla salute, può essere definito

come un “intervento volontario e consapevole del personale socio-sanitario nei processi decisionali del paziente per il raggiungimento di un obiettivo condiviso di miglioramento dello stato di salute”. Il counseling, nato come modalità di aiuto psicologico sviluppata a partire dagli anni ‘30, da Rollo May e Carl Rogers, definisce una consulenza (cioè uno o più colloqui individuali approfonditi) condotta da un professionista che è attento alla relazione, e ha un approccio non direttivo.

L’influenza dell’approccio non direttivo ha successivamente portato molte figure professionali che operano in ambito sanitario e sociale e che possono instaurare relazioni personali significative con i propri utenti/pazienti a sviluppare una pratica professionale meno prescrittiva, più attenta all’ascolto e alla relazione, e più rispettosa delle esigenze dell’utente/paziente, pur senza praticare il counseling psicologico propriamente detto. “È necessario dunque distinguere fra counseling come pratica terapeutica (competenza psicologica) e capacità di counseling, richiesta a ogni operatore impegnato in attività in ambito sanitario e sociale”.4

Secondo l’approccio centrato sul paziente il modo migliore di venire in aiuto a una persona che si trova in difficoltà non è dirle cosa fare ma aiutarla a comprendere la sua situazione attuale e a gestire il problema, prendendo da sola la responsabilità di eventuali scelte. L’aiuto consiste proprio nel rendere possibile una riattivazione e riorganizzazione delle sue energie (cognitive, emotive, strategiche) partendo dal presupposto che in ogni persona ci sono delle potenzialità che gli permettono di sfruttare l’aiuto ricevuto e di farlo diventare una propria risorsa.

Lo scopo dunque è quello di aiutare la persona a mobilitare le proprie risorse personali nell’affrontare il problema che viene portato all’interno della relazione di counseling.

4 Sommaruga M, et al, 2003, “Linee-guida per le attività di psicologia in cardiologia riabilitativa e preventiva”, Monaldi Arch Chest Dis, 60 (3): 184-234

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Gli obiettivi generali del counseling sono: • Fornire supporto nei momenti di crisi • Aiutare il paziente a reperire informazioni sulla malattia, ad

assimilarle e ad agire conformemente • Incoraggiare il paziente al cambiamento, se necessario, dello stile

di vita • Sviluppare nel paziente l’autodeterminazione e la facoltà di

operare scelte autonome • Aiutare il paziente ad anticipare, prevenire o impedire l’instaurarsi

di situazioni altamente critiche L’avvio di un percorso di counseling dipende dalla qualità della

relazione (empatia, capacità di ascolto, presenza, attenzione, assunzione di responsabilità, patto terapeutico, coerenza), dalla qualità della comunicazione, dal numero di contatti con l’utente nel tempo e dall’applicazione di un intervento strutturato di counseling. Il counseling infermieristico in prevenzione, attraverso l’instaurarsi di una relazione di aiuto, dovrebbe aiutare il paziente a smettere di fumare, alla gestione del comportamento alimentare (lipidi, zuccheri, sovrappeso-obesità), alla gestione della terapia farmacologica, ad aderire alle prescrizioni terapeutiche, ad effettuare attività fisica, al ritorno al lavoro, alla ripresa dell’attività sessuale.

All’interno del counseling infermieristico in prevenzione acquista particolare rilevanza l’aspetto motivazionale, che si pone l’obiettivo di valutare quanto il paziente si sente pronto a cambiare (Stage-of Change Model, o SCM), quanto si ritiene in grado di poter cambiare( Self-efficacy) e quanto forte sente la spinta al cambiamento. Il colloquio di motivazione è un approccio che ha lo scopo di aiutare gli utenti a costruire il coinvolgimento terapeutico necessario e a raggiungere la decisione di cambiare; aiuta le persone a riconoscere i loro problemi attuali o potenziali legati alla persistenza di un comportamento disadattivo e a mettere in atto le strategie necessarie per modificare questo comportamento.

Infatti, l’assunzione secondo cui il paziente è, o dovrebbe essere, motivato dalla sua malattia a seguire i trattamenti è stata recentemente smentita dalle ricerche di scienza comportamentale. Secondo questi studi la

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popolazione dei pazienti può essere suddivisa a seconda della prontezza (level-of-readiness) a seguire i trattamenti raccomandati. La mancanza di questa valutazione fa sì che spesso vengano offerti ottimi trattamenti a pazienti che non sono pronti a seguirli.

Ciò mette in evidenza una comprensibile asimmetria tra il voler trattare il problema a livello biomedico sottovalutando quello psico-comportamentale.

Prochaska ( Di Clemente CC, Prochaska JO, 1982) afferma che le persone vanno avanti attraverso stadi di maggiore prontezza a seguire le raccomandazioni man mano che aumenta la loro motivazione e sviluppano le capacità richieste (Self-efficacy) per adottare un nuovo comportamento.

Il modello SOC (Stage-of-change) e la teoria della Self-efficacy di Bandura (vedi cap. 4) forniscono sensibili e chiari modelli strutturali in base ai quali fornire dei trattamenti individualizzati che includono interventi comportamentali efficaci “evidence-based”.

Conoscere i principi base di queste teorie e del colloquio motivazionale, è importante non per fare un altro mestiere, ma per integrare nell’abituale pratica infermieristica una modalità di comunicazione adatta a indirizzare le persone al cambiamento, o per preparare il terreno per un intervento specialistico.

L’analisi della letteratura riguardo alla efficacia degli interventi educazionali pone in evidenza la difficoltà di estrapolare che cosa esattamente sia efficace, poiché gli studi sono eterogenei dal punto di vista metodologico, contenutistico, e soprattutto non identificano le figure professionali coinvolte in modo chiaro.

Lewin e colleghi hanno messo in luce che l’elemento comune, negli interventi di counseling centrato sul paziente, è dato dall’inclusione di un training specifico per gli operatori della salute. Vi è evidenza che tale tipo di formazione specifica incrementa la centralità del paziente all’interno della consultazione e può avere un riscontro positivo sulla soddisfazione del paziente stesso.

In conclusione, il counseling infermieristico necessita di formazione su:

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• teorie sui comportamenti rilevanti per la salute che evidenziano il ruolo delle variabili cognitive dalla rappresentazione mentale della malattia alla attuazione di comportamenti.

• abilità comunicative come strumento per facilitare la relazione di aiuto e per comprendere le rappresentazioni mentali di malattia del paziente.

Educare alla salute significa anche fornire una corretta informazione sulle terapie somministrate.

I farmaci da assumere per la cura delle malattie cardiovascolari sono in genere prescritti per lunghi periodi o, in alcuni casi, per tutta la vita, e la loro efficacia dipende dal grado di adesione dei pazienti. Spesso il personale tecnico ed infermieristico è il primo ad essere consultato dai pazienti circa le terapie da assumere e sugli eventuali effetti collaterali lamentati. È evidente che un’informazione inadeguata sugli scopi della terapia, sulle sue modalità di assunzione, sugli effetti collaterali da essa determinati porta frequentemente alla sospensione della terapia, con conseguenze immaginabili. Il processo di educazione del paziente alle terapie deve prevedere l’informazione su:

• gli scopi delle terapie intraprese; • la durata prevista della terapia; • la necessità di controlli periodici sia clinici che di laboratorio (ad

esempio l’emostasi per i pazienti in terapia anticoagulante); • la possibilità di interferenze farmacologiche, suggerendo di

prendere contatto con il medico in caso di necessità di assunzione di altri tarmaci (ad esempio antibiotici, antipiretici o altro);

• la pericolosità di variazioni spontanee della dose; • la necessità di assumere il farmaco agli orari prescritti; • i più frequenti effetti collaterali indotti dal farmaco, chiarendo il

loro significato, l’assoluta innocuità di alcuni di essi e la potenziale pericolosità di altri che richiedono la necessità di contattare rapidamente il medico curante;

• il maggior rischio di malattie cardiovascolari nelle donne che assumono terapie anticoncezionali orali, soprattutto quando sono presenti altri fattori di rischio, come fumo e ipertensione.

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Allo stesso modo, è fondamentale informare il paziente sui vari esami diagnostici a cui dovrà sottoporsi, sulle relative tecniche di esecuzione, sulla durata e il rischio ad essi connesso, su eventuali misure di preparazione, quali ad esempio il digiuno o l’esecuzione di indagini preliminari,

Educando il paziente all’autocontrollo del peso, della pressione arteriosa, del glucosio nel sangue lo si prepara ad affrontare con maggior consapevolezza la propria malattia e gli si conferisce anche un certo grado di responsabile autonomia. In particolare l’autogestione è fondamentale nella gestione del paziente affetto da scompenso cardiaco cronico. Per questi pazienti il personale tecnico ed infermieristico, adeguatamente formato, nell’ambito di protocolli condivisi potrebbe svolgere una attività prevalentemente ambulatoriale di supporto alla figura professionale del medico, sia esso di Famiglia, che Ospedaliero che Extraospedaliero, finalizzata a

rendere il paziente autonomo nella cura di sé stesso; mantenere la stabilità emodinamica ottenuta; riconoscere precocemente eventuali segni e/o sintomi di instabilità

al fine di: ridurre le re-ospedalizzazioni migliorare la qualità della vita ridurre la spesa complessiva per SCC

3.1.3. Il supporto psicologico Il supporto educativo e psicologico è necessario oltre che per

incoraggiare ad attuare cambiamenti nello stile di vita anche per affrontare la sofferenza psicologica che comunemente segue la malattia coronarica.

L’incremento delle procedure di rivascolarizzazione coronarica (chirurgiche e interventistiche), la brevità delle degenze per acuti (si è passati da 10-15 gg. negli anni ’80 a 5-7 gg. negli anni 2000 per i casi non complicati) imposta dalla tariffazione DRG hanno portato a un conseguente aumento da parte del paziente di tensione, stress, ansia e depressione.

Esistono forti e consistenti evidenze di associazione fra sofferenza psichica e outcome di malattia coronarica. In uno studio effettuato su 2177

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pazienti ospedalizzati per un infarto miocardico il 18.5% presentavano una depressione maggiore secondo i criteri ICD-10. All'analisi multivariata due parametri sono predittivi di una depressione post-infartuale: l'età giovanile e una FE<30%.

La depressione aumenta il rischio di mortalità. James Blumenthal ( Rozansky A, et al, 2005) che ha condotto uno

studio della durata di 12 anni su poco più di 800 pazienti sottoposti a chirurgia coronaria che non avevano una diagnosi pregressa di disturbo dell’umore spiega che “la relazione tra flessione dell’umore e mortalità è abbastanza evidente perché è emerso che i soggetti con una depressione moderata o grave dopo il by-pass hanno un rischio di morte doppio rispetto ai sani o a quelli con un disturbo più lieve. Inoltre anche i depressi lievi hanno un’aspettativa di vita ridotta rispetto a chi non ha una flessione del tono dell’umore se il disturbo persiste per più di sei mesi dall’intervento”. “E’ necessario individuare questi soggetti per tempo per gestire in modo adeguato una condizione potenzialmente pericolosa” conclude Blumenthal.

Anche lo stress psicologico può essere effettivamente dannoso per il cuore, soprattutto per chi ha già problemi alle coronarie. La conferma della pericolosità dello stress e nuovi dettagli dei suoi effetti vengono da uno studio americano dell’università della Florida pubblicato sul Journal of American College of Cardiology del 2006, che ha visualizzato praticamente “in diretta” l’impatto di uno stress sul flusso sanguigno cardiaco di 21 soggetti (14 uomini e 7 donne), che soffrivano tutti di problemi alle arterie coronarie, ma che alle prove di stress da sforzo e di stress farmacologico non mostravano segni o sintomi di ischemia miocardica, ha messo in luce che in 6 dei soggetti (il 29 per cento) lo stress aveva ridotto in modo significativo il flusso sanguigno diretto al miocardio; senza però provocare dolore, fastidio toracico, o altri sintomi, e senza alterare l’elettrocardiogramma. I risultati lasciano pensare che lo stress psicologico agisca in maniera diversa rispetto allo stress fisico, e non abbia sempre gli stessi effetti. Purtroppo però non dicono se le riduzioni di flusso osservate abbiano conseguenze sul piano clinico (cioè se uno stress possa o meno causare un infarto): sui partecipanti allo studio non ne hanno avute, ma in soggetti con coronarie già parecchio ostruite, o in condizioni

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particolari, anche una minima riduzione del flusso di sangue al cuore potrebbe rivelarsi pericolosa .5

Rozanski e coll6, aggiornando la loro ricca review pubblicata nel 1999, focalizzano l’attenzione su quali sono le cose che ogni cardiologo, e io aggiungerei anche ogni infermiere, dovrebbe conoscere sul ruolo dei fattori comportamentali alla luce delle evidenze sempre crescenti di un loro ruolo determinante nella epidemiologia delle malattie coronariche. Un ruolo decisivo a questo proposito viene attribuito allo studio INTERHEART (vedi il primo capitolo) che ha dato un contributo definitivo a riconoscere come fattori di rischio maggiori alcuni disturbi comportamentali.

Al di là della ricca ed aggiornata revisione della letteratura sull’argomento lo spunto originale del lavoro di Rozanski risiede nel suggerimento da parte degli Autori di una rapida serie di domande (proposte nella tabella 1 di pag. 58) che consentano anche ad un cardiologo di screenare i pazienti al fine di definire quelli con disturbi psicologici e di comportamento eventualmente da riferire ad altri specialisti (psicologi e psichiatri). Inoltre altre due efficaci tabelle (tab. 2 e tab. 3 nelle pagine seguenti) riassumono quali sono i principali interventi comportamentali che si possono mettere in pratica per correggere tali disturbi (dal training agli interventi di stress management, dal supporto sociale all’educazione al counseling nutrizionale) e anche per promuovere una maggiore aderenza.

Il lavoro di Rozanski e coll. dovrebbe costituire un patrimonio per tutti i professionisti coinvolti nei programmi di prevenzione e riabilitazione.

5 per gli studi citati vedi: www.gicr.it

6 Rozansky A, et al, 2005, “The epidemiology, pathophysiology, and management of psychosocial risk factors in cardiac practice”, JACC, 45:637-651

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Tabella 1. Domande aperte consigliate per screenare i

fattori di rischio psicosociali

1. Come definirebbe il suo livello di energia? 2. Come dorme ? 3. Com’è stato recentemente il suo umore? 4. A che tipo di pressioni è stato sottoposto sul lavoro o a casa? 5. Cosa fa per rilassarsi dopo il lavoro o alla fine della

giornata? Ha difficoltà a rilassarsi? 6. A chi si rivolge quando ha bisogno di sostegno?

7. C’è qualche problema o preoccupazione che non abbiamo considerato, ma di cui vorrebbe parlare con me?

Tabella 2. Interventi comportamentali e medici per i fattori psicosociali Tipo di intervento

Condizione target

Intensità degli interventi meno intensi più intensi

Esercizio fisico Counseling nutrizionale

Stress psicologico Gestione dello stress dovuto alle restrizioni dietetiche

Prescrivere esercizi più Linee-guida generali Dare consigli nutrizionali

Supervisionare gli esercizi Supervisionare le istruzioni dietetiche, del controllo del peso, delle modificazioni comportamentali.

Esercizi di rilassamento

Stress generale e stress legato a situazioni specifiche

Suggerire al pz di iniziare gli esercizi di rilassamento; fornire cassette audio, videocassette o istruzioni scritte

Insegnare tecniche di rilassamento muscolare, Training-autogeno, respirazione diaframmatica o il biofeedback

Gestione dello stress Stress generale e stress legato a specifiche situazioni

Suggerire vacanze, hobbies, yoga, musica da rilassamento,animali domestici, o attività piacevoli per il pz

Insegnare strategie comportamentali (es. problem-solving, automonitoraggio, porsi degli obiettivi realistici, tecniche per prevenire le ricadute)

Supporto sociale Insufficiente supporto strutturale o funzionale

Fornire indicazioni specifiche sulle varie forme di sostegno sociale (es. unirsi a walking-group, o impegnarsi in attività umanitarie o socialmente utili)

Impiegare lo staff come base per il supporto del pz., iscrivi il pz a gruppi di sostegno o favorisci il coinvolgimento dei familiari

Dare informazioni sulla condizione di salute

Situazioni specifiche di stress (es. sul lavoro o a casa) o basso livello di conoscenze sulla condizione di salute

Fornire informazioni per situazioni specifiche: libri, articoli, opuscoli, cassette audio, videocassette o pagine Web

Discutere e rispondere alle domande del pz. riguardo a materiale relativo alla sua condizione di salute e a consigli sui trattamenti

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Come abbiamo visto le malattie cardiovascolari determinano spesso una serie di reazioni e comportamenti che condizionano la ripresa psicologica del paziente.

Ansietà e depressione, irritabilità e aggressività che portano alla negazione della malattia, o, al contrario, a sentirsi “inutile”, “di peso”, ormai invalido, dipendente dal medico, dai farmaci e dai familiari, provocano gravi conflitti interiori e difficoltà nel reinserimento familiare e sociale.

Spesso l’ambiente familiare tende ad assumere atteggiamenti iperprotettivi, con proibizioni “a prescindere”, operando una serie di

Tabella 3. Provvedimenti per promuovere l’aderenza ai cambiamenti comportamentali

raccomandati

1) Comunica in modo chiaro ed efficace formulando raccomandazioni che siano il più possibile semplici

e specifiche

2) Programma le visite di follow-up per verificare l’aderenza

3) Fornisci al pz ragioni logiche al regime di trattamento includendo spiegazioni che arricchiscano le

conoscenze di salute del pz

4) Fa seguire alle raccomandazioni orali, quelle scritte per rafforzare il messaggio del cardiologo e aiutare

la memoria e la concentrazione

5) Incomincia a stabilire delle “micro” mete per il pz che ha più difficoltà a modificare il comportamento o

che ha meno risorse personali a cui attingere

6) Aiuta il pz a stabilire obiettivi e aspettative realistiche

7) Coinvolgi il pz quando dai consigli comportamentali per adattarli alle sue esigenze piuttosto che imporre

dei cambiamenti.

8) Suggerisci attività proporzionate alle capacità del pz e che possano fornire un feedback positivo (fattori

che tendono a promuovere un senso di piacevolezza)

9) Esplora apertamente e con franchezza potenziali barriere del pz all’aderenza (come personale mancanza

di motivazione, tempo, supporto familiare, capacità o conoscenze; paure; pressioni lavorative, familiari

o di altro genere; problemi culturali) e assisti il pz nel problem-solving e nello sviluppare strategie (es.

approcci di auto-monitoraggio, impegni scritti e prevenire le ricadute) quando dai i consigli

10) Indirizza i pz che necessitano di supporto strutturale o funzionale a programmi o attività che

miglioreranno l’aderenza fornendo supporto sociale

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restrizioni inutili, che contribuiscono a creare ulteriori sensazioni di invalidità.

Queste reazioni emotive abnormi spesso prescindono dalla gravita della malattia, ma vanno piuttosto ricondotte a un’inadeguata informazione del paziente e della sua famiglia da parte del personale sanitario. Il controllo delle reazioni emotive va intrapreso sin dalle fasi iniziali del ricovero, soprattutto nei reparti di terapia intensiva: in un momento della malattia in cui scariche catecolaminiche possono essere fatali, accogliere bene il paziente, creando un’atmosfera distesa, rassicurandolo sull’andamento della malattia, su un decorso generalmente favorevole, sulla possibilità di riprendere una normale vita lavorativa e sociale, costituiscono interventi di prevenzione di straordinaria efficacia.

Uno studio realizzato da Lavie CJ nel 2004 ha dimostrato, inoltre, come un ciclo di riabilitazione cardiologica della durata di 12 settimane con 36 sessioni educazionali e di esercizio, possa ridurre significativamente l’ansia (-59%) e l’ansia grave (-69%).

3.2 I LUOGHI DELLA PREVENZIONE

La domanda di salute dei cittadini in questi ultimi anni si è evoluta, sono emerse dall’epidemiologia nuove esigenze di cura e di assistenza legate alla cronicità e ciò richiede un rinnovamento del sistema. In altre parole la sanità pubblica deve adeguare il sistema di cura ai nuovi bisogni legati alla cronicità. Pertanto anche gli interessi della cardiologia devono rinnovarsi perché il cardiopatico cronico è un problema emergente.

L’Ospedale costituisce il luogo privilegiato per la prevenzione secondaria, quanto meno nelle prime fasi dell’intervento. Ma i risultati ottenuti durante il ricovero andrebbero rapidamente persi se non adeguatamente sostenuti nel lungo termine con un progetto di follow-up concordato con il paziente. Nel lungo termine, la maggior parte delle persone con malattie cardiache riceve gran parte o la totalità delle cure in assistenza primaria e nella comunità.

La responsabilità principale del follow-up a lungo termine è del paziente ed è facilitata dal medico curante.

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E’ necessario che l’assistenza sia flessibile e adattata ai bisogni del singolo paziente: un ischemico o uno scompensato non può avere la stessa gestione se giovane o anziano, se vive solo o in famiglia, in città o in montagna, in una casa a piano terra o al quinto piano senza ascensore.

Le Linee-guida suggeriscono, attribuendovi un grado di raccomandazione A, che un approccio strutturato nell’ambito dell’assistenza primaria migliora la qualità della vita correlata alla salute, l’adesione alla prevenzione secondaria e riduce la mortalità totale e il numero delle riospedalizzazioni.7

In Inghilterra una serie di iniziative recenti hanno rilanciato il ruolo della Primary Care nell'ambito della prevenzione secondaria. In particolare ci si aspetta importanti risultati dalla instaurazione di un registro di malattia, gestito dai medici di medicina generale, per seguire il follow-up a lungo termine dei coronaropatici e dallo sviluppo di team di medici di medicina generale che operino sulla base di linee guida condivise (EBM medicine).

A questo proposito è stata proposta una periodica diffusione di update sulla gestione del coronaropatico riguardo a farmaci e stile di vita e una più stretta collaborazione con i Centri di Cardiologia Riabilitativa che svolgono un intervento strutturato di prevenzione secondaria, ma che sono ancora quantitativamente insufficienti, perché negli USA gestiscono solo il 10-20% dei pazienti eligibili e nel Regno Unito il 14-23%, anche se queste percentuali stanno aumentando con lo sviluppo di programmi di "home -rehabilitation".

Nella review vengono analizzati gli studi di intervento domiciliare sulla prevenzione secondaria, recentemente conclusi o in corso, e ci si auspica che le diverse proposte di gestione integrata ospedale-territorio possano superare il vaglio della ricerca e diventare più operative nella pratica clinica.

Un sistema integrato e flessibile di riabilitazione e prevenzione secondaria, che affida un ruolo importante alle cure primarie e permette al

7 Giannuzzi P, et al, 2005 “Linee-guida nazionali su cardiologia riabilitativa e prevenzione secondaria delle malattie cardiovascolari”,

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paziente di scegliere tra più percorsi a seconda delle sue preferenze, ha dato buona prova di sé in una popolazione di infartuati britannici.

La sperimentazione è stata condotta presso il Royal Cornwall Hospital di Truro, in Cornovaglia, dove un'infermiera è stata formata per individuare i ricoverati con sospetto infarto acuto del miocardio e offrire loro la scelta fra due percorsi di prevenzione: a casa, seguendo il programma di esercizi, gestione dello stress ed educazione condensato in un apposito manuale oppure in ospedale. In ogni caso, il paziente era seguito anche dal medico di famiglia mediante un registro destinato a facilitarne, anche in seguito, la gestione in tale ambito. Su 106 pazienti contattati, 47 hanno scelto il programma domestico e 41 lo hanno portato a termine, mentre 17 su 35 hanno completato quello ospedaliero. Per quanto riguarda l'altro aspetto dello studio, la prevenzione secondaria, era significativamente migliorata la proporzione di infartuati che dopo un anno aveva raggiunto gli obiettivi ideali per quanto concerne i livelli di colesterolo e di pressione arteriosa, la prescrizione di statine e di anticoagulanti, la cessazione del fumo.

Secondo il già citato studio di Taylor et al del 2004, in base ad una analisi delle risorse necessarie e in considerazione della politica di contenimento dei costi seguita dai sistemi sanitari appare proponibile l’implementazione di interventi riabilitativi anche al di fuori dell’ospedalizzazione, con particolare riguardo alla possibilità di utilizzare forme di “home-rehabilitation” per il paziente a basso rischio.

In questo caso l’infermiere può costituire un anello di congiunzione e supporto per il, paziente attraverso visite a domicilio, contatti telefonici e altri tipi di sollecitazioni per favorire l’aderenza al follow-up a lungo termine.

Ma qual è la realtà attuale in Italia? Una volta dimesso dall’ospedale un coronario o uno scompensato ha a

sua disposizione quattro possibilità: il medico di medicina generale (MMG), lo specialista territoriale, l’ambulatorio ospedaliero e il cardiologo personale.

Ognuna di queste soluzioni assicura non una cura, ma una semplice consulenza spesso incompleta e non somministrata al momento del bisogno

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reale, ma dopo un’attesa di giorni, settimane o persino di mesi. Come garantire quindi, in questa situazione la continuità assistenziale tra ospedale e territorio?

Il problema della continuità assistenziale è molto complesso e richiede da parte delle associazioni culturali e del legislatore un ripensamento e uno sforzo volti ad assicurare un’organizzazione più razionale dell’assistenza ambulatoriale e domiciliare del territorio.

Il medico ospedaliero oltre alla patologia acuta deve interessarsi anche della gestione di quella cronica (anche per non rendere vani gli sforzi profusi nella cura acuta).

Il MMG, ordinatore di prestazioni e titolare del budget (gatekeeper e case-manager) è l’elemento fondamentale del processo della continuità assistenziale.

Ma, come, questo medico può partecipare alla gestione del suo malato? Anzitutto leggendo attentamente la lettera di dimissione che, se ben

fatta, permette di avere un quadro clinico preciso del decorso intraospedaliero e della futura prognosi del paziente. Una volta valutata la gravità dell’episodio in termini prognostici deve stabilire il follow-up mirato in rapporto alla gravità della malattia, osservare gli effetti indesiderati dei farmaci prescritti durante la fase acuta in ospedale, la situazione delle comorbilità ecc. Tuttavia una vera continuità assistenziale si potrà realizzare solo se, al MMG, si affiancherà personale medico e infermieristico realmente esperto in cardiologia (nel caso del malato di cuore). Infatti, la presa in carico di pazienti complessi (per esempio con scompenso cardiaco cronico con defibrillatore e/o stimolazione biventricolare), la cronicizzazione, le comorbilità, la sofisticata diagnostica e alcune terapie difficili richiedono competenze a elevato tenore culturale specialistico e professionalità multidisciplinare per patologie che un MMG non può affrontare da solo. In definitiva è necessario stabilire un nuovo rapporto tra strutture ospedalierie, strutture specialistiche del territorio e MMG. Il territorio però ha in campo cardiologico un vuoto specialistico, è impreparato culturalmente e strumentalmente ed é, infine, ancora scollegato dall’ospedale.

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Lo sviluppo di ambulatori specialistici,sia ospedalieri che di medicina di base, può risolvere queste lacune, costituendo un trait d’union tra l’ospedale e il territorio, creando, tra l’altro, un collegamento tra lo specialista e il medico di base.

Questi ambulatori consentirebbero inoltre la messa a punto di programmi di prevenzione che possono essere monitorati e controllati in forma strutturata. I risultati degli studi in tale ambito indicano che gli ambulatori specialistici migliorano significativamente la prevenzione secondaria e riducono i ricoveri ospedalieri. Il loro obiettivo dovrebbe essere quello di fornire un consiglio esperto guidato dai dati evidence based e di facilitare il follow-up regolare dei pazienti. Il personale di base di un ambulatorio specialistico ospedaliero dovrebbe prevedere la presenza di un cardiologo e un infermiere professionale qualificato, con una formazione specifica in cardiologia e in prevenzione cardiovascolare.

Personale infermieristico con queste caratteristiche potrebbe coordinare in autonomia, nell’ambito di protocolli standardizzati, gli ambulatori sul territorio, collegati a banche dati dei pazienti e con canali di comunicazione privilegiata sia con i medici di base sia con gli ambulatori ospedalieri. Il soggetto che afferisce agli ambulatori territoriali, che dopo un’accurata anamnesi e un adeguato screening sui fattori di rischio rivela un profilo di rischio elevato, dovrebbe essere segnalato al relativo medico di base o invitato a recarsi presso ambulatori ospedalieri.

3.3.GLI STRUMENTI DELLA PREVENZIONE

II rapporto personale con il paziente rappresenta sempre lo strumento migliore per una strategia di prevenzione, soprattutto nelle prime fasi, quando va costruito un rapporto di stima, fiducia e collaborazione.

In molti studi si sono rivelate molto utili le riunioni organizzate con i pazienti e con i loro familiari. L’infermiere professionale, in accordo con il cardiologo potrebbe costituire il punto di riferimento organizzativo, coinvolgendo, in base all’argomento trattato, altre figure professionali, come il dietista, lo psicologo, il fisiatra, il medico del lavoro. Con tale sistema si riesce a raggiungere un maggior numero di persone e al tempo stesso si coinvolgono i familiari, la cui collaborazione, come già detto in

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precedenza, è fondamentale. Queste riunioni possono essere organizzate anche in prevenzione primaria, soprattutto in grandi centri di aggregazione sociale.

Una volta stabilito il rapporto con i pazienti, si potranno utilizzare sistemi di rinforzo dei messaggi di prevenzione, utilizzando i tradizionali mezzi di comunicazione come il telefono, il fax, la posta. In un futuro non molto lontano prenderà sempre più spazio l’uso della posta elettronica e del teleconsulto le cui ampie potenzialità consentiranno di implementare i controlli a distanza.

Questi contatti tra infermieri e pazienti forniscono un’importante misura di sorveglianza, istruzione e supporto, con la possibilità anche per i medici generici di interagire con il sistema e di informarsi circa lo stato di salute dei propri assistiti. L’uso di sistemi informatizzati di elaborazione dati e l’applicazione di algoritmi standardizzati conferisce all’infermiere una certa autonomia decisionale e contribuisce alla standardizzazione delle cure e alla valutazione dei risultati, con una verifica di qualità del prodotto. Tutto ciò presuppone una conoscenza di base dei sistemi informatici e dei più importanti programmi di archivio e di gestione dei dati, non frequente nella pratica infermieristica odierna.

L’organizzazione di campagne di prevenzione sul territorio vede sicuramente coinvolti in prima linea gli infermieri professionali, sia nel ruolo tecnico, sia in quello di educatore alla salute. L’auspicio è che la riorganizzazione del sistema sanitario in chiave preventiva renda sempre meno necessario periodiche campagne di sensibilizzazione al problema prevenzione.

3.3.1.“La cartella infermieristica”

In area nursing lo strumento principale di raccolta delle informazioni è rappresentato dalla cartella infermieristica: essa può essere definita come strumento di informazione e documentazione del processo di assistenza infermieristica, attivata nei confronti del soggetto portatore di bisogni infermieristici in termini di raccolta di informazioni e impostazione delle azioni infermieristiche a scopo diagnostico, di formalizzazione delle prestazioni effettuate al soggetto e di valutazione dei risultati ottenuti.

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L’utilità dell’utilizzo della cartella clinica è testimoniata dalla sua costante crescita e diffusione.

Mediante la cartella infermieristica ci si propone di fornire una integrale documentazione dell’intero processo di assistenza infermieristica, non solo per quanto riguarda l’attività infermieristica di supporto alla diagnosi e alla terapia medica, ma soprattutto in ambito di descrizione delle prestazioni infermieristiche, prescritte in relazione a problemi di salute di competenza infermieristica.

Con lo scopo di informatizzare la cartella infermieristica, al fine di uniformare la raccolta dei dati, risulta fondamentale standardizzare la raccolta delle informazioni e il linguaggio con cui le stesse vengono tradotte in forma descrittiva.

Le più grandi società scientifiche infermieristiche internazionali hanno predisposto linee guida per la classificazione dei principali aspetti dell’assistenza infermieristica (data set minimo) definiti in:

classificazione dei problemi di salute (di competenza infermieristica) della persona assistita,

pianificazione delle attività da realizzare in equipe infermieristica per la risoluzione dei problemi individuati,

classificazione e registrazione delle attività effettuate, verifica dei risultati dell’attività infermieristica (verifica dello stato

di salute e dello stato di soddisfazione dei problemi individuati, dopo l’intervento infermieristico).

In particolare l’ICNP – International Classification of Nursing Practice definisce la classificazione internazionale delle prestazioni infermieristiche, il NANDA – North American Nursing Diagnosis Association classifica le diagnosi infermieristiche, il NIC – Nursing Intervention Clsssification e il NOC – Nursing Outcome Classification classificano gli interventi ed i risultati dell’attività infermieristica.

I sistemi di classificazione delle diagnosi, degli interventi e dei risultati dell’assistenza infermieristica permettono quindi di documentare in forma codificata i principali elementi del processo di cura infermieristico.

Negli ultimi anni, con lo sviluppo del processo di aziendalizzazione delle strutture sanitarie, la cartella infermieristica, in aggiunta all’originaria

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e fondamentale funzione di supporto informativo dell’attività clinica, diventa fonte di verifica per gli obiettivi aziendali in materia di gestione (approvvigionamento, controllo dei costi), di organizzazione del servizio (pianificazione, carichi di lavoro), di verifica della qualità delle prestazioni erogate (grado di soddisfazione dell’utente e verifica del percorso infermieristico), nonché di ricerca scientifica.

3.4. DATI IN LETTERATURA

In alcune esperienze di intervento sui fattori di rischio, gestite da personale infermieristico, nell’ambito di protocolli standardizzati si è verificato un miglior rapporto costo-effìcacia nell’intervento mediato dagli infermieri, rispetto ai programmi che prevedevano l’intervento dei medici. L’intervento sul fumo eseguito dagli infermieri mediante la consegna di opuscoli informativi ha evidenziato il miglior costo-efficacia rispetto a tutti gli altri interventi di cura e prevenzione della cardiopatia ischemica. Ciò è dovuto ai salari più bassi degli infermieri e a una maggiore efficacia di alcuni sistemi che prevedono rinforzi telefonici e postali effettuati dagli infermieri, piuttosto che le visite personali del medico.

Nel 1990 Taylor et al., della Stanford University, hanno pubblicato i risultati di un intervento eseguito dagli infermieri professionali, mirato all’astensione dal fumo in un gruppo di 173 pazienti reduci da un IMA. I pazienti randomizzati al gruppo trattati ricevevano informazioni specifiche sui rischi connessi al fumo sin dalla fase di ricovero e successivamente venivano eseguiti dei rinforzi telefonici delle informazioni ricevute. Agli altri venivano fomite le abituali generiche informazioni sulla necessità di abolire il fumo. Nel gruppo trattati si è osservata una riduzione del 29% di fumatori rispetto al gruppo controllo.

In una Cochrane review su 29 studi che hanno analizzato i risultati di un intervento infermieristico sulle abitudini al fumo si è osservata un potenziale beneficio, maggiore nei pazienti cardiopatici rispetto ad altri pazienti, senza sostanziali differenze tra i pazienti ricoverati rispetto ai non ricoverati.

In uno studio effettuato in pazienti ricoverati per un infarto del miocardio, con il controllo sistematico della dieta ottimale e

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dell’assunzione delle terapie suggerite, si è constatata una riduzione fino a 107 mg/dl del colesterolo LDL, che è vicino al valore stabilito (100 mg/dl), per la regressione di lesioni aterosclerotiche e una riduzione di eventi clinici (Dalal). In uno studio più recente di Allen un programma di intervento affidato a personale infermieristico ha consentito di ridurre del 65% vs il 35% i valori di colesterolemia in un gruppo di pazienti reduci da un bypass aortocoronarico. Questo intervento ha determinato inoltre un incremento dell’attività fisica ed una più corretta alimentazione.

Analoghi risultati si sono osservati nello studio di Campbell , in cui l’intervento sistematico del personale infermieristico ha consentito di ridurre il profilo di rischio in 1173 pazienti in prevenzione secondaria. In particolare si è osservata una riduzione dei valori pressori, una riduzione dei valori lipidici, un incremento dell’attività fisica, un miglioramento dell’approccio dietetico e una migliore gestione della terapia con aspirina. Non si sono invece registrati significativi modifiche dell’abitudine al fumo.

In un gruppo di pazienti affetti da ipercolesterolemia di tipo II, alcuni dei quali con precedenti ischemici documentati, Blair, et al hanno documentato una riduzione dell’ipercolesterolemia dal 19 al 25%, a seconda se i pazienti venivano trattati con la sola dieta o con l’aggiunta di terapie.

Il programma era gestito da un infermiere professionale sotto la supervisione di un cardiologo, nell’ambito di un protocollo standardizzato.

Nel 1978 Schnaper aveva riportato i dati di un intervento effettuato da personale infermieristico in pazienti affetti da ipertensione arteriosa. L’intervento si era dimostrato efficace in oltre l’85% dei casi.

Nel trial COACH, di recente pubblicato sono stati analizzati i risultati di uno studio condotto da dietisti ai fini della riduzione dei valori di colesterolo, del miglioramento del profilo di rischio globale e della qualità di vita. L’intervento basato su raccomandazioni precise all’atto della dimissione e successivi rinforzi telefonici e per posta elettronica ha consentito di ridurre significativamente i valori di colesterolo e di migliorare il profilo di rischio e la qualità di vita rispetto al gruppo affidato all’usual care.

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3.5. RIFERIMENTI NORMATIVI A riconoscere ufficialmente il ruolo dell’infermiere professionale nella

prevenzione ha contribuito il decreto ministeriale n. 739 del 14 settembre 1994 che gli attribuisce specifiche competenze:

“L’assistenza infermieristica preventiva, curativa, palliativa e riabilitativa è di natura tecnica, relazionale, educativa. Le principali funzioni sono la prevenzione delle malattie, l’assistenza dei malati e dei disabili di tutte le età e l’educazione sanitaria”.

Il nuovo profilo definisce alcuni principi fondamentali: l’assistenza infermieristica è un campo specifico di intervento

nell’ambito dell’assistenza sanitaria; la prevenzione, l’assistenza e l’educazione sanitaria sono funzioni

proprie dell’infermiere, da svolgere in stretta collaborazione con il medico e con altri operatori;

l’infermiere è un professionista con specifici campi di intervento, autonomia e responsabilità professionale;

è necessario prevedere dei corsi di formazione e aggiornamento professionale per fornire agli infermieri professionali specifiche competenze.

Inoltre il codice deontologico afferma che l’infermiere promuove la salute del singolo e della collettività, operando contemporaneamente per la prevenzione, la cura e la riabilitazione.

3.6. LA FORMAZIONE DEGLI INFERMIERI PROFESSIONALI IN

CAMPO PREVENTIVO Al di là delle esperienze descritte, spesso dovute all’interesse dei

singoli, si riscontra una scarsa preparazione specifica degli infermieri professionali nel campo della prevenzione: i programmi di formazione sono carenti e, d’altra parte, non vi sono ancora riconoscimenti in termini di rimborsi e incentivi per coloro che seguono corsi di addestramento specifici da seguire dopo il diploma. Le stesse associazioni infermieristiche non hanno ancora definito regole e linee-guida per l’intervento sui fattori di rischio da parte degli infermieri. Alcune società scientifiche, tra cui l’ANMCO, hanno cercato di colmare queste lacune, organizzando corsi di

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aggiornamento allo scopo di formare competenze specifiche in campo preventivo in grado di fornire un “prodotto” adeguato alle esigenze del paziente.

In conclusione, per espletare a pieno titolo un ruolo efficace nel campo della prevenzione, l’infermiere professionale deve:

1. acquisire conoscenze e competenze specifiche nel campo della prevenzione delle malattie cardiovascolari, dall’epidemiologia ai risultati dei grandi trial di intervento;

2. sviluppare capacità di comunicazione, attitudine al colloquio con i pazienti e i loro familiari, sensibilità nel trovare le parole giuste per informare sulle cause della malattia, il suo decorso, le terapie intraprese, adeguandosi al livello culturale del paziente, imparare ad ascoltare i pazienti e le loro richieste: molto spesso è più efficace far parlare piuttosto che parlare;

3. avere dimestichezza con l’uso del computer, in particolare con sistemi informatizzati di archivio, gestione ed elaborazione dati.

Nella tabella 3 della prossima pagina vi è riportato un possibile schema

d’intervento che gli infermieri possono mettere in atto sui principali fattori di rischio.

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Vorrei aggiungere inoltre, prima di terminare il presente capitolo, una

domanda in riferimento al programma di incontri di educazione sanitaria

organizzati dalla Cardiologia Riabilitativa di Rimini riportato nella

seguente pagina, che rivolgo a tutti gli infermieri di CR: “E perché non

lezioni tenute dagli infermieri?”

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CAPITOLO 4

LA TEORIA DELL’ AUTOEFFICACIA E LA SUA APPLICAZIONE AL NURSING IN CR

Come abbiamo visto nel capitolo due l’aderenza è il più importante fattore modificabile che compromette gli outcome dei trattamenti. Il miglior programma terapeutico può diventare inefficace se l’aderenza è scarsa.

La scienza comportamentale offre utili teorie, modelli e strategie che migliorano l’approccio delle cure. L’efficacia degli interventi basati sui principi comportamentali sull’aderenza è stata dimostrata in molte aree terapeutiche. Alcuni esempi includono: ipertensione, cancro, trapianto cardiaco, asma, diabete, colesterolo alto, ecc.

Decine di anni di ricerche e pratica sul comportamento hanno prodotto strategie che si sono dimostrate efficaci nel cambiare il comportamento delle persone.

Come viene sottolineato dalle linee guida di CR e da quelle per le attività di psicologia in CR, queste strategie possono essere utilizzate per aiutare i pazienti con malattie coronariche, e possono essere efficaci anche per cambiare il comportamento dei professionisti sanitari compresi gli infermieri.

Come sottolineato nel terzo capitolo, ogni professionista sanitario, infatti, dovrebbe conoscere le basi dei meccanismi comportamentali che spiegano l’aderenza. Ciò è tanto più vero in un reparto di CR, dove il segreto per ottenere outcome di successo stà in un team di professionisti specializzati.

Una delle più rilevanti di queste teorie, che però viene ancora sotto-utilizzata è il costrutto di AUTOEFFICACIA (Self-efficacy) di Bandura Albert, che sembra essere una variabile correlata all’aderenza a stili di vita sani e uno dei più affidabili predittori di outcome.

Il ruolo dell’autoefficacia viene sempre più riconosciuto nel determinare specifici comportamenti rilevanti per la salute. Le Linee-guida di CR

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affermano che “la teoria della Self-efficacy ha un elevato potenziale nel favorire il cambiamento comportamentale in CR. Per incoraggiare l’avvio e il mantenimento di un determinato stile di vita, si dovrebbe agire sull’incremento della Self-efficacy”. 8

Mi è sembrato quindi opportuno includere nella presente tesi un capitolo dedicato all’approfondimento della teoria della Self-efficacy per comprenderne i principi basilari e quindi vedere come questi possano rivelarsi utili nella pratica infermieristica.

Secondo alcuni studi condotti in Inghilterra, questa teoria, infatti, può migliorare sia le abilità comunicative degli infermieri che costituire parte integrante di un modello teorico per l’approccio individuale in CR.

Alla fine del capitolo includo una breve esperienza della CR di Rimini sull’utilizzo della Scala Generalizzata di Self- Efficacy, con le relative valutazioni dei dati e dei risultati ottenuti.

Ma che cos’è il costrutto di autoefficacia e come può relazionarsi alle malattie cardiovascolari ?

4.1. LA TEORIA DELL’AUTOEFFICACIA

Albert Bandura è una personalità nota in tutto il mondo per i suoi studi sull’apprendimento imitativo e per essere, tra i padri fondatori della psicologia cognitiva, quello che più ne ha esteso la portata in ambito educativo e psicoterapeutico.

Bandura ha individuato e concettualizzato per primo, gia nel 1977 la dimensione psicologica dell’AUTOEFFICACIA in un suo storico articolo sulla “ Psycological Review “.

8 Giannuzzi P, et al, 2005, “Linee-guida nazionali su cardiologia riabilitativa e prevenzione secondaria delle malattie cardiovascolari”.

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Albert Bandura

Le persone si sono sempre sforzate di controllare gli eventi che condizionano la loro vita. Esercitando la propria influenza su ciò che possono controllare sono maggiormente in grado di realizzare gli scenari futuri desiderati. L’incentivo ad agire è maggiore se credono che il controllo sia possibile, che le loro azioni saranno efficaci.

Il concetto di autoefficacia in generale si riferisce alla “convinzione

nelle proprie capacità di organizzare e realizzare il corso di azioni necessario a gestire adeguatamente le situazioni che incontreremo in modo da raggiungere i risultati prefissati. Questa dimensione della personalità permette di migliorare l’autocontrollo nell’azione intenzionale, in particolare nei processi di apprendimento e studio, di gestione dello stress e nella modificazione di comportamenti rilevanti per la salute.

Le convinzioni di autoefficacia influenzano il modo in cui le persone pensano, si sentono, trovano le motivazioni personali e agiscono”.9

4.1.1 Processi attivati dal senso di autoefficacia Bandura dice che le convinzioni di autoefficacia regolano il

funzionamento umano di quattro processi principali: si tratta dei processi cognitivi, motivazionali, affettivi e di scelta. Nella modulazione continua del funzionamento umano questi processi si verificano normalmente in modo integrato, piuttosto che isolatamente.

PROCESSI COGNITIVI L’autoefficacia ha effetti sui processi cognitivi, cioè su quei processi

che permettono alla persona di porsi degli obbiettivi e di pianificarne

9 Bandura A. “ Il senso di autoefficacia: aspettative su di sé e azione”, 1996, Trento, Erickson

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mentalmente le linee d’azione e gli strumenti più efficaci per raggiungerli (capacità di problem- solving ). La scelta degli obbiettivi personali viene a sua volta influenzata dalla stima soggettiva delle proprie capacità: quanto maggiore è l’autoefficacia percepita, tanto più elevati sono gli obbiettivi che le persone si pongono e l’impegno che dedicano al loro raggiungimento.

Chi possiede un alto senso di autoefficacia è più facile che abbia la capacità di prospettare alternative di azione a lungo termine, pensare in modo sano, porsi d’avanti a sfide difficili e impegnarsi con decisione a fronteggiare quelle sfide. Guidano e sostengono le loro azioni visualizzando risultati di successo per i loro sforzi, viceversa coloro che hanno un basso livello di autoefficacia si trovano ad essere in preda a dubbi su se stessi e immaginano in modo selettivo tutto quello che potrà andare storto.

PROCESSI MOTIVAZIONALI Le persone motivano se stesse e dirigono le proprie azioni

anticipatamente attraverso la formulazione di previsioni. Si formano delle convinzioni riguardo a quello che sanno fare, anticipano i risultati probabili di azioni future, si pongono degli obbiettivi e pianificano il corso di azioni. Infine mobilitano le risorse disponibili e la quantità di impegno necessario per riuscire. Le convinzioni di autoefficacia contribuiscono alla motivazione in molti modi. Esse determinano gli obbiettivi che le persone si pongono, la quantità di impegno che attivano, quanto a lungo perseverano di fronte alle difficoltà e l’entità delle capacità di recupero in seguito agli insuccessi. Le persone che mancano di fiducia nelle proprie capacità, quando incontrano ostacoli o insuccessi, riducono l’impegno o rinunciano velocemente. Chi invece ha una salda convinzione nei propri mezzi, se non riesce a superare una difficoltà, si impegna maggiormente.

PROCESSI AFFETTIVI La convinzione delle persone nelle proprie capacità di gestione efficace

determina, oltre al loro livello di motivazione, anche la quantità di tensione

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e depressione che provano in situazioni pericolose o difficili, la convinzione di autoefficacia regola lo stato emozionale in molti modi : 1) chi ritiene di saper esercitare un controllo sui potenziali pericoli non si

crea pensieri angoscianti su di essi. Viceversa, le persone con poco senso di autoefficacia considerano i pericoli potenziali come inaffrontabili, indugiano a considerare i propri limiti, tendono a ingrandire la gravità dei pericoli possibili e temono eventualità che raramente si verificano. Si tormentano con questo modo di pensare problematico e così facendo danneggiano il proprio livello di funzionalità.

2) coloro che hanno un forte senso di autoefficacia modulano lo stress e l’ansia promuovendo modalità di comportamento in grado di modificare l’ambiente facendolo diventare, da minaccioso, sicuro.

3) le persone con un alta capacità di coping esercitano un controllo migliore sulle ruminazioni mentali e i pensieri disturbanti che sono fonte di ansia e depressione. L’esercizio del controllo sulla propria attività cosciente è ben descritto

dal proverbio :“ Non puoi evitare che gli uccelli dell’inquietudine arrivino e volino attorno al tuo capo, ma puoi impedire loro di costruirti un nido fra i capelli.” Gli studi dimostrano che la maggior fonte di stress non è costituita dalla frequenza dei pensieri disturbanti, ma dalla percezione della propria incapacità di interromperli (Kent e Gibson, 1987; Salkovski e Harrison, 1984).

Coloro che hanno un forte senso di autoefficacia sono in grado di ribellarsi, distogliere la loro mente dai pensieri negativi, di calmarsi e di cercare supporto dagli amici,dalla famiglia o da altri.

Per colui che è fiducioso di ricevere sollievo in questo modo, l’ansietà e la tristezza diventano più facili da sopportare.

Inoltre, un basso senso di autoefficacia nelle proprie capacità di esercitare un controllo alimenta, oltre all’ansia, anche la depressione in almeno tre modi:

a) una strada che conduce alla depressione passa attraverso l’incapacità di controllare il pensiero. Una persona che si sente incapace di evitare i pensieri depressivi ricorrenti dall’effetto demoralizzante o di

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rigettare le ruminazioni mentali negative è più soggetto alla comparsa di ripetuti episodi di depressione, Quanto più debole è l’efficacia percepita nell’interrompere le ruminazioni mentali, tanto maggiore risulta la depressione.

b) un basso senso di autoefficacia circa la capacità di procurarsi ciò che nella vita conduce alla soddisfazione di sé e alla sensazione di valore personale dà luogo alla depressione, e l’umore depresso a sua volta, diminuisce la fiducia nella propria efficacia personale, in un circolo vizioso che porta a una demoralizzazione sempre maggiore.

c) coloro che anno un basso senso di autoefficacia non riescono a sviluppare relazioni sociali soddisfacenti che ammortizzano gli effetti dannosi dello stress cronico. Perciò un basso senso di autoefficacia circa la capacità di sviluppare relazioni soddisfacenti e di sostegno contribuisce alla depressione sia direttamente sia limitando il sostegno sociale. Viceversa coloro che hanno un alto senso di autoefficacia traggono sostegno dagli altri in diversi modi, il chè rinforza la loro capacità di coping. Gli altri ci forniscono incentivi e risorse utili per una gestione efficace, fungono da modello per gli altri nel mostrare modi efficaci per affrontare situazioni difficili, dimostrando il valore dell’impegno costante.

PROCESSI DI SCELTA Le persone che credono nella loro efficacia scelgono prontamente

attività stimolanti e ambienti che giudicano alla propria portata . Attraverso le scelte che compiono, le persone coltivano diversi tipi di competenze, interessi e relazioni sociali che determinano il loro corso esistenziale. Qualsiasi fattore che influenzi il comportamento di scelta può influenzare profondamente la direzione dello sviluppo personale.

Gli studi mostrano che essi prendono in considerazione diverse possibilità di carriera, mostrano un maggiore interesse in esse, si preparano meglio per le differenti carriere e perseverano maggiormente nel perseguire degli obbiettivi che hanno scelto.

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4.1.2. Il valore adattativo di convinzioni di autoefficacia ottimistiche La realizzazione e il benessere psicologico richiedono un senso di

efficacia personale ottimistico. In un mondo pieno di difficoltà, ostacoli, avversità, momenti di regressione, frustrazioni e ingiustizie, le persone con un robusto senso di efficacia personale hanno più probabilità di mantenere l’impegno necessario a riuscire. Ad alcuni questo tipo di persone possono sembrare irrealiste, ma le persone troppo realiste molto spesso o gettano la spugna, o interrompono il proprio impegno prematuramente oppure diventano pessimiste riguardo alla possibilità effettiva di modificare significativamente lo stato delle cose.

Un senso di autoefficacia ottimistico contribuisce oltre che a un buon livello di prestazione, al benessere psicologico. Questa tendenza, piuttosto che costituire un errore cognitivo o un difetto del carattere da correggere ha degli effetti benefici.

Per riassumere, le persone che hanno un basso senso di efficacia relativamente a determinati ambiti di azione:

- Si allontanano intimidite dalle attività “difficili” e le considerano come minacce personali.

- Hanno basse aspirazioni e investono uno scarso impegno nel raggiungimento degli obbiettivi che scelgono per se stesse.

- Di fronte a compiti difficili , indugiano a considerare le proprie carenze personali, gli ostacoli che incontreranno e tutte le conseguenze avverse possibili piuttosto che concentrarsi su cosa fare per riuscire.

- Riducono il proprio impegno e rinunciano facilmente trovandosi di fronte a difficoltà.

- Sono lente nel recuperare il loro senso di efficacia in seguito a insuccessi e regressioni.

- Siccome attribuiscono le prestazioni scadenti alla mancanza di capacità e doti loro personali, non hanno bisogno di molti insuccessi per perdere la fiducia nelle proprie capacità.

- Sono facili prede dello stress e della depressione.

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Viceversa un forte senso efficacia favorisce il successo e il benessere in molti modi. Le persone piuttosto sicure delle proprie capacità in determinati ambiti :

- Affrontano i compiti difficili come sfide da vincere piuttosto che come pericoli da evitare e tale atteggiamento costruttivo favorisce la motivazione intrinseca e una profonda partecipazione in ciò che si fa.

- Si pongono obbiettivi ambiziosi e restano fortemente impegnate nel loro raggiungimento.

- Di fronte alle difficoltà intensificano il proprio impegno e lo mantengono costante.

- Recuperano velocemente il proprio senso di efficacia in seguito a insuccessi o regressioni.

- Attribuiscono l’insuccesso a un impegno insufficiente o a una mancanza di conoscenze o di abilità che possono comunque essere acquisite.

- Affrontano le situazioni minacciose con la sicurezza di poter esercitare un controllo su di esse.

- Un atteggiamento efficace procura successi personali, riduce lo stress e limita la vulnerabilità alla depressione.

Gli interventi psicologici funzionano meglio quando prevedono non semplicemente specifici rimedi per particolari problemi , ma gli strumenti per gestire efficacemente ogni tipo di situazione che si può creare.

I trattamenti dovrebbero equipaggiare le persone affinchè siano in grado di controllare gli eventi della loro vita e cominciare un processo di cambiamento autoregolato guidato da un elastico senso di efficacia personale. Ci sono quattro modi principali per ottenere ciò:

1) Le esperienze di gestione efficace Cioè quelle in cui una persona affronta effettivamente con successo una

determinata situazione, costituiscono la fonte più proficua per acquisire un forte senso di efficacia.

L’acquisizione di un solido senso di efficacia richiede il superamento di ostacoli per cui è necessaria la perseveranza nell’impegno. Se le persone sperimentano solo facili successi, in seguito tenderanno ad aspettarsi risultati rapidi e si scoraggeranno facilmente di fronte agli insuccessi.

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2) L’esperienza vicaria L’ “esperienza vicaria” è fornita dall’osservazione di modelli. Il fatto di

vedere persone simili a sé che raggiungono i propri obbiettivi attraverso l’impegno e l’azione personale incrementa nell’osservatore la convinzione di possedere anch’egli le capacità necessarie a riuscire in situazioni analoghe.

3) La persuasione La persuasione è il terzo mezzo capace di consolidare la convinzione

delle persone di essere in possesso di ciò che occorre loro per riuscire. Le persone che sono state convinte verbalmente di essere in possesso delle capacità necessarie per compiere efficacemente determinate attività hanno più probabilità di attivare un impegno maggiore e più prolungato di quante non ne avrebbero se nutrissero dubbi su di sé e restassero passive quando sorgessero dei problemi.

Chi è abile a migliorare il senso di efficacia non si limita a comunicare valutazioni positive. Oltre ad accrescere la fiducia delle persone nelle proprie capacità, predispone le situazioni in modo tale che consentano loro di riuscire ad avere successi e fa in modo che non si cimentino prematuramente in situazioni che hanno buone probabilità di condurre a frequenti insuccessi. Incoraggia inoltre, a misurare i propri risultati in termini di miglioramento personale piuttosto che di confronto competitivo con gli altri.

4) Stati emotivi e fisiologici Nel valutare le proprie capacità le persone si basano anche sugli stati

emotivi e fisiologici. Spesso, le reazioni di stress e la tensione vengono interpretati come

segnali che fanno presagire cattive prestazioni. Nelle situazioni che richiedono forza e resistenza le persone giudicano la stanchezza, i dolori e le sofferenze come segni di debilitazione fisica . Anche l’umore entra in gioco: lo stato d’animo positivo aumenta il senso di autoefficacia e quello negativo diminuisce. La quarta strategia capace di modificare le convinzioni di efficacia consiste dunque nel migliorare le condizioni

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fisiche, nel ridurre le propensioni allo stress e a emozioni negative e nel correggere le interpretazioni scorrette delle condizioni corporee.10

4.2. L’AUTOEFFICACIA COME FATTORE DI PROMOZIONE

DELLA SALUTE Il concetto di self-efficacy ha suscitato notevole interesse negli ultimi

anni ed è stato incluso nella maggior parte delle teorie dei comportamenti rilevanti per la salute. L’autoefficacia può rivestire un ruolo determinante per la salute umana almeno a due livelli.

A livello più basilare, la fiducia nelle proprie capacità di fronteggiare le fonti di stress, riduce le reazioni biologiche che possono danneggiare il sistema immunitario.

Il secondo livello riguarda invece l’esercizio del controllo diretto sugli aspetti del comportamento modificabili, e in particolare i comportamenti rilevanti per la salute. La convinzione di autoefficacia determina in modo preponderante se la persona prende in considerazione la possibilità di cambiare il proprio stile di vita e se avrà successo nel fare i cambiamenti e nel mantenerli a lungo termine. La percezione di autoefficacia inoltre aiuta a prevenire il peggioramento delle condizioni di salute nelle persone in cui è già presente una o più patologie.

4.3. LA TEORIA DELL’AUTOEFFICACIA DI BANDURA :

UNA GUIDA PER LA PRATICA INFERMIERISTICA NELLA RIABILITAZIONE CARDIOLOGICA

Sarò in grado di svolgere attività pesanti?… Di ritornare al lavoro? …Di controllare i sintomi di dolore toracico?…Riprendere l’attività sessuale?

Questi tipi di domande riflettono le preoccupazioni, le ansietà concrete di molti pazienti che hanno avuto un attacco cardiaco o altri gravi eventi coronarici.

Per aiutare i pazienti a trarre i maggiori benefici dai programmi di riabilitazione cardiologica, il personale infermieristico deve assisterli per

10 Bandura A. “ Il senso di autoefficacia: aspettative su di sé e azione”, 1996, Trento, Erickson

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modificare le abitudini di vita non salutari (es. fumo, alcool, sedentarietà, dieta ricca di grassi).

La CR si è sviluppata nel corso degli anni in gran parte come un servizio multidimensionale volto ad aiutare i pazienti a riprendere e a mantenere nel tempo una qualità di vita più normale possibile.

Piuttosto che solo esercizio fisico, i programmi di CR attuali comprendono interventi che mirano anche al counseling psicosociale, alla modificabilità dei fattori di rischio cardiovascolari e allo stile di vita. Fin’ora sono stati condotti numerosi studi per valutare gli effetti positivi di questi programmi di CR. Come risultato, la CR ha ottenuto ampio riconoscimento e sostegno come un importante componente del piano di cura per i pazienti con malattie cardiovascolari.

Per la maggior parte, gli effetti della CR sono stati documentati in termini di capacità funzionali, caratteristiche cliniche o di comportamento, benessere psicosociale, stato di salute soggettivo o ritorno al lavoro.

L’autoefficacia come strumento di misura dei risultati ha ricevuto invece fin’ora una attenzione considerevolmente minore. “La teoria di Bandura sull’autoefficacia costituisce, invece, un appropriato modello per la CR in quanto fornisce una guida sistematica, un metodo che consente al personale infermieristico di interpretare, modificare e prevedere i comportamenti dei pazienti“.11

L’autoefficacia è un importante misura di risultato nella CR da almeno due punti di vista:

1°_ In riferimento al valore predittivo dell’autoefficacia riguardo ai comportamenti di salute e ai risultati. Secondo la teoria della Self-efficacy di Bandura, le decisioni che prendono le persone circa se intraprendere o no una serie di azioni e per quanto tempo perseguirle dipendono in larga misura dal loro senso di autoefficacia.

Ci sono ormai evidenti prove a conferma che l’autoefficacia percepita predice coerentemente i conseguenti risultati di salute (es. fumo, gestione del dolore, esercizio fisico,ecc.).

11 Bandura A. “ Il senso di autoefficacia: aspettative su di sé e azione”, 1996, Trento, Erickson

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Il valore predittivo della Self-efficacy è stato dimostrato anche nel campo della ripresa degli eventi coronarici. Le valutazioni di Self-efficacy hanno dimostrato di essere predittori migliori di ritorno al lavoro, stato funzionale, aderenza terapeutica rispetto a altri parametri quali l’età, il sesso, la condizione medica.

Ewart et al hanno dimostrato che cambiamenti nei punteggi di Jogging Self-efficacy ottenuti immediatamente dopo una prova da sforzo predicevano cambiamenti nei loro livelli di attività di vita quotidiana in modo migliore rispetto al picco di FC e al livello massimo di energia consumata durante il test fisico. Infine un elevato senso di autoefficacia si è dimostrato un predittore di overexertion, cioè il paziente tende a fare troppo esercizio rispetto al programma di esercizio fisico prescritto. Ciò suggerisce che i valori di autoefficacia costituiscono degli importanti predittori di grado di compliance alle linee guida dell’esercizio fisico. Quindi, cambiamenti di percezione di autoefficacia o cambiamenti di comportamento con effetti benefici per il paziente e, come tali, questi sono importanti risultati nella RC.

2°_ La seconda prospettiva a supporto della necessità di includere la Self-efficacy come misura di risultato è che, in realtà la maggior parte dei programmi riabilitativi impiegano già delle strategie per aumentare la Self-efficacy dei pazienti il chè richiede una conseguente valutazione dei suoi effetti. Basandosi sulla vasta letteratura che riguarda i pazienti con malattie coronariche, i ricercatori hanno descritto come gli infermieri e gli altri componenti del team medico della CR possono utilizzare la teoria della Self-efficacy per raggiungere determinati obiettivi di riabilitazione.

Jeng and Braun suggeriscono chiaramente che la teoria della Self-efficacy potrebbe addirittura costituire la struttura teorica dei programmi di CR.

Similmente, Ewart afferma che le quattro fonti di informazione di Self-efficacy, sono componenti chiave di ogni buon programma di CR e possono costituire la fonte di beneficio più importante che il programma possa prevedere.

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4.4. L’IMPORTANZA DI STRUTTURARE UNA CORRETTA

COMUNICAZIONE DURANTE IL PROGRAMMA RIABILITATIVO

In Inghilterra le Linee guida sulla CR fin dal 1995 hanno sottolineato la necessità che il programma di training fisico fosse integrato da un adeguato supporto educazionale e psicosociale, tuttavia ancor oggi le aspettative dei pazienti nei confronti del ciclo riabilitativo spesso non sono testate e la preparazione a questo scopo del personale infermieristico non è adeguata.

L’enfasi data al bisogno di individualizzare le cure nasce dall’asserzione che le azioni dei pazienti sono determinate dalle loro credenze e aspettative, alcune delle quali sono persistenti e altre si formano attraverso ciò che viene detto e fatto durante il loro interagire con il personale sanitario.

Le ricerche fatte inoltre indicano che i primi interventi da parte dei professionisti sanitari possono influenzare positivamente le aspettative dei pazienti e avere così un effetto determinante su questioni quali il senso di controllo e la ripresa delle funzioni fisiche, che conducono a risultati positivi per la salute dei pazienti. Per far si che il personale infermieristico sia in grado di modificare o accrescere le aspettative dei pazienti al fine di mantenere o migliorare l’abilità di coping dei pazienti dopo un evento cardiaco, le ricerche sollecitano affinchè il supporto psicologico in CR venga rafforzato attraverso un maggior sviluppo delle abilità comunicative degli infermieri di riabilitazione, dal momento che finora la loro formazione didattica non dà sufficiente enfasi sotto questo aspetto.12

4.4.1. Teoria delle aspettative di autoefficacia Bandura distingue tra due tipi di aspettative: “outcome expectancy” e

“self-efficacy”. Outcome expectancy si riferisce alla percezione delle possibili

conseguenze delle proprie azioni che un determinato comportamento

12 Lau- Walker M, 2004, “Cardiac rehabilitation: the importance of patient expectations- a practitioner survey”, Journal of Clinical Nursing,13:177-184

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porterà a un particolare risultato. Il secondo tipo di aspettativa, aspettativa di autoefficacia ( self-efficacy expectancy ), riflette il grado di fiducia che una persona ha di poter mettere in pratica con successo il comportamento richiesto per produrre un determinatorisultato.

La percezione di autoefficacia, secondo la teoria di Bandura, non si riferisce al grado di abilità che una persona possiede, ma alla convinzione circa ciò che può fare in determinate circostanze con qualsiasi tipo di abilità che uno possieda. Quindi, diverse persone con abilità simili, o la stessa persona in diverse circostanze, può agire inadeguatamente, adeguatamente o straordinariamente, a seconda delle variazioni delle sue convinzioni di efficacia personale. I concetti della self-efficacy sono riassunti nella fig. 1 riportata qui di seguito. 13

Figura 1. Adattata dal modello della Self-efficacy di Bandura

13 Chii Jeng, Lynne T. Braun, 1994, “Bandura’s Self- Efficacy Theory: A guide for Cardiac Rehabilitation Nursing Practice”, Journal of Holistic Nursing, 12 (4): 425-436

Aspettativa di risultato

Fonti di informazioni di autoefficacia 1) esperienze di gestione efficace 2) esperienza vicaria 3) la persuasione 4) stati emotivi e fisiologici

comportamento

1)decisione di agire 2) sforzo impiegato 3) perseveranza

Outcome

Aspettativa di autoefficacia

Persona

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Gli interventi psico-educativi basati sulla teoria delle aspettative di efficacia personale, si prefiggono di dare una risposta alla individuale rappresentazione che ogni paziente si fa della propria malattia, e al loro potenziale di recupero psichico e funzionale, e sono particolarmente rilevanti per personalizzare le cure come evidenziato in numerosi studi condotti su diverse condizioni di malattie croniche : al training fisico nella CR (Falko F, Sniehotta et al, 2006), ad una dieta povera di grassi e perdita di peso corporeo (Liou D, 2004; Maureen T et al, 2002), alla teoria antiipertensiva (Rudd P, et al, 2004), ai trattamenti e allo stile di vita raccomandati dopo trapianto cardiaco ( Balestroni G., et al., 2002 ), nell’artrire reumatoide (Brekke M, et al., 2001), nello stroke ( Salbach NM, et al., 2006), nel diabete ( Sturt J, et al., 2006 ), per citarne solo alcuni.

Riguardo all’importanza di tenere in considerazione le aspettative di efficacia dei pazienti nella CR, è molto interessante uno studio condotto da Margaret Lau-Walker presso il personale non medico di 10 ospedali con Cardiologia Riabilitativa nel sud dell’Inghilterra. Essa ha dimostrato l’esigenza di prevedere un Training specifico per gli operatori al fine di renderli esperti nella comunicazione della “Self-efficacy theory”.

Infatti il risultato raggiunto durante il ciclo riabilitativo è strettamente connesso con la consapevolezza, da parte dei pazienti degli obbiettivi proposti e delle modificabilità comportamentali necessarie per raggiungerli. Una corretta comunicazione in questo campo garantisce un significativo miglioramento dell’aderenza ai trattamenti raccomandati e conseguentemente migliori risultati sulla prognosi. Anche Werner F. Buchmann (Werner F, et al, 1997) esaminando le ragioni della non-compliance da parte della popolazione anziana sostiene che si tratta di una questione di Self-efficacy e Power.

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4.5. L’IMPORTANZA DI COINVOLGERE I FAMILIARI NEGLI INTERVENTI PSICO-EDUCATIVI DEI PAZIENTI DI CR

Comunque, mentre il team di CR si sforza di aumentare il senso di autoefficacia dei pazienti, l’osservato livello (magnitude ) di autoefficacia può essere turbato o contrastato da altri fattori che non riguardano il programma delle attività di riabilitazione.

Identificare i possibili fattori che influenzano il senso di autoefficacia dei pazienti durante il percorso di riabilitazione è essenziale per interpretare correttamente i risultati degli interventi di CR e, quindi, utile per apportare dei miglioramenti ai programmi futuri.

Uno di questi fattori, che possono influenzare la self-efficacy del paziente durante il programma di CR, è l’atteggiamento “iperprotettivo” del coniuge. Si è osservato che, dopo un grave evento cardiaco, il coniuge del paziente può diventare invadente, restrittivo, e si mette a fare cose che il paziente potrebbe fare da sé stesso. Berkhuysen et al. nel tentativo di capire come poter migliorare i programmi di CR a conclusione del loro studio hanno evidenziato tre pratici aspetti descritti nella tavola 1 qui sotto.

Tavola 1. Implicazioni pratiche per migliorare i programmi di CR

1) La possibilità di poter sperimentare dei successi nelle attività di vita quotidiana e la partecipazione attiva del paziente durante la riabilitazione cardiologica, sono i fattori più decisivi per aumentare il senso di autoefficacia del paziente, rispetto alla frequenza del training fisico. 2) La sistematica pianificazione delle strategie di incremento dell’autoefficacia del paziente, richiede una valutazione dell’effettiva applicazione delle stesse durante il percorso di CR. 3) Dal momento che la “iperprotettività” può contrastare il rafforzamento della self-efficacy del paziente, il programma di CR dovrebbe includere l’educazione dei familiari. Il counseling, per esempio, potrebbe avere come obbiettivo l’eliminazione dell’atteggiamento “superprotettivo” del coniuge o aiutare la coppia a comprendere il comportamento l’uno dell’altro.

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4.6. UN MODELLO TEORICO PER L’APPROCCIO INDIVIDUALE NELLA CR CHE UNISCE DUE TEORIE: AUTOEFFICACIA E RAPPRESENTAZIONE DI MALATTIA (Illness Perception)

Gli studi indicano che se non si conciliano le aspettative psicologiche individuali dei pazienti allo sviluppo e all’organizzazione dell’assistenza, la comunicazione terapeutica è potenzialmente inefficace e in definitiva non viene provveduta un’appropriata strategia riabilitativa che sostenga il cambiamento degli stili di vita a lungo termine.

Mentre pare che ci sia un consenso generale circa l’importanza di valutare e gestire gli aspetti psicologici dei pazienti, non c’è ancora un accordo sulla specifica teoria o modello concettuale a cui fare riferimento per identificare gli interventi.

Le Linee guida del SIGN 2002 su cui si basano anche quelle italiane propongono agli operatori del settore due modelli teorici :

1. Illness Representation per esplorare le conoscenze e la comprensione dei pazienti riguardo all’evento cardiaco.

2. Self-efficacy per ridurre l’ansia e aumentare le capacità di coping necessarie per seguire un programma di CR .

Nonostante le Linee guida facciano riferimento congiunto dei due modelli concettuali, le ricerche in letteratura sono state condotte separatamente.

Entrambe le teorie riconoscono che i pazienti interpretano gli eventi che accadono loro, formulano risposte e prospettano risultati su una base razionale che è unica per ogni paziente. Perciò, entrambe le teorie tentano di spiegare perché pazienti con condizioni simili differiscono nella loro reazione a tali condizioni , e come i professionisti di CR possono gestire al meglio queste differenze. Nei loro propri termini entrambe le teorie sostengono che è attraverso l’esperienza individuale ( che il professionista può gestire ), piuttosto che la loro personalità ( che il professionista non può cambiare ), che si creano le azioni e i modi di pensare del paziente.

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4.6.1. Relazione tra rappresentazione di malattia (Illness representation) e autoefficacia (Self-Efficacy)

La già citata Margaret Lau-Walker ha condotto uno studio (cross-sectional survey) su pazienti con diagnosi di IMA o angina in due ospedali del sud dell’Inghilterra per esplorare la possibile relazione esistente tra l’Illness model e la Self-efficacy conseguenti a un evento cardiaco e le relative implicazioni infermieristiche.

Nello studio sono state utilizzate quattro scale psicometriche pre-validate (IPQ = Illness Perception Questionnaire, GSES = Generalized Self-Efficacy Scale, CESEI = Cardiac Exsercise Self-Efficacy Instrument) e due disegnate appositamente per lo studio (DOES = Diet Outcome Expectation and EOES = Exercise Outcome Expectation).

I risultati mostrano che c’è una significativa relazione tra le due teorie. In che modo?

Si è notato che c’è una relazione negativa tra la General Self-efficacy e le “conseguenze”, cioè una delle cinque dimensioni dell’Illness perception model di Leventhal che si riferisce al modo in cui un individuo percepisce le possibili conseguenze della malattia in termini di effetti a corto o a lungo termine a livello fisico, sociale, economico ed emotivo. Viceversa, c’è una relazione positiva tra Exercise Diet Self-Efficacy e “tempo” un’altra componente dell’Illness perception che si riferisce alle speranze e aspettative che le persone nutrono circa la durata della malattia, se sarà acuta, cronica, episodica o ciclica.

Quindi, a una maggiore percezione delle conseguenze della malattia cardiaca, corrisponde una minore percezione di self-efficacy generale per far fronte alla propria condizione di salute. Inoltre, più lunga è la percezione del paziente della durata della condizione di malattia, maggiore sarà il grado di self-efficacy specifica per mantenere un cambiamento comportamentale ( regime dietetico ed esercizio fisico ).

Qual’è il valore aggiunto di questi risultati per la pratica infermieristica? Primo : se è vero che gli infermieri devono aiutare i pazienti a superare

lo stress che accompagna la notizia di diagnosi di malattia cardiaca, è importante che comprendano l’interpretazione che il paziente fa delle relative “conseguenze” e che siano consapevoli dei potenziali effetti che i

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nostri interventi educativi, per influenzare o chiarificare l’interpretazione del paziente del suo stato di salute, possono avere sulle sue capacità di coping con la nuova situazione.

Secondo : se, nel primo stadio di trattamento, gli infermieri aiutano il paziente ad accettare la cronicità delle condizioni del loro cuore, c’è più possibilità che la self-efficacy del paziente aumenterà in relazione ad apportare e mantenere cambiamenti nel suo stile di vita e ad aderire al loro programma riabilitativo.

Terzo : come dimostrano anche precedenti ricerche, la percezione di malattia ha più influenza che la severità della malattia stessa.

Gli infermieri devono ricordare che la severità della condizione di salute dei pazienti ha poca relazione con la loro capacità di coping. E’ la loro percezione delle conseguenze e della durata della malattia che influenzano la loro determinazione di apportare degli aggiustamenti nel loro stile di vita, avvalendosi del supporto terapeutico offerto loro dal team riabilitativo.

In conclusione, nella fase iniziale di ricovero, l’intervento infermieristico dovrebbe mettere a fuoco le due variabili “conseguenze” e “tempo” al fine di aumentare la fiducia del paziente nelle sue abilità di coping.

Quindi, mettendo insieme le due teorie, gli infermieri avrebbero più possibilità di fornire interventi personalizzati e strutturati su un modello teorico, come raccomandato dalle Linee guida nazionali e internazionali.

4.7. IL MODELLO DI CURA INTERATTIVO

( The interactive care model ) 14 Il suggerimento secondo cui lo sviluppo di programmi di CR

individualizzati troverebbero beneficio dall’unione delle due teorie esposte precedentemente in un unico modello strutturale, trova la sua applicazione pratica nell’Interactive Care Model proposto dalla stessa Lau-Walker.

Nel suo articolo di studio pubblicato nel 2006 sul British Journal of Health Psychology la Lau-W. descrive due modelli concettuali che

36- 14 . Lau-Walker M, 2006 “A conceptual care model for individualized care approach in cardiac rehabilitation – combining both Illness Representation and Self-efficacy”, British J of Health Psychology , 11:103-117

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rappresentano due modi diversi dei professionisti sanitari di concepire la relazione tra evento cardiaco e paziente. (Vedi figura 1 e 2)

Figura 1. Modello di Cura Attiva

Figura 2. Modello di Cura Interattivo

Il modello ( fig.1 ) chiamato Modello di Cura Attiva mette in evidenza il legame diretto che c’è tra l’evento cardiaco e i risultati.

L’evento porta al risultato con pochi interventi intermedi oltre a quello medico.

In questo modello tutti i possibili interventi mirano principalmente al trattamento di specifici problemi clinici, con un approccio essenzialmente fisiologico, incluso l’intervento educativo. Per esempio, la spiegazione del regime dietetico è più focalizzata sulla riduzione dell’introito di grassi e sulla perdita del peso che sulla valutazione del punto di vista del paziente sull’importanza di questa informazione per la sua malattia (Illness perception), o sullo sviluppo delle sue capacità di aderire a lungo termine al nuovo regime dietetico (self-efficacy). Ciò può portare a una visione fatalistica dei risultati che a sua volta porta alla perdita di Empowerment sia del paziente che del professionista sanitario. Il secondo modello di cura (fig. 2) è chiamato Interattivo.

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Il ciclo che formava il primo modello è presente anche nel modello interattivo, ma questa volta esso costituisce solo una parte di una più larga sequenza di interazioni.

In questo modello la relazione diretta tra l’evento e il risultato è meno dominante, perché il risultato dipende dalle credenze del paziente riguardo all’evento in termini di interpretazione di malattia e di percezione delle proprie capacità di adattare e mantenere nuovi stili di vita.

Nel modello interattivo, le aspettative di risultato (outcome expectation) sono state messe sotto alle percezioni di malattia (Illness perception). Infatti, entrambe rappresentano il punto di vista del paziente riguardo alla propria malattia e ai suoi effetti. A sua volta gli effetti delle credenze del paziente sulla propria malattia, possono predire il senso di autoefficacia (self-efficacy) in riferimento a specifici cambiamenti di comportamento.

Esiste quindi una sequenza cronologica tra le due teorie. Il modello di cura interattivo suggerisce che la Rappresentazione di malattia predice l’autoefficacia. Come conclude la Lau-Walker l’ “Interactive Care Model” costituisce uno spunto per ulteriori ricerche allo scopo di rendere efficaci gli interventi terapeutici di CR.

4.8. LA GENERAL PERCEIVED SELF- EFFICACY SCALE

(GSES) La GSES è una scala psicometrica composta da 10 item, concepita per

misurare le convinzioni di autoefficacia nell’affrontare varie situazioni difficili che si possono presentare nel corso della vita.

La scala è stata originariamente sviluppata in Germania da Matthias Jerusalem e Ralf Schwarzer nel 1981 ed è stata utilizzata in molti studi su decine di migliaia di partecipanti.

A differenza di altre scale progettate per misurare l’ottimismo, la GSES si riferisce specificatamente alla “agentività” umana, cioè la fiducia che una persona ha che le proprie azioni porteranno ai risultati desiderati.

Da allora, molti paesi hanno adattato la versione tedesca della GSES nella propria lingua.

Una delle diverse versioni adattate in italiano è quella riportata in allegato1.

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4.8.1 Studio sulla relazione tra GSES e aderenza su un gruppo di

pazienti di CR riminesi INTRODUZIONE

Nel 2002 una versione adattata in italiano di GSES è stata utilizzata all’interno dello studio GOSPEL che come afferma il GICR, è “stato il primo studio, e finora l’unico, con un’importante casistica (3241 pazienti arruolati) che ha testato l’efficacia di un follow-up “intensivo” dopo un ciclo di riabilitazione cardiologica in pazienti sopravvissuti ad un infarto miocardio”.

A questo studio ha partecipato anche l’unità di CR dell’ospedale di Rimini. Dal momento che, tra i fattori che possono incidere sull’aderenza ai trattamenti e su uno stile di vita privo di comportamenti a rischio, Schwarzer e Fuchs hanno dimostrato il valore predittivo dell’autoefficacia, con la gentile collaborazione della Psicologa Girolomini Silvana e del Cardiologo Semprini Pierluigi, abbiamo raccolto i dati dei pazienti che avevano compilato la GSES nel 2002 per vedere, a distanza di quattro anni, cioè a un anno dalla fine dello studio di follow up (2005), l’eventuale relazione tra la GSES e l’aderenza dei pazienti.

La nostra ipotesi è che pazienti con maggiore autoefficacia presentino nel tempo una migliore aderenza al trattamento. Ci siamo soffermati come variabili di riferimento dell’aderenza, su quattro parametri che può rilevare anche l’infermiere:

(1) presenza alle visite di controllo dal 2005 al 2006 (2) aderenza alla terapia farmacologica (3) controllo/mantenimento del peso ideale (4) controllo dei valori pressori (<140/90); alle visite di controllo è stato

chiesto anche il valore medio di PA misurato a domicilio.

METODO Casistica: sono stati valutati 35 pazienti con malattia coronarica cronica

tutti residenti nella provincia di Rimini.

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Le caratteristiche socio-demografiche dei pazienti sono riportate nella tabella 1.

Tabella 1. Caratteristiche socio-anagrafiche dei pz coronaropatici Range di età

Sesso (M/F)

Titolo di studio:

Nessuno

Licenza elementare

Diploma scuola media inferiore

Diploma scuola media superiore

Laurea

Impiego:

Pensionato

Casalinga

Impiegato

Dirigente

Libero professionista

Artigiano/commerciante

39-77

29 (82,85%)/ 6 (17,15%)

1 (2,86%)

4 (60%)

3 (8,57%)

8 (22,86%

2 (5,71%)

17 (48,57%)

4 (11,43)

3 (8,57%)

2 (5,71%)

1 (2,85%)

8 (22,86%)

Strumento: La General Self- Efficacy Scale (GSES) di Schwarzer R. e

Jerusalem M., 1993, per la valutazione del costrutto di autoefficacia, composta da 10 items su scala Likert da 0 a 30, dove il punteggio cresce proporzionalmente al crescere dell’autoefficacia.

Tale strumento è stato adattato a cura del Servizio di Psicologia Fondazione Salvatori Maugeri, IRCCS, Istituto di Veruno (NO). (vedi allegato 1)

Procedura: La media del nostro campione di riferimento per l’autoefficacia misurata con la GSES è stata di X² = 21,485. La ds è stata di 4,245. Abbiamo considerato pazienti con alta autoefficacia coloro che avevano un punteggio superiore a 22 e con bassa autoefficacia chi aveva un punteggio inferiore a 18. Inoltre sono stati valutati i quattro parametri dei pazienti a distanza di un anno

Risultati e conclusioni: I controlli statistici effettuati con il test X² non sono risultati statisticamente significativi, probabilmente perché il numero del campione è stato esiguo. Il suggerimento è quello di replicare l’esperimento con un campione di pazienti più grande. E’ comunque

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auspicabile utilizzare lo strumento di valutazione dell’autoefficacia come standard nella valutazione del paziente in entrata e l’infermiere può ottenere un’indicazione generale sull’aderenza dei pazienti.

L’analisi delle frequenze osservate, rispetto alle frequenze attese per il parametro presenza alle visite di controllo è riportato nella tabella 2.

Tabella 2

Punteggio di GSES Presenza visita di controllo

Assenza visita di controllo

13 6 Da 22 a 29

14,65 4,34 6 2

Da 18 a 21 6,17 1,82 8 0

Da 14 a 17 6,17 1,82

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CONCLUSIONI La realtà è ancora lontana da quella auspicabile. Il personale

infermieristico è concentrato sul trattamento della condizione acuta del paziente, non sulla riabilitazione o sul trattamento dei fattori di rischio. Pochi infermieri si sono sottoposti a un training formale sulla prevenzione, dalle basi scientifiche ai risultati dei trial clinici. I corsi di aggiornamento per gli infermieri sono per lo più dedicati al trattamento delle patologie acute, con scarsa attenzione ai problemi della prevenzione.

D’altra parte non esiste un riconoscimento formale per gli addetti alla prevenzione per cui, anche partecipando a questi corsi di aggiornamento, non vi sono aspettative di lavoro che diano loro la possibilità di implementare la propria preparazione in una situazione pratica. L’istruzione, quindi, non risolve da sola il problema della distribuzione inadeguata dei servizi di prevenzione nella pratica ospedaliera e territoriale.

E’ necessario che le energie destinate alla prevenzione non restino affidate unicamente a iniziative volontarie di pochi, ma siano riconosciute come servizio effettuato, con la stessa dignità e gli stessi riconoscimenti di quelli destinati alla cura dell’acuzie. Bisogna invertire la tendenza che vuole concentrare le risorse sulla cura, lasciando,in secondo piano la prevenzione, compiendo in questo modo un errore di prospettiva che si lascia alle spalle un esercito di pazienti cronici, con un enorme costo per la collettività.

“Nonostante sia ormai evidente l’efficacia della prevenzione, la percentuale di pazienti ad alto rischio cardiovascolare che riceve un adeguato trattamento è bassa in misura allarmante”. Questa affermazione, tratta dalla XXVII Conferenza di Bethesda, suona come un appello agli operatori sanitari e a tutti coloro che hanno un ruolo nella Sanità a dedicare maggiori risorse, sia economiche sia umane, alla prevenzione delle malattie cardiovascolari.

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RINGRAZIAMENTI Ringrazio per la loro gentile collaborazione, per il sostegno e il tempo

che mi hanno dedicato, la Prof.sa Lorella Fabbri, il Cardiologo Pierluigi Semprini e la Psicologa Silvana Girolomini.

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Allegato

General Perceived Self-Efficacy Scale (Ralf Schwarzer e Matthias Jerusalem, 1993) Adattamento a cura del Servizio di Psicologia

Fondazione Salvatore Maugeri, IRCCS, Istituto di Veruno (NO)

Risponda ponendo una crocetta in una delle quattro colonne qui a fianco Per

nulla vero

Poco vero

Abbastanza vero

Totalmente vero

1. Riesco sempre a risolvere problemi difficili se ci provo abbastanza seriamente

2. Se qualcuno mi contrasta, posso trovare il modo o il sistema di ottenere ciò che voglio

3. Per me è facile attenermi alle mie intenzioni e raggiungere i miei obiettivi

4. Ho fiducia di poter affrontare efficacemente eventi inattesi

5. Grazie alle mie risorse, so come gestire situazioni impreviste

6. Posso risolvere la maggior parte dei problemi se ci metto il necessario impegno

7. Rimango calmo nell’affrontare le difficoltà perché posso confidare nelle mie capacità di fronteggiarle

8. Quando mi trovo di fronte ad un problema, di solito trovo parecchie soluzioni

9. Se sono in difficoltà di solito posso pensare ad una soluzione

10. Generalmente posso gestire qualsiasi cosa mi capita