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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI UDINE
CORSO DI LAUREA
RELAZIONI PUBBLICHE
_______________________________________________________
TESI DI LAUREA
RELAZIONI PUBBLICHE E PROCESSI DI PACE
Relatore Laureanda
Chiar.mo prof. Nicola Strizzolo Michela de Faveri
_______________________________________________________
Anno accademico 2013 - 2014
5
INDICE
Pag.
Introduzione …...…………………………………………………. 7
1. Relazioni pubbliche ……………………...……………………. 11
1.1. Definizione ………………………………………………. 11
1.2. Excursus storico …………………………………………... 12
1.3. Obiettivi …………………………………………………. 21
1.4. I modelli …………………………………………………. 22
1.5. Digital Public Relations ……………………………………... 24
2. Processi di pace ……………………………………………..… 29
2.1. Definizione ………………………………………………. 29
2.2. Missioni di pace ………………………………………….. 30
2.3. Funzioni dei social media nei processi di pace ……….……... 32
3. L’ONU e la cultura della pace …………….…………….……... 39
3.1. Nascita della cultura della pace ……………………………. 39
3.2. L’UNESCO e la cultura della pace ………………………... 41
3.2.1. “The International Decade for a Culture of Peace
2001-2010” ……………………………………….. 42
3.2.2. 2010-2014: il presente …………………………….. 45
3.2.3. UNESCO Goodwill Ambassadors e Artisti per la
pace ………………………………………………. 51
4. Pace e genere femminile ………………………………………. 55
4.1. La Carta dei diritti delle donne ………………….………… 59
4.2. La Risoluzione n. 1325/2000 del Consiglio di Sicurezza
delle Nazioni Unite …………………………….…………. 61
4.3. Donne e relazioni pubbliche ………………….…………... 62
4.4. Donne di pace ………………………………….………… 64
4.4.1. Malala Yousafzai (Pakistan) ………………...……... 64
6
Pag.
4.4.1.1. Effetto Malala ……………..….…….…… 68
4.4.2. Aung San Suu Kyi (Birmania - Myanmar) ……..….. 72
4.4.2.1. Aung San Suu Kyi promotrice di Pace …... 73
4.4.2.2. Effetto Aung San Suu Kyi ………..……… 78
5. Il ruolo delle relazioni pubbliche nei processi di pace ….……….. 81
5.1. Le relazioni pubbliche fanno parte del processo di pace? …. 81
5.2. Peacemaking - Intervista a Claudio Mario Betti, assistente
al presidente della Comunità di Sant’ Egidio, Roma ………. 81
5.3. Peacebuilding - Intervista a Federico Mayor Saragoza,
Presidente della Fondazione Internazionale Cultura
della Pace, Madrid, ex Direttore Generale dell’UNESCO
dal 1987 al 1999, ex Ministro dell’Educazione e della
Scienza (1981-1982), Spagna ……………………………… 91
5.4. Peacekeeping - Intervista al Tenente Colonnello dei
Lagunari Giovanni Boggeri - dal 1994 al 2003 in
forza al reggimento lagunari “Serenissima” in Venezia,
dal 2003 al 2009 in forza al Comando del Corpo
d’armata di reazione rapida della NATO in Solbiate
Olona (VA) ed attualmente in forza alla Scuola
Telecomunicazioni Interforze di Chiavari (GE) con
l’incarico di Capo Ufficio Difesa ……………………... 100
Conclusioni ……………………………………………….………. 109
Bibliografia ……………………………………….……….………. 113
Ringraziamenti ……………………………………………………. 117
7
Introduzione
Tutto è comunicazione. Si può dire che questo periodo storico è
senz’altro caratterizzato da un forte ed impellente bisogno di essere
sempre collegati, di esprimersi, di informarsi, di pubblicarsi, di notificare
e diffondere divulgando le proprie azioni ed idee quotidianamente
usando ogni possibile modalità. La comunicazione viene attuata secondo
la prassi classica attraverso giornali, quotidiani, radio tv ma soprattutto
con l’utilizzo dei media tecnologici che hanno ampliato gli orizzonti,
abbattuto le barriere geografiche e che ci hanno portato all’esigenza del
“continuinig connected”.
Viviamo in un’era in cui tutto è comunicazione e in cui non si può non
comunicare. Disponiamo di strumenti che annullano le distanze e che
permettono di mettere in contatto e di restare in contatto con chiunque
vogliamo su questo pianeta. L’informazione si è evoluta ed ha affiancato
ai mezzi e strumenti tradizionali nuove modalità che grazie alle
tecnologie e soprattutto ad internet permettono di abbattere i confini
geografici e i visti diplomatici.
Anche la guerra e la pace vengono comunicate e gestite con l’utilizzo dei
nuovi media con un impatto decisamente più forte. I conflitti e le guerre
vengono divulgati e gestiti utilizzando le nuove tecnologie ed ottenendo
dei risultati davvero soprendenti in termini di visibilità. In questo ultimo
periodo, ISIS, il gruppo terrorista salafita che sta occupando i notiziari
del mondo, si è dimostrato particolarmente abile nell’utilizzo delle
tecniche digitali per diffondere il suo messaggio in occidente,
raggiungendo migliaia di giovani in tutto il mondo. L’ISIS in un tempo
relativamente brevissimo ha saputo attirare su di sé moltissima
attenzione ma anche moltissimo sostegno alla propria causa soprattutto
da gruppi di estremisti medio-orientali. Lo fa attraverso una precisa
propaganda organizzata e programmata che oltre a diffondere il suo
8
messaggio di terrore al mondo, è composta anche di video serie
televisive, e una strategia comunicativa efficacissima il cui perno sono i
social media.
In questo contesto di comunicazione globale si è voluto analizzare se e
come le relazioni pubbliche abbiano dato un contributo e quale esso sia
stato in una particolare area della comunicazione: i processi di pace.
Non ho trovato molti testi che affrontino in modo così specifico ed
analitico il nesso tra le modalità comunicative proprie delle relazioni
pubbliche e la loro inclusione nelle modalità operative dei processi di
pace. Questa tesi si è quindi basata su un’analisi di testi, articoli,
pubblicazioni off-line e on-line, sul materiale sulla cultura della pace
disponibile sul sito UNESCO (www.unesco.org) e in quello della
Fondacion Cultura de Paz (www.fund-culturadepaz.org/index.html),
sulle testimonianze dirette di tre protagonisti delle fasi dei processi di
pace, e si sviluppa in 5 capitoli.
Nel primo capitolo ho ritenuto importante fare un breve riassunto dei
concetti più importanti per definire le relazioni pubbliche. Ho quindi
iniziato parlando della più recente ed accreditata definizione di relazioni
pubbliche, ho raccontato come sono nate evidenziando come la storia
dell’uomo sia sempre stata un susseguirsi di relazioni pubbliche. Ho,
quindi, messo in evidenza quali sono gli obiettivi che le relazioni
pubbliche come disciplina, perseguono, ho ricordato i 4 modelli di
relazioni pubbliche definiti da Grunig e Hunt nel 1984, e ho esaminato
l’evoluzione che la disciplina ha avuto grazie all’utilizzo delle nuove
tecnologie. Ritengo che questo capitolo introduttivo alle relazioni
pubbliche sia di fatto la base di partenza per poter capire se le relazioni
pubbliche hanno un ruolo nei processi di pace e quale sia questo ruolo.
Nel secondo capitolo ho analizzato i processi di pace iniziando dalla loro
definizione ed inquadrando storicamente le missioni di pace che a partire
dalla fine degli anni ‘50 del secolo scorso, hanno avuto una parte
9
importante nelle azioni a supporto dei processi e negoziati di pace. Ho
voluto poi analizzare l’importanza che i social media hanno nell’ambito
della comunicazione dei conflitti così come nella comunicazione della
pace, e di quali siano le tecnologie maggiormente usate per promuovere
la pace.
Il terzo capitolo analizza il ruolo importante dell’ONU nel contesto dei
processi di pace, dei negoziati che portano agli accordi finali e alla
creazione di programmi speciali per lo sviluppo di una specifica cultura
della pace tra i popoli attraverso un’azione sui singoli. Ho quindi
analizzato il ruolo dell’UNESCO nella diffusione della cultura della pace
e le sue attività in tal senso a partire dal 1989 quando l’ONU gli ha
chiesto di elaborare una nuova visione della pace basata su valori
universali, fino alle attività presenti.
Il quarto capitolo analizza invece il contributo delle donne ai processi di
pace analizzando le diverse modalità comportamentali e le differenze di
genere. Ho accennato alla Carta delle Nazioni Unite dei diritti delle
donne del 1945 che afferma i diritti ed il ruolo delle donne nei conflitti
armati, alla Risoluzione n. 1325/2000 del Consiglio di Sicurezza
dell’ONU che afferma l’impatto della Guerra sulle donne ma soprattutto
il riconoscimento del contributo che esse danno alla risoluzione dei
conflitti per una pace durevole. Ho passato, pertanto, in rassegna le
caratteristiche che permettono alle donne di esercitare al meglio la
professione delle relazioni pubbliche grazie all’analisi di una tesi di
Laurea dal titolo “Donne e Relazioni Pubbliche: cosa ne pensano gli
iscritti del Triveneto”. Quindi ho voluto esaminare le vicende di due
donne che a mio avviso sono particolarmente significative nell’analisi
dell’uso delle relazioni pubbliche nei processi di pace: Malala Yousafzai,
la studentessa pakistana che, tenendo aperto un blog pubblicato sui
canali della BBC, sosteneva la lotta per il diritto all’istruzione delle donne
pakistane al punto da diventare un nemico pubblico e molto pericoloso
10
per il regime dei talebani; Aung San Suu Kyi cui il regime birmano ha
cercato di spegnere la sua voce di libertà con l’isolamento dal modo per
ben 15 anni. Ambedue sono state simboli di pace e hanno influenzato
l’opinione e i comportamenti di migliaia di persone. Aung San Suu Kyi
ha ricevuto nel 1991 il Premio Nobel per la pace mentre Malala, che è
stata insignita del Nobel per la pace proprio in questi giorni (10 Ottobre
2014) con i suoi 16 anni è la persona più giovane ad aver ricevuto il
Nobel in tutta la storia del premio.
Nel quinto capitolo ho voluto analizzare, se e come le relazioni
pubbliche siano incluse nei processi di pace, attraverso le dirette
esperienze di chi vi ha partecipato nelle fasi diverse. Ho raccolto la
testimonianza diretta di Claudio Betti della Comunità di Sant’Egidio sui
processi di pace in Mozambico, che hanno portato alla firma del trattato
di Pace tutt’ora in essere; ho avuto il grande privilegio di avere il punto di
vista della diplomazia e dell’ONU, grazie al gentile contributo di
Federico Mayor Zaragoza, che dal 1987 al 1999 è stato Direttore
Generale dell’UNESCO, sotto la cui guida il programma sulla Cultura
della Pace richiesto dall’ONU è stato creato; ho ricevuto il parere di chi i
processi di pace li ha vissuti dall’ottica militare, intervistando il Tenente
Colonnello dei Lagunari Giovanni Boggeri, che ha preso parte alle
missioni di pace sotto l’egida dell’ONU in Albania, Kosovo, Bosnia ed
Erzegovina, Montenegro, Afghanistan e Iraq.
Nelle conclusioni ho analizzato i vari contributi cercando di creare una
mappa dell’utilizzo delle modalità delle relazioni pubbliche nel processo
di pace e di come esse sono percepite dai protagonisti che lo realizzano.
11
1. Relazioni pubbliche
1.1. Definizione
La più recente ed accreditata definizione di relazioni pubbliche, frutto di
una consultazione pubblica internazionale promossa nel 2008 da PRSA 1
in collaborazione con Global Alliance 2 dice che: “Public relations is a strategic
communication process that builds mutually beneficial relationships between
organizations and their publics” (Le Relazioni Pubbliche sono un processo
comunicativo strategico che costruisce relazioni reciproche benefiche tra
un’organizzazione e si suoi pubblici). Contiene due novità concettuali
importanti: il riconoscimento delle relazioni pubbliche come processo di
comunicazione strategica e la simmetria della relazione tra
l’organizzazione e i suoi pubblici (FERPI NEWS). 3
È un’attività comunicativa continuativa, consapevole e programmata che
viene attuata per creare sviluppare e/o consolidare relazioni con stakeholder 4
e personalità influenti, che possono agevolare od ostacolare il
raggiungimento degli obiettivi, al fine di instaurare un rapporto di fiducia
e creare una buona reputazione. È la gestione strategica delle relazioni
che esistono fra una organizzazione e i suoi diversi pubblici, attraverso la
comunicazione, per raggiungere la comprensione reciproca, gli obiettivi
1 PRSA: Public Relations Society of America (www.prsa.org).
2 Global Alliance (www.globalalliancepr.org).
3 Giampietro Vecchiato, FERPI NEWS marzo 2012 (www.fe rpi . i t/ferp i/novi ta/
n o t i z i e _ f e r p i / no t i z i e _ f e r p i / c o s a - s ono - l e - r e l a z i o n i - p u bb l i c h e - l a -
nuova-def in iz ione-/not iz ia_ferpi/44026/11) .
4 Stakeholder o “portatori di interesse” (Una persona, un gruppo di persone,
un’organizzazione) sono quei soggetti i cui comportamenti, opinioni, decisioni, possono
favorire, oppure ostacolare l’organizzazione nel raggiungere i propri obiettivi (G.
Vecchiato, Manuale Operativo di Relazioni Pubbliche, FrancoAngeli, Milano, 2008
(pag. 88).
12
organizzativi e servire l’interesse pubblico 5 (Flynn, Gregory & Valin,
2008).
Storicamente La prima definizione è attribuita a Edward Louis Bernays 6,
uno dei padri delle relazioni pubbliche, che nel 1923 nel suo primo
libro ”Crystallizing Public Opinion” 7 e poi in quello più
celebre, ”Propaganda” 8 del 1928, ne parlava come la capacità di
“interpretare la relazione tra l’organizzazione e i suoi pubblici e tra questi
e l’organizzazione”, una modalità per “anticipare gli umori della gente”.
Una storia cominciata nel 1920 quando Bernays scelse di modificare il
nome della sua attività sostituendo il vecchio titolo del suo ufficio da
“Direzione Pubblicitaria” a “Ufficio di Relazioni pubbliche”,
rinominandosi “consulente in relazioni pubbliche”: era la prima volta che
veniva usato quel termine.
1.2. Excursus storico
Le relazioni pubbliche sono sempre state parte integrante della storia
della civiltà fin dalle origini. Come notava acutamente, tra gli altri, Don
5 La Società Canadese di relazioni Pubbliche durante il suo meeting annuale tenutosi a
Vancouver (British Columbia) il 7 giugno 2009, ha introdotto la nuova ufficiale
definizione di Relazioni Pubbliche (www.prconversations.com/index.php/2009/06/
introducing-a-new-maple-infused-definition-of-public-relations).
6Edward Louis Bernays (Vienna 1891 - Cambridge 1995) è stato un pubblicista e
pubblicitario statunitense di origine austriaca fu uno dei primi spin doctor ed è
considerato, assieme a Ivy Lee e a Walter Lippmann, uno dei padri delle moderne
relazioni pubbliche, di cui teorizzò nei primi anni del XX secolo le principali regole
fondanti (it.wikipedia.org/wiki/Edward_Bernays).
7 Edward L. Bernays, Cristallizing Public Opinion, Liveright Publishing Corporation, New
York, 1923.
8 E.L. Bernays, Propaganda, Liveright Publishing Corporation, New York, 1928.
13
Bates nel suo “Mini-me History” 9 (2002), la storia nota può essere letta
come un succedersi di azioni di relazioni pubbliche: infatti, mentre le
società primitive erano governate attraverso la paura e l’intimidazione, le
culture più avanzate si sono invece affidate alle discussioni e al dialogo,
sostituendo nell’esercizio quotidiano della costruzione del consenso, la
forza della parola a quella della spada.
Esempi di relazioni pubbliche ante-litteram possono essere considerati
nelle civiltà antichissime, le immagini, le statue e le riproduzioni di
guerrieri, il cui fine era di promuovere la grandezza, la forza, la potenza
di chi rappresentavano.
Fig. 1.1 - Guerriero assiro
Fig. 1.2 - Bassorilievo assiro-babilonese
9 Dan Bates, Institute of Public relations, “Mini-Me” History, Public relations from the Dawn
of civilization, (2002).
14
I re e i guerrieri di grandi civiltà come quella Sumera o Assira-Babilonese
oltre alle immagini, usavano i poemi per propagandare il loro valore in
guerra e la loro grandezza in politica.
Fig. 1.3 - Codice sumero
Anche la stessa Bibbia o altri testi religiosi, possono essere interpretati
come strumenti potentissimi per plasmare le menti, per creare consenso,
per influenzare le opinioni. Gli insegnamenti di Gesù tradotti nei discorsi
e nelle epistole degli apostoli, divennero uno strumento grandissimo di
influenza e di conversione alla sua fede.
Nella Grecia antica l’uso della parola, scritta e orale fu molto più potente
e significativo che altrove, al punto di diventare un fortissimo strumento
di integrazione sociale. Potremmo rileggere la struttura sociale di Atene
antica, come il prodotto di successo di un’operazione di relazioni
pubbliche, poiché la vita quotidiana, prevedeva discussioni con il
coinvolgimento di tutta la popolazione, sulla condotta della vita pubblica
e di quella economica oltre che, prima realtà nella storia, un sistema
politico democratico basato sulla partecipazione attiva dei cittadini.
15
Fig. 1.4 - La Scuola di Atene, (1509-1510) Raffaello Sanzio
Anche nell’impero romano la forza delle relazioni pubbliche era
notevole, lo si desume da espressioni molto usate come “vox populi, vox
dei”, e “res publicae”.
Il grande Giulio Cesare, ad esempio, capì benissimo l’importanza della
comunicazione pianificata al fine di persuadere benevolmente il pubblico
influente e lo mise in pratica redigendo puntuali rapporti bellici - quali il
DE BELLO GALLICO 10 - che hanno preparato adeguatamente la
platea romana al passaggio del Rubicone nel 49 a. C.
10 De Bello Gallico, scritto tra il 58 e 50 a.C., è sicuramente lo scritto più conosciuto di
Gaio Giulio Cesare, generale, politico e scrittore romano del I secolo a.C. In origine, era
probabilmente intitolato C. Iulii Caesaris commentarii rerum gestarum, mentre il titolo con
cui è oggi noto è un’aggiunta successiva, finalizzata a distinguere questi resoconti da
quelli degli eventi successivi. Cesare visse in prima persona tutte le vicende riguardanti
la conquista della Gallia. Uomo di grande cultura, appassionato di arte e filosofia,
descrisse minuziosamente la sua campagna militare, inserendo nella narrazione molte
curiosità sugli usi e sui costumi delle tribù barbariche con cui veniva a contatto, oltre a
tentare, nello stesso tempo, di difendere il proprio operato. Non si potrà dunque
ritenerla un’opera davvero rigorosa dal punto di vista storico, proprio perché in parte
autobiografica (it.wikipedia.org/wiki/Commentarii_de_bello_Gallico).
16
Fig. 1.5 - Commentarii De Bello Gallico (stampa del 1528).
Alcuni studiosi ritengono che egli abbia scritto il DE BELLO con il
preciso fine di propagandare sé stesso e le sue gesta. Sicuramente Cesare
aveva capito quanto fosse importante mantenere una comunicazione
continua, coordinata e gestita con il suo “pubblico” e lo fece narrando
con cadenza giornaliera le sue vicende, che corrispondevano con quelle
dell’impero romano.
A Giulio Cesare si fa risalire l’origine degli ACTA DIURNA POPULI
ROMANI 11, che furono un resoconto ufficialmente autorizzato degli
eventi importanti accaduti a Roma.
Passando ad epoche più recenti, uno dei maggiori documenti di
comunicazione pubblica del medioevo è identificato nell’Arazzo della
Regina Matilde meglio conosciuto come the Bayeux Tapestry, risalente
alla seconda metà dell’XI secolo. Si tratta di un tessuto ricamato lungo
11 Nell’antica Roma, gli Acta diurna populi romani (succintamente, Acta Diurna) furono un
resoconto ufficialmente autorizzato degli eventi degni di nota accaduti a Roma
(it.wikipedia.org/wiki/Acta_Diurna).
17
circa 14 metri, che descrive per immagini gli avvenimenti più importanti
della conquista normanna dell’Inghilterra.
Ha un valore inestimabile per le informazioni che ci trasmette sulla vita
sociale e militare dell’Inghilterra e della Normandia dell’XI secolo. Può
essere definito come eccelso trattato di comunicazione propagandistica.
Fig. 1.6 - The Bayeux Tapestry (dettaglio).
Un punto di svolta per le modalità comunicative è dato, nel quindicesimo
secolo, dalla diffusione della Bibbia di Gutenberg 12, primo testo
stampato a caratteri mobili e tradotto in tutte le lingue allora conosciute.
Con Gutenberg, si assiste al primo vero fenomeno di pubblica
comunicazione.
La propaganda, (modernamente intesa come il processo informativo
asimmetrico e unidirezionale di cui si avvalgono in casi particolari le
relazioni pubbliche) delle gesta dei re e dei potenti e i tentativi di
influenzare i sudditi senza l’uso di violenza fisica, può essere considerato
come uno tra i primi tentativi di “governo delle relazioni”. Il termine
propaganda ha avuto origine nella Chiesa Cattolica quando, nel XVII
secolo, venne creata la Congregatio de Propaganda Fide 13. Con la creazione
12 Johann Gutenberg (Johann Gensfleisch zur Laden zum Gutenberg) (Magonza, 1394-
1399 circa - Magonza, 3 febbraio 1468) è stato un orafo, inventore e tipografo tedesco,
inventore della stampa caratteri mobili, a cui dobbiamo l’inizio della tecnica della
stampa moderna (it.wikipedia.org/wiki/johann_gutenberg). 13 La Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli (Congregatio pro gentium
evangelizatione) è una delle nove congregazioni della Curia romana. È il dicastero che ha
18
di questo istituto si ammetteva esplicitamente la necessità di un
intermediario che facilitasse la comunicazione tra il governo e il popolo e
che sapesse gestire e coordinare l’evangelizzazione dei popoli. Niente più
iniziative personali quindi ma un’attività programmata, continuativa,
coordinata e monitorata.
Nel 1789 con la conclusione della Rivoluzione Francese e con
l’emissione della Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e dei Cittadini 14, il
diritto di espressione e quello della libertà di pensiero, pilastri fondanti
della moderna comunicazione, sono stati per la prima volta sanciti
pubblicamente nell’art. 11. Ecco il suo contenuto: “La libera comunicazione
dei pensieri e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi dell’uomo; ogni cittadino può
dunque parlare, scrivere, stampare liberamente, salvo a rispondere dell’abuso di questa
libertà nei casi determinati dalla Legge”. A sostegno dell’importanza di questo
principio, nel 1792 l’Assemblea Nazionale di Francia decise di instituire,
all’interno del Ministero dell’Interno, il “Bureau d’Esprit” primo ufficio
ministeriale che si occupava ufficialmente di propaganda, sovvenzionava
competenza per tutto quello che riguarda l’attività missionaria: dirige e coordina l’opera
di evangelizzazione dei popoli. Le sue funzioni, in origine, erano attribuite alla
Congregazione de Propaganda Fide, istituita da papa Gregorio XV con la bolla Inscrutabili
Divinae del 22 giugno 1622, che esercitava anche le funzioni oggi attribuite alla
Congregazione per le chiese orientali. Quest’ultima ne venne separata il 1º maggio 1917;
il 15 agosto 1967, con la bolla di Paolo VI Immortalis Dei, ha assunto l’attuale
denominazione (it.wikipedia.org/wiki/Congregazione_per_l’evangelizzazione_dei_popoli).
14 La Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino del 1789 (Déclaration des Droits
de l’Homme et du Citoyen) è un testo giuridico elaborato nel corso della Rivoluzione
francese, contenente una solenne elencazione di diritti fondamentali dell’individuo e del
cittadino. È stata emanata il mercoledì 26 agosto del 1789, basandosi sulla
Dichiarazione d’indipendenza americana. Tale documento ha ispirato numerose carte
costituzionali e il suo contenuto ha rappresentato uno dei più alti riconoscimenti della
libertà e dignità umana.
19
gli editori e inviava agenti in varie parti della nazione per conquistare il
supporto dell’opinione pubblica a favore della Rivoluzione francese.
Si può affermare che i primi prototipi di relazioni pubbliche si abbiano
quando negli stati s’inizia a suddividere i compiti tra diversi poteri (Re e
parlamento, Potere Giudiziario e Potere Legislativo) che rappresentano
gruppi di portatori di interessi diversi e spesso in disaccordo.
Il XIX secolo vede nascere un primo concetto di relazioni pubbliche che
si realizzava attraverso il rapporto con i giornali e i media dell’epoca,
grazie all’avvento della borghesia e dell’opinione pubblica moderna.
L’accezione moderna di relazioni pubbliche nasce negli Stati Uniti
durante la Rivoluzione americana, quando si scontrarono due grandi
correnti di pensiero, i patrioti guidati dagli aristocratici e i conservatori
sostenuti da commercianti e proprietari terrieri.
La storia più recente delle relazioni pubbliche si può collocare all’inizio
del 1900, quando un grande gruppo di interesse, l’industria pesante
Americana, vede nei giornali e nelle forze organizzate di lavoro, una
minaccia per il proprio predominio e il proprio modello di sviluppo
capitalistico.
Secondo Bernays (1945) ci furono 4 grandi periodi di evoluzione delle
relazioni pubbliche.
Il primo periodo dal 1900 al 1914, si identifica col periodo del
giornalismo scandalistico e della pubblicità il cui obiettivo era dare
un’immagine positiva della vita reale.
Il secondo periodo, va dal 1914 al 1918 ed è caratterizzato dall’azione
dell’esercito americano per cercare di rendere popolare tutto ciò che
aveva per oggetto la guerra che si stava combattendo in Europa e alla
quale l’America stava per partecipare.
Il terzo periodo, dal 1919 al 1929, è caratterizzato dalla grande diffusione
della pubblicità industriale, basata sui medesimi principi e metodi
sperimentati durante il periodo di guerra.
20
Dal 1929 in poi iniziano le vere attività di relazioni pubbliche, che
cercano di miscelare gli interessi privati e le responsabilità pubbliche. 15
In Europa la disciplina delle relazioni pubbliche sbarca a seguito delle
truppe alleate che hanno liberato gli stati occupati durante la seconda
guerra mondiale. Le relazioni pubbliche, come attività distinte dalla
propaganda e dalla pubblicità, arrivano in Italia nell’estate del 1943,
insieme alle truppe alleate che sbarcano in Sicilia. L’Italia è il primo Paese
dell’Asse a cedere agli Alleati e quindi costituisce un interessante terreno
di sperimentazione per identificare le modalità migliori per riannodare le
relazioni con le comunità locali, dopo i tanti bombardamenti e la violenta
occupazione del territorio. Il comando Americano alleato recluta al
proprio interno relatori pubblici di origine italiana, aggiungendo a questi
anche un nucleo di italoamericani ad hoc, esterni all’apparato militare e
selezionati per l’occasione. Alcuni di questi operatori che operavano al
fianco degli Alleati durante la guerra, restano a lavorare per il comando
militare che rimane in Italia anche dopo la fine del conflitto, o anche di
passare al servizio delle prime multinazionali, soprattutto petrolifere
(Mobil, Shell, Esso), che - a Genova più che altrove- riaprono nel nostro
Paese dopo gli anni di esilio obbligato a causa dalla politica autarchica del
regime fascista. A partire dagli anni ‘50, sono quattro i centri che vedono
nascere e sviluppare in Italia la professione delle relazioni pubbliche:
Genova, dove hanno sede le multinazionali petrolifere Esso, Mobil e
Shell oltre all’Iri; Trieste dove a seguito della prolungata l’occupazione
delle truppe alleate, le compagnie marittime e assicurative cittadine
acquisiscono una cultura della comunicazione, Roma dove i primi
professionisti del mestiere imparano lavorando per l’USIS (United States
Information Service), Milano che è il centro finanziario italiano dopo la
ricostruzione economica.
15 Mario Pecchenino - Le Nuove Relazioni Pubbliche, Milano, Carocci Editore, 2013.
21
1.3. Obiettivi
Compito delle relazioni pubbliche è individuare i soggetti, siano essi
singoli o gruppi, che possono aiutare od ostacolare le attività
dell’organizzazione.
Una volta identificati questi soggetti le relazioni pubbliche determinano:
� i messaggi,
� gli strumenti,
� i canali più efficaci per comunicare con i soggetti.
Per fare questo si costruiscono relazioni simmetriche e bidirezionali
basate sul dialogo al fine di includere negli obiettivi perseguiti anche gli
interessi legittimi degli stakeholder (G. Vecchiato).
Elementi fondanti delle relazioni pubbliche sono:
� informare le persone,
� persuadere le persone,
� integrare le persone con altre persone.
Le relazioni pubbliche hanno una funzione strategica e di governance
che si sviluppa con stile imprenditoriale, il cui obiettivo è “creare relazioni
reciprocamente utili fra le organizzazioni e i loro pubblici” in un’ottica di
sostenibilità e di rendicontazione permanente. Le relazioni pubbliche
contribuiscono sostanzialmente nel processo di adattamento all’ambiente
sociale in cui opera un’organizzazione o un singolo e in cui i suoi
stakeholder agiscono, fornendo una visione ragionata dei pubblici di
riferimento, analizzando quali variabili possono essere influenti e
includendo nelle strategie dell’organizzazione, gli interessi pubblici che
sono emersi nell’ambiente sociale analizzato.
Le relazioni pubbliche sostengono i leader nelle decisioni e nella gestione
dei rischi, li aiutano nell’allineamento degli obiettivi ai valori della società
in cui si muove l’organizzazione per cui operano. In questo modo
l’azione delle relazioni pubbliche, fornendo assistenza nella costruzione
22
di comportamenti socialmente responsabili e creando relazioni
vantaggiose, permette che un’organizzazione ottenga legittimazione e
credibilità e si crei una buona reputazione.
1.4. I modelli
James Grunig e Todd Hunt nel 1984 16 hanno riassunto i quattro modelli
di relazioni pubbliche condensando cronologicamente i principi astratti
della loro possibile applicazione:
1. PRESS AGENTRY-PUBBLICITY, comprende quell’attività di
comunicazione che intende raggiungere obiettivi di promozione e
propaganda per ampliare la conoscenza e la fama dell’organizzazione che
l’attiva. Il fine di questo modello è essenzialmente la propaganda. Gli
interlocutori principali sono i giornalisti e l’obiettivo principale è
l’attivazione dell’attenzione dei mezzi di comunicazione di massa per
rappresentare gli interessi dell’organizzazione o del singolo che l’ha
promossa. In questo modello sono i mass media ad essere utilizzati come
mezzo principale per raggiungere i propri obiettivi. La comunicazione è
ad una via, quindi dall’organizzazione al giornalista. Poca attenzione è
riservata alla veridicità e all’accuratezza delle informazioni diffuse. In
questo modello il rapporto tra l’organizzazione (fonte) e il giornalista
(ricevente) è sbilanciato a favore della fonte che non considera in modo
appropriato quelli che sono i bisogni del giornalista.
2. PUBLIC INFORMATION, ha l’obiettivo di frammentare le
informazioni (veritiere) al giornalista il quale le riprenderà per l’opinione
pubblica. In questo modello la comunicazione si svolge ad una via ma le
informazioni sono corrette e complete. Qui la comunicazione si svolge
16 James Grunig, Todd Hund, “Managing Public Relations”, Ed. Holt, Rinehart and
Winston, 1984.
23
dall’organizzazione al pubblico attraverso il giornalista che ha la funzione
di relatore pubblico, senza attuare azioni di ascolto o feedback. In questo
modello la comunicazione funge da mezzo per la semplice
disseminazione di informazioni.
3. TWO-WAY ASYMMETRIC, si pone come obiettivo la persuasione
scientifica, il cui fine è far accettare il punto di vista dell’organizzazione.
In questo modello si utilizzano le teorie sui comportamenti derivanti
dalle scienze sociali per persuadere i pubblici influenti a sostenere gli
interessi dell’organizzazione. La comunicazione attivata è a due vie, i
pubblici possono dare un feedback, ed è asimmetrica, l’obiettivo della
comunicazione è quello di persuadere i pubblici ad adottare posizioni e
decisioni definite dall’organizzazione. L’attività di ricerca individua le
preferenze del pubblico e ne misura gli atteggiamenti e i comportamenti
prima e dopo l’azione di relazioni pubbliche. È il modello di relazioni
pubbliche a supporto delle attività di marketing.
4. TWO-WAY SIMMETRIC, conosciuto come modello di Grunig. In
questo modello l’obiettivo è la comprensione reciproca tra
l’organizzazione e i suoi pubblici. Qui la comunicazione è a due vie e si
basa sul dialogo, ci si aspetta che le due parti coinvolte, possano
cambiare qualcosa dopo l’intervento di relazioni pubbliche. Si prevede un
influenzamento reciproco tale che sia l’organizzazione che il pubblico
inizi una negoziazione. In questo modello l’ascolto avviene prima che gli
obiettivi siano definiti. Le aspettative dei pubblici influenti sono incluse
negli stessi obiettivi, in modo da contribuire a migliorare la qualità delle
decisioni da prendere e a ridurne i tempi attuativi.
I concetti alla base della formulazione di questi modelli sono:
� direzione,
� scopo della comunicazione.
24
La direzione comunicativa può essere ad una via, quando le informazioni
sono divulgate dall’emittente verso il ricevente oppure a due vie, quando
le informazioni sono scambiate in modo equilibrato.
Nel 1992, J.E. Grunig ha sviluppato la teoria dell’efficacia ed eccellenza
delle relazioni pubbliche mettendo in evidenza le connessioni tra le
migliori pratiche nella gestione e la comunicazione simmetrica a due vie.
Gli ultimi sviluppi nelle nuove tecnologie della comunicazione hanno
spostato le modalità comunicative dall’approccio mass-media uno-a-
molti al più nuovo modello mediato da internet uno-a-uno, uno-a-molti,
molti-a-molti.
1.5. Digital Public Relations
Il cambiamento nel mondo della comunicazione introdotto dal web 2.0 17
e dall’uso massivo dei social network, ha influenzato in maniera
sostanziale anche le relazioni pubbliche al punto da diventarne parte
integrante. Mentre nelle PR tradizionali ci si relaziona con figure di
riferimento del proprio settore di competenza, il più delle volte
giornalisti, sul fronte digitale le cose cambiano e si entra in contatto
semplicemente con le persone, che siano influencer18, community manager, 19
17 Il web 2.0 è un’espressione utilizzata spesso per indicare uno stato dell’evoluzione del
world wide web, rispetto a una condizione precedente. Si indica come web 2.0 l’insieme
di tutte quelle applicazioni online che permettono un elevato livello di interazione tra il
sito web e l’utente come i blog, i forum, le chat, i wiki, le piattaforme di condivisione di
media come Flickr, YouTube, Vimeo, i social network come Facebook, Myspace,
Twitter, Google+, Linkedin, Foursquare, ottenute tipicamente attraverso opportune
tecniche di programmazione Web e relative applicazioni web afferenti al paradigma del
web dinamico in contrapposizione al cosiddetto web statico o web 1.0
(it.wikipedia.org/wiki/web_2.0).
18 Influencer: influente.
25
stakeholder, blogger 20 o giornalisti. Così come cambia l’interlocutore, così
cambia l’approccio per entrare in contatto. È stato quindi teorizzato un
cambio di paradigma nella definizione stessa di PR digitale. Se fino a
poco tempo fa l’acronimo PR era comunemente inteso come Public
Relations, oggi viene meglio espresso - almeno nel settore digital - come
People Relations. 21
Sono proprio le persone, quelle apparentemente comuni, che oggi
diventano “influencer”, sono in grado di generare passaparola in rete con
un amplificato effetto virale e che determinano il nuovo modo di fare
relazioni pubbliche, le nuove forme di conversazione e di conseguenza, il
nuovo modo di comunicare e di comunicarsi.
Le digital PR comprendono tutte quelle attività di marketing per creare
e/o aumentare il numero, e soprattutto l’importanza, delle conversazioni
on-line. L’obiettivo principale è accrescere la reputazione.
Hanno un approccio relazionale, in quanto creano materialmente
relazioni tra il brand e gli utenti, tanto che si parla di buzz marketing 22 e
19 Il community manager (online community manager) è un addetto alla gestione di una
comunità virtuale (detta anche comunità online), con i compiti di progettarne la
struttura e di coordinarne le attività. È una professione legata al web 2.0
(it.wikipedia.org/wiki/Community_manager).
20 Blogger: Il creatore e curator di un blog.
21 Tratto da: www.panorama.it/economia/lavoro/professioni-web-digital-pr.
22 Il buzz marketing, detto anche marketing conversazionale è quell’insieme di operazioni
di marketing non convenzionale volte ad aumentare il numero e il volume delle
conversazioni riguardanti un prodotto o un servizio e, conseguentemente, ad accrescere
la notorietà e la buona reputazione di un brand. Consiste nel dare alle persone motivo
di parlare di un prodotto, servizio, un’iniziativa e nel facilitare le conversazioni attorno a
tale oggetto. Il buzz marketing rappresenta la possibilità di raggiungere nel minor tempo
possibile quello che viene definito “sciame”, cioè un gruppo di utenti omogeneo per
interessi rispetto a un tema o a una categoria di prodotti/servizi. Buzz marketing è,
dunque, la strategia di coloro che, consapevolmente o inconsapevolmente, gratis o a
pagamento, utilizzano il gli strumenti del web (blog, forum, social network) per parlare e far
26
di marketing conversazionale. È una forma moderna di passaparola,
detto in gergo “WOMM” acronimo per Word-of mouth-marketing, ed è
considerato uno strumento estremamente potente. È stimato che il 90%
degli utenti prendano una decisione su un acquisto, fidandosi
principalmente delle opinioni date da persone autorevoli. Il passaparola è
quindi percepito come la forma pubblicitaria ritenuta più credibile dagli
utenti on-line.
Le digital PR sono intese come «insieme di strategie, modalità di relazione
e processi sviluppati nell’ecosistema digitale e indirizzati a nuovi
stakeholder e influencer, attraverso l’utilizzo di nuovi linguaggi, meccanismi
virali, strategie di engagement 23 e politiche di condivisione di contenuti
online.
Gli strumenti attraverso i quali operano le digital PR sono:
� blog, 24
� forum, 25
� social network, 26
parlare di beni, aziende o brand. Elemento centrale del buzz marketing è l’uso del
passaparola (it.wikipedia.org/wiki/buzz_marketing).
23 Strategie di coinvolgimento.
24 Blog: nel gergo di internet, un blog è un particolare tipo di sito web in cui i contenuti
vengono visualizzati in forma cronologica. In genere un blog è gestito da uno o più
blogger che pubblicano, più o meno periodicamente, contenuti multimediali, in forma
testuale o in forma di post, concetto assimilabile o avvicinabile ad un articolo di
giornale (it.wikipedia.org/wiki/blog).
25 Forum: su internet, luogo virtuale di discussione.
26 Social network: rete sociale. La versione di internet delle reti sociali (social media) è una
delle forme più evolute di comunicazione in rete. La rete delle relazioni sociali che
ciascuno di noi tesse ogni giorno, in maniera più o meno casuale, nei vari ambiti della
nostra vita, si può così “materializzare”, organizzare in una “mappa” consultabile, e
arricchire di nuovi contatti. I principali social network sono: Facebook, MySpace,
Instagram, Twitter, Google+, LinkedIn, Pinterest, Formspring, Bebo, Friendster, Hi5,
27
� testate e riviste on line,
� social media. 27
Ning, Tagged, Meetup, e altri. Tra quelli più usati al mondo vi sono Facebook e Twitter
(it.wikipedia.org/wiki/rete_sociale).
27 Social media: in italiano media sociali, è un termine generico che indica tecnologie e
pratiche online che le persone adottano per condividere contenuti testuali, immagini,
video e audio (it.wikipedia.org/wiki/social_media).
29
2. Processi di pace
2.1. Definizione
Con “processo di pace”, si intende un intervento per prevenire l’inizio o
la ripresa di un conflitto violento attraverso la creazione di una pace
sostenibile. Le attività dei processi di pace si concentrano sulle cause o
cause potenziali della violenza, cercano di creare delle aspettative sociali
per una risoluzione pacifica dei conflitti e di stabilizzare politicamente e
sotto il profilo socio-economico la società che ne è afflitta.
Il processo di pace è un concetto globale che comprende la
trasformazione dei conflitti, la giustizia transizionale, la riconciliazione
delle parti, lo sviluppo, e la leadership. Mette in evidenza come la fine di
un conflitto non porti automaticamente alla pace e ad uno sviluppo
sociale ed economico stabile. Il termine Processo di Pace ha acquisito
significato sostanziale attraverso le azioni di organizzazioni come la
Commissione delle Nazioni Unite per il consolidamento della pace (UN
Peacebuilding Commission) o l’Istituto degli Stati Uniti per la Pace (United
States Institute of Peace). Un certo numero di organizzazioni internazionali
descrivono le loro attività in zone di conflitto come peacebuilding. 28
28 Peacebuilding (costruzione della pace): azione che si sviluppa al termine di un conflitto
ed è finalizzata a costruire le condizioni per una pace duratura, anche mediante
interventi economici e di monitoraggio socio-politico sul territorio. Questa operazione
prevede spesso l’organizzazione e la supervisione dei processi elettorali.
30
2.2. Missioni di pace
Nel 1956, durante la crisi di Suez 29, i tentativi di Francia e Inghilterra di
usare la forza per prevenire la nazionalizzazione del Canale di Suez da
parte del Presidente egiziano Nasser, fallirono. Questo fallimento segnò
una svolta nell’indipendenza diplomatica delle potenze europee.
L’atteggiamento ostile e contrapposto di URSS e Stati Uniti obbligò
Francia ed Inghilterra a ritirare le loro truppe e ad accettare lo sviluppo
di una forza militare delle Nazioni Unite (Formigoni 2000:413). Nacque
così la UNEF I 30 la prima forza di emergenza delle Nazioni Unite create
per assicurare e controllare la cessazione delle ostilità e per servire da
cuscinetto tra le forze egiziane e quelle israeliane.
UNEF I fu il primo intervento armato delle Nazioni Unite e fu anche il
primo ad essere definito “Missione di pace” (peace-keeping). Fu un
intervento di successo e quindi stabilì una serie di principi usati come
linee guida nei successivi interventi di mantenimento della pace. A partire
dalla fine degli anni ‘80 il numero delle missioni di Pace è aumentato in
modo considerevole.
Il concetto di Intervento civile di pace, ispirato alla visione gandhiana
dell’azione non violenta come strumento di trasformazione dei conflitti,
si sviluppa particolarmente dall’inizio di quegli anni. A seguito delle
guerre in ex-Jugoslavia, nel 1995 l’europarlamentare Alex Langer
29 La crisi di Suez fu un conflitto che nel 1956 vide l’Egitto opporsi all’occupazione
militare del canale di Suez da parte di Francia Regno Unito ed Israele. La crisi si
concluse quando l’URSS minacciò di intervenire al fianco dell’Egitto e gli Stati Uniti,
temendo l’allargamento del conflitto, costrinsero inglesi, francesi ed israeliani al ritiro.
Per la prima volta USA e URSS si accordarono per garantire la pace
(it.wikipedia.org/wiki/crisi_di_suez).
30 w w w . u n . o r g / e n / p e a c e k e e p i n g / m i s s i o n s / p a s t / u n e f i . h t m ;
i t . w i k i p e d i a . o r g / w i k i / f o r z a _ d i _ e m e r g e n z a _ d e l l e _ n a z i o n i
_ u n i t e .
31
propone l’istituzione di un Corpo civile di pace europeo, concepito come
team di specialisti capaci di intervenire in fase di prevenzione, gestione e
risoluzione del conflitto, con azioni “generatrici di pace”, finalizzate alla
mediazione, alla promozione della fiducia fra le parti, all’assistenza
umanitaria, alla re-integrazione di combattenti (specie mediante disarmo
e smobilitazione), alla riabilitazione nonché alla ricostruzione ed alla
promozione dei diritti umani.
Ampio riconoscimento del ruolo dei civili nell’azione “sui” e “nei”
conflitti internazionali viene garantito anche dalle Nazioni Unite. Con
l’Agenda per la pace 31 del Segretario Generale Boutros Boutros Ghali 32
del 1992, le Nazioni Unite hanno introdotto le categorie e le professioni
31 Nel 1992, Boutros Boutrous-Ghali, Segretario Generale delle Nazioni Unite, nel
documento denominato Agenda per la pace, affronta in maniera organica i temi della
diplomazia preventiva, della pacificazione e del mantenimento della pace, e infine quello
della costruzione della pace dopo un conflitto. Il documento fornisce una prima
definizione dei termini utilizzati.
Diplomazia preventiva è l’azione per prevenire la nascita di dispute tra le parti, per
impedire che dispute esistenti degenerino in conflitti e per limitare l’estensione di questi
ultimi quando essi si verificano.
Pacificazione è l’azione per condurre le parti ostili all’accordo, essenzialmente attraverso
mezzi pacifici come quelli contemplati nel Capitolo VI dello Statuto delle Nazioni
Unite.
Mantenimento della pace è il dispiegamento di una presenza delle Nazioni Unite sul
campo, previo consenso di tutte le parti interessate, che normalmente implica personale
militare e/o di polizia e spesso anche civili. Il mantenimento della pace è una tecnica
che aumenta le possibilità sia per la prevenzione del conflitto che per la creazione della
pace.
Costruzione della pace dopo il conflitto, è l’azione volta a individuare e appoggiare le
strutture che tenderanno a rafforzare e consolidare la pace al fine di evitare una ricaduta
nel conflitto (www.conflittidimenticati.it/cd/a/14779.html).
32 Boutros Boutros-Ghali, diplomatico egiziano (1922) è stato Segretario Generale delle
Nazioni Unite dal 1992 al 1996 (en.wikipedia.org/wiki/boutros_boutros-ghali).
32
di peacekeeping 33, peacemaking 34 e peacebuilding 35, nelle quali i civili sono
equiparati formalmente ai militari pur mantenendo un ambito proprio di
azione.
2.3. Funzione dei social media nei processi di pace
Tra le nuove generazioni si fa ormai un grande uso del termine social
innovation, riferendosi a quel tipo di progresso che affronta bisogni
sociali creando soluzioni basate sulla collaborazione. Una forma di
innovazione che tocca idee, prodotti e servizi con l’obiettivo di disegnare
una realtà che sappia ascoltare e far vivere meglio. Geoff Mulgan, nel
libro “Social innovation” (Egea), 36 parla di “progetti capaci di risolvere i bisogni
della contemporaneità, attraverso la partecipazione sociale”.
L’uso degli smartphone e dei social network permettono un approccio molto
più dinamico nei processi di pace, rispetto a quanto è stato possibile fare
finora con i media tradizionali. È ormai assodata l’importanza delle
organizzazioni non governative nei processi di pace, sottolineando come
le organizzazioni non governative (ONG) dispongano di tutti gli
strumenti necessari per lavorare sull’opinione pubblica, condizione
indispensabile per il raggiungimento di soluzioni politiche, ma anche
l’emergere di nuove forme di contatto come blog, micro-blog, social network
ben noti come Facebook e Twitter, Skype e altri strumenti web, sono
33 Peacekeeping: operazioni di mantenimento della pace (it.wikipedia.org/wiki/peacekeeping).
34 Peacemaking: processo di pacificazione (en.wikipedia.org/wiki/peacemaking).
35 Peacebuilding: (in italiano letteralmente “consolidamento della pace”) è un termine
usato all’interno della comunità internazionale per descrivere quei processi e quelle
attività coinvolte nella risoluzione dei conflitti armati al fine di stabilire una pace
sostenibile e assicurare la protezione di diritti umani fondamentali
(it.wikipedia.org/wiki/peacebuilding).
36 Mulgan Geoff, Social innovation, Milano, Egea, 2013.
33
diventati una finestra su un mondo altrimenti inaccessibile.
All’improvviso, è diventato possibile (ri)trovare su Facebook vecchi e
nuovi amici, chattare su Skype nonostante le frontiere chiuse e,
soprattutto, esprimere sostegno, comprensione e apertura verso “l’altra”
parte del mondo senza attendere l’autorizzazione dei governi locali. In
effetti, la crescente popolarità di questi strumenti ha spinto molti
organizzatori di incontri bilaterali a inserire i nuovi media nei loro
momenti di formazione.
Senza dubbio, la penetrazione di internet resta bassa in alcuni paesi ma,
con il calare dei costi e con l’aumentare della velocità, non c’è dubbio che
il mondo della comunicazione online e mobile diventerà con ogni
probabilità, uno strumento importante nelle mani della società civile e
degli attivisti politici.
“I blog raggiungono una platea specifica, non altrimenti raggiungibile da attivisti
indipendenti che non hanno risorse e tanto meno aiuti da parte del governo”, sostiene
Anna Dolidze, avvocatessa e scrittrice georgiana che si batte per il
rispetto dei diritti umani nel Caucaso. “Il loro impatto nel fornire informazioni
alternative è significativo, tanto che io penso che in quei Paesi in cui il governo
controlla i media più influenti, come la TV e la radio, questo possa essere uno
strumento efficace e a costo molto basso, fondamentale per diffondere informazioni”. 37
Eppure, nonostante i rischi, la crescente popolarità di siti come
Facebook e di altri strumenti per esprimere le proprie opinioni, come i
blog, offre nuove potenzialità ai social media e altri strumenti online per
riempire il vuoto di informazione. Benché questi strumenti non siano in
sé sufficienti a raggiungere il fine, potrebbero avere un potenziale
significativo come parte integrante di altre iniziative più tradizionali per
la trasformazione, gestione e risoluzione dei conflitti.
“Questi nuovi strumenti possono essere impiegati per fomentare la violenza così come
per promuovere la pace”, ha scritto Ivan Sigal, direttore di Global Voices
37 www.balcanicaucaso.org/aree/armenia/web-2.0-e-rivoluzioni-45650.
34
Online, in una ricerca (“Digital media in conflict-prone societies”) 38
redatta per il Centro per l’assistenza internazionale ai media (CIMA).
“Tuttavia è possibile creare sistemi di comunicazione che incoraggino il dialogo e le
soluzioni politiche non violente”, ha aggiunto l’ex ricercatore sui media civici
presso l’Istituto per la pace statunitense.
Micael Bogar, project manager al Centro per i social media dell’American
University 39 concorda, ma sostiene che molti di quanti lavorano nel
campo della risoluzione dei conflitti, continuano a non essere interessati
ad utilizzare strumenti a basso costo o a costo zero, neppure se questi si
dimostrassero più efficaci di ciò che esiste attualmente. E, dato che i
finanziatori internazionali non sono generalmente interessati ad iniziative
a basso costo, le ONG possono anche ricevere sovvenzioni maggiori per
attività che risultano essere poco efficaci o insostenibili.
Ciò nonostante, i soggetti consapevoli che costruire la fiducia e creare
amicizie sono processi che devono avvenire su base regolare, possono
usare strumenti come Facebook e Skype per evitare linee telefoniche
intercettate, attraversare i confini dei cessate il fuoco e le frontiere chiuse,
prima e specialmente dopo, gli incontri veri e propri.
La Bogar è comunque cauta, ritenendo che gran parte della società civile
attualmente impegnata nelle iniziative di peace building non prenda
seriamente questo lavoro. Coloro che davvero lavorano per costruire la
pace hanno un carattere radicale, diverso dagli altri, sostiene. “Io penso
che quando in un attivista o in un operatore per la risoluzione dei
conflitti sono presenti questi elementi fondamentali, la naturale
conseguenza è quella di entrare nei social media”, sostiene la Bogar.
“Quanto a quelli che non li utilizzano, o sono più vecchi e inconsapevoli
della loro esistenza, oppure semplicemente non sono interessati ad
38 Ivan Sigal, in “Digital Media in Conflict-Prone Societies”, (CIMA).
39 Micael Bogar (www.american.edu/profiles/staff/bogar.cfm).
35
utilizzare strumenti a basso costo quando possono ricevere grandi
sovvenzioni continuando a fare quello che fanno”.
Sul tema è intervenuta anche l’Università degli Studi di Udine, che ha
condotto innumerevoli studi transfrontalieri sulle reti sociali di Facebook
all’interno dei paesi dell’ex Jugoslavia, basati sulla seguente ipotesi di
ricerca: l’utilizzo di queste forme di comunicazione influenzano un
maggiore senso di vicinanza, amicizia, fiducia e solidarietà tra le persone
(condizioni necessarie per i processi di peace building)?
Come sostenuto nell’articolo di Valentina Bernardinis e Nicolo Strizzolo 40 le basi della ricerca risiedono in diverse esperienze riportate dalla
letteratura sull’argomento.
“Una fra le altre è l’utilizzo delle ICT per l’appianamento dei dissidi con videogiochi
che impegnino gli studenti in negoziati di pace tra Israeliani e Palestinesi (Burak,
Keylor and Sweeney, 2005)
Anche i videogiochi quindi possono coadiuvare interventi per la risoluzione e la
gestione dei conflitti, anche all’interno di contesti educativi (Veletsianos, Eliadou,
2009): la variabile determinante non è la tecnologia in questi casi ma le opportunità
che la tecnologia offre combinata a determinate pedagogie. Diventa pertanto
determinante conoscere e sviluppare questa combinazione di opportunità tecnologia e
pedagogie che le sfruttino al meglio.
In altri casi si sono utilizzati invece “warblog” 41 e “peaceblog” 42 per far comprendere
agli studenti le dinamiche di base per la pace, sono costituite dalla socializzazione che
avviene all’interno d’interazioni tra persone di diversa estrazione e cultura; pertanto, le
tecnologie Web 2.0 possono alimentare forme di comunicazione e collaborazione,
struttura base dei processi di peace building (Veletsianos, Kleanthous, 2009).”
40 www.agendadig i ta le .eu/competenze-digitali/1021_il-ruolo-dei-social-media-
nei-processi-di-pace-casi-di-studio.htm.
41 Termine coniato da Matt Welch, giornalista e blogger americano
(mattwelch.com/warblog.html).
42 www.thepeaceblog.org; peaceblog.wordpress.com/; powerfulpeace.wordpress.com/;
peacetour.org/blog; preschoolersandpeace.com/blog.
36
L’esperienza del Laboratorio Internazionale della Comunicazione
(Università di Udine e Università degli Studi Cattolica del Sacro Cuore 43), fondato a Roma dall’Università Cattolica nel 1963, inizialmente con la
denominazione Corsi estivi di lingua e cultura italiana, poi trasformata,
nel 1980, in Laboratorio internazionale della comunicazione, si è
dimostrata una tra le maggiormente significative nell’ambito di questi
studi.
Il Laboratorio è condotto in collaborazione con l’Università Cattolica di
Milano e l’Università di Udine che, concordemente, la sponsorizzano. Le
istituzioni a supporto sono la regione Friuli - Venezia Giulia, il Comune
di Gemona, la provincia di Udine e la fondazione Crup. Il Laboratorio,
che per l’originalità della sua impostazione si è affermato, a livello
internazionale, come uno dei più prestigiosi corsi estivi di lingua e cultura
italiana, si rivolge a giovani studiosi, artisti, professionisti nel campo della
comunicazione letteraria, cinematografica, teatrale, giornalistica e delle
arti figurative, buoni praticanti della lingua italiana e si mostrano
interessati ad aggiornarsi sulla realtà italiana contemporanea (lingua,
letteratura, storia, arte, scienze, sociologia, politica, musica, teatro,
cinema, costume).
Molti partecipanti al Laboratorio delle scorse edizioni si distinguono oggi
in ruoli chiave - nei rispettivi paesi - nella diffusione della cultura italiana
nelle università, negli istituti italiani di cultura, nei centri media. Altri
sono artisti, altri ancora hanno un ruolo nelle istituzioni pubbliche o nelle
aziende che hanno relazioni economiche con l’Italia.
Tra gli obiettivi del Laboratorio, infine, ci sono anche le relazioni
interculturali che si instaurano tra giovani e meno giovani che andranno a
occupare o già occupano ruoli da intellettuali nella classe dirigente dei
Paesi coinvolti, relazioni rese da alcuni anni ancora più intense dalle
piattaforme social che il Laboratorio utilizza (Facebook e Twitter).
43 www.labonline.it.
37
Bernardinis e Strizzolo riportano che, “sempre Veletsianos, Kleanthous,
(2009), in un’approfondita ricostruzione della letteratura scientifica sull’argomento,
individua le tecnologie che sono state maggiormente usate per promuovere la pace:
- ‘Learning Management Systems’ (LMS) o ‘Virtual Learning Environments’
(VLEs);
- il web 2.0 con blog;
- wikis, social networking online;
- siti per la condivisione di video.
Altri fonti indicano la mail, la videoconferenze e telefoni cellulari per la condivisione
di informazioni e comunicazioni orientate alla comprensione reciproca.” 44
Interessante la citazione degli autori nei confronti di un’altra esperienza
di costruzione di pace attraverso le ICT e cioè il ruolo della piattaforma
“Peace Revolution” 45. Rivoluzione Pace si sforza infatti di portare la
pace nel mondo, sostenendo le persone a trovare la pace interiore e la
condivisione della pace con le loro famiglie, amici e comunità, da qui lo
slogan PIPO o pace In, pace Out. Quindi, al fine di cambiare il mondo,
dobbiamo cominciare dal cambiare noi stessi. L’approccio unico che
distingue Rivoluzione Pace da altre iniziative di pace è l’inclusione di tre
componenti che supportano lo sviluppo personale dei loro membri
denominati Aka Rebels Pace. Essi coltivano la pace interiore attraverso la
meditazione, partecipando a un programma di auto-sviluppo in linea,
aderendo ad un training di pace faccia-a-faccia interna in diverse parti del
mondo, ad esempio con i bambini dei campi profughi in Africa, unendo
l’organizzazione di speciali attività on-line di pace interiore “Special Ops”
e diffondendo il concetto di Pace In Peace Out organizzando attività
PIPO.
44 Cfr. nota n. 40.
45 peacerevolution.net.
38
Altrettanto significativa da citare è anche l’attività della piattaforma
“Everyday rebellion.” 46
Infine aggiungono: “pare inoltre dimostrato che il social networking sia
fondamentale per il reinserimento di ex combattenti nella vita civile e in quella
lavorativa. Su queste basi, il “World Bank’s Transitional Demobilization and
Reintegration Program” (TDRP) sta sponsorizzando un progetto sull’utilizzo delle
ICT per le peace buiding, ma a parte le premesse, non vengono offerte ancora
validazioni scientifiche degli output di questo percorso (Lamb, 2013).
Una ricerca della Georgia Tech sta portando i suoi frutti attraverso il software
“Aggie” che aggrega e analizza in tempo reale flussi multipli di diversi social media e
blog contemporaneamente. Gestisce grandi volumi di informazioni che estraggono in
tempo reale parole chiave, analizza il contenuto e valuta l’incidenza monitorando gli
argomenti (Best, 2013).
Il sistema venne testato nelle elezioni del 2011 in Nigeria. Arrivato il momento delle
urne, il software, che in tempo reale tagga e registra i report dei ballottaggi e le
eventuali irregolarità nelle elezioni segnalando i casi di frode, aveva ignorato i segnali
dei primi focolai di violenza (seguiti da violente sommosse con numerosi feriti e morti).
È stato così che il software - riconfigurato - oggi ha anche il compito di evidenziare
violenze nei flussi di discorso nel web. Questo ha permesso di inviare forze di sicurezza
lì dove provenivano sintomi di violenza e sospetti di frodi elettorali in maniera da
prevenire disordini ma anche di garantire elezioni trasparenti e democratiche. I
progettisti del sistema credono che usando il software “Aggie” si possano rendere
servizi di monitoraggio e di trasparenza in tempo reale alle elezioni, attenuando i
flussi di violenza e garantendo così un sostegno importante ai paesi in cerca di pace e
democrazia”.
46 www.everydayrebellion.net.
39
3. L’ONU e la cultura della pace
3.1. Nascita della cultura della pace
La Dichiarazione sul diritto dei popoli alla pace, adottata 47
dall’Assemblea General delle Nazioni Unite, il 12 novembre 1984
durante la 57a Seduta plenaria, sottolinea che: “per garantire l’esercizio del
diritto dei popoli alla pace, è indispensabile che la politica degli stati tenda alla
eliminazione delle minacce di guerra, all’abbandono del ricorso alla forza nelle
relazioni internazionali e alla composizione pacifica delle controversie internazionali
sulla base dello Statuto delle Nazioni Unite”.
Storicamente il concetto di Cultura di Pace, viene formulato o meglio,
istituzionalizzato, per la prima volta nel 1989 al Congresso Internazionale
ONU sulla Pace in Costa d’Avorio. Il Congresso raccomandò
all’UNESCO 48 di lavorare per costruire una nuova visione della pace
basata sui valori universali di rispetto per la vita, di libertà, di giustizia, di
solidarietà, di tolleranza, dei diritti umani e dell’uguaglianza tra uomo e
donna. Secondo l’ONU, per creare una cultura di pace, si deve agire su
due livelli: a livello politico statuale ed a livello culturale e quindi
soggettivo personale.
Questa iniziativa nasce in un contesto internazionale influenzato dalla
caduta del muro di Berlino e dalla conseguente scomparsa delle tensioni
legate alla guerra fredda.
Nel 1994 si tiene il primo Forum Internazionale sulla cultura di pace in
San Salvador. L’anno dopo, la 28a Conferenza Generale dell’UNESCO
introduce il concetto di cultura della pace per il quinquennio 1996-2001,
durante il quale viene sviluppato il progetto “Towards a Culture of
47 it.wikipedia.org/wiki/Dichiarazione_sul_diritto_dei_popoli_alla_pace.
48 Agenzia delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura, fondata nel
1948 ha sede a Parigi.
40
Peace” (Verso una cultura di pace). Organizzazioni non governative,
associazioni, giovani e adulti, media nazionali, locali e leader religiosi
attivi per la pace la nonviolenza e la tolleranza, si impegnarono nel
diffondere in tutto il mondo una Cultura di Pace attraverso l’educazione,
la scienza, la cultura e la collaborazione tra le nazioni. Dove c’è cultura
diffusa c’è rispetto universale per la giustizia, la legge, i diritti dell’uomo e le
libertà fondamentali per tutti, senza distinzione di razza, sesso, lingua o religione,
come la Carta delle Nazioni Unite riconosce a tutti i popoli.
Nel 1997 tutti i premi Nobel per la pace sottoscrivono, su proposta di
Mairead Corrigan-Maguirre (Irlanda del Nord, 1976) e Adolfo Perez
Esquivel (Argentina, 1980), i membri dell’IFOR (International fellowship of
reconciliation) un appello all’ONU per istituire un anno internazionale per
una cultura di pace. L’appello viene sostenuto anche da numerose
eminenti personalità e organizzazioni. Lo stesso anno l’Assemblea
generale delle Nazioni Unite proclama l’anno 2000 «Anno internazionale
per la cultura di pace». L’UNESCO viene subito incaricata di diffondere
un manifesto in cui si chiede alle persone di sottoscrivere alcuni impegni
concreti riguardo una cultura di pace. Questo manifesto viene
sottoscritto, nel corso del 2000, da 65 milioni di persone in tutto il
mondo pari a un cinquantesimo dell’intera popolazione mondiale.
Il 10 novembre 1998 l’Assemblea generale dell’ONU, con la Risoluzione
n. 53/25 49, ha proclamato il periodo 2001-2010 “Decennio
internazionale della promozione di una cultura della nonviolenza e della
pace a beneficio dei bambini del mondo”, e il 6 novembre 1999 con la
Risoluzione n. 53/25 ha emesso la “Dichiarazione e programma sulla
cultura della pace.” 50
49 www.unesco.org/cpp/uk/declarations/2000.htm.
50 decade-culture-of-peace.org/resolutions/resa-53-243b.html.
41
Fig. 3.1 - Simbolo della cultura della Pace
3.2. L’UNESCO e la cultura della pace
“Dato che è nella mente degli uomini che si prepara la guerra, è nella mente degli
uomini che la pace deve essere costruita”. (UNESCO Costitution 1948). 51
Questo è il preambolo della Costituzione dell’UNESCO -
Organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la
cultura - unica agenzia delle Nazioni Unite ad avere, nel suo atto
costitutivo, un mandato sulla costruzione e sulla difesa della Pace.
Per l’UNESCO la pace è molto più che il risultato di trattati tra governi o
di accordi tra persone potenti: la pace risulta dal modo in cui un popolo
si relaziona con un altro popolo, nel rispetto dei reciproci diritti e doveri
riconosciuti dalla comunità internazionale. Non è quindi la forma di
governo che garantisce la pace né tanto meno un insieme di trattati o
accordi internazionali. La pace è garantita solo ed esclusivamente dal
comportamento e dalle scelte degli individui che insieme costituiscono il
51 portal.unesco.org/en/ev.php-rl_id=15244&url_do=do_topic&url_section=201.html.
42
comportamento e le scelte di un popolo. Non basta relegare agli attori
statuali la salvaguardia della Pace. Serve agire sugli individui per una
cultura diffusa che affronti non solo i conflitti tra Stati o all’interno degli
stessi ma il conflitto in sé come componente del vivere umano.
L’aggressività e il conflitto sono componenti costitutive di un continuo
processo di individuazione e socializzazione, cognitivo e affettivo allo
stesso tempo. Le forme di elaborazione del conflitto possono portare ad
esiti cooperativi o antagonistici. La loro affermazione ed il loro
consolidamento istituzionale prendono le forme della mutualità del
dialogo e della guerra.
La Risoluzione n. 50/173 delle Nazioni Unite 52 (27 febbraio 1996)
richiede all’UNESCO di redigere un rapporto sulla promozione
dell’educazione alla pace, ai diritti umani, alla cooperazione
internazionale e alla tolleranza, rapporto che viene consegnato al
Segretario delle Nazioni Unite all’inizio del 1997. 53
3.2.1. “The International Decade for a Culture of Peace”
Come già accennato sopra, la decade 2001-2010 è stata dichiarata
dall’ONU “The International Decade for a Culture of Peace and Non-
Violence for the Children of the World”. 54 Due gli aspetti enfatizzati: le
attività di educazione alla pace per i bambini e la costruzione di una
strategia organizzativa mettendo in rilievo l’importanza delle partnership
e delle nuove tecnologie informatiche.
52 www.un.org/documents/ga/res/50/a50r173.htm.
53 “Report on educational activities in the framework of the UNESCO transdisciplinary project
entitled Towards a culture of peace” (www.un.org/documents/ga/docs/51/plenary/a51-
395.htm).
54 www3.unesco.org/iycp/uk/uk_sum_decade.htm.
43
L’UNESCO come agenzia leader per la Cultura della Pace per la Decade
2001-2010, intensifica e mobilizza gli sforzi sulla cultura della Pace a
livello nazionale non solo attraverso canali istituzionali quali le
Commissioni Nazionali degli Stati di appartenenza ma soprattutto
attraverso il coinvolgimento nelle proprie attività di Organizzazioni non
governative.
Molte le attività svolte durante la decade 2001-2010 a sostegno della
Cultura della Pace, segnalo quelle che a mio avviso hanno utilizzato
maggiormente modalità afferenti alla disciplina delle Relazioni Pubbliche,
ponendo in rilevanza, la conoscenza reciproca, l’ascolto, il dialogo
partecipativo, la comunicazione bidirezionale, i comunicati, le
pubblicazioni, gli eventi, l’uso del web e delle nuove tecnologie.
a) Educazione alla non violenza 55
Le attività educative volte all’uso della non violenza, sono state
principalmente attuate attraverso un programma di training sulla
mediazione e sulla risoluzione dei conflitti in modo non aggressivo.
Questi training sono stati realizzati soprattutto in Europa dell’est, nel
medio oriente e in Africa dal 1996 al 2010. Hanno contribuito alla
formazione dei mediatori di pace con training sul dialogo partecipativo,
ascolto degli stakeholder influenti, meeting e contatti diretti con le
autorità nazionali. Programmi specifici per i bambini in età scolare,
prevedevano giochi sulla costruzione della pace i cui risultati venivano
postati su specifici website. Il volume “Best practice on Conflict Resolution in
and out of School” 56 è stato pubblicato con i contributi delle associazioni,
insegnanti, educatori alla pace ed è stato incluso in un kit di educazione
alla non violenza utilizzato da insegnanti e trainers.
55 www.unesco.org/new/en/bureau-of-strategic-planning/themes/culture-of-peace-and-
non-violence.
56 unesdoc.unesco.org/images/0012/001266/126679e.pdf.
44
b) Premio UNESCO per l’Educazione alla pace (1981-2009) 57
Questo riconoscimento è stato assegnato ad individui, organizzazioni o
gruppi la cui azione in favore della promozione e, in particolar modo,
modo dell’educazione alla Pace fosse riconosciuta internazionalmente.
Trai i vari premiati ricordiamo Madre Teresa di Calcutta (1992),
l’Associazione delle Madri della Plaza de Mayo, Argentina, (1999), la
Città Scuola Montessori, India (2002).
La modalità dell’evento-Premio internazionale è stata scelta in questo
caso dall’UNESCO per creare consenso e accrescere consapevolezza tra
i propri partner e stakeholder scegliendo dei soggetti che attraverso il
loro vissuto rappresentavano dei simboli di Pace.
c) Premio UNESCO Città per la pace (1996- 2005) 58
Questo Premio si è principalmente orientato verso quelle città in cui
venivano applicate iniziative di rafforzamento della coesione sociale,
nelle quali si miglioravano le condizioni di vita delle periferie svantaggiate
e che sviluppavano un costruttivo dialogo interculturale, elementi
necessari per lo sviluppo di un armonioso ambiente urbano.
Il Premio è stato cancellato nell’anno 2005.
d) “Community Radio”
Questo programma dell’UNESCO intendeva sostenere a livello locale lo
sviluppo della comunità dei media, dando a gruppi sociali isolati o
svantaggiati la possibilità di partecipare al miglioramento di strategie e
progetti che promuovessero il dialogo e rafforzassero le singole
esperienze. Il progetto, che prevedeva l’utilizzo di stazioni radio in
abbinamento all’accesso ad internet, permetteva di superare le barriere
linguistiche e la mancanza di infrastrutture nelle comunità rurali,
57 unipd-centrodirittiumani.it/it/news/premio-unesco-per-leducazione-alla-pace-2008/1085.
58 portal.unesco.org/culture/en/ev.php-url_id=2477&url_do=do_topic&url_section=201.html.
45
fornendo risposte alle interrogazioni dirette degli ascoltatori e la
possibilità di condividere informazioni e conoscenze.
e) Supporto alla comunicazione partecipativa e al libero flusso di
informazioni e conoscenza.
Con questo obiettivo l’UNESCO ha attivato una serie di azioni a
supporto dei media indipendenti nella promozione della cultura della
pace. Un esempio per tutti: il programma “UNESCO SOS MEDIA”, 59
attivato nei paesi dell’ex Jugoslavia. Durante la guerra in Bosnia-
Erzegovina e dopo la sua conclusione, attraverso questo programma
sono stati sostenuti concretamente, con finanziamenti e strumentazione,
i media indipendenti che operavano per garantire l’informazione durante
il periodo bellico. L’UNESCO ha contribuito alla creazione delle
condizioni per la libertà di stampa durante il periodo di transizione di
quei paesi.
Per comunicare queste attività sono stati utilizzati prevalentemente i
media classici in modo particolare si è fatto uso di comunicati stampa,
articoli sui quotidiani o stampa specializzata, postati sui siti web
istituzionali, diffusi via radio.
3.2.2. 2010-2014: il presente
Le diverse politiche operative dell’Organizzazione dovute
all’avvicendamento dei Direttori Generali e la crisi economica che dal
2008 ne condiziona le attività, hanno cambiato gli orientamenti dei suoi
programmi nell’ambito della cultura della pace. Se fino a metà degli anni
2000 la Cultura della Pace in tutte le sue declinazioni, era una priorità nei
59 www.unesco.org/webworld/fed/temp/communication_democracy/assist_new.htm.
46
programmi UNESCO, gli ultimi periodi (dal 2008 ad oggi) hanno visto
un differente coinvolgimento nei confronti di questo argomento.
Le attività che l’UNESCO attualmente implementa a sostegno della
cultura della pace rientrano in un programma denominato “Culture of
Peace and non Violence”. 60
Al fine di promuovere le condizioni perché la pace possa essere una
realtà tangibile per tutti, l’UNESCO ha stabilito un nuovo programma
per migliorare una cultura di pace e non-violenza a livello globale,
regionale, nazionale e locale, che persegue i seguente risultati:
� principi fondamentali della pace universalmente condivisi da
assegnare da culture diverse, grazie ad un dialogo autentico e integrato
nelle politiche pubbliche;
� la tensione tra universalità e particolarismo, identità culturali e la
cittadinanza in un mondo globalizzato analizzato e meglio compreso;
� la pace di tutti i giorni per essere concepito come esperienza di vita
quotidiana, non solo nei periodi di conflitto, ma anche in tempi
normali.
Tre sono gli obiettivi principali che vengono perseguiti: 61
1. sviluppare un nuovo approccio politico, concettuale e programmatica
a favore di un forte impegno da parte degli Stati e della società civile a
coltivare “la pace di tutti i giorni” che coinvolge donne e dei giovani,
(es: attraverso le nuove tecnologie e social media);
2. migliorare la comprensione globale del mondo e decostruire le idee
preconcette, ponendo l’accento sul futuro come aspirazione
umanistica (es: attraverso la definizione di linee guida per un
programma globale su valori condivisi);
60 www.unesco.org/new/en/bureau-of-strategic-planning/themes/culture-of-peace-
and-non-violence.
61 www.unesco.org/new/en/bureau-of-strategic-planning/themes/culture-of-peace-
and-non-violence/main-areas-of-action.
47
3. promuovere un movimento globale in favore degli ideali e la pratica di
una cultura di pace e non-violenza con particolare attenzione ai
giovani l’impegno civico e la partecipazione democratica (es: con la
creazione di “poli di pace”).
Tra i programmi attualmente sviluppati si ricordano:
� PeacEducation - Educazione alla pace. 62 Vengono approfondite e
sviluppate nelle scuole attività di educazione alla Pace alla prevenzione
dei conflitti e alla convivenza. Queste attività sono sviluppate in
Africa, in Asia e Medio Oriente, in America latina e nei Caraibi.
Queste attività prevedono oltre all’aspetto educativo, l’attività
partecipativa dei ragazzi ad eventi quali mostre, dialoghi tra
rappresentanti di diverse culture, l’ascolto partecipativo.
� Communicating Peace 63 - I mezzi di comunicazione quali strumenti per
rafforzare l’atteggiamento di Pace e non violenza. L’UNESCO
sostiene e promuove il ruolo positivo che i media, sia tradizionali che
nuovi media, hanno nella cultura della pace e la loro capacità di
aiutare le comunità a convivere nelle loro differenze in armonia. A
questo scopo sono stati sviluppati dei progetti sui media e sulla
letteratura dell’informazione ad uso dei professionisti della
comunicazione e delle relative comunità di stakeholder, per opporsi
gli appelli alla violenza e alla diffusione dei conflitti in quelle aree del
pianeta maggiormente a rischio (Sud Sudan, Uganda, Cile).
� New Citizenship for Young Women and Men 64 - Nuove Cittadinanze per
Giovani, Uomini e Donne.
62 www.unescobkk.org/news/article/dialogue-on-peace-and-education-reform-in-myanmar.
63 www.unesco.org/new/en/bureau-of-strategic-planning/themes/culture-of-
peace-and-non-violence/main-areas-of-action/communicating-peace.
64 www.unesco.org/new/en/bureau-of-strategic-planning/themes/culture-of-
peace-and-non-violence/main-areas-of-action/new-citizenship-for-young-women-and-
men.
48
� Il programma di azione per “La cultura della pace e non violenza”
enfatizza la situazione di donne e giovani, che sono colpiti in modo
sproporzionato dai conflitti e dalla crisi globale quando invece
dovrebbero essere attori principali di una cultura della pace. Questo
programma dell’UNESCO ritiene quindi che donne e giovani
debbano essere provvisti di conoscenza, competenze e informazioni
necessarie per essere all’altezza delle trasformazioni sociali, etiche,
politiche, ambientali. Questo programma è attivo negli stati arabi, in
medio oriente, in America latina e in Africa. Si tratta essenzialmente di
programmi educativi attivati attraverso i canali scolastici esistenti in
loco o in supporto ad essi.
� Mutual understanding through Cultural Heritage 65 - Reciproca
comprensione attraverso il Patrimonio culturale. Attività principale di
questo programma è il progetto “Heritage and contemporary creativity as
tools for building peace through dialogue” (Patrimonio e creatività
contemporanea quali strumenti per costruire la pace attraverso il
dialogo). Con questo progetto si promuovono gli approcci innovativi
e creativi che esaltino la cultura quale mezzo di sviluppo sociale,
economico ed umano. Vengono incoraggiati la creatività, le industrie
culturali, i patrimoni culturali in ogni loro forma come strumenti
potenti e unici per favorire la creazione di lavoro, coesione sociale e
mutua comprensione. L’obiettivo di questo programma è creare una
struttura per migliorare la cooperazione internazionale e la
costruzione della Pace. Tra i vari progetti cito, “Heritage and
Dialogue” il cui intento è di apprendere dal passato per promuovere il
dialogo per la riconciliazione e la comprensione interculturale nel Sud
Est Europeo e oltre. Coinvolgendo 12 nazioni (Albania, Bosnia
65 www.unesco.org/new/en/bureau-of-strategic-planning/themes/culture-of-
peace-and-non-violence/main-areas-of-action/mutual-understanding-through-
cultural-heritage.
49
Erzegovina, Bulgaria, Croazia, Cipro, Grecia, Montenegro, Romania,
Serbia, FYROM, Slovenia e Turchia) è considerato un progetto pilota
in ambito UN per porre le basi per la Pace e la riconciliazione
attraverso il patrimonio culturale. Tra le maggiori iniziative:
� summit dei capi di Stato del sud-est Europa per incrementare la
diplomazia culturale; 66
� Youth and Heritage: progetto che intende stabilire uno spazio dove
creare eventi e iniziative culturali all’interno del Museo Statale di
Auschwitz: 67
� mostre itineranti che parlino dell’identità culturale e che promuovano
il dialogo interculturale. 68
L’organizzazione ha deciso che il sito web www.unesco.org divenga lo
strumento per eccellenza della comunicazione istituzionale
dell’organizzazione, quindi le informazioni relative alle sue attività
vengono qui postate e sono a libero utilizzo dei media.
Oltre al sito istituzionale, da circa 3 anni l’UNESCO utilizza i social
network e particolare facebook, twitter e youtube per comunicare con i
propri pubblici.
66 www.unesco.org/new/en/bureau-of-strategic-planning/themes/special-
events/summits-of-south-east-europe.
67 w w w . u n e s c o . o r g / n ew/ e n/ v e n i c e / a b o u t - t h i s - o f f i c e / s i n g l e -
v i e w / n ew s/s e c o nd _ s ou t h _ e a s t _ e u r o p e _wo r l d _ h e r i t a g e _ y ou t h_ f
o r um .
68 w w w . u n e s c o . o r g / n e w / e n / v e n i c e / r e s o u r c e s - s e r v i c e s / h o s t -
fac i l i t ies/special -events/imagining-the-ba lkans.
50
Fig. 3.2 - Analisi del traffico quotodiano dei visitatori del sito Unesco tratto da UNESCO
Visibility Report July-August 2014
Figg. 3.3 - Statistiche visitatori del sito www.unesco.org tratte da UNESCO Visibility Report
July 2014
Figg. 3.4 - Statistiche visitatori del sito www.unesco.org tratte da UNESCO Visibility Report
August 2014
51
Fig. 3.5 - Analisi dell’origine geografica dei visitatori del sito www.unesco.org, tratto da
UNESCO Visibility Report July-August 2014
3.2.3. UNESCO Goodwill Ambassadors e Artisti per la pace
Gli Ambasciatori di Buona Volontà dell’UNESCO e gli Artisti
UNESCO per la pace 69 sono celebrità di fama internazionale che
perorano la causa dell’organizzazione attraverso la loro professione di
artisti. La loro attività 70 si articola soprattutto attraverso l’organizzazione
di eventi, concerti musicali, performance teatrali, campagne mediatiche,
appelli e dichiarazioni a favore di e in sostegno ai programmi
dell’organizzazione e in modo particolare ai programmi di cultura della
pace. Tra gli Artisti UNESCO per la Pace ricordo tra gli altri: Marisa
Berenson, attrice (Italia), Manu Dibango, percussionista (Camerun),
Joaquin Cortés, ballerino (Spagna), Gilberto Gil, cantante (Brasile),
Celine Dion, cantante (Canada), Milton Masciadri, contrabbassista
(Uruguay), World Orchestra for Peace, orchestra (GB), Jordi Savall,
chitarrista (Spagna), Marcus Miller, jazzista (USA).
Gli Artisti UNESCO per la pace si fanno ambasciatori del messaggio di
cultura di Pace dell’UNESCO e lo diffondono soprattutto attraverso
69 www.unesco.org/new/en/goodwill-ambassadors/artists-for-peace.
70 www.unesco.org/new/en/goodwill-ambassadors/welcome-message.
52
eventi e la loro attività artistica. Lavorano con l’UNESCO per rafforzare
e diffondere il rispetto per il pluralismo, per il dialogo interculturale, lo
spirito di riconciliazione, la giustizia sociale.
Qui gli strumenti di comunicazione utilizzati sono soprattutto quelli
denominati BELOW THE LINE come promozioni, sponsorizzazioni,
eventi.
Negli ultimi 2 anni, particolarmente attivo nell’azione di sensibilizzazione
dell’opinione pubblica a supporto dei processi di Pace è l’attore Forest
Whitaker UNESCO Goodwill Ambassador e inviato speciale per la Pace
e la Riconciliazione. Per promuovere la pace nelle zone di conflitto,
Whitaker da vita a diverse iniziative di dialogo e di informazione come il
progetto “Cinema for Peace” 71 in Sud Sudan, che prevede la proiezione
di film sul tema della pace e della riconciliazione e promuove il dialogo
tra gli spettatori.
Fig. 3.6 - Forest Whitaker riceve nel 2007 il Premio Oscar come miglior attore per la
sua interpretazione nel film “L’Ultimo Re di Scozia”
71 w w w . u n e s c o . o r g / n e w / e n / m e d i a - s e r v i c e s / s i n g l e -
v iew/news/fore s t_wh i take r_he lps_bu i ld_peace_ through_the_power
_of_c inema_ in_ sou th_sudan .
53
Fig. 3.7 - F. Whitaker parla in un convegno dell’UNESCO
Fig. 3.8 - F. Whitaker e Irina Bokova, Direttrice Generale dell’UNESCO
Fig. 3.9 - F. Withaker in visita a Hope North, Uganda del Nord
Fig. 3.10 - F. Withaker in visita a Hope North, Uganda del Nord
55
4. Pace e e genere femminile
Mentre gli uomini hanno sempre compiuto le loro scelte ed intrapreso le
loro azioni convinti di esser stati chiamati dalla storia, le azioni delle
donne nascono sotto la spinta dell’innato senso di responsabilità e di
protezione della famiglia.
Le donne si sono sempre distinte per la loro innata propensione alla
protezione, alla mediazione e quindi alla pace.
Le differenze tra uomini e donne sono state storicamente ricondotte a
due distinte dimensioni, quella afferente al sesso, come modalità naturale
e biologica che contraddistingue diversamente i soggetti in virtù della
loro funzione riproduttiva, e quella concernente il genere che, invece,
richiama l’intervento della cultura umana ed ha più propriamente a che
fare con le differenze socialmente costruite. Quest’ultima dimensione
trova piena affermazione in ambito scientifico e sociologico solo in anni
più recenti, più precisamente a partire dagli anni ‘70, grazie alla
produzione di matrice femminista. Al contrario, prima di questo periodo
si presupponevano differenze anatomiche e fisiologiche tra i sessi - date
per esempio dai differenti apparati riproduttivi, tratti sessuali secondari e
corredi cromosomici - in grado di garantire l’allontanamento delle donne
dall’ambito pubblico e del potere, in base alla loro funzione affettiva e
procreativa. Una simile impostazione è rinvenibile già nella visione
aristotelica della società politica, in cui oltre a delinearsi la coincidenza tra
la distinzione vita privata/vita pubblica e quella tra dimensione
domestica/dimensione politica, trova una chiara espressione il rapporto
di dominio sociale dell’uomo sulla donna, la quale, al pari di schiavi e
ragazzi, viene descritta come priva delle capacità deliberative. In linea
con queste considerazioni nel saggio “Politica” il filosofo afferma che
“non è la stessa temperanza d’una donna e d’un uomo, e neppure il coraggio e la
56
giustizia […], ma nell’uno c’è il coraggio del comando, nell’altra della
subordinazione, e lo stesso vale per le altre virtù”.
Per un lungo periodo, quindi, il pensiero scientifico occidentale, così
come i miti e le speculazioni filosofiche, è stato contrassegnato dalla
rigida e netta contrapposizione tra la sfera privata e quella pubblica, tra la
dimensione dei sentimenti e dell’affettività e quella della ragione e del
calcolo economico. Una contrapposizione che ha portato alla
teorizzazione della subalternità ed inferiorità del femminile rispetto al
maschile. In linea con queste osservazioni si collocano gli apporti di
alcuni principali sociologi classici e moderni che, pur non addentrandosi
in maniera specifica sull’argomento, hanno tuttavia contribuito a
riproporre ed in parte rafforzare, la natura patriarcale dell’ordine sociale,
nonché il cosiddetto mito delle sfere separate. Si può dunque
chiaramente affermare, che il passaggio alla modernità abbia contribuito
ad ampliare le differenze di genere, determinando una separazione
sempre più netta tra mondo dei rapporti familiari e mondo dei rapporti
economici, tra economia domestica ed economia aziendale (Ruspini,
1999). E così, riprendendo le parole di Saraceno (1992), per un lungo
periodo di tempo l’essere donna si è espresso esclusivamente “per
appartenenze a luoghi privatissimi: il corpo e la famiglia”. Sotto la spinta dei
movimenti di liberazione femminile sviluppatisi negli Stati Uniti ed in
Europa a partire dagli anni ‘70, avviene un cambiamento di rotta,
attraverso un approccio che privilegia “l’interrogazione sulla presunta
naturalità con cui economisti, legislatori, politici, sindacalisti dell’epoca hanno
affrontato la differenza di funzioni tra uomini e donne nella società e la questione
della lavoratrice, fino a problematizzare la stessa divisione sessuale del lavoro”
(Saraceno, 1988).
I contributi sulla divisione sessuale del lavoro sino a questo momento
esaminati, passando da modelli sostenuti da ragioni biologiche di
presunta superiorità maschile, propri della fine dell’800, a teorie fondate
57
prevalentemente sul ruolo della socializzazione primaria di richiamo
psicanalitico, concorrono a riprodurre il rapporto dualistico tra uomini e
donne, tra mercato e famiglia, legittimando e giustificando una rigida ed
irremovibile differenza di genere. La donna viene considerata come
maggiormente incline ad occuparsi di determinate attività, afferenti alla
sfera affettiva e domestica, distinte da quelle “naturalmente” attribuibili
all’uomo: all’appartenenza sessuale corrisponde cioè un ruolo rigoroso,
ascritto a livello sociale ed immodificabile dal punto di vista temporale
(Dall’Agata, 1995). Una simile impostazione predomina nella cultura
borghese e positivista della fine del XIX secolo e perdura sino alla prima
metà del XX.
Fondamentali per fornire nuove conoscenze ed introdurre nuove
prospettive di indagine ed approcci interpretativi sono gli studi di
genere o gender studies, come vengono chiamati nel mondo anglosassone,
rappresentando un punto di vista multidisciplinare e interdisciplinare allo
studio dei significati socio-culturali della sessualità e dell’identità di
genere.
Questi studi non costituiscono un campo di sapere a sé stante, ma
rappresentano innanzitutto una modalità di interpretazione. Sono il
risultato di un incrocio di metodologie differenti che abbracciano diversi
aspetti della vita umana, della produzione delle identità e del rapporto tra
individuo e società, tra individuo e cultura. Per questo motivo una
lettura gender sensitive, attenta agli aspetti di genere, è applicabile a
pressoché qualunque branca delle scienze umane, sociali, psicologiche e
letterarie, dalla sociologia alle scienze etnoantropologiche, alla letteratura,
alla teologia, alla politica, alla demografia ecc.
Come la storia ci ha mostrato nella maggior parte dei casi le donne si
ritrovano a ottenere potere economico soltanto per via ereditaria o per
matrimonio. In diversi paesi asiatici esse hanno acquisito in questo modo
addirittura il potere politico; Benazir Bhutto in Pakistan, Sonia Gandhi in
58
India o Aung San Suu Kyi in Myanmar, hanno potuto svolgere i loro
percorsi politici di premier o ex premier unicamente per il fatto di essere
figlie, mogli o vedove di uomini importanti e di potere. 72
Anche la conquista della Carta dei diritti delle donne ha rappresentato un
importante esempio di pacifismo femminile e femminista, affermando
che la condizione femminile nella società è il metro principale per
misurarne il reale progresso, e che la costruzione di un mondo di pace
non potrà mai prescindere dalla valorizzazione dei servizi resi dalle
donne alle comunità locali, nazionali e alla comunità internazionale.
Attualmente, come avvenuto in passato nei momenti più difficili di
conflitti nazionali e internazionali, le donne tentano ancora di rifiutare la
logica delle armi per imporre l’ordine sociale, culturale e religioso. E
continuano a farlo attraverso una forte opposizione alle armi, usando il
dialogo, l’inclusione, l’ascolto, assumendo una responsabilità individuale
di resistenza alla guerra e a tutto ciò che comporta. Esempi recenti sono
Le madri di Plaza de Mayo 73 che da 30 anni non hanno mai dimesso i
72 TH. Durrani, Schiava di mio marito, Bergamo, Fabbri Editore, 2004.
73 Madri di Plaza de Mayo è una associazione formata dalle madri dei desaparecidos,
ossia i dissidenti scomparsi durante la dittatura militare in Argentina tra il 1976 e il
1983. L’associazione è dedita all’attivismo nel campo dei diritti civili ed è composta da
donne che hanno tutte lo stesso obiettivo: rivendicare la scomparsa dei loro figli e
ottenerne la restituzione, attività che hanno svolto e svolgono da oltre un trentennio. I
figli delle madri di Plaza de Mayo sono stati tutti arrestati e tenuti illegalmente
prigionieri (“desaparecidos”: letteralmente “scomparsi” in spagnolo) dagli agenti della
polizia argentina in centri clandestini di detenzione durante il periodo che nella storia
argentina viene annoverato come la guerra sporca, così chiamata per i metodi illegali ed
estranei ad ogni diritto utilizzati dalla giunta militare, e la maggioranza di loro è stata
prima torturata ed in seguito assassinata, e fatta sparire nella più assoluta segretezza. Il
loro emblema, un fazzoletto bianco annodato sulla testa, è il loro simbolo di protesta
che in origine era costituito dal primo pannolino, di tela, utilizzato per i loro figli
neonati. Il loro nome è originato dal nome della celebre piazza di Buenos Aires, Plaza
de Mayo, dove queste donne coraggiose si riunirono per la prima volta e da allora, ogni
59
loro fazzoletti bianchi con i quali si coprivano il capo e dove apparivano
incisi i nomi e le date dei loro figli e nipoti “desaparecidos” comunicando
al mondo in modo non violento la loro personale tragedia e creando
reazioni come sorpresa, consapevolezza ed empatia nelle folle e
nell’opinione pubblica mondiale. E come fecero e continuano a fare Le
Donne in nero israeliane 74 “che opposero al linguaggio violento dell’ideologia e della
propaganda militarista, una forma di comunicazione silenziosa, espressa attraverso il
loro corpo esposto sulle strade e sulle piazze. Il nero, colore del lutto e della perdita,
venne consapevolmente assunto come strumento di denuncia del prevalere di una
cultura della morte”. 75
La Risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite su “Donne
pace e sicurezza”, approvata all’unanimità all’inizio del nuovo millennio
di cui parlo più avanti, menziona esplicitamente l’impatto della guerra
sulle donne e il loro prezioso contributo, speso generosamente e senza
risparmio, per una pace duratura e definitiva.
4.1. La Carta dei diritti delle donne
La Carta delle Nazioni Unite del 1945 76 pone i suoi fini e i suoi principi
nel mantenimento della pace e della sicurezza internazionale e allo stesso
tempo afferma l’uguaglianza dei diritti tra uomini e donne, dichiarando i
diritti e il ruolo delle donne nei conflitti armati. Fu solo a partire dal 1969
giovedì pomeriggio, esse si ritrovano nella piazza e la percorrono in senso circolare,
attorno alla piramide che si trova al centro, per circa mezz’ora
(it.wikipedia.org/wiki/Madri_di_Plaza_de_Mayo).
74 Le donne in nero è un movimento pacifista, nato in una piazza di Gerusalemme nel
gennaio 1988 (anno della prima intifada) per manifestare contro l’occupazione israeliana
della Cisgiordania e di Gaza (it.wikipedia.org/wiki/donne_in_nero).
75 www.casadelledonnetorino.it/index.php/donne-in-nero.
76 www.onuitalia.it/nu/statuto/introduzione.html.
60
che i bisogni delle donne e delle bambine nei conflitti armati, furono
presi in considerazione dalla Commissione sullo status delle donne, 77
affermando che alle donne e ai bambini sarebbero dovute essere
accordate delle protezioni speciali in caso di emergenze e di conflitti
armati. In conseguenza di ciò, nel 1974 l’Assemblea Generale delle
Nazioni Unite approva la Dichiarazione sulla Protezione delle Donne e
dei Bambini nelle emergenze e nei conflitti armati. 78 Dall’anno seguente
sono state organizzate le Conferenze Mondiali sulle Donne delle Nazioni
Unite, la prima nel 1975 a Mexico City poi a Copenhagen nel 1980, a
Nairobi nel 1985, a Beijing nel 1995. Nel 2000, durante la Conferenza
Pechino+5, 79 ventitreesima sessione speciale dell’Assemblea Generale
intitolata “Donne 2000: uguaglianza di genere, sviluppo e pace per il
ventunesimo secolo”, furono rinnovati gli impegni presi a Pechino nel
1995. In tutti questi incontri si voleva ribadire la connessione esistente
tra l’uguaglianza di genere, lo sviluppo e la pace. Si affermò soprattutto
l’importanza della partecipazione delle donne alle lotte contro il
colonialismo, il razzismo, la discriminazione razziale e la dominazione
straniera per poi rafforzare gli sforzi per l’educazione, il ristabilimento e
il mantenimento della pace.
Per la prima volta le violenze quotidiane contro le donne furono definite
come un ostacolo al raggiungimento della pace.
77 La Commissione sullo Status delle Donne (Commission on the Status of Women,
CSW) fa parte del Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite (ECOSOC) e si
occupa dell’uguaglianza di genere e di promuovere lo sviluppo della condizione
femminile. Ogni anno rappresentanti degli stati membri si riuniscono presso il Palazzo
di Vetro di New York (www.onuitalia.it/notizie-febbraio-2011/541--la-commissione-
sullo-status-delle-donne).
78 www.ohchr.org/en/professionalinterest/pages/protectionofwomenandchildren.aspx.
79 www.un.org/womenwatch/daw/followup/beijing+5.htm.
61
4.2. La Risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite n.
1325/2000 80
La Risoluzione n. 1325/2000, approvata all’unanimità dal Consiglio di
Sicurezza dell’ONU il 31 ottobre del 2000, è la prima Risoluzione in
assoluto che menziona esplicitamente l’impatto della guerra sulle donne
ed il contributo delle stesse nella risoluzione dei conflitti per una pace
durevole.
Quattro sono gli obiettivi che la Risoluzione n. 1325/2000 si prefigge:
1. assicurare una maggiore partecipazione delle donne a tutti i livelli
decisionali, con particolare riguardo agli organismi preposti alla
prevenzione, gestione e risoluzione dei conflitti;
2. prevedere una maggiore partecipazione delle donne nei processi di
mantenimento della pace e della sicurezza nazionale, riconoscendo
che le stesse, unitamente ai fanciulli, rappresentano la parte di
popolazione più colpita dalle conseguenze di un conflitto armato;
3. adottare una “prospettiva di genere”;
4. formare il personale sui diritti delle donne.
La Risoluzione invita inoltre tutti gli attori coinvolti ad incrementare la
partecipazione delle donne nella risoluzione dei conflitti e ad incorporare
la prospettiva di genere in tutte le azioni di pace e sicurezza delle Nazioni
Unite. Richiama tutte le parti coinvolte nel conflitto ad applicare misure
specifiche per la protezione delle donne e delle ragazze dalle violenze di
genere, in modo particolare i rapimenti e ogni altra forma di abusi
sessuali, in situazioni di conflitto armato. La Risoluzione fornisce
mandati operativi, che hanno dirette implicazioni sugli Stati Membri e
sulle istituzioni del sistema delle Nazioni Unite.
80 www.unr ic .org/ i t/a ttua l i ta/27089-consig l io- s i curezza -onu-donne-
per-una-pace -sosten ibi l e .
62
4.3. Donne e relazioni pubbliche
Le caratteristiche principali dell’essere donna rispetto alle relazioni
pubbliche, sono state analizzate dalla tesi di laurea di Daniela Mian
intitolata “Donne e Relazioni pubbliche: cosa ne pensano gli iscritti del Triveneto”
laureatasi in Relazioni pubbliche all’Università di Udine, che ha
apportato, a mio avviso, delle interessanti riflessioni riguardo all’apporto
del contributo femminile nelle relazioni pubbliche verificando l’esistenza
e l’origine di modalità comunicative diverse tra uomini e donne,
evidenziando l’eventuale valore aggiunto femminile. Daniela Mian scrive:
“Di certo l’industria delle RP è tra quelle che per prima ha valorizzato al meglio le
donne e le loro potenzialità evitando di sprecare risorse preziose. Ricerche
internazionali sembrano, infatti, confermare una correlazione positiva tra la presenza
femminile nelle aziende e le performance economico/finanziarie. Le donne sembra
applichino nella gestione aziendale criteri etici più rigorosi e adottino profili di
rischio/rendimento più adeguati. Sembra non ci siano più dubbi anche sul fatto che
nel condurre le aziende le donne utilizzino doti innate, (es.: l’empatia, l’intelligenza
emotiva), che consentono loro di relazionare e comunicare più efficacemente con i
diversi stakeholders. Parliamo di leadership al femminile, fatta di condivisione,
mediazione e partecipazione. Una modalità multitasking sviluppata in anni di
doppia attività (casa/lavoro), di complessità da affrontare, di capacità di problem
solving maturate sul campo, di versatilità e di maggiore sensibilità”. Una ricerca
che ha svolto tra ottobre e dicembre del 2009 ha anche rilevato che: “Le
donne risultano comunicare in maniera “diversa”, e tra le caratteristiche citate dagli
intervistati l’empatia (78%) ne è la prima causa, a seguire la disponibilità al
colloquio e alla negoziazione. Il valore aggiunto che forniscono alla professione è dato
da una maggiore ricerca di partecipazione e condivisione nelle relazioni (61%) e una
maggiore attenzione all’etica e alla responsabilità sociale (39%).” “Biologia cultura, e
a volte stereotipi, ma soprattutto intuito (77%), tenacia e determinazione (65%),
63
impegno, passione e versatilità finiscono per determinarne, lungo il cammino, i loro
successi”.
La discussione sui temi eviscerati da questa interessantissima tesi ha
avuto un ulteriore approfondimento da parte del Prof. Giampietro
Vecchiato (Vicepresidente Ferpi nel 2010 e responsabile della ricerca) e
dalla prof.ssa Maria Paola La Caria (Consiglio Direttivo Ferpi), la quale in
occasione di una indagine dell’Ateneo di Udine svolta nel 2010, ha
aggiunto: “Il 100% degli intervistati concorda nel definire fondamentale il ruolo
delle pierre nelle aziende e sul fatto che le donne riescono a dare un valore aggiunto
alla posizione, perché cercano una maggior condivisione di problemi e decisioni (61%
dei casi) ma anche per una maggior attenzione all’etica e alla responsabilità sociale
(38%)”. 81
Per La Caria le donne di successo nelle relazioni pubbliche riescono ad
imporre un loro stile: «Spesso siamo noi stesse a sceglierci un ruolo
meramente esecutivo, perché siamo brave a fare e perché pensiamo di
essere “meno capaci” degli uomini a decidere. Le donne che ce l’hanno
fatta hanno imposto un loro stile, diverso da quello maschile. Cercando
costantemente condivisione, praticando le doti dell’ascolto e
dell’accoglienza, senza farsi mettere i piedi in testa».
Queste, come altre componenti della immensa opera di pace portata
avanti ostinatamente dalle masse femminili del mondo, sono
caratteristiche naturali insite nelle donne e del tutto derivanti dalla loro
inclinazione all’accoglienza, all’aiuto vicendevole, alla disponibilità e al
sacrificio, all’amore disinteressato, alla sensibilità, all’attenzione. Per cui si
può davvero affermare e concludere che la donna come testimone,
messaggera, educatrice e maestra di pace, non si sente mai chiamata dalla
storia, ma solo dalle necessità sue e dei suoi simili, co-protagonisti e
comprimari dell’avventura della storia. La sua particolare vocazione a
81 www.ferpi.it/ferpi/novita/notizie_rp/management/relazioni-pubbliche-il-manager-
donna/notizia_rp/41677/8
64
promuovere la pace in ogni ambito della vita familiare, sociale,
economica e politica a tutti i livelli, ha imposto e fatto riconoscere nel
mondo la donna come grande mediatrice di pace.
4.4. Donne di pace
4.4.1. Malala Yousafzai (Pakistan)
Malala Yousafzai, nata il 12 luglio 1997 a Mingora, è una bambina
pachistana che ama andare a scuola e che ama studiare. La passione per
lo studio le è stata trasmessa dal padre, preside di alcune scuole nella loro
regione di origine. Malala è conosciuta per il suo impegno per
l’affermazione dei diritti civili e per il diritto all’istruzione delle donne
della città di Mingora nella valle dello Swat, diritto che è stato bandito da
un editto dei talebani.
Il 10 Ottobre 2014 viene insignita del Premio Nobel per la Pace con
questa motivazione: “Nonostante la giovane età, Malala Yousafzay, ha
già lottato per molti anni per il diritto delle ragazze all’educazione e ha
dimostrato con l’esempio che i bambini e i giovani, possono contribuire
a migliorare la loro situazione. Lei l’ha saputo fare nelle circostanze più
pericolose. Attraverso la sua eroica lotta, è divenuta la portavoce del
diritto delle ragazze all’educazione”. 82
È la persona più giovane ad essere stata insignita del Nobel nella storia di
tutte le categorie del premio.
Subito dopo aver appreso dell’assegnazione del Nobel per la Pace, ha
tenuto a Birmingham dove studia, una conferenza stampa in cui ha detto
di “provare orgoglio per essere la prima pachistana ad avere avuto il
Premio Nobel”. Questo riconoscimento, ha assicurato, “per me non è il
82 www.nobelprize.org/nobel_prizes/peace/laureates/2014/press.html.
65
punto d’arrivo ma l’inizio di una più forte battaglia per i diritti dei
bambini allo studio. Ce ne sono 57 milioni che non possono studiare”.
Malala ha raccontato di aver parlato telefonicamente con Kailash
Satyarthi (l’attivista indiano anch’egli insignito del Premio Nobel per la
Pace 2014 per la sua lotta in India per la liberazione dei bambini dalla
schiavitù) e di aver accettato di lavorare con lui per la causa comune.
Malala e Satyarthi hanno simbolicamente stabilito di invitare i rispettivi
premier (il pachistano Nawaz Sharif e l’indiano Narendra Modi) alla
cerimonia di consegna del Premio a Dicembre 2014 ad Oslo. Un invito
interpretato come altro ponte lanciato per la pace.
Fig. 4.1 - Malala Yousafzai (AP/Walsh)
Malala scrive già a 12 anni e comunica la sua visione della guerra
attraverso un blog che lei cura per la BBC, 83 Nel suo blog è stata per 3
anni l’instancabile testimone delle azioni del regime dei talebani
soprattutto contro le donne e il loro diritto all’istruzione in Pakistan. Ha
83 news.bbc.co.uk/2/hi/south_asia/7834402.stm.
66
documentato la loro occupazione militare e le loro azioni di guerra
quotidiane.
La testimonianza di questa dura realtà vista con gli occhi puliti, incantati
e stupiti di una ragazzina di 12 anni, è servita a sensibilizzare l’opinione
pubblica mondiale alla causa dell’istruzione come unico strumento per
garantire ai bambini un futuro migliore e alle donne l’emancipazione.
Malala tiene un diario, ma è un diario moderno, è un blog che viene
pubblicato sul sito della BBC e che ha la potenzialità di comunicare le
sue parole ed i suoi pensieri al mondo intero.
Il messaggio diffuso dalle sue parole creava una “dannosa”
consapevolezza dei propri diritti, in modo particolare dei diritti
all’istruzione delle bambine pakistane, e influenzava il pensiero di altre
bambine che come lei amavano andare a scuola aprendo così un varco
verso un’altra possibile realtà. Tutto questo per il regime dei talebani non
era tollerabile, quella voce doveva tacere. Organizzano allora un attentato
alla sua vita, il 12 ottobre 2012, sparandole alla testa mentre era sul bus
che la riportava a casa da scuola e ferendo le altre ragazze che erano con
lei.
Malala però si salva e diventa un simbolo, un emblema della lotta per i
diritti e per la pace e da quel momento in poi, grazie ai media, è seguita e
sostenuta a livello mondiale.
È stata nominata per l’International Children’s Peace Prize, premio
assegnato da KidsRights Foundation per la lotta ai diritti dei giovani
ragazzi.
Il 12 luglio 2013, giorno del suo sedicesimo compleanno, Malala, a testa
alta, coperta da uno scialle di Benazir Bhutto (nota politica Pakistana
assassinata nel 2007) con la consapevolezza di essere il simbolo di chi
vuole difendere i propri diritti, 84 è invitata a parlare all’assemblea delle
84 Malala all’ONU: “Parlo per chi non ha voce, i talebani non mi ridurranno al silenzio” (articolo
da “La Repubblica” 12 luglio 2013).
67
Nazioni Unite per chiedere ai leader del mondo di impegnarsi per
l’istruzione, garantendola a tutti, senza discriminazioni.
Il 10 ottobre 2013 è stata insignita del Premio Sakharov per la libertà di
pensiero. L’annuncio è stato dato dal presidente del Parlamento
Europeo, Martin Schulz, che lo ha motivato dicendo che Malala è una
ragazza eroica.
Grazie al suo immenso coraggio, ora è la più giovane persona insignita
del premio Nobel per la pace, per la sua lotta in difesa del diritto
all’istruzione. La candidatura era stata proposta dal partito laburista
norvegese, e sostenuta dall’organizzazione change.org oltre che da
importanti personalità politiche e da star come Angelina Jolie e
Madonna.
La storia di Malala e soprattutto la risonanza e l’immenso numero di
lettori e sostenitori che l’hanno seguita e sostenuta in tutto il pianeta, ci
mostra come i social network ricoprano un ruolo importantissimo ed
aprano nuove prospettive nei dialoghi di pace. Il condividere con il resto
del mondo la sua terribile quotidianità, ha creato tra i suoi lettori
consapevolezza, ha fornito loro informazioni sulle sue condizioni di vita
e sulla negazione quotidiana dei suoi basilari diritti. Ha creato opinione
pubblica, ha influenzato il pensiero dei suoi lettori e degli influenti del
suo paese. Ha contribuito, forse non propriamente in modo del tutto
conscio, per dirla con Veletsianos Eliadou, “alla costruzione della pace
attraverso la comprensione dell’agire situato con la narrativizzazione dell’altro,
presente online” (2009).
“Strumenti come i telefoni cellulari e i social network, permettono un approccio
dinamico nei processi di pace, rispetto a quanto è stato possibile fare finora con i media
tradizionali. Nel dialogo per la pace, la possibilità della comunicazione social assume
68
un’importanza straordinaria” (Valentina Bernardinis, Nicola Strizzolo,
2014). 85
Su Facebook nelle pagine dedicate a Malala Yousafzai le adesioni sono
più di 70.000, mentre recentemente su Twitter Malala ha dato il via alla
campagna web #BringBackOurGirls.
Nel 2013 Malala Yousafzai è stata inserita dal periodico inglese TIME tra
le 100 persone più influenti al mondo. 86
Fig. 4.2 - Malala Yousafzai nello STUDIO OVALE, 11 ottobre 2013
4.4.1.1. Effetto Malala
La petizione lanciata da Malala all’Onu, chiede ai leader del mondo, fondi
per nuovi insegnanti, aule e libri. È stata firmata da quasi 4 milioni di
persone a sostegno di 61 milioni di bambini che non vanno a scuola, di
cui le adolescenti che non possono studiare sono 34 milioni. La petizione
chiede anche l’immediato stop allo sfruttamento di bambini nei luoghi di
lavoro, stop ai matrimoni e al traffico di minori.
In un rapporto pubblicato il 12 luglio 2013, in occasione del Malala Day,
da Unesco e Save the Children 87 si legge: “57 milioni di bambini senza
85 www.agendadig i ta le .eu/competenze-digitali/1021_il-ruolo-dei-social-media-
nei-processi-di-pace-casi-di-studio.htm.
86 time100.time.com/2013/04/18/time-100/slide/malala-yousafzai.
69
scuola”: nel mondo circa 57 milioni di bambini, dai 5 ai 15 anni, non vanno a
scuola perché colpiti dagli scontri o arruolati nei corpi armati”. Nel 2012, sono
stati 3.600 gli attacchi di vario tipo per impedire ai bambini l’accesso
all’educazione, tra i quali si contano violenze, bombardamenti di scuole,
reclutamento dei minori in gruppi armati, torture e intimidazioni contro
bambini e insegnanti, sfociate in morti o ferimenti gravi. Inoltre,
prosegue il rapporto, “resta scandalosamente bassa la quota di fondi destinati
all’educazione nelle emergenze umanitarie, passando addirittura dal 2% del totale dei
fondi umanitari in emergenza del 2011 all’1,4% del 2012, dunque ben al di sotto
del 4% richiesto dalla comunità internazionale nel 2010”.
Gordon Brown, inviato dell’ONU per l’istruzione globale ed ex premier
britannico, ha affermato che “L’istruzione interrompe il ciclo della povertà e può
garantire migliori condizioni di salute e prospettive di lavoro. È arrivato il momento
di lanciare una campagna e di mettere l’istruzione al primo posto (…)”. Dopo
l’aggressione, il mondo si è mobilitato per sostenere Malala. Definendo
“oscena” la lotta per garantire l’istruzione, i talebani hanno provocato
una reazione a livello mondiale e una ‘petizione globale’ per chiedere più
diritti per le bambine”, ha aggiunto Brown. Un tema caro anche al
segretario generale dell’Onu, Ban Ki Moon che ha lanciato la
campagna “Education first” e che dice: “Sono cresciuto in una società dilaniata
dalla guerra e dalla povertà. Le scuole erano state distrutte, ma l’UNESCO,
l’Unicef e altre organizzazioni internazionali, fornivano libri e materiale scolastico,
necessari per la ricostruzione”.
Numerosi capi di Stato e personaggi famosi hanno preso le difese di
Malala. L’Unicef ha voluto chiamare la sua campagna “Stand with
Malala” 88, scegliendo come ambasciatrice la teen popstar Selena Gomez,
per sensibilizzare sull’argomento governi e istituzioni ma anche giovani
87 unesdoc.unesco.org/images/0022/002216/221668e.pdf.
88 www.unicef.it/doc/4189/condanna-attentato-alla-studentessa-malala-in-
pakistan.htm.
70
dell’età di Malala. Intanto su internet si moltiplicano i messaggi di
solidarietà. E la cantante Madonna si è spogliata dedicandole la sua
“Human Nature”. La pop star ha tenuto un discorso durante la
performance allo Staples Centre di Los Angeles: “Ho pianto”, ha detto. E
ancora: “Vi rendete conto della malattia e dell’assurdità di tutto questo? Bisogna
proteggere chi sostiene i diritti delle donne”, ha gridato prima di mostrare il
nome di Malala sulla sua schiena. Anche il Presidente della Camera dei
Deputati Gianfranco Fini e il Nobel Dario Fo hanno inoltrato la lettera
ufficiale di candidatura al Nobel per Malala.
La campagna web #BringBackOurGirls iniziata su Twitter da Malala, ha
come obiettivo riuscire ad esercitare una maggiore pressione sulle
autorità nigeriane, affinché le 300 ragazze rapite dal dormitorio del loro
collegio il 15 aprile 2014, vengano restituite alle famiglie. Anche Hilary
Clinton, ex segretario di stato americano, partecipa attivamente
all’iniziativa che rivendica il diritto all’istruzione femminile
Malala vorrebbe essere a scuola e studiare con le sue compagne, e invece
è costretta a vivere lontana dal Pakistan.
Malgrado sia ormai conosciuta in tutto il mondo ed abbia ricevuto il
Premio Nobel per la Pace, Malala continua ad essere un obiettivo da
colpire. Almeno così ha detto Shahidullah Shahid, portavoce di un
gruppo talebano ancora ben deciso a farla pagare alla ragazza così come a
tutti i nemici dichiarati del regime talebano. Ciononostante, Malala ha
risposto con un segno di pace. “Serve dialogo con i talebani”, ha detto. “È
necessario dialogare con i talebani per ottenere la pace”, ha poi continuato la
giovane in un’intervista con la BBC dove ha anche ricostruito il giorno
dell’attentato.
Voglio ricordare inoltre che è uscito in tutto il mondo il suo libro
autobiografico “Io sono Malala” al quale è seguito anche quello di Viviana
Mazza, pubblicato per Mondadori e intitolato: “La storia di Malala”
71
Una giovane donna ancora una ragazza ma una grande messaggera di
pace, aiutata dalla sua competenza propria di tutti i giovani di oggi,
dell’utilizzo delle immense risorse comunicative che i social network
offrono.
Malala comunica con i social media in particolare con facebook e twitter
(19600 followers).
Fig. 4.3 - Pagina Facebook di Malala
Fig. 4.4 - Pagina Twitter di Malala
72
Malala usa la sua influenza mediatica per sostenere campagne a favore
delle donne nei conflitti militari come quella lanciata a luglio 2014 per
riportare a casa le 300 ragazze nigeriane rapite, dalla scuola dove
studiavano, dai fondamentalisti islamici. 89 90
4.4.2. Aung San Suu Kyi (Birmania - Myanmar)
Aung San Suu Kyi è nata a Rangoon (capitale della Birmania) il 19
giugno del 1945. Suo padre era Aung San, generale birmano che passò
alla storia per le negoziazioni avvenute nel 1947 per l’indipendenza della
Birmania dal Regno Unito e venne ucciso, quando lei aveva appena due
anni, da alcuni avversari politici, ma i suoi ideali di indipendenza e
integrità politica non verranno mai meno e saranno sempre presenti nei
suoi discorsi. La madre Daw Khin Kyi diventa la sua unica figura di
riferimento, la quale avendo un grande successo popolare, ottiene la
nomina di ambasciatrice in India nel 1960.
Il ruolo di ambasciatrice della madre, permette a Aung San Suu Kyi di
viaggiare in l’India e all’estero, e questo le permette di avvicinarsi ai
precetti buddisti: verità, giustizia e compassione, che sono “spesso i soli
baluardi contro un potere inumano”. 91 Frequenta le figlie di Indira
Ghandi, (Sanjay e Rajiv), e vive i primi sentori della democrazia
scoprendo il significato della non-violenza, precetto predicato dal
mahatma Gandhi.
89 AUNG SAN SUU KYI 2001-1901, UN SECOLO DA NOBEL Viaggio a ritroso nel
Premio che compie cento anni, 22 maggio 2001 (www.educational.rai.it/mat/ri/nosuukyi.asp).
90 www.edscuola.it/archivio/antologia/recensioni/aung_san_suu_kyi.htm.
91 www.youtube.com/watch?v=vHTFrNfjzSo - www.youtube.com/watch?v=W1S_k1-
lKVM.
73
Nel 1967, presso la Oxford University, si laurea in Filosofia, Scienze
Politiche ed Economia. Nel 1969, si trasferisce a New York dove inizia a
lavorare per le Nazioni Unite. Nel 1972 sposa Michael Aris, professore di
letteratura tibetana ad Oxford, da cui ha due
figli, Alexander (1977) e Kim (1988).
4.4.2.1. Aung San Suu Kyi promotrice di pace
Il 26 agosto 1988, Aung San Suu Kyi lascia Oxford e torna in
Birmania per accudire la madre malata, e subito si rende conto
dell’insostenibilità della situazione politica del suo Paese, che in quegli
anni aveva visto la salita al potere del generale Saw Maung, responsabile
di aver istaurato un rigido regime militare che a tutt’oggi è presente in
Birmania.
Il suo ritorno in Birmania avviene in un periodo particolarmente
impetuoso, quando si chiedono le dimissioni del generale Ne Win,
dittatore in carica dal 1962. Alle richieste del popolo di libertà e di norme
democratiche il Governo risponde con la sospensione dei corsi
universitari e la chiusura delle scuole. Il 26 luglio il generale Ne Win a 77
anni annuncia le sue dimissioni, illudendo il popolo birmano della
prospettiva di un reale cambiamento favorevole.
Comincia l’attività di Aung San Suu Kyi a sostegno della libertà.
A Shwedagon nel 1988 tiene il famoso comizio di fronte a
cinquecentomila persone.
74
Fig. 4.5 - Aung San Suu Kyi raggiante alla vittoria elettorale
Fig. 4.6 - Campagna a sostegno della libertà di Aung San Suu Kyi e del popolo birmano
Insieme a stretti collaboratori fonda il partito democratico, la National
League for Democracy (NLD), e ne diviene segretaria generale. Percorre
il paese fermandosi in molti posti a parlare ed incitare la gente a non aver
paura, a resistere allo stato di oppressione, a confidare in un prossimo
avvento della libertà e della democrazia. Intanto lo State Law and Order
Restoration Council (SLORC), cioè il partito al potere, annulla, nel
1990, i risultati delle elezioni perché favorevoli alla NLD e ricorre ad
ogni forma di violenza materiale e morale, continuando con le sue gravi
misure contro i cittadini e in particolare contro gli esponenti del partito
democratico. E questo nonostante i richiami che da tanti governi
stranieri giungono ai capi birmani e li invitano ad una politica più
conciliante e ad un dialogo con la NLD.
75
Nel 1989 erano cominciati per Aung San Suu Kyi gli arresti domiciliari,
che sarebbero durati sei anni. Tuttavia appena libera, Aung San torna
vicina al suo popolo, ascolta la voce della sua gente, vuole sapere dei suoi
bisogni, scrive, tiene i discorsi settimanali o “della domenica” presso la
sua casa di Rangoon e di fronte alle migliaia di persone che ogni volta si
radunano per ascoltarla. Le esorta ad avere fiducia, a credere nella forza
dell’amore, del bene, nella non-violenza, a considerare necessaria la
vittoria finale di questi valori perché sono propri dell’uomo, della sua
natura, della sua civiltà. Li spinge a ritenere le richieste dello spirito
superiori a qualunque altra richiesta, a non smarrire i precetti della
religione, del buddismo, per i quali fondamentali sono la tolleranza, la
collaborazione, la pace e le azioni che ad esse tendono.
Suu Kyi insegna al suo popolo non a rassegnarsi, non a subire
passivamente ma ad operare, ad agire per correggere il male, a lottare per
eliminarlo perché così vuole la religione buddista della quale è fedele
seguace. Ma Aung Suu Kyi soprattutto mostra al popolo birmano
l’isolamento forzato in cui il paese vive da decenni, parla della necessità
di un reale cambiamento, realizzabile solo con la ritirata dei militari che
da troppo tempo occupano il potere illegittimamente. Afferma che in
Birmania è necessaria un’autorità eletta democraticamente, in grado di
rimettere il paese sullo stesso livello del resto del mondo. Suu Kyi con la
sua capacità oratoria e con le sue argomentazioni, è in grado di sollevare
le masse e promuoverne il loro volere. Il regime birmano è consapevole
di questa sua forza e nel 1989 la confina agli arresti domiciliari con la
clausola che avrebbe potuto lasciare il Paese, senza però, poterci
ritornare.
Aung San Suu Kyi rifiuta di lasciare la Birmania e inizia la sua lotta dalle
mura di casa.
76
Nel 1990, in Birmania si svolgono le elezioni che si traducono in una
vittoria schiacciante per Aung San Suu Kyi, ma il regime rigetta il voto e
riprende il potere con la forza.
A quel punto la storia di Aung San Suu Kyi supera i confini birmani e
diventa un caso mondiale, tanto da farle ricevere il premio Nobel per la
Pace nel 1991, per essere divenuta simbolo dell’opposizione democratica
e non violenta al regime militare del suo paese. Con i soldi del premio fa
realizzare un progetto sanitario e d’istruzione per la gente del suo Paese.
Nel 1995 dagli arresti domiciliari passa ad uno stato di semi libertà, ma
continua a non poter lasciare la Birmania (pena l’impossibilità di
rientrarvi) e a non poter vedere i propri familiari. Nel 1999 suo marito
dopo una lotta di 2 anni contro un tumore, muore, senza che lei abbia
potuto rivederlo.
Nel 2002 l’intervento dell’ONU costringe il regime birmano a concedere
maggiore libertà ad Aung San Suu Kyi, ma quella che poteva sembrare
una vittoria, si trasforma in un’occasione per i suoi avversari politici di
attentare alla sua vita. Nel 2003, durante uno spostamento con a seguito
molti dei suoi sostenitori, un gruppo di militari apre il fuoco uccidendo
molte persone, senza però, riuscire ad ucciderla. Dopo l’accaduto, Aung
san Suu Kyi torna agli arresti domiciliari e, nonostante le continue
pressioni degli Stati Uniti d’America e dell’Europa, tale pena le viene
confermata anche per gli anni a venire. Nel frattempo inizia ad avere
problemi di salute ed è costretta d un intervento e a diversi ricoveri
ospedalieri.
Il 3 maggio 2009, un fanatico religioso di origine americana raggiunge a
nuoto la casa di Aung San Suu kyi, che assurdamente viene processata e
condannata per aver violato gli arresti domiciliari. In realtà l’incursione
dell’americano fu utilizzata per estrometterla dalla scena politica, mentre
il regime faceva passare un referendum con cui otteneva il
riconoscimento dal popolo per la continuità del regime sotto forma
77
civile ed escludendo definitivamente la Lega Nazionale per la
Democrazia.
L’11 giugno del 2009, Aung San Suu Kyi viene condannata ad una pena
di 3 anni di lavori forzati (passata poi a 18 mesi di arresti domiciliari) per
una fantomatica violazione della norma sulla sicurezza.
Il 13 novembre 2010, Aung San Suu Kyi ritorna ad essere finalmente una
donna libera.
Aung San Suu Kyi, fino a questo momento aveva comunicato
direttamente con il popolo e con i suoi sostenitori con comizi,
conferenze, raduni. Nel lungo periodo di detenzione il modo è cambiato
e con lui il modo di comunicare, ad Aung San era stata negata la
conoscenza e l’utilizzo delle nuove tecnologie, dai cellulari alle mail,
all’uso di internet. Nonostante il basso numero di internauti in Birmania,
a causa dell’elevato costo dei computer e cellulari, della rete poco diffusa
e del continuo ferreo controllo dell’utilizzo di internet da parte del
regime, appena ha potuto Aung San Suu Kyi ha iniziato a far uso delle
nuove tecnologie per comunicare con i suoi sostenitori. Uno dei suoi
strumenti preferiti è youtube dove posta i suoi discorsi e dà informazioni
sulle sue attività. 92
Inoltre, ha il sito web www.nldburma.org e il suo profilo Facebook è
seguito ad oggi (ottobre 2014) da 949,998 followers.
92 www.facebook.com/aungsansuukyi?fref=nf.
78
Fig. 4.7 - Pagina facebook di Aung San Suu Kyi
E un profilo Twitter
Fig. 4.8 - Aung San Suu Kyi su Twitter
4.4.2.2. Effetto Aung San Suu Kyi
In tutto il mondo Aung San Suu Kyi è diventata un’icona della non-
violenza e della pace, tanto che numerosi cantanti e gruppi musicali, tra
cui il cantautore irlandese Damien Rice, il gruppo rock irlandese U2, il
79
gruppo rock statunitense R.E.M, il gruppo rock punk statunitense Green
day, il gruppo rock britannico Coldplay, hanno espresso solidarietà nei
suoi confronti e le hanno dedicato brani musicali per sostenere la sua
causa. In particolar modo, gli U2 le hanno dedicato un brano intitolato
“Walk On” (“Vai avanti”) contenuto nel loro album “All that You Can’t
Leave Behind”. Il regime birmano ha dichiarato illegale importare,
detenere o ascoltare in Birmania l’album della band irlandese in cui è
contenuto il brano “Walk on”. La sanzione prevista è la reclusione da tre
a vent’anni.
Nel 1997 il sassofonista Wayne Shorter e il pianista Herbie Hancock
incisero sull’album 1+1 un tema intitolato “Aung San Suu Kyi” che vinse
il Grammy Award come migliore composizione jazz.
Nel 2003 ad Aung San Suu Kyi fu assegnato sia l’MTV Europe Music
Award che il Premio Nazionale Alghero Donna di Letteratura e
Giornalismo, sezione Premio Speciale della Giuria.
Nel 2011 il regista francese Luc Besson ha diretto il film “The Lady” sulla
vita del premio Nobel birmano.
81
5. Il ruolo delle relazioni pubbliche nei processi di pace
5.1. Le relazioni pubbliche fanno parte del processo di pace?
In questa parte ho voluto analizzare il ruolo che le relazioni pubbliche
hanno nel contesto del processo di pace, dialogando con chi, a titolo
diverso, i processi di pace li prepara, li costruisce, li difende.
Il percorso seguito per queste interviste è quello delle fasi del processo di
pace: peacemaking, peacebuilding, peacekeeping e per ogni stadio ho
intervistato un soggetto che con le proprie attività, rappresenta
idealmente quel segmento del processo di pace.
5.2. Peacemaking - Intervista a Claudio Mario Betti, assistente al presidente
della Comunità di Sant’ Egidio, Roma
1. Signor Betti, la Comunità di Sant’Egidio è ed è stata protagonista
attiva di molti importanti processi di Pace, dal Mozambico, al
Kosovo, dall’Albania al Guatemala solo per citarne alcuni, riuscendo a
concludere veri e propri accordi di Pace duratura riconosciuti
internazionalmente. Le modalità che voi utilizzate nei processi di Pace
sono state definite dall’ ex Segretario dell’ONU, Boutros-Ghali il
“Metodo di Sant’Egidio” e utilizzano la conoscenza degli attori sociali
coinvolti, l’ascolto reciproco, il dialogo e la costruzione di relazioni
basate sulla fiducia. Queste modalità sono proprie anche alla
disciplina delle Relazioni Pubbliche, che prevede che si avviino una
serie di attività di comunicazione il cui obiettivo è creare un clima di
consenso e favore nei confronti del soggetto che comunica e verso le
sue proposte presso quei pubblici e stakeholder che possono incidere
direttamente o indirettamente sul raggiungimento degli obiettivi
82
perseguiti. Si può affermare che la Comunità di Sant’Egidio utilizza le
relazioni pubbliche durante i Processi di Pace?
Non avevo mai considerato che nei processi dei negoziati di Pace sono utilizzate le
modalità proprie delle relazioni pubbliche ed è interessante per me vedere quanto del
lavoro che conduce ai processi di Pace sia un lavoro di relazioni pubbliche. In effetti, il
processo di pace è un grande esercizio di relazioni pubbliche con azioni pianificate,
coordinate e continuative, mirate ad alcuni attori, che ha l’obiettivo di creare un clima
di consenso e fiducia tra le parti coinvolte. Per vedere come la Comunità di
Sant’Egidio le utilizza, seppur finora in modo non del tutto consapevole, racconto del
processo di pace del Mozambico (1989-1992) cui ho partecipato direttamente. Questo
processo nasce dall’impegno che la Comunità di Sant’Egidio, ha avuto per anni nel
paese essendo presente, - grossroot - dal 1976 in poi. Il processo di pace vero e proprio
avviene alla fine degli anni ‘80 e dura 27 mesi, fino al 1992. Un processo lungo che è
stato chiaramente preparato da una lunga attività di relazioni nel paese. Abbiamo
iniziato con l’identificazione di quelli che per noi erano i pubblici di riferimento o
meglio i nostri stakeholder: il governo, la popolazione e la società civile (anche se la
società civile allora era schiacciata dalla guerra) e la comunità internazionale. La
prima fase di lavoro di relazioni pubbliche si è concentrata sul governo, attivando una
fase di ascolto di comprensione e di dialogo al fine di costruire una relazione fiduciaria.
Come abbiamo agito: essenzialmente con una vicinanza continua e con un dialogo
continuativo con il partito. Una volta capite le esigenze, sono stati mandati aiuti al
paese, soprattutto aiuti alimentari. Sono stati intensamente coltivati i rapporti
all’interno del partito comunista mozambicano che hanno avuto il loro culmine nella
visita dell’allora Presidente Samora Machel a Roma e dal Papa. Il Presidente
Samora Machel, si sentì accettato dalla comunità internazionale e quindi questo
permise che si sviluppassero le condizioni per cominciare la trattativa. Quest’attività
con il governo, è stata effettivamente un’attività di relazioni pubbliche, fatta di dialogo,
ascolto e creazione di rapporti fiduciari da ambo le parti, che ha permesso alla
Comunità di Sant’Egidio di divenire uno dei principali interlocutori esterni al mondo
83
comunista mozambicano. Il Mozambico era allora governato da un partito di stretta
osservanza leninista, che aveva pochissimi rapporti all’esterno del mondo comunista. I
suoi rapporti erano in concreto, limitati ai partiti comunisti dell’area sovietica oppure
agli altri grandi partiti comunisti come quello italiano. In questa situazione la
Comunità di Sant’Egidio ha rappresentato per il governo mozambicano, uno dei
pochi interlocutori non comunisti, un interlocutore ritenuto importante al punto che il
Presidente della Comunità Andrea Riccardi è stato invitato a parlare al congresso del
governo.
Nella seconda fase abbiamo avvicinato i guerriglieri della Renamo. Con i guerriglieri
il rapporto è stato molto più complicato, si doveva chiarire soprattutto chi eravamo. In
questa fase ci fu di grande aiuto il vescovo mozambicano Jaime Goncalves che era della
stessa tribù e regione del capo della guerriglia, che potremmo definire come un
“influencer” nel contesto della trattativa.
Anche nel rapporto con i guerriglieri della Renamo il lavoro fatto è stato un lavoro di
relazioni pubbliche. Abbiamo, infatti, utilizzato avvicinato un “influencer” come il
vescovo Goncalves che ci ha permesso di farci conoscere, di conoscere i guerriglieri e
soprattutto di dialogare con loro creando un clima di accettazione della nostra
presenza finalizzata ad una proposta di pace. La Comunità di Sant’Egidio ha
avvicinato con le modalità del dialogo e dell’ascolto, i guerriglieri della Renamo e li ha
coinvolti in una trattativa di pace, cosa che non faceva assolutamente parte dei loro
piani. Questa loro apertura che inizialmente sembrava impossibile, ha permesso di
costruire una negoziazione e un clima di pace. In sostanza avevamo costruito una
“Public Relation Enterprise” che prendeva azione nei luoghi della Renamo,
all’interno della giungla dove andavamo a incontrare queste persone. E anche in
questa situazione l’importanza della creazione dei rapporti personali con i grandi
stakeholder che sono sia il governo (Presidente, Ministro degli Esteri, Ministro della
Guerra) che la guerriglia nella persona del loro capo, è stata fondamentale.
La terza fase importante di PR è stata con la comunità interazionale: non era
sufficiente essere riconosciuti dal governo e dalla guerriglia, bisognava anche essere
riconosciuti e avere credibilità all’interno della comunità internazionale. Abbiamo
84
quindi agito attraverso un intensissimo processo di colloqui in tutti gli Stati interessati
al problema della pace in Mozambico come Portogallo, Stati Uniti, Francia, Gran
Bretagna, Sud Africa, fino a giungere alle Nazioni Unite e ricevendo la
legittimazione ad iniziare il processo di pace. Questo clima di apertura, ha permesso
alla Comunità di Sant’Egidio ad iniziare la negoziazione con la parte armata grazie
alla relazione di fiducia costruita con il governo.
Abbiamo attivato varie azioni di comunicazione per creare un clima di consenso,
soprattutto nell’attività con la comunità internazionale. L’ascolto delle aspettative del
governo e dall’altra parte dei guerriglieri, è stato un altro passaggio, direi fondamentale
ed imprescindibile, nella nostra azione di preparazione al negoziato di pace,
l’attenzione a quello che sia il governo che la guerriglia volevano, è stata una delle
chiavi del successo di questo processo di Pace. Noi non abbiamo attivato un processo di
pace classico in cui bisognava mettere d’accordo due parti, nel caso del Mozambico, la
Comunità ha saputo interpretare i bisogni reali della popolazione, la pace, e ha capito
le paure e i desideri delle due parti (governo e guerriglia), ha portato tutto lo scenario,
mettendo ogni pezzo al posto giusto, su un piano politico. Questo risultato non era
riuscito a molti altri che si erano impegnati precedentemente nello stesso paese o per
esempio nel processo di pace in Angola, contemporaneo a quello del Mozambico,
proprio perché non c’è stata una reale attenzione alle esigenze della popolazione.
Il processo di pace del Mozambico è stato il risultato di un lavoro certosino fatto di
relazioni interpersonali e di relazioni pubbliche messe in atto dalla Comunità di
sant’Egidio con i 3 diversi attori del negoziato (Governo, guerriglieri, società e
comunità internazionale) relazioni che hanno funzionato per tutti i 27 mesi della
trattativa. Devo ammettere però che durante il processo di preparazione al negoziato
non c’era la consapevolezza di utilizzare modalità proprie delle relazioni pubbliche, di
fatto, però lo si faceva.
85
2. Nelle modalità di relazioni pubbliche si parla di ascolto, di valori
condivisi e di inclusione negli obiettivi da perseguire, delle aspettative
degli stakeholder e dei pubblici influenti. Come questi aspetti sono
stati considerati nella costruzione dei processi/trattative di Pace di cui
si è occupata la Comunità di Sant’Egidio?
L’ascolto degli attori principali e l’inclusione dei valori condivisi dalle parti sono il
lavoro basilare che si fa nelle fasi della mediazione. Infatti, perché una mediazione
riesca, è fondamentale e necessario, che tutte le parti coinvolte non perdano qualcosa
ma guadagnino qualcosa, deve essere win-win process. Il primo discorso che il Prof.
Riccardi fece alle due delegazioni riunite (governo e guerriglieri della Renamo), fu che
esisteva un bene comune tra i due che consisteva nell’essere mozambicani. L’essere
mozambicani, dopo 17 anni di guerra tra le parti, era realmente l’unica cosa che
avevano in comune e che permetteva di edificare il dialogo su questo unico comune
termine. La chiave di svolta nell’avvicinare le parti, è quindi stata che nell’essere
mozambicani hanno potuto “riconoscersi fratelli”. Ovviamente questo riconoscimento
non era da solo sufficiente, ed è stato necessario costruire tutto un negoziato di pace
intorno a questo termine di partenza.
Direi comunque che lavorando nei processi di Pace, la Comunità di Sant’Egidio
inizia col capire quali sono le aspettative delle parti coinvolte. La difficoltà sta
nell’identificare il comune denominatore tra le parti prima che il processo di Pace
abbia inizio, in modo da garantire a tutti che qualcosa di “nuovo” ma di interesse
comune, esiste. Si può quindi dire che il processo di pace nelle sue varie fasi, sia un
esercizio complesso di relazioni pubbliche. È fondamentale trovare le modalità più
adatte per gestire il “pubblico di riferimento” sia esso composto da rappresentanti di
governo, guerriglieri o popolazione, è con loro che si devono costruire fiducia e
disponibilità per giungere ad un dialogo possibilmente costruttivo.
86
3. Le relazioni pubbliche non si rivolgono alla generalità del pubblico,
ma a categorie particolari di intermediari a loro volta capaci di
influenzare il grande pubblico e quindi le comunità, gli Opinion
Leader e gli Opinion Maker. Secondo la Vostra esperienza, quanto è
importante il peso politico/sociale degli Opinion Leader o degli
Opinion Maker nei Processi di Pace? Come agite con loro?
Nel caso del Mozambico, essendo la civiltà mozambicana molto complessa era
difficilissimo trovare degli Opinion Leader o Opinion Maker. Invece direi che da un
punto di vista internazionale era chiaro che bisognava rivolgersi ai governi che avevano
più potere nei confronti delle due parti. Penso al Sud Africa nei confronti della
guerriglia poiché erano coloro i quali la pagavano, e per quanto riguarda la comunità
internazionale penso all’Italia nella figura del partito comunista italiano, e ad altre
grandi organizzazioni come le Nazioni Unite oppure agli stessi Stati Uniti nei
confronti del governo cosiddetto legittimo. Queste sono le modalità che noi abbiamo
attuato e che erano in quel momento, le uniche possibili.
La mia esperienza diretta mi fa dire che nei processi di Pace ci sono pochi Opinion
Leader o Opinion maker. Penso però a Giovanni Paolo II e al discorso che ha fatto
sul dialogo interreligioso che è stato fondamentale, oppure all’influenza che nel contesto
dell’attuale guerra in Siria ha avuto Papa Francesco che con la sua azione è riuscito a
fermare l’intervento americano in Siria e ha convinto il presidente Bashar al-Assad a
distruggere le sue armi chimiche.
La Comunità si è sempre mossa lontano dalla mediaticità e quindi intessendo, come si
diceva prima, relazioni interpersonali a vari livelli raggiungendo gli attori principali
della potenziale negoziazione e creando le condizioni perché questa avvenga, ma
l’azione della comunità di SE si svolge lontano dai riflettori.
87
4. In quale dei Processi di Pace cui la Comunità di Sant’Egidio ha
partecipato l’utilizzo delle Relazioni Pubbliche è stato particolarmente
rilevante e perché?
Come accennato prima, il processo di pace del Mozambico sicuramente è il caso più
significativo dal punto di vista delle modalità attuative. La Comunità di Sant’Egidio
ha lavorato a circa 30 conflitti e l’identificazione dei Stakeholder, la costruzione di
relazioni, l’ascolto alle esigenze delle parti coinvolte per inglobarle nel processo di pace,
è stato fatto un po’ ovunque ed è fondamentale e necessario, ove non si fa si arriva
facilmente al fallimento. Sant’Egidio nella sua azione a favore della pace cerca sempre
il dialogo, il confronto, l’ascolto partecipativo, anche se non sempre si arriva al
risultato auspicato. Però va considerato che, benché il processo avviato comprenda tutti
questi elementi che sono propri anche delle relazioni pubbliche, se gli stakeholder
principali non vogliono si arrivi alla risoluzione, purtroppo si va alla guerra.
5. Ci sono studi che affermano che più del 50% degli accordi di Pace
falliscono entro 5 anni dalla firma del trattato. Spesso questo
fallimento è dovuto al fatto che le donne e le loro opinioni non sono
state incluse nei “decision making”. Secondo la vostra esperienza qual è
l’apporto delle donne nei Processi di Pace e quale è la principale
caratteristica femminile che favorisce la felice conclusione di un
Processo di Pace?
La partecipazione delle donne per la buona riuscita dei processi di pace è
fondamentale, anche se secondo i dati a mia disposizione, non esistono al momento
processi di pace ai quali partecipino direttamente le donne. Il coinvolgimento delle
donne nei processi di pace veri e propri, secondo la mia esperienza, non accade quasi
mai. Ritengo che sia una mancanza fondamentale nell’ambito della gestione dei
88
processi di pace. Potrei dire che spesso sono coinvolte nelle fasi accessorie. Mi spiego: il
processo di pace è composto di varie fasi:
� fase del peacemaking;
� fase del peacebuilding;
� fase del conflict transformation o peacekeeping.
In tutto questo processo le donne sono coinvolte nella parte del peace building e in
quella del conflict transformation, ma non sono mai coinvolte nella parte relativa al
peace making nella quale vengono prese le decisioni. Una spiegazione di questa
situazione è che numericamente meno donne, anche se questo dato è in crescita,
partecipano alla guerra armata, e quindi in fase di negoziazione di un processo di
pace, per fermare la guerra bisogna parlare con gli uomini (statisticamente la maggior
parte di chi è a capo di una parte in guerra, è di sesso maschile). Il fatto che le donne
non abbiano un ruolo attivo nella fase del peacemaking, dal mio punto di vista è una
grave mancanza. Il processo di pace in sé, quindi il peacemaking che deve servire a
fermare la violenza, è fatto sostanzialmente da uomini; non mi è mai accaduto di
trovare al tavolo dei negoziati una controparte donna. Recentemente però, trattando il
problema del Centrafrica, il governo centrafricano era rappresentato da donne. Va
considerato che la fase del peacemaking ha sostanzialmente una struttura politica,
quindi proprio per questo è difficile che si possano notare differenze tra i generi, le
decisioni sono strettamente politiche. Sono utilizzati degli strumenti che sono neutri che
non hanno quindi possibilità di interpretazione.
Cosa diversa è voler rendere la pace duratura e non prendere in considerazione le
donne nella costruzione di una società pacifica, cosa che ritengo un errore gravissimo.
Secondo la mia esperienza, il processo di Pace in sé è veramente neutro, mi spiego: il
primo Ministro donna che ha firmato l’accordo di pace per il Centrafrica, si è
comportata come primo ministro e NON come la signora primo ministro, svolgeva un
ruolo totalmente istituzionale. Però una volta fatto l’accordo di pace sul Centrafrica,
la sua implementazione ha bisogno di tutte le componenti, quindi la politica, la società
civile e le donne, le rappresentanze religiose e ad ogni componente bisogna assegnare il
suo ruolo. Il fatto che talvolta le donne non siano inserite nella ricostruzione è un
89
gravissimo errore poiché esiste una specificità nella ricostruzione ed esiste una
specificità nel costruire una società pacifica che non è tipica degli uomini.
Personalmente nella fase dell’interruzione della violenza (peacemaking), non mi è mai
capitato di vedere donne sedute al tavolo delle trattative. Fanno parte dei team di
mediazione che noi creiamo, ma non ho esperienza di team delle controparti in cui ci
fossero donne al tavolo delle trattative. Nel team dei mediatori le donne sono presenti
ma nel team dei mediati non le ho mai incontrate. Ribadisco che lo ritengo un errore
grave in quanto viene esclusa la metà della società civile e le sue esigenze, ritengo però
che sia altrettanto un errore inserire le donne se non hanno un ruolo preciso.
Voglio citare un esempio positivo del coinvolgimento delle donne cui noi della
Comunità di Sant’Egidio abbiamo assistito e che fa parte della comprensione delle
dinamiche della società coinvolta nel processo di pace e nel post accordo. Nel
Mozambico dopo la fine della guerra, c’era il grave problema dell’AIDS che stava
uccidendo più persone che la guerra stessa – si stima ne abbia uccise circa un milione e
mezzo e ne avrebbe probabilmente uccise un numero indefinibile - a questo punto la
Comunità di Sant’Egidio ha iniziato a fare un lavoro di cura dell’AIDS, ma ci
siamo accorti che la cura in sé non bastava in quanto le persone non andavano a farsi
curare. A questo punto la Comunità di Sant’Egidio ha cercato di trovare una
soluzione a questa diffidenza e l’ha trovata in alcune donne mozambicane che alla
luce delle definizioni di relazioni pubbliche potrei chiamare “Influencer”. Sono state
individuate alcune donne – anzi un gruppo consistente di donne - che avevano
accettato di farsi curare dall’AIDS dalla Comunità di Sant’Egidio ed erano
“guarite”. Queste donne sono state incaricate di testimoniare che la cura poteva
aiutare le persone in questa lotta e l’hanno fatto talmente bene che sono divenute le
principali promotrici della cura al punto che oggi sono loro che portano avanti il
programma di cura contro l’AIDS in Mozambico– definito WOMEN for Life.
Esse si sono fatte testimoni della loro personale vicenda positiva creando un clima di
consenso e fiducia verso la cura e la Comunità che la elargiva. Di contro, anche degli
uomini avevano ricevuto le stesse cure, ma con loro non ha funzionato. Gli uomini
culturalmente, non potevano rendere conto della loro debolezza – l’aver contratto una
90
malattia - avrebbero indebolito la loro posizione all’interno della loro società. La
donna ha un altro atteggiamento e tutta un’altra forza che nella ricostruzione di un
paese, e nel porre le basi per la ricostruzione delle trame sociali, diventa un volano
potentissimo ed insostituibile. La donna realizza le condizioni perché si crei una
società pacificata e pacifica, penso al contributo che per esempio hanno dato le suore
nelle guerre occupandosi degli orfani. Il recupero degli orfani di guerra è
importantissimo nella ricostruzione di un paese che esce da un conflitto, l’uomo non è
in grado di farlo. L’uomo che si è occupato di guerra quasi mai è in grado di occuparsi
di costruire la pace.
Ritengo che la presenza di donne nei team di mediazione sia fondamentale perché esse
sono in grado di percepire necessità, bisogni, possibilità che i mediatori uomini nello
stesso ruolo, non sono in grado di comprendere.
Il processo di pace è il risultato di sinergie varie e complesse tra politici, uomini, donne,
religiosi e laici e nei team di mediazione e nella fase di ricostruzione le donne hanno
un ruolo fondamentale ed imprescindibile.
Fig. 5.1 - Il logo della Comunità di Sant’Egidio
91
5.3. Peacebuilding - Intervista a Federico Mayor Saragoza, Presidente della
Fondazione Internazionale Cultura della Pace, Madrid, ex Direttore
Generale dell’UNESCO dal 1987 al 1999, ex Ministro dell’Educazione e
della Scienza (1981-1982), Spagna
1. Prof. Mayor, che cos’è per lei la pace?
La pace è rispetto per la vita.
La pace è il bene più prezioso dell’umanità.
La pace è più che la fine di un conflitto armato.
La pace è una modalità di comportamento.
La pace è un impegno radicato ai principi di libertà, giustizia, uguaglianza e
solidarietà tra tutti gli esseri umani.
La pace è anche un accordo armonioso dell’umanità con l’ambiente.
Oggi nel XXI secolo, la pace è alla nostra portata.
Dalle origini dei tempi, il potere assoluto maschile ha applicato, senza eccezione, il
proverbio perverso che dice: “Si vis pacem, para bellum”, “Se vuoi la pace, prepara la
guerra”. Gli esseri umani erano invisibili, anonimi, confinato in un piccolo spazio, sia
territoriale e intellettualmente, timoroso. Le donne erano “inesistenti”, e quando per
caso per regioni dinastiche sono apparse negli scenari del potere, erano logicamente “ad
imitazione” dello “stile maschile” nella governance.
Come accade con la libertà e la giustizia... la pace non arriva dall’alto, ma da una
paziente e costante costruzione della pace personale.
Il passaggio da una cultura di imposizione, dominazione, violenza e guerra ad una
cultura di dialogo, di conciliazione, l’impegno e la pace, è ora, per la prima volta
fattibile, in quanto:
i) le nuove tecnologie di comunicazione e informazione stanno progressivamente
fornendo a tutti gli abitanti della Terra una coscienza globale;
ii) progressivamente, tutti possono esprimere liberamente le loro opinioni, pensieri,
invenzioni e sogni;
92
iii) le donne stanno prendendo parte al processo decisionale. Nelson Mandela ha detto
che solo quando la parità nei governi e nel processo decisionale avrà luogo, la
cultura della pace, il passaggio storico dalla forza della Guerra alla forza della
parola, sarà possibile.
Il concetto di pace è stato sviluppato attraverso:
la Dichiarazione e il Programma d’Azione per una Cultura di Pace (Http://fund-
culturadepaz.org/eng/DECLARACIONES/declarationProgrammeCoP.pdf)
la risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite sulla formazione scolastica
dei figli del Mondo in una Cultura di Pace e Non-Violenza (http://www.un-
documents.net/a56r5.htm), e con la Carta della Terra
(http://www.earthcharterinaction.org/content/pages/Read-il-charter.html).
L’articolo 1 della dichiarazione sulla tolleranza del 1995, adottata dalla Conferenza
dell’UNESCO, stabilisce anche che pace e tolleranza sono raggiunte solo quando
esiste il rispetto per tutti gli altri esseri umani, il rispetto è la pietra miliare della
costruzione della pace.
2. Basandosi sulla sua esperienza, che cos’è un processo di pace?
Un processo di pace è pluridimensionale, dove il primo livello è decidere di porre fine
alla violenza e quindi creare le condizioni per vivere pacificamente insieme.
Il processo di pace, inizia con un primo accordo “segreto” tra le parti, in questo
periodo la giustizia transizionale ha un ruolo cruciale.
Dalla mia esperienza posso dire che, un inizio positivo si ha quando le discussioni
riguardano solo il futuro, con l’obiettivo di un nuovo contesto per i figli di entrambe le
parti, tralasciando nelle decisioni dei successive passi da intraprendere, le sensazioni
del presente e le azioni del passato. Il passato è già stato scritto. L’unica cosa che deve
essere preso in considerazione sempre sono le vittime. L’unica cosa che può ora essere
scritta in modo diverso è il futuro. Il futuro può essere reinventato.
93
È nella prima “strategia del processo”, dove io ritengo che la comunicazione e le sue
“nuove modalità” siano particolarmente rilevanti, in quanto esso puntano sulla
fattibilità del processo, e soprattutto perchè i messaggi possono generare la speranza che
le future generazioni saranno in grado di vivere e di agire in modo diverso.
3. “Il ruolo strategico delle relazioni pubbliche si esprime nell’assistere
un’organizzazione, un’istituzione o anche un singolo, nel
raggiungimento degli obiettivi con un’attività coordinata, continuativa,
consapevole e programmata di coordinamento e gestione dei sistemi
di relazione che si attivano tra l’organizzazione e i vari segmenti dei
suoi pubblici influenti. Compito delle relazioni pubbliche è
individuare i soggetti che possono aiutare oppure ostacolare le attività
dell’organizzazione. Questi soggetti sono definiti stakeholder, cioè tutti
quei soggetti che si sentono in diritto di far valere la propria opinione nei
confronti dell’organizzazione. Una volta individuati sarà compito delle
relazioni pubbliche, individuare i messaggi, gli strumenti e i canali più
efficaci per comunicare con questi strumenti. Per raggiungere questo
obiettivo le relazioni pubbliche si impegnano a costruire relazioni
simmetriche e bidirezionali, un dialogo per implementare negli
obiettivi dell’organizzazione i legittimi interessi degli stakeholder.
Strumenti fondamentali di questa disciplina sono il dialogo, l’ascolto
reciproco, la capacità di includere nelle proprie strategie le aspettative
dei nostri stakeholder, per arrivare alla costruzione di relazioni basate
sulla fiducia per rafforzare la propria credibilità sociale, ambientale e
la propria reputazione”. Basandoci su questi concetti, quale secondo
Lei è il valore aggiunto dato dall’attività di relazioni pubbliche in un
processo di pace?
94
La domanda in se è già una risposta eccellente: “Una volta individuati gli
stakeholder, sarà compito delle relazioni pubbliche, individuare i messaggi, gli
strumenti e i canali più efficaci per comunicare con questi strumenti”.
Vorrei sottolineare l’importanza fondamentale della “reciprocità”, che è
particolarmente difficile a causa dell’odio, riluttanza a concordare con quelli che sono
stati i nemici durante molte volte... e dove, naturalmente, i media possono svolgere un
ruolo straordinario.
In realtà, è essenziale a questo proposito, avere sin dall’inizio una “mappa “ di come i
media potranno presentare la situazione e I relativi ostacoli.
Dal mio punto di vista, le attività di pubbliche relazioni, contribuiscono in modo
sostanziale a presentare l’immagine della situazione in una modalità tale da
contribuire al successo del processo di pace.
4. Può raccontarmi di qualche sua esperienza diretta di processi di pace
e, se c’è stato, di un suo diretto uso nei processi di pace, di relazioni
pubbliche?
Nella mia vita ho partecipato a vari processi di pace. In Salvador sono stato chiamato
dal Segretario Generale delle Nazioni Unite, Javier Pérez de Cuéllar che mi ha
chiesto di intervenire alla fine del processo di pace e prima della firma dell’accordo di
Chapultepec (http://es.wikipedia.org/wiki/Acuerdos_de_Paz_de_Chapultepec).
Durante questa fase del processo i media hanno giocato un “ruolo positivo”,
sottolineando l’importanza della “pace armata” che era stata realizzata da entrambe
le parti, grazie all’intervento di Oscar Santamaría, Ministro degli Affari Esteri di
El Salvador e il Sánchez Seren Comandante del Fronte Farabundo Martí di
Liberazione Nazionale, il quale è attualmente il Presidente costituzionale di El
Salvador. I media, con il contributo di grandi scrittori, come il poeta Galindo,
(es.wikipedia.org/wiki/david_escobar_galindo) hanno supportato le fasi
finali del processo di pace.
95
In qualità di Direttore Generale dell’UNESCO e rappresentando le Nazioni Unite,
ho visitato l’allora Presidente del Salvador Alfredo Cristiani, e il quartier generale
degli insorti, per stabilire con loro una modalità di dialogo.
Tra le varie azioni iniziate a supporto dei questo processo di Pace, voglio ricordare che
l’UNESCO ha rapidamente istituito nel paese diverse “radio libere”, promuovendo
una partecipazione speciale delle donne, che come promotrici di pace sono molto
efficienti, con il programma “Buenos días, mujer”, in cui il microfono era dato
esclusivamente a loro.
A seguito dell’iniziativa del Segretario Generale delle Nazioni Unite Boutros
Boutros-Ghali, nel 1992 sono stato personalmente coinvolto nella riavvio del processo
di pace Guatemala, inizialmente avviato nel 1987 dal presidente Vinicio Cerezo,
dopo l’importante incontro tenutosi nella città di Esquipulas (Guatemala).
Ho iniziato la mia azione convocando il primo incontro tra le parti a “Los Montes de
Heredia”, in Costa Rica. I cinque rappresentanti del governo erano presieduti da José
Lobo, Presidente del Parlamento del Guatemala, mentre i cinque rappresentanti della
guerriglia erano presieduti da Rodrigo Asturias, figlio del Premio Nobel Letteratura
Miguel Ángel Asturias. Questo è stato un “incontro segreto”, al fine di decidere se
entrambe le parti fossero o meno convinti di ri-avviare il processo di pace. Ricordo
vividamente che l’inizio è stato molto turbolento, perché entrambe le parti si
esprimevano in modo offensivo, lasciando ampio spazio alle loro emozioni. Ho quindi
ritenuto che si dovesse iniziare in un altro modo e annunciando una pausa di venti
minuti ho detto loro “Sono qui per porre rimedio alla situazione attuale, offrendo ai
vostri figli un quadro diverso per la loro vita. Se vi ostinate a parlare del presente o del
passato, me ne andrò subito e il negoziato non avrà luogo. Se invece immaginate di
lavorare per una vita diversa per le prossime generazioni, per i vostri figli e nipoti,
allora rimarrò e giungere ad alcune conclusioni positive di questo incontro”. Dopo circa
dieci minuti, entrambi i presidenti hanno affermato che, accettavano di parlare del loro
futuro comune e non del loro passato, in questi primi passi dell’accordo di pace.
96
Governo e guerriglia ebbero altri “incontri segreti” alcuni dei quali nella sede centrale
dell’UNESCO. Gli “incontri ufficiali” del processo di pace iniziarono all’ El
Escorial, in Spagna, quattro anni più tardi.
Anche in questa occasione mi sento di sottolineare il ruolo positivo svolto dai media,
che affrontando in modo tempestivo le dinamiche del processo di pace, esaltandone i
lati positivi, dopo che le “domande di giustizia di transizione” erano state
regolarmente concordate, hanno indicato la necessità che venisse istituita una
“Commissione della Verità”. Penso che sia particolarmente rilevante istituire
“Commissioni di verità” al fine di risolvere veramente quello che è successo nel
“passato” e per dare una giusta collocazione alla memoria storica che è
particolarmente rilevante in tutti i processi di pace e dove i media hanno ancora un
ruolo molto rilevante.
Nel processo di pace della Colombia, la situazione era particolarmente complessa,
perché non solo le FARC (Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia), ma
soprattutto i paramilitari, insieme al traffico di droga, rendevano estremamente
complessa la situazione che si discuteva e gli eventi successivi, rendendo particolarmente
difficile ogni soluzione.
Anche in questa occasione il ruolo dei media nel contrastare la “soluzione militare”
dell’ex presidente Alvaro Uribe si è dimostrata estremamente rilevante per la
definizione dell’accordo.
5. Secondo la Sua esperienza esiste un diverso atteggiamento tra donne e
uomini nella conduzione di processi e trattative così delicati?
Sì. Ho già accennato al presidente Nelson Mandela a quando a Pretoria, nel 1996,
mi diceva che la cultura della pace sarà una realtà solo quando ci sarà una elevata
partecipazione delle donne nel processo decisionale. Le donne sono fondamentali perchè
agiscono secondo i loro valori intrinseci e non per imitazione. “Le donne rimandano
97
sempre la violenza”, mi diceva Nelson Mandela, mentre gli uomini richiedono di
utilizzare la forza. Per le donne non è così.
Durante la negoziazione, le donne mantengono l’essenziale rispetto per la vita,
rispettano la dignità di tutti gli esseri umani. A volte, il cuore prevale sulla mente.
Questo deve essere accettato. È logico, ma è necessario un grande sforzo per
“posticipare la violenza”.
6. Nella sua lunga carriera di ministro, diplomatico e di instancabile
tessitore di equilibri di pace, ha conosciuto molte persone che hanno
avuto dei ruoli fondamentali nei processi di Pace. Tra queste persone
ci sono molte donne. Ne ricorda qualcuna che Lei considera
particolarmente significativa e capace di rappresentare un esempio di
relatore pubblico nei processi di pace?
Penso a tre donne in modo particolare.
Rigoberta Menchú, Premio Nobel per la Pace nel 1992, che ci ha dato un fantastico
esempio di come, nonostante avesse tante pressioni sul suo cuore, ( la madre, il padre e
alcuni fratelli sono stati uccisi e torturati), è stata in grado di superare tutte queste
sofferenze e ha saputo giocare un ruolo cruciale nel processo di pace del Guatemala e
nella “Commissione della Verità” che lo ha seguito. Nel 1993, le ho dedicato una
poesia che iniziava come segue: “Cada día / un gesto de amor, / Una palabra, /
Una sonrisa. / Cada día, / Una semilla / Sembrar, / sembrar, sembrar... / ¿Qué
Importa la Cosecha? / Lo que Importa / es cada instante / Unico, fugaz /
irrepetible /...”
Piedad Córdoba avvocato e politica colombiana, che attualmente sta svolgendo un
audace e coraggioso lavoro per la pace in Colombia guidando il gruppo “Colombianos
por la Paz” e ricoprendo un ruolo di mediatore che si è rivelato estremamente utile.
Attualmente questo processo viene seguito a L’Havana (Cuba).
98
Altra donna, per me, particolarmente importante è Nidia Díaz che era il numero due
del gruppo armato dei ribelli di El Salvador (Frente Farabundo Martí). Al momento
giusto si è rivelata uno dei partner più intelligenti per garantire il successo del processo
di pace di El Salvador. Oggi Nidia Diaz è un autorevole membro del governo di El
Salvador, ed è una donna-simbolo della costruzione della pace nel suo paese.
7. Gli antichi romani dicevano “si vis pacem, para bellum”. In questo
momento storico così travagliato e difficile, in cui ogni equilibrio
politico è facilmente alterabile da molteplici e talvolta imprevedibili
fattori, secondo Lei è ancora valido questo principio e se sì, perché?
Come ho già detto, non ritengo che questo proverbio romano sia “valido”. Al
contrario, promosso dai produttori di armi, è stato il motivetto di sottofondo di scontri,
conflitti, invasioni. Le soluzioni istituzionali a favore della diplomazia, a favore degli
accordi di pace, sono state contrastate da coloro che pensano che quello che conta è il
potere egemonico.
Nel 1919, il presidente americano Thomas Woodrow Wilson cercò di porre fine al
“tempo della guerra” istituendo a Ginevra, la Lega o Società delle Nazioni, riunendo
insieme con una Corte permanente di pace a livello mondiale, tutti i firmatari.
All’epoca, il partito repubblicano americano ha reagito immediatamente e -questo è
una contraddizione che deve essere resa nota - gli Stati Uniti del Nord America non
sono mai stati un membro della Società delle Nazioni, creata dal loro presidente
Wilson.
Dopo la seconda guerra mondiale, il disegno perfetto del presidente americano
Roosevelt per il sistema delle Nazioni Unite, con le sue istituzioni specializzate in
lavoro, salute, cibo, educazione, scienza e cultura, sviluppo, bambini, non è stato
applicato, perché di nuovo anche in questa circostanza l’incipt “Noi, i popoli...” è
stato sostituito dagli Stati membri, escludendo la società civile, e permettendo che solo
alcuni dei membri delle Nazioni Unite avessero il veto al posto del voto. Dopo la
99
caduta del muro di Berlino simbolo dell’Unione Sovietica, senza che venisse versata
una sola goccia di sangue, al suo posto si è sviluppata una comunità di Stati
indipendenti. Le ambizioni egemoniche del Partito Repubblicano degli Stati Uniti
hanno nuovamente portato alla governance mondiale un gruppo plutocratico,
traducibile nei vari G7, G8, G20. Oggi, più di 3 miliardi di dollari vengono investiti
giornalmente in spese militari e di armamento, mentre circa 50.000 persone, la
maggior parte bambini, muoiono di fame.
Ora, è più urgente che mai a mettere in pratica le priorità del “nuovo inizio” sancito
dalla Carta della Terra: cibo per tutti; accesso all’acqua; servizi sanitari; tutela
ambientale; istruzione per tutti; pace.
Non c’è pace senza giustizia sociale.
Non c’è pace se l’uguale dignità umana non è rispettata.
8. Lei che è un grande comunicatore e che ha fatto del dialogo e della
parola la sua arma per combattere l’indifferenza e per creare
consapevolezza nelle persone soprattutto a difesa della Pace, come
vede il futuro delle relazioni pubbliche in questo momento così
particolare della nostra storia?
Come ho detto prima, credo che in questo momento gli esseri umani, sempre invisibili,
anonimi, obbedienti, sottomessi, possono, per la prima volta nella storia, prendere in
mano le redini del loro destino comune.
Possono esprimere se stessi, e possono quindi partecipare alla costruzione di una vera
democrazia; sono cittadini del mondo con una coscienza globale e, cosa estremamente
rilevante, per la prima volta le donne, con la parità di genere, possono svolgere il ruolo
fondamentale che nella nuova era appartiene a loro.
La comunicazione pubblica, le pubbliche relazioni, ora dipenderanno anche
progressivamente del “grande dominio” (militare, finanziario, energetico, mediatico,
digitale) e il “potere dei cittadini” potrà essere pienamente espresso nel cyberspazio.
100
Lo stato attuale dei media è una vergogna: la maggior parte sono la “voce padrone”.
Libera espressione, media liberi, e libere pubbliche relazioni! Questo è il pilastro
principale per un futuro migliore per l’intera umanità.
Fig. 5.2 - Federico Mayor Zaragoza
5.4. Peacekeeping - Intervista al Tenente Colonnello dei Lagunari Giovanni
Boggeri - dal 1994 al 2003 in forza al reggimento lagunari “Serenissima”
in Venezia, dal 2003 al 2009 in forza al Comando del Corpo d’armata di
reazione rapida della nato in Solbiate Olona (VA) ed attualmente in forza
alla Scuola Telecomunicazioni Interforze di Chiavari (GE) con l’incarico
di Capo Ufficio Difesa
1. Tenente Colonnello Boggeri, Lei ha partecipato direttamente a molte
missioni di peacekeeping cui l’Italia ha aderito fra le quali le missioni in
Albania, Kosovo, Bosnia ed Erzegovina, Afghanistan ed Iraq. Ci può
definire, secondo la sua esperienza diretta, cos’e’ un processo di pace?
Un processo di pace è la fase fondamentale del passaggio da una situazione di
conflittualità ad una situazione di pace stabile. Un processo di pace si realizza con
l’interazione di innumerevoli attori, tutti assolutamente indispensabili: parti in
101
conflitto, organizzazioni internazionali, governi nazionali, autorità locali,
organizzazioni non governative, forze militari di “peacekeeping”. Tutte le parti in
causa devono interagire tra loro partendo dalla ricerca del dialogo tra le parti in
conflitto, presupposto fondamentale per arrivare ad un accordo che assicuri almeno la
sospensione delle ostilità.
2. Quali erano generalmente i compiti che vi venivano assegnati nelle
missioni di consolidamento della pace?
Missione in Albania (1997)
Nella prima missione alla quale ho partecipato, la missione “ALBA” in Albania,
nel 1997, l’Italia, per la prima volta, ha assunto la guida di una Forza
Multinazionale. Questa missione era stata attivata sia su mandato dell’OCSE che
dell’ONU (Risoluzione n. 1101) su richiesta del Governo Albanese. Il fine della
missione era riportare la legalità nel Paese e assistere le autorità locali nel previsto
processo elettorale, dopo che il paese era stato investito da una gravissima crisi interna
dovuta al progressivo deterioramento dell’economia. La crisi ha avuto come
conseguenze l’insorgere di violente proteste da parte di larghi strati della popolazione,
l’acuirsi del fenomeno dell’emigrazione clandestina, soprattutto verso l’Italia e lo
sfaldamento delle Forze Armate e della Polizia. In questo contesto le attività
principali della Forza Multinazionale erano quelle di mantenimento dell’ordine
pubblico e della legalità, in cooperazione con le forza albanesi, di supporto delle
autorità albanesi nella preparazione delle elezioni e di distribuzione di aiuti
umanitari alla popolazione.
Missione in Bosnia (1998)
Nella mia seconda missione, a Sarajevo, in Bosnia, nel 1998, il compito della Forza
Multinazionale della NATO (Stabilisation Force – SFOR), era quello di fare si
che venisse rispettato quanto stabilito dagli Accordi di Dayton del dicembre 1995,
102
all’indomani della formale cessazione delle ostilità tra le entità generate dalla
disgregazione dell’ ex Yugoslavia. In particolare la Task Force di cui facevo parte
aveva il compito principale di attivare una serie di pattugliamenti e di presidi fissi per
il controllo del territorio e la difesa di alcune infrastrutture fondamentali nell’area di
Sarajevo e di Pale.
Missioni in Kosovo (1999 - 2000)
Nelle due successive missioni, svolte in Kosovo, la prima a Dakovica tra il 1999 ed il
2000 e la seconda a Pec/Peje nel 2001, la Task Force di cui facevo parte era
inserita nella Forza Multinazionale della NATO (Kosove Force - KFOR), entrata
in Kosovo il 12 giugno 1999 su mandato delle Nazioni Unite.
La Risoluzione 1244 era stata adottata dal Consiglio di Sicurezza, nel tentativo di
porre rimedio alla crisi umanitaria che stava colpendo quella regione, con scontri
quotidiani tra le forze militari della Repubblica Federale di Jugoslavia e le forze
paramilitari dell’Ushtria Çlirimtare e Kosovës (UCK) (Esercito di liberazione del
Kosovo) ed azioni violente sistematiche ai danni della popolazione civile. I compiti
principali di KFOR erano i seguenti
� assistere il ritorno e il dislocamento dei rifugiati;
� assistere il processo di ricostruzione e sminamento;
� garantire la sicurezza e l’ordine pubblico; ed in particolare la sicurezza delle
minoranze etniche;
� garantire la sicurezza del patrimonio storico
� garantire il rispetto dei confini e la sicurezza di confine;
� ottenere la consegna, in tutto il Kosovo, di armi, munizioni ed esplosivi;
� sostenere lo stabilimento di istituzioni civili, di un sistema giudiziario e penale, di
un processo elettorale, della legge e dell’ordine pubblico, e di altri aspetti della vita
politica, economica e sociale della provincia.
In questo contesto la Task Force di cui ho fatto parte, attraverso pattugliamenti e
presidi fissi, proteggeva alcune enclave ortodosse e controllava alcuni valichi di frontiera
103
con il Montenegro e le principali vie di comunicazione intorno agli abitati di
Dacovica/Giacova e Pec/Peje.
Missione in Iraq (2004)
La missione “Antica Babilonia” svolta in Iraq, presso An Nassiria, nel 2004 aveva
i seguenti obiettivi:
� ricostruzione del “comparto sicurezza” iracheno attraverso l’assistenza per
l’addestramento e l’equipaggiamento delle forze, a livello centrale e locale, sia nel
contesto della NATO sia sul piano bilaterale;
� creazione e mantenimento della necessaria cornice di sicurezza;
� concorso al ripristino di infrastrutture pubbliche ed alla riattivazione dei servizi essenziali;
� rilevazioni radiologiche, biologiche e chimiche;
� concorso all’ordine pubblico;
� polizia militare;
� concorso alla gestione aeroportuale;
� concorso alle attività di bonifica, con l’impiego anche della componente cinofila;
� sostegno alle attività della Coalition Provisional Authority (CPA);
� controllo del territorio e contrasto alla criminalità.
In particolare, la Task Force di cui facevo parte, aveva il compito di garantire la
piena funzionalità delle principali vie di comunicazione intorno alla città di An
Nassiria, di proteggere la sede della CPA in questa città ed alcune infrastrutture
fondamentali, di pattugliare il territorio della regione insieme alle forze irachene e di
addestrarle.
Missione in Afganistan (2005)
Nell’ultima missione alla quale ho partecipato, nel 2005, sono stato impegnato presso
il Quartier Generale della Forza Multinazionale denominata International Security
Assistance Force (ISAF), in quell’anno sotto comando italiano. Nell’ambito della
rotazione dei Comandi NATO per la condotta di ISAF, l’Italia, a partire dal 4
agosto 2005 e per nove mesi, ha avuto la leadership dell’ISAF, schierando in
104
Afghanistan il Comando NRDC-ITA (NATO Rapid Deployable Corps-Italy) al
comando del Generale di Corpo d’Armata Mauro Del Vecchio.
L’ISAF, il cui quartier generale si trova a Kabul, opera sotto mandato dell’ONU con le
risoluzione del 20 dicembre 2001 e del 13 ottobre 2003, allo scopo di proteggere le istituzioni
afghane e la popolazione locale dai talebani e dagli altri gruppi terroristici operanti nel paese,
addestrare le forze di sicurezza afghane e supportare le autorità locali nell’opera di ricostruzione
ed assistenza della popolazione. In particolare nel periodo di mia permanenza in ISAF
abbiamo gestito sia il completamento della fase 2 della missione, relativa all’ampliamento verso
Ovest dell’area di responsabilità della missione, sia la parte embrionale della fase 3,
caratterizzata dall’assunzione da parte delle forze di ISAF della responsabilità delle province
meridionali dell’Afghanistan, dove fino ad allora operavano solo le forze della missione a guida
statunitense denominata “Enduring Freedom”.
3. Come reagivano alla vostra presenza le popolazioni con le quali siete
entrati in contatto durante le missioni di consolidamento della pace?
Personalmente non ho mai assistito ad eventi che evidenziassero ostilità delle
popolazioni locali nei confronti dei soldati della Forza di Pace. E ciò vale in
particolar modo per gli Italiani. Il fatto che noi Italiani abbiamo la capacità di essere
benvoluti per l’umanità e l’altruismo con il quale operiamo, dalla mia esperienza
diretta ho potuto vedere che non è un luogo comune ma una ineluttabile realtà.
Un esempio su tutti. Nel 2004 in Iraq, durante uno dei combattimenti che hanno
visto coinvolti gli uomini della Task Force “Serenissima” contro forze ostili locali, gli
abitanti dei quartieri dove si combatteva, durante le fasi di quiete tra una sparatoria e
l’altra, si avvicinavano ai nostri soldati e gli porgevano del cibo e dell’acqua in segno
di amicizia e gratitudine.
105
4. Come sono cambiate secondo lei, le missioni di peacekeeping da quando
nell’esercito italiano c’e’ la presenza delle donne?
La presenza delle donne nell’Esercito Italiano, ed in generale nelle Forze Armate
Italiane, è stata stabilita dalla legge 20 ottobre 1999 n. 380. Pertanto io ho avuto
modo di sperimentare in prima persona gli effetti di tale cambiamento nelle missioni di
peacekeeping.
Questi effetti sono molto vari e ritengo tutti molto positivi.
Ad esempio, da un punto di vista meramente tattico, il fatto di poter disporre di
personale femminile all’interno delle unità che sono chiamate ad operare sul terreno,
permette di poter controllare e soprattutto perquisire con minori problemi le donne.
Inoltre la presenza femminile risulta di grande aiuto nello svolgimento alcune attività
tipiche di ogni missione di pace, quali, ad esempio, la distribuzione di aiuti umanitari
o l’assistenza medica alla popolazione locale, caratterizzate da uno stretto contatto con
le popolazioni locali ed in special modo con donne e bambini.
5. Attraverso l’attività di relazioni pubbliche si cerca di orientare
opinioni, atteggiamenti, comportamenti e decisioni degli stakeholders o
dei soggetti che possono agevolare od ostacolare il raggiungimento
degli obiettivi di un’organizzazione. Il processo di comunicazione è
basato su un reciproco scambio fondato sul dialogo e sul
riconoscimento dell’altro. In questo processo, l’ascolto attivo
dell’altro ha una fondamentale importanza in quanto costituisce la
chiave del cambiamento per far si che la comunicazione divenga
reciprocita’ e condivisione. Ci puo’ illustrare come secondo lei questi
concetti base della teoria delle relazioni pubbliche sono stati applicati
ai processi di pace ai quali lei ha partecipato e quali sono stati i
risultati che ha visto?
106
Le Relazioni Pubbliche e la Comunicazione Interculturale rivestono un ruolo molto
importane nella formazione degli Ufficiali ed in particolare di quelli destinati a
ricoprire ruoli apicali all’interno delle Forze Armate. Questo aspetto denota già
quanto i vertici militari siano consapevoli che la capacità di sapere dialogare con le
parti in causa e di gestire le relazioni complesse tra tutti gli attori di una missione di
pace, siano capacità che un Comandante deve avere.
Infatti il rapporto efficace con gli “stakeholders” e il perseguimento del dialogo tra tutti
i soggetti rilevanti, sono aspetti che fanno parte integrante degli obiettivi che ogni
Comandante persegue nella pianificazione e nella condotta di una missione. E ciò
riguarda i Comandanti a tutti i livelli, a partire da quelli di un piccolo Distaccamento
locale, per passare ai Comandati di Task Force fino ad arrivare al Comandante della
Forza di Pace.
Inoltre, all’interno dello Staff di ogni Comandante, è previsto esistano figure che si
occupano di “Cooperazione Civile e Militare” e di “Comunicazione Operativa”.
La “Cooperazione Civile-Militare” è uno strumento operativo nelle mani del
Comandante militare per portare a compimento la missione in una operazione di
supporto alla pace. Si cerca di raggiungere il compimento della missione con
l’ottimizzazione delle relazioni con la popolazione, con le autorità locali e con le
organizzazioni internazionali governative e non governative, e soprattutto attraverso la
creazione un ambiente favorevole all’assolvimento della missione stessa.
Attraverso la “comunicazione operativa”, si sviluppano strategie ed azioni
comunicative allo scopo di creare, consolidare o incrementare il consenso della
popolazione nei confronti dei contingenti militari impegnati in missioni fuori area.
Oltretutto i Comandanti di più alto livello dispongono di “Assistenti Politici” e di
“Assistenti Giuridici” che li supportano nella gestione delle relazioni con gli
“stakeholders”.
L’approccio che sia ha nei confronti degli interlocutori locali “istituzionali” e dei
rappresentanti della popolazione è sempre quello dell’ascolto e dell’analisi delle diverse
problematiche. Evidentemente le richieste della popolazione civile sono da mettere in
107
sistema con gli obiettivi della missione, con le problematiche legate alla sicurezza
dell’area e con le risorse economiche a disposizione dei Comandanti.
6. Può raccontarmi di qualche sua esperienza diretta di processi di pace
e, se c’è stato, di un suo diretto uso nei processi di pace, di relazioni
pubbliche?
Personalmente non ho mai fatto un uso diretto di Relazioni Pubbliche durante le mie
missioni ma ne ho toccato con mano quotidianamente gli effetti. In tutti i teatri
operativi in cui mi sono trovato ad operare, ho vissuto momenti di fortissima tensione
che sono stati risolti grazie al dialogo tra le parti in combinazione con un’efficace
risposta militare. Inoltre, in ogni missione di pace ho assistito e partecipato
all’organizzazione e alla conduzione di operazioni di distribuzione di aiuti umanitari
che hanno come presupposto imprescindibile, un’efficace rete di contatti tra le autorità
locali, la popolazione locale e i rappresentanti della Forza di Pace.
7. Gli antichi Romani dicevano “si vis pacem, para bellum”. In questo
momento storico così travagliato e difficile, in cui ogni equilibrio
politico è facilmente alterabile da molteplici e talvolta imprevedibili
fattori, secondo lei è ancora valido questo principio e se sì, perché?
Ritengo che questo principio sia assolutamente ancora valido perché a mio avviso,
penso che la pace sia un bene fondamentale che è necessario difendere. Ritengo inoltre
che per la sua difesa, la deterrenza rivesta un ruolo molto rilevante. Tante sono le
minacce e le tensioni che gravitano intorno ai confini dell’Italia e dell’Europa che
pensare di poter prescindere dal disporre di uno strumento militare credibile ed
efficiente ritengo, purtroppo, sia una mera utopia. Logicamente il sistema di difesa
108
italiano si fonda sulla rete delle alleanze internazionali di cui l’Italia è parte, prima
fra tutte la NATO.
8. La comunicazione e le relazioni pubbliche hanno cambiato le loro
modalità comunicative integrando strumenti come i social media nella
loro quotidianità. Secondo il suo punto di vista, i processi di pace e/o
le missioni di pace come possono utilizzare queste nuove tecnologie
rendendole uno strumento di pace?
La “comunicazione operativa” militare impiega tutti i mezzi di comunicazione
disponibili per veicolare messaggi volti al perseguimento degli obiettivi di una missione.
Stampa, volantini, cartellonistica, messaggi audio e video e, naturalmente anche
l’impiego della rete e dei social network sono ampiamente utilizzati nella varie fasi
delle operazioni militari.
Fig. 5.3 - Uno dei Logo delle UN Peacekeeping missions
109
Conclusioni
Dopo aver approfondito e analizzato i possibili punti di contatto tra la
disciplina delle relazioni pubbliche e i processi di pace sono emersi, a
mio avviso, degli spunti interessanti e rilevanti.
La storia dell’umanità è un incessante esercizio di relazioni pubbliche i
cui metodi si sono semplicemente raffinati e strutturati in tempi recenti
dotandosi di metodologia e diventando una disciplina utilizzata
trasversalmente.
Le donne, diversamente dagli uomini, sono predisposte alla mediazione
al dialogo e al rispetto per gli altri, caratteristiche che ne fanno delle
ottime relatrici pubbliche e le porrebbero di diritto ai tavoli dei processi
di pace. In realtà solo il 3 per cento degli accordi di pace è firmato da
donne, solo l’8 per cento vede la presenza femminile nei negoziati che li
precedono, solo il 12 per cento del corpo diplomatico è di sesso
femminile. Il loro ruolo importante e fondamentale è stato sottolineato e
riconosciuto unanimamente dai miei intervistati.
Dialogare con le eminenti personalità che mi hanno cortesemente
rilasciato le interviste su questo argomento, mi ha permesso di arrivare
alle seguenti conclusioni.
Le persone intervistate hanno ammesso di non avere mai considerato
che parte delle loro azioni nelle fasi dei processi di pace, sono azioni di
relazioni pubbliche. Emerge che la disciplina non è ancora chiaramente
percepita come strumento di negoziazioni. In realtà, parlando con
ognuno degli intervistati, l’utilizzo delle modalità delle relazioni
pubbliche nelle iniziative che loro competevano è emerso chiaramente.
Considerando che il processo di pace si svolge per fasi:
� Peacemaking
� Peacebuilding
� Peacekeeping
110
ho voluto analizzare i contributi degli intervistati secondo questo ordine
di azione.
Nella fase 1 “Peacemaking”, in cui possiamo collocare l’azione della
Comunità di Sant’Egidio, si svolge un vero e proprio ruolo di
mediazione. Da quanto testimoniato da Claudio Mario Betti riguardo al
processo di pace in Mozambico, le modalità operative proprie della
disciplina delle relazioni pubbliche utilizzate nella fase di “Peacemaking”
sono state le seguenti:
� analisi dello scenario;
� individuazione dei pubblici (stakeholder, influenti, influenzatori delle
issue);
� mappatura del potere;
� definizione delle modalità di coinvolgimento dei pubblici;
� ascolto dei pubblici (in modo particolare degli stakeholder);
� identificazione degli strumenti di ascolto (relazione interpersonale, o
mediata da influencer);
� definizione degli obiettivi;
� inclusione delle aspettative degli stakeholder negli obiettivi da
raggiungere;
� definizione dei messaggi chiave (tenendo in considerazione quanto
emerso dalla fase di ascolto delle aspettative);
� definizione delle modalità di contatto;
� scelta degli strumenti di comunicazione;
� pianificazione delle azioni;
� definizione dei ruoli e delle responsabilità.
Nella fase 2 “Peacebuilding” trova posto l’azione importantissima della
diplomazia che come abbiamo potuto capire dalle parole di Federico
Mayor Zaragoza, ha un ruolo fondamentale, prima e dopo la fine del
111
negoziato, per la costruzione di un ambiente in cui si possa stabilire la e
consolidare la pace.
Dalla mia analisi e riflessione molti sono i punti di convergenza dei due
ambiti: sia la diplomazia che le relazioni pubbliche mettono al centro
delle loro attività la comunicazione, cioè un processo strategico per
sviluppare relazioni positive con stakeholder influenti. Inoltre, diplomatico
e relatore pubblico, per raggiungere i loro obiettivi, devono possedere
specifiche abilità:
� capacità negoziali;
� chiarezza comunicativa;
� conoscenza dello scenario;
� conoscenza degli stakeholder;
� disposizione all’ascolto e alla conciliazione di diverse esigenze;
� abilità nel trovare soluzioni di compromesso;
� propensione all’adattamento alla diversità culturale;
� ampia visione generale.
La fase 3 “Peacekeeping”, o mantenimento della pace, è la fase successiva
agli accordi dove ancora gli equilibri sono fragilissimi e le decisioni non
ancora accettate. In questa fase spesso sono necessarie azioni “buffer” o
cuscinetto, che aiutano a consolidare il cambiamento avvenuto e non
ancora totalmente integrato nel nuovo tessuto politico-sociale. Poiché le
missioni di “Peacekeeping” sono normalmente missioni sotto l’egida delle
Nazioni Unite con mandato e regole d’ingaggio chiaramente definite, che
lasciano poca libertà d’azione, dall’analisi di quanto testimoniato dal
Tenente Colonnello Giovanni Boggeri, ritengo che le modalità utilizzate
nelle azioni militari di consolidamento della pace, afferenti alla disciplina
delle relazioni pubbliche, siano state le seguenti:
� conoscenza degli stakeholder;
� disposizione all’ascolto;
112
� abilità comunicative;
� ricerca del dialogo;
� adattamento e rispetto della diversità culturale;
� empatia;
� creazione di un ambiente favorevole.
Emerge chiaramente che l’architettura strutturale ed operativa delle
dinamiche di relazioni pubbliche è utilizzata nelle tre fasi dei processi di
pace. La loro applicazione durante lo svolgimento delle trattative di pace,
avviene generalmente in modo inconsapevole e l’utilizzo di questa
disciplina è percepita prevalentemente in maniera debole e non
chiaramente definita, benchè svolga di diritto un ruolo fondamentale in
tutti i negoziati di pace.
Considerando, però, che sia le relazioni pubbliche che i processi di pace
sono basati sulla comunicazione, posso così sottilmente concludere,
parafrasando il proverbio latino:
SI VIS PACEM, PARA VERBUM
113
Bibliografia
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www.unipd-centrodirittiumani.it
www.wikipedia.it
www.wikipedia.org
www.youtube.com
117
Ringraziamenti
Sono molte le persone che hanno contribuito a titolo diverso a questo
mio percorso e che voglio ringraziare. Ringrazio innanzitutto Gabriele,
che mi ha sostenuta, supportata e sopportata in questo cammino,
assecondando le mie giornate buie e la mia esigenza di silenzio e
incoraggiandomi sempre verso la meta; ringrazio i miei genitori Adriana
e Franco e le mie zie Gina, Giulia e Fernanda, da sempre miei grandi
sostenitori e fan, che tra consigli chiacchere e manicaretti hanno
contribuito al raggiungimento di questo risultato.
Ringrazio Francesca e Giulia che hanno da sempre fatto il tifo per me e
che soprattutto nell’ultimo periodo mi hanno aiutato e sostenuto
contribuendo a questo prodotto finale.
Ringrazio Federico Mayor per la sua disponibilità, e la cui azione per la
pace e i diritti umani, ha ispirato molti dei miei ideali di vita.
Ringrazio Claudio Mario Betti, che squisitamente ha accolto la mia
richiesta e mi ha reso partecipe delle trattative che hanno condotto
all’accordo di pace in Mozambico, ringrazio Giovanni Boggeri, che mi ha
permesso di accedere alla prospettiva militare e per la sua costante
amicizia.
Ringrazio le mie amiche e i miei amici che mi hanno incoraggiata e
sostenuta moralmente in questa impresa e particolarmente Antonella che
nella fase finale mi è stata molto vicina, ma una menzione particolare và
al gruppo fantastico di RPOL che annovero tra le esperienze più positive
di questo corso di laurea.