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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRENTO FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN SCIENZE STORICHE E FORME DELLA MEMORIA STORIA CONTEMPORANEA I PROF. CORNI GUSTAVO IL CONSENSO AL FASCISMO NELLA STORIOGRAFIA ITALIANA MARIANGELA LENZI MATR. 154024 ANNO ACCADEMICO 2011/2012

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRENTO

FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN

SCIENZE STORICHE E FORME DELLA MEMORIA

STORIA CONTEMPORANEA I

PROF. CORNI GUSTAVO

IL CONSENSO AL FASCISMO

NELLA STORIOGRAFIA ITALIANA

MARIANGELA LENZI

MATR. 154024

ANNO ACCADEMICO 2011/2012

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INDICE

INTRODUZIONE PAG. 3

1. IL “CONSENSO” PER FEDERICO CHABOD 5

2. RENZO DE FELICE. GLI ANNI DEL CONSENSO 6

3. ERNESTO RAGIONIERI E “L‟ORGANIZZAZIONE DEL CONSENSO” 9

4. MARIA ANTONIETTA MACCIOCCHI E IL “CONSENSO” FEMMINILE 10

5. L‟OPINIONE “PUBBLICA” ITALIANA DAL 1929 AL 1943 IN SIMONA COLARIZI 12

6. VITTORIO FOA 16

7. PIETRO SCOPPOLA 17

8. LUCIANO CANFORA E LA SUA PROLUSIONE CONTRO IL REVISIONISMO STORICO 18

9. IL “CONSENSO” IMPERFETTO DI CORDOVA 20

CONCLUSIONI 22

BIBLIOGRAFIA 23

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INTRODUZIONE

Il consenso al fascismo è un tema presente nel dibattuto storiografico italiano, anche se rispetto ad

altre questioni, fino agli anni Ottanta è stato affrontato in maniera marginale.

Partendo dalla consapevolezza che la storia è scritta dai vincitori, occorre tenere presente che la

storiografia che ha dominato la scena italiana a partire dal secondo dopoguerra fino alla fine degli anni

Ottanta è quella che si riconosce nel “paradigma antifascista”. Si tratta di una corrente storiografica

orientata verso una forte condanna dell‟esperienza fascista, espressione di una mutata situazione

politica dominata dai partiti dell‟arco costituzionale che dal 1946 ressero il paese per i successivi

quarant‟anni. In questo lasso di tempo la storiografia dominante di stampo antifascista celebrava, da un

lato, la guerra di Resistenza come “guerra di liberazione”, dall‟altro “sottraeva il regime fascista a una

riflessione seria, evitando in particolare di affrontare il tema del consenso”1. Negli ultimi anni però la

questione ha acceso un dibattito sul fascismo che si è potuto avvalere dei nuovi contributi che

mettevano in luce le dimensioni, la complessità e la modernità dei meccanismi di persuasione della

dittatura2. In questo clima di generale interesse per i mezzi e le modalità di conquista del consenso

emerge lo studio, per il tempo pionieristico, di Cannistraro3 a cui De Felice, che ne ha curato

l‟introduzione, riconosceva due meriti: innanzitutto quello di aver affrontato in termini moderni e

convincenti il concetto di cultura di massa in un regime come quello fascista e in secondo luogo quello

di aver studiato analiticamente le strutture organizzative della politica culturale fascista, nel loro

sorgere e progressivo svilupparsi dal 1922 al 1943 e durante il periodo di vita della RSI. Il titolo

dell‟opera di Cannistraro non lascia dubbi riguardo l‟obiettivo della sua ricerca, che non indaga sul

consenso in sé come dichiara nell‟introduzione: “non pretendiamo affatto di presentare un esame

esauriente né della vita culturale e intellettuale italiana durante il periodo fascista, né delle differenti

reazioni culturali al fascismo”.

Al contrario, molti studi hanno perso l‟obiettivo originario facendo “confusione fra gli strumenti

adoperati dalla dittatura, e il risultato raggiunto, come se all‟uso degli uni corrispondesse, con un certo

automatismo, lo scopo perseguito”4.

Il presente lavoro passa in rassegna il pensiero a tal riguardo di alcuni storici, alcuni dei quali

impegnati politicamente, nel tentativo di cogliere l‟evoluzione dell‟interpretazione storiografica cui la

questione è stata oggetto: partendo da F. Chabod per arrivare a Cordova, ho ripercorso quasi cinquanta

anni di dibattito storiografico cogliendo in esso le trasformazioni del contesto politico di cui è

1 G. CORNI, Fascismo. Condanne e revisioni, Roma, Salerno Editrice, 2011, p. 20.

2 S. COLARIZI, L’opinione degli Italiani sotto il regime. 1929-43, Roma-Bari, Laterza, 1991, p. 3.

3 P. V. CANNISTRARO, La fabbrica del consenso. Fascismo e mass media, Roma-Bari, Laterza, 1975.

4 F. CORDOVA, Il “consenso” imperfetto. Quattro capitoli sul fascismo, Soveria Mannelli, Rubettino, 2010, p. 3.

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espressione. La scelta degli intellettuali qui considerati non si basa su una preferenza personale alla

corrente di sinistra (di cui molti fanno parte) ma deriva dalla presenza maggioritaria di opere, frutto di

una cospicua attività editoriale che negli anni del “paradigma antifascista” ha dato voce al loro

pensiero.

Si tratta di una ricerca che ovviamente non ha pretese di esaustività, data l‟impossibilità in

questa sede di considerare tutti quanti si sono imbattuti a vario titolo nella questione, ma credo che,

seppure con i suoi limiti necessari, abbia colto come l‟interpretazione di un argomento o di un fatto

storico dipenda dal contesto in cui essa matura e dalle finalità che si prefigge, ovvero l‟uso politico

della storia.

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1. IL “CONSENSO” PER FEDERICO CHABOD

Emblematico dell‟atteggiamento di circospezione nell‟imbattersi in tale questione è l‟utilizzo che

del termine fa Federico Chabod in L’Italia contemporanea.1918-485, un‟opera pubblicata nel 1961che

raccoglieva il ciclo di lezioni tenute alla Sorbona di Parigi nel 1950. Nel presentare la storia d‟Italia fra

il 1918 e il 1948, Chabod si sofferma sul problema del consenso al regime contestualmente all‟ascesa e

all‟affermazione del movimento fascista6. Lo storico, non comunista, usa il termine una sola volta

mettendolo fra virgolette, a indicare come, per gli storici che si riconoscono nel paradigma antifascista,

sia difficile utilizzarlo nel suo vero significato7. Parla di “consenso”

8 per gli anni dal „29 al ‟34,

riferito soprattutto ai giovani, mentre la fase iniziale, quella dell‟ascesa e dalla conquista del potere,

appare caratterizzata dall‟appoggio della borghesia, “conquistata” dal movimento sia sul piano

economico e politico che sentimentale-spirituale9. Segue un periodo (1925-1929) di “accettazione della

situazione derivante dalla forza d‟abitudine delle persone, che porta ad accettare quello che non si può

distruggere”10

. Ma già dal 1935, dopo la parentesi felice, il fronte del “consenso” si incrina perché chi

aveva più o meno attivamente accettato il regime sa che non può oltrepassare certi limiti11

, che si

intravedevano già nel 1936, con il coinvolgimento dell‟Italia nella guerra civile spagnola e con la

conquista dell‟Etiopia; limiti considerati del tutto superati nel 1938 dopo l‟emanazione delle prime

leggi razziali12

. Nel 1939 e per gli anni successivi, Chabod descrive una situazione caratterizzata dalla

totale assenza di consenso: “Nel 1939 il consenso non esisteva ormai più; ora anche il prestigio del

capo e del regime crolla. Il fascismo cadrà a pezzi, come un congegno le cui molle si sono spezzate”13

.

Chabod, dunque, nel tentativo di rilevare se ci fosse stato o meno consenso al fascismo traccia

una parabola in discesa. Da un iniziale appoggio, limitato alla borghesia, si passa all‟accettazione

anche da parte della stessa, per arrivare ad un “consenso” giovanile (nei confronti di un regime che si

imponeva sugli italiani con la coercizione) che non può essere definito tale, nemmeno nel periodo di

maggior adesione agli ideali e alla politica mussoliniana. La parabola del consenso, infine, si inabissa

ben prima del tramonto dell‟esperienza fascista.

5 F. CHABOD, L’Italia contemporanea.1918-48, Torino, Einaudi, 1961.

6 Ivi, pp. 57-100.

7 G. CORNI, Fascismo. Condanne e revisioni, cit., p. 34.

8 F. CHABOD, L’Italia contemporanea, cit., p. 90.

9 Ivi, pp. 61-66.

10 Ivi, p. 82.

11 Ivi, p. 99.

12 Ivi, pp. 90-100.

13 Ivi, p. 100.

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2. RENZO DE FELICE. GLI ANNI DEL CONSENSO

Più articolata è la riflessione dello storico reatino che dedica al tema del consenso molto spazio

nella sua corposa biografia di Mussolini14

. Oltre ad occuparsi dei problemi di politica estera del regime

e della guerra d‟Etiopia, sulla base dei contenuti della documentazione del ministero degli Affari Esteri

relativa a questo periodo, delle ripercussioni della grande crisi sull‟economia italiana e sui programmi

di politica economico-sociale del paese, De Felice affronta anche l‟esame dell‟atteggiamento della

società italiana, nelle sue componenti, verso il regime e Mussolini. Negli anni compresi fra il 1929 e il

1936 il fascismo godette della sua maggiore popolarità. De Felice però coglie e mette in rilievo i

caratteri particolari e i limiti di questo consenso e le sue contraddizioni interne. Se in un primo

momento lo storico afferma che “sia giusto affermare che il quinquennio ‟29-‟34 fu per il regime

fascista e, in sostanza anche per Mussolini il momento del maggior consenso e della maggiore

stabilità”15

, qualche riga dopo sostiene che una simile affermazione non può prescindere da un

“tentativo di cogliere i caratteri e i limiti di questo consenso e le sue motivazioni” considerando, in

particolar modo che in questo periodo “il regime dovette fronteggiare le conseguenze della maggiore

depressione economica della sua storia che […] male si inseriscono in un quadro generale

caratterizzato dal consenso”.

Il consenso che caratterizzò gli anni fino al 1934, non raggiunse i picchi di entusiasmo del 1935-

36; in effetti fu però più esteso e totalitario, ovvero meno venato di riserve, motivi critici e

preoccupazioni per il futuro 16

.

Il successo popolare del fascismo derivava innanzitutto dall‟abilità demagogica del duce ma anche

dalla capacità del movimento di proporre alternative adeguate e risposte concrete ai problemi

dell‟Italia nel primo dopoguerra. Il terreno per il radicamento dei miti e degli ideali fascisti era fertile:

secondo De Felice, Mussolini seppe valorizzare le componenti della predisposizione degli italiani a

recepire il messaggio fascista. Si aggiunga che il regime mise in atto una vastissima gamma di

provvedimenti che miravano ad ottenere il consenso alla sua politica degli italiani, nel tentativo di

creare un società fascistizzata17

.

A sostegno della sua interpretazione, lo storico riporta le considerazioni di Herbert Matthews,

corrispondente dall‟Italia per il New York Times dal 1939 al 1942, il quale affermava che il fascismo

14

R. DE FELICE, Mussolini, III. Mussolini il duce, to.1, Gli anni del consenso, 1929-1936, , Torino, Einaudi, 1974 15

Ivi, p. 55. 16

Ivi, p. 54 17

De Felice presenta, in parallelo gli strumenti adottati dal regime per ottenere il consenso nel capitolo IV del volume, pp.

127-322.

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7

riuscì a conquistare un grande successo popolare anche se più a Mussolini come persona che al

regime18

.

Pur parlando di consenso per gli anni 29-36, De Felice ne riconosce anche dei limiti, scatenati

dalla crisi economica, che si esplicitarono nell‟atteggiamento tanto delle masse proletarie quanto della

borghesia.

Contadini e operai, occupati e non, diedero voce alle difficoltà economiche in cui si trovarono

dopo il 1929 con manifestazioni di protesta che De Felice sottolinea non essere connotate

politicamente in senso antifascista19

. Al contrario maturerebbero dalla volontà di rivendicare migliori

condizioni di vita: consapevoli del carattere mondiale della crisi, che coinvolse tutti i paesi, europei e

non, legati agli USA, i manifestanti sostenevano che essa era indipendente dal tipo di governo20

. La

depoliticizzazione delle agitazioni del proletariato, tuttavia, non significava totale adesione al fascismo

per due ordini di ragioni: innanzitutto perché alla nuova generazione, imbevuta di ideali fascisti,

entrata nel processo produttivo si affiancavano i lavoratori più anziani che, pur mantenendo un

comportamento disciplinato, avevano ideali e pensieri propri. In secondo luogo, De Felice ricorda che

l‟azione preventiva e repressiva dell‟OVRA stroncava sul nascere qualsiasi tentativo di organizzare

un‟opposizione antifascista, per lo più comunista, fra gli operai21

.

Anche la borghesia soffrì dei contraccolpi della crisi negli anni più critici (1931-33) però la seppe

affrontare con maggior facilità. Il motivo per cui, in questo periodo, iniziò guardare con minor

entusiasmo al regime fu l‟ostilità che nutriva nei confronti di alcuni provvedimenti del governo adottati

per risollevare le masse proletarie: iniziative che di fatto sottraevano risorse che potevano essere

investite nella classe media. Tuttavia è “profondamente errato pensare che i disagi in cui si trovarono

ceti medi e borghesia causarono ripercussioni politiche più accentuate in senso antifascista di quelle

che si ebbero fra la classe operaia”22

.

De Felice prosegue nell‟analisi del tema del consenso prendendo in considerazione anche altre due

importanti componenti della società italiana: i giovani23

e gli intellettuali24

. Pur essendo due categorie

distinte riconosce il legame che le unisce laddove la cultura, se diventata un‟istituzione del regime

(come auspicato da Mussolini stesso), mira ad inserirsi e ad agire nel tessuto connettivo della società

italiana, come fattore di organizzazione in primo luogo dei giovani e secondariamente degli

intellettuali25

.

18

Ivi, p. 55. 19

Ivi, p. 80 20

Ivi, p. 87-88. 21

Ivi, pp. 82-86. 22

Ivi, p. 89. 23

Ivi, pp. 102-105. 24

Ivi, pp. 105-116. 25

Ivi, p. 102.

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Riflettendo sull‟atteggiamento dei giovani nel periodo dell‟ascesa del movimento, il grado di

impegno politico della gioventù fu superiore al normale e la popolazione fortemente orientata in favore

o contro il nascente movimento fascista (chi si schierava dava un appoggio attivo, effettivo).

Una volta consolidato il potere le prime generazioni politicamente socializzate in senso fascista

presentarono un inferiore impegno politico, erano depoliticizzate oppure aderirono al fascismo per

opportunismo, motivati solo da ambizioni personali.

In questa fase il regime, favorendo un‟attiva partecipazione dei giovani alla vita politica, si

preoccupò di dare loro nuove motivazioni per ottenerne un leale e attivo sostegno, attraverso la

promessa di un‟evoluzione del sistema in senso liberale e sociale. Da subito però emersero le

contraddizioni interne al regime, fautore di una politica a sostegno dei giovani in contrasto con i suoi

propri interessi: così il giovane politicamente impegnato tendeva verso qualche forma di

deviazionismo per poi orientarsi verso un totale rifiuto e un‟attiva opposizione al sistema quando

matura la consapevolezza che il futuro promesso dal regime non esisteva26

.

Renzo De Felice sottolinea che negli anni „29-„34 la maggioranza dei giovani era depoliticizzata o

se politicizzata lo era in senso fascista (alcuni consapevolmente, soprattutto i giovani intellettuali che

confidando nel regime diedero quindi un consenso attivo, altri per opportunismo carrieristico). Chi se

ne disinteressava lo faceva senza mostrare interesse per altre soluzioni politiche. C‟erano degli

oppositori al regime ma non si può ancora parlare di opposizione giovanile, ovvero fatta di giovani

formatisi sotto il regime27

.

Molteplici sono le posizioni degli intellettuali nei confronti dello stato fascista che vanno

interpretate alla luce del contraddittorio atteggiamento di Mussolini nei confronti della cultura: da un

lato egli amava atteggiarsi da uomo di cultura, dall‟altro faceva un uso strumentale quindi illiberale

della cultura, perché intesa come mezzo per aumentare il prestigio del regime (dentro e fuori l‟Italia) e

per formare giovani fascisti28

. Considerando “gli anni del consenso”, dal „29 al „34 l‟opposizione degli

intellettuali al fascismo fu limitata e circoscritta mentre più diffuso era un atteggiamento di non

opposizione perché la pressione del regime sulla cultura fu mantenuta entro limiti accettabili. Gli

intellettuali serbavano la convinzione che, vista la situazione, fosse ancora possibile preservare la

cultura da un‟eccessiva politicizzazione fascista e trasmettere ai giovani il rispetto per alcuni suoi

valori fondamentali: questa speranza giustificava l‟atteggiamento di quei docenti universitari che

decisero di firmare il giuramento al fascismo pur opponendosi ad esso. Era opportuno appoggiare

quella parte di fascismo in cui certi valori culturali non erano stati sopraffatti dell‟impegno politico.

Così, pur essendoci intellettuali fascisti e filofascisti c‟era anche chi, pur essendo parte

26

Ivi, pp. 102-103. 27

Ivi, pp. 104-105. 28

Ivi, pp. 107-109.

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dell‟establishment sociale e politico assumeva un atteggiamento di adesione distaccata, che si

traduceva in una sorta di resistenza individuale e in un impegno di serietà culturale a non derogare sul

piano dell‟onestà e della serietà scientifiche. Si trattava di una scelta che non aveva un immediato

valore politico ma contribuiva a formare giovani in grado di comprendere il valore universale e

liberale della cultura e successivamente di giudizio politico29

. L‟unica significativa voce di

opposizione era quella di B. Croce e degli intellettuali raccolti attorno alla “Critica” che dava

espressione ad una precisa azione di opposizione immediatamente culturale e mediatamente politica30

.

De Felice per concludere il quadro dell‟atteggiamento al regime dei vari settori della società parla

dell‟opposizione antifascista più propriamente politica31

.

Pur con i limiti considerati, de Felice parla apertamente di consenso per gli anni „29-„34 perché

l‟autorità statale non era sostanzialmente messa in discussione dalla grande maggioranza degli italiani;

il modello morale del fascismo era largamente accettato […], la politica del regime nel suo complesso

non appariva né pericolosa, né irrazionale”32

.

Il picco di consenso, secondo lo storico, fu raggiunto negli anni „34-„36, quando il regime seppe

far leva sull‟orgoglio e sull‟entusiasmo nazionale per conquistare le masse al progetto di espansione

coloniale. Ma già in questo periodo De Felice riconosce un‟ adesione popolare rumorosa, meno

plebiscitaria, venata di preoccupazioni per il futuro che anticiperà, nell‟ambito del consenso, un diffuso

scetticismo, “stati d‟animo più sfumati e meno disposti ad un‟accettazione carismatica della politica

del regime nel suo complesso”33

.

3. ERNESTO RAGIONIERI E “L‟ORGANIZZAZIONE DEL CONSENSO”

Nella sua monografia dedicata alla storia politica e sociale scritta per Storia d’Italia, dall’Unità ad

oggi, Ernesto Ragionieri si imbatte nella questione del consenso al fascismo nella sezione dedicata alla

storia dell‟Italia dall‟avvento del fascismo fino alla sua caduta34

. Analizzando le varie fasi

dell‟esperienza fascista, la sua valutazione del periodo dell‟ascesa del movimento dipende

dall‟interpretazione di Togliatti, il quale nelle Lezioni sul fascismo tenute a Mosca nel 1936 definì il

fascismo quale “regime reazionario di massa”, un regime che mirava alla mobilitazione delle masse

29

Ivi, pp. 111-115 30

Ivi, p. 116. 31

Ivi, pp. 116-126. 32

Ivi, pp. 54-55. 33

Ivi, p. 54. 34

Storia d’Italia, coord. R. ROMANO e C. VIVANTI, IV/3. Dall’Unità ad oggi, Torino, Einaudi, 1976.

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attraverso la coercizione e la ricerca del consenso35

. Nella fase “autoritaria” del regime, Ragionieri

riconosce un processo di inquadramento politico delle grandi masse “proprio in nome e sotto il segno

della negazione dell‟autonoma e cosciente partecipazione popolare”36

però il Concordato con la Chiesa

nel 1929 determinò un allargamento dell‟area di consenso verso il regime.37

“Più che parlare di

consenso attivo, Ragionieri si sofferma sul più raffinato e moderno controllo”38

. Sarà in occasione

dell‟aggressione all‟Etiopia che il regime “raggiunse il punto più alto del consenso all‟interno della

società nazionale”39

con “una larga adesione delle masse popolari e anche di quegli strati che erano

rimasti estranei al coinvolgimento nel quadro del regime reazionario di massa”40

in virtù di un‟accurata

organizzazione del consenso cui il regime attribuì grande importanza. Si può rilevare come “il più

autorevole storico comunista abbia apertamente riconosciuto un largo consenso popolare verso il

regime”41

.

4. MARIA ANTONIETTA MACCIOCCHI E IL “CONSENSO” FEMMINILE

Giornalista, scrittrice e nota esponente politica della sinistra italiana, la Macciocchi riflette sul

consenso al fascismo in La donna “nera”. “Consenso” femminile e fascismo42

pubblicato nel 1976 da

Feltrinelli, una delle più importanti case editrici italiane di sinistra. Patrocinatrice della causa

femminista presso il Parlamento europeo, l‟autrice affronta la questione prendendo in considerazione

una parte specifica della popolazione italiana, quella femminile appunto. Prima di prendere in esame il

tema del consenso femminile al fascismo, l‟autrice del libro, nel primo capitolo, sferra una pungente

critica verso l‟atteggiamento, tanto a sinistra, quanto nella borghesia illuminata, quanto fra le

femministe, di silenzio su quella che definisce “la traversata del fascismo […] da e per l‟universo

femminile”. Rileva, infatti, come il “concetto dell‟influsso fascista sulle donne o dell‟”investimento di

desiderio” compiuto dalle donne nel fascismo” sia rimasto inesplorato, quasi fosse un tabù. Nel

tentativo di comprendere le ragioni di tale silenzio la Macciocchi ha fatto appello a storici, politici,

sociologi, psicanalisti, femministi dai quali ha ottenuto solo “afasia, imbarazzo, sbigottimento,

curiosità di colpo risvegliata, ma poi di nuovo sopita come riflesso della pratica sociale”43

. È però

35

Ivi, p. 2174. 36

Ivi, p. 2197. 37

Ivi, p. 2200. 38

G. CORNI, Fascismo. Condanne e revisioni, cit., p. 37. 39

Storia d’Italia, cit., p. 2249. 40

Ibid. 41

. G. CORNI, Fascismo. Condanne e revisioni, cit., p. 37 42

M. A. MACCIOCCHI, La donna “nera”. “Consenso” femminile e fascismo, Milano, Feltrinelli, 1976. 43

Ivi, p. 6.

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11

necessario indagare l‟universo femminile nel periodo fascista, perché, come emerge dagli scritti degli

stessi ideologi fascisti la donna rappresentò, nella politica nazifascista, il filo d‟Arianna44

.

Nel tentativo di cogliere il rapporto fra donne e regime fascista, la Macciocchi si interroga se vi fu

consenso ed, eventualmente, quali furono le motivazioni ideologiche con cui il fascismo, o meglio

Mussolini riuscì a “conquistare” le donne45

. L‟interpretazione dell‟autrice si desume già dal titolo,

eloquente perché mette fra virgolette il termine “consenso” e l‟aggettivo “nera” riferito a donna. Si

comprende come, per la Macciocchi, una donna nera, fascistizzata non fosse mai stata completamente

forgiata: di conseguenza non è possibile parlare di consenso nel vero senso del termine. Così indaga

anche su quando, come, perché e in quale misura le donne italiane hanno resistito al fascismo.

Il suo orientamento femminista la porta a interpretare in chiave antifemminista la politica

mussoliniana a tal punto da affermare che il fascismo sarebbe nato come reazione antifemminista ai

movimenti di emancipazione e di liberazione della donna, affermatisi dalla fine del XIX secolo e fatti

propri da marxismo, socialismo e bolscevismo. Mussolini, infatti, avrebbe considerato le donne uno

dei motivi attorno cui organizzare il consenso per una duplice ragione: innanzitutto per la

consapevolezza dell‟importanza del ruolo della donna quale soggetto produttore assunto nella società

italiana durante la prima guerra mondiale e poi perché il dolore subito durante e dopo il conflitto

rendeva il gentil sesso facile esca di manipolazioni. Non a caso la propaganda fascista identificava le

donne con l‟immagine di mamma, moglie, vedova dando così espressione al dolore sofferto durante e

dopo la guerra per la partenza, e in alcuni casi la morte, di figli e mariti. Le eroine divennero, nel

dopoguerra, il triste esercito delle donne in lutto, madri e mogli di caduti, mutilati46

. Di contro

Mussolini le invitava a tenere desta la memoria guerriera per le generazioni future e sollecitava una

aggressività e odio contro i comunisti profanatori delle tombe dei caduti; ma soprattutto, facendo della

donna un‟immensa vacca sacra, chiedeva loro il sacrificio di fare figli e donarli alla patria, stimolando

quella che Freud definiva la pulsione di morte. Nell‟interpretazione che fa la Macciocchi ne derivava

una sorta di abnegazione della donna disposta a rinunciare a se stessa in cambio dell‟amore astratto,

verboso, demagogico del Capo il quale addirittura speculava sulla sua situazione di repressione

sessuale, frutto di un clima di bigottismo cattolico in cui era cresciuta47

. Il fascismo secondo la

Macciocchi ottenne un‟accettazione “masochista” da parte delle donne48

le quali accettarono del

fascismo anche quella politica intesa ad allontanare le donne dal lavoro, a rinchiuderle nelle pareti

domestiche e a togliere loro ogni indipendenza economica49

.

44

Ivi, p. 5. 45

Ivi, pp. 29-105. 46

Ivi, p. 33. 47

Ivi, pp. 94-96. 48

Ivi, pp.31-34. 49

Ivi, pp. 62-63.

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12

Nel suo ragionamento emerge anche l‟accusa al socialismo di idealismo, spiritualismo, misticismo

ingenuo, insomma di essere stato incapace di dare risposte adeguate al cambiamento dei tempi.

All‟interno dello stesso partito socialista già negli anni Venti si era levata la voce di chi riconosceva la

necessità di mettere in atto un‟adeguata politica verso le donne: la socialista Viola Agostini, nel

Congresso nazionale socialista del 1922 dichiarava che la donna proletaria sentiva i nuovi tempi e che

occorreva assecondarla per evitare che si orientasse verso altri partiti, maggiormente capaci di

interpretare il nuovo spirito che era in lei50

.

Nella fase di ascesa del movimento fascista, tuttavia, si registrarono molti casi di resistenza alla

violenza fascista da parte femminista. In un secondo momento però i movimenti femministi legati ai

cattolici e liberali si avvicinarono al fascismo quando esso si diede un programma di valorizzazione

della donna che metteva in prima linea la folla viva e pietosa delle madri e delle vedove dei caduti,

dimenticati troppo in fretta51

. Con le motivazioni sopraccitate Mussolini riuscì a “incantare”,

“possedere”, “conquistare”, “trarre in inganno” milioni di donne tanto che La Macciocchi stessa

riconosce che gli anni dal 1935-37 furono gli anni del fanatismo e del loro maggiore investimento di

desiderio nel regime. È in questa occasione che parla di consenso utilizzando però il termine sempre in

corsivo a sottolineare come il consenso “conquistato” da Mussolini fosse il frutto di una manipolazione

delle donne52

.

Lo studio preso in considerazione è stato duramente criticato nella voce “Fascismo/Nazismo e

donne”53

di A. Buttafuoco, S. Sgarioto del Dizionario storiografico di Paravia Bruno Mondadori

Editori curato da Alberto de Bernardi e Scipione Guarracino: il tentativo d‟analisi della Macciocchi è

stato considerato del tutto fuorviante, nell‟uso improprio di categorie psicoanalitiche poco rigorose e

soprattutto ben poco utili per comprendere il fenomeno nella sua complessità e varietà d‟espressione.

5. L‟OPINIONE “PUBBLICA” ITALIANA DAL 1929 AL 1943 IN SIMONA COLARIZI

Docente di storia contemporanea presso l‟Università degli studi di Roma “La Sapienza”, Simona

Colarizi delinea un quadro rivelatore degli umori e delle opinioni degli italiani54

dal 1929, quando il

regime totalitario è ormai consolidato, al 25 luglio 1943, il momento del crollo. Si tratta di uno studio

pionieristico perché condotto sulla base di una fonte documentaria, le relazioni degli informatori

50

Ivi, pp. 34-35. 51

Ivi, pp. 37-39. 52

Ivi, pp. 79-82. 53

www.pbmstoria.it 54

S. COLARIZI, L’opinione degli Italiani sotto il regime. 1929-43, Roma-Bari, Laterza, 1991.

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segreti di polizia, che pur conosciuta da molto tempo dagli storici è con lei, per la prima volta, oggetto

di un‟indagine sistematica55

.

Anche in questo caso il titolo, L’opinione degli italiani sotto il regime. 1929-1943, è rivelatore

delle conclusioni cui giunge la studiosa: per il periodo considerato non si può parlare di opinione

pubblica perché il regime fascista, divenuto dittatura di massa dal 1929, inibì alla base la formazione di

un‟opinione pubblica politicamente qualificata, eliminando tutte le condizioni necessarie per

svilupparla (chiudendo tutti gli spazi politici alla sua espressione, impedendo ogni attrito con il potere,

limitando sensibilmente la libertà di stampa...). Esistevano opinioni formali, definite “pubbliche” nella

misura in cui erano autorizzate dal regime. “Esso tentò di penetrare in questo magma influenzando

processi mentali e stati d‟animo fino a farli corrispondere alle opinioni formali, cioè quelle imposte dal

regime, ma nella coscienza popolare sono rimasti vivi pensieri e luoghi comuni frutti di antichi

processi di acculturazione”56

.

L‟evoluzione degli umori e delle opinioni degli italiani colta dalla Colarizi permette di fare delle

periodizzazioni: dal 1922 al 1926, gli anni della conquista del potere caratterizzati dal ricorso

sistematico alla coercizione da parte fascista, riconosce la sopravvivenza di uno stato liberale operante,

seppur ridotto a simulacro, in cui esisteva un‟opinione pubblica non fascista e addirittura antifascista.

In questo stesso lasso di tempo si registra un dilatarsi delle “adesioni opportunistiche” al fascismo,

motivate dall‟ambizione personale del singolo57

. A partire dal 1929-3058

si consolidava un

atteggiamento di paura delle masse, che maturò negli anni precedenti quando il regime adottò i

provvedimenti che segnerarono il passaggio alla fase dittatoriale. La violenza fascista e la

consapevolezza dei potenti mezzi repressivi della dittatura fecero moltiplicare i casi di “autocensura

preventiva”. In ambito partitico, liberali e cattolici si sono fatti assorbire dal regime: fra le loro fila ci

fu chi si dissociò optando per un‟opposizione attiva al regime ma se i primi, furono limitati nella loro

resistenza (clandestina) al fascismo per l‟assenza di una solida opposizione partitica, i secondi, attivi

nelle organizzazioni ecclesiastiche (le uniche rimaste in vita) furono condizionati dall‟atteggiamento

della Chiesa che dal 1929 garantì il proprio appoggio al fascismo. L‟antifascismo attivo, in breve

scomparve: liberali e cattolici vengono bollati dalla Colarizi con il marchio del disimpegno. Solo i

partiti della sinistra marxista (PCI, PSI, GL) promossero una resistenza attiva ma necessariamente

clandestina. Con il tempo però la resistenza si assottigliò perché, nel tentativo di salvaguardare la

continuità con il passato, il governo introdusse le innovazioni lentamente e con prudenza, per

permettere alla dittatura di diventare famigliare. Non a caso la studiosa registra un “gradimento pieno

55

Ivi, pp. 14-29. 56

Ivi, p. 5. 57

Ivi, pp. 5-6. 58

Ivi, pp. 31-82.

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verso il fascismo in quanto buon governo”59

da parte di piccola e media borghesia che si tradusse in

appoggio convinto al regime, al quale riconosceva il merito di aver riportato l‟ordine. Per questi ceti,

inoltre, questa era occasione di ascesa politica e sociale. Fra gli operai60

invece serpeggiava

malcontento, pessimismo, incertezza per le difficoltà economiche. Alla mormorazione però seguirono

rassegnazione e disimpegno perché per il suo carattere mondiale, la crisi venne vissuta come catastrofe

naturale che si abbatteva su tutti i paese indipendentemente dai governi che li reggevano. Nei

contadini61

, tanto al Nord quanto al Sud, pure emerge il silenzio: non c‟era entusiasmo, né

partecipazione, né coinvolgimento perché la popolazione aveva ancora pochi contatti con il PNF.

Durante gli anni più difficili (anche per i ceti medi) della crisi economica (1931-1933)62

, pure la

borghesia passò dall‟aperto appoggio a un distacco sempre più critico. In questo frangente la carta

vincente del regime fu quella giocata nel campo dell‟assistenza e dell‟edilizia pubblica63

che,

incrinando il muro della diffidenza e dell‟ostilità, gli permise di riguadagnare l‟appoggio dei ceti medi

e conquistare le masse lavoratrici. Se i risultati economici della politica economica del regime di questi

anni sono scarsi, hanno fatto vincere al fascismo la guerra per la conquista dell‟opinione pubblica64

in

un momento particolarmente delicato in cui iniziava a vacillare il rapporto con la Chiesa65

. La Colarizi

individua in questo periodo l‟affermarsi di un netto distinguo, generalizzato a tutta Italia, fra regime e

duce. La simpatia, la devozione come afferma la storica, era per Mussolini, lontano, astratto,

circondato dall‟alone di mistero, che raggiungeva la folla per radio e compariva in occasione dei

discordi pubblici66

. Al contrario gerarchi e fascisti del PNF in contatto quotidianamente con il popolo

erano uomini normali, soltanto più ricchi e potenti, espressione di una classe dirigente che aveva

conquistato il potere con la forza e lo manteneva in virtù di un efficace apparato repressivo, per questo

più odiati67

. Questo atteggiamento di amore-odio per le due componenti del fascismo (duce e partito)

viene rilevato soprattutto fra i giovani conquistati dalla retorica mussoliniana e dalla promessa di

coinvolgerli nella vita politica. Le loro aspirazioni però si scontrarono con la staticità della dittatura

che portò alcuni giovani a rinunciare, altri a integrarsi, altri ancora verso l‟antifascismo68

. Fra il 1932-

33 si registra un aumento delle adesioni al fascismo per opportunismo, con conseguente scadenza della

qualità delle stesse.

59

Ivi, p. 34. 60

Ivi, pp. 55-59. 61

Ivi, pp. 70-75. 62

Ivi, pp. 83-86. 63

Ivi, pp. 88-98. 64

Ivi, pp. 104-110. 65

Ivi, pp. 116-132. 66

Ivi, pp. 151-155. 67

Ivi, pp. 162-167. 68

Ivi, p. 171

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15

Anche fra gli intellettuali c‟era distacco. Dalle relazioni segrete emergono casi di antifascismo vero e

proprio fra insegnanti e intellettuali, i quali però decisero di continuare ad operare nel regime

promuovendo una resistenza personale, basata sulla serietà scientifica e culturale. Riuscirono di fatto

ad esercitare una grande influenza sui giovani69

.

Nel 1934, il secondo plebiscito rappresentò il culmine del trionfo del regime in termini

elettorali ma contemporaneamente segnò l‟inizio della parabola discendente del regime70

. Ma il

periodo di vero e proprio consenso coincide per la Macciocchi con gli anni 1935-36 perché il regime in

politica interna si impegnò nella salvaguardia dell‟ordine, in politica estera mirava a fare dell‟Italia una

potenza rispettata e a garantire la pace e l‟amicizia fra le nazioni71

. I picchi di consenso vennero

raggiunti in occasione della propaganda per legittimare la conquista dell‟Etiopia, seppur l‟idea di una

conquista coloniale avesse creato un‟iniziale apprensione perché incrinava i rapporti con le potenze

democratiche europee. Ma facendo leva sull‟orgoglio patriottico il regime riuscì a convincere

gradualmente tutta la società, anche le masse proletarie, attirate dalla promessa di terra e lavoro72

. Gli

intellettuali, invece, e tutti quelli in aperto dissenso con la politica fascista risposero affermativamente

alla campagna “Oro alla Patria” (dicembre 1935) all‟interno della quale rientrava la “Giornata della

Fede” per manifestare la propria solidarietà agli italiani in questo momento di difficoltà73

.

I risvolti della guerra sulla vita interna del Paese, tuttavia, non tardarono ad arrivare con gravi

conseguenze sul rapporto regime-popolo: nei forti disagi economici derivanti da un carovita che

sembra inarrestabile74

affondarono le radici di un sempre più diffuso dissenso classista75

che si

sviluppò con l‟intervento dell‟Italia nella guerra civile spagnola76

e si radicò a partire dal 193777

,

successivamente con l‟emanazione delle leggi razziali78

, la stipula dell‟asse Roma-Berlino79

, poi del

Patto d‟Acciaio e infine con lo scoppio della guerra80

. La fine del conflitto e la caduta di Mussolini

venne salutata con un‟ “esplosione di gioia popolare il 25 luglio 1943”81

. È solamente a partire da

questo momento che per la Colarizi si può parlare di un‟opinione pubblica nel vero senso del

termine,violentemente ostile al regime82

.

69

Ivi, pp. 172-175. 70

Ivi, p. 175. La Colarizi si rifà esplicitamente a R. DE FELICE, Mussolini il duce, cit, p. 304. 71

S. COLARIZI, L’opinione degli Italiani sotto il regime, cit., pp. 183-188. 72

Ivi, pp. 188-193. 73

Ivi, pp. 193-196. 74

Ivi, pp. 215-222. 75

Ivi, 222-226 76

Ivi, pp. 226-234. 77

Ivi, pp. 239-240. 78

Ivi, pp. 242-250. 79

Ivi, pp. 256-261. 80

Ivi, pp. 295-302. 81

Ivi, p. 13. 82

Ivi, p. 14.

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6. VITTORIO FOA

Vittorio Foa, protagonista e testimone delle vicende italiane di Questo Novecento, ha raccolto nel

libro pubblicato nel 1996 da Einaudi le lezioni, una decina, tenute nelle terze classi del liceo classico di

Formia nel 1993 su proposta del preside Nilo Cardillo83

. Dopo aver affrontato l‟analisi dei primi anni

del Novecento, con particolare attenzione alla situazione italiana antecedente e successiva al primo

conflitto mondiale84

, nel quinto capitolo Foa presenta la vicenda fascista, dall‟ascesa al tramonto85

. Si

imbatte anche nel tema del consenso popolare sottolineando come negli ultimi anni la questione fosse

balzata nuovamente all‟attenzione degli storici, e non solo. Ciò che stupisce Foa è che consenso o no

se ne parla come “fosse una storia omogenea nel tempo”86

. Avendo vissuto in prima persona il

ventennio fascista, dal 1922 al 1943, “così breve nella storia ma così lungo da vivere”87

, Foa afferma

di aver sperimentato climi di opinione estremamente diversi fra loro. Ad esempio il fatto che gli

italiani avessero esultato quando Mussolini fu destituito non ha nulla a che vedere col consenso

(oppure no) del ventennio fascista. Non si può giudicare un evento ignorandone il contesto e non si

può confondere un evento della storia con tutta la storia. Sulla scia di De Felice, a cui riconosce il

merito di aver condotto una ricerca importante per il valore della documentazione utilizzata, anche Foa

individua vari livelli di consenso popolare.

Gli antifascisti attivi e caduti sotto la sorveglianza del potere erano pochi, perché, dice, “se si

divide il numero degli antifascisti riconosciuti per il numero degli anni del fascismo e per la

popolazione il risultato in percentuale è irrisorio. Ma anche questo non dice nulla sul consenso che

non si misura sull‟attività riconoscibile”88

. Foa capisce “la riluttanza di chi teme che l‟accettazione di

un consenso al fascismo porti a un revisionismo storiografico che neghi o distorca la realtà dei fatti.

Forse bisogna ripensare l‟idea stessa di consenso in un regime autoritario di massa: un regime cioè

dove il potere non si limita a gestire la sua forza ma mobilita le masse in sostegno della propria

politica, le fa sentire partecipi, persino. In questi casi il consenso non si misura con un criterio di tipo

elettorale. Servono altri criteri”89

.

Foa riconosce un momento di aperto consenso durante la preparazione della guerra etiopica: il

consenso popolare si poteva “tagliare con il coltello. Non era consenso costretto, purtroppo: la

prospettiva di un‟espansione in Africa […] era popolare in molte parti d‟Italia”90

. Di fronte

83

V. Foa, Questo Novecento, Torino, Einaudi, 1996, p. 7. 84

Ivi, pp. 3-116. 85

Ivi, pp. 117-157. 86

Ivi, p. 123. 87

Ibid. 88

Ibid. 89

Ivi, p. 124. 90

Ibid.

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all‟affermazione che nel ventennio fascista c‟era stato consenso gli si obietta che non c‟è consenso se

c‟è costrizione e che allora gli strumenti di costrizione non mancavano certo. Ma anche durante la

resistenza non mancavano, anzi erano ancora più pesanti eppure si sfidava la repressione in nome della

libertà. Per comprendere il consenso che il regime riuscì a conquistare, però, occorre riflette sul tipo di

regime di allora: “in un regime reazionario di massa il consenso non era cercato a livello individuale

né sociale, era un discorso unificato a livello di popolo. La causa era presentata come interesse e ideale

di tutti e come tale era giocata in un rapporto diretto del Capo col popolo. Era un meccanismo

complessivo in qualche modo “solidale”. Cioè era il bisogno di essere come gli altri, con gli altri, di

non turbare la sicurezza di tutti con gesti individuali: la conformità è il connotato di ogni comunità. Per

fortuna però non tutti sono sempre conformi altrimenti non ci sarebbe più cambiamento”91

. Alla luce di

questo ragionamento Foa interpreta e capisce l‟adesione di Benedetto Croce, “il più alto esponente

dell‟antifascismo intellettuale”, alla campagna di raccolta dell‟oro in occasione della guerra in Etiopia,

considerata uno degli esempi più emblematici di conformità: “con quella scelta Croce non aderiva ad

una scelta del potere, semplicemente in un momento difficile non voleva separarsi dal sentimento

popolare. Non era obbedienza al potere, era solidarietà coi cittadini anche se erano in errore”92

.

7. PIETRO SCOPPOLA

Pietro Scoppola, storico, docente e politico italiano, uno dei principali esponenti italiani del

cattolicesimo democratico degli anni Ottanta-Novanta, affronta la questione del consenso al regime

fascista in un testo, intitolato La fabbrica del consenso al fascismo93

, pubblicato il nove ottobre 2007

in una pagina del sito dell‟ANPI di Lissone nella sezione “Emilio Diligenti” .

Nel testo Scoppola sottolinea come la campagna propagandistica per l‟oro alla patria e la raccolta

del ferro per farne cannoni avessero segnato uno dei momenti di massimo coinvolgimento popolare, in

cui il regime godette di un consenso di massa. Immediatamente però ridimensiona la portata di una

simile affermazione sottolineando che “è difficile parlare di consenso se per esso si intende una

adesione libera, consapevole e critica di una maggioranza della popolazione agli ideali imposti dal

regime”. È un consenso, dunque, da intendere in senso lato perché frutto dell‟inquadramento del

regime e non generalizzabile a tutte le componenti della società. È un consenso variegato e articolato

che porta a riconoscere l‟esistenza di un consenso entusiastico e spesso cieco nella cerchia dei dirigenti

del partito e delle organizzazioni fasciste e poi via via, in cerchi concentrici più ampi, un consenso

91

Ivi, p. 125. 92

Ivi, pp. 125-126. 93

http://anpi-lissone.over-blog.com/article-12426494.html

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indotto dalla propaganda, imposto dal ricatto del posto di lavoro o dalla minaccia sempre presente

della repressione”. Al contempo vi fu sempre un dissenso che in minoranze ristrette fu consapevole e

perfino impegnato e combattivo. E in strati più ampi della popolazione, specie nel mondo contadino, si

manifestò nel distacco, nello scetticismo ma a volte anche in proteste che scatenarono la dura reazione

del regime.

Se è vero che le manifestazioni nazionali erano occasione della più intensa mobilitazione delle

masse, è altrettanto vero che essa fu il frutto di una capillare opera di inquadramento da parte dello

stato. Afferma, infatti che “è difficile misurare il grado di coinvolgimento e di adesione che il regime

ottenne in tali manifestazioni. Basti pensare che il PNF divenuto lo strumento principale di questo

inquadramento e della mobilitazione delle masse aveva reso obbligatorie le iscrizioni al partito per

chiunque aspirasse a ricoprire incarichi pubblici”94

.

Nel corso degli anni Scoppola riconosce che molte adesioni al fascismo, soprattutto da parte dei

giovani, erano motivate dalla speranza di poter condizionarlo e cambiarlo dall‟interno. Ciò non fu

possibile per questo i giovani politicamente attivi passarono poi all‟antifascismo.

Nel frattempo la macchina del consenso si perfeziona sempre di più ed estende il suo raggio d‟azione

ma a questo corrisponde l‟incrinatura del consenso e poi la sua progressiva caduta. La prima e più forte

incrinatura è rappresentata dall‟introduzione in Italia delle legge razziali che provocò sconcerto e

disapprovazione perché l‟Italia è sempre stata priva di una tradizione di razzismo. La partecipazione

alla guerra a fianco della Germania, se suscitò all‟inizio una superficiale ondata di entusiasmo, aprì il

periodo delle restrizioni, dei sacrifici, delle sconfitte delle armi italiane destinato a concludersi con il

crollo del consenso e l‟ondata spontanea di esultanza popolare al momento della caduta del fascismo il

25 luglio 194395

.

8. LUCIANO CANFORA E LA SUA PROLUSIONE CONTRO IL REVISIONISMO STORICO.

Anche Luciano Canfora, storico, ordinario di Filologia greca e latina all‟Università di Bari,

intellettuale marxista, in tempi abbastanza recenti, ha espresso le sue considerazioni sul tema del

consenso al fascismo nell‟intervento intitolato La prolusione sul revisionismo storico, tenuto durante

la prima giornata del III Congresso del Partito dei Comunisti italiani avuto luogo a Rimini dal 20 al 22

febbraio 200496

. Come si può dedurre dal titolo questo intervento si pone come risposta a quel

94

Ibid. 95

Ibid. 96

http://www.comunisti-italiani-trentinoaltoadige.it/pdcitaahome_file/documenti_file/documenti75.htm

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revisionismo storiografico che, sviluppatosi a seguito della sconfitta dell‟Unione sovietica nel 1991,

riscrive la storia nell‟ottica degli ultimi vincitori.

La nuova tendenza storiografica che rispecchia il cambiamento politico europeo e italiano degli

anni Novanta vuole dimostrare che l‟URSS fu il regno del male, della sopraffazione, della smisurata e

interrotta ecatombe. Ne consegue il recupero di un giudizio positivo sul fascismo considerato il

rimedio (per alcuni doloroso) ad un male di gran lunga peggiore: il fascismo dunque come il male

minore o una dolorosa necessità97

.

Questo revisionismo nei confronti dell‟esperienza fascista parte dalla “cosiddetta scoperta del

consenso. Apparente scoperta […] per un duplice motivo”98

: innanzitutto perché già Togliatti, nelle

sue Lezioni sul fascismo, aveva intuito come il regime si fosse radicato in un consenso di massa. In

secondo luogo quel consenso, cui i revisionisti si appellano, è apparente perché “è stato per lo più

documentato con il dubbio strumento delle ingannevoli perché corrive carte di polizia”99

.

Il recupero storiografico di una parte più o meno grande dell‟esperienza fascista e la contestuale

demonizzazione martellante dell‟esperienza comunista, per Canfora, non sono un‟operazione erudita

bensì un‟operazione politica con voluti effetti politici. Riabilitare il fascismo per trasformarlo in

regime normale, magari un po‟ paternalistico ma non repressivo, va di pari passo con l‟affermarsi di

una situazione che, mutatis mutandis, si ripete: “l‟Italia sta scivolando verso un regime reazionario

fondato sul consenso. […] le forme di creazione del consenso sono molto più capillari e sofisticate e

irresistibilmente pervasive che non in passato: concomitanti con la radicale trasformazione del

reclutamento stesso del personale politico-parlamentare – ormai prevalentemente abbiente e centrista –

dovuto […] al meccanismo elettorale maggioritario ”. “Dal 1922 al 1926 ” prosegue “ il fascismo creò

le premesse per restare al timone. Per prima cosa abrogò il sistema elettorale proporzionale poi creò un

blocco, un listone unico nel quale imbarcò pezzi di tutte le formazioni politiche liberali e cattoliche

[…]. Quindi ricorse alla provocazione: […] il rapimento di Matteotti, […] l‟arresto di Gramsci e degli

altri dirigenti, […] la creazione del tribunale speciale, […] l‟attentato di Bologna e la sospensione

degli altri partiti. Questo crescendo è uno scenario che sembra arcaico ma è un modello ancora

utilizzabile. Ben venga l‟invito a studiare come davvero il fascismo giunse al potere e si affermò. Non

ne caveremo, come si vorrebbe, la tranquillizzante immagine di un regime tutto sommato “normale”

[…] ma l‟allarmante scenario, ancora ripetibile, mutati lo stile e gli strumenti, di come si demolisce

una democrazia”100

.

97

Ibid. 98

Ibid. 99

Ibid. 100

Ibid.

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20

La questione del consenso viene ripresa l‟anno successivo in occasione della pubblicazione, il 12

giugno 2005, sul Corriere del Mezzogiorno dell‟intervista fatta da Marco Brando a M. Arthur Ledeen,

lo studente statunitense che nel 1975 intervistò De Felice. La settimana successiva, il 19 giugno

apparivano sul Corriere del Mezzogiorno le considerazioni di Canfora, raccolte dallo stesso Brando,

sull‟intervista a Ledeen e sull‟opera di De Felice, Intervista sul fascismo.

Alla domanda di Brando, se sul fronte dell‟interpretazione del fenomeno fascista, alla fine De

Felice avesse vinto; cioè se fu lo storico Renzo De Felice (1929-1996) a sottolineare per primo dagli

anni Sessanta in poi che il fascismo ebbe un consenso popolare ben radicato Canfora risponde: «Io

semmai mi chiedo quali saranno mai stati i concetti veramente suoi e veramente nuovi»101

, e aggiunge

che sarebbe utile ricordare che il primo a parlare del fascismo come, “regime reazionario di massa” fu

Palmiro Togliatti già nei primi mesi del 1935.

9. IL “CONSENSO” IMPERFETTO DI CORDOVA

In questo volume Cordova, ordinario di storia contemporanea presso l‟università “La Sapienza” di

Roma, affronta la controversa questione del consenso degli italiani al fascismo102

, riconsiderando, sulla

base di una cospicua documentazione inedita, il noto giudizio espresso da Renzo De Felice, secondo il

quale negli anni ‟30 il sentimento delle masse era sostanzialmente concorde al regime. Ripercorrendo

alcuni degli eventi più significativi per comprendere gli umori del popolo italiano nel ventennio

fascista, sottolinea come a fianco del tanto conclamato “consenso”, ci fu sempre un dissenso, più o

meno manifesto.

Cordova, nel secondo dei quattro saggi103

di cui si compone l‟opera, riflette su quella che

considera la questione centrale, per quanto riguarda il consenso: il plebiscito del 1929. Dopo i primi

provvedimenti che trasformavano l‟Italia in uno stato totalitario, gli italiani vennero chiamati alle urne

per rinnovare la loro rappresentanza politica. Con il plebiscito si voleva mostrare che gli italiani si

riconoscevano nel regime, cosa che sembrava decisamente confermata dai risultati proclamati. Su quei

risultati una parte della storiografia ha ripreso la tesi di Arnaldo Mussolini, secondo il quale le elezioni

si erano svolte in assenza di forme coercitive che non fossero quelle propagandistiche104

. Una tesi che

“appare oggi più che mai priva di fondamento perché sottovaluta il potere di intimidazione e di

101

M. BRANDO, Ma Canfora contesta Ledeen ma soprattutto De Felice, in “Patria indipendente”, 2005, 8, pp. 14-15. 102

F. CORDOVA, Il “consenso” imperfetto, cit. 103

Ivi, pp. 61- 145. 104

Ivi, pp. 65-67.

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coercizione della dittatura”105

. Nell‟impossibilità di esaminare i documenti plebiscitari, che, come

prevedeva le legge, furono bruciati, Cordova sottopone a verifica quelle affermazioni indagando

quanto avveniva, nello stesso tempo, sui luoghi di lavoro e all‟interno dei sindacati prendendo

in esame i documenti relativi ai rapporti tra governo, sindacati e imprenditori106

. Ne emerge il divario

tra un risultato plebiscitario, che vedeva nella metà delle provincie raggiungere quasi il 100% del

consenso, e la diffidenza dei lavoratori che restavano distanti persino dai sindacati del regime che

dovevano tutelarli. Non possono che emergere seri dubbi sull‟attendibilità del risultato plebiscitario. A

controprova di quanto detto, Cordova ricorda la vicenda dell‟intervento di Mussolini nelle officine di

Sesto San Giovanni dove una folla di impiegati e operai ascoltò il discorso del duce senza applaudire.

Alla richiesta di spiegazioni di tanta ostilità, il segretario del Sindacato milanese rispose a Mussolini

che gli operai si sentivano sfruttati e non si riconoscevano nel fascismo107

.

Con queste argomentazioni Cordova motiva la sua tesi di un consenso “imperfetto”, sostenendo

che “in realtà, è ragionevole sostenere che un sistema politico moderno, pur se tirannico, si regge su

una certa dose di “consenso” di alcuni ceti, ma è, a nostro avviso, altrettanto ragionevole ritenere che

ad esso si intreccia, in maniera inestricabile, un dissenso, il quale, in una struttura repressiva, ha

difficoltà ad esprimersi nelle forme della protesta di massa e assume, spesso, il tono dell‟ironia o della

mormorazione o della fronda e solo in determinate circostanze diventa lotta clandestina, destinata nella

maggior parte dei casi, a prendere la via dell‟esilio o del carcere108

”. Occorre pertanto considerare sia

l‟uno sia l‟altro per tentare di cogliere le misure e le motivazioni di entrambi.

105

Ivi, p. 67. 106

Sono pubblicati in appendice al secondo saggio. Ivi, pp. 147-191. 107

Ivi, pp. 145-145. 108

Ivi, p. IX

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22

CONCLUSIONI

Al termine di questo lavoro si può concludere che il tema del consenso al fascismo dopo un

iniziale accantonamento sia balzato negli ultimi anni all‟attenzione degli storici. Tuttavia, già l‟opera

di De Felice del 1974 aveva “sdoganato” la questione, liberandola dalle riserve con cui si parlava (o

meglio non si parlava) prima. L‟affermazione defeliciana di un consenso negli anni 1929-1936,

interpretata come tentativo di revisionismo storiografico, ha scatenato la reazione di alcuni studiosi che

non hanno perso tempo per sottolineare come in un regime in cui vige la coercizione non ci possa

essere consenso. Al massimo si parla di “consenso” che rimanda a un panorama molto articolato di

atteggiamenti, fatto di adesione attiva o passiva, indifferenza, rassegnazione, accettazione, solidarietà,

conformità, disimpegno, mormorazione. In questa prospettiva la disciplina degli italiani è frutto della

manipolazione, dell‟inquadramento, dell‟irreggimentazione, della sottomissione delle masse,

dell‟impiego della repressione e della coercizione da parte del regime.

Emerge anche che affrontare questo tema presuppone necessariamente interrogarsi sul tipo di

governo in cui il consenso fu ricercato e conquistato. Inoltre, la tendenza dominante porta ad affiancare

all‟interesse per le varie forme di “consenso” anche l‟indagine sulle altrettanto varie espressioni del

dissenso (più o meno implicitamente definito).

Anche laddove si riconosce il consenso, esso è connotato da limiti che, per gli studiosi

considerati, presuppongono un necessario ridimensionamento del suo vero significato, per evitare di

recuperare un giudizio positivo sul fascismo, che fa di esso un regime tutto sommato normale.

Inoltre, per una seria e storicamente fondata comprensione del fenomeno, è necessario

considerare l‟atteggiamento degli italiani nei confronti del regime in relazione alle varie fasi di

sviluppo dell‟esperienza fascista perché, come afferma Foa il consenso non fu una storia omogenea nel

tempo.

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