UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI MILANO-BICOCCA · Tesi di Laurea di Elisa Maria Mamotti Matr. 728635...

103
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI MILANO-BICOCCA Facoltà di Sociologia Corso di Laurea in Servizio Sociale GIUSTIZIA RIPARATIVA IN AMBITO MINORILE: MODELLI E IPOTESI DI INTERVENTO APPLICATI AL CONTESTO ITALIANO Relatore: dott.ssa Elena Giudice Tesi di Laurea di Elisa Maria Mamotti Matr. 728635 Anno Accademico 2011/ 2012

Transcript of UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI MILANO-BICOCCA · Tesi di Laurea di Elisa Maria Mamotti Matr. 728635...

 

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI MILANO-BICOCCA Facoltà di Sociologia

Corso di Laurea in Servizio Sociale

GIUSTIZIA RIPARATIVA IN AMBITO MINORILE:

MODELLI E IPOTESI DI INTERVENTO

APPLICATI AL CONTESTO ITALIANO

 

Relatore: dott.ssa Elena Giudice

 

Tesi di Laurea di

Elisa Maria Mamotti

Matr. 728635

Anno Accademico 2011/ 2012

 

INDICE

INTRODUZIONE

p.1

INDICE ACRONIMI

p. 4

PARTE PRIMA. Restorative justice: dalla teoria ai modelli operativi p.5

BREVE PREMESSA “

CAPITOLO 1: ELEMENTI TEORICI DI RESTORATIVE JUSTICE “

1.1 Sviluppi storici “

1.2 Principi, valori e concetti chiave p.10

CAPITOLO 2: ESPERIENZE E MODELLI DI RESTORATIVE

JUSTICE NEL MONDO

p.19

2.1 La riscoperta del modello conciliativo-riparativo “

2.2 Victim-offender mediation (VOM) p.20

2.2.1 Elementi definitori “

2.2.2 Prassi ed esperienze p.25

2.2.3 Linee guida internzionali

p.35

2.3 Restorative group conference p.37

2.4 Circles

p.39

CONCLUSIONI p. 41

 

PARTE SECONDA. Azioni di giustizia riparativa nel contesto

italiano

p.42

BREVE PREMESSA “

CAPITOLO 1: LA GIUSTIZIA RIPARATIVA NEL

PROCEDIMENTO PENALE MINORILE

1.1 Il procedimento penale minorile “

1.2 Spazi normativi per azioni di giustizia riparativa

p.49

CAPITOLO 2: ESPERIENZE ITALIANE DI GIUSTIZIA

RIPARATIVA

p. 51

2.1 Premessa metodologica “

2.2 Caratteristiche generali delle giustizia riparativa italiana p. 54

2.2 Esperienze significative di giustizia riparativa italiana p.57

2.2.1 Ufficio di Mediazione Penale Minorile di Milano “

2.2.2 Servizio di Mediazione e Conciliazione di Napoli p.58

2.2.3 Servizio di Conciliazione di Venezia p.59

2.2.4 Percorso di conciliazione proposto dal servizio di Tutela Minori

dell’Azienda Speciale “Comuni Insieme”

p.63

2.2.5 Esperienza di Restorative Group Conference nel Progetto

“Volano di Monza-Brianza”

p.66

2.2.6 Sperimentazione all’interno del Progetto “Bruciare i Tempi”

p.69

2.3 Analisi comparativa delle diverse esperienze

p.74

 

CAPITOLO 3: PROSPETTIVE DI SVILUPPO FUTURO p.79

3.1 Ipotesi di buone prassi “

3.2 I tre percorsi p.81

3.2.1 Percorso di mediazione “

3.2.2 Percorso di conciliazione p.83

3.2.3 Percorso di restorative group conference p.85

3.3 Riflessioni riassuntive p. 87

CONCLUSIONI

p.89

INDICE DEI RIFERIMENTI NORMATIVI

p.91

BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA p. 93

ALLEGATI p. 96

- 1 -    

INTRODUZIONE

Il lavoro qui proposto intende affrontare il tema della restorative justice o giustizia

riparativa, quale modello di giustizia che cerca di offrire nuove risposte alla domanda di

giustizia di chi ha subìto un crimine, del reo e della comunità intera. Si ritiene, infatti,

particolarmente interessante per il servizio sociale approfondire la conoscenza di questo

nuovo modello di giustizia, sia perché, da un lato, ha generato un processo di cambiamento

che coinvolge tutti i soggetti a diverso titolo afferenti ai sistemi di giustizia penale, sia

perché, dall’altro, si ispira a valori e principi fondanti anche della professione di assistente

sociale, quali la centralità della dimensione relazionale dell’essere umano, l’importanza

dell’ascolto e della comprensione dell’altro, la partecipazione ed il coinvolgimento diretto

delle persone, il lavoro a livello comunitario.

Muovendo da queste considerazioni, l’elaborato cerca di indagare le caratteristiche della

giustizia riparativa e le modalità con cui viene implementata sia a livello internazionale

che, più da vicino, nel contesto italiano ed in particolare nella giustizia penale minorile. La

scelta dell’ambito minorile è stata, peraltro, necessaria, poiché non sono attualmente

riscontrabili in Italia esperienze diffuse e significative di restorative justice per gli adulti.

Inoltre, l’intera ricerca nasce e si sviluppa strettamente connessa ad un progetto di

intervento ideato in questi mesi da alcuni professionisti in un’area territoriale della

Regione Lombardia relativo alla presa in carico di minorenni imputati di reato, ragion per

cui è parso ancor più logico restringere il campo di indagine all’ambito minorile.

La connessione con tale progetto risulta chiara se si considera che quest’ultimo prevede,

tra gli obiettivi principali, anche quello di promuovere azioni di giustizia riparativa come

possibili modalità di lavoro con i ragazzi aventi commesso un reato e, pertanto, richiede, in

queste sue prime fasi preparatorie, un lavoro di riflessione e confronto che consenta di

definire quali possano essere le forme possibili e più adatte secondo cui modellare queste

nuove prassi di intervento ispirate alla restorative justice. Questa ricerca sulla giustizia

riparativa, dunque, intende porsi anche come tentativo di offrire, partendo dall’analisi delle

esperienze attuate in Italia e all’estero, spunti di riflessione e suggerimenti utili ad orientare

la prassi e a guidare la scelta degli operatori nell’implementazione di tale progetto.

Per garantire una base teorica quanto più possibile completa e realistica a chi dovrà poi

servirsene per modulare il progetto, si è scelto anzitutto di approfondire i principi ed i

valori su cui si fonda la restorative justice e ai quali, di conseguenza, devono conformarsi

tutte le prassi che vogliano essere considerate azioni di giustizia riparativa.

- 2 -    

Analizzata questa dimensione, si è cercato di comprendere quali fossero i principali

modelli attuativi e quali le esperienze più significative di restorative justice nel mondo e in

Europa, evidenziando da un lato gli elementi comuni e largamente condivisi e, dall’altro, i

tratti caratteristici e specifici dei diversi contesti nazionali.

Partendo da questo livello “macro” si è poi passati ad analizzare il livello “micro”, vale a

dire il contesto italiano, cercando anzitutto di comprendere quali fossero gli spazi di

implementazione della restorative justice che la normativa individua all’interno del

procedimento penale minorile. Compresi i limiti e le opportunità del nostro sistema penale,

l’attenzione si è quindi concentrata sulle esperienze di giustizia riparativa finora attuare in

Italia ed in particolare sull’individuazione di eventuali modelli operativi che indicassero le

buone prassi da seguire nella sperimentazione di tali misure.

Confrontando tutte le informazioni raccolte a livello di principi teorici e modelli

internazionali e nazionali di applicazione pratica della restorative justice, sono state quindi

elaborate alcune ipotesi di buone prassi, che, tenendo conto delle caratteristiche specifiche

del contesto italiano, ma traendo spunto da quanto realizzato all’estero, mirano a proporre

modalità operative che- 1sa-ppiano valorizzare al meglio le potenzialità del

modello di giustizia riparativa e, allo stesso tempo, proporsi come linee guida nella

progettazione di nuove misure di intervento in ambito penale minorile. Tali proposte

dovranno poi essere sperimentate e attuate nella prassi e, in questo senso, il progetto di cui

si è parlato potrebbe essere un importante banco di prova e di valutazione.

Alla base di questa ricerca è, quindi, la convinzione che ogni elaborazione teorica debba

prevedere un’analisi delle esperienze pratiche esistenti e da queste partire per le proprie

riflessioni, realizzando quella circolarità tra teoria e prassi che è, peraltro, caratteristica del

servizio sociale.

Entrambe le dimensioni (teorica e pratica) si ritrovano anche nella metodologia seguita

nella raccolta delle informazioni utili a questo progetto di tesi. Da un lato, infatti, ci si è

concentrati sullo studio teorico della letteratura nazionale ed internazionale, nonché della

legislazione penale minorile1 italiana e dei dati messi a disposizione dal Ministero della

Giustizia. Dall’altro, si è scelto di realizzare una ricerca conoscitiva mediante interviste

qualitative semi-strutturate, che consentisse di approfondire l’analisi delle esperienze più

significative di giustizia riparativa realizzate in Italia.

Per mezzo di tutti questi strumenti conoscitivi è stato, quindi, possibile formulare un primo

inquadramento teorico, presentato nella Parte Prima di questo elaborato, relativamente ai

principi e concetti chiave della restorative justice (capitolo 1) ed ai modelli attuativi

- 3 -    

riconosciuti a livello internazionale (capitolo 2). La trattazione prosegue, poi,

focalizzandosi sul contesto italiano nella Parte Seconda. Qui viene presentata anzitutto la

legislazione che disciplina il procedimento penale minorile e gli spazi normativi entro cui

può essere collocata la giustizia riparativa (capitolo 1). Nel capitolo seguente vengono

invece descritte ed analizzate le esperienze italiane, individuate a seguito della suddetta

indagine conoscitiva, di cui si riportano nel capitolo gli aspetti metodologici. Infine, nel

capitolo 3, vengono proposte le ipotesi di buone prassi sviluppate a conclusione di questo

percorso di ricerca.

Si è scelto di non dedicare un capitolo specifico alla descrizione del ruolo e delle funzioni

che il servizio sociale è chiamato ad assumere nello sviluppo della giustizia riparativa. Tale

dimensione, ad ogni modo, è presente trasversalmente in tutta la trattazione ed in

particolare nei capitoli relativi al contesto italiano e nelle conclusioni finali.

- 4 -    

ELENCO ACRONIMI

• AG: Autorità Giudiziaria

• CNCA: Coordinamento Nazionale delle Comunità di Accoglienza

• CPA: Centro di Prima Accoglienza

• D.LGS: Decreto Legislativo

• D.P.R; Decreto del Presidente della Repubblica

• GIP: Giudice per le Indagini Preliminari

• GUP: Giudice per l’Udienza Preliminare

• N.O.: Nulla Osta

• PG: Polizia Giudiziaria

• PM: Pubblico Ministero

• PPM: Procedimento Penale Minorile

• RGC: Restorative Group Conference

• SEAD: Servizio Educativo Adolescenti in Difficoltà

• SS: Servizio Sociale

• TM: Tribunale per i Minorenni

• UOPM: Unità Operativa Penale Minorile

• USSM: Ufficio di Servizio Sociale per i Minorenni

• VOM: Victim-Offender Mediation

• VORP: Victim-Offender Reconciliation Program

- 5 -    

PARTE PRIMA

Restorative justice: dalla teoria ai modelli operativi

BREVE PREMESSA

Parlare di restorative justice significa anzitutto doversi confrontare con un concetto ampio,

intrinsecamente complesso, dinamico e controverso (Johnstone e Van Ness, 2007), oggetto

di numerosi dibattiti e controversie. In effetti, se parlando in termini molto generici

possiamo definire la giustizia riparativa come un movimento globale volto a trasformare le

tradizionali modalità di risposta al crimine, approfondendo il concetto e addentrandosi

meglio nella materia ci si accorge di quante diverse sfaccettature e sfumature teoriche e

applicative la restorative justice può assumere, a seconda degli autori e dei contesti

geografici in cui viene attuata.

Il tentativo di questa prima parte, dunque, è quello di offrire una riflessione quanto più

possibile ampia e ricca di spunti, nella convinzione che solo prediligendo uno sguardo

aperto alla diversità sia possibile valorizzare la grande ricchezza di questa tema.

CAPITOLO 1: ELEMENTI TEORICI DI RESTORATIVE JUSTICE

1.1 SVILUPPI STORICI

La restorative justice si definisce anzitutto come nuovo modello di amministrazione della

giustizia, un paradigma di pensiero innovativo (Morris e Maxwell, 2003), in grado di

introdurre importanti interrogativi rispetto alle modalità con cui le società rispondono al

problema del crimine e della devianza. Rappresenta, infatti, l’ultimo in ordine temporale

dei modelli della giustizia che si sono succeduti nel corso degli anni, ai quali si ritiene

importante far qui un breve cenno al fine di riuscire a comprendere pienamente la portata

innovativa e per certi versi rivoluzionaria della restorative justice.

Gli studiosi individuano, oltre a quello riparativo, due modelli di applicazione della

giustizia: il modello retributivo (o di retributive justice) e quello riabilitativo

(Scardaccione, 1997). Questi tre modelli, «naturalmente divergenti dal punto di vista

dell’oggetto, dei mezzi e degli obiettivi che l’azione giudiziaria impiega e si prefigge»

(Scardaccione, 1997, p.10), sono il frutto dell’evoluzione degli orientamenti filosofici e

- 6 -    

politici che si sono succeduti nel corso della storia e che ne hanno determinato

l’affermazione e/o il declino1.

Il primo, il modello retributivo, sviluppatosi nel corso del diciottesimo secolo a partire

dalle teorizzazioni degli esponenti della Scuola Classica (tra cui Cesare Beccaria e Jeremy

Bentham), è così definito perché concepisce la pena in chiave retributiva, partendo

dall'assunto che il reato non è altro che una violazione dell'ordine sociale, attuato da un

soggetto capace di compiere liberamente le proprie scelte e che, per questo motivo, merita

una 'giusta' punizione (Williams III e McShane, 2002). Inoltre secondo gli autori, proprio

perché soggetto razionale, l’uomo, posto di fronte al rischio di incorrere nella sanzione

prevista dalla legge, avrebbe più probabilmente desistito dal commettere reati, garantendo

così quella che i teorici definirono “funzione deterrente della pena”. Perché ciò fosse

possibile era tuttavia necessario all’epoca istituire un sistema di leggi e di amministrazione

della giustizia più chiaro ed equo, che, da un lato consentisse alle persone di prevedere con

maggior sicurezza le conseguenze delle proprie azioni devianti superando l’incertezza e la

discrezionalità delle sentenze giudiziarie dell’Ancièn Regime, e, dall’altro tutelasse i diritti

delle persone. Fu proprio l’introduzione di questo modello, infatti, che determinò la

creazione di un diritto penale garantista dei diritti dell'uomo, introducendo di molti dei

principi che sono ancora oggi la base del diritto penale moderno e delle Costituzioni degli

stati nazionali.

Senza negare questo merito, vi è da notare tuttavia che il principio della deterrenza della

pena del modello retributivo non ha avuto, di fatto, molti riscontri positivi. In effetti, «la

stragrande maggioranza delle ricerche sulla deterrenza non ha riscontrato un sostanziale

effetto deterrente esercitato dalle sanzioni legali» (Williams III e McShane, 2002, p.34).

Di fronte a questa evidenza e in risposta ai bisogni di giustizia ancora insoddisfatti, verso

la fine del diciannovesimo secolo cominciò a diffondersi il modello riabilitativo, proposto

a partire dalle teorizzazioni della Scuola Positiva. Gli studiosi che afferivano a questa

scuola di pensiero condividevano la convinzione che il comportamento umano fosse

determinato da tratti biologici, psicologici e sociali, che divennero pertanto la chiave di

lettura per spiegare anche i comportamenti devianti e criminali. Ad esempio, un noto

esponente del Positivismo giuridico, Cesare Lombroso, condusse osservazioni sistematiche

su diverse tipologie di persone ed arrivò ad individuare tratti specifici e particolari

anormalità fisiche di cui sarebbero stati portatori tutti i criminali e che avrebbero                                                                                                                1 Per un approfondimento sul tema si vedano: l’articolo “Nuovi modelli di giustizia: giustizia riparativa e mediazione penale” di G. Scardaccione tratto da “Rassegna penale e penitenziaria” 1-2, 1997 e “Devianza e criminalità” di Williams III e Frank P., 2002, Il Mulino.

- 7 -    

determinato, per l’appunto, la delinquenza (Williams III e McShane, 2002). Poiché il reato

non è più visto come frutto di una scelta razionale ma come manifestazione di una

personalità deviante, la funzione deterrente della pena, basata sul principio di razionalità

umana, perde senso e lascia spazio ad interventi diretti alla personalità del reo e alla sua

riabilitazione.

Tali convinzioni furono con il tempo superate, ma aprirono la strada ad una maggiore

consapevolezza sulle differenze di personalità e sull’importanza del reinserimento sociale

del reo, incentivando di conseguenza l’istituzione, da un lato di pene individualizzate,

dall’altro di misure alternative alla detenzione con obiettivi terapeutici e di reinserimento

sociale. Queste misure hanno generalmente previsto il massiccio impiego di risorse

comunitarie e l’inserimento di nuove figure professionali di stampo psico-socio-educativo

nell’amministrazione della giustizia penale (Scardaccione, 1997). Tali investimenti, per cui

si richiede lo stanziamento di ingenti risorse economiche, si resero possibili in quegli anni

grazie allo sviluppo del Welfare e alla disponibilità di risorse da investire in campo sociale.

Con il progressivo ridursi di tali risorse, in particolare con la crisi che negli anni '80 ha

colpito il Welfare State, il successo del modello riabilitativo ha cominciato a tramontare. Il

declino, tuttavia, è stato segnato anche dalle dure critiche rivolte all’approccio riabilitativo,

alimentate dai dati di ricerche empiriche che avevano messo in luce l'inefficacia degli

interventi trattamentali sulla personalità del reo e l'incapacità del modello riabilitativo di

ridurre la recidiva (Scardaccione, 1997).

In risposta alla crisi dei modelli precedenti e all’inefficacia dei sistemi tradizionali di

giustizia, nasce in questi anni la restorative justice. Il modello riparativo, come ricorda

Francesca Vianello, «intende opporsi da subito all'idea della sanzione come unica risposta

possibile al fenomeno criminale e alla confusione operata dal modello riabilitativo tra

prevenzione, rieducazione e repressione» (in “Sociologia del diritto” n.2, 1999, p. 81). La

fortuna di questo modello, diffusosi velocemente in diversi paesi del mondo (Morris e

Maxwell, 2003) discende, inoltre, dalla sua capacità di dare una risposta ai bisogni

emergenti, quali il sovraffollamento delle carceri e l’aumento dei costi della giustizia. Ciò

in virtù del fatto che la restorative justice, rifacendosi in parte ai movimenti abolizionisti,

si è generalmente proposta come modello di giustizia alternativo, capace «di assolvere la

duplice funzione di ricomposizione diretta del conflitto tra le parti e di sfoltimento del

carico giudiziario» (Ciappi e Coluccia, 1997, p. 112). In secondo luogo, la restorative

justice ha saputo recepire e far proprie le istanze portate avanti dai movimenti in favore

delle vittime, intenzionati a denunciare l'assoluto disinteresse sia sociale, sia giudiziario per

- 8 -    

il soggetto passivo del reato.

In generale, secondo i sostenitori dell’approccio riparativo, i modelli precedenti non sono

stati in grado di coinvolgere in modo significativo coloro che più direttamente sono

implicati nel reato e che si vedono, invece, costretti a ricoprire un ruolo marginale e ad

essere il più delle volte quasi interamente esclusi dal processo. Ciò riguarda in particolar

modo le vittime, le quali, anche in virtù di questa esclusione, spesso non percepiscono la

punizione del colpevole come strumento in grado di render loro giustizia. Il modello

retributivo viene in particolar modo criticato dai sostenitori dell’approccio riparativo per la

sua interpretazione del reato come violazione di norme e danno allo Stato e non come

lacerazione di un legame sociale e come danno alla vittima del reato. Per sottolineare la

distanza da questo approccio, i teorici della restorative justice, a partire da Howard Zehr

nel suo testo “Changing Lenses” (1990) hanno spesso presentato il proprio modello

definendolo a partire dalla negazione dei principi retributivi, andando a delineare così la

dicotomia retributive/restorative justice che ancora oggi riscuote un notevole successo.

Secondo tale dicotomia:

«Retributive justice focuses on the violation of law, whereas restorative justice focuses on the violation of people and relationship. Retributive justice seeks to vindicate law by determining blame and administering punishment, whereas restorative justice seeks to vindicate victims by ackowledging their injury and by creating obligations for those responsible to make things right. Retributive justice involves the state and the offender in a formal process of adjudication, whereas restorative justice involves victims, offenderds and community members in a search for solutions» (Zehr in Morris e Maxwell, 2003, p. 4).

D’altra parte, il modo con cui leggiamo ed interpretiamo il crimine ci conduce verso una

risposta al reato che appare logica e coerente (Morris e Maxwell, 2003). Per i teorici della

restorative justice, il reato è un conflitto che lacera aspettative sociali condivise

(Mazzucato, 2002) e, pertanto, la risposta “logica e coerente” si sostanzia nell’attenzione

alla riparazione di quanto è stato lacerato, non attraverso una punizione (perlomeno così

come tradizionalmente intesa) ma, a partire dal recupero del senso di responsabilità per ciò

che è stato fatto, attraverso un'azione in senso positivo per la vittima. In questo modo non

solo il debito è saldato direttamente nei confronti della vittima, ma si ha anche la

rivalutazione della figura del reo, alla quale è affidato un ruolo più attivo. E’ una

prospettiva notevolmente distante da quella retributiva e chiede di «superare la visione di

una giustizia centrata sulla reciprocità "contabile" del "male per male", la giustizia della

ritorsione, verso una giustizia centrata sulla reciprocità "circolare" della relazione»

- 9 -    

(Mazzucato, 2002, p.63), che sappia coinvolgere reo, vittima e comunità intera nella

ricerca di risposte condivise orientate verso la riparazione delle conseguenze materiali e

psicologiche del comportamento criminale.

D’altra parte è pur sempre vero che il modello riparativo si inserisce in un contesto sociale

e giudiziario caratterizzato dalla centralità del ruolo dello Stato ed orientato ancora in

buona parte ai principi retributivi. Si è posto da subito, dunque, il problema della

compatibilità con questo sistema di giustizia, compatibilità peraltro resa necessaria se

consideriamo che, anche a detta di numerosi teorici della restorative justice, la presenza

dello Stato è essenziale, anzitutto per quei casi in cui il reato sia troppo grave perché vi si

possa rispondere semplicemente con un processo informale e volontario e, più in generale,

perché se non esistessero pratiche coercitive promosse dallo Stato, ben pochi di coloro che

hanno commesso un crimine sceglierebbero spontaneamente di partecipare a programmi

riparativi (McCold in Johnstone e Van Ness, 2007). A ciò si aggiunga il fatto che, benché

l’apparato statale sia oggetto di numerose critiche da parte dei sostenitori dell’approccio

riparativo, alcuni autori ne evidenziano le potenzialità. Susan Herman (in Johnstone e Van

Ness, 2007), ad esempio, ricorda che, se coinvolto, lo Stato può venire incontro ai bisogni

a lungo termine delle vittime e dei rei (lavoro, ricerca di un’abitazione, trattamento

dell’abuso di sostanze…) a cui la comunità con le proprie risorse difficilmente può

rispondere.

Pare quindi molto difficile pensare di sostituire il modello retributivo con quello riparativo

ed altrettanto si può dire rispetto all’approccio riabilitativo. Non dobbiamo dimenticare,

infatti, che restorative justice fa propri alcuni aspetti centrali del modello riabilitativo,

quali l’attenzione al reinserimento sociale del reo e l’introduzione di misure alternative di

applicazione della pena (Scardaccione, Baldry, Scali, 1998).

Nella realtà dei fatti, dunque, l’avvento di questo nuovo modello di giustizia non ha

comportato il declino definitivo di quelli precedenti, bensì che sia andato ad affiancarsi e

ad integrare tali approcci, contraddicendo quanto sostenuto, invece, dagli abolizionisti,

ossia che la restorative justice debba diventare una vera e propria modalità alternativa di

attuazione della giustizia penale, non conciliabile con il concetto della pena o

dell’applicazione di misure alternative. Non è questo lo spazio per approfondire il

problema della compatibilità o meno tra i modelli di giustizia. In questa sede si rileva

unicamente che tale questione ha dato luogo ad un importante dibattito, ad oggi ancora

aperto, e costituisce uno dei nodi critici che accompagna la riflessione sulla restorative

justice e che contribuisce a rendere complesso e controverso questo tema.

- 10 -    

1.2 PRINCIPI, VALORI E CONCETTI CHIAVE

Come si è avuto modo di accennare, quindi, la giustizia riparativa è «modello

onnicomprensivo, con più anime e più tipologie di attuazione» (Scardaccione, Baldry,

Scali, 1998, p.8) ma questo non impedisce di individuare alcuni valori e principi, non

sempre comuni a tutti gli autori, ma largamente condivisi, che orientano le numerose

riflessioni nonché esperienze pratiche esistenti (Pranis in Johnstone e Van Ness, 2007).

Si è convinti, infatti, che qualsiasi esperienza, per potersi definire riparativa, debba

necessariamente ispirarsi ai seguenti principi:

- importanza delle relazioni e del bisogno relazionale dell’uomo;

- interdipendenza tra le parti, tale per cui ogni parte è connessa ed ha un impatto sulle

altre;

- riconoscimento che ognuno possiede capacità personali; pertanto nell’approccio

riparativo l’esperienza professionale deve essere al servizio delle risorse delle persone.

- giustizia come risanamento, come raggiungimento di uno stato di sano equilibrio, vale

a dire quando tutte le parti si percepiscono uguali, rispettate, valorizzate nella loro

individuale unicità, capaci di esercitare un controllo costruttivo sulla propria vita e di

assumersi la responsabilità delle proprie azioni.

Tali principi valorizzano il rispetto, l’inclusione, l’autodeterminazione, l’uguaglianza, la

sincerità, l’ascolto, la comprensione, l’umiltà, la responsabilità, la sicurezza, la

reintegrazione, l’onestà e la correttezza, come valori essenziali e centrali nella restorative

justice. Proprio con la finalità di diffondere questi valori, la restorative justice, nata

all’interno del sistema giudiziario, ha cominciato negli ultimi anni ad estendersi ad altri

settori della vita sociale, primo fra tutti quello scolastico. Qui, ad esempio, sono state

introdotte pratiche ispirate ai principi riparativi, volte alla riduzione del bullismo2, alla

prevenzione della dispersione scolastica e dell’esclusione, alla risoluzione dei conflitti e

così via, nella convinzione che:

«In schools we have society in miniature and persons in the process of learning to become citizens. It is not simply a milieu for job-training. How well we manage our schools will determine how well our society

                                                                                                               3 Secondo la definizione proposta dallo studioso norvegese Dan Owleus, generalmente utilizzata a livello internazionale, il bullismo è un comportamento aggressivo intenzionale, caratterizzato da asimmetria di potere tra le parti e generalmente ripetuto nel tempo.

- 11 -    

works a generation later» (Marshall in Johnstone e Van Ness, 2007, p. 325).

La restorative justice, dunque, propone i propri valori e principi non solo all’ambito della

giustizia penale, bensì alla società intera, favorendo una trasformazione su larga scala

verso una società più umana e più equa, in cui si sia in grado di vedere noi stessi come

esseri inestricabilmente connessi e identificabili con gli altri esseri viventi e in generale

con il mondo a noi esterno (Johnstone e Van Ness, 2007).

Per comprendere meglio quale processo di trasformazione la giustizia riparativa può

introdurre nei modelli di convivenza civile, è bene tornare al focus di questa trattazione e

descrivere in modo più approfondito quali siano i concetti chiave su cui si fonda questo

nuovo approccio. Per farlo, ci serviamo della definizione di restorative justice elaborata da

Tony F. Marshall, ma condivisa da molti altri autori (Johnstone e Van Ness, 2007).

Secondo l’autore, la giustizia riparativa è:

«A process whereby all the parties with a stake in a particular offence come together to resolve collectively how to deal with the aftermath of the offence and its implications for the future». (Marshall in Morris e Maxwell, 2003, p. 5)

A partire da questa definizione, dunque, possono essere individuati quali concetti chiave

della restorative justice le seguenti tre dimensioni:

1) Il coinvolgimento degli stakeholder («all the parties with a stake in a particular

offence»);

2) L’incontro tra le parti («come together to resolve collectively»);

3) La riparazione del danno («how to deal with the aftermath of the offence and its

implications for the future»).

Analizziamo ora nel dettaglio i singoli concetti.

Il coinvolgimento degli stakeholder.

Anzitutto quando si parla di “stakeholder” si fa riferimento a tutti quei soggetti che ruotano

intorno al reato e che ne sono più o meno direttamente coinvolti. Sawin e Zehr (2007)

suggeriscono di pensare a questi come se si collocassero nei diversi anelli concentrici che

il reato ha originato intorno a sé: nel primo cerchio, il più piccolo ma anche quello più

vicino al centro-reato, troviamo gli stakeholder diretti (vittima e reo), mentre nei cerchi

successivi si possono individuare e collocare, a seconda del grado di implicazione nel fatto,

i diversi e numerosi stakeholder indiretti (membri della famiglia, parenti, amici, comunità,

- 12 -    

membri del sistema penale…).

In linea teorica, tutte queste parti possono trovare un proprio ruolo nel modello operativo

proposto dalla restorative justice, che mira al coinvolgimento degli stakeholder, anzitutto

quelli diretti, nella risposta al reato. Questa idea, che costituisce uno dei concetti chiave del

modello riparativo, è stata teorizzata per la prima volta dal criminologo norvegese Nils

Christie nel testo “Conflicts as property” (1977). Secondo l’autore, i moderni sistemi di

giustizia si caratterizzano per un ampio dispiego di funzionari delle forze dell’ordine,

avvocati e altri professionisti che “sottraggono” la proprietà del conflitto e delle sue

conseguenze a coloro ai quali dovrebbe, di diritto, appartenere, vale a dire il reo e la

vittima. Questi ultimi, infatti, sono quasi sempre rappresentati dal procuratore o dai propri

legali, che si fanno portavoce degli interessi di ciascuna parte, ma che, di fatto, ne limitano

la partecipazione. Sono poche le occasioni in cui il reo e la vittima possono intervenire

direttamente; molto più frequentemente i loro punti di vista sono filtrati dalle parole e dal

linguaggio giuridico dei professionisti. In particolare le vittime possono intervenire

unicamente quando chiamate a testimoniare, poiché nei sistemi penali attuali di stampo

retributivo il reato è considerato anzitutto come danno allo Stato, più che ad una persona

specifica, che pertanto si trova relegata in una posizione marginale.

In questo modo, tuttavia, si nega la possibilità di ascoltare e soddisfare i bisogni di chi ha

subìto direttamente il reato, ossia di chi ha sperimentato in prima persona «a violation of

the self, a desecration of who we are, of what we believe, of our private space» (Zehr in

Johnstone e Van Ness, 2007, p. 250). Il crimine è quindi anzitutto un evento devastante

nella vita delle persone, perché sconvolge l’ordine e le certezze delle vittime, generando in

loro un profondo senso di inquietudine ed insicurezza, da cui nasce il bisogno di sapere

perché quel reato è stato compiuto e perché è accaduto proprio a loro, nonché di avere la

certezza che il fatto non accadrà più e che, da quel momento, potranno ricominciare a

vivere senza timori e paure. Prima che chiedere vendetta, dunque, la vittima ha bisogno di

essere ascoltata e riconosciuta nella propria sofferenza, di dare una spiegazione a quanto

accaduto e recuperare un senso di sicurezza personale ed esistenziale (Scardaccione,

Baldry, Scali, 1998). Riconoscendo questi bisogni, la restorative justice intende offrire alle

vittime l’opportunità (si noti bene: non l’obbligo) di partecipare, di far sentire la propria

voce ed esprimere i propri bisogni.

Qualunque misura di giustizia riparativa, quindi, deve anzitutto garantire questo principio e

recuperare la dimensione relazionale del reato, proponendo soluzioni che mettano al centro

le persone ed i loro bisogni, dove per “persone” si intendono, appunto, anzitutto reo e

- 13 -    

vittima, ma anche tutti coloro che in misura diversa, subiscono le conseguenze del reato. In

questo senso, anche la comunità può e deve diventare un interlocutore importante, in

quanto ambito e contesto sociale in cui reo e vittima vivono e riportano la sofferenza ed il

disagio che il reato ha generato. Il crimine, infatti, riversa i propri effetti dannosi non solo

su chi l’ha subìto o commesso, ma anche sulla comunità intera, determinando

indebolimento e rottura dei legami sociali e provocando un senso generale di insicurezza.

Perché, quindi, la comunità non si limiti ad essere spettatrice di questo processo, è

importante che possa avere un ruolo attivo nel risanare quei rapporti e legami sociali che il

reato ha spezzato, promuovendo un percorso di giustizia e pacificazione. In questo senso,

la restorative justice non si limita a considerare la comunità come “oggetto” di interventi,

ma intende far di lei un “soggetto” che promuove in prima persona la giustizia riparativa,

che “agisce” i valori e principi a cui questo modello si ispira, per raggiungere il comune

obiettivo di offrire una risposta vera ed efficace al bisogno di giustizia delle persone.

D’altra parte, la comunità, se considerata come luogo, fisico o simbolico, in cui le persone

condividono aspetti significativi della propria esistenza ed identità (Martini e Torti, 2003),

può rivestire un ruolo importante rispetto al sostegno delle vittime ed al reinserimento

sociale dei rei. Infatti, sentirsi parte di una comunità interessata ed accogliente può da un

lato aiutare le vittime nel recupero del senso di sicurezza e protezione, dall’altro può

favorire un processo di inclusione sociale del reo e di prevenzione rispetto alla

commissione di nuovi crimini. A questo proposito, si ricorda la teoria della “reintegrative

shaming” di John Braithwaite, secondo cui, se si vuole prevenire la recidiva, in molti casi è

fondamentale che, in risposta al reato, la comunità si attivi mettendo in atto un processo di

“shaming”, di biasimo, che porti il reo a provare senso di colpa e vergogna per quanto

commesso, ma che non ricada nel rischio di stigmatizzare ed escludere la persona. Perché

ciò sia possibile, il processo di “shaming” non deve essere fine a se stesso, ma deve essere

seguito da quelli che l’autore definisce «gestures of reacceptance into the community of

law-abiding citizens.» (Braithwaite, 1989, p.55). In altri termini, la comunità dovrebbe

comportarsi come una famiglia, ossia essere capace da un lato di esprimere il proprio

dissenso rispetto alla devianza e dall’altro di accettare il reo e favorire il suo reinserimento,

a maggior ragione qualora la persona dimostri di essersi impegnata nella riparazione del

danno conseguente al gesto compiuto.

Un processo di questo tipo non è immediato: richiede impegno e condivisione da parte

della comunità dei valori e delle convinzioni portate avanti dalla giustizia riparativa. Per

questo è indispensabile coinvolgere la comunità, seguendo il principio, ben noto anche al

- 14 -    

servizio sociale, secondo cui è di gran lunga meglio «doing things with people rather than

to them or for them» (Watchel in Johnstone e Van Ness, 2007, p. 46). Vi è da dire,

comunque, che l’attuazione di questo principio è meno semplice e lineare di quanto non

appaia nella loro enunciazione teorica. Alcuni studiosi, infatti, ricordano che non tutte le

comunità sono funzionali, ma anzi spesso ci si deve interfacciare con comunità “non sane”,

frammentate, escludenti, per le quali pare alquanto difficile pensare ad un coinvolgimento

di questo tipo. In generale, come ci ricordano Martini e Torti, «la comunità rappresenta il

mondo in cui ci piacerebbe tanto vivere, ma sicuramente non è una realtà molto disponibile

nel mondo in cui viviamo» (Martini e Torti, 2003, p. 11). Inoltre, si teme che l’inclusione

di un numero sempre maggiore di persone nei processi riparativi, animato dal desiderio di

promuovere un empowerment comunitario, possa avvenire a scapito della vittima, la cui

voce, debole e impaurita, verrebbe facilmente “sommersa” da quella di altre persone,

trovandosi nuovamente relegata in una posizione marginale.

Questo rischio, d’altra parte, emerge ogniqualvolta si cerchi di attivare misure di giustizia

riparativa ed i critici rilevano che molto spesso la partecipazione delle vittime è solo

nominale, subordinata all’individuazione dell’autore del reato e alla sua ammissione di

responsabilità e finalizzata al reinserimento del reo, tanto che ci si aspetta da chi ha subìto

il reato che si preoccupi quasi “naturalmente” della riabilitazione di chi il reato l’ha

commesso, cosa che può accadere solo ed eventualmente in un secondo tempo (Achilles in

Johnstone e Van Ness, 2007). Non si può pretendere, in effetti, che le parti assumano

spontaneamente su di sé una serie di responsabilità nei confronti dell’altra persona per il

solo fatto di essere state chiamate in causa. Ciò vale non solo per la vittima, ma anche per

il reo, nei confronti del quale si rischia di trascurare la necessità di affrontare il proprio

senso di vittimizzazione e il bisogno di crescita personale.

Rispetto al reo, tuttavia, l’interrogativo più importante che diversi critici pongono alla

giustizia riparativa riguarda la volontarietà e l’“onestà” nel desiderio di partecipazione da

parte di chi ha commesso il reato. In altri termini, ci si chiede se e quanto possa essere

realmente sincera e “sentita” la volontà di partecipazione del reo a percorsi di giustizia

riparativa il cui esito, positivo o negativo, potrebbe avere ricadute significative sul

procedimento giudiziario. Il rischio, infatti, è che l’autore del reato acconsenta di prender

parte ai programmi riparativi al solo scopo di ridurre la propria condanna, senza in realtà

condividerne le finalità più profonde (Scardaccione, Baldry, Scali, 1998). D’altra parte è

molto difficile pensare, soprattutto quando il reo sia un ragazzo minorenne, che non esista

alcun tipo di strumentalizzazione di queste misure: è, in effetti, abbastanza comprensibile

- 15 -    

che i minori imputati aderiscano ai progetti riparativi anche per cercare di ottenere una

fuoriuscita più rapida dal procedimento penale. Ad ogni modo, anche in presenza di una

forse inevitabile strumentalizzazione, la possibilità di ricorrere a strumenti di giustizia

riparativa può offrire al ragazzo ed in generale al reo la possibilità di impegnarsi in prima

persona nella riparazione del danno commesso e soprattutto di incontrare e conoscere la

vittima.

L’incontro tra le parti.

La partecipazione attiva degli stakeholder trova la sua più naturale applicazione nella

realizzazione di un incontro tra le parti, che avviene, di norma, alla presenza di un

facilitatore, in un ambiente quanto più sicuro e supportivo. In questo contesto, i

professionisti rimangono nello sfondo, garantendo agli stakeholder la possibilità di

confrontarsi sull’esperienze del reato, di esprimere contenuti emozionali ad esso connessi

ed eventualmente, come esito dell’incontro, di prendere, da soli, una decisione condivisa

su quali debbano essere le azioni per riparare il danno.

In generale, dunque:

«the parties voluntarily choose to become more open, attentive, responsive to the situation of another, thereby expanding their perspective to include an appreciation for another’s situation» (Umbreit in Johnstone e Van Ness, 2007, p.10).

L’incontro tra le parti, e in particolar modo tra reo e vittima, consente, quindi, se utilizzato

nelle situazioni adatte e se condotto adeguatamente, di raggiungere molti degli obiettivi

evidenziati in precedenza, primo fra tutti quello di riacquistare il senso del proprio valore e

della propria capacità di affrontare i problemi della vita (Bush e Folger in Johnstone e Van

Ness, 2007). Per il reo, infatti, l’incontro offre la possibilità di riconoscere ed ammettere la

propria responsabilità, assumersi un impegno nei confronti della vittima e perseguirlo.

Anche solo presentare le proprie scuse può rivestire un significato simbolico importante,

poiché sottende l’ammissione di colpa, il rifiuto di quanto si è commesso e la

determinazione a non commetterlo in futuro. Inoltre, l’incontro diretto con la vittima, per

la difficoltà relazionale ed emotiva che spesso comporta, può aiutare l’autore del reato a

comprendere realmente quali conseguenze il suo gesto ha comportato per la persona, a

riflettere sull’importanza del rispetto delle norme, contribuendo, quindi, in ultimo alla

prevenzione di nuovi reati. Altri benefici riguardano la possibilità per le vittime di ricevere

scuse dirette, di essere coinvolte nella decisione sulle conseguenze del crimine, di

- 16 -    

comprendere direttamente dalle parole del reo le circostanze che lo hanno portato a

commettere il crimine. In questo senso, anche per la vittima l’incontro può favorire la

riattivazione del senso personale di valore e forza, che il reato ha sconvolto e indebolito,

alterando la percezione di sicurezza personale. Infatti:

«se, come avviene nella maggior parte dei reati contro il patrimonio, l’autore del reato non ha preterintenzionalmente o intenzionalmente scelto contro chi agire, egli ha [...] la possibilità di spiegare alla vittima che la sua azione ha avuto luogo a prescindere da qualcosa che la vittima ha fatto o omesso di fare. La vittima può così riacquistare un senso di fiducia e di controllo sugli eventi della propria esistenza» (Scardaccione, Baldry, Scali, 1998, p. 55).

Per tutte queste ragioni, il principio dell’incontro ricopre un ruolo centrale nella restorative

jusitce e ad esso si ispirano molte delle pratiche riparative finora realizzate, tra cui la

mediazione reo-vittima, le restorative group conference e i circles. Alla descrizione di

queste prassi è dedicato il capitolo seguente, a cui si rimanda per una maggior

approfondimento rispetto alle potenzialità dell’incontro tra stakeholder, nonché per una

riflessione sulle potenziali e diverse modalità con cui tale principio può essere messo in

pratica.

Rimane qui invece da descrivere l’ultimo, e non meno importante, concetto chiave della

restorative justice, relativo alla riparazione del danno.

La riparazione del danno

Il risultato dell’incontro, come si ha avuto modo di accennare, può concretizzarsi nella

decisione condivisa dalle parti di una riparazione simbolica o materiale del danno da parte

del reo. Alla base della riparazione vi è l’idea che lo stato di ingiustizia creato dal reato

non deve essere corretto, come avviene di norma, sottoponendo il reo a pene e sofferenze

in proporzione al male commesso, poiché:

«simply imposing pain upon offenders is neither necessary nor sufficient to make thisgs right. [...] The imposition of pain upon offenders, while it occasionally provides us a slight and short-lived sense that justice has been done, generally fails to deliver a rich and enduring experience of justice» (Johnstone e Van Ness, 2007, p. 12).

Perché, al contrario, sia possibile realizzare un’esperienza di giustizia durevole, è

indispensabile, secondo i teorici del modello riparativo, che il danno che il crimine ha

causato alle persone e alle relazioni sia riparato. In questo senso la riparazione si

contrappone sia alla vendetta che alla retribuzione, poiché più che mirare ad un incremento

di sofferenza nel reo, cerca di diminuire la sofferenza delle vittime (Sharpe in Johnstone e

- 17 -    

Van Ness, 2007). La riparazione può essere materiale, qualora offra qualcosa di concreto

per riparare un danno specifico o per compensare le perdite legate al reato e può assumere

le forme di un risarcimento economico piuttosto che di un aiuto concreto nella riparazione

di ciò che è stato danneggiato e così via. In altri casi possono essere pensate forme di

riparazione simbolica, spesso più significative per la vittima, che possono concretizzarsi

nella manifestazione sincera di scuse, nella disponibilità ad ascoltare la vittima, ad offrirle

tempo o servizi, piuttosto che in aspetti materiali ma ad alto valore simbolico.

Generalmente la riparazione è, come si è detto, il risultato del processo di incontro reo-

vittima. Tuttavia esistono situazioni in cui tale incontro non può verificarsi, ad esempio

quando una o entrambe le parti non lo desiderano. Anche in questo caso, secondo quanto

sostenuto da alcuni fautori della restorative justice, il sistema di giustizia dovrebbe

garantire possibilità di risposta in chiave riparativa al reato, ad esempio attraverso sentenze

che impongano una misura di restituzione e riparazione piuttosto che una multa o la

detenzione (Sharpe in Johnstone e Van Ness, 2007). Andrebbero così a definirsi misure di

risarcimento del danno che, pur essendo orientate dai valori riparativi ed essendo volte al

soddisfacimento dei bisogni della vittima, non nascono dal confronto diretto con

quest’ultima, quali ad esempio la restitution o i community service orders3 (Scardaccione,

Baldry, Scali, 1998).

Ed è proprio per tale ragione che non tutti gli autori sono concordi nel ritenere che, per

queste misure, si possa parlare pienamente di giustizia riparativa. Infatti, dal momento che,

non prevedendo la partecipazione delle vittime, vengono meno a quello che è uno dei

concetti cardine della restorative justice, nonché uno dei maggiori elementi di distinzione

dagli altri modelli, il risarcimento del danno o i lavori socialmente utili possono essere visti

semplicemente come misure alternative alla detenzione e/o volte alla de-

giurisdizionalizzazione. Perché la riparazione o il risarcimento del danno possano

considerarsi a tutti gli effetti misure pienamente riparative, è indispensabile che siano il

risultato di un processo di incontro, il quale consente, tra le altre cose, la possibilità per le

vittime di far comprendere al reo quale azione riparativa vorrebbero fosse messa in atto e,

di conseguenza, di assicurare una soddisfazione maggiore nelle vittime di quella che ne

ricaverebbero da restituzioni scelte arbitrariamente (Scardaccione, Baldry, Scali, 1998).

                                                                                                               3 La restitution ha come finalità la rimozione dei danni materiali derivanti dal reato e generalmente consiste nella condanna del reo al pagamento di una somma di denaro a favore della vittima. Qualora questo non fosse possibile, sono previsti in alcuni Paesi i compensation programs, vale a dire programmi di compensazione dei danni derivati dal reato predisposti dallo Stato, e in alcuni casi il community service che prevede la prestazione di un'attività lavorativa a favore della comunità.  

- 18 -    

Questa divergenza di pensiero porta Gerry Johnstone e Daniel Van Ness (2007) a definire

incontro e riparazione come due diverse concezioni di restorative justice, due modalità con

cui i singoli fautori del paradigma riparativo si riferiscono ad esso, alcuni enfatizzando la

centralità del coinvolgimento della vittima e dell’opportunità di incontro tra le parti, altri

l’importanza di predisporre modalità di risposta al crimine volte alla riparazione del danno.

Non si tratta certamente di posizioni antitetiche, ma di diverse sfaccettature che

riconfermano la complessità e la ricchezza della definizione di restorative justice.

Esistono, d’altra parte, molte misure di giustizia riparativa che tengono insieme entrambi

gli aspetti, come mostra il grafico4 riportato nella pagina seguente. Dal momento, tuttavia,

che non tutti gli autori riconoscono come pratiche riparative quelle in cui non è previsto

espressamente il coinvolgimento della vittima e l’incontro delle parti, si è scelto di

focalizzare questa trattazione sulle prassi di restorative justice che siano, invece,

globalmente riconosciute come tali perché fondate sull’incontro, quali la victim-offender

mediation, le conferences e i circles sopracitati e di cui si parlerà a breve.

                                                                                                               4 Questo e tutti i grafici e le tabelle che verranno presentati in questo elaborato sono stati realizzati dall’autrice, Elisa Mamotti.

RESTORATIVE JUSTICE

INCONTRO TRA LE PARTI

RIPARAZIONEDANNO

INCONTRO CON

RIPARAZIONE

Grafico 1. Le due “anime” della restorative justice

-19-    

CAPITOLO 2: ESPERIENZE E MODELLI DI RESTORATIVE

JUSTICE NEL MONDO

2.1 LA RISCOPERTA DEL MODELLO CONCILIATIVO-RIPARATIVO

Finora si è parlato di giustizia riparativa in termini prettamente teorici e, tuttavia, non si

può realmente comprendere e conoscere la restorative justice se non si analizza anche la

dimensione storica ed esperienziale. Infatti, se è vero che l’approccio riparativo è nato in

risposta alla crisi dei modelli precedenti, altrettanto vero è che ha tratto origine da pratiche

esistenti nelle diverse culture, dando loro una legittimazione e una cornice teorica e

favorendone l’incremento e lo sviluppo.

L’approccio conciliativo, infatti, ha costituito la forma prevalente di risoluzione di conflitti

prima della formazione degli stati moderni e dei sistemi di giustizia così come li

conosciamo e permane tuttora in alcune comunità africane, centro-americane o

neozelandesi. In queste comunità, così come nelle società arcaiche, la ricerca

antropologico-giuridica ha rilevato l’esistenza di modelli di soluzione dei conflitti

caratterizzati da informalità, coinvolgimento della comunità nella soluzione della

controversia, tentativo di favorire una soluzione consensuale del conflitto, interesse alla

ricostituzione dell’armonia sociale e orientamento del risultato alla comunità (Mannozzi in

Palazzo e Bartoli, 2011). Inoltre non bisogna dimenticare l’importanza della

riconciliazione nella tradizione veterotestamentaria ed evangelica che pervade tutte le

culture interessate dalla cultura ebraico-cristiana.

E’ proprio a partire da queste esperienze e tradizioni che è stato riscoperto in età moderna

il valore del paradigma riparativo in ambito penale. La giustizia riparativa, dunque,

costituisce una:

«forma pre-moderna ma non anti-moderna di soluzione delle controversie, [...] si colloca tra le esperienze di pre-diritto ma rappresenta anche l’ipotesi più convincente di meta-diritto (ponendosi come modalità di gestione dei conflitti nelle società postmoderne ad alta complessità[...])» (Mannozzi in Palazzo e Bartoli, 2011, p.29).

Ciò in virtù del fatto che la riconciliazione, se privata dei suoi retaggi arcaici e pensata in

chiave moderna e secolarizzata, valorizza la capacità della comunità sociale di risolvere

consensualmente i propri conflitti ed offre un metodo democratico per affrontare le

complesse dinamiche dei rapporti sociali nelle società attuali. (Mannozzi in Palazzo e

Bartoli, 2011).

A partire da questa convinzione, si è cominciato ad introdurre in campo penale i principi

conciliativi sopravvissuti dal passato e presenti in forme diverse in ciascuna cultura e a

-20-    

riprendere pratiche e tecniche utilizzate ancor oggi da alcune culture tribali africane o

aborigene. Non è un caso, infatti, che le prime forme moderne di giustizia riparativa siano

nate in quei territori (Nord America, Australia e Nuova Zelanda) in cui persistono ancor

oggi gruppi minoritari di nativi. In particolare, il primo caso registrato di restorative justice

moderna è quello di una mediazione reo-vittima realizzata nel 1974 ad Elmira, in Ontario

(Canada), nei confronti di due minori accusati di atti di vandalismo contro ventidue

persone. In quell’occasione, il giudice, insieme al probation officer5 e ad un volontario,

propose ai ragazzi una serie di incontri con ciascuna vittima, volti ad offrire la possibilità

di scusarsi e di accordarsi con loro sulle modalità di riparazione del danno.

La soddisfazione per la positività della sperimentazione indusse gli operatori a sviluppare

un progetto chiamato Victim Offender Reconciliation Program (VORP) da cui hanno preso

le mosse tutti i programmi di mediazione nati successivamente nel Nord America, in

Europa e nel resto del mondo. Sempre in Nord America negli anni ‘90 furono ripresi i

“sentencing circles” dei nativi americani, così come, invece, in Nuova Zelanda e Australia

furono riprese, dando vita alle “restorative group conferences”6, le modalità di risoluzione

del conflitto basate sul coinvolgimento della famiglia, tipiche della cultura Maori.

Ecco dunque che le pratiche riparative delle culture aborigene sono andate a delineare

quelli che attualmente costituiscono i tre modelli di sviluppo pratico dei principi riparativi:

la victim-offender mediation (VOM), le restorative group conferences ed i circles, che

costituiscono il focus di analisi di questo capitolo.

2.2 VICTIM OFFENDER MEDIATION (VOM)7

2.2.1 Elementi definitori La mediazione può essere definita, riprendendo le parole di Bonafè-Schmitt, come:

«un processo, il più delle volte informale, attraverso il quale una terza persona neutrale tenta, attraverso l’organizzazione di scambi tra le parti, di permettere ad esse di confrontare i propri punti di vista e di cercare, con l’aiuto del mediatore, una soluzione al conflitto che le oppone.» (Vezzadini, 2003, p.49)

                                                                                                               5 Pubblico ufficiale cui è affidato il controllo di chi è sottoposto a probation (regime di libertà vigilata o è in affidamento in prova ai servizi sociali.) 6 Si è scelto di non tradurre questi termini poiché riteniamo che la versione in lingua originale sia più efficace nel descrivere il concetto ad esso sotteso. 7 Nel testo questo modello verrà definito indifferentemente sia con il termine inglese (victim-offender mediation) che con quello italiano (mediazione reo-vittima).

-21-    

Costituisce, come si è visto, la prima esperienza di restorative justice moderna, nonché una

delle «manifestazioni più significative della giustizia riparativa» (Scardaccione, Baldry e

Scali, 1998, p .12), poiché, prevedendo l’incontro diretto tra il reo e la vittima, realizza

compiutamente i principi del coinvolgimento e del confronto tra le parti, così centrali nel

modello riparativo. La previsione di uno spazio di incontro tra le parti quale quello

mediativo diventa infatti necessaria nel momento in cui si arriva a concepire, grazie

all’approccio riparativo, il reato come evento relazionale e la vittima come soggetto da

coinvolgere e tutelare.

Partendo da questi presupposti, la mediazione si pone come obiettivo quello di mettere in

risalto gli aspetti relazionali del reato ed offrire un contenitore privilegiato per accogliere il

disordine generato dal conflitto (Morineau, 2000). Il dialogo e la comunicazione aperti (o

ri-aperti) grazie alla mediazione hanno, infatti, come fine quello di favorire l’espressione

diretta dei sentimenti connessi al reato, delle circostanze e motivazioni per cui si è

verificato, nonché delle conseguenze che ha comportato per l’una e l’altra parte. In questo

senso, la mediazione si presenta come una rara occasione di “recognition”, ossia di

riconoscimento dell’Altro, sia per la vittima che per il reo (Ciavola, 2010). Rispetto al reo,

soprattutto se minorenne, non si può far a meno di sottolineare quanto questa possibilità

diventi uno strumento di responsabilizzazione e, pertanto, di maturazione e crescita.

Citando Chiara Scivoletto:

«quale miglior forma di responsabilizzazione, allora, che non quella di trovarsi faccia a faccia con la persona a cui si è fatto un torto, a cui si è inflitto un dolore, provocato un danno? Quale miglior “predica” che non ascoltare le sue ragioni, le sue emozioni, le sue aspettative?» (2009, p.23)

Inoltre non bisogna dimenticare che, perché la mediazione possa aver luogo, è necessaria

una preliminare ammissione di responsabilità e quindi un certo grado di consapevolezza da

parte del minore rispetto al reato commesso, fattore che conferma l’effetto

responsabilizzante che la mediazione può determinare.

La mediazione, dunque, consente di perseguire l’obiettivo educativo in ambito minorile e,

allo stesso tempo, di favorire una più ampia partecipazione sociale e responsabilizzazione

delle parti, entrambe chiamate ad assumersi il compito, non certo semplice, di confrontarsi

con l’Altro e di decidere, in forma condivisa e partecipata, le possibili modalità di

risoluzione del conflitto. Nell’approccio riparativo, infatti, ed in particolare nella

mediazione, la potestà di gestire la controversia spetta alle parti, sia pure con l’ausilio di un

terzo (Scivoletto, 2009). In questo modo la mediazione riesce ad offrire la possibilità di

ricomporre i legami sociali e conseguentemente di realizzare una pacificazione sociale che

-22-    

derivi non da un ordine sovra-imposto bensì da un ordine costruito dai protagonisti.

La mediazione, ad ogni modo, prima di essere una misura di giustizia riparativa, è

anzitutto, come ci ricorda Bonafè-Schmitt, un “processo”, per il suo carattere dinamico, il

suo divenire attraverso una serie di eventi tra loro interconnessi ed ordinati in una sequenza

temporale (Vezzadini, 2003). Più precisamente, con l’espressione “processo di

mediazione” si intende sia l’attività dell’équipe di mediazione, ossia l’insieme delle azioni

compiute dai professionisti al fine di promuovere l’incontro tra le parti, sia «l’iter

“informale” e nel contempo “strutturato”, articolato in una serie di fasi o tappe che, pur

nella loro flessibilità, appaiono rigorose e sequenziali.»8 In quest’ultima accezione, si

possono individuare alcune fasi comuni e generalmente condivise, ovvero:

1) Invio/avvio. Il termine “invio/avvio” si riferisce al momento riservato

all’attivazione delle procedure che mirano a verificare la praticabilità della mediazione

per quella specifica situazione e a metterla in atto. Si noti come il termine “invio”

assuma una connotazione impositiva/autoritativa, richiamando così la realtà di molte

(ma non tutte) pratiche mediative in cui spetta all’Autorità Giudiziaria stabilire i casi

“candidati” alla mediazione. Poiché, tuttavia, non in tutti i contesti è presente questa

dimensione, si preferisce utilizzare il termine “avvio” che rimanda, più genericamente,

all’attivazione di tutte quelle misure ed azioni necessarie alla realizzazione della

mediazione.

2) Fase preliminare. La fase preliminare, propedeutica allo svolgimento dell’incontro

faccia a faccia, si articola a sua volta in due momenti. Il primo si caratterizza per

l’assenza di un contatto diretto con le parti e consiste nella cosiddetta “presa in

carico”, ossia nella fase di raccolta ed analisi, da parte del/dei mediatore/i, delle

informazioni relative alla dinamica del conflitto e al contesto in cui si è sviluppato, al

fine di verificare la praticabilità della mediazione. Il secondo momento, invece,

prevede la partecipazione delle parti, che vengono contattate (telefonicamente o per

lettera) dal mediatore ed invitate a colloqui preliminari separati, finalizzati alla

spiegazione del significato della mediazione e all’acquisizione del consenso a

partecipare a tale attività (Vezzadini, 2003). La funzione di raccolta del consenso delle

parti è quanto mai essenziale, poiché, come ricorda Agata Ciavola:

                                                                                                               8 Tratto dal glossario “Le parole della mediazione” consultabile sul sito del Ministero della Giustizia - Dipartimento di Giustizia Minorile al link http://www.giustiziaminorile.it/rsi/studi/Recenti/glossario_mediazione.pdf

-23-    

«si tratta di un requisito base, in mancanza del quale tali programmi non sono nemmeno pensabili, che permette di far interagire la mediazione [...] con le garanzie del giusto processo il cui obiettivo è l’accertamento della responsabilità dell’imputato. L’adesione volontaria del reo, infatti, può rendere legittima la rinuncia al processo. Essa giustifica una compressione del principio secondo cui per superare la presunzione di innocenza sono necessari degli accertamenti obiettivi. Il consenso, inoltre, autorizza la rinuncia al contraddittorio come metodo di accertamento dei fatti» (Ciavola, 2010 p.257).

Il consenso, inoltre, deve essere quanto più possibile libero e frutto di una scelta

consapevole, per la quale è fondamentale una reale comprensione di quanto

comporterà il percorso mediativo, anche in termini di rinuncia al procedimento

tradizionale, informazioni che devono essere fornite dai mediatori durante i colloqui

preliminari con le parti. Nella fase in oggetto, inoltre, può essere previsto un momento

dedicato ai genitori o ad altri stakeholder che si valuta importante coinvolgere nel

percorso.

3) Incontro faccia a faccia tra le parti. Rappresenta il cuore del processo di mediazione

e può realizzarsi anche tramite più colloqui. Oltre alle parti, vi partecipano uno o più

mediatori dell’équipe. In linea generale, il mediatore prende la parola per primo,

introducendo le regole del dialogo ed invitando successivamente le parti a parlare. Le

tecniche e gli strumenti utilizzati in tale fase, tuttavia, variano a seconda del modello

di riferimento che ispira l’operato del servizio o del mediatore. Al termine di questa

fase, generalmente, vengono formulate le diverse opzioni per la riparazione, a cui

seguiranno le considerazioni finali del mediatore ed, infine, l’eventuale accordo

riparativo sottoscritto da entrambe le parti.

4) Conclusione ed esiti. In senso tecnico, s’intende per conclusione il momento finale

del percorso di mediazione, in cui, se previsto durante la fase di avvio/invio, viene

inviato all’autorità giudiziaria l’esito della mediazione. Sotto un profilo lievemente

diverso, il termine conclusione indica più semplicemente il momento in cui si prende

atto della fine del percorso mediativo, che può intervenire anche in un momento

precedente a quello tecnicamente considerato conclusivo, ad esempio in rapporto al

grado di sostenibilità dell’impegno emotivo che il percorso mediativo comporta. La

conclusione non deve essere confusa con gli esiti della mediazione, che invece

rappresentano il “prodotto”, positivo o negativo, della mediazione, da valutare in

relazione agli obiettivi inizialmente prefissati. La valutazione della positività o meno

dell’esito apre, tuttavia, una serie di problematiche che accenniamo brevemente.

-24-    

Infatti, se si considera la mediazione come strategia per riattivare una comunicazione

interrotta ed auspicare la costruzione di relazioni costruttive, il fatto stesso che le parti

abbiano dato il proprio consenso a partecipare all’iter mediativo rende privo di

contenuto il concetto di esito. Secondo l’orientamento generale, tuttavia, si ritiene che

l’esito della mediazione possa considerarsi positivo quando le parti sono riuscite a

raggiungere un’intesa che sentono soddisfacente in riferimento ai rispettivi bisogni,

mediante il ripristino di una comunicazione efficace e funzionale9. In alcuni casi,

inoltre, l’iter mediativo conduce alla riconciliazione o ad un gesto riparatorio,

simbolico e/o materiale. Tra i due estremi opposti di riuscita o non riuscita di un

percorso di mediazione si collocano delle forme intermedie di esito: mediazione non

effettuata, quando nella fase preliminare emerge che le parti hanno già

autonomamente ricomposto il conflitto e/o entrambe non riconoscono la sussistenza di

un conflitto; mediazione “non fattibile”, riguardante quei casi in cui le parti non si

sono presentate alle convocazioni perché non rintracciate per la raccolta del consenso

o quando, anche in presenza di consenso, si ritiene che le persone o le motivazioni

espresse non siano idonee ad affrontare il percorso mediativo, o infine, quando, data la

natura del reato, sia concretamente complesso avviare un percorso di questo tipo.

Un ultimo cenno va riservato, infine, alla figura del mediatore. Quest’ultimo si può

definire come un soggetto terzo che, dopo averne valutato la fattibilità e dopo aver

acquisito il consenso delle parti, promuove e conduce il percorso di mediazione penale

minorile. Si parla di soggetto “terzo” in riferimento alla necessità che questi sia quanto più

possibile imparziale, curando che anche i suoi atteggiamenti non lascino trasparire

un’eventuale inconsapevole complicità con una delle parti. Tuttavia l’imparzialità non

deve tradursi in neutralità e distacco rispetto alle vicende della mediazione ed ai sentimenti

e vissuti delle parti. Deve, invece, connotarsi come “equivicinanza”, così che il mediatore

possa essere vicino in egual modo alle parti nel sollecitare il reciproco riconoscimento, nel

promuovere i presupposti per la ricostruzione della comunicazione, nel fornire assistenza

ai fini dell’individuazione di una base interpretativa comune rispetto al reato, che ne

consenta il superamento (Ciavola, 2010).

Il mediatore si caratterizza, inoltre, per l’essere privo di altra autorità oltre a quella che

liberamente le parti gli attribuiscono, elemento questo decisivo al fine di far sì che il

cambiamento nelle modalità di gestione del conflitto emerga effettivamente dalle capacità

                                                                                                               9 Tratto dal glossario “Le parole della mediazione” consultabile sul sito del Dipartimento di Giustizia Minorile.

-25-    

dei soggetti in mediazione, cioè dal basso. Per queste ragioni, si ritiene che la figura del

mediatore debba collocarsi, tendenzialmente, in una dimensione operativa indipendente,

cioè non sottoposta a controllo gerarchico da parte di alcuna autorità amministrativa, anche

nel caso in cui il mediatore appartenga alla Pubblica Amministrazione. Con questa finalità,

ad esempio, nel contesto francese la legislazione10 ha stabilito che chiunque ricopra una

qualunque carica giudiziaria non può perciò stesso assumere il ruolo di mediatore penale.

(Vezzadini, 2003) Il caso francese ci riporta ad un interrogativo ancora irrisolto, vale a dire

se il mediatore possa o meno essere un operatore della giustizia. Infatti,

«se, per un verso, un operatore appartenente al sistema della giustizia sarebbe in grado di garantire una competenza specifica rispetto al contesto che produce l’intervento, ma nel contempo potrebbe enfatizzarne la valenza valutativa e di controllo; per l’altro, un operatore estraneo all’ambito giudiziario potrebbe favorire una gestione meno “istituzionale” delle pratiche di mediazione [...].»(Ciavola, 2010, p. 275)

Ad ogni modo, l’orientamento teorico e pratico a questo proposito è piuttosto vario e

oggetto di numerosi dibattiti, che non è nostro interesse trattare qui. Inoltre, a livello

nazionale e locale si riscontra una notevole «eterogeneità rispetto alla fisionomia dei

mediatori che possono essere indifferentemente volontari dei servizi di assistenza alle

vittima, probation officers, operatori sociali, forze dell’ordine o magistrati…»

(Scardaccione, Bladry, Scali, 1998, p.149). Qualunque sia la professione o il ruolo svolto,

si è convinti, ad ogni modo, che, oltre a competenze specifiche da acquisire anche

attraverso un apposito programma formativo, il mediatore debba possedere un certo

corredo di doti umane, indispensabile per costruire relazioni basate sulla fiducia, la

chiarezza, la coerenza e la responsabilità. In altre parole, secondo molti, non sarebbe

possibile fare il mediatore senza, prima di tutto, essere un mediatore.

Tutte le caratteristiche qui evidenziate sono state declinate in questi anni in esperienze e

prassi di mediazione tra loro anche molto diverse che si ritiene importante descrivere qui di

seguito perché sia possibile comprendere in che modo, praticamente, la restorative justice

può trovare attuazione nei sistemi penali.

2.2.2 Prassi ed esperienze Come si è visto, la prima esperienza di mediazione reo-vittima in chiave moderna è stata

realizzata in Elmira, Canada, nel 1974. Da allora sono stati sviluppati oltre 1300

programmi di victim-offender mediation in più di venti nazioni, in particolare in Nord                                                                                                                10 A disciplinare il ruolo del mediatore nel contesto francese sono intervenute la Legge N. 95-125 dell’8 febbraio 1995 e la circolare del 18 ottobre 1996.

-26-    

America ed Europa, dove la VOM costituisce il più conosciuto e diffuso modello

riparativo (Umbreit e all. in Morris e Maxwell, 2003).

Rispetto al prototipo originario degli anni ‘70, pensato per reati minori e basato sulla

presenza di sole tre parti (reo, vittima e mediatore), i programmi di victim-offender

mediation che si sono sviluppati in seguito hanno indubbiamente subìto quella che Grazia

Mannozzi (in Palazzo e Bartoli, 2011) definisce una “dilatazione applicativa”. La VOM, ad

esempio, ha esteso la partecipazione al percorso mediativo anche ad altri soggetti, quali i

genitori e i co-mediatori e viene proposta anche per reati anche gravi e complessi. Un

esempio significativo di quanto, nel tempo, i programmi di mediazione si siano allontanati

dall’impianto originale è quello della “shuttle mediation”. Quest’ultima prevede, nei casi in

cui non sia possibile e praticabile far incontrare faccia a faccia reo e vittima, la possibilità

per le parti di comunicare indirettamente attraverso la figura del mediatore, inviandosi

lettere, filmati, registrazioni e quant’altro.

D’altra parte, è caratteristica peculiare della restorative justice (e quindi della mediazione)

quella di essersi posta, sin dall’inizio, come un approccio dotato di grande flessibilità e di

notevole duttilità operativa (Mannozzi in Palazzo e Bartoli, 2011). Infatti, pur in presenza

di una base filosofica comune, ogni area geografica, ogni Paese del mondo, ha sviluppato

la propria modalità di implementazione della mediazione, con modalità e caratteristiche

talvolta molto differenti, anche in relazione alle differenze tra i diversi modelli di

giurisdizione nazionali (Willemsens e Walgrave in Johnstone e Van Ness, 2007).

Per rendere comprensibile con maggior immediatezza tale varietà applicativa, si è scelto di

proporre, nella tabella sottostante, una schematizzazione di quelle che possono essere

individuate come principali differenze tra le prassi esistenti, organizzate secondo aree

“critiche” su cui non si è ancora giunti ad una visione condivisa e comune.

Le aree presentate nella tabella saranno poi descritte e spiegate nelle pagine successive,

fatto salvo per l’area relativa al mediatore poiché già trattata precedentemente.

-27-    

AREE CRITICHE DIFFERENZE APPLICATIVE 1) Rapporto con il procedimento

penale - Mediazione extra-giudiziale - Mediazione giudiziale

2) Posizione rispetto al processo - Pre-processuale - Processuale

3) Finalità della mediazione - Raggiungimento di un accordo riconciliativo/riparativo

- Incontro, riallacciamento dei canali comunicativi e dei legami sociali

4) Tipologia di reato - Solo reati minori contro la proprietà - Reati minori contro la proprietà e la persona

- Reati minori e reati gravi contro la persona

5) Mediatore Forze dell’ordine, volontari, magistrati, operatori sociali, membri della comunità, probation officers...

6) Persone che partecipano alla mediazione

- Solo reo e vittima; - Reo e vittima con relativi genitori (se minorenni);

- Reo, vittima e altri soggetti

7) Ente che offre la mediazione - Enti istituiti dallo Stato - Enti gestiti dal privato sociale - Enti privati convenzionati

Tabella 1

1) e 2) Rapporto con il processo e posizione rispetto al procedimento

Queste prime due aree critiche rimandano al più generale problema, in parte già accennato,

del rapporto tra misure di restorative justice ed il sistema processuale penale.Infatti,

benché si sia concordi nel sostenere che la giustizia riparativa può offrire modalità di

risposta efficaci ai bisogni di giustizia delle persone, molti autori, come si è visto, si

chiedono se possa costituire una radicale alternativa al sistema giudiziario esistente

(Ciavola, 2010).

C’è da notare, tuttavia, che la questione del rapporto mediazione-sistema processuale si

pone differentemente a seconda che ci si riferisca a Paesi aventi come modello di

ordinamento giuridico il sistema di Common law (i paesi anglosassoni) e quelli con il

sistema del Civil law (“romanistici”, propri dei Paesi dell’Europa continentale e, almeno

formalmente, dei paesi extra europei che non abbiano mai avuto rapporti coloniali con la

-28-    

Gran Bretagna) (Willemsens e Walgrave in Johnstone e Van Ness, 2007). Questi ultimi,

basati sulla centralità dei diritti codificati e sul principio di legalità, ben si differenziano dai

sistemi di Common law, fondati invece sui precedenti giurisprudenziali e sul principio di

opportunità. Questa radicale differenza fa sì che:

« all agents in the common law system - the police, prosecuting agencies, judges - have been given the opportunity to exercise broad discretionary power in deciding how to act in th “public interest” and in imposing measures they feel are most appropriate in response to crime committed. This is not the case in civil law countries, where the legality principle prevails, obliging the police, for example, to inform the public prosecutor about all cases.»(Willemsens e Walgrave in Johnstone e Van Ness, 2007, p.494)

In altri termini, nei sistemi di Common Law, i diversi soggetti sopraindicati, hanno facoltà

di scegliere, prima ancora di segnalare il caso all’Autorità Giudiziaria, se proporre alcune

misure che, qualora portate a termine con successo, possono evitare del tutto l’avvio del

procedimento penale (Willemsens e Walgrave in Johnstone e Van Ness, 2007). Tali misure

sono generalmente indicate con il termine “diversion” e possono essere definite come:

«istituti in cui è dato all’imputato il potere di deviare il corso del processo verso un epilogo anomalo, rispetto agli schemi consueti in materia penale, prima della pronuncia sulla imputazione. L’idea alla base della diversion è che lo Stato può rinunciare alla propria pretesa punitiva allorché lo scopo del processo è raggiunto seguendo una strada diversa da quella che conduce alla punizione del colpevole mediante l’applicazione di una sanzione penale.» (Ciavola, 2010, p. 40)

Vengono utilizzate, generalmente, per minorenni al loro primo reato o che sono accusati di

atti criminosi non troppo gravi, per i quali è minimo l’interesse dello Stato alla tutela dei

suoi cittadini e pertanto non si ritiene necessario un inserimento nel tradizionale circuito

penale (Miers in Johnstone e Van Ness, 2007). Gli istituti di diversion hanno, quindi, il

duplice vantaggio di:

- consentire una riduzione del carico giudiziario, evitando il pericolo della

“ipercriminalizzazione” e superando la cosiddetta «“crisi della sanzione penale”

rendendo possibile il ricorso a reazioni appropriate alla specificità dei fatti criminosi

quando le pene sono considerate misure inadeguate» (Ciavola, 2010, p.40).

- svolgere una funzione riabilitativa, educativa, nonché offrire un’occasione per il

giovane reo di riflettere sul reato commesso e di impegnarsi per una riparazione del

danno, evitando al minore il trauma legato al processo.

-29-    

Le misure di diversion nel modelli anglosassoni hanno negli ultimi anni accolto e

assimilato i principi della restorative justice ed in particolare l’importanza del

coinvolgimento delle vittime, arrivando spesso a qualificarsi come vere e proprie pratiche

mediative. Chiaramente non tutte le misure di diversion sono mediazioni: esistono, ad

esempio, i cosiddetti “warnings” o “cautions”, ossia degli avvertimenti con cui le forze

dell’ordine “richiamano” i ragazzi al rispetto delle norme, senza tuttavia dar luogo al

procedimento penale, nonché programmi di semplice risarcimento o riparazione del danno

alla vittima o alla comunità tramite lavori socialmente utili (Dignan in Johnstone e Van

Ness, 2007). In altri casi, invece, si veda ad esempio la sperimentazione britannica della

“Thames Valley Police”, i warnings assumono la forma di incontri mediativi che

prevedono la partecipazione del reo e della sua famiglia, della vittima e talvolta anche di

membri della comunità (Miers in Johnstone e Van Ness, 2007).

Si noti come in queste misure sia centrale il ruolo dei funzionari delle forze dell’ordine, sia

rispetto alla scelta di proporre o meno queste misure, sia rispetto al fatto che, molto spesso,

sono proprio questi soggetti ad occuparsi della conduzione degli incontri mediativi

proposti. Il fine di questa scelta è quello di «‘empower’ police officers to deal effectively

with young people, and ensure that young people involved in low-level offending

behaviour received rapid intervention» (Dutton e Whyte, CISW Briefing n° 8, 2006). Un

esempio particolare a questo proposito è quello di Glasgow (Scozia). Qui, in ogni divisione

delle forze dell’ordine è stata introdotta la figura del police allocator, un agente delle forze

dell’ordine incaricato di individuare le situazione per cui possono essere proposte misure

di restorative justice, nonché di condurre i restorative warnings (analoghi a quelli inglese)

e di partecipare ai restorative programme. Questi ultimi consistono in incontri settimanali

in gruppo per ragazzi denunciati, nei quali le forze dell’ordine e altre agenzie del territorio

propongono ai ragazzi una “community challenge”, un impegno a livello comunitario, «to

enhance local communities; and, to be recognised as a valuable contribution by young

people to the community» (Ibidem).

I sistemi di Common Law, dunque, consentono una maggiore flessibilità rispetto

all’introduzione di nuove prassi, non solo all’interno del sistema penale ma soprattutto al

di fuori del tradizionale processo penale, vale a dire in un contesto che non prevede ancora

l’intervento dell’Autorità Giudiziaria (Willemsens e Walgrave in Johnstone e Van Ness,

2007). Ciò non significa, ad ogni modo, che la mediazione nei sistemi a Common Law sia

solo extragiudiziale: la victim-offender mediation trova un suo utilizzo anche all’interno

del processo penale (Vezzadini, 2003). Tuttavia è parso importante evidenziare la

-30-    

dimensione di diversion poiché costituisce una peculiarità del contesto anglosassone, non

riscontrabile nei sistemi a Civil Law.

Infatti, come si è visto, in questi sistemi la rigidità delle procedure se da un lato riesce forse

a garantire più efficacemente alcuni diritti e tutele, dall’altro ha impedito lo sviluppo di

pratiche riparative extragiudiziali (Willemsens e Walgrave in Johstone e Van Ness, 2007).

In questi contesti, infatti, la mediazione si è sviluppata come una “terza via”, da affiancare

ai percorsi classici della detenzione e della pena pecuniaria, ma comunque inserita nel

procedimento penale (Vezzadini, 2003). All’interno del procedimento, la mediazione, in

questo caso definita “giudiziale”, può trovare applicazione in due momenti:

- in fase pre-processuale, ossia nella fase che inizia nel momento in cui l’Autorità

Giudiziaria riceve la notizia di reato e termina con all’esercizio dell’azione penale11 da

parte della stessa Autorità. In questa fase al Procuratore spetta il compito di stabilire,

sulla base delle indagini preliminari, se esistano o meno elementi idonei a sostenere

l’accusa (e in tal caso l’azione penale si esplica con il rinvio a giudizio) o se, invece, il

caso debba essere archiviato. Vi è da notare che in alcuni Paesi, quali l’Italia ma anche,

ad esempio, l’Austria, l’ordinamento prevede l’obbligo di esercizio dell’azione penale

per il Procuratore, il quale, qualora sia convinto della colpevolezza del reo, ha sempre il

dovere di rinviare il caso a giudizio. La presenza di suddetto obbligo comporta una serie

di risvolti significativi anche sull’esito del percorso mediativo, come avremo modo di

spiegare fra poco. Intanto, però, c’è da dire che, analizzando le prassi correnti in paesi

europei quali Norvegia, Francia, Germania ed Austria12, si osserva come la mediazione

sia ampiamente riconosciuta a livello legislativo e disciplinata da norme che definiscono

anzitutto i reati per cui può essere proposta la mediazione (quasi sempre reati di lieve

entità) e attribuiscono altresì al Procuratore il compito di valutare caso per caso

l’opportunità di un percorso mediativo, nonché di attivare la mediazione segnalando il

caso ai servizi presenti sul territorio. Scopo precipuo della mediazione in questa fase è,

accanto alla finalità generali degli approcci riparativi, quello di snellire il carico

giudiziario. Analogamente a quanto descritto prima rispetto alle misure di diversion

inglesi, infatti, un buon esito del percorso mediativo realizzato in questa fase può

comportare la chiusura del caso, evitando, pertanto, il processo vero e proprio. Le                                                                                                                11 Per azione penale si intende l'azione con la quale viene realizzata la pretesa punitiva pubblica che sorge a seguito della commissione di un reato, che può concludersi o con il rinvio a giudizio, oppure con una richiesta di archiviazione del caso. 12 Informazioni tratte da: La mediazione penale minorile in Norvegia di S. Kemeny, La mediazione penale minorile in Francia di M. Guillaume-Hofnung, nel settore “Studi, ricerche e attività internazionali” del sito del Dipartimento di Giustizia Minorile, nonché dal testo “La mediazione nel sistema penale minorile” a cura di Lorenzo Picotti.

-31-    

normative di questi Stati, infatti, prevedono che il Procuratore, sulla base della

valutazione della mediazione inviata loro dai servizi, possa dichiarare estinto il reato in

caso di esito positivo. Ciò, a ben vedere, varrebbe solo nei contesti in cui non vige

l’obbligo di azione penale, poiché in caso contrario il Procuratore sarebbe, in nome di

quel principio, tenuto a proseguire l’azione anche di fronte ad una mediazione riuscita.

Ad ogni modo, e ne è dimostrazione il caso austriaco, anche in questo caso è possibile

dar valore giuridico agli esiti della mediazione, prevedere degli spazi di mediazione, ad

esempio stabilendo per legge che, in alcuni specifici casi e con le modalità previste dalle

norme, lo Stato rinunci ad esercitare l’azione penale rimandando la questione alle parti.

- in fase processuale, ossia dopo il rinvio a giudizio e, generalmente, dopo la sentenza di

condanna. Qui la mediazione può essere proposta come soluzione autonoma, affiancata

alla pena tradizionale, oppure come misura all’interno delle prescrizioni previste per il

periodo di probation13. Il fine, in questo caso, non essendo più quello di “dirottare” la

risoluzione del conflitto al di fuori del sistema processuale, rimane quello del

soddisfacimento dei bisogni della vittima e di responsabilizzazione e ri-socializzazione

del reo, attraverso la predisposizione di misure alternative alla detenzione. Relativamente

alla giustizia minorile si fa qui un brevissimo cenno (in attesa di riprendere il tema nel

capitolo seguente) all’esistenza di un’altra misura di probation, tipica del procedimento

penale minorile, ossia la cosiddetta messa alla prova. Questa, a differenza della probation

così come generalmente intesa, prevede non la sospensione della pena bensì, ancor

prima, quella del processo, per un periodo di tempo finalizzato all’approfondimento della

personalità del minorenne, con l’obbligo, per quest’ultimo, di partecipare a determinate

attività, spesso anche riparativo-riconciliative.

3) Finalità della mediazione

La varietà ed eterogeneità dei modelli attuativi di mediazione riguarda indubbiamente

anche l’aspetto della finalità e degli obiettivi che ci si pone con questa misura di

restorative justice. In particolare, la mediazione può essere più o meno orientata alla

riparazione materiale del danno e più o meno finalizzata all’espressione della dimensione

di dolore e sofferenza generata dal reato. I due aspetti sono generalmente interconnessi tra                                                                                                                13 Misura alternativa offerta dall’Autorità Giudiziaria che, ritenendo la detenzione inappropriata per quel caso per la prevalenza dei suoi aspetti negativi di stigmatizzazione e di deterioramento rispetto alla previsione dei suoi risultati positivi, evita la condanna alla detenzione [...] lasciando il soggetto in libertà "sub condicione" del rispetto di determinate prescrizioni, con il controllo e l’aiuto di personale specializzato (Pedrinazzi, 2002).

-32-    

loro, nella misura in cui privilegiando il primo si è portati a sacrificare il secondo e

viceversa. Avere come finalità un’attivazione pratica del reo per la riparazione del danno

significa, infatti, dedicare ampio spazio alla decisione condivisa e contrattata delle azioni

riparative da intraprendere, aspetto che diventa invece secondario in quelle situazioni in cui

la mediazione vuole essere uno spazio unico e prezioso di emozioni e sentimenti dolorosi.

Un importante esempio a questo proposito è il modello di mediazione umanistica

teorizzato da Jacqueline Morineau. Partendo dalla visione del reato quale evento che

genera un vuoto, un muro comunicativo e che richiede un profondo processo katarsi

(purificazione) e di riavvicinamento, questo modello propone una mediazione centrata

sulla riattivazione di un processo comunicativo tra le parti, sulla condivisione di emozioni

e sentimenti e sulla comprensione del vissuto dell’Altro. E’ un percorso molto impegnativo

dal punto di vista emotivo e relazionale, in particolar modo laddove il reato abbia generato

una profonda lacerazione tra le parti, e non ha come fine quello di portare il reo a riparare

il danno causato alla vittima. La riparazione, quando presente, è infatti un esito spontaneo

del processo comunicativo e di scambio tra le parti e non il focus dell’incontro.

Diverse situazioni e differenti letture della realtà possono far propendere più per l’una o

l’altra dimensione. Quello che, a mio parere, è importante ricordare è che, ogniqualvolta si

intenda dar vita a nuovi programmi di VOM, è bene aver deciso ed avere in mente quali

siano le finalità e gli obiettivi che ci si pone, così come dovrebbe accadere per ogni buona

progettazione. Di fronte ad un universo di possibili declinazioni pratiche di questo

modello, infatti, è quanto mai importante avere un chiaro punto di riferimento che orienti

le scelte in merito agli aspetti organizzativi e pratici, così da dar vita a programmi coerenti

e funzionali.

4) Tipologia di reato

I reati si possono distinguere in reati contro il patrimonio o contro la persona, bagatellari14

o gravi. Generalmente si ritiene, in linea di principio, che non esistano limiti alla

mediazione, ossia che tutti i reati siano “mediabili” e che dipenda dalla situazione

specifica, dalle caratteristiche delle persone, la fattibilità e la sosteniblità o meno di tale

percorso. Ad ogni modo, può essere importante individuare dei criteri di selezione dei casi,

ad esempio in relazione agli obiettivi che ci si pone con il percorso mediativo, nonché alla

fase processuale in cui verrà attuato.                                                                                                                14 Di lieve entità, con pene non detentive o detentive inferiori a un certo numero di anni (in Italia inferiore ai 2 anni)

-33-    

Le misure di diversion anglosassoni, ad esempio, vengono proposte esclusivamente in

presenza di reati bagatellari e generalmente contro il patrimonio, perché in presenza di

reati gravi contro una persona si ritiene necessario avviare il procedimento e garantire tutte

le tutele che il sistema giudiziario offre. In Francia, invece, vengono inviati a mediazione

soprattutto i reati contro la persona ed in particolare quelli in cui reo e vittima si

conoscevano anche prima del reato, poiché ci si pone come fine quello proposto con il

modello umanistico e, pertanto, si ritiene che la mediazione possa dare risultati migliori

proprio in questi casi (Vezzadini, 2003).

In linea generale, quindi, mentre non esistono limitazioni rispetto ai reati bagatellari (per

cui la mediazione viene proposta già in fase extragiudiziale), per i reati più gravi si ritiene

necessario osservare alcune cautele, a tutela in particolar modo della vittima, e garantire

che vengano “mediati” solo dopo l’avvio del procedimento. Eccezion fatta per questi

aspetti, come si è visto, la mediazione può essere proposta per qualsiasi reato che abbia una

vittima rintracciabile e disponibile al percorso, nonché un reo che ammetta almeno

parzialmente la propria responsabilità.

6) Persone che partecipano alla mediazione

Come si è detto, i programmi originari di victim-offender mediation prevedevano la

partecipazione delle sole due parti dirette (reo e vittima), con la presenza del mediatore. In

alcuni contesti è tuttora così, in altri si sono attuate sperimentazioni volte a includere

sempre più soggetti, in primo luogo i genitori del reo, nonché eventualmente della vittima

se minorenne.

A questo proposito, già in precedenza si è fatto riferimento al caso scozzese, ed in

particolare ai restorative programs, in cui vengono invitati anche soggetti della comunità.

Analogamente, anche in Inghilterra nella sperimentazione della Thames Valley Police, è

prevista la possibilità di realizzare delle “restorative conferences” che prevedono la

partecipazione di persone a supporto delle parti, o delle “community conferences” in cui

possono intervenire anche membri della comunità. L’idea è quella di avvicinare la

mediazione alle restorative group conferences, di cui si parlerà più avanti, e di consentire

in questo modo un maggior coinvolgimento della comunità, come peraltro auspicato dai

teorici della restorative justice.

7) Ente che offre la mediazione

Le esperienze di mediazione si diversificano, in ultimo, anche a seconda delle modalità con

cui sono emerse, vale a dire o secondo modelli top-down (mediazione proposta dalle

-34-    

istituzioni) oppure secondo modelli di senso inverso (bottom up) nei casi in cui la VOM sia

stata introdotta e sperimentata anzitutto a livello volontaristico e locale (Mannozzi in

Palazzo e Bartoli, 2011). Da questo, infatti, dipende in buona misura anche la tipologia di

servizi ed enti che offrono percorso di mediazione e la loro posizione rispetto agli

organismi giuridici. In alcuni contesti, infatti, i servizi di mediazione sono interamente

gestiti e finanziati dallo Stato, in altri lo Stato delega ad alcuni soggetti l’erogazione del

servizio ed in altri ancora la mediazione è offerta volontaristicamente da enti del Privato

Sociale riconosciuti dalle istituzioni. Per meglio comprendere questa differenziazione si

riportano qui tre esperienze (norvegese, francese e statunitense) che si ritengono

paradigmatiche.

In Norvegia15 è presente da più di vent’anni un Servizio di Mediazione e Conciliazione

nazionale, gestito a livello centrale ma offerto da Servizi di Mediazione locali istituiti dalle

municipalità singolarmente o in forma associata. Il Servizio centrale ha la responsabilità

tecnica ed amministrativa dei servizi locali di mediazione e risponde alle direttive del

Ministero di Giustizia; ha compiti di controllo, supervisione, implementazione dei servizi

ed organizzazione della formazione per i mediatori, nonché di intermediazione tra i servizi

locali e l’amministrazione centrale.

In Francia16si possono, invece, individuare due tipologie di mediazione: “delegata” e “non

delegata”. La prima è così chiamata poiché fa riferimento alla scelta, da parte delle

Procure, di delegare il servizio di mediazione alle “Associazioni di aiuto alle vittime e di

controllo giudiziario” in riconoscimento dell’importanza del ruolo svolto da questi soggetti

nella tutela delle vittime e nell’offerta di servizi mediativi sia nei primi anni di

sperimentazione della pratica, sia ancora nel contesto attuale. Accanto a questi servizi

troviamo le “Maison de justice e du droit”, create invece su impulso della Procura stessa

(da cui dipendono) per offrire supporto ai servizi e alle associazioni del territorio e per

offrire un luogo “terzo”, esterno alla sede giudiziaria, in cui attuare progetti di mediazione.

Le Maison de justice e du droit, quindi, svolgono funzione partenariale rispetto

all’Autorità Giudiziaria e sono disciplinate da circolari e leggi che ne definiscono i

compiti, nonché le modalità di organizzazione e funzionamento e di erogazione del

servizio. E’ interessante notare come le Maison de justice e du droit siano collocate

all’interno dei quartieri, spesso nelle aree più svantaggiate e degradate, cercando di offrire,

                                                                                                               15 Informazioni tratte da “La mediazione penale minorile in Norvegia” di Siri Kemeny, nel settore “Studi, ricerche e attività internazionali” del sito del Dipartimento di Giustizia Minorile, 16 Informazioni tratte da: La mediazione penale minorile in Francia di M. Guillaume-Hofnung, nel settore “Studi, ricerche e attività internazionali” del sito del Dipartimento di Giustizia Minorile

-35-    

accanto ai servizi di mediazione, anche attività di prevenzione del crimine mediante la

gestione dei conflitti a livello territoriale (Vezzadini, 2003)

Infine, parlando degli Stati Uniti (e in generale del Nord America), possiamo individuare

un altro modello di sviluppo e diffusione delle mediazione, centrato prevalentemente su

contributi a livello comunitario. Vi è da notare, infatti, che molte delle prime esperienze

furono basate su un approccio di tipo comunitario (Van Ness, 2007) poiché organizzate ed

offerte da agenzie private, spesso di ordine religioso. Ancor oggi, in effetti, la maggior

parte dei programmi di mediazione vengono offerti da agenzie private o, spesso, da

parrocchie (Vezzadini, 2003).

Ad ogni modo, negli ultimi anni anche i diversi governi degli Stati degli USA hanno

cominciato a promuovere programmi di mediazione e istituire servizi specifici. E d’altra

parte non sarebbe potuto accadere diversamente, dal momento che ormai anche a livello

internazionale si è intervenuti sostenendo l’importanza di garantire programmi di

restorative justice all’interno delle singole legislazioni nazionali.

2.2.3 Linee guida internazionali sulla mediazione La legislazione europea ed internazionale da molti anni auspica l’introduzione della

mediazione nelle legislazioni nazionali, sia quale strumento per la tutela dei diritti e

dell’interesse della vittima del reato, sia al fine di permettere agli autori di reato di

assumere le proprie responsabilità e quindi favorire la loro reintegrazione sociale.

Tra le fonti principali vanno menzionate anzitutto le Raccomandazioni n.(85)11 del

28/06/1985 e n.(87)21 del 17/11/1987 del Consiglio d’Europa17, riguardanti la posizione

delle vittime e la loro assistenza nel processo penale. Tali documenti raccomandano agli

Stati di adottare a livello legislativo e operativo una serie di misure a tutela della vittima, in

tute le fasi del procedimento ed invitano i governi a prendere atto dei vantaggi che possono

presentare i sistemi di mediazione e di conciliazione e di promuovere ed incoraggiare le

ricerche sull'efficacia delle disposizioni concernenti le vittime.

A tutela, invece, della posizione del reo, intervengono altre disposizioni ed in particolare la

Risoluzione sulla "Cooperazione internazionale tesa alla riduzione del sovraffollamento

delle prigioni ed alla promozione di pene alternative" (Economic and social Council delle

Nazioni Unite n. 1998/23 del 28/07/1998), che, preso atto del sovraffollamento delle

carceri e della difficoltà del lavoro degli operatori, raccomanda agli Stati membri di

                                                                                                               17 Le informazioni relative alla normativa sono tratte da “Giustizia riparativa e mediazione penale: le disposizioni comunitarie e internazionali (dall'articolo "Verso la giustizia riparativa", in Mediares - Semestrale sulla mediazione, n. 3/2004)” reperito sul sito del Ministero della Giustizia.

-36-    

ricorrere allo sviluppo di forme di pena non custodiali e, se possibile, a soluzioni

amichevoli dei conflitti di minore gravità, attraverso l'uso della mediazione, l'accettazione

di forme di riparazione civilistiche o accordi di reintegrazione economica in favore della

vittima con parte del reddito del reo o compensazione con lavori espletati dal reo in favore

della vittima stessa. A livello minorile si possono poi citare alcune fonti specifiche, quali le

Regole minime per l’Amministrazione della giustizia minorile date a Bejing il 29

novembre 1985 dall’Assemblea plenaria delle Nazioni Unite, che affermano la necessità

del ricorso a mezzi extragiudiziari in qualsiasi stato e grado del procedimento per evitare le

conseguenze negative di una procedura giudiziaria ordinaria e conseguentemente la

necessità di indirizzare il minorenne verso risposte al reato di tipo restitutivo/riparativo.

Tale indicazione è stata poi specificamente confermata dall’art. 40 comma 3 lett.b della

Convenzione sui diritti del fanciullo (New York, 20 novembre 1989) e dalla

Raccomandazione n.(87) 20 “Risposte sociali alla delinquenza minorile”, data dal

Consiglio d’Europa il 17 settembre 1987, che incoraggia lo sviluppo di procedure di

diversion e di mediazione da parte dell’organo che esercita l’azione penale, al fine di

evitare ai minori la presa in carico da parte del sistema della giustizia penale e le

conseguenze che ne derivano.

Altre normative internazionali, invece, si concentrano sulla definizione dei principi base da

seguire per l’introduzione e lo sviluppo di prassi mediative e riparative sui territori

nazionali. A questo proposito ricordiamo, ad esempio, la Raccomandazione n. (99)19 del

15/09/1999 del Consiglio d'Europa, che invita gli Stati membri a tenere presente i principi

contenuti nell'appendice, ossia: i principi generali in tema di mediazione, le regole che

devono disciplinare l'attività degli organi della giustizia penale in relazione alla

mediazione, gli standard da rispettare per l'attività dei servizi di mediazione, le indicazioni

sulla qualifica dei mediatori e sulla loro formazione, il trattamento dei casi individuali, gli

esiti della mediazione, nonché le attività di ricerca e valutazione che gli Stati membri

dovrebbero promuovere sulla materia. Simili principi sono stati poi riconfermati con la

Risoluzione sui principi base sull'uso dei programmi di giustizia riparativa in materia

criminale (Economic and Social Council delle Nazioni Unite n. 2000/14 del 27/07/2000)

che individua uno schema preliminare di dichiarazione dei principi base per l'uso dei

programmi di giustizia riparativa in ambito criminale, da sottoporre all'attenzione degli

Stati membri, delle organizzazioni intergovernative e non governative più rilevanti, nonché

agli organismi della rete delle Nazioni Unite che si occupano di prevenzione del crimine e

dei programmi di giustizia penale, al fine di definire principi comuni sulla materia. Ad

-37-    

ogni modo, come ricorda la “Risoluzione sui Principi base circa l'applicazione di

programmi di giustizia riparativa nell'ambito penale” (Economic and Social Council delle

Nazioni Unite n. 15/2002), le indicazioni stabilite a livello internazionale non possono

essere obbligatorie e rigide dovendosi adattare al sistema penale dei vari Stati.

La flessibilità nelle modalità attuative non significa, tuttavia, discrezionalità nello scegliere

se introdurre prassi di giustizia riparativa. Non si dimentichi, infatti, che avendo

sottoscritto alcuni importanti documenti internazionali, prima fra tutte la Dichiarazione di

Vienna su criminalità e giustizia (X Congresso delle Nazioni Unite sulla Prevenzione del

crimine e il trattamento dei detenuti - Vienna 10-17 aprile 2000), gli Stati membri si sono

assunti l’impegno di introdurre adeguati programmi di assistenza alle vittime del crimine, a

livello nazionale, regionale, ed internazionale, tra cui anche e soprattutto programmi di

mediazione e giustizia riparativa.

Implementare misure riparative a livello nazionale, dunque, non è solo funzionale alla

tutela delle vittime e ad un miglior funzionamento dei sistemi penali, è anche un obbligo

che i governi si sono assunti di fronte alla comunità internazionale e che dovranno essere

rispettati sviluppando nuovi programmi di restorative justice. Tra questi, oltre alla

mediazione di cui si è ampiamente parlato, possono trovare spazio anche gli altri due

modelli di giustizia riparativa citati a inizio capitolo, vale a dire quello delle restorative

group conferences e dei circles.

2.3 RESTORATIVE GROUP CONFERENCES Le “restorative group conferences” (RGC) sono un modello riparativo di incontro tra le

parti utilizzato specificamente in campo penale ed inserito nel più ampio alveo delle

“family group decision making”. Queste ultime sono nate, perlomeno in chiave moderna,

in Nuova Zelanda verso la fine degli anni ’80 come tentativo di offrire una risposta più

efficace ed adeguata al disagio e alla delinquenza minorile dei ragazzi appartenenti alle

famiglie di origine Maori (Johnstone e Van Ness, 2007). Da un lato, infatti, questi minori

erano sovra-rappresentati nel sistema penale, dall’altro emergevano numerose pressioni,

anche a livello politico, volte ad “indigenizzare” il sistema legale (McCold in Maxwell e

Morris, 2003) così da offrire risposte al crimine più rispettose della cultura Maori.

Nell’impostazione ed organizzazione dei sistemi di giustizia neozelandesi, infatti, non

erano mai (fino ad allora) state prese in considerazione le modalità di risposta tradizionali

-38-    

della cultura Maori, che prevedevano un ruolo centrale della famiglia18 e nella risoluzione

dei conflitti. Di fronte a queste pressioni, dunque, nel 1989 fu emanato il “Children, Young

persons and families Act” con il quale per la prima volta si cercò di valorizzare il ruolo e la

responsabilità dei gruppi familiari nelle decisioni sui ragazzi accusati di reato, ponendoli

come elementi centrali di un nuovo modello di gestione dei processi penali minorili.

Le restorative group conferences, dunque, pur partendo dallo schema precedentemente

esposto di incontro reo-vittima, sono pensate per coinvolgere direttamente la “famiglia”

(con le caratteristiche descritte in nota) del minore accusato di reato nel processo di

incontro e riconciliazione delle parti, nonché nell’individuazione di una risposta quanto più

appropriata al reato (Maxwell e Morris, 2003). In altri termini, nelle restorative group

conferences i componenti della famiglia non si limitano a presenziare all’incontro, ma

assumono un ruolo attivo nella diramazione del conflitto e nell’individuazione,

concordemente con la vittima, di un progetto riconciliativo/riparativo. Più concretamente,

le restorative group conferences si sviluppano secondo il seguente schema:

- le forze dell’ordine (analogamente a quanto visto per la mediazione come diversion) o

il Tribunale per i Minorenni invia il caso allo youth justice coordinator, dipendente

del Department of Social Welfare, deputato all’organizzazione pratica (tempi e

luoghi) della conference nonché facilitatore della stessa;

- vengono contattate le parti, tra cui il minore che ha commesso il reato, la famiglia del

ragazzo, la vittima, persone a sostegno e supporto della vittima, l’avvocato minorile e

altre persone che la famiglia desidera siano presenti;

- ogni parte coinvolta viene preparata singolarmente dal facilitatore al percorso di

restorative conference in quelli che vengono definiti incontri preliminari;

- la conference inizia generalmente con un primo momento introduttivo, in cui il

facilitatore descrive il reato e il minore può ammettere o negare la la propria

colpevolezza. Compito del facilitatore, analogamente a quanto descritto per il

mediatore nella VOM, è di favorire la comunicazione e gli scambi tra le parti, gestire

le dinamiche ed assicurarsi che ciascuno dei partecipanti abbia lo spazio per esprimere

il proprio punto di vista. Se il minore imputato non nega il reato, la conference

prosegue con uno spazio dedicato alla descrizione da parte della vittima del danno

causato dal reato nonché all’esposizione dei diversi punti di vista dei partecipanti;

- al termine di questa fase la famiglia si ritira in disparte e autonomamente elabora un

                                                                                                               18 L’idea di famiglia abbracciata dal modello è ampia: ricomprende oltre al minore, ai genitori e ai parenti, amici, i colleghi, i vicini di casa e altre persone (insegnanti, allenatori...) significative che potrebbero aiutarli  

-39-    

progetto riparativo, che viene poi presentato alla vittima ed agli altri partecipanti per

essere discusso, modificato ed infine (con il consenso di tutti) approvato. I progetti

generalmente includono le scuse alla vittima, alcune misure volte a riparare il danno,

il lavoro socialmente utile nella comunità (se possibile collegato al reato) e/o un invio

ad un appropriato programma riabilitativo/di reinserimento per il ragazzo e la sua

famiglia.

Le RGC si sono progressivamente diffuse in Australia, Canada, Stati Uniti, Gran Bretagna

e nel resto del mondo. In Australia, in particolare, questo prototipo è stato proposto in una

forma per certi versi diversa e particolare nella città di Wagga Wagga, prevedendo che a

condurre la restorative group conference non sia lo youth justice coordinator, bensì da un

funzionario delle forze dell’ordine e che i partecipanti rimangano insieme per tutta la

durata della conference, vale a dire anche nel momento in cui solitamente le famiglie

singolarmente decidono il progetto.

Infine, le restorative group conferences sono utilizzate sia durante il processo che in fase

extragiudiziale come forma di diversion ma anche come semplice misura di preventiva in

quelle situazioni in cui i minorenni mettono in atto comportamenti devianti o antisociali

che non necessariamente vengono denunciati a determinando l’apertura di un

procedimento penale. In queste casi, la finalità propria della conference è quella di riuscire

ad elaborare un progetto che valga come una sorta di contratto di comportamento a

sostegno del ragazzo in difficoltà per aiutarlo ad acquisire una modalità di stare in

relazione alle persone differente.

2.4 CIRCLES

I circles sono stati per la prima volta introdotti come modalità di risposta al crimine in

Nord America a partire dalla tradizione dei nativi americani, nelle cui culture era usanza

ricorrere alla comunità per ripristinare la pace sociale che il reato aveva danneggiato (Raye

e Roberts in Johnstone e Van Ness, 2007). Un esempio di utilizzo dei circles riguarda la

cultura Navajo (Arizona). Qui il leader di comunità, su richiesta della vittima, organizza un

incontro comunitario volto a facilitare un processo di peace-making che coinvolge i

familiari e i membri dei clan della vittima e del reo. (McCold in Maxwell e Morris, 2003)

Come nel caso della mediazione e delle conferences, la vittima ha la possibilità di

raccontare l’esperienza del reato ed il reo le motivazioni che l’hanno spinto a trasgredire.

Nei circles, tuttavia, anche tutti gli altri partecipanti possono esprimere i propri sentimenti

rispetto al reato e richiedere che venga fatto qualcosa nello specifico per porvi rimedio.

-40-    

Generalmente le persone più vicine al reo (familiari, vicini..) offrono le proprie scuse e la

loro contrarietà al gesto ed il facilitatore, o peace-maker, non è un terzo neutrale, bensì il

leader della comunità. Questi parla a ciascuna delle parti, attingendo alle tradizioni e alle

storie della cultura per offrire consigli pratici. Dopo il suo intervento, le parti ritornano a

discutere sulla natura del problema e arrivando a stabilire insieme le modalità per

risolverlo. Il risarcimento generalmente ha valore prevalentemente simbolico, nella

convinzione che sia più importante “curare” i sentimenti e le relazioni delle persone

piuttosto che stabilire un pagamento adeguato e proporzionato. La centralità del clan si

manifesta anche nell’aiuto offerto da quest’ultimo qualora il reo non abbia sufficienti

risorse per risarcire la vittima. D’altra parte, il reato ha portato vergogna su tutto il clan, il

quale, pertanto ha un proprio interesse nel risanare il danno e nell’assicurarsi che la

persona non commetta più reati. Si noti che attraverso il rituale del circle vengono

affrontati reati gravi quali omicidi e reati di violenza domestica.

Il primo utilizzo dei circles nel sistema penale risale al 1990, quando un giudice della

Corte Territoriale dello Yukon (Canada) scelse di ricorrere ad un circle per aiutarsi

nell’emissione di una sentenza. Anche in questo caso, il successo della sperimentazione ne

determinò l’utilizzo successivo da parte di altri giudici e la diffusione del modello in altre

parti del mondo (Raye e Roberts in Johnstone e Van Ness, 2007).

Il modello dei circles si è quindi evoluto lungo due direzioni generali: un paradigma

“curativo” (healing circles), con finalità di diversion, ed un paradigma di “co-giudizio”

(sentencing circles) nel quale l’uso del circle è volto ad indirizzare l’autorità giudiziaria

rispetto a quali disposizioni prendere sul caso. (McCold in Maxwell e Morris, 2003) Sia

che sia usato come un’alternativa al processo che come modalità per determinare le

disposizioni della sentenza, il modello dei circles tende a seguire una simile struttura. In

particolare, gli incontri sono fortemente basati sulla comunità ed includono le vittime, il

reo, le famiglie e qualunque altro della comunità sia interessato. Spesso viene utilizzato un

“talking piece”, un oggetto che i partecipanti si passano per facilitare la comunicazione ed

offrire a tutti la possibilità di esprimersi.

-41-    

CONCLUSIONI Come si è avuto modo di descrivere in questi primi capitoli, con la restorative justice per la

prima volta viene proposto un modello di giustizia capace di ridare centralità alla

dimensione relazionale del reato e di promuovere soluzioni che tengano conto dei bisogni

delle vittime e sappiano garantire, attraverso un coinvolgimento significativo della

comunità, il risanamento dei legami sociali.

Proponendosi come possibile alternativa alle tradizionali risposte al crimine, ha dato vita a

numerose e differenti misure e prassi, raggruppabili nei tre modelli delle VOM, RGC e

circles, con cui, peraltro, non si è fatto altro che recuperare esperienze conosciute all’uomo

delle società tradizionali e riadattarle ai sistemi penali odierni.

Questi ultimi hanno saputo con il tempo riconoscerne le potenzialità, dando alla giustizia

riparativa una propria dignità e legittimazione giuridica, confermata anche dalla

legislazione internazionale ed europea, che ne incentiva lo sviluppo a livello nazionale.

Rispetto a questo quadro generale, ci si chiede ora se e in che modo la restorative justice

abbia trovato legittimità in Italia, quali spazi le siano stati riservati nel nostro ordinamento

e quali caratteristiche abbia assunto in questo specifico contesto.

-42-    

PARTE SECONDA:  

Azioni di giustizia riparativa nel contesto italiano

BREVE PREMESSA Come si è visto nei capitoli precedenti, da più parti e con diverse motivazioni si auspica e

si incentiva la sperimentazione di prassi di giustizia riparativa. A questo proposito sono

intervenute anche le numerose normative internazionali, che impegnano i singoli stati a

promuovere la restorative justice a livello nazionale, in nome della tutela della vittima

nonché del minorenne reo. Anche l’Italia ha saputo recepire, benché con un certo ritardo

rispetto ad altri paesi europei (le prime esperienze risalgono alla seconda metà degli anni

’90), i principi della giustizia riparativa ed introdurre misure ad essi ispirate. Cioè è

avvenuto, così come per la maggior parte dei Paesi, quasi esclusivamente nell’ambito del

procedimento penale minorile19 ed è per questa ragione che nelle prossime pagine ci si

concentrerà solo sull’ordinamento previsto per i reati commessi da minorenni, cercando di

individuare quali sono e potrebbero essere gli spazi di implementazione della giustizia

riparativa in questo specifico contesto.

CAPITOLO 1. LA GIUSTIZIA RIPARATIVA NEL PROCEDIMENTO

PENALE MINORILE

1.1 IL PROCEDIMENTO PENALE MINORILE Il procedimento penale minorile (ppm) in Italia segue la normativa introdotta dal D.P.R.

del 22 settembre 1988, n. 448 ed assume le caratteristiche presentate nel grafico 2 e

descritte di seguito20.

Anzitutto, il procedimento penale ha inizio con la fase delle indagini preliminari, nel

momento in cui la Polizia Giudiziaria (PG) invia la notizia di reato al Pubblico Ministero

(PM) a seguito di denuncia da parte di un libero cittadino o dopo aver colto in flagranza di

reato il minorenne.

                                                                                                               19 Negli ultimi anni si registrano tentativi di introdurre questa pratica anche nel processo penale ordinario (Vezzadini, 2003).  20 Si parlerà esclusivamente del procedimento penale minorile di primo grado.

-43-    

Grafico 2

Il minorenne commette un REATO. Viene denunciato o colto in flagranza dalla PG.

PG o PM dispongono eventuale

fermo, arresto o accompagnamento

La PG invia notitia criminis al PM. Inizio fase INDAGINI

PRELIMINARI.Il minorenne attende l’esito

delle indagini A PIEDE LIBERO

Il GIP dispone eventuali MISURE

CAUTELARI

Salvo quando

FINE INDAGINI PRELIMINARI. Il PM chiede al GIP:

Sentenza di non luogo a procede per IRRILEVANZA

DEL FATTO. Possibile chiusura procedimento

RINVIO A GIUDIZIO

UDIENZA DIBATTIMENTALE

Con RITO IMMEDIATO

UDIENZA PRELIMINARE

Con RITO ABBREVIATO

Assoluzione

Sentenza

Sentenza di non luogo a procedere (art. 425 del c.p.p.) o per concessione

del perdono giudiziale o per

irrilevanza del fatto

Condanna (eventuale sospensione

condizionale o affidamento in

prova)

Misure di sicurezza

Messa alla prova

-44-    

In caso di denuncia il ragazzo rimane a piede libero per tutta la durata delle indagini, salvo

quelle situazioni in cui, per gravità del reato e valutata la personalità del ragazzo e se si

ritiene che vi sia rischio di fuga, il PM o la PG dispongono il fermo del minorenne.

Se viene colto in flagranza, invece, sempre qualora si sia di fronte a reati gravi e valutata

la personalità del reo, la PG può accompagnare coercitivamente nei propri uffici il ragazzo

o arrestarlo. In caso di accompagnamento, la PG trattiene il minorenne fino all’arrivo

dell’esercente la potestà genitoriale del minorenne e comunque per un massimo di 12 ore,

dandone comunicazione al PM. In caso di arresto o di fermo, la PG deve darne notizia

sempre all’esercente potestà genitoriale, al difensore, ai servizi sociali ed al PM.

Quest’ultimo stabilisce se rilasciare immediatamente il ragazzo o disporre un suo

collocamento in un Centro di Prima Accoglienza (CPA) o in comunità o presso il proprio

domicilio rimanendo a disposizione dell’Autorità Giudiziaria. L’arresto e il fermo devono

essere convalidati entro 96 ore dal Giudice per le Indagini Preliminari (GIP), che

contemporaneamente stabilisce anche se sottoporre il ragazzo a una misura cautelare. Le

misure cautelari sono quattro, in ordine crescente in termini di afflittività:

- Prescrizioni: il giudice può impartire al minorenne specifiche prescrizioni o

limitazioni inerenti alle attività di studio o di lavoro ovvero di altre attività utili per

la sua educazione. Hanno valenza per due mesi dalla data di applicazione e non

sono rinnovabili se non quando ricorrono esigenze probatorie (per non più di una

volta). Nel caso di gravi e ripetute violazioni il Giudice può disporre le misure

cautelari successive.

- Permanenza a casa: obbligo al minorenne di rimanere presso l’abitazione familiare

o altro luogo di privata dimora; con lo stesso provvedimento il giudice può imporre

limiti o divieti alla facoltà del minorenne di comunicare con persone.

- Collocamento in comunità: affidamento del minore a una struttura pubblica o

privata con prescrizioni aggiuntive quando la situazione socio-familiare non risulti

idonea a tale compito;

- Custodia cautelare in carcere: misura che prevede la custodia del minore presso un

Istituto Penale per i Minorenni.

Terminate le indagini preliminari, il PM può chiedere al GIP sentenza di non luogo a

procedere per irrilevanza del fatto, quando l'ulteriore corso del procedimento pregiudica le

esigenze educative del minorenne (art. 27 D.P.R 448/88) o il rinvio a giudizio, dando così

-45-    

inizio al processo21 vero e proprio. Quest’ultimo può seguire il rito ordinario od assumere

la forma del giudizio abbreviato o immediato. Il primo consente di definire già in sede di

udienza preliminare gli esiti del processo, se così scelto dal minore ed è di gran lunga il più

utilizzato, anche perché consente, in caso di condanna, una riduzione di un terzo della

pena. Il giudizio immediato è invece richiesto generalmente dal PM (entro 90 giorni

dall’iscrizione della notitia criminis) quando la colpevolezza appare evidente e consente di

saltare la fase dell’udienza preliminare. Il giudizio immediato può però essere richiesto

altresì dall’imputato fino a tre giorni prima dell’udienza preliminare. Inoltre l’imputato

può, entro sette giorni dalla richiesta di giudizio immediato formulata dal PM, chiedere che

venga invece seguito il giudizio abbreviato.

Ad ogni modo, a seconda del rito che si segue, udienza preliminare (solo per rito

abbreviato) o dibattimentale (per tutti) possono concludersi con:

- assoluzione;

- sentenza di non luogo a procedere nei casi previsti dall'articolo 425 del codice di

procedura penale o per concessione del perdono giudiziale22 o per irrilevanza del

fatto;

- condanna (eventualmente con sospensione condizionale della pena o affidamento in

prova ai servizi sociali);

- misura di sicurezza (se il ragazzo viene giudicato pericoloso ma non imputabile)

- messa alla prova. Con questo istituto, unico nel suo genere, il giudice sospende il

processo dispone con ordinanza la sospensione del processo per un tempo stabilito

(e non superiore ai 3 anni) ed affida il minore ai servizi sociali affinché svolgano le

«opportune attività di osservazione, trattamento e sostegno» (art. 28 D.P.R. 448/88)

Al termine di questo periodo il giudice valuterà il percorso compiuto dal minore e,

qualora ne riconosca un esito positivo, può provvedere alla dichiarazione di

estinzione del reato.

L’introduzione di un istituto quale la messa alla prova, che consente al ragazzo di ottenere

l’estinzione del reato e che lo chiama in causa direttamente e gli attribuisce responsabilità e

protagonismo all’interno del ppm, rispecchia uno dei valori attorno cui ruota tutto il D.P.R.

448/88, vale a dire quello della centralità del minore e dei suoi bisogni in quanto soggetto

                                                                                                               21 Si noti, quindi, che con “procedimento” si intende tutto l’iter penale a partire dalle indagini preliminari, che, viceversa, non rientrano nel “processo” che ha inizio a partire dalla richiesta di rinvio a giudizio del PM. 22  Disciplinato dall’art. 169 del Codice Penale. E’ previsto solo per i minori e per i reati per cui non sia prevista una pena detentiva superiore ai due anni. E’ il risultato di una valutazione del collegio giudicante, che ritiene di poter perdonare il minore presumendo che si asterrà dal commettere ulteriori reati.  

-46-    

in fase di crescita e maturazione. L’articolo 1 del decreto, infatti, afferma che le

disposizioni normative devono essere applicate «in modo adeguato alla personalità e alle

esigenze educative del minorenne» e che, quindi, su queste due dimensioni devono

orientarsi le decisioni e gli interventi dell’Autorità Giudiziaria e tutti i soggetti coinvolti

nel procedimento. A questo proposito si ricordino, ad esempio, attenzioni e la

discrezionalità che la Polizia Giudiziaria utilizza nello scegliere se disporre

l’accompagnamento, l’arresto o il fermo del ragazzo in fase di indagine preliminare.

Il procedimento, dunque, non deve interrompere il percorso di crescita e di maturazione del

ragazzo e, per quanto possibile, dovrebbe costituire un’occasione di responsabilizzazione e

di promozione di un sano percorso evolutivo, così come stabilito anche a livello

internazionale23 (Vezzadini, 2003).

A questo scopo il decreto ha riconosciuto come fondamentale il lavoro dei servizi sociali e

li ha incaricati di fornire supporto all’Autorità Giudiziaria ed assistenza al ragazzo e alla

sua famiglia per tutto l’iter penale (articoli 6 e 12 del D.P.R. 448/88). Da un lato, quindi, i

servizi sociali sono chiamati ad accompagnare il minorenne per tutto il corso dell’iter

penale, a presenziare alle udienze, ed in generale a riconoscere e tutelare i bisogni del

ragazzo. Dall’altro, sono incaricati dall’Autorità Giudiziaria di portare avanti, fin dalla

prima fase delle indagini preliminari, un percorso di indagine psico-sociale, che consenta

al Pubblico Ministero e al Giudice di acquisire elementi «circa le condizioni e le risorse

personali, familiari, sociali e ambientali del minorenni al fine di accertarne l'imputabilità e

il grado di responsabilità, valutare la rilevanza sociale del fatto nonché dispone le adeguate

misure penali e adottare gli eventuali provvedimenti civili» (articolo 9 del D.P.R. 448/88).

In altri termini, i servizi sociali, indagando la dimensione psico-sociale del minorenne (il

contesto familiare e di vita, il rapporto con il gruppo dei pari e con il proprio corpo, la

percezione della realtà, delle emozioni dell’altro e del proprio futuro, la capacità di portare

a termine gli impegni…) e cercando di capire insieme con il ragazzo quale significato

abbia il reato per lui (se si tratta di un episodio occasionale, l’espressione di una

trasgressività per certi versi connaturata all’adolescenza o se, invece, sia sintomo di un

disagio più profondo), offrono all’Autorità Giudiziaria un profilo del ragazzo,

indispensabile per elaborare decisioni che siano adeguate alla sua personalità.

                                                                                                               23 In particolare le già citate “Regole minime per l’amministrazione della Giustizia Minorile” approvate dall’Assemblea Generale dell’ONU nel novembre 1985 e la Raccomandazione R(87) 20 del Consiglio d’Europa.

-47-    

Come si è visto, inoltre, ai servizi sociali sono affidati i ragazzi per i quali il giudice ha

disposto la messa alla prova. I servizi in questo caso hanno il compito di stabilire gli

obiettivi, i tempi e le azioni del progetto di messa alla prova con il ragazzo e la famiglia, di

seguire il progetto per tutto il suo svolgimento e di redigere una valutazione finale da

riportare al Giudice perché possa stabilire gli esiti giudiziari del percorso.

Si noti che per “servizi sociali” si intendono, a norma dell’articolo 6 del D.P.R. 448/88, sia

gli Uffici di Servizio Sociale per i Minorenni (U.S.S.M) facenti capo al Ministero della

Giustizia, che i servizi istituti dagli enti locali. Entrambi questi servizi sono, quindi,

chiamati a svolgere lo stesso tipo di lavoro (indagine conoscitivo-valutativa, elaborazione

del progetto di messa alla prova, accompagnamento del minorenne reo per tutto il

procedimento…), secondo, tuttavia, competenze e modalità che sono state stabilite

differentemente da ciascuna Regione.

La Regione Lombardia, in particolare, con la Circolare Regionale 22 novembre 2007 n.37,

ha stabilito una chiara suddivisione di competenze tra U.S.S.M ed Enti Locali, tale per cui

da un lato gli Uffici di Servizio Sociale del Ministero devono seguire i ragazzi sottoposti a

misure limitative o privative della libertà personale (misure cautelari, misure alternative o

sostitutive, esecuzione pena in stato detentivo, misure di sicurezza), mentre dall’altro i

servizi sociali dell’ente locale (del comune di residenza del minorenne reo) hanno in carico

tutti i ragazzi denunciati a piede libero. Fatta questa distinzione, è evidente che il lavoro

dei due servizi debba essere quanto più possibile integrato e sinergico, al fine di garantire

un’efficace presa in carico del ragazzo e scongiurare il rischio di frammentazione degli

interventi e di confusione per il minorenne rispetto ai soggetti con cui si deve interfacciare.

Il procedimento penale, infatti, è un evento molto delicato e spesso decisivo nella vita del

ragazzo e, così come può essere occasione di crescita, può altresì pregiudicare lo sviluppo

della persona, se non condotto con tutte le attenzioni di cui si è parlato. Infatti, se

l’inserimento nel circuito penale di per sé comporta una serie di rischi, primo fra tutti

quelli di subire un processo di stigmatizzazione, e di effetti negativi che possono

compromettere il futuro della persona, ciò vale a maggior ragione per i minorenni, che

stanno attraversando una delicata fase di crescita e formazione della propria identità

personale. Pertanto si è cercato anzitutto di rendere il meno “offensivo” possibile il

procedimento penale stabilendo, ad esempio, la residualità della pena, in particolar modo

quella detentiva, utilizzata esclusivamente quando si sia in presenza di rilevanti

preoccupazioni di difesa sociale. Si è cercato, inoltre, di garantire istituti che consentissero

al minorenne una fuoriuscita rapida dal circuito penale, quali la possibilità di ottenere

-48-    

l’irrilevanza del fatto al termine delle indagini preliminari, oppure di concludere il

procedimento in sede di udienza preliminare.

In generale, il procedimento è stato pensato secondo tempi stretti e scansioni temporali

molto più ravvicinate di quanto accada, per esempio, per gli adulti, proprio con

l’intenzione di limitare al minimo le conseguenze negative derivanti dall’essere inserito nel

circuito penale in termini di stigmatizzazione. Quello che accade nella maggior parte dei

casi, tuttavia, è che, a causa del sovraccarico della macchina giudiziaria, i tempi dei

processi siano comunque spesso molto lunghi ed i ragazzi si trovino ad essere giudicati a

distanza di anni dalla commissione del reato. Il tempo speso o utilizzato (o, purtroppo, a

volte sprecato) per la conclusione del procedimento tante volte non tiene in considerazione,

e pertanto non intercetta, quel tempo che è stato nel frattempo utilizzato dal minore che ha

commesso il reato per continuare i suoi percorsi di crescita, i suoi progetti di vita. Sono

due tempi che corrono a velocità diverse, al punto da rischiare di compromettere la

comprensione del significato dell’intervento24. A questo proposito, si ricorda che l’Italia

ancor oggi continua ad essere ritenuta responsabile di numerose violazioni alle prescrizioni

della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo a causa dell’eccessiva durata dei processi

penali, la quale, oltretutto, colloca il nostro Paese agli ultimi posti della classifica

internazionale relativa ai tempi di definizione dei procedimenti (Ciavola, 2010).

Si noti che l’eccessiva durata dei procedimenti non nuoce solo al minorenne reo, bensì

anche alla vittima del reato, costretta ad attendere l’esito dell’iter penale, peraltro senza

avere alcuna possibilità di intervenire e di far sentire la propria voce. Nel procedimento

penale minorile italiano, infatti, le vittime rivestono un ruolo quanto mai marginale, sia,

probabilmente, per l’assenza di associazioni in loro difesa, molto presenti invece in alcuni

contesti stranieri (Vezzadini, 2003), sia anche per il divieto di costituirsi parte civile

durante il processo per chiedere il risarcimento economico dei danni (art. 10 del D.P.R.

448/88) (Palomba, 1991).

Riconoscendo tale bisogno delle vittime di avere possibilità di esprimersi e di far

conoscere i propri bisogni e recependo le indicazioni normative europee, il D.P.R. 448/88

ha previsto la possibilità di introdurre misure di giustizia riparativa all’interno del

procedimento penale minorile.

                                                                                                               24 Tratto dal Protocollo istituito per il Progetto “Bruciare i Tempi”, di cui si parlerà nel capitolo seguente.

-49-    

1.3 SPAZI NORMATIVI PER AZIONI DI GIUSTIZIA RIPARATIVA Il D.P.R. 448/88 introduce esplicitamente la giustizia riparativa all’interno dell’art. 28, che,

come si è visto, disciplina l’istituto della messa alla prova. Qui, infatti, il legislatore

afferma:

«con l'ordinanza di sospensione il giudice affida il minorenne ai servizi minorili dell'amministrazione della giustizia per lo svolgimento, anche in collaborazione con i servizi locali, delle opportune attività di osservazione, trattamento e sostegno. Con il medesimo provvedimento il giudice può impartire prescrizioni dirette a riparare le conseguenze del reato e a promuovere la conciliazione del minorenne con la persona offesa dal reato.» (art. 28, comma 2 del D.P.R. 448/88)

Vi è da notare, ad ogni modo, che le misure di giustizia riparativa così introdotte vengono

considerate non come strumento principe, bensì come alcune tra le tante possibili

prescrizioni legate alla messa alla prova, relegandole pertanto in una posizione marginale,

anche rispetto alle conseguenze processuali (Larizza in Picotti, 1998). Infatti, anche

qualora tali misure si concludessero positivamente, ciò non comporterebbe

automaticamente il buon esito della messa alla prova, per il quale concorrono anche le altre

prescrizioni previste nel progetto. In questo senso, anche se, come si è visto, un buon esito

dei progetti di messa alla prova determina l’estinzione del reato, non si può individuare la

medesima consequenzialità tra il buon risultato della riconciliazione-riparazione e la fine

del processo. In altri termini, per quanto la misura riparativa-riconciliativa sia andata a

buon fine e benché con buone probabilità l’avvenuta riconciliazione gioverà positivamente

sul risultato della stessa misura di probation, non si può dire che costituisca di per sé un

causa sufficiente dell’estinzione del reato.

Il legislatore, dunque, ha sì previsto la possibilità di ricorrere ad azioni di giustizia

riparativa, ma, soprattutto se paragonato ad altri contesti europei, non sembra aver

garantito a questo modello un buon riconoscimento normativo. A questo proposito, si deve

notare oltretutto che la disposizione contenuta all’articolo 28 del decreto (confermata

dall’art. 27 comma 2 lett. d, d.lgs. 28 luglio 1989, n. 27222), è l’unico spazio esplicito che

la legislazione italiana minorile prevede per la giustizia riparativa.

Ciò non significa, tuttavia, che non possano essere ravvisati altri spazi di azioni di giustizia

riparativa all’interno del procedimento. In effetti, per quanto non previsto esplicitamente

dal decreto 448/88, nella prassi si sono individuate altre disposizioni che, indirettamente,

potrebbero aprire la strada all’implementazione di questo modello di giustizia. Il primo di

questi è l’art. 9 del D.P.R. 448/88, il quale, come si è visto, prevede che il Pubblico

Ministero ed il Giudice acquisiscano, già a partire dalla fase delle indagini preliminari,

-50-    

elementi circa la personalità del ragazzo, anche avvalendosi del parere di esperti, per

valutarne l'imputabilità, cioè la sua capacità di intendere e di volere, ed anche il suo grado

di responsabilità, ai fini della quantificazione della pena. Qualora emergessero, infatti, «la

tenuità del fatto e l’occasionalità del comportamento» (art. 27 comma , D.P.R. 448/88), il

Pubblico Ministero potrebbe chiedere al Giudice sentenza di non luogo a procedere per

irrilevanza del fatto, consentendo quindi al ragazzo una rapida fuoriuscita dal circuito

penale. Un percorso di giustizia riparativa, in questo caso, consentirebbe di comprendere

pienamente se il reato è stato o meno un gesto occasionale legato alla fase evolutiva, che il

ragazzo ha compreso e ha cercato di superare attraverso l’impegno nei confronti della

vittima, riparando il danno commesso. In questo caso, infatti, secondo molti autori,

sarebbero verificate le condizioni necessarie all’irrilevanza del fatto, ossia la tenuità del

danno e l’occasionalità del comportamento (Turlon, 2008). Un buon esito del percorso di

giustizia riparativa potrebbe, dunque, determinare la chiusura del procedimento e l’uscita

dal circuito giudiziario.

Il condizionale, tuttavia, è d’obbligo, poiché non esiste una norma che stabilisca, di fronte

ad un buon esito di un percorso di giustizia riparativa, il dovere per l’Autorità Giudiziaria

di chiedere l’irrilevanza del fatto. In Italia, infatti, in nome del principio dell’obbligatorietà

dell’azione penale previsto dall’art. 112 della nostra Costituzione, il Procuratore che a

conclusione delle indagini preliminari ritenga di non aver raccolto elementi idonei a

sostenere l’accusa in giudizio, deve procedere all’archiviazione del caso,

indipendentemente dall’esito della misura di giustizia riparativa. Allo stesso modo, qualora

sia convinto della colpevolezza del reo, avendo obbligo di esercitare l’azione penale, il

pubblico ministero deve iniziare il processo, anche se l’azione di giustizia riparativa ha

avuto esito positivo (Vezzadini, 2003). I percorsi di giustizia riparativa in fase pre-

processuale non hanno dunque spazi normativi che consacrino anche processualmente un

loro eventuale esito positivo, come invece accade in altri Stati europei, anche laddove vige

l’obbligo di esercizio dell’azione penale (si veda ad esempio l’Austria). Si auspica, quindi,

che anche in Italia si proceda in futuro a riconoscere efficacia anche processuale a queste

misure, anche perché in questo modo oltretutto si valorizzerebbe la capacità di diversion

caratteristica delle misure ispirate al modello riparativo.

Analogamente, invece, a quanto realizzato a livello internazionale, la giustizia riparativa in

Italia trova spazio anche all’interno delle sanzioni sostitutive, descritte all’art. 30 del

D.P.R. 448/88. Infatti, quando il giudice dispone che il minorenne sia sottoposto a

sanzione sostitutiva, può imporre prescrizioni che siano funzionali alle sue esigenze

-51-    

educative e tra queste prescrizioni non è escluso che il giudice disponga che il minore si

adoperi in favore della vittima del suo reato. Discorso analogo può esser fatto in

riferimento alle prescrizioni intese come misure cautelari. All’art. 20 del D.P.R 448/88,

infatti, si legge infatti che «se [...] non risulta necessario fare ricorso ad altre misure

cautelari, il giudice, sentito l'esercente la potestà dei genitori, può impartire al minorenne

specifiche prescrizioni inerenti alle attività di studio o di lavoro ovvero ad altre attività utili

per la sua educazione», dove per attività utili per la sua educazione possa comunque

prevedersi una qualsiasi attività di riparazione del danno provocato (Scardaccione, Baldry

e Scali, 1998).

Se si considerano anche tutte queste disposizioni, quindi, ci si accorge che il D.P.R. 448/88

lascia ampie possibilità di implementazione della giustizia riparativa, anche perché questa

consente di realizzare molti dei principi su cui si fonda il procedimento penale minorile

così come disciplinato dal decreto. C’è, dunque, una carenza normativa che, tuttavia, ha

come aspetto positivo quello di consentire, in linea teorica, l’attuazione di misure di

giustizia riparativa anche molto diverse tra loro. Per capire se e in che modo questo assunto

sia verificato nella realtà dei fatti, verranno quindi ora presentate le prassi realizzate in

Italia.

CAPITOLO 2: ESPERIENZE ITALIANE DI GIUSTIZIA

RIPARATIVA

2.1 PREMESSA METODOLOGICA Come si ha già avuto modo di accennare nell’introduzione generale a questo elaborato, una

parte fondamentale di questo lavoro di ricerca ha riguardato l’analisi delle esperienze di

giustizia riparativa presenti sul territorio italiano, sia attraverso lo studio delle informazioni

disponibili nella letteratura italiana, sia mediante uno specifico progetto di indagine

conoscitiva, di cui si descriveranno qui brevemente gli aspetti metodologici.

Anzitutto questa indagine nasce come tentativo di rispondere ad un bisogno di conoscenza

da parte di alcuni operatori impegnati nello sviluppo del progetto “Bruciare i tempi”,

creato in collaborazione con la Procura ed il Tribunale per i Minorenni di Milano, l’Unità

Operativa Penale Minorile (UOPM) dell’Azienda Speciale Consortile “Offerta Sociale”

(Lombardia) e le forze dell’ordine di quel territorio. Questo progetto, infatti, si propone di

sperimentare azioni di giustizia riparativa, da implementare secondo modalità che traggano

spunto da quanto già realizzato in Italia, ma che sappiano adattarsi al contesto e ai bisogni

-52-    

specifici del progetto. Ecco, dunque, che questa indagine è sì finalizzata alla conoscenza

delle esperienze sviluppate in Italia, ma si pone come scopo ultimo quello di offrire

elementi utili all’implementazione di questo progetto, nella convinzione che l’esperienza

attuata possa e debba tradursi in sapere condiviso, capace a sua volta di generare nuove

pratiche professionali.

Grafico 3.

Partendo da questa finalità, l’indagine si è quindi sviluppata secondo due filoni

metodologici: il primo, come si è già detto, di studio delle informazioni desumibili dalla

letteratura e dai dati presentati dal Ministero della Giustizia ed il secondo di realizzazione

di interviste qualitative che consentissero di indagare aree ed aspetti ancora scoperti. In

particolare, come si avrà modo di descrivere meglio più avanti, poiché dall’analisi della

letteratura emergeva una certa omogeneità nelle prassi di giustizia riparativa italiane (quasi

tutte ispirate al modello di mediazione umanistica), si è cercato di comprendere se

esistessero esperienze, magari temporanee ed occasionali e quindi meno conosciute, ma

che offrissero un modello applicativo significativamente diverso da quello prevalente.

In questo caso, quindi, la ricerca vera e propria ha riguardato, prima ancora della

realizzazione delle interviste, l’individuazione dei servizi che potessero rispondere a questo

obiettivo. Come punto di partenza si è utilizzata l’unica esperienza a noi conosciuta, ossia

quella di Venezia. Si sapeva, infatti, che l’U.S.S.M. di Venezia pratica, accanto alla

mediazione, anche una misura diversa, da loro definita di “conciliazione”, e si è pensato,

pertanto, di estendere la nostra ricerca a tutti quei servizi in cui si facesse riferimento anche

ad un eventuale percorso conciliativo. In questo modo è stato identificato il Servizio di

Mediazione e Conciliazione Penale Minorile di Napoli, al quale è stata inviata richiesta di

intervista. La ricerca si è poi arricchita anche del contatto suggerito da alcuni professionisti

in merito ad un’esperienza di conciliazione-riparazione messa in atto dal Servizio di Tutela

Minori dell’Azienda Sociale “Comuni Insieme” (ente strumentale dei Comuni del Distretto

Lomazzo-Fino Mornasco, in Provincia di Como) e di un’esperienza di Restorative Group

Conference attuata all’interno del Progetto Volano nella Provincia di Monza-Brianza,

CONOSCENZA (ricerca

conoscitiva)

ANALISI E RIFLESSIONE

(elaborazione ipotesi di buone prassi)

PRASSI (sperimentazione all’interno del

progetto)

-53-    

unico caso di restorative justice italiana diversa dal modello mediativo. Inoltre, si è scelto

di includere nei soggetti da intervistare anche l’Ufficio di Mediazione di Milano poiché,

indipendentemente dal modello seguito, costituisce un possibile interlocutore per il

progetto “Bruciare i tempi”, per cui si è ritenuto importante comprendere da vicino le sue

modalità di lavoro.

In questo modo è stato possibile individuare quali esperienze utili ai fini della ricerca:

- Ufficio di Mediazione di Milano;

- Servizio di Mediazione e Conciliazione di Napoli;

- Servizio di conciliazione offerto dai professionisti dell’U.S.S.M di Venezia;

- Percorso di conciliazione proposto dal servizio di Tutela Minori dell’Azienda Sociale

Comuni Insieme;

- Esperienza di Restorative Group Conference attuata nel Progetto Volano di Monza-

Brianza.

Chiaramente non si intende affermare che queste siano gli unici modelli esistenti di

giustizia riparativa in Italia, bensì quelle ci è stato possibile individuare, in relazione alle

nostre possibilità e, anche, ai fini della ricerca, che richiedevano di raccogliere dati non

quantitativamente, ma qualitativamente significativi.

Per quanto riguarda gli strumenti di indagine, infine, come già accennato, è stata utilizzata

l’intervista semistrutturata, perché sufficientemente flessibile da consentire la possibilità di

raccogliere anche informazioni non previste, ma allo stesso tempo strutturato in modo tale

da facilitare il confronto fra le diverse interviste. E’ stata pertanto predisposta una griglia di

intervista, utilizzata sia come traccia durante l’intervista stessa che come strumento di

analisi e confronto dei risultati. La griglia, riportata integralmente fra gli allegati,

riprendeva le aree critiche presentate in tabella e discusse nella parte prima dell’elaborato,

aggiungendovi un’area relativa alle motivazioni della scelta di ricorrere a quello specifico

percorso di giustizia riparativa.

Nei prossimi capitoli verranno presentati, quindi, in ordine i dati e le informazioni raccolte

a livello generico sulla giustizia riparativa nel contesto italiano e, in seguito, le esperienze

raccolte mediante le interviste.

-54-    

2.2 CARATTERISTICHE GENERALI DELLA GIUSTIZIA RIPARATIVA

ITALIANA Il primo aspetto che emerge se analizziamo i dati rispetto alle prassi di giustizia riparativa

in Italia è l’esiguità numerica di queste esperienze: su un totale di 38.19325 minori

denunciati del 2007 i casi segnalati per un percorso di giustizia riparativa hanno riguardato

solo 592 minori, vale a dire l’1,5% del totale. Di questi programmi, la quasi totalità ha

seguito il modello della VOM, non potendosi riscontrare, se non in forma sperimentale ed

embrionale, esperienze di restorative group conference e, tantomeno, di circles.

Da questo punto di vista, dunque, l’Italia manifesta un’evidente carenza di programmi di

giustizia riparativa, sia da un punto di vista più quantitativo che rispetto alle modalità di

implementazione, smentendo quanto ipotizzato nel capitolo precedente quando si è

affermato che i vuoti normativi avrebbero potuto determinare un’ampiezza nei modelli di

attuazione della restorative justice.

Nella prassi, infatti, troviamo, come si è detto, solo il modello della mediazione reo-vittima

ed in particolare quella umanistica di Jacqueline Morineau (Scivoletto, 2009), finalizzata

alla riattivazione della comunicazione e al superamento della separazione tra le parti.

Coerentemente con il modello della Morineau, inoltre, anche se la mediazione può

naturalmente sfociare in una riconciliazione fra autore e vittima di reato ed eventualmente

in un gesto riparatorio, l’accordo riparativo non costituisce l’obiettivo primo della

mediazione, bensì uno dei suoi possibili (ma non necessari) esiti. Ciò è confermato anche

dai dati raccolti a livello nazionale secondo cui vi è stata riparazione del danno solo nel

22,3% delle mediazioni effettuate, del quale il 56% riguardava in realtà un’attività

riparativa indiretta, ossia di generica utilità sociale, non concordata con la vittima e non

necessariamente attinente alla tipologia del danno provocato dal reato (Scivoletto, 2009).

Un altro evidente punto in comune con il modello umanistico francese riguarda le tipologie

di reato per cui viene proposto un percorso di giustizia riparativa di questo tipo. Anche da

noi, infatti, le situazioni suggerite per un percorso di mediazione sono prevalentemente

quelle di reati contro la persona, mentre quelli contro il patrimonio sono solo il 17%. In

particolare, i reati più spesso segnalati per un percorso mediativo sono quelli di ingiurie e

minacce (24,7% del totale) e lesioni (22,8%), laddove le statistiche sui dati complessivi

relativi ai minori denunciati segnalano invece come la tipologia di reato quantitativamente

                                                                                                               25 Tutti i dati relativi alla giustizia riparativa nel contesto italiano che verranno presentati in questi capitoli sono tratti dalle elaborazioni statistiche sviluppate dal Ministero della Giustizia e disponibili sul sito del Ministero o del Dipartimento di Giustizia Minorile.

-55-    

prevalente sia quello contro il patrimonio (Scivoletto, 2009). Se leggiamo questo dato in

relazione alla tipologia delle vittime maggiormente coinvolte nella mediazione (soprattutto

coetanei conosciuti già prima del reato), possiamo dedurre che la tendenza sia quella a

considerare più adatte alla mediazione le situazioni in cui il reato invade la sfera della

relazione fra persone in maniera più pesante. Ciò è coerente con la riflessione precedente

relativa alla finalità della mediazione umanistica: appare logico che si intervenga

soprattutto in quelle situazioni in cui il reato ha provocato il maggior danno emotivo e

relazionale tra le parti. A questo proposito si può notare che i casi segnalati per la

mediazione includono anche reati gravi, quali ad esempio la violenza o la violenza

sessuale, perché si ritiene, sulla base dell’esperienza realizzata sia a livello nazionale che

europeo ed internazionale, che la praticabilità della mediazione non debba ancorarsi alla

gravità dell’evento/reato, né all’entità del danno sociale o individuale ad esso conseguente

aprioristicamente determinato, bensì alla sostenibilità del percorso di mediazione da parte

di coloro che vi partecipano e, in ultima analisi, al grado di

responsabilità che accettano di assumere.

Allo stesso modo, non esistono limitazioni rispetto alla fase

processuale: come si è visto nei paragrafi precedenti,

un’interpretazione ampiamente condivisa del D.P.R. 448/88 (e

confermata dalle Linee di Indirizzo del Dipartimento di

Giustizia Minorile) consente un’applicazione della mediazione

in ogni fase del procedimento, sia pre-processuale che

processuale. Dalle rilevazioni, e come mostra il grafico qui a

fianco, emerge che in prevalenza (65% dei casi) la mediazione

viene proposta durante la fase delle indagini preliminari, mentre

solo nel 23% dei casi la mediazione viene attuata all’interno del

percorso di messa alla prova.

In effetti, dai progetti di messa alla prova elaborati nell’anno 2006 si è verificato che, a

fronte di 1.869 provvedimenti di applicazione dell’art. 28 D.P.R. 448/1988, il giudice ha

impartito prescrizioni di tipo mediativo solo in 187 casi (Turlon, 2008).

Oltre a questi spazi giudiziali, benché l’Italia, essendo regolata sulla base di un sistema di

Civil Law, non consenta lo sviluppo di forme di diversion quali quelle inglesi, non è

esclusa la possibilità di ricorrere ad azioni di giustizia riparativa in fase extra-giudiziale

(prima dell’avvio del procedimento), come forma di prevenzione nelle situazioni che

12%

23%

65%

Grafico 4

-56-    

rischiano di sfociare in azioni criminose, oppure in presenza di reati bagatellari (si veda ad

esempio il danneggiamento alla cosa pubblica), concordando con la vittima un percorso

riparativo informale che eviti la denuncia e l’inizio del procedimento.

Nella maggior parte dei casi, ad ogni modo, i programmi di mediazione sono attuati in fase

giudiziale e, pertanto, prevedono una presenza significativa dell’Autorità Giudiziaria, sia

nell’avvio del percorso mediativo che nella registrazione degli esiti. Ciò non toglie, che

possano essere i servizi, U.S.S.M e servizi sociali locali, a segnalare il minore per una

mediazione. Grafico 5.

In questo caso, tuttavia, l’Autorità Giudiziaria dovrà

comunque sempre esprimersi rispetto alla fattibilità della

mediazione, in relazione all’esistenza o meno di eventuali

ragioni ostative (ad esempio nei casi in cui la mediazione

possa essere utilizzata come strumento intimidatorio sulla

vittima, ove trattasi di minorenni appartenenti all’area

della criminalità organizzata)26. Dai dati risulta, ad ogni

modo, che la maggior parte degli avvii del percorso di

mediazione avvengono ad opera dell’Autorità

Giudiziaria (Procuratore nel 66% dei casi, Giudice nel

9%), mentre solo nel 25% proviene dai servizi (si veda grafico a latere).

Si noti, tra l’altro, che i servizi sociali, oltre che proporre un percorso di giustizia

riparativa, possono essere anche provvedere a offrire direttamente la mediazione. Nella

maggior parte dei casi, tuttavia, la mediazione viene offerta da appositi Centri o Uffici di

Mediazione, generalmente istituiti sulla basi di accordi/protocolli tra Enti locali, Regione,

U.S.S.M., Procura e Tribunale per i minorenni. Questi centri, introdotti per garantire alla

mediazione un setting esterno e diverso da quello giudiziario, sono di fatto i protagonisti

dell’offerta di servizi di mediazione penale minorile, anche se non ci sono leggi che

impediscano o che in generale determinino i soggetti che possono o meno offrire questo

servizio (Scivoletto, 2009). All’interno degli Uffici di Mediazione il percorso è gestito

prevedono da un’equipe di mediatori afferenti a diverse professioni ed aree del sapere

(giuristi, educatori, psicologi e, non da ultimo, assistenti sociali), tutti formati alla

                                                                                                               26 Tratto dalle Linee Guida sulla Mediazione del Dipartimento di Giustizia Minorile

25%

9%66%

-57-    

professione di mediatore tramite specifici programmi, nella maggior parte dei casi secondo

l’orientamento umanistico proposto dal “Centre de Mediation e de formation à la

mediation” di Parigi (di Jacqueline Morineau).

Tratteggiate queste caratteristiche generali, si passa ora ad analizzare le singole esperienze

raccolte attraverso l’indagine conoscitiva descritta nel paragrafo precedente. Delle

interviste si è scelto, onde evitare ripetizioni e ridondanze, di riportare solo quegli aspetti

che rendono la singola esperienza diversa dal modello generale.

2.3 ESPERIENZE SIGNIFICATIVE DI GIUSTIZIA RIPARATIVA

ITALIANE

2.3.1 Ufficio di Mediazione Penale Minorile di Milano L’Ufficio di Mediazione Penale Minorile di Milano è stato istituito nel 1996 per mezzo di

un protocollo di intesa tra Ministero della Giustizia, Comune di Milano, Regione

Lombardia, Comune di Cinisello Balsamo, l’Azienda Sanitaria Locale (ASL) 1, sotto il

patrocinio del Presidente del Tribunale per i Minorenni di Milano (Mazzuccato, 2002). E’

stato uno dei primi servizi di giustizia riparativa ad essere introdotto in Italia, insieme agli

Uffici di Mediazione di Torino, Bari, Trento e Catanzaro, nelle prime sperimentazioni

della seconda metà degli anni ‘90.

Il percorso di mediazione proposto dall’Ufficio di Mediazione Penale Minorile di Milano è

sostanzialmente analogo a quello presentato nel paragrafo precedente e segue

l’impostazione umanistica di Jacqueline Morineau, che ha curato i corsi di formazione

dell’equipe di mediatori originaria che prevedeva quattordici operatori di diverse

professionalità. Attualmente l’equipe è ridotta a cinque persone per via dell’assenza di

finanziamenti e prevede due assistenti sociali dell’U.S.S.M, un mediatore con funzioni di

coordinamento e due operatori del Servizio Educativo Adolescenti in Difficoltà (S.E.A.D.)

del Comune di Milano. Nella prassi dell’Ufficio di Mediazione di Milano è previsto che i

colloqui preliminari vengano effettuati sempre alla presenza di due mediatori, per evitare

che ci sia un’individuazione del mediatore con altre figure specialistiche, cioè si bada bene

a sottolineare che non il mediatore non è un assistente sociale, un educatore, uno

psicologo, un giudice, un avvocato... In genere, poi, delle due persone che partecipano al

colloquio preliminare, una sola entra a far parte dell’equipe di mediatori e si prende cura di

tutto il fascicolo. L’equipe si occuperà dell’incontro faccia a faccia tra le parti ed è

composta da tre mediatori, che in questo modo hanno la possibilità di lavorare sulle

-58-    

emozioni e di essere sempre equiprossimi.

Rispetto ai dati nazionali, invece, qui la maggior parte delle mediazioni segnalate si colloca

all’interno della messa alla prova, per quanto comunque esistano casi di mediazione in fase

pre-processuale, sempre, tuttavia, dopo che il reo sia stato sentito ameno una volta dalla

Procura:

«perché un altro elemento importante è la responsabilità: il reo deve sentirsi responsabile, quindi devono essere sentiti almeno una volta e quindi esserci l’accertamento della responsabilità. Deve essere proprio lui che sente di aver commesso quel reato. A me è capitato proprio di sentire un reo che diceva “io non l’ho proprio fatto”. Era avvenuto agli inizi con un invio dalla Procura, non era ancora stato sentito, e quindi lui non si dichiarava assolutamente responsabile. Era un tentato investimento in motorino, dove la signora riconosceva il ragazzo ma lui negava, diceva che era proprio fisicamente da un’altra parte»

Per il resto, il percorso di mediazione si sviluppa analogamente a quanto abbiamo già

descritto in precedenza e quindi qui non verrà riportato.

2.3.2 Servizio per la Conciliazione e la Mediazione Penale Minorile di Napoli Il Servizio di Conciliazione e Mediazione di Napoli è nato nel 2001 ed è frutto di un

accordo operativo tra il Comune di Napoli e l’U.S.S.M. Inizialmente l’ambito delle attività

era circoscritto alla sola messa alla prova e solo successivamente si è ritenuto di poter

avviare una esperienza anche ai sensi dell’art.9 D.P.R. 448/88, prevedendo accordi con

l’Autorità Giudiziaria, che si sono concretizzati con un protocollo operativo. Come si è

visto, si è scelto di prendere contatto con questo servizio perché nella sua denominazione

prevedeva anche il concetto di conciliazione e si pensava, prendendo come base

l’esperienza nota di Venezia, che anche in questo contesto fosse stata introdotta una

sperimentazione di giustizia riparativa con caratteristiche diverse rispetto a quelle

prevalenti in Italia. In realtà dall’intervista è emerso che il termine “conciliazione” è stato

utilizzato per indicare il percorso attuato durante la messa alla prova e che si è poi scelto di

ricorrere al termine “mediazione” per indicare il percorso in fase pre-processuale,

introdotto in un secondo tempo.

«La scelta è di fatto “naturale”: quando si interviene nell’ambito dell’art. 28 si tratta di conciliazione, attività prevista proprio dal dettato legislativo; diversamente, se si tratta di una richiesta formulata in una fase diversa (e che nella nostra esperienza perviene dalla Procura per i Minorenni), si tratta di mediazione penale» (tratto dall’intervista ad un’operatrice del Servizio di Mediazione e Conciliazione di Napoli).

-59-    

In questo contesto, dunque, si è scelto di utilizzare due termini diversi per riferirsi alle due

fasi di attivazione del percorso (pre-processuale e processuale), dove però la differenze tra

i due percorsi sono, di fatto solo nominali, o riguardano aspetti limitati, quali, appunto,

l’articolo del decreto che disciplina la misura, nonché l’ente che propone il percorso

(l’U.S.S.M. per la messa alla prova, la Procura per l’art.9) o i casi per cui viene proposta la

mediazione (reati meno gravi quali danneggiamenti contro la scuola o risse tra ragazzi, che

si potrebbero gestire anche al di fuori di un procedimento penale) o la conciliazione (per

reati più gravi).

In questo caso, quindi, il termine “conciliazione” non definisce un modello

significativamente diversa di implementazione di azioni di giustizia riparativa, ma per le

finalità e le modalità organizzative che si è posto, è in buona parte analogo a quello

dell’Ufficio di Mediazione di Milano e per la maggior parte dei Centri di mediazione

italiani, dove invece i percorsi in fase pre-processuale e processuale vengono

indistintamente e a mio parere giustamente definiti semplicemente come “mediazione”.

D’altra parte, come detto poco sopra, in questo caso la scelta di adottare la doppia

terminologia trova una sua giustificazione nell’introduzione della mediazione (pre-

processuale) in un momento secondario rispetto all’avvio generale della sperimentazione

della giustizia riparativa. Ad ogni modo, si ritiene che a livello generale l’utilizzo di due

termini diversi dovrebbe essere ancorato all’esistenza di percorsi realmente differenti negli

scopi o in altri elementi significativi.

2.3.3 Servizio di Conciliazione Penale minorile di Venezia A Venezia la prima esperienza di giustizia riparativa è nata presso l’U.S.S.M. nel 1996, ma

ha mutato forma nel 2005, con l’avvio di una convenzione tra il Centro di Giustizia

Minorile27e la Comunità San Benedetto- Istituto Don Calabria28. A partire da quel

momento, infatti, il percorso di mediazione prima svolto dall’U.S.S.M. è stato articolato in

due percorsi diversi, uno di mediazione, gestito dall’Istituto Don Calabria, e uno di

conciliazione gestito direttamente dai professionisti del Servizio Sociale del Ministero di                                                                                                                27 I Centri per la Giustizia Minorile (CGM) sono organi del decentramento amministrativo che possono avere competenza sul territorio di più regioni e in questi casi fanno riferimento a più Corti d'appello. Esercitano funzioni di programmazione tecnica ed economica, controllo e verifica nei confronti dei Servizi minorili da essi dipendenti quali gli Uffici di Servizio Sociale per i Minorenni, gli Istituti penali per i minorenni, i Centri di Prima Accoglienza, le Comunità. 28 La Comunità San Benedetto – Istituto don Calabria si dedica all’attivazione di interventi educativi che hanno come obiettivo quello di offrire risposte, quanto più possibile adeguate, a minori pre-adolescenti ed adolescenti che dimostrano difficoltà e disagio nell’inserimento e nell’integrazione nei diversi contesti sociali. La sede principale, a Verona, gestisce centri diurni e residenziali e attiva interventi educativi nel campo della riabilitazione di minori inseriti nel circuito penale, giovani, disabili e immigrati.

-60-    

Giustizia. I due percorsi, differentemente da quanto descritto per Napoli, si distinguono

non solo a livello terminologico, ma anche operativo.

- Mediazione: riguarda unicamente i reati contro la persona, anche gravi, per i quali si è

reso necessario prevedere uno spazio esterno, più neutrale, rispetto a quello

dell’U.S.S.M., onde evitare il rischio per gli operatori del Servizio di Giustizia di essere

“di parte”, cioè troppo sbilanciati dalla parte del reo e poco attenti agli interessi della

vittima. Per i reati contro la persona, in particolare, è evidente come sia indispensabile

saper riconoscere e tutelare attentamente i bisogni della parte lesa e prevedere un

percorso di giustizia riparativa in grado di recepirne le esigenze.

Con questa finalità, si è scelto dunque di “spostare” la mediazione per i reati contro la

persona in uno spazio esterno al servizio, quale, appunto, l’Istituto Don Calabria.

Quest’ultimo ha quindi attivato un servizio di mediazione ispirato al modello

umanistico ed incentrato, quindi, sulla dimensione emotivo-affettiva. Le segnalazioni

da parte della Procura per un percorso di mediazione arrivano comunque sempre

all’U.S.S.M., nel quale un gruppo di lavoro (due assistenti sociali ed un educatore),

insieme alla direzione, esamina le segnalazioni dell’Autorità Giudiziaria e individua i

percorsi di mediazione più opportuni (mediazione o conciliazione).

Qualora gli operatori ritengano necessario dar luogo a un percorso mediativo,

l’U.S.S.M. provvederà a segnalare il caso all’Istituto Don Calabria, inviando

contestualmente alle parti una lettera di presentazione della mediazione. Dopodiché, il

percorso mediativo si sviluppa con le modalità tradizionali già descritte e si conclude

con una breve relazione sugli esiti del percorso. Quest’ultima viene inviata

all’U.S.S.M. e da lì poi alla Procura.

- Conciliazione: condotta direttamente dagli operatori dell’U.S.S.M, solo per i reati

contro il patrimonio, in particolare quelli in cui la parte offesa è una persona

giuridica/ente pubblico. In questo caso, la finalità è quella di raggiungere qualcosa di

concreto, di arrivare ad un accordo riparativo, sempre e comunque valorizzando la

dimensione dello scambio e dell’incontro.

Con la conciliazione, gli operatori dell’U.S.S.M. contattano direttamente le parti

(spesso i ragazzi sono già conosciuti dal servizio) e rilevano il consenso o meno a

partecipare al percorso. In caso di assenso da entrambe le parti si fissa la data

dell’incontro, che si terrà nella sede dell’U.S.S.M. All’incontro generalmente

-61-    

partecipano: assistenti sociali/educatori dell’U.S.S.M. con ruolo di facilitazione

dell’incontro, assistenti sociali degli enti locali (a cui il Procuratore ha inviato in

precedenza la notizia di reato), reo e genitori, vittima (generalmente un rappresentante

della Pubblica Amministrazione), eventualmente avvocati delle parti e altri soggetti che

il reo desidera coinvolgere. Rispetto a questi ultimi, dall’intervista emerge che la scelta

di chi includere nell’incontro di conciliazione varia caso per caso e viene valutata per

ogni situazione. L’idea è comunque quella di far partecipare persone che riconoscano

l’importanza del percorso mediativo e pertanto possano essere di sostegno per il

ragazzo reo.

Anche con questa finalità, gli operatori del servizio di Venezia hanno stabilito di

coinvolgere sempre i genitori, sia nella fase di preparazione dell’incontro che, poi,

durante l’incontro vero e proprio con la vittima. In base all’esperienza, infatti, si è visto

che spesso i genitori possono essere di grande supporto per il ragazzo o, al contrario,

essere un elemento di complessità. Inoltre la loro presenza è decisiva se si considera

che l’accordo riparativo può prevedere un risarcimento economico a cui molto

probabilmente dovranno contribuire in buona parte i genitori.

L’incontro si conclude con l’accordo riparativo (o rimane aperto se le parti devono

ancora concordare il tipo di riparazione) e con la stesura del verbale dell’incontro,

firmato da tutti i presenti. Il progetto prevede generalmente che il ragazzo si impegni in

attività di riparazione connesse al reato. Sarà poi compito degli operatori dell’U.S.S.M

monitorare lo svolgimento di tali attività e, quindi, il raggiungimento degli obiettivi

riparatori previsti con l’accordo. Il verbale dell’incontro viene poi inviato al pubblico

ministero che ne terrà conto ai fini dello svolgimento del processo.

Le differenze tra mediazione e conciliazione sono, dunque, sostanziali e, per chiarezza

espositiva, sono state schematizzate nella tabella di pagina seguente.

-62-    

MEDIAZIONE CONCILIAZIONE FINALITÀ ED ESITI Riapertura della

comunicazione, scambio emotivo, confronto tra le parti. Eventuale riparazione simbolica finale.

Confronto fra le parti finalizzato all’elaborazione di un comune progetto riparativo (con possibile risarcimento economico)

TIPO DI REATO Reati contro la persona Reati contro il patrimonio e il bene pubblico.

PERSONE COINVOLTE Solo reo e vittima Vittima (soprattutto rappresentanti della Pubblica Amministrazione), reo con i genitori, assistenti sociali dei servizi locali, eventualmente avvocati e altri soggetti ritenuti importanti dagli operatori.

MEDIATORE Mediatori dell’Istituto Don Calabria

Assistenti sociali ed educatori dell’U.S.S.M

ENTE Istituto Don Calabria U.S.S.M.

Tabella 2.

Questo percorso di mediazione/conciliazione (grafico 8 in pagina seguente) è stato

sperimentato a Venezia, ma anche in altre città della Regione (Verona, Vicenza, Padova,

Rovigo e Belluno). Ha consentito, secondo quanto affermato durante l’intervista alle

assistenti sociali dell’U.S.S.M, di ridistribuire efficacemente il carico del lavoro relativo

alla mediazione, ma ha comunque comportato la necessità di costruire prassi condivise tra i

diversi soggetti coinvolti, al fine di evitare di dar luogo a due percorsi sconnessi e non

comunicanti.

E’ stato quindi costituito anzitutto un tavolo istituzionale composto da due rappresentanti

del Centro di Giustizia Minorile, due rappresentanti dell’U.S.S.M., un rappresentante

dell’Ufficio del Pubblico Tutore del Veneto, due rappresentanti dell’Istituto Don Calabria

e un rappresentante del Coordinamento Nazionale delle Comunità di Accoglienza

(CNCA). Il Tavolo assicura azioni di confronto e sinergia tra i partecipanti e con l’Autorità

Giudiziaria e gli enti locali ed individua le linee di indirizzo, monitoraggio e valutazione.

Accanto a questo, è stato istituito anche un tavolo operativo, a cui partecipano due

rappresentanti dell’U.S.S.M., due del Centro per la Giustizia Minorile ed infine due

rappresentanti dell’Istituto Don Calabria, volto al monitoraggio dei percorsi di mediazione

realizzati.

-63-    

Grafico 6.

2.3.4 Percorso di conciliazione proposto dal servizio di Tutela Minori

dell’Azienda Sociale “Comuni Insieme” Questa esperienza (e quelle che seguiranno), a differenza delle precedenti, non riguarda un

servizio istituito, bensì un progetto sviluppato per un caso specifico dal Servizio di Tutela

Minori dell’Azienda Sociale “Comuni Insieme”. Il caso riguardava la deturpazione della

Villa Comunale di Fino Mornasco da parte di nove ragazzi minorenni nel mese di aprile

2009. I ragazzi, ripresi dalle telecamere, sono stati fermati dalle forze dell’ordine e

denunciati. Due mesi dopo (a giugno) il servizio di Tutela Minori ha ricevuto dalla Procura

la notizia del reato commesso dal gruppo di ragazzi, ai fini degli accertamenti sulla

personalità (art.9 D.P.R. 448/88). Contestualmente il sindaco, informato del fatto, ha

chiesto un incontro con gli operatori del servizio al fine di concordare delle possibili

Il PM segnala il reato con eventuale proposta di

mediazione/conciliazione a:

USSMIl gruppo di lavoro stabilisce se il caso è indicato per un percorso

di mediazione o di conciliazione.

USSMinvia gli esiti a:

Il PM ne tiene conto ai fini del processo

CONCILIAZIONEL’USSM contatta le parti e fissa l’incontro.

All’incontro partecipano reo e genitori, vittima (P.A.), eventualmente avvoccati e altre persone

importanti e as dei s.s. localiLa conciliazione si conclude con l’accordo

riparativo e la stesura del verbale dell’incontro

MEDIAZIONEPassa il caso all’ ISTITUTO DON CALABRIA e

contestualmente invia lettera alle parti. Gli oepratori del Don Calabria attuano il

percorso di mediazione umanistica.Al termine inviano gli esiti in forma sintetica a:

-64-    

modalità con cui coinvolgere questi ragazzi. Le operatrici, avvalendosi anche della

consulenza delle colleghe dell’U.S.S.M di Milano, hanno ipotizzato di dar vita ad un

progetto in chiave riparativa.

In particolare, si è pensato di proporre ai ragazzi un percorso definito di “conciliazione”,

ispirato al modello di Venezia, che prevedesse un primo momento di confronto dei ragazzi

e dei genitori con il sindaco ed un secondo momento di riparazione simbolica del danno

attraverso la partecipazione ad attività socialmente utili (in associazioni/enti di volontariato

a cui il comune si appoggiava). L’obiettivo era quello di far comprendere ai ragazzi, anche

e soprattutto attraverso gesti concreti, le conseguenze della propria azione e, di

conseguenza, incentivare l’assunzione di responsabilità rispetto al reato.

L’attività di riparazione ha previsto la partecipazione a 40 ore di attività socialmente utili

in uno dei seguenti enti del territorio: Croce Verde, Protezione civile, una cooperativa

sociale per disabili, una casa di cura per anziani. Allo stesso tempo il progetto prevedeva

una minima contribuzione economica a carico dei genitori per il restauro della villa

(restauro che non poteva essere svolto direttamente dai ragazzi, poiché si trattava di un

edificio storico che richiedeva una manutenzione specialistica).

L’idea è stata quindi proposta alla Procura di Milano che ha accolto positivamente la

richiesta.

I ragazzi insieme ai propri genitori sono quindi stati invitati ad un incontro con il sindaco e

le operatrici del servizio. In questa occasione, a partire da una riflessione sul significato

dell’azione compiuta dai ragazzi, è stato proposto loro il percorso di

conciliazione/riparazione. Al termine dell’incontro è stato chiesto ai genitori che

intendevano accettare la proposta di firmare un accordo, con cui si impegnavano anche a

garantire il risarcimento economico. A questo proposito si noti che non tutti i genitori

hanno assolto in toto l’impegno alla contribuzione economica, anche se, a detta

dell’assistente sociale intervistata, si trattava comunque di nuclei familiari problematici,

già conosciuti dai servizi, dai quali ci si aspettava una difficoltà nel portare a termine il

compito preso. Dei nove ragazzi coinvolti tutti, tranne uno, hanno accettato di aderire al

progetto. Pertanto è stato chiesto al Tribunale per i Minorenni di separare i procedimenti

dei ragazzi: per gli otto che avevano aderito alla proposta si sarebbe attuato il progetto di

conciliazione, mentre per il ragazzo che non aveva accettato si sarebbe seguito il

tradizionale percorso di indagine psicosociale.

Dopo questo primo incontro generale, ogni minore con la propria famiglia è stato

contattato singolarmente ed invitato ad un colloquio individuale, volto ad approfondire la

-65-    

conoscenza del minore, nonché a spiegare più approfonditamente il percorso che avrebbero

intrapreso e iniziare a comprendere quale delle attività sarebbe stata più indicata per il

ragazzo. Infine, i ragazzi sono stati convocati ad una riunione collettiva, in cui le assistenti

sociali hanno presentato loro i servizi in cui avrebbero potuto svolgere le attività. Sulla

base delle scelte dei ragazzi (che generalmente coincidevano con quanto già individuato

dagli operatori come servizio più idoneo), gli otto minori sono stati suddivisi nelle diverse

attività.

Il percorso di conciliazione vero e proprio è durato da settembre 2009 a marzo 2010 e ha

visto impegnati i ragazzi secondo modalità e orari stabiliti con i referenti dei diversi enti.

Sia questi ultimi che le assistenti sociali del servizio Tutela hanno monitorato la presenza e

la partecipazione alle attività da parte dei ragazzi per tutta la durata del percorso. Inoltre, le

assistenti sociali hanno predisposto due momenti di incontro individuale con i ragazzi, uno

intermedio ed uno finale, di restituzione e chiusura del percorso, svolto anche alla presenza

di un’assistente sociale del comune. Il percorso si è poi a tutti gli effetti concluso con una

relazione finale da parte del servizio al procuratore. La valutazione ha riguardato

l’aderenza al percorso, l’impegno, la collaborazione ai colloqui e quanto hanno riportato

nel colloquio conclusivo.

Per tutti i ragazzi la valutazione del percorso è stata molto positiva, poiché per ciascuno di

loro è stato possibile riscontrare una buona capacità di aderire al progetto, di comprenderne

il senso e di agire con responsabilità. Alcuni ragazzi si sono riscoperti, hanno rivisto il

proprio rapporto con le istituzioni, con ricadute positive anche al di fuori del progetto. Ad

esempio, secondo quanto emerso nell’intervista, adesso alcuni ragazzi partecipano alle

attività proposte dal comune, altri hanno manifestato il desiderio di continuare a svolgere

le attività (a titolo volontario) nelle associazioni in cui avevano prestato servizio, mentre

una ragazza ha deciso di riprendere gli studi che aveva interrotto.

Per questo caso specifico, il gruppo ha avuto un effetto assolutamente positivo: i ragazzi si

sono sostenuti a vicenda ed hanno affrontato questo progetto in modo molto coeso,

stimolandosi e spronandosi l’uno con l’altro. Il procedimento si è concluso dopo pochi

mesi con l’archiviazione per irrilevanza del fatto, grazie anche al buon rapporto instaurato

con il pubblico ministero, con il quale all’inizio del percorso peraltro si era concordato in

via informale che, qualora si fosse concluso positivamente, sarebbe stata chiesta

l’archiviazione del caso. Questa prospettiva non era stata comunicata ai ragazzi per evitare

strumentalizzazioni del percorso.

In chiusura, si riportano ancora due riflessioni a nostro parere di grande interesse. La prima

-66-    

riguarda il fatto che questo progetto ha dato la possibilità ai ragazzi di essere riconosciuti

nell’impegno speso per riparare simbolicamente il danno compiuto. Infatti, aver avuto la

possibilità di impegnarsi in attività socialmente utili e visibili (in particolare per i ragazzi

che hanno prestato servizio nella Croce Verde e nella Protezione Civile, dal momento che

svolgevano le proprie attività all’interno del parco comunale) ha dato l’opportunità alle

persone del posto, che frequentavano il parco e riconoscevano i ragazzi come quelli che

avevano deturpato la villa, di vederli all’opera e di cambiare il proprio giudizio nei loro

confronti. Anche la polizia locale e le forze dell’ordine hanno saputo riconoscere

l’impegno dei ragazzi, scongiurando ogni eventuale rischio di etichettamento. Questo

progetto può quindi essere una testimonianza significativa di come la comunità possa

svolgere un ruolo fondamentale nel percorso di responsabilizzazione e reinserimento

sociale del reo. L’interessamento dell’amministrazione comunale, la disponibilità dei

servizi e delle associazioni scelte per le attività socialmente utili, il riconoscimento da parte

delle forze dell’ordine ed in generale di molti membri della comunità locale non possono,

infatti, non aver contribuito al successo di questo progetto. Un aspetto negativo riguarda

invece i genitori dei ragazzi. Molti di loro infatti hanno assunto posizioni difensive nei

confronti dei figli, negando che avessero partecipato attivamente alla deturpazione della

villa e affermando quindi la non colpevolezza del proprio ragazzo. Tale considerazione ci

porta a ribadire quanto già espresso parlando dell’esperienza di Venezia, vale a dire che

non si può, a nostro parere, non considerare nel progetto anche uno spazio di

coinvolgimento dei genitori che, altrimenti, rischiano di assumere un atteggiamento di

squalifica del lavoro, non certo semplice, svolto dai ragazzi.

2.3.5 Esperienza di Restorative Group Conference nel Progetto “Volano” di

Monza-Brianza All’interno della Provincia di Monza e Brianza è stato attuato a partire dal 2009 e fino al

2011 un progetto (il Progetto “Volano”) volto a «creare in ogni distretto, o implementare

laddove già esistenti, servizi che si occupino nello specifico della gestione del penale

minorile e di promuovere le buone prassi di integrazione tra questi Servizi Distrettuali, i

Servizi del Centro per la Giustizia Minorile, i servizi dell’Azienda Sanitaria Locale e

dell’Azienda Ospedaliera e le realtà del Terzo Settore, attraverso la partnership privilegiata

con due importanti Consorzi partners.»29 Il progetto ha previsto altresì la possibilità di

                                                                                                               29 Tratto dal documento di presentazione del progetto a cura di Elena Giudice.

-67-    

sperimentare azioni innovative rispetto all’offerta tradizionale in ambito penale minorile,

tra le quali anche un’esperienza di restorative group conference, la prima ad essere

proposta in Italia. Come si è visto, infatti, il modello delle RGC è sostanzialmente

sconosciuto al contesto italiano, tanto che lo stesso Dipartimento di Giustizia Minorile

nelle “Linee Guida alla Mediazione” afferma che:

«si invitano i Servizi per la mediazione penale minorile a promuovere ed avviare nuove modalità di incontro fra autore e vittima di reato che comprendano, in collaborazione con gli istituti penali per i minorenni e gli Uffici di Servizio Sociale per Minorenni, la sperimentazione [...] di attività di group conferencing. La gestione delle controversie, realizzata attraverso l’utilizzo di strumenti quali le conferencing, è di particolare interesse perché vicina alla specificità minorile, in quanto attraverso tali programmi viene mobilitata la comunità più allargata, viene promossa l’inclusione e rinsaldato il legame sociale, elementi tutti che contribuiscono a generare benessere e sicurezza, soprattutto nel soggetto in formazione» (Linee Guida alla Mediazione elaborate dal Dipartimento della Giustizia Minorile del Ministero della Giustizia).

Coerentemente con quanto suggerito nelle Linee Guida, si è ritenuto importante, infatti,

proporre anche in Italia, ed in particolare nella Provincia di Monza-Brianza, un modello

quale quello delle RGC, diffuso e utilizzato con successo in diversi Paesi. Riprendendo

quanto realizzato all’estero, l’idea di base della progettazione è di dare centralità alla

famiglia, intesa come insieme di persone (familiari, amici, attori comunitari...) significative

per il minorenne reo, e di restituirle capacità decisionale e progettuale. Anche in questo

caso, la famiglia è supportata in questo compito da un facilitatore, che la accompagna per

tutto il percorso, preparandola nella fase di preparazione e facilitando l’incontro vero e

proprio.

Fatti salvi questi principi, le modalità operative specifiche di questa progettazione sono

state definite all’interno delle Linee Guida, elaborate da un gruppo di lavoro appositamente

istituito con operatori delle Equipe Distrettuali di Penale Minorile e con la Referente del

Progetto “Volano” del Distretto di Desio.

In particolare, si è anzitutto stabilito di attivare le restorative group conference nelle fasi

successive la chiusura della fase di conoscenza e valutazione (art. 9 DPR 448/88), e di

utilizzarle o come strumento di definizione condivisa con il ragazzo e la famiglia di un

progetto (consensuale30 o di messa alla prova) oppure, qualora il progetto consensuale o la

messa alla prova siano già stati avviati, come modalità per ridefinire il progetto

precedentemente costruito perché in presenza di situazioni complesse ad andamento

negativo. In questi casi, infatti, le restorative group conference potrebbero essere

-68-    

un’opportunità per il ragazzo e la famiglia di mettersi in gioco con l’elaborazione di un

nuovo progetto di cui sarebbero diretti costruttori.

Rispetto, invece, alla selezione delle situazioni per cui proporre questo percorso, si è

stabilito di dare priorità ai casi complessi, con il limite, però, di coinvolgere unicamente

vittime aspecifiche (vittime di reati contro il patrimonio), evitando le imputazioni per reati

contro la persona.

Una volta individuate le situazioni idonee, in base ai criteri sopra-descritti, gli operatori di

un servizi (di tutela minorile o specifici di penale minorile) in accordo con il ragazzo e i

genitori mandano richiesta di attivazione, tramite apposita scheda, al facilitatore delle RGC

(precedentemente individuato). La scheda è accompagnata da una breve relazione

contenete le informazioni che saranno condivise durante la riunione di famiglia.

Sia la scheda di segnalazione che la relazione devono essere scritte con parole semplici e

chiare, in quanto devono essere comprensibili a tutti i soggetti partecipanti alla restorative

group conference, ossia a coloro che il ragazzo deciderà di invitare e che accoglieranno

l’invito.

Una volta attivato il percorso, si passa alla fase di preparazione, in cui il facilitatore,

insieme al ragazzo, la sua famiglia ed i servizi sociali invianti, cerca di individuare le

persone significative che prenderanno parte all’incontro. Sempre il facilitatore, poi,

incontra i soggetti invitati per spiegare loro cos’è e come si svolgerà la restorative group

conference e qual è il senso della loro presenza, raccogliendo il loro punto di vista e le loro

opinioni. In questa occasione raccoglie, infine, decide insieme ai partecipanti le questioni

organizzative legate alla data, all’ora e al luogo dell’incontro.

Terminata questa fase ha inizio la conference vera e propria, in cui tutte le persone invitate

alla RGC si riuniscono con la finalità di riflettere insieme sul reato commesso ed elaborare

un progetto in cui sia indicato concretamente come il ragazzo intende riparare al danno

causato e come i membri lo sosteranno nel portarlo avanti. La riunione si compone di tre

momenti: il primo di condivisione delle informazioni e di presentazione reciproca, il

secondo momento riservato alla famiglia, che viene lasciata sola nella stanza per delineare,

in autonomia, il progetto ed, infine, un terzo momento nel quale, terminata l’elaborazione

del progetto, i partecipanti rientrano nella stanza per ascoltare le proposte della famiglia e

discuterne insieme. Si noti che, a questo proposito, si è stabilito nelle Linee Guida che

l’unica ragione per cui il progetto può essere rifiutato da parte degli operatori è la

mancanza delle condizioni minime ritenute indispensabili per il percorso di recupero del

minore. In assenza di queste preoccupazioni, il facilitatore verifica che ciascuno dei

-69-    

presenti abbia ben chiari gli impegni presi e fornisce ad ognuno in tempi rapidi una copia

scritta del progetto, che dovrà essere seguito e monitorato dagli operatori interessati. Nel

corso dell’incontro, inoltre, viene proposta alla famiglia la possibilità di fissare un’ulteriore

restorative group conference al fine di verificare insieme gli esiti del percorso.

Descritte le Linee Guida del progetto, rimane qui da rilevare che, concretamente, le RGC

sono state proposte unicamente in cinque situazioni, delle quali due sono state realmente

realizzate. Ciò non toglie che si tratti di un’esperienza quanto mai significativa, proprio

perché primo tentativo di introdurre in Italia un modello operativo molto diverso, ma

altrettanto importante e potenzialmente utile.

2.3.6 Sperimentazione all’interno del Progetto “Bruciare i tempi” L’ultima esperienza che viene qui riportata è quella del Progetto “Bruciare i tempi”, che,

come si ha avuto modo di accennare, costituisce la cornice di senso entro cui si colloca

l’intero percorso di ricerca. Questo progetto, creato in collaborazione con la Procura ed il

Tribunale per i Minorenni di Milano, l’Unità Operativa Penale Minorile (UOPM)

dell’Azienda Speciale Consortile “Offerta Sociale” (Lombardia) e le forze dell’ordine del

territorio dei Distretti di Vimercate e di Trezzo sull’Adda, a nord-ovest di Milano, ha come

finalità quella di rispondere al problema, descritto nel capitolo precedente, della lunghezza

dei tempi di attesa del procedimento, che rischia di svuotare di significato il lavoro dei

servizi e generare nel minorenne reo un senso di sfiducia nei confronti del sistema

giudiziario.

Non potendo, per ovvie ragioni, intervenire sui tempi decisionali del Tribunale per i

Minorenni, legati all’eccessivo carico di lavoro e ad una cronica carenza di personale, il

Progetto cerca di ridurre i tempi laddove possibile ed in particolare nell’attivazione dei

servizi sociali per l’indagine conoscitivo-valutativa in fase pre-processuale. In questo

modo, infatti, sarebbe possibile intercettare fin da subito il minorenne autore di reato e

lavorare con lui quando il fatto è ancora recente, anche nei ricordi e nelle emozioni del

ragazzo. Si noti che, trattandosi di servizi sociali territoriali, la sperimentazione riguarda,

in virtù delle diverse competenze dei servizi di penale minorile della Regione Lombardia

indicate precedentemente, unicamente i reati commessi da ragazzi minorenni a piede

libero.

Ad ogni modo, per raggiungere questo obiettivo si è scelto di dar vita a questa

sperimentazione, incentrata sulla definizione di nuove modalità operative co-costruite in

-70-    

collaborazione da Forze dell’Ordine, Procura e servizi sociali e definite insieme all’interno

di un Protocollo operativo, che dovrà essere firmato e approvato in questi mesi. D’altra

parte, vi è da notare che il territorio per cui è stato ideato questo progetto rientra nella

Provincia di Monza-Brianza, in cui negli ultimi anni si è dato vita ad un’importante

progettazione (il Progetto Volano precedentemente descritto) volta appunto a creare

integrazione e sinergia fra i diversi attori coinvolti nel procedimento penale minorile. Se,

quindi, è stato possibile creare il Progetto “Bruciare i tempi”, ciò è in buona parte dovuto

alla pre-esistenza sul territorio di un buon lavoro di rete e di collaborazione. Inoltre, questo

contesto è parso particolarmente adatto perché di piccole dimensioni, anche rispetto al

numero di nuove segnalazioni di reato annue (circa 40) e quindi più idoneo ad una

sperimentazione intenzionata ad essere introdotta gradualmente, in un’ottica di

cambiamento incrementale, partendo da un contesto micro per poi eventualmente

estendersi ad altri territori.

Attualmente, ad ogni modo, il Progetto è ancora in fase di approvazione (verrà

implementato a partire dai primi mesi del 2013) e pertanto non è possibile stabilire se e

quali sviluppi potrà avere in seguito. D’altra parte, come si è visto, proprio per questo e

cioè per definire le prassi future, in particolare rispetto ad azioni di giustizia riparativa, è

stato così importante avviare l’indagine.

Pur non potendo descrivere l’attuazione del Progetto, pare comunque molto importante e

significativo proporre brevemente quelle che sono le indicazioni stabilite nel Protocollo e,

cioè, le modalità con cui i diversi attori coinvolti nel Progetto intendono garantire

un’attivazione più rapida dei servizi sociali.

Tale modalità è ben spiegata nel Protocollo,quando si afferma che: «al momento dell’invio

al PM della comunicazione di notizia di reato, la Polizia Giudiziaria chiede contestuale

nulla osta (N.O.) per l’attivazione del servizio sociale competente all’indagine di

personalità (art. 9 D.P.R. 448/88). Il PM concederà sollecitamente il nulla osta richiesto,

mediante comunicazione anche via fax o via mail. Ottenuto il N.O., la PG invia al servizio

sociale comunicazione sintetica riportante i dati dell’indagato (e dei familiari) e gli estremi

del reato ipotizzato e contestato.» Il Protocollo prevede, poi, una serie di fasi e procedure

condivise che sono state schematizzate e rappresentate graficamente nelle pagine seguenti,

al fine di rendere più immediata la visualizzazione dei diversi passaggi.

-71-    

Grafico 6.

La PG invia comunicazione della notizia di reato al PM chiedendo N.O. per l’attivazione dei S.S.

Il PM valuta se:

Il PM attiva il servizio sociale competente come avviene nell’attuale prassi

NON concede il N.O.

La PG invia al SS comunicazione sintetica con i dati dell’indagato (e dei familiari) e gli

estremi del reato.

C’è il rischio che l’attivazione del SS pregiudichi le indagini, soprattutto per reati gravi, e/o comunque nei casi in cui intenda attuare,

anche su richiesta della PG procedente, specifiche attività investigative e/o richieste di

misure cautelari CONCEDE il N.O.

Non ci sono rischi.

Il servizio sociale, ricevuta la segnalazione della PG, dà immediato avviso al PMM della segnalazione

ricevuta per il percorso sperimentale, informandolo che si impegnerà ad attivare l’indagine di personalità sul minore entro una settimana e ad

ultimarla entro 3 mesi dal ricevimento della comunicazione

-72-    

INIZIO INDAGINI SULLA PERSONALITÀ DEL MINORE

AZIONI DI GIUSTIZIA RIPARATIVA

Su richiesta esplicita del PM

Attivata autonomamente dal s.s. , in accordo ed in collaborazione con la PG e la PPM

(comunicazioni che possono avvenire in maniera informale via mail)

Entro 3 mesi dalla notizia di reato, il SS informerà il PM sui risultati, anche parziali e interlocutori, della propria attività e sulla tempistica per la conclusione dell’indagine che comunque non dovrà superare i 5 mesi complessivi per l’invio della relazione

conclusiva. Il SS invierà una breve comunicazione anche alla PG

RELAZIONE CONCLUSIVA dei S.S. al PM, che può contenere:- proposta per una veloce fuoriuscita dal procedimento penale (perdono giudiziale o irrilevanza del fatto);

- ipotesi di un progetto di messa alla prova

All’interno delle indagini possiamo trovare

-73-    

Emerge, quindi, come caratteristica fondamentale del Progetto la collaborazione tra Polizia

Giudiziaria (PG), servizi sociali (SS) e Pubblico Ministero (PM), che già di per sé sola

consente di ridurre notevolmente i “tempi morti” perché favorisce una comunicazione

rapida tra i diversi attori e, di conseguenza, l’attivazione quasi immediata dei servizi

sociali.

Tale collaborazione riguarda, peraltro, anche le possibili azioni riparative, quando si

afferma che «durante il periodo di conoscenza e valutazione da parte dei servizi sociali

questi ultimi possono fare proposte di attività di giustizia riparativa in collaborazione con

la Polizia Giudiziaria». Per quelle che sono le nostre conoscenze, questa sarebbe la prima

esperienza sul territorio nazionale a prevedere il coinvolgimento delle forze dell’ordine in

processi di giustizia riparativa, ma non di certo l’unica a livello internazionale, data la

rilevanza che, ad esempio, rivestono gli agenti di polizia nei percorsi di restorative justice

britannici. Sarebbe, quindi, una buona occasione per introdurre nel contesto italiano una

prassi a cui si ricorre con frequenza e successo all’estero e, di conseguenza, per ampliare le

modalità attuative delle prassi di giustizia riparativa nel nostro Paese.

Sempre rimanendo all’interno delle azioni riparative possibili nel progetto, vi è da notare

che queste potrebbero essere attivate sia su richiesta del Procuratore che attraverso

attivazione diretta del servizio sociale, di cui, grazie agli accordi stipulati precedentemente

con la Procura, non è necessaria l’approvazione del PM, per quanto si preveda che i servizi

ne diano comunicazione al Pubblico Ministero. Quest’ultimo caso rappresenta un ulteriore

elemento di novità se si considera che, come si è detto, generalmente le azioni di giustizia

riparativa richiedono l’approvazione esplicita dell’Autorità Giudiziaria, anche quando

proposte dai servizi. A mio parere, può essere molto utile ed efficace prevedere che siano

invece proprio i servizi sociali, che seguono e conoscono il ragazzo, a proporre un percorso

di giustizia riparativa, dal momento che, molto più probabilmente, sono in grado valutare

in quali casi sia utile e adeguato proporre queste misure, più di quanto non possa

verosimilmente fare il Procuratore.

Con ciò non si intende, chiaramente, negare la validità di altre esperienze e prassi, bensì

evidenziare possibili punti di forza ed eventuali spazi di sviluppo futuro. Per favorire

questa riflessione nel paragrafo successivo si procederà a confrontare ed analizzare

comparativamente le esperienze sin qui raccolte.

-74-    

2.3 ANALISI COMPARATIVA DELLE DIVERSE ESPERIENZE

Analizzando e confrontando fra loro le diverse interviste emerge anzitutto una notevole

difformità nella scelta e nell’utilizzo dei termini “conciliazione” e “mediazione”. Come

mostra la tabella, Napoli e Venezia parlano sia di mediazione che di conciliazione, Milano

si occupa esclusivamente di mediazione ed infine il servizio di Tutela Minori dell’Azienda

consortile “Comuni Insieme” ha attuato un percorso che ha definito di conciliazione.

Tabella 3.

Non tutti i servizi intervistati, dunque, ricorrono ad entrambi i termini e, anche quando lo

fanno, non attribuiscono loro significati comuni. Qui di seguito sono riportati alcuni

schemi che possono aiutare ad avere una visione grafica più chiara delle differenze o

similitudini fra i diversi contesti.

Grafico 7.

MEDIAZIONE

MILANOProcesso di riattivazione

della comunicazione e dello scambio emottivo tra le parti, ispirato al modello

umanistico. Possibile per tutti i reati, sia in fase pre-

processuale che processuale. Deve essere condotto da un

servizio esterno a quelli della giustizia e da un’equipe

multiprofessionale

NAPOLIProcesso di riattivazione della comunicazione e dello scambio emottivo tra le parti, ispirato al modello umanistico. Attivato solo in fase pre-processuale

per tutti i reati, ma in particolare per quelli meno gravi. Deve

essere condotto da un servizio esterno a quelli della giustizia. I mediatori sono essenzialmente assistenti sociali o educatori.

VENEZIAProcesso di riattivazione della comunicazione e dello scambio emottivo tra le parti, ispirato al modello umanistico. Utilizzata solo per i reati contro la persona, sia in fase pre-

processuale che processuale. Deve essere condotto da un servizio esterno a quelli della

giustizia e da un’equipe multiprofessionale

SOGGETTI

INTERVISTATI MEDIAZIONE CONCILIAZIONE

Milano ✔ ✘

Napoli ✔ ✔ Venezia ✔ ✔

Tutela Minori

“Comuni Insieme” ✘ ✔

-75-    

Nei casi in cui è presente (Milano, Napoli e Venezia) il termine “mediazione” va ad

indicare percorsi accomunati dalla stessa finalità (ripresa dal modello umanistico), ma

attivati in fasi processuali diverse, per reati diversi (tutti, solo quelli meno gravi, solo quelli

contro la persona) e condotti da professionisti diversi (equipe multiprofessionale, assistenti

sociali ed educatori dei servizi sociali, operatori dell’Istituto Don Calabria).

Grafico 8.

Analogo discorso può essere fatto per la conciliazione. Mentre a Napoli ha gli stessi

obiettivi della mediazione umanistica, a Venezia e nel progetto del servizio di Tutela

Minori di “Comuni Insieme” assume finalità diverse, di riconciliazione e di

raggiungimento di un accordo riparativo. A Napoli è attuata solo ai sensi dell’art. 28 in

fase processuale, a Venezia in entrambe le fasi, nell’esperienza nel comasco è stata attivata

in fase pre-processuale. Prevede la partecipazione di soggetti molto diversi (solo reo e

vittima a Napoli; reo, vittima, genitori, assistenti sociali dell’ente locale e altri soggetti

vicini al reo per il caso di Venezia; rei, genitori, sindaco, servizi e associazioni del

territorio per il progetto di “Comuni Insieme”) mentre invece per tutti i casi è condotta e

gestita prevalentemente da assistenti sociali dell’U.S.S.M e del servizio sociale locale.

Per riassumere tutte queste caratteristiche si è pensato di proporre la tabella 4 nella pagina

seguente, che consiste in una sintesi comparativa delle interviste realizzate. Non verrà

riportata in tabella la sperimentazione del Progetto “Bruciare i tempi” perché per questa,

come si è detto, non sono ancora state stabilite le modalità operative con cui implementare

la restorative justice.

VENEZIAProcesso di confronto finalizzato al raggiungimento di un accordo riparativo. Attivato sia in fase

pre-processuale che processuale, solo per i reati contro il patrimonio e in particolare

contro la Pubblica Amministrazione. Prevede la partecipazione di numerosi

soggetti (reo, vittima, genitori, as dell’ente locale, altri soggetti). E’ condotto dagli

operatori dell’U.S.S.M

NAPOLIProcesso di riattivazione della comunicazione e dello scambio emottivo tra le parti, ispirato al modello umanistico. Attivato solo in fase processuale (art. 28) per tutti i reati. Prevede la partecipazione solo di reo e vittima. Deve essere condotto da un servizio esterno a quelli della giustizia. I mediatori sono

essenzialmente assistenti sociali o educatori di U.S.S.M

ed ente locale.

TUTELA MINORI “COMUNI INSIEME” (CO)

Percorso centrato sulla riparazione simbolica del danno

per un reato di deturpazione. Avviene ai sensi dell’art.9. Ha visto

la partecipazione anche dei genitori dei ragazzi, della vittima (pubblica amministrazione) e dei servizi della comunità. E’ stato coordinato dalle assistenti sociali

del servizio Tutela Minori, in collaborazione con le colleghe

dell’U.S.S.M, dell’ente locale, e con i referenti delle varie associazioni.

CONCILIAZIONE

-76-    

Tabella 4

Fase processual

e

Finalità Tipo di reato

Persone coinvolte

Ente/servizio

MILANO Med. Sia pre-processuale che processuale

Riattivazione comunicazione, confronto, espressione sentimenti

Tutti Reo e vittima Ufficio di Mediazione Penale Minorile

Med. Pre-processuale

Riattivazione comunicazione, confronto, espressione sentimenti

Sopratt. reati meno gravi

Reo e vittima Servizio di Mediazione e Conciliazione (collaborazione tra U.S.S.M. e s.s. locali)

NAPOLI

Conc Processuale Riattivazione comunicazione, confronto, espressione sentimenti

Tutti Reo e vittima Servizio di Mediazione e Conciliazione (collaborazione tra U.S.S.M. e s.s. locali)

Med. Sia pre-processuale che processuale

Riattivazione comunicazione, confronto, espressione sentimenti

Reati contro la persona

Reo e vittima Istituto Don Calabria- Comunità San Benedetto

VENEZIA

Conc Sia pre-processuale che processuale

Confronto tra le parti, raggiungimento accordo riparativo

Reati contro il patrimonio

Reo, genitori, vittima, as ente locale, altri a sostegno del minore scelti da USSM.

Servizio di Conciliazione dell’U.S.S.M.

“COMUNI INSIEME” (CO)

Conc Pre-processuale

Confronto tra le parti, raggiungimento accordo riparativo

Reato contro il patrimonio

Reo e genitori, pubblica amministrazione (vittima), associazioni della comunità

Servizio Tutela Minori dell’Azienda Consortile “Comuni Insieme”

PROGETTO “VOLANO”

RGC Sia pre-processuale che processuale

Coinvolgimento famiglia, creazione progetto per riparazione.

Reati contro il patrimonio

Reo, genitori, vittima, altri a sostegno del minore concordati insieme, attori comunitari

Servizi del territorio

La confusione terminologica riscontrata nelle esperienze riportate rispecchia una più

generale non chiarezza nell’uso dei concetti di mediazione e conciliazione caratteristica del

contesto italiano. A livello internazionale, infatti, generalmente non vi è alcuna distinzione

tra questi termini; ad esempio, nel mondo anglosassone il termine “conciliation” è

-77-    

correntemente usato come sinonimo di “mediation”30. Certamente entrambi i concetti

presentano numerosi punti in comune, se si considera che fanno riferimento ai principi

della giustizia riparativa e possono essere entrambi definiti come modalità di risoluzione

alternativa delle dispute31.

E pur tuttavia, nel contesto italiano si tende ad operare una distinzione ed attribuire

significati diversi ai due termini (Gialuz, 2004). In ambito civile, ad esempio, la

conciliazione viene intensa come processo incentrato prevalentemente su valutazioni di

tipo razionale/utilitaristico e volto al raggiungimento di un accordo tra le parti, nonché

come risultato positivo di tale attività; avviene sempre all’interno del processo giudiziario,

è generalmente affidato al giudice e definisce la controversia attraverso un patto dotato

dell’efficacia propria del titolo esecutivo. Per tale ragione trova applicazione solo dove la

controversia ha come oggetto diritti disponibili (Gialuz, 2004). Per i diritti indisponibili,

invece, (si vedano, ad esempio, le controversie relative al diritto di famiglia), si ricorre

all’istituto della mediazione, quale processo finalizzato anzitutto alla pacificazione ed alla

rigenerazione del legame indebolito dal conflitto, messo in atto tramite tecniche che

enfatizzano la dimensione emozionale della comunicazione, affidato a “corti informali” e

che non comporta necessariamente una definizione formalizzata del conflitto.

Per certi versi, questa distinzione sembra ritrovarsi anche in ambito penale nella maggior

parte delle esperienze descritte, per cui generalmente si è parlato di mediazione come

processo svolto da servizi esterni con finalità “umanistica”, mentre di conciliazione come

percorso orientato al raggiungimento di un accordo, utilizzato prevalentemente per

situazioni meno gravi e gestito anche direttamente dai servizi che hanno in carico i ragazzi

rei. Ecco, dunque, che mediazione e conciliazione dovrebbero identificare prassi con

finalità, processi ed esiti anche molto diversi tra loro.

In realtà non è così, come si è visto per esempio per il Servizio di Napoli, probabilmente

anche a causa di una certa confusione a livello normativo. Infatti, a complicare il quadro, il

legislatore, definendo le competenze del Giudice di Pace (nel Decreto Legislativo 28

agosto 2000, n. 274) prima afferma che il Giudice, quando il reato è perseguibile a querela,

deve promuove la conciliazione tra le parti, poi suggerisce di ricorrere alle attività di

mediazione di centri e strutture pubbliche o private presenti sul territorio. Inoltre, anche il                                                                                                                30 Tratto dal glossario “Le parole della mediazione” consultabile sul sito del Ministero della Giustizia - Dipartimento di Giustizia Minorile al link http://www.giustiziaminorile.it/rsi/studi/Recenti/glossario_mediazione.pdf 31 Quando si parla di metodi risoluzione alternativa delle dispute si fa riferimento a tutti quei procedimenti o sistemi che permettono di definire in modo lecito una controversia giuridicamente rilevante, senza dover affrontare l’imposizione di una decisione emessa da un giudice nell’ambito di un processo ordinario.

-78-    

D.P.R. 448/88 non aiuta a fare chiarezza tra i due concetti, dal momento che prevede

esplicitamente solo la conciliazione, senza nominare l’istituto mediativo. Che nella prassi

sia stato possibile implementare anche (e soprattutto) la mediazione interpretando la

disposizione del decreto come un riferimento più generale alle prassi di giustizia riparativa,

non consente di affermare con certezza che questa fosse la volontà del legislatore.

Ad ogni modo, pur di fronte a questa eterogeneità di significati attribuiti ai diversi termini,

si è scelto di darne qui una definizione chiara anche in ambito penale, a partire dalle

riflessioni e dalle esperienze raccolte. Da qui in poi, infatti, si farà riferimento ai termini

intendendo: per mediazione un percorso con finalità umanistica di riattivazione della

comunicazione ed espressione della dimensione emotiva derivante dal reato, rivolto

esclusivamente a reo e vittima e realizzato in contesti particolarmente “tutelati”, estranei ai

servizi e ai soggetti implicati nel procedimento penale, quali gli Uffici di Mediazione

istituiti sul territorio; mentre per conciliazione un percorso di scambio e riconoscimento

reciproco tra le parti, anche se prevalentemente finalizzato al raggiungimento di un

accordo rispetto ad un progetto di riparazione simbolica o economica, attuata

prevalentemente per reati minori e/o contro il patrimonio anche direttamente dai servizi

che seguono il minorenne per il procedimento.

Dalle informazioni raccolte tramite la ricerca conoscitiva, possiamo affermare che questi,

mediazione e conciliazione, costituiscono i modelli prevalenti di attuazione della giustizia

riparativa in Italia, a cui possiamo affiancare le restorative group conference, benché

sperimentate in un’unica occasione.

Tra questi non esiste, evidentemente, un modello “giusto” ed uno “sbagliato”, migliore o

peggiore dell’altro (almeno a livello teorico). Esistono, al contrario, diverse modalità

attuative che, finché saranno ispirate e rispetteranno i valori della restorative justice,

potranno essere a buon diritto considerate esperienze di giustizia riparativa. Il desiderio è

sempre e comunque quello di dar vita ad esperienze che riescano a soddisfare i bisogni

della vittima ed insieme a favorire la maturazione e la responsabilizzazione del reo, nella

prospettiva della riduzione della recidiva. Si declina, però, con caratteristiche diverse che

rispecchiano le esigenze e le peculiarità dei singoli casi e contesti. Rimane, quindi, da

chiedersi come possa essere attuato nella sperimentazione di “Bruciare i tempi”, quali

modalità e caratteristiche siano state individuate, al termine di questo percorso di ricerca,

come esempi di buone prassi a cui ispirarsi.

-79-    

CAPITOLO 3: PROSPETTIVE DI SVILUPPO FUTURO

3.1 IPOTESI DI BUONE PRASSI Per comprendere quali possano essere gli spazi e le prospettive di sviluppo della giustizia

riparativa, sia nel Progetto “Bruciare i tempi” che in eventuali sperimentazioni future, è

utile riprendere alcuni concetti emersi nel corso di questa Parte Seconda.

Anzitutto è bene ricordare che in Italia non esistono normative specifiche e che il

legislatore non è ancora intervenuto a disciplinare le modalità con cui la giustizia riparativa

debba essere declinata in azioni concrete. Eventuali limitazioni rispetto all’uso di un

particolare modello (come si è visto, la mediazione di stampo umanistico) derivano,

dunque, da una “fossilizzazione” delle prassi e non da vincoli di legge. Anzi, a ben vedere,

le Linee Guida elaborate dal Dipartimento di Giustizia Minorile italiano invitano a

sperimentare, a introdurre nuove prassi (quali, ad esempio, le restorative group

conferences), ad estendere il campo di azione e la tipologia di situazioni e persone da

coinvolgere nei percorsi di giustizia riparativa. Contemporaneamente, come si è visto,

anche a livello europeo ed internazionale ci si è espressi a favore di un maggior utilizzo di

misure di giustizia riparativa in presenza di reati minori, per i quali, forse, sarebbe più

adeguato non dar luogo nemmeno al procedimento, come accade per le misure di diversion

anglosassoni e per cui, quando ciò non sia possibile, è bene favorire un’uscita rapida dal

circuito penale. A questo proposito si ricorda che in Italia il 60% dei reati di minorenni del

2007 sono stati commessi da ragazzi alla loro prima esperienza di reato e riguardano

prevalentemente reati bagatellari e contro il patrimonio.

Un primo sviluppo futuro potrebbe, quindi, riguardare un più ampio utilizzo ed una

maggior apertura e flessibilità nella promozione di nuove misure di restorative justice, che

consenta anche di avvicinarsi alla quantità e varietà di esperienze di questo tipo realizzate

in altri Paesi.

In particolare, quanto mi sento di suggerire, a conclusione di questa ricerca, a chi dovrà

modellare le azioni di giustizia riparativa in questo progetto, è di non decidere a priori

quale modello (mediazione, conciliazione o restorative group conference) progettare, bensì

di stabilire delle prassi che consentano di scegliere di volta in volta quale di queste misure

proporre. A questo proposito, mi sembra molto istruttiva l’esperienza dell’U.S.S.M. di

Venezia che, come si è visto, prevede due percorsi distinti, mediativo e conciliativo,

modulati secondo caratteristiche e finalità peculiari e differenti. A mio parare, tuttavia,

anche questa esperienza risente di una certa rigidità, nella misura in cui la scelta dell’uno o

dell’altro percorso è strettamente legata alla tipologia di reato commesso dal minorenne

-80-    

(contro la persona per la mediazione, contro il patrimonio per la conciliazione). Come si è

avuto modo di vedere, infatti, possono esistere situazioni di reati contro il patrimonio per

cui sia utile prevedere un percorso mediativo, ipotesi che verrebbe esclusa seguendo un

modello decisionale quale quello proposto da Venezia.

Potrebbe essere utile, invece, prevedere sì più percorsi, ma contestualmente anche la

possibilità di modulare la scelta di quale di questi attivare a seconda della situazione

specifica e delle finalità che si intendono raggiungere con quel ragazzo e la sua famiglia.

In questo senso, si rivela decisiva la possibilità che siano direttamente i servizi sociali a

decidere se e quale azione di giustizia riparativa proporre, poiché pare difficile (anche se

non impossibile) immaginare che l’Autorità Giudiziaria possegga le informazioni

necessarie per operare una scelta di questo tipo. I servizi sociali, invece, avendo possibilità

di incontrare il minorenne reo e la sua famiglia all’interno della funzione di indagine

conoscitivo-valutativa della personalità del ragazzo, potrebbero individuare con maggior

facilità il percorso più adatto, valorizzando così anche il principio di adeguatezza al

bisogno del minorenne contenuto nel D.P.R. 448/88, nonché la convinzione, centrale nel

lavoro dell’assistente sociale, che un progetto di intervento debba essere quanto più

possibile individualizzato e costruito “su misura”.

Perché, nella pratica, sia possibile proporre questa nuova prassi, è necessario che esista una

buona collaborazione tra servizi e soggetti con titolarità nel processo penale minorile ed in

particolare tra servizi e Autorità Giudiziaria e tra soggetti del territorio in cui si opera. E’

quanto mai fondamentale, infatti, anzitutto che l’Autorità Giudiziaria riconosca e valorizzi

questa nuova prassi, anche perché, ed è bene ricordarlo, la sua autorizzazione è

fondamentale nell’avvio di una qualsiasi azione di giustizia riparativa che voglia avere

rilevanza giuridica. Rispetto agli attori sociali del territorio, è altrettanto evidente che,

soprattutto qualora li si voglia coinvolgere (ad esempio in percorsi di conciliazione o di

RGC), sarebbe bene che conoscessero l’esistenza di tale possibilità e supportassero questo

percorso di lavoro con il ragazzo reo. D’altra parte, ciò è quanto dovrebbe essere

generalmente garantito dai servizi quando si elaborano progetti di lavoro e intervento in

ambito penale minorile (e non solo) che vogliano essere veramente efficaci.

Per le riflessioni qui riportate, il Progetto “Bruciare i tempi” offre un buon ambito di

sperimentazione, essendo, come si è visto, caratterizzato da un buon lavoro di rete e da

flessibilità ed autonomia operativa dei servizi sociali nell’attivazione di misure di giustizia.

Ecco, dunque, che limitatamente a questa specifica sperimentazione e questo particolare

contesto, si propone, come ipotesi di buona prassi, quanto segue.

-81-    

3.2 I TRE PERCORSI Come si è detto, la sperimentazione di nuove prassi di lavoro con misure di giustizia

riparativa dovrebbe essere centrata sulla possibilità di scegliere per ogni specifica

situazione uno dei tre percorsi sopra descritti.

In particolare, l’Unità Operativa Penale Minorile (U.O.P.M.), servizio a cui è stata

appaltata dai Comuni del vimercatese-trezzese la gestione dei servizi di penale minorile, in

collaborazione con i servizi sociali dei singoli comuni ed in generale con i servizi del

territorio, sulla base delle informazioni raccolte sul (e con) il ragazzo reo, avendo stabilito

la possibilità e la positività di un eventuale percorso di giustizia riparativa, dovrebbe quindi

decidere quale percorso proporre.

Nella scelta di quale, dei tre modelli individuati (mediazione, conciliazione e RGC) sia il

più adatto valuterà le finalità che si intendono perseguire con l’azione di giustizia

riparativa, l’adeguatezza alla situazione specifica del minorenne, la caratteristiche, i punti

di forza e le criticità di ogni modello, che verranno qui brevemente descritte. Tali

riflessioni potranno essere utilizzate dagli operatori o da chiunque voglia sperimentare

queste ipotesi di buone prassi, come bussola per orientarsi nella scelta di quale sia il

percorso più adatto per ogni singola e concreta situazione, nella consapevolezza che la

decisione dipenderà, molto probabilmente, anche da fattori diversi (fattibilità del percorso

per quel ragazzo, esistenza di risorse e servizi…) rispetto a quelli che verranno qui

presentati.

3.2.1 Percorso di mediazione La mediazione, come si ha avuto modo di notare, ha il grande vantaggio di offrire spazi

tutelati e protetti in cui le parti possano esprimere emozioni anche molto dolorose e

profonde e, pertanto, può indubbiamente favorire una trasformazione dei sentimenti e delle

convinzioni delle parti in favore dell’abbandono di una prospettiva conflittuale verso una

di comprensione, dialogo e riconoscimento dell’altro. Questa sua peculiarità la rende, a

mio parere, molto adatta alle situazioni in cui si ritiene importante ripristinare una

relazione o un legame sociale o in cui il reato ha generato un danno emotivo profondo alla

vittima, quali, ad esempio, i casi di violenze sessuali o in generale i reati contro la persona.

In questi casi, la mediazione dovrebbe essere preceduta da un lavoro individuale con le

parti, che le prepari ad incontrarsi in quello che sicuramente costituisce un momento tanto

delicato, quanto potenzialmente arricchente. Pertanto sarebbe, a mio parere utile, collocare

-82-    

la mediazione in fase processuale ed in particolare all’interno del progetto di messa alla

prova.

D’altra parte, anche per i reati meno gravi possono comunque delinearsi situazioni per cui

si valuta importante valorizzare la dimensione dello scambio comunicativo ed emotivo tra

le parti. Ciò significa che, appunto, potrebbero esserci casi di reati bagatellari che, avendo

per esempio interrotto una pre-esistente relazione tra due persone, potrebbero richiedere un

lavoro approfondito sulle emozioni e sulla riattivazione della comunicazione e, pertanto,

potrebbero qualificarsi come più adatti ad un percorso di questo tipo. Per tali situazioni è

possibile pensare di proporre questa misura di giustizia riparativa anche in fase pre-

processuale ed eventualmente extra-giudiziale, trattandosi, infatti, di reati meno gravi per

cui può non essere necessario un lungo lavoro di preparazione.

In ogni caso il percorso mediativo dovrebbe essere svolto da un servizio esterno e da

operatori che non abbiano seguito o preso in carico il ragazzo imputato o indagato.

Trattandosi, infatti, di situazioni in cui è molto forte la distanza fra reo e vittima, distanza

che si cerca di ridurre tramite la mediazione, si deve cercare il più possibile di garantire

equiprossimità e neutralità degli operatori incaricati di portare avanti la mediazione,

soprattutto per una maggior tutela della posizione della vittima e per evitare quelle che nel

primo capitolo sono emerse come criticità, vale a dire la scarsa attenzione nei confronti dei

bisogni della parte lesa ed una sua “strumentalizzazione” al fine di favorire il reinserimento

sociale del reo. Ciò in particolare quando si proponga questo percorso per reati gravi e

particolarmente delicati per le conseguenze che hanno generato nella vittima e nel rapporto

tra questa ed il reo. Qualora decida di attivare un percorso di mediazione si suggerisce,

quindi, come buona prassi quella di attivare l’Ufficio di Mediazione Penale Minorile di

Milano, ossia un servizio esterno con operatori diversi da quelli che seguono il ragazzo.

Un limite della mediazione è invece quello di non offrire un buon coinvolgimento della

comunità nel percorso di giustizia riparativa sia rispetto alla possibilità di includere attori

comunitari (possibilità, questa, generalmente del tutto esclusa) sia relativamente alla

possibilità per il ragazzo di impegnarsi in attività socialmente utili. In generale, la

mediazione non riesce a garantire (anche se non esclude a priori) la possibilità di

un’attivazione riparativa poiché questa non rientra nelle finalità del percorso e, pertanto, a

mio parere non dovrebbe essere proposta in quei casi in cui, invece, si ritiene importante,

per le caratteristiche della personalità del minorenne o della situazione specifica, stabilire

un progetto concreto di azioni riparative.

-83-    

3.2.2 Percorso di conciliazione Probabilmente meno atta garantire l’espressione di sentimenti ed emozioni, la

conciliazione riesce, tuttavia, a promuovere l’attivazione pratica dei ragazzi ed una

responsabilizzazione che nasce non solo da confronto con l’altro, ma anche dalla capacità

di mettersi in gioco in prima persona e di portare a termine un progetto di riparazione alla

vittima o alla comunità. Per questa sua finalità, è particolarmente adatta alle situazioni in

cui, per le caratteristiche del reato, della vittima e del ragazzo, si ritenga più utile ed

efficace a soddisfare i bisogni del minorenne reo e della parte lesa centrare il percorso non

tanto sullo scambio comunicativo, quanto sulla decisione condivisa di un progetto di

riparazione.

Può, quindi, essere attuata per reati e situazioni meno gravi ed essere proposta già in fase

pre-processuale, andando a costituire, come si è visto, un’importante occasione di rapida

fuoriuscita dal procedimento. D’altra parte, può comunque essere pensata all’interno della

messa alla prova ed eventualmente anche come misura extra-giudiziale. In quest’ultimo

caso, ed in particolare quando sia stato commesso un reato bagatellare di danneggiamento

al patrimonio o alla cosa pubblica e la vittima si mostri disponibile ad evitare la denuncia o

ritirare la querela, la conciliazione può essere un’ottima modalità con cui offrire una forma

di riparazione del danno che soddisfi il bisogno di giustizia della parte lesa senza ricorrere

al sistema penale.

Per queste caratteristiche, il percorso di conciliazione può essere realizzato e gestito dagli

stessi operatori del servizio, come peraltro avviene a Venezia e come è stato sperimentato

per i ragazzi di Fino Mornasco, anche se, a mio parere, sarebbe importante evitare che a

rivestire il ruolo di facilitatore dell’incontro sia l’operatore che segue direttamente il

minore, onde evitare di apparire (ed eventualmente anche di essere) troppo sbilanciati dalla

parte del reo e non garantire più quella posizione di equiprossimità che costituisce un

elemento centrale di questa figura. Anche per questa ragione, si suggerisce di prevedere un

percorso di formazione alla conciliazione, per quanto la formazione professionale degli

operatori del sociale consenta, di per se stessa, di sviluppare competenze molto utili al

lavoro del facilitatore (si pensi all’empatia, alla capacità di ascolto e di dialogo, al

controllo dei pregiudizi, all’autoriflessività e così via).

Gli operatori del servizio, ad ogni modo, non sono gli unici attori chiamati a collaborare

alla conciliazione, che, a ben vedere, prevede, in un certo senso, due percorsi

consequenziali: il primo di conciliazione vera e propria, ossia di incontro e scambio tra le

parti, ed il secondo di riparazione. Il modello della conciliazione, infatti, non si conclude

-84-    

nel singolo incontro con la vittima, ma prosegue per tutto il tempo necessario e previsto

per l’attuazione delle azioni riparative, che possono esaurirsi in un singolo gesto di

riparazione simbolica o economica oppure concretizzarsi nell’impegno continuativo per un

certo periodo in attività socialmente utili.

In quest’ultimo caso, come si è descritto per l’esperienza di Fino Mornasco, il percorso

coinvolgerebbe anche altri soggetti (associazioni, cooperative sociali…) presso cui il

minorenne reo svolgerebbe le proprie attività. Tra questi attori sociali e il servizio sociale

di penale minorile è bene che si instauri un rapporto di collaborazione, al fine di

monitorare l’andamento del percorso e pianificare eventuali modifiche qualora dalla

valutazione in itinere emerga la necessità di ricalibrare il progetto.

Analogo lavoro di follow up dovrebbe essere svolto direttamente dall’operatore che segue

il minorenne con il ragazzo stesso, prevedendo all’interno dei normali colloqui per le

indagini psico-sociali o per la messa alla prova uno spazio per discutere l’andamento del

percorso riparativo, oppure definendo colloqui specifici con questa finalità.

Al termine del percorso, ossia una volta conclusa l’azione riparativa o le attività

socialmente utili, potrebbe essere buona prassi organizzare anzitutto degli incontri di

restituzione con il ragazzo, per comprendere quali siano le sue impressioni sul cammino

fatto e poi anche con il referente del servizio in cui il minore ha svolto le attività, per

elaborare insieme una valutazione finale sul percorso. Per quanto riguarda gli esiti, quindi,

si deve ritenere che il percorso abbia avuto esito positivo non solo quando le parti sono

riuscite a comunicare durante l’incontro, ma anche quando il minore abbia portato a

termine gli impegni presi con l’accordo di riparazione. Certamente non è un obiettivo

semplice da raggiungere, anche solo per l’impegno richiesto al minorenne reo a livello di

tempo.

Anche in virtù di questa considerazione, si ritiene fondamentale coinvolgere da subito i

genitori del minorenne reo, perché comprendano da dove è scaturito questo progetto, quali

sono le finalità e in che modo possono sostenere il proprio figlio in questo percorso.

Accanto ai genitori (del minore ma anche della vittima se minorenne), si può pensare di

includere, come avviene a Venezia, altri soggetti afferenti, per esempio, alla sfera amicale

del ragazzo imputato, che gli operatori valutino come importanti e di sostegno per il

ragazzo. Considerando che ci stiamo riferendo a ragazzi nell’età dell’adolescenza, per i

quali gli amici, forse ancor più dei genitori, costituiscono il punto di riferimento e di

costruzione della propria identità, appare evidente, infatti, quanto sia importante

coinvolgere il gruppo dei pari affinché non sminuiscano il lavoro del ragazzo, rendendo

-85-    

inefficace il progetto. Si noti che, nell’esperienza di Venezia la scelta di includere altre

persone nell’incontro è stata gestita dagli operatori dell’U.S.S.M., differenziandosi così dal

modello delle RGC, in cui è invece il minorenne reo a stabilire chi coinvolgere. Potrebbe

essere seguita la prassi di Venezia, oppure orientarsi più verso il modello delle RGC

creando un percorso sì di conciliazione, ma con caratteristiche che, per certi versi, lo

avvicinano alle restorative group conference.

3.2.3 Percorso di restorative group conference Le restorative group conference, anche se presenti in forma ancora sperimentale ed

embrionale, costituiscono un’importante modalità di attuazione della giustizia riparativa,

poiché, come ricordato anche in precedenza, consentono di mobilitare la comunità più

allargata e di promuovere l’inclusione sociale, elementi tutti che contribuiscono a generare

possibilità di crescita e maturazione nel minorenne autore di reato.

La peculiarità di questo modello, infatti, è quella di estendere la partecipazione ad un

numero ampio di soggetti, quali ad esempio i familiari, il gruppo amicale, un

rappresentante del contesto scolastico, o delle associazioni cui il ragazzo partecipa o altri

ancora che abbiano un ruolo importante per il minorenne che ha commesso il reato e

possano contribuire alla presa di coscienza su quanto commesso e sulle conseguenze che

ha avuto determinato anche sul contesto di vita.

La buona ragione che spinge a muoversi in questa direzione è già stata sottolineata più

volte nel corso di questa trattazione e rimanda all’importanza del coinvolgimento della

comunità. Anzitutto, infatti, la comunità ha il dovere e l’interesse ad essere inclusa nei

percorsi di intervento nei confronti dei minori che hanno un commesso un reato: ha

interesse a sapere se e come i servizi hanno risposto al crimine, ha il dovere di proporre

possibilità e occasioni di reinserimento sociale del reo, da cui peraltro trarrebbe solo

vantaggi in termini di riduzione della recidiva e diminuzione del tasso di criminalità.

Oltretutto, se riprendiamo la teoria della reintegrative shaming di Braithwaite (1989), non

possiamo non accorgerci di quanto sia decisivo, affinché il minore possa reinserirsi con

successo e senza stigmatizzazione nella comunità, che la comunità conosca il percorso

compiuto dal minore e riconoscano gli sforzi e i cambiamenti evolutivi seguiti al reato e

alla denuncia.

E’, indubbiamente, un modello complesso e faticoso per quanto riguarda l’organizzazione

e la gestione dell’incontro e successivamente del progetto, ma d’altro canto le potenzialità

-86-    

sono altrettanto significative. Si guardi, ad esempio, oltre alla sperimentazione di RGC

nella Provincia di Monza-Brianza, anche all’esperienza dei ragazzi di Fino Mornasco, per i

quali il riconoscimento da parte della comunità e delle forze dell’ordine del lavoro

compiuto ha contribuito a maturare la consapevolezza di essere inseriti in una comunità e a

determinare in loro il desiderio di esserne parte attiva, continuando le attività di

volontariato o partecipando alle iniziative proposte dal Comune.

Si ricorda, a questo proposito, che sempre le Linee Guida del Dipartimento di Giustizia

Minorile suggeriscono il coinvolgimento delle Forze dell’Ordine nei percorsi di giustizia

riparativa, anche in virtù del potere loro riconosciuto dal Testo Unico delle Leggi di

Pubblica Sicurezza di “provvedere alla bonaria composizione dei dissidi privati”.32

Potrebbe essere quindi molto utile includere nelle RGC anche queste figure, non tanto

come appartenenti alla “famiglia” del minorenne, ma quanto come facilitatori

dell’incontro, chiaramente previa partecipazione ad un percorso formativo specializzato.

Non esistono, infatti, elementi legislativi che impediscano a polizia e carabinieri di

diventare mediatori e che, al contrario, in diverse esperienze estere, prime fra tutte quelle

britanniche e australiane, da tempo le forze dell’ordine rivestono un ruolo centrale nel

percorso di RGC. Il ruolo di facilitazione della conference potrebbe altresì essere ricoperto

anche da altri soggetti comunitari, ad esempio operatori di associazioni o cooperative di

terzo settore che siano figure significative nel contesto e sappiano, da un lato ridare valore

alla dimensione collettiva del reato (quale danno alla società), dall’altro riconoscere il

percorso del minore e favorire il suo reinserimento.

Se, dunque, rispetto a conciliazione e mediazione le RGC offrono in più la possibilità di

includere la comunità nel percorso, d’altro canto nelle conference la vittima ricopre un

ruolo più marginale rispetto a quanto non avvenga negli altri modelli. Di fronte all’elevato

numero di persone a supporto del minorenne reo rischia infatti di “scomparire”, per lasciar

posto ad un lavoro centrato quasi esclusivamente sul ragazzo reo. Tale problematicità era,

peraltro, già emersa nei primi capitoli quando si sono elencate le problematiche legate

all’inserimento dell’attore comunitario nel percorso proposto dalla restorative justice.

E’ importante, quindi, qualora si progettino esperienze di questo tipo, prestare attenzione ai

bisogni della parte lesa e, come per la conciliazione, evitare di proporre una RGC per

situazioni molto dolorose e delicate dal punto di vista relazione tra reo e vittima. Sarebbe

quindi consigliabile utilizzare questo modello per reati contro il patrimonio, evitando

invece i reati contro la persona, per cui si ritiene necessario attivare un percorso che tuteli                                                                                                                32 In base a quanto stabilito dall’art. 1 del "Testo unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza" del 1931

-87-    

maggiormente la parte lesa. D’altro canto, potrebbe invece essere molto utile per prevenire

la commissione di nuovi reati e ridurre la conflittualità a livello territoriale e, quindi, essere

usato con efficacia in fase extra-giudiziale. Ciò non toglie che questo modello possa essere

proposto anche all’interno del procedimento, come peraltro dimostrato dall’ di RGC nel

Progetto Volano.

Si ricorda, a questo proposito, che il Progetto “Bruciare i tempi” sarà attuato in un’area

della Provincia di Monza-Brianza, ossia nello stesso contesto in cui si è sperimentata per la

prima volta una misura di RGC. Tale contesto, quindi, avendo già sviluppato modalità

operative che consentano di proporre percorsi di restorative group conference, potrebbe

essere particolarmente favorevole alla sperimentazione delle buone prassi qui proposte.

3.3 RIFLESSIONI RIASSUNTIVE Dal momento che le buone prassi ipotizzate nei paragrafi precedenti possono risultare

complesse e alquanto articolate, si propone qui di seguito uno schema riassuntivo che aiuti

nella visualizzazione e nella comprensione del modello sperimentale proposto.

In generale, comunque, le prassi qui proposte possono essere sintetizzate in pochi principi

di fondo: anzitutto la flessibilità e le possibilità di ricorrere a modelli di giustizia diversi ed

infine l’adeguatezza del percorso alla situazione concreta e ai bisogni delle parti.

-88-    

Grafico 9.

Il servizio, conosciuto il ragazzo e la famiglia, ritiene possibile e utile attivare un percorso di giustizia riparativa

A seconda delle finalità e delle caratteristiche della situazione specifica, il servizio sceglie tra

uno di questi percorsi

PERCORSO DI MEDIAZIONE

- finalità di riattivazione comunicazione, superamento distanza reo-vittima, attenzione aspetti emotivi;

- molto adatta per reati gravi, contro la persona;

- adatta ad essere proposta in tutte le fasi del ppm (pre-processuale e processuale). Meno adatta come misura extra-giudiziale;

- richiede attivazione di servizio esterno (ad esempio un Ufficio di Mediazione Penale Minorile);

- non valorizza la dimensione comunitaria e non coinvolge altre parti che non siano reo e vittima;

- può non garantire possibilità di azioni riparative.

PERCORSO DI CONCILIAZIONE

- finalità di attivazione del ragazzo reo per riparazione del danno con attività alla vittima o alla comunità;

- molto adatto per reati bagatellari, contro il patrimonio;

- adatta a tutte le fasi, in particolare quella pre-processuale (come misura per chiusura rapida del ppm);

- non richiede attivazione di servizio esterno, può essere gestita direttamente dal servizio sociale;

- può prevedere coinvolgimento anche di altre parti oltre reo e vittima. Parziale valorizzazione della dimensione comunitaria.

- può non garantire un lavoro approfondito sulla dimensione relazionale ed emotiva.

PERCORSO DI RESTORATIVE GROUP CONFERECE

- finalità di includere soggetti importanti per il ragazzo nella decisione del progetto di riparazione;

- molto adatto per reati bagatellari, contro il patrimonio;

- adatta a tutte le fasi, in particolare quella pre-processuale (come misura per chiusura rapida del ppm). Utile strumento extra-giudiziale per riduzione conflitti;

- non richiede attivazione di servizio esterno, può essere gestita direttamente dal servizio sociale, ma adeguatamente preparato (complessità del percorso);

- prevede coinvolgimento di persone a sostegno del reo e di attori comunitari nel ruolo di facilitatori. Grande valorizzazione della dimensione comunitaria.

- può non garantire attenzione ai bisogni della vittima

-89-    

CONCLUSIONI

La restorative justice, nata ormai quarant’anni fa, costituisce ad oggi un modello di

giustizia diffuso e riconosciuto nella sua capacità di ridare centralità e valore ai bisogni di

tutte le parti che il reato chiama in causa. Partendo da forme arcaiche di gestione dei

conflitti, si è sviluppata secondo tre modelli (VOM, RGC e Circles), a loro volta declinati

con modalità assai diverse nei contesti nazionali e locali, dando luogo ad un panorama di

esperienze ricco e variegato. Tra queste, le prassi italiane si contraddistinguono anzitutto

per un’evidente carenza in termini di riconoscimento legislativo, potendo individuare come

unico riferimento esplicito il più volte citato articolo 28 del D.P.R. 448/88 e per la scarsità

di esperienze realizzate. Rispetto ad altri paesi europei, l’Italia, da questo punto di vista,

sembra ancora «in fase di sperimentazione, nonostante il tempo già trascorso dopo le prime

esperienze» (Scivoletto, 2009, p.48). Si è, infatti, nella situazione in cui, a causa

dell’assenza di discipline normative precise e di standard nazionali, l’attuazione di misure

di giustizia riparativa dipende, in buona parte, dalla sensibilità dell’Autorità Giudiziaria e

dalla scelta autonoma dei diversi contesti.

Per il futuro ci si auspica, quindi, che la restorative justice ottenga una propria

legittimazione anche a livello normativo e che venga attuata non più su discrezionalità

dell’una o dell’altra figura, ma sistematicamente per tutte le situazioni in cui, per legge, sia

stata stabilita una sua possibile applicazione.

In generale, si dovrebbe promuovere un maggior riconoscimento e valorizzazione delle

potenzialità di questo modello di giustizia, che vanno dalla flessibilità e capacità di

adattarsi alle situazioni concrete, alla capacità di soddisfare i bisogni della vittima e di

favorire la maturazione ed il reinserimento del reo attraverso un percorso che mira a

coinvolgere l’intera comunità e a raggiungere un’ampia trasformazione sociale.

Con le ipotesi di buone prassi che si sono presentate in conclusione a questa ricerca si è

cercato di proporre una modalità con cui muoversi in questa direzione ed, in generale, con

cui estendere le possibilità applicative della giustizia riparativa. Tali indicazioni sono

rivolte anzitutto ai servizi sociali (locali e ministeriali), poiché responsabili, insieme

all’Autorità Giudiziaria, del rispetto dei principi di adeguatezza alla personalità e di tutela

delle esigenze educative del minorenne reo, nonché in quanto soggetti titolari della

possibilità di proporre un percorso di giustizia riparativa e talvolta di gestirlo in prima

persona.

Inoltre, si è convinti che l’assistente sociale, per le sue specifiche competenze e

caratteristiche professionali relativamente alla costruzione di reti sociali e di modelli di

-90-    

lavoro interprofessionale, sia, più di altri, in grado di promuovere azioni di giustizia

riparativa che, come si è visto, richiedono la creazione di strategie integrate di intervento

interistituzionale e multidisciplinare (Galavotti e Russo, 2010).

Infine, riprendendo quanto affermato nell’introduzione generale, il servizio sociale non

può non sentirsi accomunato all’impianto valoriale da cui muove la restorative justice, non

può non desiderarne la diffusione, poiché questa potrebbe garantire maggior rispetto delle

relazioni interpersonali e sociali e, quindi, maggior benessere individuale e comunitario.

Per tutte queste ragioni, si auspica che nei prossimi anni i servizi sociali italiani sappiano

aprirsi a questo modello, approfondire la riflessione in merito e farsi promotori in prima

linea di nuove azioni di giustizia riparativa.

-91-    

INDICE DEI RIFERIMENTI NORMATIVI

Legislazione internazionale

• Convenzione sui diritti del fanciullo (New York, 20 novembre 1989)

• Regole minime per l’Amministrazione della giustizia minorile (Bejing, 29/11/1985

Assemblea plenaria delle Nazioni Unite

• Risoluzione sulla "Cooperazione internazionale tesa alla riduzione del

sovraffollamento delle prigioni ed alla promozione di pene alternative" (Economic and

social Council delle Nazioni Unite n. 1998/23 del 28/07/1998)

• Risoluzione sui “Principi base sull'uso dei programmi di giustizia riparativa in materia

criminale” (Economic and Social Council delle Nazioni Unite n. 2000/14 del

27/07/2000)

• Risoluzione sui “Principi base circa l'applicazione di programmi di giustizia riparativa

nell'ambito penale” (Economic and Social Council delle Nazioni Unite n. 15/2002)

• Dichiarazione di Vienna su criminalità e giustizia (X Congresso delle Nazioni Unite

sulla Prevenzione del crimine e il trattamento dei detenuti, aprile 2000)

• Raccomandazione n.(85)11 sulla Posizione della Vittima nell'ambito del Processo

Penale (28/06/1985, Consiglio d’Europa)

• Raccomandazione n.(87)21 sull'assistenza alle vittime (17/11/1987, Consiglio

d’Europa)

• Raccomandazione n.(87)20 sulle risposte sociali alla delinquenza minorile

(17/09/1987, Consiglio d’Europa)

• Raccomandazione n. (99)19 relativa alla Mediazione in materia penale (15/09/1999

Consiglio d'Europa)

Legislazione italiana a livello nazionale

• Costituzione italiana (articolo 112);

• Codice penale e di procedura penale;

-92-    

• Legge del 26 luglio 1975, n. 354, “Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla

esecuzione delle misure privative e limitative della libertà”

• Decreto del Presidente della Repubblica del 22 settembre 1988 n. 448, "Disposizioni

sul processo penale a carico di imputati minorenni";

• Decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 27222, “Norme di attuazione, di coordinamento

e transitorie del decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 449,

recante norme per l'adeguamento dell'ordinamento giudiziario al nuovo processo

penale ed a quello a carico degli imputati minorenni.”

• Decreto Legislativo 28 agosto 2000, n. 274, “Disposizioni sulla competenza penale

del giudice di pace, a norma dell'articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468”

Legislazione a livello regionale (Lombardia)

Circolare regionale 22 novembre 2007 n.37.

-93-    

BIBLIOGRAFIA

• Braithwaite J. (1989) Crime, Shame and Reintegration, Cambridge University

Press, Cambridge.

• Ciappi S. e Coluccia A. (1997) Giustizia criminale: retribuzione, riabilitazione e

riparazione  : modelli e strategie di intervento penale a confronto, Franco Angeli,

Milano.

• Ciavola A. (2010) Il Contributo Della Giustizia Consensuale e Riparativa

All’efficienza Dei Modelli Di Giurisdizione, Giappichelli Editore, Torino.

• De Lillo A. (a cura di) (2010) Il Mondo Della Ricerca Qualitativa, UTET Libreria

Universitaria, Torino.

• Del Campo J, Martì R. e Vinuesa M.R. (2011), “Mediation Among Young

Immigrants in the Juvenile Penal Justice System”, Journal of Social Work.

• Di Ciò F. (2005) “Giustizia Riparativa e Mediazione Penale Minorile in Italia”,

Rivista Di Mediazione Familiare Sistemica, 3-4.

• Dutton K. E Whyte B. (2006), “Implementing Restorative Justice Within an

Integrated Welfare System: The Evaluation of Glasgow’s Restorative Justice

Service”, CJSW Briefing ,8.

• Galavotti C. e Russo G. (2010) “Modello Di Giustizia Riparativa e Vittime:

Alcune Riflessioni Per Un Nuovo Approccio Di Servizio Sociale”, La Rivista Di

Servizio Sociale , 3-4.

• Johnstone G. e Van Ness D. (2007), Handbook of Restorative Justice, Willan,

London.

• De Leo G. e Patrizi P. (1999), Trattare Con Adolescenti Devianti. Progetti e

Metodi Di Intervento Nella Giustizia Minorile, Carocci, Roma.

• Mannozzi G. (2003) La Giustizia Senza Spada. Uno Studio Comparato Su Giustizia

Riparativa e Mediazione Penale, Giuffrè Editore, Milano.

• Mannozzi G. (2004), Mediazione e Diritto Penale. Dalla Punizione Del Reo Alla

Composizione Con La Vittima, Giuffrè Editore, Milano.

• Martini E. e Torti A. (2003), Fare lavoro di comunità. Riferimenti teorici e

-94-    

strumenti operativi, Carocci Faber, Roma.

• Mazzuccato C. (2002), “Mediazione Penale. Una Testimonianza e Qualche

Riflessione a Partire Dall’esperienza Milanese”, Dignitas. Percorsi Di Carcere e

Giustizia, 1.

• Molinari F. e Amoroso A. (1998) Criminalità minorile e mediazione: riflessioni

pluridisciplinari, esperienze di mediazione e ricerche criminologiche sui minori,

Franco Angeli, Milano.

• Morineau J. (2000), Lo Spirito Della Mediazione, Franco Angeli, Milano.

• Morris A e Maxwell G (2001), Restorative Justice for Juveniles, Hart Publishing,

Oxford.

• Neve E. (2008), Il Servizio Sociale. Fondamenti e Cultura Di Una Professione,

Carocci Faber, Roma.

• Palazzo F. e Bartoli R. (2011), La Mediazione Penale Nel Diritto Italiano e

Internazionale, Firenze University Press, Firenze.

• Palomba F. (1991), Il Sistema Del Nuovo Processo Penale Minorile: Aspetti

Giuridici, Psicologici, Criminologici, Giuffré Editore, Milano.

• Pedrinazzi A. (2002), “Il “Probation System” e La Sua Applicazione”, Dignitas.

Percorsi Di Carcere e Giustizia, 1.

• Peroni F. e Gialuz M. (2004), La Giustizia Consensuale. Concordati, Mediazione e

Conciliazione, UTET Libreria, Torino.

• Picotti L. (1998), La Mediazione Nel Sistema Penale Minorile, CEDAM, Padova.

• Ponti G. (1995), Tutela Della Vittima e Mediazione Penale, Giuffrè Editore,

Milano.

• Rossi E. (2009), Paure e Bisogni Di Sicurezza Degli Anziani. Un’indagine Sulle

Rappresentazioni Dell’insicurezza, Sulla Vittimizzazione Reale e Sulla Necessità Di

Protezione Degli Anziani Dei Comuni a Sud Di Milano, Mondadori, Milano.

• Scaparro F. e Roi G. (1992), La Maschera Del Cattivo. Delinquenza Minorile e

Responsabilità Adulta, Edizioni Unicopoli, Milano.

• Scardaccione G. (1997), “Nuovi Modelli Di Giustizia: Giustizia Riparativa e

-95-    

Mediazione Penale”, Rassegna Penitenziaria e Criminologica, 1-2.

• Scardaccione G., Baldry A, e Scali M. (1998) La Mediazione Penale. Ipotesi Di

Intervento Nella Giustizia Minorile, Giuffrè Editore, Milano.

• Scivoletto C. (2009), Mediazione Penale Minorile. Rappresentazioni e Pratiche,

Franco Angeli, Milano.

• Tartaglione G. (1990), “La Sospensione Condizionale Con Probation”, Rassegna

Penitenziaria e Criminologica, 1,3.

• Tignano S. (2006), “Giustizia Riparativa e Mediazione Penale”, Rassegna

Penitenziaria e Criminologica, 2.

• Turlon F. (2008), “La Mediazione Penale Minorile Tra Potenzialità Teoriche,

Risultati Ottenuti e Inefficienze Operative”, AIAF Rivista, 3.

• Vezzadini S. (2003), Mediazione Penale Fra Vittima Ed Autore Di Reato.

Esperienze Statunitensi, Francesi e Italiane a Confronto, CLUEB Cooperativa

Libraria Universitaria Editrice Bologna, Bologna.

• Vianello F. (1999), “Per Uno Studio Socio-giuridico Della Mediazione Penale”,

Sociologia Del Diritto, 2.

• Williams III F. e McShane M. (2002), Devianza e Criminalità, Il Mulino,

Bologna.

 

SITOGRAFIA

- Restorative Justice Online, http://www.restorativejustice.org/, settembre 2012.

- Restorative Justice Council, http://www.restorativejustice.org.uk/, settembre 2012.

- Ministero della Giustizia, http://www.giustizia.it/giustizia/, ottobre 2012.

- Dipartimento per la Giustizia Minorile, http://www.giustiziaminorile.it/, ottobre

2012.

- L'altro diritto, Centro di documentazione su carcere, devianza e marginalità,

http://www.altrodiritto.unifi.it/, 2012

-96-    

ALLEGATI

ALLEGATO 1: GRIGLIA DI INTERVISTA 1. All’interno del Vostro servizio, cosa si intende per mediazione, per

conciliazione e per restorative group conference? ______________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________ 2. Da dove nasce la scelta di dar vita a questo/i percorso/i? ______________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________ 3. (Quando previsti più percorsi) quali sono le differenze procedurali tra i

percorsi? ______________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________ 4. Da dove è nata l’idea di attivare esperienze di mediazione/conciliazione/restorative group conference? Quali sono le motivazioni che vi hanno portato a scegliere questo percorso (e non altri)? ______________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________ 5. Quali obiettivi si intendono raggiungere con questo/i percorso/i? ______________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________

6. In che fase del processo penale minorile si inserisce?

Preprocessuale Processuale

-97-    

7. Quali attori sono coinvolti attivamente nel percorso? PM Giudice Servizi Sociali della Giustizia (USSM) Servizi Sociali locali Il minore La famiglia del minore L’avvocato La vittima Altri servizi esterni (Centri per la mediazione, Asl..) La comunità (associazioni volontariato...) Altro:

___________________________________________________________ ____________________________________________________________________________________________________________________________________ 8. Quali attori sono coinvolti nel percorso ma solo in modo indiretto, senza una partecipazione significativa?

PM Giudice Servizi Sociali della Giustizia (USSM) Servizio Sociali locali Il minore La famiglia del minore L’avvocato La vittima Altri servizi esterni (Centri per la mediazione, Asl...) La comunità (associazioni di volontariato...) Altro:

___________________________________________________________ ____________________________________________________________________________________________________________________________________ 9. Chi attiva il percorso?

PM Giudice USSM Servizi Sociali locali Altri servizi esterni (Centri per la mediazione, Asl...) Altro:

_________________________________________________________________________ __________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________

-98-    

10. Dove si tiene la mediazione/conciliazione/restorative group conference? ______________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________ 11. Chi è il mediatore/facilitatore? Deve avere una formazione particolare? ______________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________

12. Per quali casi viene proposta la conciliazione? Quali sono i criteri di scelta? ______________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________

13. Quando si può affermare che la mediazione/conciliazione/restorative group conference abbia raggiunto esiti positivi e quando negativi? Sulla base di quali criteri? ______________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________

18. La mediazione/conciliazione/restorative group conference è pensata come un breve percorso-incontro tra le parti con una sua precisa conclusione o è l’inizio di un percorso che continua? ______________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________

   

RINGRAZIAMENTI

Questa tesi non sarebbe stata possibile senza l’aiuto, la presenza e la collaborazione di molte persone che, pertanto, non posso ora non ringraziare.

Anzitutto un grande ringraziamento e tutta la mia stima vanno ad Elena Giudice, per la passione che mi ha saputo trasmettere accompagnandomi come relatrice in questo percorso e per i preziosi insegnamenti professionali e di vita che custodirò con cura. Grazie per aver scommesso e creduto in me, per avermi accompagnato, anche fisicamente, in questo che è stato un faticoso ma entusiasmante cammino di ricerca e conoscenza.

Un grazie doveroso e sentito anche a tutti i professionisti che ho intervistato (dei servizi di mediazione di Milano, Napoli, Venezia e del servizio di tutela minori di “Comuni Insieme”), per la disponibilità e la gentilezza che mi hanno riservato, rinunciando ad ore di lavoro per rispondere alle mie domande. E grazie anche a Claudia Mazzuccato, per la sua preziosa consulenza sul dibattito terminologico tra mediazione e conciliazione. Non è sempre così scontato che professionisti, anche rinomati, scelgano di dedicare parte del proprio tempo alle richieste di una semplice studentessa. Quindi grazie, perché con la vostra umiltà siete stati una testimonianza vera di quella sana capacità di mettersi a servizio dell’altro in nome della conoscenza, della diffusione del sapere, della crescita professionale.

E, sempre parlando di supporto conoscitivo, grazie alla Biblioteca dell’Università Bicocca, all’Università tutta e al mio corso di laurea, per le esperienze che mi ha fatto vivere e per tutto quanto mi ha dato l’opportunità di apprendere in questi tre anni. Ma più di tutto, grazie per le fantastiche persone che mi hai fatto incontrare: docenti e soprattutto compagni di studio, di pranzi in mensa, di caffè alle macchinette, di associazione, compagni di vita. Grazie per la vostra amicizia, per tutte le risate, per tutto quello che di voi stessi mi avete donato in questo percorso insieme. Siete a buon diritto entrati a far parte della mia rete primaria ;) …ma soprattutto del mio cuore. Vi auguro tutta la felicità di questo mondo e anche di più!

Mando poi un grandissimo abbraccio “alla” Giulia: grazie per questa amicizia più vecchia di noi! E grazie a chi ha condiviso con me parti della mia vita in questi mesi ed anni, con la musica, con l’affetto, con tutte le esperienze straordinarie che ho vissuto.

E, non da ultimo, un infinito grazie alla mia nucleare, estesa, enorme famiglia. Grazie perché siete la mia roccia, la certezza di un amore che non crollerà mai, qualunque cosa accada. E sarà sempre casa.

A Yuri e a questo fuoco grande…