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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI CATANIA
FACOLTÀ DI SCIENZE MATEMATICHE FISICHE E NATURALI
CORSO DI LAUREA IN FISICA
ANTONELLA ALESSANDRA BLANCATO
Rischi da radiazione nei voli interplanetari.
TESI DI LAUREA
Relatori: Chiar.mo Prof. G. Raciti Dott.ssa C. Agodi
ANNO ACCADEMICO 2007 – 2008
I
INDICE
INTRODUZIONE V
CAPITOLO 1: IL CAMPO DI RADIAZIONE
NELLO SPAZIO PROFONDO 1
1.1 INTRODUZIONE 1
1.2 LA RADIAZIONE COSMICA GALATTICA 2
1.3 LA RADIAZIONE CONFINATA 6
1.4 ERUZIONI SOLARI 8
CAPITOLO 2: EFFETTI BIOLOGICI DELLA
RADIAZIONE NELLO SPAZIO 11
2.1 INTRODUZIONE 11
2.2 RISCHI DA RADIAZIONE NELLO SPAZIO 16
2.3 INTERAZIONE DELLA RADIZIONE CON LA MATERIA 23
2.3.1 Interazione dei fotoni con la materia 23
2.3.2 Interazione di particelle cariche con la materia 26
2.4 SCHERMATURE 31
II
CAPITOLO 3: PROPRIETÀ GENERALI DELLE
REAZIONI NUCLEARI TRA IONI 35
3.1. LA FRAMMENTAZIONE DEL PROIETTILE 40
CAPITOLO 4: MISURE DI FRAMMENTAZIONE
DEL 12C 43
4.1. L’ESPERIMENTO 43
4.2. IL DISPOSITIVO SPERIMENTALE 46
4.2.1. I rivelatori 46
4.2.2. La catena elettronica 53
4.2.3. Sistema di acquisizione dati e “Trigger” dell’esperimento 57
CAPITOLO 5: ANALISI DEI DATI SPERIMENTALI 63
5.1. CALIBRAZIONE DEGLI ODOSCOPI 63
5.1.1 Introduzione 63
5.1.2 Calibrazione in energia del rivelatore ∆∆∆∆ΕΕΕΕ1 65
5.1.3 Identificazione in carica e massa dei frammenti 66
5.1.4 Calibrazione in energia del rivelatore ∆∆∆∆ΕΕΕΕ2 68
5.1.5 Calibrazione in energia del rivelatore CsI(Tl) 69
5.2 STIMA DELLA SEZIONE D’URTO 71
IV
<< … Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità,
sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna. E se avessi il dono della profezia
e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne,
ma non avessi la carità, non sono nulla …>>.
1Cor 13, 1-2.
V
INTRODUZIONE
La radioprotezione nello spazio è destinata a diventare un argomento di crescente attualità,
soprattutto in vista dei futuri programmi della NASA relativi alle missioni su Marte ed alla
colonizzazione del Sistema Solare, in particolare della Luna.
Uscendo dal campo magnetico terrestre, la radiazione diviene il principale rischio
per la salute degli astronauti nelle missioni interplanetarie, superando anche quelli legati
all’assenza di peso ed al rischio di infezioni per i quali, tra l’altro, esistono già efficaci
contromisure.
L’ambiente naturale di radiazione in un dato punto all’interno del Sistema Solare è
una miscela complessa di particelle di origine galattica e solare che ricoprono un vasto
intervallo di energia.
I raggi cosmici sono altamente pericolosi per gli astronauti: l’esposizione
prolungata a radiazioni è in grado di provocare danni biologici di forte entità, come diversi
tipi di cancro. Un altro fattore di rischio riguarda profonde alterazioni genetiche, che
possono anche essere trasmesse ai discendenti degli astronauti.
Un ulteriore elemento da non sottovalutare è l’incremento dell’uso di
strumentazioni di alta precisione nell’ambito delle missioni spaziali che determinano un
aumento della suscettibilità dei sistemi al danno da radiazione, che può condurre persino al
fallimento di una missione spaziale, rendendo inutilizzabili o inaffidabili i dati raccolti.
È perciò importante proteggere in modo efficace non solo gli astronauti, ma anche
gli strumenti impiegati nelle missioni spaziali, in modo da evitare la perdita e la
contaminazione di grandi quantità di informazioni raccolte.
La maggior parte delle nostre conoscenze sugli effetti biologici della radiazione
cosmica si basa su esperimenti condotti sulla Terra, utilizzando acceleratori di particelle.
Le basi dell’attuale conoscenza sugli effetti dovuti a ioni pesanti, presenti nella radiazione
cosmica, nella salute degli astronauti sono forniti da dati, prodotti presso diversi laboratori
come il Bevalac (Berkeley), il GSI (Darmstadt), HIMAC (Chiba) ed il NASA Space
Radiation Laboratory (NSRL) a Brookhaven (LongIsland, NY).
VI
I risultati di esperimenti condotti con gli acceleratori, funzionanti presso questi
laboratori, sono stati usati per definire il fattore di qualità della radiazione nello spazio, sia
nell’orbita terrestre che nello spazio profondo. Il fattore di qualità è, quindi, usato per
approfondire la nostra conoscenza sul rischio da radiazione sulla Terra all’ambiente
spaziale.
Le stime del rischio sono, comunque, soggette ad ampie incertezze. Le maggiori
fonti d’incertezza sono dovute alla carenza di una conoscenza dettagliata degli effetti
biologici di ioni pesanti energetici.
Gli esperimenti sulla Stazione Spaziale sono utili per la dosimetria, ma data la bassa
intensità di dose in orbite attorno alla Terra (“Low Earth Orbit” o LEO), non possono
fornire tutte le risposte necessarie per predire e mitigare gli effetti biologici delle missioni
interplanetarie.
Poiché l’incertezza sugli effetti biologici delle particelle con 2>Z ed elevata
energia è molto grande e non esistono a tutt’oggi efficaci contromisure per limitare
l’esposizione o i suoi effetti, è indispensabile un piano di ricerca internazionale ben
articolato per risolvere questo problema.
Lo studio del processo di frammentazione nucleare, che coinvolge comunque diversi campi
d’interesse, è determinante per lo studio dei materiali più idonei agli schermi per i veicoli
spaziali. Infatti, la misura di sezioni d’urto di frammentazione è un’informazione
fondamentale per stimare quanto questo processo modifichi la distribuzione di dose e
l’efficacia biologica della radiazione.
Attualmente, l’approccio a questi problemi prevede l’utilizzo di simulazioni, basate
essenzialmente su codici analitici. Tale approccio presenta, tuttavia, notevoli incertezze, a
causa, soprattutto, della scarsità di dati sperimentali riguardanti sia sezioni d’urto di
frammentazione, che l’efficacia biologica della radiazione.
Nei processi di frammentazione del proiettile, infatti, vengono prodotti diversi tipi
di ioni radioattivi con alte rese e velocità circa uguali a quelle dello ione incidente, che si
propagano nello stesso materiale. Per questo motivo è di fondamentale importanza
incrementare la quantità di misure sistematiche di sezioni d’urto di frammentazione in un
ampio intervallo di energia, con differenti ioni e materiali.
Con l’obiettivo di ottimizzare le schermature delle navicelle spaziali, in modo da
ridurre a livello accettabile il rischio per gli astronauti ed aumentarne il tempo di
VII
permanenza nello spazio, la NASA ha promosso lo studio dei processi di frammentazione
per gli ioni presenti nella radiazione cosmica a diverse energie fino a 400 AMeV.
Ai Laboratori Nazionali del Sud, con riferimento a questo campo di ricerca
d’interesse per l’astronautica, è iniziata una campagna di misure di frammentazione con
diversi fasci e su diversi bersagli alle energie intermedie, utilizzando il Ciclotrone
Superconduttore, che fornisce fasci da p fino ad U da 10 fino a 100 AMeV.
L’attività in questo settore è stata già avviata con esperimenti realizzati con fasci di 12C ad energie di 32 e 62 AMeV su bersagli di Au e Pb. Scopo delle misure è stato quello
di effettuare una prima stima della distribuzione in Z dei frammenti e della dipendenza
della sezione d’urto di produzione dei differenti frammenti dall’energia incidente.
Le misure sono state condotte utilizzando come rivelatore un apparato costituito da
due odoscopi di differente apertura angolare e granularità, adatto alla rivelazione dei
frammenti nell’intervallo di energie considerato. Tali misure rappresentano l’avvio di una
campagna sperimentale più ampia, che prevede l’utilizzo di differenti proiettili, dal C al Fe,
su bersagli di differenti densità, nell’intervallo delle energie intermedie.
L’obiettivo finale è quello di valutare sia gli aspetti radioprotezionistici, che i
materiali più idonei per la realizzazione delle schermature dei veicoli spaziali.
- 1 -
1. IL CAMPO DI RADIAZIONE NELLO SPAZIO
PROFONDO
1.1 INTRODUZIONE Sin dalla scoperta della radiazione cosmica all’inizio del XX secolo divenne chiaro che lo
spazio è “radioattivo”. Con l’inizio dell’esplorazione umana dello spazio, la radiazione
cosmica venne subito considerata come uno dei rischi per la salute degli astronauti. A parte
la parentesi del programma Apollo, le missioni spaziali si sono, però, sempre svolte in
orbite attorno alla Terra (LEO1), all’interno del campo magnetico terrestre, che rappresenta
una sorta di efficace ombrello per la radiazione cosmica. Il quadro è destinato a cambiare
radicalmente in questo secolo. Infatti, il recente piano spaziale NASA2 [Nas04A] prevede
la cessazione nei prossimi dieci anni dei programmi LEO (“Shuttle” e Stazione Spaziale
Internazionale), per dedicarsi alle missioni interplanetarie: la colonizzazione della Luna e
l’esplorazione di Marte. Il piano attuale prevede le prime spedizioni interplanetarie umane
tra il 2015 ed il 2020.
Uscendo dal campo geomagnetico, la radiazione diviene il principale rischio per la
salute degli astronauti nelle missioni interplanetarie [Nas97], superando anche quelli legati
all’assenza di peso ed al rischio di infezioni per i quali, tra l’altro, esistono già efficaci
contromisure [Dur04]. In quest’ottica risulta, dunque, fondamentale conoscere i campi di
radiazione dello spazio interplanetario.
L’ambiente naturale di radiazione in un dato punto all’interno del Sistema Solare è
una miscela complessa di particelle di origine galattica e solare che ricoprono un vasto
intervallo di energia. Esso è costituito da due categorie di particelle: libere e confinate. Le
particelle libere hanno origine all’esterno dei confini del campo magnetico terrestre, la
magnetosfera, mentre quelle confinate si trovano al suo interno.
1 LEO: Low Earth Orbit: indica l’ambiente atmosferico compreso tra circa 350 e 2000 km di altitudine, in cui transitano navicelle spaziali, il cui periodo orbitale tipico è di 90 minuti, ed in cui stazionano i satelliti per telecomunicazioni a banda larga ed internet. 2 NASA: National Aeronautics and Space Administration (USA).
- 2 -
Le radiazioni sono solitamente suddivise in tre grandi categorie: la Radiazione
Cosmica Galattica, la Radiazione Cosmica Solare e la Radiazione Confinata. Le prime due
sono formate principalmente da protoni con piccole componenti di Elio ed ioni più pesanti,
mentre l’ultima è costituita da elettroni e protoni, intrappolati in orbite chiuse nel campo
magnetico terrestre (Figura 1.1).
1.2 LA RADIAZIONE COSMICA GALATTICA La radiazione cosmica galattica (GCR3) nasce all’esterno del sistema solare da sorgenti
ancora non ben identificate, si diffonde in maniera isotropa nello spazio e la sua intensità è
modulata dall’attività solare. Non c’è, infatti, alcuna prova conclusiva dei meccanismi che
la accelerano e dei siti nei quali la materia diventa radiazione di particella cosmica. Inoltre,
mancano anche informazioni sulle posizioni delle sorgenti che la generano, dal momento
che le particelle che compongono la GCR sono disturbate, lungo la loro traiettoria verso la
3 GCR: Galactive Cosmic Radiation.
Figura 1.1: Rappresentazione della radiazione cosmica. Sono indicate tutte le sue componenti: i raggi cosmici galattici ed extra-galattici, la radiazione confinata e quella solare.
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Terra, dagli irregolari campi magnetici interstellari. La GCR è costituita per l’87% da ioni
Idrogeno, per il 12% da Elio e per circa l’1% da ioni pesanti (Figura 1.2) con energie fino
ai ATeV. A causa dell’elevata energia di queste particelle, si ipotizza che abbiano origine o
dalle esplosioni di “supernove” o da stelle di neutroni o anche da “pulsar”.
Il fatto che la GCR sia composta soprattutto da protoni non implica tuttavia che essi
forniscano il contributo principale di dose assorbita nello spazio profondo. Questo risulta
evidente osservando il grafico di Figura 1.3 [Cuc01A] in cui è chiara l’importanza della
componente dovuta a nuclei pesanti ed energetici, “High-Energy and high Z” (HZE)4. Il
grafico riporta il contributo percentuale per gli ioni di carica compresa tra 1 (H) e 28 (Ni)
della fluenza (in nero), della dose (in bianco), che tiene conto della dipendenza da Z2 e
dell’equivalente di dose (in rosso), che tiene conto dello spettro in energia e della
dipendenza dal Trasferimento Lineare di Energia (LET) [Cuc01]5.
Così, sebbene la quantità osservata di ioni Ferro (Z=26) sia circa un decimo di
quella degli ioni Carbonio (Z=6) o Ossigeno (Z=8) ed un millesimo dei protoni il loro
contributo alla dose equivalente assorbita nello spazio è predominante [Dur02]. È dunque
evidente che il rischio di radiazioni nello spazio profondo è legato principalmente
all’esposizione a particelle HZE. 4 In genere si chiamano HZE le particelle con Z>2 ed energia sufficiente ad attraversare 1 mm di Alluminio. 5 La fluenza, la dose assorbita e l’equivalente di dose sono grandezze adoperate in dosimetria e radioprotezione. Sono definite, rispettivamente come: il numero medio di particelle incidenti nell’unità di superficie, l’energia media ceduta dalla radiazione ionizzante nell’unità di massa, ed il prodotto della dose assorbita da un certo materiale per un fattore di qualità dipendente dalla radiazione. Maggiori dettagli sono riportati al paragrafo §2.1.
87% H
12% He
1% Ionipesanti
Figura 1.2: Diagramma della composizione della GCR.
- 4 -
Benché nei raggi cosmici galattici siano presenti elementi da Z=1 (H) fino a Z=92 (U), ioni
più pesanti del Ferro sono molto rari.
Oltre ai raggi cosmici galattici si osserva anche la cosiddetta “componente
anomala”. Essa è formata da particelle originariamente neutre provenienti da gas
interstellari che, una volta penetrate nell’eliosfera, risultano parzialmente ionizzate dalla
radiazione solare; vengono quindi accelerate in regioni di collisione tra correnti lenti e
veloci di vento solare. Esse sono capaci di penetrare in profondità rispetto a raggi cosmici
totalmente ionizzati e possiedono energie intorno ai 20 AMeV, pertanto contribuiscono
solo agli effetti di radiazione dietro piccole schermature [Esa06].
L’energia della radiazione cosmica galattica è generalmente espressa come energia
cinetica per nucleone; usando questa scala di misura, molte proprietà degli spettri
elementali sono identiche.
GCR Charge Contributions
Charge Number0 5 10 15 20 25 30
% C
ontr
ibut
ion
0.001
0.01
0.1
1
10
100
FluenceDoseDose Eq.
Free Space
Figura 1.3: Contributi della fluenza, dose e dose equivalente alla radiazione cosmica galattica.
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In Figura 1.4 sono mostrati gli spettri in energia per Idrogeno, Elio, Ossigeno e
Ferro. Da questa risulta chiaro come la GCR costituisca un flusso continuo di particelle ad
alta energia, anticorrelato al ciclo di brillamenti solari. Come si può notare, infatti, i flussi
della radiazione cosmica galattica non sono costanti, ma variano tra due estremi
corrispondenti al massimo e minimo dell’attività solare. Tale variazione si presenta per
energie inferiori ai AGeV ed è causata dal campo magnetico solare accoppiato ad un
particolare tipo di radiazione emessa dal Sole, il vento solare. Il vento solare si può pensare
come un getto continuo di plasma altamente ionizzato (costituito principalmente da protoni
ed elettroni) emesso dal Sole. La sua intensità, che varia tra 1010 e srscm
particelle
⋅⋅1210 , dipende
dall’attività dell’astro che può essere descritta tramite il numero di macchie solari
osservate.
Figura 1.4: Spettri in energia degli ioni Idrogeno, Elio, Ossigeno e Ferro nella GCR durante i periodi di massima e minima attività solare [Bad97]. Ad energie sopra gli AGeV gli spettri
presentano un andamento del tipo γ−Ε≈Ε)(N con 5.2≈γ ; al diminuire dell’energia
raggiungono un massimo intorno alle centinaia di MeV/nucleone per poi decrescere più lentamente.
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I raggi cosmici che incidono sul sistema solare interagiscono col campo magnetico
interplanetario, generato dall’astro, perdendo energia. Ogni ciclo solare ha una durata di
circa 11 anni. Durante i periodi di minima attività il vento solare presenta minore intensità
e conseguentemente il suo effetto sugli spettri in energia è minore rispetto al periodo di
massima attività. Il risultato è che il flusso della GCR è maggiore durante il minimo solare
rispetto al massimo di un fattore che varia da 3 a 4. Si osserva inoltre che al crescere
dell’attività solare il massimo dello spettro si sposta verso energie maggiori. Ad un’energia
di 100 AMeV i flussi di particella differiscono di un fattore circa 10 tra le condizioni di
massimo e minimo di attività solare, mentre intorno ai 4 AGeV la variazione osservata è
soltanto del 20%, per annullarsi, infine, ad energie più elelvate.
1.3 LA RADIAZIONE CONFINATA Un’altra sorgente di radiazione che circonda la Terra è costituita dalla radiazione confinata.
Le particelle che la compongono, prevalentemente protoni ed elettroni energetici, ma
anche alcuni ioni più pesanti6, sono raccolte in regioni concentriche a forma d’anello che si
estendono sopra l’atmosfera fino ad una distanza di circa 12 volte il raggio terrestre7
(intorno ai 76000 km) e comprendono le cosiddette “Fasce o Cinture di Van Allen”8. La
fascia più interna, tra 8300 e 28000 km, è formata essenzialmente da protoni, aventi
energia compresa tra 40 keV e 600 MeV, prodotti dalle interazioni tra la radiazione
cosmica galattica e l’atmosfera9. La fascia più esterna, tra 28000 e 38000 km dalla Terra, è
formata dal plasma del vento solare, principalmente elettroni, con energie fino ai 7 MeV
6 Gli ioni pesanti confinati presentano energie minori di 50 AMeV; a causa della loro limitata capacità di penetrazione entrano in atmosfera avendo perso gran parte della loro energia. Essi, pertanto, non potendo attraversare lo “shielding” dei veicoli spaziali, non costituiscono un problema per l’elettronica satellitare o per l’uomo. 7 Il raggio medio terrestre misura 6370 km. 8 Prendono il nome dal suo scopritore, l’astronomo e fisico statunitense J.A. Van Allen (1914-2006), che tra il 1958 ed il 1960 ne dedusse l’esistenza attraverso lo studio dei dati trasmessi dal primo satellite artificiale americano, l’Explorer 1 [For04]. 9 Neutroni proventi dalla GCR interagendo con l’atmosfera decadono emettendo protoni ed elettroni [Esa06].
- 7 -
circa. Tra le due è interposta una sorta di “zona cuscinetto” praticamente priva di elettroni
energetici detta “Slot Region”.
Figura 1.5: Densità di flusso integrale nelle fasce di radiazione terrestre per protoni ed elettroni confinati [Esa06].
Il risultato dell’interazione tra tali radiazioni ed il campo geomagnetico è che le
particelle che si trovano in una certa regione risultano ivi intrappolate, non potendo
sfuggire, e costrette a determinate traiettorie. Il moto delle particelle confinate nel campo
magnetico terrestre è caratterizzato, pertanto, da tre componenti: una traiettoria elicoidale
attorno alle linee di campo geomagnetico, un moto “a rimbalzo” tra i poli magnetici che
agiscono da specchi ed un moto longitudinale attorno alla Terra.
La radiazione confinata è modulata anch’essa dal ciclo solare: durante il periodo di
elevata attività solare l’intensità dei protoni si riduce, mentre quella degli elettroni
aumenta, e viceversa. Sono state osservate nella fascia elettronica più esterna delle
variazioni diurne con un fattore compreso tra 6 e 16. Possono inoltre presentarsi degli
aumenti, a breve termine, del flusso medio particellare provocati da tempeste magnetiche.
La parte centrale della cintura più interna è comunque abbastanza stabile, soprattutto
rispetto ai protoni.
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L’asse magnetico terrestre è inclinato di 11.1° rispetto all’asse di “spin”, e
leggermente spostato rispetto all’asse di rotazione. Come conseguenza le fasce di protoni
confinate si estendono verso il basso fin dentro l’atmosfera in una regione localizzata tra il
Sud Africa ed il Sud America, tale regione è nota come Anomalia del Sud Atlantico
(SAA10) e qui la radiazione risulta molto intensa.
1.4 ERUZIONI SOLARI Oltre alla radiazione elettromagnetica di corpo nero, che copre un intervallo che va
dall’infrarosso all’ultravioletto, il Sole, come già detto, emette una radiazione di natura
particellare costituita dal vento solare. Questo flusso di particelle subatomiche è
caratterizzato da velocità tra i 300 e gli 800skm e da valori di energia così bassi (i protoni,
ad esempio, possiedono energie comprese tra 100 eV e 3.5 keV) che le particelle possono
essere arrestate entro poche centinaia di Angstrom di pelle [Esa06].
Occasionalmente, la superficie del Sole rilascia grandi quantità di energia in
improvvise locali esplosioni di raggi gamma, raggi X ed onde radio comprendenti
un’ampia banda di frequenze.
Durante queste esplosioni le grandi correnti ed i campi magnetici variabili della
corona solare accelerano la materia, generando i cosiddetti “Solar Particle Events” (SPE), 10 South Atlantic Anomaly.
Figura 1.6: A sinistra è mostrata l’immagine di un’eruzione solare osservata durante la missione Skylab nel 1996. A destra, invece, è riportata un’immagine delle macchie solari osservate dalla NASA il 29 Marzo 2001.
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Figura 1.7: Spettro energetico dei protoni in diversi SPE molto intensi registrati nel passato nello spazio libero [Wil97]. Gli spettri mostrano un andamento del tipo I(E)=I0E
-γ dove I0 descrive il numero totale di particelle, mentre il parametro γ, dopo l’inizio dell’evento, diminuisce col tempo [ESA06].
vale a dire intense esplosioni solari che iniettano alti flussi di particelle cariche, costituite
per il 90% da protoni ed il restante 10% da elio ed ioni pesanti, nello spazio interplanetario
con energie fino all’ordine dei GeV (Figura 1.6). Gli SPE possono durare da poche ore a
qualche settimana e, pur essendo legati al numero di macchie solari, non esiste ad oggi un
modo efficace per predirne l’arrivo11. Gli SPE più intensi sono stati, infatti, osservati sulla
Terra come eventi rari e casuali con bassa frequenza, tipicamente uno al mese. Risultano,
infine, più frequenti durante i periodi di massimo solare, quando il flusso della radiazione
cosmica galattica è ridotto. Questo è uno svantaggio, poiché sia la radizione confinata che
la GCR sono più intense durante il minimo solare: pianificare una missione durante un
minimo solare ridurrebbe la dose dovuta alla radiazione confinata ed alla GCR, ma
aumenterebbe il rischio di SPE.
La pericolosità degli SPE dipende dal flusso di protoni di alta energia (>100 MeV)
difficilmente schermabili. I protoni, infatti, forniscono il maggior contributo alla dose
equivalente prodotta da SPE (circa il 90%) [Dur02]. Lo spettro energetico di tali protoni è
molto variabile come si può notare dalla Figura 1.7 [Wil97].
11 Uno SPE molto intenso avvenne nell’Agosto 1972 solo quattro mesi dopo la missione lunare Apollo 16. Un intenso SPE è stato registrato sulla Terra il 23 Ottobre 2003 ed ha causato danni irreversibili al rivelatore MARIE, che stava misurando il campo di radiazione su Marte a bordo del vettore Mars Odissey.
- 10 -
Si può osservare che gli SPE più intensi iniettano oltre 1010 protoni/cm2 nello
spazio interplanetario, un numero che deve essere confrontato con il fondo di circa 108
protoni/cm2 in un anno nella GCR.
La Terra riceve un piccolo flusso di particelle solari di bassa energia anche da SPE
provenienti da regioni solari mal collegate ad essa. In tal caso le energie coinvolte sono al
di sotto dei 30 AMeV.
- 11 -
2. EFFETTI BIOLOGICI DELLA RADIAZIONE
NELLO SPAZIO
2.1 INTRODUZIONE Il campo di radiazione cosmica raggiunge difficilmente la Terra, ma diventa un fattore
determinante per quel che riguarda l’esposizione a radiazioni ionizzanti degli equipaggi
impegnati in missioni nello spazio e della strumentazione di bordo. Il compito della ricerca
nel campo della radioprotezione nello spazio è sostanzialmente rivolto alla riduzione
dell’incertezza sul rischio radioindotto ed allo sviluppo di adeguate contromisure per la
protezione durante il volo e sui pianeti [Dur04].
Questo capitolo vuole fornire una panoramica degli effetti biologici e dei rischi
causati dalla radiazione cosmica nei viaggi interplanetari ed illustrare l’impiego dei
possibili e più efficaci materiali per schermature, considerate a tutt’oggi l’unica soluzione
pratica ed efficace per ridurre i rischi da radiazione nello spazio, descrivendone i tipi, i
vantaggi e gli svantaggi.
In particolare, in questa sezione, saranno definite alcune delle grandezze adoperate
in ambito radioprotezionistico e dosimetrico, indispensabili per definire i rischi da
radiazione.
Quando in una certa regione dello spazio si propagano radiazioni di qualsiasi
genere, si dice che essa è sede di un campo di radiazione. Tale campo è di natura
intrinsecamente statistica; quindi le grandezze fisiche atte a descriverlo sono sempre di tipo
stocastico. Tra queste vi è la fluenza di particelle Φ definita, in un dato punto di un mezzo
irradiato, come
dA
dN=Φ (2.1)
dove dN rappresenta il numero medio atteso di particelle incidenti su una sfera di sezione
massima dA, pensata perpendicolare alla radiazione incidente ed avente centro nel punto
considerato. Nel Sistema Internazionale (S.I.) Φ si esprime in m-2, o cm-2 secondo le unità
utilizzate con maggior frequenza.
- 12 -
Gli effetti delle radiazioni ionizzanti si manifestano soltanto allorché si verifichi
una cessione di energia al mezzo attraversato. In particolare, il danno subito dai tessuti
biologici è strettamente legato all’energia assorbita per unità di massa. A tal fine si
definisce la dose assorbita D, data da
dm
dD
ε= (2.2)
dove εd rappresenta l’energia media fornita dalla radiazione ionizzante al volume di
massa dm12. La sua unità di misura nel Sistema Internazionale è il Gray ed è 1Gy=1J/kg.
La dose assorbita è dunque funzione del punto, una volta specificati il mezzo ed il tipo di
radiazione [Dig02].
Si definisce rateo di dose o intensità di dose assorbita D& la quantità:
dt
dDD =& (2.3)
dove dt è l’intervallo di tempo considerato; l’unità di misura è il Gy/s.
Nella valutazione degli effetti della radiazione sull’organismo umano
l’assorbimento di uguali quantità di energia per unità di massa, rilasciate da sorgenti
diverse, non garantisce lo stesso effetto biologico. Per tener conto della diversa pericolosità
delle radiazioni incidenti s’introduce il cosiddetto fattore di qualità Q. Tale parametro
caratterizza la radiazione considerata rispetto ad una di riferimento (generalmente fotoni),
cui viene assegnato, per definizione, il valore di 1 e che permette di definire la equivalente
di dose H come:
Ν=Η QD (2.4)
dove N indica il prodotto di tutti gli altri fattori correttivi, fra i quali potrebbero rientrare
quelli che servono a descrivere le caratteristiche specifiche dell’irradiazione
(frazionamento della dose, rateo di dose, etc.). Poiché l’ICRP13 ritiene di poter assegnare
ad N il valore unitario, l’equivalente di dose H può essere scritto come:
QD=Η . (2.5)
L’unità di misura dell’equivalente di dose nel S.I. è il Sievert (1Sv=1J/kg),
utilizzato per evitare confusione fra H e D.
12 La massa dm deve essere piccola in modo da poter definire la dose assorbita in un punto, ma non tanto da rendere εd soggetta a fluttuazioni statistiche. 13 ICRP: “International Commission on Radiological Protection”. Nato nel 1928, è l’organismo internazionale che formula i principi generali su cui s’ispira la radioprotezione, i quali sono poi recepiti dalle legislazioni dei vari Paesi.
- 13 -
Nel 1991 l’ICRP ha introdotto, con la Pubblicazione 60, dei cambiamenti in
materia di grandezze radioprotezionistiche. In particolare, in luogo dell’uso di Q ha
suggerito l’uso di fattori di peso della radiazione wR, i cui valori sono specificati in base
alle caratteristiche della radiazione esterna incidente o del radionuclide internamente
depositato. Allo scopo di distinguere la ponderazione della dose assorbita con i fattori di
peso introdotti, ha così definito una nuova grandezza, la dose equivalente, espressa da:
∑=ΗR
RTRT Dw , , (2.6)
dove DT,R è la dose assorbita da ciascun tipo di radiazione. HT è definita relativamente ad
un tessuto od organo T irradiato con vari tipi di radiazione, cui corrispondono i diversi
fattori di peso wR i cui valori sono dedotti dalle rassegne di informazione biologica.
In Tabella 2.1 sono riportati i valori numerici di wR in termini di tipo ed energia della
maggioranza delle radiazioni ionizzanti [Icr91]. Si noti come le particelle alfa, i frammenti
di fissione e gli ioni pesanti presentino, in qualunque intervallo di energia, il valore più
elevato.
RADIAZIONE INTERVALLI
ENERGETICI
FATTORI DI PESO
DELLA RADIAZIONE wR
Raggi X e raggi γ Tutte le energie 1
Elettroni, positroni, muoni Tutte le energie 1
E<10 keV o E>20 MeV 5
10 keV<E< 100 keV,
2 MeV<E< 20 MeV 10 Neutroni
0.1 MeV<E< 2 MeV 20
Protoni, tranne quelli di rinculo E>2 MeV 5
Particelle α, frammenti di fissione
ed ioni pesanti Tutte le energie 20
Tabella 2.1: Fattori di peso della radiazione wR raccomandati dall’ICRP. Tutti i valori si riferiscono alla radiazione incidente sul corpo o, per le sorgenti interne, emessa dalla sorgente [Icr91].
- 14 -
Il fattore di qualità Q risulta, comunque, tutt’ora utilizzato nel calcolo
dell’esposizione nel caso di campi di radiazione non totalmente noti come quello esistente
nello spazio [Ncr00].
Quando si è interessati a conoscere le perdite di energia in una ben precisa regione
intorno alla traccia delle particelle incidenti si fa ricorso al “L inear Energy Transfer”
(LET) L∆, definito come:
∆
∆
Ε=dl
dL (2.7)
dove dE rappresenta l'energia ceduta localmente per collisioni da una particella carica
lungo un segmento di traccia dl, considerando solo le collisioni che comportano un
trasferimento di energia minore di ∆ (di solito in eV). Il LET si esprime abitualmente in
keV/µm. Se si prendono in considerazione tutte le perdite di energia, si ottiene per il LET,
indicato in questo caso con L∞, lo stesso valore numerico del potere frenante14. In genere,
si usa distinguere particelle ad alto LET e particelle a basso LET: il confine tra le due
categorie si situa intorno ai 5030÷ keV/µm. In linea di massima si può affermare che gli
elettroni sono a basso LET, mentre i protoni, i neutroni e le alfa ad ancor più i nuclei
pesanti (HZE) sono usualmente ad alto LET15 [Pel91].
Nel rapporto NCRP16 si utilizza il fattore di qualità Q per pesare l’efficacia
biologica delle diverse radiazioni, assumendo che esso dipenda esclusivamente dal LET
della radiazione, in accordo con le raccomandazioni internazionali ICRP (come mostrato in
Figura 2.1) [Icr91]. Se D(L)dL è la dose assorbita in un dato punto dell’organismo causata
dalla radiazione con LET compreso tra L e L+dL, la dose equivalente può essere calcolata
come
∫=Η dLLDLQT )()( . (2.8)
Per calcolare il rischio associato all’esposizione a radiazione basta moltiplicare la
dose equivalente HT per opportuni coefficienti. I coefficienti di rischio dipendono dal tipo
14 Il LET è quasi equivalente alla perdita di energia specifica (cfr. §2.3.2). L’unica differenza sorge quando si libera una porzione sostanziale di energia tramite radiazione di “bremsstrahlung” (cfr. §2.3.2). Questa è in grado di percorrere una certa distanza dalla traccia della particella prima di depositare la sua energia. Pertanto, mentre la perdita di energia specifica include la “bremsstrahlung”, il LET la esclude, tenendo conto esclusivamente dell’energia depositata lungo la traccia della particella [Kno89]. 15 Una stessa particella si può comportare come particella di basso o alto LET soltanto in una certa zona della sua traccia. Per esempio, i protoni cedono energia a basso LET lungo quasi tutto il loro “range” con esclusione, tuttavia, di qualche frazione di millimetro nella zona terminale (dove si forma il cosiddetto picco di “Bragg” , cfr. §2.3.3), ove le cessioni di energia avvengono invece ad alto LET [Pel91]. 16 NCRP: “National Council on Radiation Protection and measurements”.
- 15 -
Figura 2.1: Dipendenza del fattore di qualità Q dal LET secondo il modello descritto nel rapporto n. 60 ICRP [Icr91].
di esposizione (acuta o cronica), dal sesso e dall’età a cui avviene l’esposizione, mentre
non considerano la qualità della radiazione (contenuta in HT), la radiosensibilità
individuale o l’interazione con altri fattori ambientali o fisiologici.
- 16 -
Figura 2.2: Incertezze nelle stime di rischio per esposizione a radiazione nello spazio profondo. Sono mostrate, per diverse grandezze fisiche o biologiche, le stime massime e minime dell’incertezza [Nas98].
2.2 RISCHI DA RADIAZIONE NELLO SPAZIO In nessuna missione spaziale gli effetti su equipaggio e strumentazione derivanti dalla
radiazione possono essere trascurati. La dosimetria della radiazione spaziale, si occupa
della protezione degli astronauti e degli strumenti durante la loro permanenza nello spazio.
Attualmente, si ha a disposizione soltanto una quantità relativamente piccola di dati
sperimentali, che non permette delle corrette stime di rischio. Questi dati sono costituiti da
misure, compiute durante le missioni lunari Apollo, della quantità di radiazione incidente
sull’equipaggio al di fuori della magnetosfera terrestre. Per questo motivo, negli studi
preliminari di dosimetria per le missioni spaziali ESA e NASA, le stime di radiazione
assorbita dall’equipaggio e dalla strumentazione sono attualmente basate su modelli di
simulazione.
Le stime di rischio risultano, pertanto, essere affette da una grande incertezza. A tal
proposito la NASA ha accuratamente studiato le incertezze sulle stime di rischio
radiologico nello spazio profondo: uno schema è mostrato in Figura 2.2.
L’errore complessivo sul rischio da radiazioni ad alto LET in missioni
interplanetarie è compreso tra il 400% e il 1500% [Dur02] ed è largamente dominato dalla
scarsa conoscenza degli effetti biologici di ioni pesanti a basse dosi e basse intensità di
- 17 -
dose. Il motivo dell’elevata incertezza sulle stime di rischio è inoltre legato alla particolare
natura dell’ambiente spaziale.
Come già osservato, obiettivo della ricerca nel campo della radioprotezione è
sostanzialmente rivolto a ridurre tale incertezza e la NASA si propone di ridurla a meno di
±50% prima della missione su Marte. Parallelamente, è necessario uno sviluppo di
adeguate contromisure per la protezione durante il volo e sui pianeti.
La radioprotezione sulla Terra è ben consolidata, basandosi su vasti studi
epidemiologici, riguardanti principalmente i sopravvissuti delle esplosioni delle bombe
atomiche in Giappone nel 1945. I sopravvissuti di Hiroshima e Nagasaki furono però
esposti a dosi acute di radiazione sparsamente ionizzante (raggi gamma) con un contributo
minore di neutroni. Anche altri studi epidemiologici, quelli su pazienti di radioterapia o su
soggetti coinvolti in incidenti nucleari (come quello di Chernobyl), riguardano individui
esposti sostanzialmente a radiazioni di basso LET. Nello spazio profondo la situazione è
molto diversa: come visto, infatti, gli astronauti sono esposti a particelle cariche di alta
energia, con un contributo predominante di ioni pesanti ad alto LET, ed, inoltre, le
condizioni di esposizione sono assolutamente speciali per l’uomo (microgravità, stress,
etc.).
Essendo poi gli astronauti dei soggetti professionalmente esposti a radiazioni
ionizzanti, l’ente NCRP, nel Rapporto 132, ha fissato i limiti di esposizione per gli
astronauti coinvolti in missioni in ambiente LEO. In Tabella 2.2 sono presentati, oltre i
limiti di esposizione, anche, per confronto, i limiti annuali per i lavoratori
professionalmente esposti e per la popolazione generale della Terra.
Tabella 2.2: Limiti di esposizione per gli astronauti impeganti in missioni LEO. I limiti sono basati su un’esposizione di 10 anni. Se l’astronauta non raggiunge il limite in 10 anni, altre missioni LEO sono consentite, purché non si preveda di superare il limite massimo fissato [Dur04].
ETÀ ALL’ESPOSIZIONE (anni)
SESSO DOSE MASSIMA AMMISSIBILE (Sv)
M 0.7 25 F 0.4 M 1.0 35 F 0.6 M 1.5 45 F 0.9 M 3.0 55 F 1.7
Lavoratori professionalmente esposti (categoria A)
20 mSv/anno (mediati su 5 anni)
Popolazione generale 1 mSv/anno
- 18 -
In Tabella 2.3 sono invece riportate le dosi assorbite dagli astronauti in diversi
programmi spaziali del passato e quelle previste per le esplorazioni interplanetarie dei
prossimi anni.
PROGRAMMA ALTITUDINE (km)
NUMERO DI ASTRONAUTI
RATEO DI DOSE (µSv/giorno)
DOSE TOTALE (mSv)
Gemini 454 (1370)
20 870 (4700)
0.53 (4.7)
Apollo _ 33 1300 (3900)
12.2 (33)
Skylab 381 (435)
9 120 (2100)
72 (170)
STS (alt.>450 km)
570 85 3200 (7700)
26.5 (78)
STS (alt.<450 km)
337 207 230 (400)
2.1 (7.1)
STS/MIR 341 (355)
4 720 (1000)
100 (140)
ISS 360 (450)
288 500 (1000)
80 (180)
Luna (190 giorni)
_ 10 (60)
1300 (2000)
100 (195)
Marte (950 giorni)
_
4 (8)
1500 (2000)
400 (1200)
Callisto (5 anni)
_ 4 (8)
1500 (3500)
1600 (2500)
Tabella 2.3: Dose misurata o calcolata in diversi programmi spaziali del passato o del futuro17. I valori massimi, misurati o previsti, sono riportati in parentesi. Le dosi massime in LEO sono state misurate con i programmi Skylab e Mir, e dosi simili si prevedono per missioni di lunga durata sulla Stazione Spaziale Internazionale [Dur04].
I rapporti NASA ed ESA forniscono un’attenta analisi dei rischi legati alle
radiazioni o ad altri fattori nelle missioni interplanetarie e, nella sua “roadmap”, la NASA
[Nas04 B] assegna dei fattori di rischio in una scala da 1 a 5. È chiaro che sono necessari ed
urgenti dati radiobiologici allo scopo di ridurre le incertezze sui calcoli dei rischi. I dati
epidemiologici a disposizione sono, infatti, insufficienti e la conoscenza degli effetti
biologici di particelle cariche si basa essenzialmente sugli esperimenti condotti con
acceleratori a Terra su animali e sistemi “in vitro”. Inoltre, possono essere estrapolati
17 STS: “Space Transport Shuttle”; ISS: “International Space Station”.
- 19 -
dall’adroterapia solamente pochi dati sull’uomo, essendo questi più rilevanti per gli effetti
deterministici di dosi elevate che per la stima del rischio stocastico da basse dosi.
Per quanto concerne le radiazioni, di seguito sono riportate le diverse categorie di
rischio, a partire dalla massima. Queste saranno descritte più in dettaglio, soprattutto in
relazione all’esposizione a particelle HZE.
I. Carcinogenesi;
II. Effetti degenerativi sui tessuti sani;
III. Effetti acuti;
IV. Sinergia con altri fattori spaziali;
V. Effetti ereditari.
I. Carcinogenesi. L’induzione di cancro è considerato il rischio stocastico più
importante legato ad esposizione da radiazione.
I coefficienti di rischio dipendono dal tipo di tumore. Dati epidemiologici mostrano
che il massimo rischio relativo per unità di dose è legato all’induzione di leucemia (acuta o
mieloide), inoltre una forte associazione con l’esposizione a radiazione è stata provata per i
tumori alla tiroide, seno e polmone. La curva dose-risposta per induzione di tumori solidi
può essere rappresentata da una funzione lineare senza soglia ed il rischio in eccesso di
mortalità18 è del 10% Sv-1 per gli uomini e 14% Sv-1 per le donne19. Per la leucemia,
l’andamento con la dose è invece lineare-quadratico ed il tempo di latenza (3-5 anni) è
notevolmente ridotto rispetto a quello dei tumori solidi (oltre 20 anni). L’assenza di una
dose di soglia sotto la quale il rischio può essere considerato nullo è un grave problema in
quanto è chiaro che per questo rischio non possono esistere contromisure efficaci al 100%.
Sulla base degli studi epidemiologici, il coefficiente di rischio in eccesso utilizzato da
ICRP per la popolazione e da NCRP per gli astronauti in ambiente LEO per esposizione
cronica di una popolazione adulta è del 4% Sv-1.
Come osservato in precedenza il coefficiente di rischio tiene conto della qualità
della radiazione (secondo il modello mostrato in Figura 2.1), ma l’incertezza sulla
relazione Q-LET è molto elevata per gli ioni pesanti. Sono stati eseguiti numerosi
esperimenti sia “in vitro” che su modelli animali, che dimostrano che gli ioni pesanti sono
più efficaci della radiazione sparsamente ionizzante nell’induzione di trasformazione 18 Dati derivati dagli studi sui sopravvissuti di Hiroshima e Nagasaki. 19 Tali coefficienti si riferiscono ad esposizione acuta all’età di 30 anni, e diminuiscono al crescere dell’età dell’esposizione.
- 20 -
neoplastica o tumori “in vivo”, raggiungendo un’efficacia biologica confrontabile con
quella dei neutroni di fissione. L’estrapolazione dai modelli di laboratorio all’uomo è,
però, estremamente problematica e soggetta a larghe incertezze. Un approccio alternativo è
quello di misurare dei biomarcatori del rischio radioindotto. I biomarcatori rappresentano
degli indicatori precoci del rischio tardivo, e possono essere misurati direttamente negli
astronauti [Dur04].
II. Effetti degenerativi sui tessuti sani. Oltre la carcinogenesi, la radiazione induce
danni tardivi ai tessuti esposti20. Nel complesso, l’incidenza di questi effetti tardivi viene
considerata di minore importanza rispetto alla carcinogenesi, in quanto essi sembrano
associati ad alte dosi. Nel caso degli HZE, però, alcuni effetti potrebbero osservarsi a dosi
sensibilmente più basse nell’intervallo atteso per le missioni interplanetarie. Effetti visivi
degli ioni HZE furono già osservati durante il programma Apollo. Si tratta dei cosiddetti
“light flashes”, che studi italiani hanno dimostrato essere legati a diretti attraversamenti di
ioni pesanti nella retina o ad interazioni nucleari dei protoni nell’occhio [Dur04].
L’esistenza dei “light flashes” fa pensare a possibili rischi per l’occhio e per il sistema
nervoso centrale. Finora, infatti, la cataratta è l’unica patologia osservata negli astronauti
che può essere ricondotta all’esposizione cosmica [Cuc01B]21. Su di un totale di 295
astronauti NASA sono stati osservati 48 casi di cataratta. Dividendo, inoltre, i soggetti in
quelli sottoposti ad alta esposizione (dose al cristallino >8 mSv, in media 45 mSv) e quelli
sottoposti a bassa esposizione (<8 mSv, in media 3.6 mSv) si osserva una correlazione fra
il rischio di cataratta e la dose (Figura 2.3). In particolare, l’età d’insorgenza della
cataratta, soprattutto di quelle gravi, è significativamente ridotta nel gruppo ad alta
esposizione. Considerando che le dosi equivalenti sono in ogni caso molto basse, questi
dati indicano che gli ioni HZE hanno una elevatissima efficacia nell’induzione di cataratte.
20 Questi rappresentano uno dei principali fattori limitanti della radioterapia oncologica. 21 La cataratta è una opacizzazione del cristallino conseguente ad alterazione delle proteine della lente. In genere porta ad una diminuzione più o meno grave della capacità visiva.
- 21 -
Figura 2.3: Probabilità di sopravvivenza senza cataratta in funzione dell’età per astronauti NASA. I soggetti sono stati divisi in un gruppo a bassa esposizione (dose al cristallino <8 mSv) ed uno ad alta esposizione (>8 mSv) [Cuc01B].
Se la cataratta può essere considerata una patologia non grave, maggiore
preoccupazione provocano i danni al sistema nervoso centrale. È stato stimato che in una
missione su Marte al minimo solare circa il 50% delle cellule cerebrali sarebbe
direttamente attraversato da ioni di alta energia con Z>15. Gli effetti neurologici di questi
“colpi” non sono noti e non possono essere semplicemente detratti dai dati sulle radiazioni
sparsamente ionizzanti, che non determinano praticamente alcun danno22.
III. Effetti acuti. Gli effetti acuti delle radiazioni si osservano dopo breve tempo
dall’esposizione a dosi maggiori di 1 Gy. Il rischio di effetti acuti nello spazio è
esclusivamente legato al caso di un intenso SPE, e dipende dallo spettro dell’evento, dalla
schermatura e dalla posizione. In generale, il rischio maggiore è per uno SPE nello spazio
interplanetario, seguito da eventi sulla superficie lunare e da Marte, che è, in parte, protetto
dall’atmosfera.
IV. Sinergia con altri fattori spaziali. È ben noto che la radiosensibilità di un
individuo può essere modificata da svariati fattori fisiologici o ambientali, come la dieta o
22 Il cervello è notoriamente un organo molto radioresistente, in quanto costituito da cellule non proliferanti, ma studi sui topi mostrano che basse dosi (circa 0.1 Gy) di ionio Ferro di alta energia portano ad alterazioni del comportamento ed a modificazioni neurochimiche.
- 22 -
l’immunodepressione. Meno noto è l’impatto dell’assenza di peso sulla risposta alle
radiazioni a livello subcellulare, cellulare, di tessuto e di organo. La maggior parte degli
esperimenti condotti nello spazio sull’influenza della microgravità sul riparo del danno
radioindotto ha dato risultati negativi. Almeno a livello cellulare, sembrerebbe che la
microgravità interagisca molto poco con la risposta alle radiazioni. È però risaputo che il
sistema immunitario risulta gravemente depresso dopo lunghe permanenze nello spazio. Al
momento, tuttavia, il problema è stato studiato soltanto con modelli matematici.
V. Effetti ereditari. Benché gli studi epidemiologici non abbiano mai rilevato alcun
effetto ereditario statisticamente significativo in soggetti esposti alle radiazioni ionizzanti,
queste possono indurre mutazioni nelle cellule germinali, e conseguentemente condurre ad
effetti sulla progenie. La probabilità di questi effetti è certamente minore di quella degli
effetti somatici. Esistono pochi dati sui danni ereditari indotti da particelle HZE e questa
mancanza aumenta l’incertezza per le missioni interplanetarie e certamente giustifica
ulteriori ricerche in questo campo.
Alle conseguenze che le radiazioni ionizzanti nello spazio possono avere
sull’uomo, è necessario infine aggiungere gli effetti e gli eventuali danni recati a tutte le
apparecchiature di bordo. Tali effetti sono catalogabili in effetti irreparabili e temporanei: i
primi si riscontrano soprattutto nelle apparecchiature dotate di “transistors”
(semiconduttori), i secondi, invece, influenzano le memorie e i registri inducendo dei
cambiamenti nei “bits” delle stesse e quindi cambiamenti nelle informazioni registrate.
In entrambi i casi tali effetti possono limitare enormemente la durata di una
missione spaziale poiché provocano la degradazione della strumentazione ed in casi
estremi possono risolversi nel fallimento della stessa. Altre conseguenze meno
catastrofiche, ma non per questo trascurabili, sono la creazione di interferenze nei
dispositivi elettronici e quindi un degrado dell’efficienza della missione. Bisogna tenere
altresì conto che, oltre a tutte le apparecchiature di bordo, l'esposizione a radiazioni
ionizzanti, specialmente quelle con dosi elevate, degrada anche i polimeri ed i materiali
ottici, inducendo effetti deleteri anche sulle proprietà dei materiali passivi usati durante una
missione.
- 23 -
2.3 INTERAZIONE DELLA RADIAZIONE CON LA
MATERIA L’azione lesiva delle particelle ionizzanti sull’organismo è una diretta conseguenza dei
processi fisici di eccitazione ed ionizzazione degli atomi e delle molecole dei tessuti
biologici dovuti agli urti delle particelle, quando hanno un’energia sufficiente a produrre
questi processi.
A seconda che la ionizzazione del mezzo irradiato avvenga per via diretta o
indiretta, si usa distinguere tra radiazioni direttamente ionizzanti e radiazioni
indirettamente ionizzanti. Sono direttamente ionizzanti le particelle cariche (ad esempio
elettroni, protoni, particelle alfa, etc.) la cui energia cinetica è sufficiente per produrre
ionizzazione per collisione; sono invece indirettamente ionizzanti le particelle prive di
carica elettrica (neutroni, fotoni, etc.) che, interagendo con la materia, possono cedere tutta
o parte della propria energia a particelle secondarie direttamente ionizzanti.
Pur essendo questo argomento estremamente vasto nel seguito ci si soffermerà solo
sull’interazione dei fotoni e delle particelle cariche con la materia, essendo questi i processi
che più hanno attinenza con questo lavoro di tesi.
2.3.1 INTERAZIONE DEI FOTONI CON LA MATERIA
Tra i vari modi in cui i raggi gamma possono interagire con la materia, solo tre sono i
principali meccanismi che giocano un ruolo importante nelle misure della radiazione:
l’ effetto fotoelettrico, che predomina per fotoni di bassa energia, fino a circa 0.5 MeV,
l’ effetto Compton, per energie intorno al MeV e la produzione di coppie, che predomina
per fotoni di alta energia, in particolare al di sopra dei 5÷10 MeV.
L’effetto fotoelettrico consiste nell’urto tra un fotone ed un atomo nel suo insieme,
con conseguente assorbimento del fotone ed emissione di un elettrone, generalmente
appartenente ad una delle orbite più interne23. L’energia cinetica massima −e
K è data
dall’equazione di Einstein:
23 Dato che un elettrone libero non può assorbire un fotone ed anche conservarne l’impulso, l’effetto fotoelettrico coinvolge sempre e soltanto elettroni legati a nuclei.
- 24 -
bhKe
Ε−=−
ν , (2.9)
dove ν rappresenta la frequenza del fotone incidente, mentre Eb l’energia di legame del
fotoelettrone nella sua “shell” di origine. L’effetto fotoelettrico è tanto più probabile
quanto più l’elettrone è legato all’atomo. Pertanto avviene più frequentemente con gli
elettroni dell’orbita K, che costituiscono circa l’80% di tutti i fotoelettroni emessi. Inoltre,
per ogni orbita, l’emissione fotoelettrica è più probabile quando il fotone possiede giusto
l’energia sufficiente per produrla. La sezione d’urto, come si può osservare in Figura 2.4,
decresce con l’energia dei fotoni presentando delle improvvise discontinuità in
corrispondenza delle energie di soglia del processo per le differenti orbite (K, L, M). Le
discontinuità sono più evidenti e numerose per i materiali di elevato numero atomico. Gli
atomi del mezzo assorbente, espellendo un elettrone, risultano eccitati, quindi, si
diseccitano emettendo raggi X di fluorescenza o elettroni “Auger”.
L’effetto Compton consiste nella diffusione di un fotone da parte di un elettrone
atomico. L’interazione avviene quando il fotone possiede energia sufficientemente elevata
(prevalentemente tra 0.8 e 4 MeV circa) rispetto all’energia di legame dell’elettrone da
poter interagire con quest’ultimo come se fosse libero. Nel processo il fotone è diffuso in
direzione diversa da quella incidente, mentre l’elettrone viene a sua volta messo in moto
con una certa energia cinetica. Poiché tutti gli angoli di “scattering” sono possibili,
l’energia trasferita all’elettrone può variare da zero ad una larga frazione dell’energia del
raggio gamma incidente24.
Nel processo di produzione di coppie il raggio gamma è assorbito e la sua energia
viene trasferita in parte in massa di quiete di una coppia elettrone-positrone ed in parte in
energia cinetica di queste due particelle. Per i principi di conservazione dell’energia e del
momento si può mostrare che quest’effetto è possibile soltanto nel campo Coulombiano di
un nucleo o di un elettrone. Si tratta, inoltre, di un “processo a soglia” che può aver luogo
soltanto se l’energia minima del fotone è pari a 202 cm (1.022 MeV), cioè l’energia
corrispondente alla massa a riposo della coppia elettrone-positrone. L’energia cinetica
disponibile non si distribuisce però in parti uguali tra le due particelle, in quanto il
positrone, a causa della repulsione da parte del nucleo, tende a riceverne un po’ più rispetto
24 Ad energie inferiori al MeV può avvenire anche diffusione coerente (o di Rayleigh), processo in cui un fotone, interagendo con un atomo, è esclusivamente deflesso da questo senza perdita di energia.
- 25 -
all’elettrone. Questa differenza finisce tuttavia per scomparire al crescere dell’energia
[Pel91].
I processi appena descritti giustificano le due caratteristiche principali dei fotoni:
penetrano la materia molto più delle particelle cariche e non subiscono degradazione in
energia dentro la materia, ma solo un’attenuazione in intensità25 [Leo94].
Figura 2.4: Andamento del coefficiente di assorbimento massico µ in funzione dell’energia per il Piombo. Essendo µ proporzionale alla sezione d’urto, il grafico restituisce l’andamento qualitativo delle sezioni d’urto (parziali e totale) d’interazione fotoni-materia.
25 La prima caratteristica è dovuta alla sezione d’urto dei tre processi che risulta più piccola rispetto alla sezione d’urto della collisioni inelastiche delle particelle cariche con gli elettroni atomici; la seconda caratteristica è dovuta al fatto che i tre processi menzionati rimuovono interamente il fotone dal fascio incidente per assorbimento o per “scattering”.
Eγγγγ (MeV)
µµ µµ (cm
2/g
)
- 26 -
2.3.2 INTERAZIONE DI PARTICELLE CARICHE CON
LA MATERIA
Le particelle cariche costituiscono le radiazioni direttamente ionizzanti. Il passaggio di
queste particelle attraverso la materia è caratterizzato da due effetti: una perdita di energia
da parte della particella incidente, ed una deflessione della medesima dalla sua direzione
iniziale. Tali effetti sono fondamentalmente il risultato di collisioni inelastiche con gli
elettroni atomici del mezzo attraversato e di “scattering” elastico dei nuclei.
Nel caso di particelle leggere (elettroni e positroni), tuttavia, le collisioni
inelastiche, eccitazione ed ionizzazione per urto, sono le principali responsabili delle
cessioni di energia soltanto ad energie relativamente modeste. A causa della loro piccola
massa, infatti, per queste particelle assumono grande rilevanza, già ad energie dell’ordine
di pochi MeV, anche le perdite di energia per irraggiamento (radiazione di
“bremsstrahlung”), ovvero l’emissione di radiazioni elettromagnetiche derivanti dalla
diffusione Coulombiana nel campo di un nucleo atomico. Esistono anche altri processi nei
quali le particelle leggere possono perdere energia, anche se in misura minore. Tra questi
vi sono la diffusione elastica da parte degli atomi, la diffusione multipla, la polarizzazione,
etc. [Pel91].
Le particelle cariche pesanti, a differenza delle leggere, dissipano la loro energia
nella materia quasi esclusivamente per collisioni inelastiche con gli atomi o le molecole del
mezzo attraversato. Possono presentarsi anche altri tipi di interazione fra gli ioni incidenti e
gli atomi del mezzo come le reazioni nucleari, la diffusione elastica, l’eccitazione
Coulombiana dei nuclei e l’emissione di radiazione elettromagnetica. Si deve tener
presente, tuttavia, che mentre gli ultimi tre processi si possono ritenere in sostanza
irrilevanti, specialmente nel “range” di energie intermedie e per nuclei con Z≤6, le reazioni
nucleari non possono essere affatto trascurate quando si studia l’assorbimento nella materia
di fasci costituiti da questo tipo di particelle ai fini dei progetti di schermature, per via delle
radiazioni secondarie da esse originate (cfr. §3.1).
Le modalità dell’interazione sono determinate dall’energia cinetica della particella
carica incidente e dalla minima distanza a cui essa si avvicina all’atomo urtato.
Se tale distanza è grande in confronto alle dimensioni dell’atomo, quest’ultimo
reagisce nel suo insieme nel campo elettrico della particella incidente, che si comporta
- 27 -
come una carica puntiforme, rimanendo eccitato o ionizzato. In tal caso si parla di
collisioni “soft” o distanti26.
Se invece tale distanza è piccola, la collisione interessa direttamente uno degli
elettroni periferici, che verrà liberato acquistando una considerevole energia cinetica, di
norma molto maggiore della sua energia di legame. Questo tipo di collisioni sono note
come collisioni “hard” o prossime.
A seguito del processo di ionizzazione si ha la formazione di coppie elettrone-ione
positivo27 che, in generale, tende a ricombinarsi, a meno che l’elettrone strappato non abbia
acquisito un’energia cinetica tale da causare eventi di ionizzazione secondaria. Se le tracce
di questi elettroni secondari sono sufficientemente lunghe da potersi distinguere dalla
traccia della particella primaria si usa far riferimento ad essi con il termine di raggi δ.
Le energie di soglia dei processi di eccitazione ed ionizzazione sono dell’ordine di alcuni
eV nel caso degli elettroni meno legati.
Si definisce “stopping power” lineare S o potere frenante la perdita di energia cinetica
media che una particella subisce per unità di percorso. Essa si indica come:
dx
dES −= . (2.10)
L’espressione del potere frenante S fu determinata inizialmente da Bohr, sfruttando
argomentazioni classiche, e successivamente fu calcolata da Bethe e Bloch sulle basi
quantistiche della teoria perturbativa, ottenendo la relazione [Leo94]:
−−−
=−
Z
C
I
Wcmz
A
ZcmrN
dx
dE eeeA 22
2ln2 2
2max
222
2
222 δβγβ
βρπ , (2.11)
comunemente nota come formula di Bethe e Bloch, valida per particelle cariche, distinte
dagli elettroni, ad energie relativistiche nell’intervallo che va da qualche MeV a qualche
26 In generale, durante i processi di eccitazione l’atomo o la molecola urtata vengono portati dal livello fondamentale ad uno eccitato. Il riassestamento degli atomi interessati avviene tramite l’emissione di fotoni o di elettroni “Auger”, mentre nel caso di molecole hanno luogo processi più complessi che possono concludersi con la rottura dei legami chimici, spesso chimicamente reattivi. 27 Talvolta si verifica che l’elettrone rimosso “si attacchi” ad una molecola neutra dando così luogo ad uno ione negativo.
- 28 -
GeV ed espressa nel SI delle unità di misura. Tutti i parametri che intervengono nella
(2.10) sono definite in Tabella 2.4.
SIMBOLO DEFINIZIONE UNITÀ DI MISURA O VALORE
NA Numero di Avogadro 6.0221367 × 1023 mol-1
( )200
2 4 cmere πε= Raggio classico dell’elettrone 2.817940325 × 10-13cm
20cm Energia a riposo dell’elettrone 0.510998918 MeV
ρ Densità del mezzo g × cm-3
Z Numero atomico del mezzo Adimensionato
A Massa atomica del mezzo g × mol-1
z Carica particella incidente Coulomb-1
cv=β Termine relativistico Adimensionato
v Velocità particella incidente cm/s
211 βγ −= Termine relativistico Adimensionato
Wmax Massima energia trasferita eV
I Energia di eccitazione media eV
δ Correzione per effetto-densità Adimensionato
ZC Correzione di shell Adimensionato
Tabella 2.3: Descrizione delle grandezze fisiche presenti nella formula di Bethe e Bloch.
In particolare Wmax rappresenta l’energia cinetica massima che può essere trasferita
ad un elettrone libero in un singolo urto col proiettile28, I l’energia di eccitazione
(potenziale di ionizzazione) media degli atomi del mezzo, mentre i parametri δ e C/Z
costituiscono dei termini correttivi, rispettivamente, nel limite delle alte e delle basse
energie.
28 In altre parole, Wmax rappresenta l’energia massima persa dalla particella in un’unica collisione inelastica con un elettrone.
- 29 -
La correzione δ per effetto della densità è rilevante solo quando l’energia cinetica
del proiettile è confrontabile o maggiore della sua energia di massa a riposo: in tal caso, il
campo elettrico dello ione incidente tende a polarizzare gli atomi del mezzo in prossimità
della sua traiettoria. A causa della polarizzazione così indotta, gli elettroni lontani dal
cammino della particella verranno schermati dall’intensità totale del campo di radiazione e,
di conseguenza, collisioni inelastiche con questi elettroni contribuiranno in misura minore
alla perdita di energia totale rispetto a quanto previsto della formula di Bethe e Bloch. Tale
effetto risulta tanto più rilevante quanto più denso è il materiale attraversato29.
La correzione C/Z di “shell” assume importanza nel caso in cui la velocità del
proiettile è confrontabile o minore della velocità orbitale degli elettroni legati agli atomi
del mezzo. In questo intervallo di energie la (2.11) inizia a perdere di validità in quanto lo
ione incidente, carico positivamente, tende ad acquistare elettroni dall’assorbitore
riducendo così il suo stato di carica e, di conseguenza, anche il tasso di perdita di energia.
Se si considerano particelle cariche di massa m e carica ze ad energie non
relativistiche ( )cv << , ma tali da supporre trascurabile la correzione di “shell”, la relazione
(2.11) si può esprimere, più semplicemente, come segue [Kno89]:
=−m
EC
E
mzC
dx
dE2
2
1 ln, (2.12)
dove C1 e C2 rappresentano delle costanti30. Nell’equazione (2.12) il termine logaritmico
varia lentamente con l’energia per cui lo “stopping power” avrà un andamento
inversamente proporzionale all’energia incidente (o, analogamente, S∝1/v2) e dipenderà
essenzialmente dal prodotto mz2, assolutamente caratteristico del tipo di particella in
esame.
Si osserva che, nell’intervallo di energie in cui è da ritenersi valida la (2.11), lo
“stopping power” tende a decrescere all’aumentare della velocità incidente finché non
presenta un valore minimo, in corrispondenza di cv 96.0≅ : in tal caso, le particelle che
rallentano entro il mezzo (dette minimamente ionizzanti), che siano inoltre caratterizzate
29 Gli effetti di polarizzazione sono più significativi, infatti, in sostanze dense piuttosto che in quelle leggere come i gas [Leo94]. 30 Le costanti presenti nella (2.11) sono date da:
C1=(NZe4)/(8πε02me) e C2=(4me)/I,
avendo posto N=(NAρ)/A, che rappresenta il numero di atomi o molecole bersaglio per unità di volume.
- 30 -
dallo stesso valore di z, presentano approssimativamente lo stesso valore della perdita di
energia specifica per cui non risultano più distinguibili.
Dalla dipendenza energetica descritta dalla (2.11) è possibile ricavare, infine,
l’andamento dell’energia depositata in un mezzo in funzione della profondità di
penetrazione. La curva corrispondente è nota come curva di Bragg ed evidenzia come le
particelle cariche pesanti perdano la maggior parte della loro energia alla fine del loro
tragitto come mostrato in Figura 2.5.
L’aumento della ionizzazione nell’ultimo tratto del percorso, vale a dire il numero di
coppie ione-elettrone prodotte dal passaggio della radiazione, si spiega con la dipendenza
del potere frenante dall’inverso del quadrato della velocità. Quando la particella rallenta,
quindi, la ionizzazione aumenta per poi annullarsi bruscamente allorché la sua energia è
diminuita fino al livello del potenziale di ionizzazione del mezzo attraversato.
Figura 2.5: Tipica curva di Bragg per particelle alfa.
- 31 -
2.4 SCHERMATURE La sola conoscenza della radiobiologia della radiazione cosmica non basta per ridurre i
rischi di esposizione cui sono soggetti astronauti e strumentazioni durante missioni
interplanetarie e pertanto è fondamentale elaborare delle misure preventive idonee.
Diversi sono i fattori sui quali agire per ridurre il rischio da radiazioni ionizzanti, i
principali sono tre: aumentare la distanza dalla sorgente, ridurre il tempo di esposizione,
utilizzare delle schermature. Esistono in realtà anche altre strategie per ridurre gli effetti
delle radiazioni nello spazio profondo come la radioprotezione tramite farmaci o
integratori dietetici, oppure la selezione dell’equipaggio sulla base della radiosensibiltà
individuale, ma al momento con tali strategie alternative non sono stati raggiunti risultati
soddisfacenti [Dur04].
È chiaro che l’isotropia della radiazione cosmica rende inapplicabile il fattore
distanza, mentre il tempo nello spazio dovrebbe aumentare piuttosto che diminuire, con i
nuovi programmi di esplorazione (vedi Tabella 2.3).
L’unica contromisura attualmente realizzabile risultano così le schermature, che
saranno discusse in questo paragrafo.
Mentre la schermatura dei fotoni è perfettamente conosciuta ed efficace, il
problema diviene molto più complesso nello spazio, soprattutto per la GCR, a causa
dell’elevata energia delle particelle e della frammentazione nucleare degli ioni pesanti.
Come visto nel paragrafo precedente le particelle cariche, nell’attraversare un mezzo, sono
rallentate dalle interazioni con gli elettroni atomici. I protoni e gli ioni presenti nella GCR
e negli SPE possono interagire con i nuclei atomici della schermatura ed, a seconda delle
particelle primarie e della loro energia, possono essere prodotti una gran varietà di
particelle secondarie che includono protoni e neutroni, frammenti leggeri della radiazione
primaria, raggi gamma e nuclei pesanti del bersaglio [Par98].
La frammentazione modifica lo spettro della radiazione incidente, e sposta la
distribuzione in LET del campo. La sezione d’urto di frammentazione del proiettile Pσ
(espressa in cm2/g) per unità di massa del bersaglio di peso atomico AT può essere
approssimata dalla relazione [Dur02]
- 32 -
( )
T
TPP A
AArN
233
200
+≈ πσ , (2.13)
dove N0 è il numero di Avogadro, r0 il raggio efficace del nucleone e AP il peso atomico
del proiettile. Ovviamente Pσ cresce all’aumentare di AP, ma è interessante notare che, a
parità di massa, i bersagli leggeri frammentano di più rispetto a quelli pesanti. Un’elevata
frammentazione degli ioni pesanti sposta lo spettro in LET verso valori bassi, giacché i
frammenti del proiettile hanno approssimativamente la stessa velocità dello ione primario e
quindi LET minore. D’altra parte, schermi pesanti (come il Piombo) rallentano gli ioni
incidenti, aumentandone il LET, ma frammentano poco. Poiché la GCR contiene numerosi
ioni leggeri e medio-pesanti (cfr. §1.2) con energie che possono raggiungere il GeV per
nucleone, una forte frammentazione, diminuendo il LET, determinerà una diminuzione
anche di Q (vedi Figura 2.1), mentre il rallentamento Coulombiano provoca un aumento
dei valori di LET, spostandoli verso la zona di picco di Q, la più pericolosa dal punto di
vista del rischio biologico. Questo argomento spiega i risultati mostrati in Figura 2.5, dove
si riporta il rapporto fra la dose equivalente H(x) assorbita con una schermatura di spessore
x e quella H(0) in assenza di schermo in funzione di x, per diversi materiali schermanti. I
dati sono ottenuti tramite il codice di calcolo HZETRN (“HZE TRansport code”),
assumendo un anno di esposizione al minimo solare. Il codice HZETRN è un accurato
modello matematico, sviluppato dalla NASA, per la GCR ed il suo trasporto nei materiali
che consente di calcolare la dose e la dose equivalente nello spazio profondo o su pianeti
extraterrestri, in presenza di schermature di diverso materiale e spessore, compresa la
autoschermatura del corpo sugli organi interni [Dur04].
Dal grafico appare chiaro come schermature sottili di materiali pesanti portino ad
un aumento della dose equivalente, ed anche l’Alluminio, il materiale principalmente
utilizzato nella realizzazione dei veicoli spaziali, non ha prestazioni ottimali come schermo
della GCR31. Uno schermo ideale è invece costituito dall’Idrogeno liquido, ma ovviamente
tale materiale non può avere applicazioni pratiche. Il polietilene può essere un ottimo
compromesso ed infatti dei pannelli in politilene sono stati montati nella zona di riposo
degli astronauti sulla stazione Spaziale Internazionale32. Occorre in ogni modo eseguire
31 Le consuete schermature adoperate nelle pareti delle navette spaziali sono realizzate in Alluminio con uno spessore che raggiunge i 5 g/cm2. Questi spessori sono in grado di stoppare tutti i protoni di energia inferiore a 65 MeV; risultano pertanto efficaci nel caso di esposizione a radiazione confinata. 32 Alcuni veicoli spaziali contengono delle piccole aree altamente schermanti, chiamate “storm shelter”, dove l’equipaggio può trovare protezione in caso di intensi SPE.
- 33 -
ulteriori misure degli effetti biologici in funzione della qualità e dello spessore della
schermatura per poter validare i risultati di questi modelli.
Figura 2.5: Effetto della schermatura sulla dose equivalente dovuta alla GCR.
L’utilizzo di schermature pone inoltre problemi riguardo al trasporto. Un carico
pesante, aggiunto al puro scopo di ridurre l’esposizione da radiazione, costituisce una
penalità concreta per il trasporto con conseguente aumento dei costi della missione.
Un’interessante alternativa alla schermatura passiva è l’uso di campi magnetici per
deflettere le particelle dal veicolo spaziale, le cosiddette schermature attive. In particolare,
così come il campo geomagnetico protegge la vita sulla Terra dalla GCR e dai protoni
solari, così un magnete in grado di generare un campo intorno alla navicella potrebbe
essere in grado di proteggere gli esploratori dal cosmo. Per avere applicazioni pratiche, la
schermatura attiva richiede sviluppi tecnologici nel campo dei superconduttori ad alta
temperatura, in modo da permettere la costruzione di magneti in grado di produrre intensi
campi magnetici minimizzando la potenza ed il liquido refrigerante richiesti [Dur02].
- 34 -
Schermature di questo tipo sarebbero ideali per la protezione da intensi SPE
direzionali.
Figura 2.6: Protezione da uno SPE direzionale tramite sistemi di schermatura attiva e passiva (lente magnetica) [Dur02].
- 35 -
3. PROPRIETÀ GENERALI DELLE
REAZIONI NUCLEARI TRA IONI
Le reazioni nucleari costituiscono uno strumento formidabile per ampliare le conoscenze in
molti campi della Fisica, comprese le sue applicazioni quali la radioprotezione nello spazio
e l’adroterapia.
Le reazioni tra ioni pesanti ( )6≥A si possono distinguere, a seconda dell’energia
alla quale avviene la collisione, in tre gruppi:
− Collisioni a basse energie (E<20 AMeV);
− Collisioni ad energie intermedie (20<E<200 AMeV);
− Collisioni ad alte energie (E>200 AMeV).
In realtà tale suddivisione non è netta a causa della complessa natura dei nuclei,
come non lo è la transizione da un regime all’altro. Inoltre, la dinamica dell’interazione in
funzione della centralità della reazione riveste un ruolo fondamentale perché, a parità di
energia incidente, i canali finali delle reazioni possibili, possono essere completamente
diversi al variare del parametro d’urto b.
Per basse energie incidenti la lunghezza d’onda di De Broglie del nucleo è dello
stesso ordine di grandezza del raggio nucleare ( 31
0 ArR ⋅≈ , con fmr 21.10 = [Pov98]),
questo fa sì che non ci sia interazione tra i singoli nucleoni del proiettile e quelli del
bersaglio. Il libero cammino medio di un nucleone è dell’ordine del raggio nucleare ed è
quindi possibile applicare una descrizione in termini di campo medio, considerando
l’effetto complessivo delle forze nucleari e trascurando i contributi di diffusione nucleone-
nucleone. Queste reazioni, in generale, sono di tipo binario e possono essere descritte in
termini di traiettorie classiche.
Come schematizzato in Figura 3.1, si possono distinguere varie tipologie di
reazione in funzione del parametro d’impatto b33.
33 La distinzione tra le diverse reazioni può avvenire, in modo del tutto equivalente, anche in funzione del momento angolare orbitale.
- 36 -
Figura 3.1: Interazioni nucleari al variare del parametro d’impatto.
Per parametri d’impatto maggiori di quello di “grazing”34 prevale l’azione
elettromagnetica del campo Coulombiano e possono aver luogo collisioni elastiche
(diffusione alla Rutherford) o inelastiche (eccitazione Coulombiana). Nel primo caso la
sezione d’urto differenziale Ωd
dσ è data dalla “formula di Rutherford” ed ha un andamento
del tipo:
2
1
4 CMsend
dϑ
σ ∝Ω
, (3.1)
dove CMϑ rappresenta l’angolo di diffusione del nucleo proiettile rispetto alla direzione
iniziale35 misurato nel sistema di riferimento del centro di massa. In tal caso non vi sono
effetti di rinculo ed i due ioni non rimangono eccitati. All’aumentare dell’energia
incidente le particelle subiranno sempre meno diffusione elastica e prevarrà lo “scattering”
inelastico. In questo tipo di interazione parte dell’energia cinetica del proiettile è trasferita
al bersaglio portando quest’ultimo ad uno stato eccitato. Esso dopo un certo tempo,
34 L’angolo di “grazing” è definito come l’angolo che corrisponde alla distanza di minimo avvicinamento tra nucleo proiettile e bersaglio, alla quale si inizia a sentire l’interazione nucleare. 35 La formula di Rutherford è valida fintantoché il nucleo bersaglio è molto più massivo rispetto al proiettile. Se gli ioni interagenti sono identici entrano in gioco anche fenomeni quanto-meccanici che modificano l’andamento della distribuzione angolare.
COLLISIONI DISTANTI
COLLISIONI VICINE
COLLISIONE DI “GRAZING”
DIFFUSIONE ELASTICAREAZIONI DIRETTE
FORMAZIONE DINUCLEO COMPOSTO
DIFFUSIONE PROFONDAMENTE INELASTICA
DIFFUSIONE ELASTICA (RUTHERFORD)ECCITAZIONE COULOMIBIANA
COLLISIONI DISTANTI
COLLISIONI VICINE
COLLISIONE DI “GRAZING”
DIFFUSIONE ELASTICAREAZIONI DIRETTE
FORMAZIONE DINUCLEO COMPOSTO
DIFFUSIONE PROFONDAMENTE INELASTICA
DIFFUSIONE ELASTICA (RUTHERFORD)ECCITAZIONE COULOMIBIANA
- 37 -
ritornerà allo stato fondamentale emettendo fotoni o particelle leggere (neutroni, protoni,
particelle alfa, etc).
Per parametri d’impatto vicini a quello di “grazing”, i nuclei coinvolti nella
reazione cominciano a risentire delle forze nucleari. Si hanno quindi processi diretti che
avvengono in tempi brevi, confrontabili con quelli impiegati dal proiettile ad attraversare il
bersaglio (∼10-22 s) con scambio di pochi nucleoni. Per reazioni più centrali si ha un’alta
sezione d’urto di formazione di nucleo composto, un sistema per il quale il proiettile perde
tutta l’energia nell’interazione forte col bersaglio formando con questo un nuovo nucleo
che li contiene entrambi. Il nucleo composto presenta una vita media relativamente lunga
(10-17÷10-15 s) ed è lasciato in uno stato eccitato36 [Wil97]. Esso decade emettendo
particelle leggere o raggi gamma prescindendo dal modo in cui si è costituito.
Diminuendo ulteriormente il parametro d’impatto avvengono in sequenza:
diffusione elastica, diffusione quasi elastica, profondamente inelastica e fusione completa.
Nel caso di diffusione profondamente inelastica (“Deep inelastic collision”) vi è
una grande perdita di energia cinetica da parte dei due nuclei interagenti, in prevalenza
convertita in energia di eccitazione. In seguito alla collisione, avviene l’emissione di
nucleoni o particelle leggere con un processo di emissione analogo a quello di
diseccitazione di un nucleo composto. L’emissione può avvenire in modo diretto, cioè
durante la fase d’interazione, oppure in maniera sequenziale, dopo che il sistema ha
raggiunto una fase di termalizzazione.
Nelle reazioni di fusione, i due ioni interagiscono formando un nucleo composto,
cui segue l’evaporazione di raggi gamma o di alcuni nucleoni. Il sistema infatti è eccitato e
si diseccita emettendo, all’aumentare dell’energia, rispettivamente: raggi gamma, neutroni,
protoni e particelle alfa37.
Nelle reazioni ad alta energia (E>200 AMeV) la lunghezza d’onda associata al
singolo nucleone è molto inferiore al raggio nucleare, pertanto le collisioni nucleone-
nucleone predominano sugli effetti generati dal campo medio.
Le collisioni periferiche possono essere descritte con il modello partecipante
spettatore. I nucleoni partecipanti si trovano nella zona di sovrapposizione geometrica dei
36 Lo stato di eccitazione del nucleo composto è determinato dall’energia cinetica persa dallo ione incidente e dell’energia di legame rilasciata quando questo viene assorbito dal bersaglio [Wil97]. 37 Se il nucleo composto ha, oltre che un’elevata energia di eccitazione, anche un alto momento angolare può accadere che, durante la rotazione, esso si deformi lungo la direzione perpendicolare all’asse di rotazione. L’ellissoide di rotazione diviene sempre più allungato finché avviene la scissione in due grossi frammenti.
- 38 -
due nuclei. Nel corso della collisione essi formeranno, dopo la separazione dei nuclei
originari, una zona di materia nucleare a densità e temperatura molto elevate, denominata
“fireball”, che decade emettendo nucleoni e particelle leggere molto energetiche. I
nucleoni spettatori, non coinvolti nell’interazione, sono invece quelli che si trovano nelle
zone di non sovrapposizione. Essi costituiscono il “quasi proiettile”, avente massa
paragonabile a quella del proiettile (“Projectile-L ike Fragment”, PLF) ed il “quasi
bersaglio”, con massa confrontabile a quella del bersaglio (“Target-L ike Fragment”, TLF);
la loro velocità in seguito alla reazione sarà poco perturbata rispetto a quella iniziale, come
schematizzato in Figura 3.2.
Figura 3.2: Modello partecipante spettatore proposto per interpretare i meccanismi di reazione alle alte energie.
Nelle collisioni centrali si ha la disintegrazione completa del sistema con
l’emissione di frammenti, particelle leggere e nucleoni.
Le collisioni ad energie intermedie sono caratterizzate dalla presenza
contemporanea dei due effetti: la dinamica di campo medio e le interazioni nucleone-
nucleone. A queste energie si può parlare di una vera e propria transizione tra i due regimi.
L’evoluzione dinamica del sistema può essere descritta da un punto di vista microscopico
considerando la competizione tra essi. In questo tipo di interazioni, che si verificano vicino
all’energia di Fermi (37 MeV), la lunghezza d’onda di De Broglie è dello stesso ordine di
grandezza della distanza media fra i nucleoni. Il campo medio descrive l’azione delle forze
v inc
Partecipanti
Spettatori
vinc
“FIREBALL”
“Target-Like Fragment”
“Projectile-LikeFragment”
v inc
Partecipanti
Spettatori
vinc
“FIREBALL”
“Target-Like Fragment”
“Projectile-LikeFragment”
- 39 -
attrattive a lungo raggio, mentre le forze a corto raggio si manifestano solo tra nucleoni che
si trovano abbastanza vicini.
Al variare dell’energia del fascio si passa con continuità, per le collisioni
periferiche, da una prevalenza di reazioni di tipo “deep inelastic”, proprie del caso a basse
energie, ad una situazione in cui si hanno processi di fusione incompleta e, per le centrali,
dalla fusione completa alla frammentazione di gran parte del sistema. Risultano comunque
ancora possibili le diffusioni elastiche e inelastiche a seconda del valore del parametro
d’impatto, ma all’aumentare dell’energia e soprattutto nel caso di ioni incidenti leggeri si
verifica la frammentazione binaria del proiettile (reazione di “break up”). Questa reazione
è dovuta prevalentemente all’interazione del proiettile col campo nucleare del bersaglio
che provoca la rottura in due parti del nucleo incidente. I frammenti in generale hanno una
massa minore del proiettile e velocità molto simile a quella del fascio incidente. Essi
inoltre sono rivelati prevalentemente ad angoli molto piccoli rispetto alla direzione
d’incidenza del fascio, cioè sono emessi preferenzialmente in avanti. In generale i
frammenti provengono dalla rottura del solo proiettile e sono rivelati in coincidenza, senza
che il bersaglio subisca alcuna eccitazione. Si parla in tal caso “break up” elastico. Può
tuttavia accadere che uno dei frammenti prodotti interagisca con il nucleo bersaglio
eccitandolo (“break up” inelastico); quest’ultimo si disecciterà emettendo particelle
leggere o fotoni.
Un’altra caratteristica delle reazioni periferiche e semiperiferiche in questa regione
di energie è l’intensa emissione di particelle leggere cariche (LCP, “L ight Charged
Particles”) e soprattutto di frammenti di massa intermedia (IMF, “Intermediate Mass
Fragments”) con velocità intermedie tra quelle del PLF e del TLF. Queste emissioni non
sono previste dai modelli evaporativi che descrivono l’emissione di particelle da parte dei
frammenti eccitati38. Sperimentalmente si osserva che passando dalle reazioni a bassa energia a quelle ad
energie intermedie, e per parametri d’impatto molto piccoli, la sezione d’urto di fusione
completa tende a diminuire in favore di quella incompleta. Durante questo processo il
proiettile si rompe in due frammenti, uno dei quali (frammento partecipante) è assorbito
38 Il fatto che tali emissioni siano caratterizzate da velocità intermedie, tra quella del proiettile e quella del bersaglio, può indicare che esse abbiano origine nella zona di contatto fra i due nuclei: potrebbero essere prodotte dalla frammentazione oppure dal decadimento di una struttura sottile e allungata che unisce i due nuclei subito prima del definitivo distacco (“neck”).
- 40 -
dal bersaglio dando vita ad un nucleo composto eccitato, mentre l’altro (frammento
spettatore) prosegue indisturbato.
3.1 LA FRAMMENTAZIONE DEL PROIETTILE In questo paragrafo sarà analizzato più da vicino il processo di frammentazione del
proiettile, che è parte fondamentale dell’argomento discusso in questo lavoro di tesi.
Nelle reazioni di frammentazione del proiettile nuclei medi e pesanti, accelerati ad
energie molto al di sopra della barriera Coulombiana, incidono sul bersaglio dove si
frammentano originando diverse specie nucleari più leggere. Gli ioni prodotti sono emessi
con una velocità molto prossima a quella iniziale del proiettile, con distribuzione angolare
molto stretta e piccata attorno a zero gradi rispetto alla direzione d’incidenza del proiettile.
Tra i vari modelli che descrivono il processo di frammentazione, quello più
accreditato è il cosiddetto “ablation-abrasion model” proposto da Serber nel 1947 [Ser47],
secondo cui le reazioni periferiche di ioni pesanti energetici possono essere descritte da un
processo a due fasi, in intervalli di tempo ben separati. Durante la prima fase del processo,
detta abrasione, si determina una regione di sovrapposizione tra nucleo proiettile e nucleo
bersaglio, le cui dimensioni dipendono dal parametro d’urto di reazione, che porta alla
formazione dei pre-frammenti. Questi costituiscono i nucleoni partecipanti alla reazione e
si trovano in uno stato altamente eccitato, mentre i nucleoni spettatori, appartenenti sia al
bersaglio che al proiettile, subiscono solo piccole variazioni dell’impulso. Questo è lo
stadio veloce del processo ed avviene in tempi dell’ordine dei 10−23 secondi. I pre-
frammenti continuano a muoversi lungo la direzione d’incidenza del fascio, praticamente
con la stessa velocità, diseccitandosi per emissione di gamma, neutroni, protoni o “cluster”
leggeri. La seconda fase (diseccitazione) è più lenta (10−16÷10−18 s, secondo l’energia
d’eccitazione dei pre-frammenti) e porta alla ridistribuzione dei nucleoni rimanenti, che
danno origine ai frammenti finali. La distribuzione primaria dei prodotti finali è calcolata
geometricamente e pesata dalla probabilità con cui entrano in gioco i diversi valori del
parametro d’urto. Uno schema del processo ad alte energie è mostrato in Figura 3.3.
- 41 -
Figura 3.3: Rappresentazione schematica del processo di frammentazione del proiettile ad alte energie.
Durante la collisione non c’è scambio di momento, né di nucleoni ed il rapporto
N/Z dei nucleoni rimossi è lo stesso di quello del proiettile. Si assume che ogni frammento
abbia un’energia d’eccitazione dovuta alla deformazione superficiale subita per la perdita
di alcuni nucleoni. Questo modello descrive con successo le caratteristiche generali del
processo di frammentazione, ma, sistematicamente, sovrastima la sezione d’urto dei
frammenti a cui sono stati “strappati” solo pochi nucleoni [Car92].
Nell’ambito dello schema appena descritto, Goldhaber sviluppò un modello
statistico della frammentazione [Gol74], basato sull’assunzione che la distribuzione in
momento dei frammenti prodotti sia legata all’impulso dei singoli nucleoni all’interno del
proiettile durante la reazione. Il suo modello riproduce le caratteristiche del processo,
riassumibili in:
− Velocità dei frammenti prossima a quella del proiettile originario;
− Frammenti emessi in una regione angolare molto stretta e piccata attorno
alla direzione d’incidenza del fascio;
− Distribuzione in momento isotropa nel sistema di riferimento del centro di
massa, e descritta da una curva Gaussiana la cui larghezza, σ2 , dipende
dalla massa del proiettile e del frammento:
( ) 2
02
1σσ
−−
=p
fpf
A
AAA (3.2)
dove Af ed Ap sono rispettivamente la massa del frammento e del proiettile, e 0σ è la
larghezza ridotta39.
39 La larghezza 0σ è legata al momento di Fermi pf dei nucleoni all’interno del proiettile dalla relazione
[Rap05]
5
2
0fp
=σ .
- 42 -
La probabilità di formazione di un particolare frammento varia esponenzialmente
con la massa e raggiunge il valore massimo per Af = Ap.
Il modello “ablation-abrasion” di Serber fin qui descritto è sufficientemente adatto
alla descrizione del processo di frammentazione ad energie dell’ordine dei GeV, in quanto
basato sull’interazione nucleone-nucleone. A basse energie (minori di 20 AMeV) non è
applicabile in quanto predominano gli effetti di campo medio, e ad energie intermedie
(20÷100 AMeV), tale descrizione può essere considerata una buona approssimazione solo
per collisioni molto periferiche [Rap05].
Le sezioni d’urto tipiche osservate nelle reazioni di frammentazione per la
produzione di uno specifico nucleo sono dell’ordine dei 10÷100 mbarn, ma possono
scendere all’ordine dei picobarn per le specie nucleari più esotiche, al limite della stabilità.
- 43 -
4. MISURE DI FRAMMENTAZIONE DEL 12C
4.1 L’ESPERIMENTO Le misure sperimentali, analizzate nel presente lavoro di tesi, sono state effettuate presso i
Laboratori Nazionali del Sud (LNS) di Catania nell’ambito del progetto MOBIDIC40 nel
Giugno del 2006. Tale progetto si propone di effettuare una serie di esperimenti dedicati
allo studio sistematico del processo di frammentazione di nuclei medio-leggeri (ioni
Carbonio, Argon, Ossigeno, etc.) e radioattivi, a varie energie incidenti, che possano
costituire un “set” consistente di dati per i vari programmi di simulazione, adoperati in
ambito adroterapico ed nel calcolo dei rischi da radiazioni nello spazio.
In particolare, l’obiettivo dell’analisi qui condotta è la stima dell’andamento della
sezione d’urto di frammentazione di un fascio di ioni 12C di energia pari a 62 AMeV su un
bersaglio di 197Au ed il confronto di tale andamento con quello misurato in una precedente
campagna sperimentale con fasci di ioni 12C a 32 AMeV su un bersaglio di Piombo. Gli ioni stabili e ad alto stato di carica del fascio primario sono stati prodotti da una
sorgente ECR41, denominata SERSE, iniettati assialmente entro il Ciclotrone
Superconduttore (CS) ed accelerati attraverso intensi campi elettrici rapidamente alternanti,
con frequenze dell’ordine del MHz (Radiofrequenze), applicati a dei settori cavi in Rame
(denominati “Dees”) immersi in un campo magnetico generato da una coppia di bobine
superconduttive. In questa fase il fascio, pulsato e sincronizzato temporalmente con il
segnale di Radiofrequenza (RF) del campo accelerante del CS, dopo aver percorso una
traiettoria a spirale al suo interno, viene estratto per mezzo di una coppia di deflettori
elettrostatici che applicano un intenso campo elettrico aggiuntivo (100 kV/cm) alle
particelle che raggiungono l’orbita più esterna.
La corrente utilizzata durante tutta la fase è stata di circa 10 enA (electricalnanoAmpere42).
Il fascio di ioni 12C così prodotto ed estratto dal CS, è stato trasportato, attraverso una
serie di elementi magnetici, nella sala sperimentale in cui è posta la linea di trasmissione
40 MOBIDIC: “MOdulated Beams of Ions Delivered by INFN Cyclotron”. 41 ECR: “Electron Cyclotron Resonance”. 42 Unità di misura della corrente del fascio che prescinde dallo stato di carica dello ione accelerato.
- 44 -
denominata “20°”, per la sua orientazione rispetto alla linea principale, dove è situata la
camera di diffusione TRASMA. In Figura 4.1 è mostrata una pianta della disposizione
delle linee di fascio e delle diverse sale sperimentali operative presso i LNS.
Figura 4.1: Pianta delle linee di fascio disponibili presso i LNS di Catania.
All’interno della camera TRASMA, in corrispondenza dell’ingresso, è stato posto il porta-
bersagli: un supporto scorrevole a tre posizioni che può ospitare, quindi, fino a tre tipi di
bersagli diversi. In fase sperimentale il fascio di ioni 12C ha inciso su un bersaglio in Oro
(197Au) dello spessore di 113.5 µm, successivamente è stato selezionato il “frame” vuoto
del porta-bersagli solo per pochi “run” di misura, utili all’acquisizione degli eventi di
fondo, dovuti ad esempio all’urto degli ioni 12C con il porta-bersagli, ed alla verifica
dell’effettivo centraggio del fascio.
In Figura 4.2 sono visibili, rispettivamente, l’ambiente di misura ed il porta-
bersaglio, montato entro la camera sperimentale TRASMA, di volume pari ad 1 m3.
In seguito alla frammentazione del fascio primario sul bersaglio selezionato, i prodotti di
reazione vengono rivelati mediante un complesso sistema costituito da odoscopi di
- 45 -
rivelatori ∆E-E, di tipo Si-CsI, di differente granularità, denominati “Hodo Big” ed “Hodo
Small”, particolarmente adatti all’identificazione in carica ed in massa dei frammenti.
La reazione avviene in “cinematica diretta”, cioè il nucleo proiettile è più leggero del
nucleo bersaglio e pertanto, come visto nel capitolo precedente, nell’intervallo di energia in
gioco, i frammenti, dai più leggeri a quelli di massa confrontabile con quella del proiettile,
hanno velocità molto prossima a quella del fascio primario e sono emessi in avanti entro un
cono d’apertura angolare relativamente piccola intorno alla direzione di incidenza,
corrispondente a zero gradi. Per questo tipo di esperimento è fondamentale, pertanto, che il
sistema di rivelazione abbia un’efficienza di raccolta ottimale, specie nella regione
angolare di interesse.
Al fine di soddisfare queste esigenze, gli 88 telescopi costituenti l’Hodo Big sono disposti
su una calotta sferica di raggio 60 cm, centrata nella posizione del bersaglio, con apertura
angolare ±6.09°≤ θlab ≤ ±20.47° e copertura totale, in termini di angolo solido, pari a 0.23
str, cui corrisponde un’efficienza geometrica di circa il 90%; d’altra parte gli 81 elementi
dell’Hodo Small, anch’essi centrati rispetto al bersaglio, ma ad una distanza di 80 cm, sono
sistemati in modo da formare un cubo di 9×9 telescopi, con apertura angolare θlab= ± 4.5°.
Si noti che, al fine di evitare che i telescopi dell’Hodo Big possano in qualche modo
schermare l’Hodo Small, il secondo rivelatore è stato posto ad una distanza maggiore dal
bersaglio rispetto al primo, come mostrato schematicamente in Figura 4.3.
Figura 4.2: A sinistra è mostrata la sala sperimentale posta sulla linea a 20° presso i LNS, mentre a destra il porta-bersagli posto all’ingresso della camera di diffusione TRASMA (il frame vuoto ha dimensioni 70×70 mm2).
- 46 -
Figura 4.3: A sinistra è mostrata l’immagine del “set-up” sperimentale, mentre a destra è presentata la disposizione schematica, vista dall’alto, degli odoscopi all’interno della camera TRASMA.
Hodo Small Hodo BigPorta-bersagli
Figura 4.3: A sinistra è mostrata l’immagine del “set-up” sperimentale, mentre a destra è presentata la disposizione schematica, vista dall’alto, degli odoscopi all’interno della camera TRASMA.Figura 4.3: A sinistra è mostrata l’immagine del “set-up” sperimentale, mentre a destra è presentata la disposizione schematica, vista dall’alto, degli odoscopi all’interno della camera TRASMA.
Hodo Small Hodo BigPorta-bersagli
4.2 IL DISPOSITIVO SPERIMENTALE
4.2.1 I RIVELATORI
L’Hodo Big è costituito da 88 telescopi a tre stadi, ciascuno dei quali è composto da un
primo rivelatore al Silicio (∆E1), con spessore di 50 µm ed area attiva di 3×3 cm2, seguito
da un secondo rivelatore al Silicio (∆E2), di spessore pari a 300 µm e di uguale area ed
infine da un terzo rivelatore (E) rappresentato da un cristallo di CsI(Tl)43, di dimensioni
43 Ioduro di Cesio attivato con impurezze di Tallio.
- 47 -
3×3×6 cm3, a cui è accoppiato un fotodiodo per la lettura del segnale in uscita. L’intero
sistema è sorretto da un’appropriata struttura metallica, suddivisa in settori di sezione
quadrata, dove sono stati collocati gli 88 telescopi, secondo la configurazione geometrica
di Figura 4.4.
Figura 4.4: A sinistra è visibile la disposizione dei telescopi dell’Hodo Big, mentre a destra è mostrata quella relativa ai telescopi dell’Hodo Small.
L’Hodo Big, presentando un’apertura angolare maggiore rispetto all’Hodo-Small,
riesce a rivelare anche la presenza di particelle con energia minore. A questo scopo
l’impiego dello spessore di Silicio da 50 µm si rende necessario al fine di ridurre la soglia
di energia minima rilevabile, rispetto all’uso del solo ∆E2, al valore di 3 AMeV, che
rappresenta appunto la perdita di energia di una particella nel ∆E1. In tal modo si evita la
perdita di informazioni, soprattutto in merito a quelle particelle che, in quanto
maggiormente deflesse dalla direzione di incidenza, rappresentano il frutto di interazioni
fra proiettile e bersaglio distinti dalla frammentazione e, per questo, aventi in alcuni casi
energia cinetica molto minore rispetto, ad esempio, ai frammenti poco deflessi raccolti
dall’Hodo Small. L’Hodo Small è costituito da 81 telescopi a due stadi, ciascuno dei quali consiste di un
rivelatore al Silicio (∆E), di spessore 300 µm e di area attiva 1×1 cm2, seguito da uno
scintillatore (E), a base di CsI(Tl) di uguale area e spessore pari a 10 cm, connesso ad un
fotodiodo di “read-out”. In questo caso, al fine di minimizzare gli spazi interstiziali tra un
telescopio e l’altro e migliorare quindi l’efficienza geometrica, non è stata impiegata una
struttura di supporto per ogni singolo modulo, bensì i telescopi sono stati appoggiati l’uno
- 48 -
sull’altro, in modo da formare un cubo, e sistemati entro un’opportuna struttura metallica
(Figura 4.4).
I segnali elettrici prodotti da tutti i rivelatori al Silicio dei due odoscopi sono prelevati
attraverso dei sottili fili saldati su degli elettrodi in Alluminio, di spessore 0.3 µm, ottenuti
per evaporazione sulle due superfici laterali del diodo semiconduttore. I cavi risultano poi
saldati su delle strisce di Capton che, poste all’interno del rivestimento del cristallo di
CsI(Tl), svolgono sia funzione di connessione, per la trasmissione dei segnali, che di
sostegno del diodo.
Dal punto di vista costruttivo, i cristalli di CsI(Tl) costituenti i due sistemi di rivelatori,
presentano delle differenze dovute alle due diverse coperture angolari descritte in
precedenza: nel caso dell’Hodo Big i cristalli sono stati sagomati a forma tronco-
piramidale con basi quadrate, di superfici 31×31 mm2 e 34×34 mm2 rispettivamente, in
modo da garantirne il centraggio alla stessa distanza dal bersaglio, cosicché ognuno di essi
sottenda lo stesso angolo solido. Un disegno schematico relativo ad un generico telescopio
dell’Hodo Big è rappresentato in Figura 4.5.
Per quanto riguarda i cristalli di CsI(Tl) associati all’Hodo Small, la piccola apertura
angolare del rivelatore rispetto alla distanza dal bersaglio garantisce, di per sé, il centraggio
degli 81 telescopi entro gli errori di misura, dunque non è necessaria alcuna particolare
geometria costruttiva. In generale, le superfici anteriore, a contatto con il Silicio, e laterale
della sostanza scintillante, sono state rese leggermente ruvide, mentre quella posteriore è
stata pulita e levigata, in modo da ottimizzare l’accoppiamento ottico con il fotodiodo.
Al fine di potenziare l’efficienza di raccolta della luce prodotta entro il cristallo e di
attenuarne la dipendenza dal punto di impatto sul fotodiodo, è stato, inoltre, adottato l’uso
E – CsI(Tl)
60 mm
Fotodiodo - φD
50 µm
300 µm
31 m
m
34 m
m
10 m
m∆Ε1 ∆Ε2 E – CsI(Tl)
60 mm
Fotodiodo - φD
50 µm
300 µm
31 m
m
34 m
m
10 m
mE – CsI(Tl)
60 mm
Fotodiodo - φD
50 µm
300 µm
31 m
m
34 m
m
10 m
m∆Ε1 ∆Ε2
Figura 4.5: Rappresentazione schematica di un generico telescopio dell’Hodo Big.
- 49 -
combinato di materiali di rivestimento totalmente riflettenti, come il Mylar alluminizzato, e
completamente diffondenti, come il Millipore ed il Teflon. La parte anteriore degli
scintillatori è stata, infatti, ricoperta con un foglio di Mylar alluminizzato, di spessore 2
µm, in modo da minimizzare la perdita di energia degli ioni incidenti ed incrementare il
fenomeno della riflessione interna della luce, mentre le altre superfici del cristallo sono
state avvolte con delle strisce di Millipore, di spessore 0.1 mm, e ricoperte con due strati di
Teflon, di spessore pari a 0.5 mm, allo scopo di eliminare il cosiddetto fenomeno del
“cross talk”44 fra i segnali relativi a rivelatori adiacenti. Difatti, fra i due strati di Teflon, è
stato inserito un sottile foglio di Capton, di spessore 0.1 mm, con la funzione di trasporto
dei segnali provenienti dai rivelatori al Silicio lungo le facce laterali del cristallo,
impiegando, in tal modo, il minimo spazio possibile e riducendo, così, le parti “morte”
dell’odoscopio. Tutto il sistema, comprensivo del fotodiodo di “read-out”, è stato ricoperto
con un foglio di Alluminio collegato a massa, di spessore 0.2 mm, allo scopo di evitare
penetrazioni di luce dall’esterno e di schermare il segnale trasmesso attraverso il Capton.
Sul rivestimento della superficie posteriore dei cristalli, è stata ritagliata un’apertura
quadrata per consentirne la connessione con il fotodiodo ΦD, di spessore 250 µm ed area
attiva pari ad 1×1 cm2 e di 0.6×0.6 cm2 per i telescopi, rispettivamente, di Hodo Big ed
Hodo Small. L’accoppiamento ottico dei due elementi è stato ottenuto mediante l’uso di
una colla siliconica a due componenti che possiede buone proprietà di trasmissione della
luce, specie nell’intervallo di emissione dello CsI(Tl) che risulta centrato nel valore di 550
nm45, permettendo inoltre una ferma coesione fra le parti. Un supporto tronco-conico funge
da sostegno del fotodiodo e della basetta, annessa ad ognuno dei telescopi, con la quale
sono assemblati i connettori Lemo relativi ai diodi di Silicio ed agli stessi fotodiodi (vedi
Figura 4.6). Infine, sulla base dei telescopi è montata una piastrina, opportunamente
sagomata, che ne garantisce il fissaggio alla struttura meccanica su cui poggia l’apparato
nel suo complesso.
44 Il “cross-talk” è quel fenomeno per il quale i segnali, che transitano lungo connessioni molto prossime fra loro non appropriatamente schermate, subiscono effetti di induzione. I segnali indotti interferiscono fra loro in modo tale che l’informazione relativa all’altezza risulti falsata. 45 È stato dimostrato che lo spettro di emissione del CsI, senza aggiunta di impurezze, si compone di due bande, una nel “range” dell’ultravioletto, centrata intorno a 330 nm e caratteristica del cristallo puro, l’altra nel visibile, di colore blu, ma di posizione spettrale variabile, in quanto associata alla presenza di imperfezioni reticolari o di tracce ineliminabili di altre specie chimiche. Dopo l’attivazione con impurezze di Tallio di fissata concentrazione ed in seguito all’esposizione a diversi tipi di radiazione (raggi-X, protoni e particelle alfa), la risposta spettrale della sostanza ha evidenziato la presenza di una nuova banda di emissione nel visibile, di colore giallo, piuttosto intensa e centrata intorno a 550 nm, caratteristica dell’attivatore [Gwi63].
- 50 -
Si osserva che la scelta del fotodiodo rispetto all’uso del fotomoltiplicatore comporta una
serie di vantaggi quali, ad esempio, la migliore efficienza quantica per lo spettro di
emissione dello CsI(Tl), che raggiunge valori intorno al 60÷80 % nella regione spettrale di
interesse, dimensioni più ridotte, la maggiore stabilità del guadagno e la minore tensione di
alimentazione richiesta. Tuttavia, rispetto ad un fotomoltiplicatore, i segnali di risposta di
un fotodiodo, a parità di luce assorbita, risultano più piccoli.
I diodi a semiconduttore di cui sono dotati i due odoscopi appartengono alla
categoria dei “fully depleted (o “totally depleted”) detectors” ottenuti imponendo una
tensione di polarizzazione inversa ad un “wafer” di Silicio, diviso in due settori, in cui
sono state introdotte impurezze di tipo n (o donori di elettroni) e di tipo p (o accettori di
elettroni), rispettivamente. La presenza delle impurezze fa sì che entro il “wafer” di Silicio,
si crei una regione, detta di svuotamento, dove la concentrazione di elettroni e lacune libere
di muoversi attraverso il cristallo risulta estremamente ridotta. Applicando ai due settori
del diodo una tensione di polarizzazione inversa rispetto alle concentrazioni dei portatori di
carica maggioritari, è possibile estendere la regione di svuotamento all’intero spessore del
cristallo ottenendo così un rivelatore totalmente svuotato. In tal modo, il numero di coppie
elettrone-lacuna derivanti dal passaggio di una particella carica attraverso il diodo non
risulterà inficiato da cariche già presenti nella banda di conduzione del cristallo, bensì il
segnale in carica prelevato ai capi della giunzione avrà ampiezza direttamente
Figura 4.6: Generico telescopio dell’Hodo Big completo di basetta e piastrina
- 51 -
proporzionale all’energia depositata dalla radiazione, caratteristica che, come si vedrà in
seguito (cfr. §5.1), è fondamentale durante la fase di calibrazione del rivelatore.
Inoltre uno dei principali vantaggi dell’impiego dei rivelatori a semiconduttore è
rappresentato dall’esiguo valore dell’energia di ionizzazione46 (circa 3 eV per il Silicio),
che risulta indipendente dal tipo e dall’energia della radiazione da rivelare. Tale
prerogativa comporta la migliore risoluzione in energia ottenibile rispetto ad ogni altro
dispositivo di rivelazione in quanto rende minime le fluttuazioni statistiche relative al
singolo impulso in uscita ed ottimizza il rapporto segnale/rumore.
La risoluzione energetica dei diodi al Silicio costituenti i due odoscopi, ottenuta
mantenendo la corrente inversa compresa tra 0.1÷1.0 µA, è pari a circa 50 keV.
Per quanto riguarda il cristallo di CsI(Tl), l’alto numero atomico dei costituenti e
l’alta densità di questo materiale, comportano un elevato valore dello “stopping power”
(cfr. §2.3.2), che lo rende capace di arrestare efficacemente al suo interno una grande
varietà di specie isotopiche ad energie relativistiche e non. Il principio di rivelazione della radiazione per questo genere di dispositivi è rappresentato
dalla possibilità di convertire l’energia cinetica delle particelle incidenti in quanti di luce,
con lunghezze d’onda nella regione del visibile, con un’alta efficienza di scintillazione,
definita come quella frazione dell’energia incidente effettivamente convertita in fotoni.
L’interpretazione del meccanismo di scintillazione nei cristalli inorganici si basa sulla
struttura a bande di energia degli elettroni. Il passaggio di uno ione energetico attraverso il
mezzo di rivelazione provoca la formazione di un certo numero di coppie elettrone-lacuna,
in misura proporzionale all’energia depositata, dovute all’eccitazione degli elettroni dalla
banda di valenza alla banda di conduzione. Nel cristallo puro, il conseguente processo di
diseccitazione degli elettroni alla banda di valenza è inefficiente poiché comporterebbe
l’emissione di fotoni (di energia pari al “gap” tra i due livelli permessi) con lunghezze
d’onda tipicamente inferiori rispetto al range del visibile e passibili, inoltre, di fenomeni di
autoassorbimento. Al fine, quindi, di ottimizzare l’emissione di luce, vengono
normalmente aggiunte piccole quantità di atomi impurezze, dette attivatori, che, creando
dei livelli di energia caratteristici della specie chimica attivatrice, entro il gap altrimenti
proibito, modificano localmente la struttura a bande del cristallo. La specie attivatrice, in
particolare, viene scelta opportunamente in modo da spostare lo spettro di emissione verso 46 L’energia di ionizzazione è definita come l’energia media necessaria alla creazione di una coppia elettrone-lacuna. In generale, a parità di energia depositata, il numero di trasportatori di carica che si creano in un materiale semiconduttore è circa 10 volte maggiore rispetto ad un qualunque tipo di rivelatore a gas.
- 52 -
lunghezze d’onda comprese nel visibile, rendendo così il cristallo trasparente alla propria
luce di scintillazione. Il processo descritto prende il nome di fluorescenza ed è tale che la
conversione dell’energia incidente in luce avviene in un tempo caratteristico dell’ordine di
10-7 secondi [Kno89].
Rispetto ad altri tipi di cristalli inorganici, come lo NaI(Tl), lo CsI(Tl) presenta numerosi
vantaggi pratici come la maggiore resistenza ad eventuali “shock” meccanici, la migliore
duttilità e la tenue igroscopia (è ugualmente necessario proteggere lo scintillatore con
avvolgimenti esterni, soprattutto in condizioni di forte umidità, per evitare
danneggiamenti). In Tabella 4.1, sono riassunte le caratteristiche costruttive dei rivelatori
al Silicio ∆E1 e ∆E2, e del cristallo CsI(Tl) componenti l’Hodo Big.
∆E1 ∆E2 E – CsI(Tl)
SUPERFICIE 31×31 mm2
31×31 mm2
DENSITÀ 4.51 g/cm3
AREA ATTIVA 31×31 mm2
31×31 mm2
LUNGHEZZA D’ONDA DI
EMISSIONE 550 nm
SPESSORE 50 µm 300 µm FOTONI EMESSI 4.5 × 104
fotoni/MeV TENSIONE DI
FULL-DEPLETION (20 ÷ 26) V (26 ÷ 40)
V GRADIENTE DI TEMPERATURA 0.6 %/°C
TENSIONE DI
BREAKDOWN >100 V >100 V STOPPING POWER LINEARE
MINIMO 5.6
MeV/cm CORRENTE
INVERSA (35 V) ~0.1 µA 1.0 µA INDICE DI RIFRAZIONE 1.80
CAPACITÀ DI
GIUNZIONE (20 V) 320 pF 320 pF COSTANTE DI DECADIMENTO ~1µs
TEMPO DI SALITA 1-3 ns 1-3 ns CONCENTRAZIONE DI TALLIO 0.02 mole % METALLIZZAZIONE
DELLA SUPERFICIE Al (0.3 µm) Al
(0.3 µm) SUPERFICIE DELLA BASE MINORE 31 × 31 mm2
SUPERFICIE DELLA BASE
MAGGIORE 34 × 34 mm2
SPESSORE 6 cm Tabella 4.1: Caratteristiche costruttive dei rivelatori al Silicio ∆E1 e ∆E2, e del cristallo di CsI(Tl) appartenenti ai telescopi dell’Hodo Big.
Per completezza, sono infine riportate, in Tabella 4.2, le caratteristiche tecniche del
fotodiodo di “read-out” associato ad un generico telescopio dell’Hodo Big. Il principio di
funzionamento dei fotodiodi è del tutto analogo a quello, descritto in precedenza, di un
generico rivelatore a semiconduttore a giunzione n-p.
- 53 -
ΦD
DIMENSIONI 12 × 12 mm2
AREA ATTIVA 10 × 10 mm2
SPESSORE 250 µm
SPETTRO DI ASSORBIMENTO 4000 ÷ 11000 Å
EFFICIENZA QUANTICA 70 %
CAPACITÀ 70 pF (30 V)
TEMPO DI SALITA 15 ns
TENSIONE DI POLARIZZAZIONE INVERSA 10 V
CORRENTE INVERSA 1 nA
Tabella 4.2: Proprietà del fotodiodo ΦD abbinato ad un generico modulo dell’Hodo Big.
4.2.2 LA CATENA ELETTRONICA
L’elaborazione dei segnali prodotti dal sistema di rivelazione è affidata ad una catena
elettronica di tipo standard, concepita in modo da mantenere inalterata l’informazione di
interesse, relativa all’energia dei prodotti di reazione, e rappresentata dall’altezza dei
segnali in uscita dai rivelatori. In Figura 4.7 è mostrato uno schema dell’elettronica
associata ad un generico rivelatore dell’Hodo Big.
PA 421 SHAPING AMPLIFIER
∆E1
∆E2
A
TRIGGER
STRETCHER
Z.C.
GATEStr
GATEQDC
FASTBUS QDC
As
E
PA 421 SHAPING AMPLIFIER
∆E1
∆E2
A
TRIGGER
STRETCHER
Z.C.
GATEStr
GATEQDC
FASTBUS QDC
As
E
Figura 4.7: Diagramma a blocchi della catena elettronica associata al singolo rivelatore dell’Hodo Big.
- 54 -
I segnali che provengono dai diodi al Silicio e dal fotodiodo sono posti all’ingresso di
preamplificatori di carica (PA421) sistemati in delle scatole (P.A. BOX) montate
all’esterno della camera TRASMA (a causa delle sue dimensioni limitate) alla minima
distanza possibile dagli odoscopi, al fine di ridurre le capacità nel trasporto dei segnali in
uscita dai rivelatori. L’impiego dello stesso tipo di preamplificatore (PA) nella gestione di
segnali generati da tipi diversi di rivelatori ha reso necessarie opportune modifiche, in
modo da garantire il corretto accoppiamento capacitivo. Inoltre, sono stati selezionati
valori della sensibilità del PA pari ad 1 mV/MeV ed a 45 mV/MeV per i segnali prodotti
rispettivamente dagli spessori di Silicio e dai fotodiodi. Le caratteristiche tecniche dei PA
sono riportate in Tabella 4.3.
MODELLO PA421
DIMENSIONI 38 × 38 mm2
INGRESSO Impulso di carica positivo o negativo
USCITA Impulso di tensione unipolare con altezza del picco
proporzionale alla carica (invertente) e Vmax= -10 V
INTEGRAZIONE LINEARE ±0.035%
SENSIBILITÀ D’INGRESSO (1, 47, 94) mV/MeV
STABILITÀ TERMICA ±50 ppm/°C da 0 a 50 gradi Celsius
TEMPO DI SALITA 15 ns
TEMPO DI DECADIMENTO 250 µsec (100 µsec)
ALIMENTAZIONE (±12, ±24) V
POTENZA DISSIPATA 590 mW
Tabella 4.3: Caratteristiche tecniche dei Preamplificatori.
Ciascuna delle P.A. BOX ospita due “motherboard”, su ognuna delle quali possono essere
montati, in gruppi da 8, fino a 48 PA (Figura 4.8). Ad ogni gruppo di 8 PA viene fornita,
attraverso la “motherboard”, la stessa tensione di polarizzazione per i rivelatori, applicata
in parallelo a ciascun PA, così come la tensione di alimentazione (±12 V, ±24 V). Inoltre,
nella fase di controllo del funzionamento della catena elettronica nel suo complesso, i PA
di uno stesso gruppo ricevono un segnale, generato da un impulsatore, all’ingresso detto di
“pulse-test”. La scelta dello schema a gruppi presenta vantaggi considerevoli quali la
maggiore flessibilità, la riduzione dello spessore delle piste di alimentazione e l’impiego di
un numero minore di generatori di tensione di “bias”, sia per i diodi al Silicio che per i
- 55 -
fotodiodi. Lo svantaggio di organizzare numerosi circuiti elettrici in una struttura così
compatta è rappresentato dall’eventuale presenza di “cross-talk” tra i segnali. Al fine di
evitare ciò il circuito integrato della motherboard è stato realizzato alternando le piste che
trasportano il segnale con strati posti a massa, secondo la tecnica detta del multistrato.
Un’altra importante problematica da considerare è quella relativa allo smaltimento del
calore prodotto dai PA in condizioni operative. Nonostante le P.A. BOX non siano state
montate all’interno della camera sperimentale dove, in condizioni di vuoto spinto e quasi a
diretto contatto con i rivelatori, non sarebbe stato possibile lo scambio termico con l’aria
circostante e quindi la dissipazione del calore in eccesso, la temperatura dei PA raggiunge,
a regime, valori intorno a 40-50 °C. Per questa ragione, entro ciascuna delle scatole, sono
presenti una serie di serpentine metalliche poste entro una sbarra principale in Rame. Le
condutture di tali serpentine sono collegate ad una pompa per il ricircolo del liquido di
raffreddamento, che consiste in una miscela di acqua ed alcool. Il contatto termico fra ogni
PA ed il refrigerante è realizzato tramite un’altra sbarretta in Rame, saldata a quella
principale, unita al PA con una speciale resina elettro-isolante e termo-conduttrice. Tale
sistema ha mantenuto i PA ad una temperatura di circa 20 °C.
I segnali impulsivi (di tipo delta di Dirac) generati dai rivelatori e tradotti in segnali a
gradino in uscita dai P.A., sono trasportati fino all’ingresso degli amplificatori lineari
(“Shaping Amplifier”, S.A.), sistemati nella sala di acquisizione adiacente a quella
sperimentale, attraverso dei cavi coassiali. Ogni amplificatore è dotato di 8 canali di
“input” e fornisce, per ciascun canale, un segnale di uscita analogico, di altezza massima
pari ad 8 V e “shaping time” regolabile a 0.5, 1.0 e 3.0 µsec, e due uscite logiche,
Figura 4.8: Immagine di una delle P.A. BOX.
- 56 -
denominate “Leading Edge” (L.E.) e “Zero Crossing” (Z.C.)47. In particolare, il L.E. è
prodotto da un discriminatore a soglia (“leading edge discriminator”) nell’istante in cui il
segnale, messo in forma dallo S.A., raggiunge la soglia fissata, mentre lo Z.C. è generato
nell’istante in cui si annulla il segnale bipolare che si ottiene sommando fra loro il segnale
originale ed una sua copia caratterizzata da polarità invertita ed opportuno ritardo
(“constant fraction discriminator”)48. Le due uscite logiche dello S.A. sono raggruppate in
due connettori ECL49 da 8 pin ciascuno attraverso cui i segnali di Z.C. vengono inviati a
dei moduli AND-OR-ECL (AOE), dotati di 32 ingressi (corrispondenti a 4 cavi ECL da 8
pin ciascuno), che consentono di eseguire operazioni logiche elementari (AND, OR) sui
segnali di “input”. Inoltre, i moduli AOE forniscono un segnale detto di molteplicità: ogni
volta che M segnali giungono contemporaneamente sullo stesso modulo viene generato un
segnale logico, di altezza pari a (150×M) mV, che risulta, pertanto, proporzionale alla
molteplicità dell’evento.
Come mostrato in Figura 4.7, l’uscita analogica dello S.A. (con “shaping time” di 1 µsec e
di 3 µsec per i segnali provenienti, rispettivamente, dai rivelatori al Silicio e dagli
scintillatori) è inviata, tramite un connettore “lemo”, ad uno “stretcher”, che prolunga la
durata dell’impulso in ingresso dopo che questo è giunto al suo valore massimo. La logica
di controllo dello “stretcher” è realizzata mediante due segnali di tipo NIM50: uno di
“start”, che permette di accettare i segnali di “input”, ed un segnale di “gate” (GATEStr),
attivato dall’elettronica di “trigger” (cfr. §4.2.3), attraverso cui è possibile regolare la
durata dell’impulso in uscita51. Gli impulsi posti all’ingresso dello “stretcher” devono
avere polarità negativa, frequenza non superiore a 63.3 kHz ed altezza compresa tra 8 mV
ed 8 V, mentre i segnali in uscita hanno una durata minima di 500 nsec (tempo di
“stretching” ). In fase sperimentale è stato impostato un GATEStr con ritardo di 2 µsec
rispetto al segnale originario e larghezza di 20 µsec.
47 I segnali di “Leading Edge” e di “Zero Crossing” sono ottenuti derivando, dall’uscita del PA, un segnale veloce messo in forma da una sezione dello S.A. con “shaping time” pari a 400 nsec. 48 Lo Z.C. così determinato dipende sia dalla forma che dal tempo di salita (“rise time”) dell’impulso trattato, ma risulta indipendente dalla sua altezza e, per questo motivo, è utile a realizzare la cosiddetta analisi in forma dei segnali. 49 ECR: “Emitted-Coupled Logic”. 50 NIM: “ Nuclear Instrument Module”. 51 È previsto inoltre un “reset” con la funzione di riportare il segnale a zero.
- 57 -
4.2.3 SISTEMA DI ACQUISIZIONE DATI E
“TRIGGER” DELL’ESPERIMENTO
La conversione e la registrazione dei segnali analogici, trattati dall’elettronica lineare
dell’esperimento, è realizzata tramite un sistema di acquisizione dati costituito da un
FASTBUS-QDC Le Croy a 96 canali in grado di gestire sia il notevole volume dei dati
che il loro elevato “rate”. Il “crate” FASTBUS è suddiviso in 26 stazioni (“slots”) ed
ospita, su 20 di queste, dei moduli ADC 1885F Le Croy (“Analog to Digital Converter”,
ADC), uno per ogni slot, aventi 96 ingressi che consentono la lettura, da parte del sistema
di “front-end”, di (96×20)≈2000 canali contemporaneamente. I moduli ADC impiegati sono di tipo “charge sensitive” in quanto corrispondenti a dei
QDC (Charge to Digital Converter), dispositivi che traducono il segnale in tensione in
ingresso V(t) in un segnale in corrente I(t), applicandolo ai capi di una resistenza R da 220
Ω. La corrente I(t) è quindi integrata su un intervallo di tempo ∆t, pari alla larghezza del
segnale logico di “gate” del QDC (GATEQDC), restituendo come risultato l’informazione
relativa alla carica totale Q trasportata dal segnale di “input”. Analiticamente, la risposta
del QDC può, quindi, esprimersi come:
dttIdtR
tVQ
t t∫ ∫∆ ∆== )(
)(. (4.1)
Il GATEQDC è ottenuto a partire dal segnale logico di “trigger” (Figura 4.7) e regolato
attraverso un “gate generator” che consente di fissarne il ritardo e la durata rispetto al
primo. In particolare, sono stati adoperati GATEQDC con un ritardo di 10 µsec (pari,
dunque, a metà della larghezza del GATEStr, cfr. §4.2.2) e durata pari a 100, 200 e 300
nsec per i segnali generati, rispettivamente, dai rivelatori al Silicio da 50 e 300 µm e dai
cristalli di CsI(Tl). Inoltre, ogni QDC è dotato di un “multiple event buffer”, in grado di
registrare fino ad 8 eventi52.
Uno dei principali vantaggi derivanti dall’utilizzo di un FASTBUS-QDC è rappresentato
dalla possibilità di estendere l’intervallo dinamico relativo al singolo modulo ADC
mediante la cosiddetta tecnica del doppio “gain” (“dual range technique”) secondo la
quale si adoperano due scale di conversione, a seconda dell’altezza dell’impulso in 52 La lettura del “buffer” è compiuta ad una velocità di 10 Megawords/sec e simultaneamente alla conversione di eventi successivi riducendo, in tal modo, il tempo morto dell’acquisizione.
- 58 -
ingresso, come mostrato in Figura 4.9. Ogni QDC dispone di 4096 canali di conversione
digitale in modo che al massimo valore di tensione V0 del segnale in ingresso è associato il
canale 4096 e possiede, inoltre, una soglia posta ad (1/8)V0 che, in termini della carica
trasportata, corrisponde a 175 pC. Si distinguono due casi, a seconda che l’altezza del
segnale d’ingresso sia minore o maggiore di (1/8)V0.
Nel primo caso la conversione in digitale è effettuata su 4096 canali, secondo la
retta riferita al “Low Range” (Figura 4.9), con una risoluzione di 50 fC/conteggio; nel
secondo caso la stessa operazione è ancora compiuta su 4096 canali, ma attraverso la retta
di conversione di “High Range”, con una risoluzione di 400 fC/conteggio, per un segnale
che trasporta una carica compresa tra 175 e 1450 pC. In definitiva, quindi, con la tecnica
del doppio “gain”, il “range” dinamico si estende da 4096 a circa (4096×8)≈32000 canali,
con conseguente effetto di “ingrandimento” della regione di basse energie dello spettro che
altrimenti non sarebbe risolta53.
Tutti i 96 ingressi di ciascun modulo QDC sono attivati da un unico segnale di
“gate” (GATEQDC), con lo stesso ritardo (“delay”) e la stessa durata (“width”). 53 Il segnale è, quindi, digitalizzato in una “word” di 12 “bit” alla quale se ne aggiunge un tredicesimo, detto “range bit”, che indica l’appartenenza al “Low Range” o all’”High Range”, a seconda che sia posto a 0 oppure ad 1.
Figura 4.9: Grafico dimostrativo della duplice conversione operata dal QDC secondo la tecnica del doppio “gain”. La figura mostra anche la retta di conversione finale, congiungente i punti in rosso, definita per ogni valore dell’altezza del segnale d’ingresso ed ottenuta in seguito all’operazione di calibrazione dei guadagni (“Gain Calibration”).
- 59 -
L’integrazione degli impulsi analogici di “input” è così eseguita su un intervallo di tempo
∆t uguale per tutti i canali e, affinché l’operazione risulti corretta, i 96 segnali dovrebbero
giungere simultaneamente al QDC per essere successivamente integrati. Secondo il tipo
evento rivelato, i segnali in arrivo presentano caratteristiche diverse, sia in termini di
tempo di salita che di ritardo, quindi un GATEQDC di durata eccessiva produrrebbe
l’integrazione del fondo, peggiorando la risoluzione in energia dell’acquisizione, mentre un
GATEQDC di durata troppo breve comporterebbe l’integrazione di una porzione del segnale
non rappresentativa dell’evento considerato, falsando il risultato dell’acquisizione. Si
spiega così l’importanza dell’impiego degli “stretchers” (cfr. §4.2.2) che, prolungando il
valore massimo dei segnali per l’intera durata del GATEQDC, garantiscono la corretta
integrazione su tutti i 96 canali del QDC. Le caratteristiche tecniche del FASTBUS-QDC
sono indicate in Tabella 4.4.
MODELLO 1882F
NUMERO DI CANALI 96 mutliplexati
SHORT GATES Da 50 ns a 2 µs
FAST CLEAR ≤ 0.6 µs
CALIBRAZIONE SU SCHEDA ± 1.5%
TEMPO DI CONVERSIONE PER 96 CANALI 2.65 µs
ALTA SENSIBILITÀ 50 pC/conteggi
AMPIO RANGE DINAMICO 15 bit
BUFFER PER EVENTI MULTIPLI 8 eventi
FULL SCALE 1500 pC
Tabella 4.4: Caratteristiche tecniche del FASTBUS-QDC.
La lettura dei segnali digitalizzati è realizzata attraverso il “backplane” del FASTBUS,
un’estensione di quello del computer, costituito da un “digital data bus” a 32 bit,
denominato “Segment”, che provvede sia al controllo che all’indirizzo del flusso dei dati.
Le connessioni fra diversi “Segment” sono ottenute attraverso un’interfaccia detta
“Segment Interface” (SI) ed ogni SI comunica con le altre mediante un “bus”, detto “Cable
Segment”54.
54 Ogni SI ha la proprietà di comportarsi simultaneamente da “Master” rispetto al “Segment” e da “Slave” rispetto al “Cable Segment”.
- 60 -
La gestione del FASTBUS-QDC è affidata al modulo “Struck Fastbus Interface” (SFI) che
funge contemporaneamente da “Fastbus Master” e da “Read-out Controller” basandosi su
un “bus” di tipo VME55. Sul modulo SFI è montato un processore Eurocom-7 (E7)56 su
cui è installato il sistema operativo “real time” LynxOS. In Figura 4.10 è mostrato uno
schema del sistema di acquisizione dati nel suo complesso.
I dati digitalizzati sono, infine, raccolti ed opportunamente formattati da E7 attraverso il
programma di acquisizione “Multi-Branch-System” (MBS), sviluppato presso il
laboratorio GSI (Darmstadt, Germania), che consente di registrare i dati su nastri, per
l’analisi “off-line”, e di inviarli attraverso una rete Ethernet, con protocollo di
comunicazione TCP/IP57, per l’analisi “on-line”.
La costruzione del cosiddetto “trigger” dell’esperimento costituisce una fase
fondamentale per la corretta acquisizione dei dati. Il segnale di “trigger” fissa, difatti, un
riferimento temporale per l’acquisizione, lo zero del tempo, che indica l’esatto istante in
cui tutte le condizioni logiche necessarie alla lettura di un certo evento risultano
55 VME: “Versa Module Europa”. 56 Il processore Eurocom-7 (E7) è una CPU caratterizzata da un “bus-clock” da 25 MHz, un “internal clock” da 50 MHz ed una RAM “multi-ported” da 16 MB. 57 Transmission Control Protocol/Internet Protocol.
Figura 4.10: Schema a blocchi del sistema di acquisizione dati dell’esperimento.
Input
Output
QDC LeCroy
TCPIP clients: Analisi “on-line”
Nastri e “Hardisks”
“Gate Stretchers”Conversion in progress: please wait
Tempo morto
Trigger Box TB8000Input
Output
QDC LeCroy
TCPIP clients: Analisi “on-line”
Nastri e “Hardisks”
“Gate Stretchers”Conversion in progress: please wait
Tempo morto
Trigger Box TB8000
- 61 -
soddisfatte; in tal modo, tutti i “gate” e “start” dell’acquisizione sono derivati dal “trigger”.
Ad ogni rivelatore componente gli odoscopi è associato un segnale logico pari a 0 oppure
ad 1 a seconda che su esso incida o meno una particella. L’insieme di segnali così ottenuti
è sottoposto ad una serie di operazioni logiche ben precise dalle quali si ottiene un numero
più ristretto di segnali adoperati per la determinazione del “trigger” e gestiti da un modulo
detto “Trigger Box” (TB), visibile in Figura 4.10. Attraverso il TB i segnali logici, adoperati come “trigger”, possono essere sommati (OR),
scalati in frequenza (“scaling”)58, e selezionati in base al blocco dovuto al tempo morto
dell’acquisizione. Oltre a queste operazioni preliminari, il TB fornisce una “word” di 16
bit, denominata “Trigger Pattern” (TPAT), tale che ad ogni bit è associato un certo tipo di
evento e, a seconda che questo si presenti o meno, il bit corrispondente sarà posto,
rispettivamente, ad 1 o a 0. In questo modo, durante l’analisi off-line, è possibile
identificare ed eventualmente selezionare gli eventi in base alle diverse condizioni di
“trigger” con cui sono stati acquisiti. Inoltre, il TB genera un segnale, detto “Master
Trigger”, ottenuto dalla somma (OR) di tutti i segnali logici, in uscita dal TB, presenti in
un dato istante. L’uscita del TB è poi collegata all’ingresso di “trigger” del FASTBUS
mediante un “gate generator” dove i segnali sono opportunamente aggiustati in ampiezza
e/o ritardo.
Dal momento che l’obiettivo principale dell’esperimento in esame riguarda lo
studio della sezione d’urto di frammentazione e della distribuzione angolare dei prodotti di
reazione dovuti a frammentazione, non interessano tanto i singoli eventi, quanto gli eventi
in coincidenza, tali che, cioè, almeno due particelle siano rivelate simultaneamente nei due
odoscopi. Per ottenere l’informazione sulla molteplicità (M) sono state utilizzate le uscite
logiche di “Zero Crossing” degli amplificatori lineari, relative ai segnali generati dai
singoli rivelatori al Silicio da 300 µm59, sia dell’Hodo Big che dell’Hodo Small. Questi
segnali logici sono inviati, a gruppi di 32, all’ingresso dei moduli AND-OR-ECL che,
come detto precedentemente, restituiscono un segnale di altezza pari a (150×M) mV per
eventi di molteplicità M. Attraverso dei “Linear Fan-In/Fan-Out” (Σ) viene estratta la
somma analogica che, successivamente, è posta all’ingresso di un discriminatore “leading
edge”, con soglia fissata a 250 mV corrispondente a M≥2 (Figura 4.11).
58 Il processo di “scaling” avviene accettando in ingresso soltanto un segnale ogni N in arrivo. 59 La scelta del Silicio da 300 µm anziché quello da 50 µm consente d’ignorare eventuali segnali dovuti ad elettroni incidenti sullo spessore più piccolo e più direttamente esposto al fascio.
- 62 -
A partire da questo segnale viene poi costruito, dal TB, il cosiddetto “Master Trigger” che
funge da segnale di “Interrupt Request” (IRQ) per la CPU (E7) del sistema di acquisizione
e da “common gate” per i QDC e per gli “stretchers”. Infine, per verificare la consistenza
del “trigger”, il segnale analogico di molteplicità è stato digitalizzato attraverso uno dei
canali del QDC.
∆E (300 µm)
∆E2 (300 µm)
Σ
Σ
Σ
Discriminatore“Leading Edge”
(M≥2)
TriggerBox
(Master Trigger)
Hodo Small
Hodo Big
∆E (300 µm)
∆E2 (300 µm)
ΣΣ
ΣΣ
Σ
Discriminatore“Leading Edge”
(M≥2)
TriggerBox
(Master Trigger)
Hodo Small
Hodo Big
Figura 4.11: Diagramma a blocchi della costruzione del “trigger” associato ad eventi con molteplicità M≥2.
- 63 -
5. ANALISI DEI DATI SPERIMENTALI
5.1 CALIBRAZIONE DEGLI ODOSCOPI
5.1.1 INTRODUZIONE
La procedura di taratura in energia (E), carica (Z) e massa (A) dei telescopi che
compongono gli odoscopi, descritti nel capitolo precedente, costituisce il primo passo,
certamente delicato e fondamentale, dell’analisi sperimentale. Essa si basa sulla tecnica
d’identificazione ∆E-E e si articola in diverse elaborate procedure.
Com’è noto, la risposta di un rivelatore al Silicio è indipendente dalla carica e dalla massa
dello ione incidente e varia in maniera lineare con l’energia depositata in esso (cfr. §4.2.1).
Diversamente, la relazione che lega la luce di scintillazione prodotta da particelle
ionizzanti in un cristallo di CsI(Tl) all’energia non è lineare e dipende dalla Z ed A delle
particelle medesime. La risposta del cristallo dipende fortemente dallo “stopping power”
della radiazione che incide e quindi è funzione, non solo della sua energia, ma anche del
numero atomico Z (cfr. §2.3.2). In particolare, l’andamento della luce di scintillazione in
funzione dell’energia incidente è quasi lineare, in un intervallo di energie piuttosto ampio,
solo nel caso di particelle leggere, come protoni e deutoni. Per le particelle alfa e per ioni
più pesanti la risposta di luce del cristallo aumenta con l’energia depositata, ma con
pendenza decrescente [Gwi63].
Per questo motivo la procedura di calibrazione in energia dell’odoscopio prevede la
determinazione, per ciascun telescopio, della funzione L=L(E,Z,A) che esprime la
dipendenza luce-energia per ogni coppia (Z, A), cioè per ogni isotopo, incidente sul
cristallo.
Un modo efficace per rappresentare i dati sperimentali consiste nell’utilizzare grafici
bidimensionali chiamati matrici: in un sistema di assi cartesiano ortogonale vengono
graficate le perdite di energia ∆E1-∆E2 o ∆E2-CsI misurate in ciascun rivelatore come
- 64 -
mostrato in Figura 5.1. Ovviamente se il rivelatore non è stato ancora calibrato le perdite
di energia saranno espresse in canali.
Osservando una generica matrice ∆E1-∆E2 di un telescopio dell’Hodo Big è
possibile notare la caratteristica forma a “>” delle diverse bande. Questo effetto prende il
nome di “punch through” ed è legato alla nozione di “range” di una particella in un mezzo.
La parte superiore della banda rappresenta la perdita di energia di quelle particelle che,
attraversato il primo Silicio, si fermano nel secondo. Per queste, maggiore è l’energia persa
nel secondo spessore e meno ne hanno dissipata nel primo. La parte inferiore della banda,
invece, rappresenta quelle particelle che attraversano i due spessori di Silicio fermandosi
nel cristallo di Ioduro di Cesio. Esse, dunque, avendo un’energia iniziale maggiore rispetto
alle prime, per la formula di “Bethe e Bloch” (cfr. §2.3.2), presentano una perdita di
energia specifica minore riuscendo a percorrere una distanza maggiore.
Figura 5.1: Sulla sinistra sono riportate delle generiche matrici ∆E1-∆E2 e ∆E2-CsI, mentre sulla sinistra i corrispondenti istogrammi bidimensionali che evidenziano le regioni in canali più popolate da statistica.
- 65 -
Infine, grazie al doppio “range” di conversione adoperato dal QDC, le matrici presentano,
in generale, una buona risoluzione in carica per tutti i frammenti prodotti nelle reazioni,
mentre la risoluzione in massa risulta soddisfacente fino a Z=4.
La procedura di taratura è stata eseguita mediante dei programmi che utilizzano il
linguaggio “Fortran77”, mentre i dati sperimentali sono stati analizzati tramite il
programma “PAW” (“Physics Analisys Workstation”, versione 2.14/04). Quest’ultimo è
particolarmente adatto alla trattazione dei dati in quanto permette di avvalersi di
un’interfaccia grafica (HIGZ), agevole da manipolare, e di realizzare programmi, chiamati
MACRO, che consentono di gestire in modo semplice le diverse “routines” della “Cern-
Library”.
5.1.2 CALIBRAZIONE IN ENERGIA DEL
RIVELATORE ∆E1
In questa fase della calibrazione dei telescopi si determina la relazione che lega l’energia
rilasciata dallo ione incidente ed il segnale in canali fornito dal rivelatore al Silicio da circa
60 micron (∆Ε1) e convertito in canali dall’ADC. Nel caso dei rivelatori al Silicio la
risposta è di tipo lineare pertanto la funzione cercata coincide con l’equazione di una retta
del tipo
1111 EChba ∆+=∆Ε (5.1)
dove ∆E1 è l’energia, espressa in MeV, depositata nel Si-∆E1, 1ECh∆ è il corrispondente
valore in canali fornito dal rivelatore ed a1 e b1 sono i coefficienti da determinare per ogni
Si-∆E1.
Il comportamento lineare della funzione di risposta deve essere mantenuto lungo tutta la
catena elettronica fino alla digitalizzazione dei segnali, pertanto, al fine di verificare che
ciò avvenga, si adopera un impulsatore. Questo, collegato all’ingresso “Test” dei
preamplificatori di carica, fornisce impulsi di altezza V che tramite una capacità C
chiamata “charge terminator” simula la presenza di una carica Q=CV. Variando l’altezza
dei segnali prodotti dal “Pulse Generator” è possibile appurare la linearità di tutta la catena
elettronica.
Per poter determinare completamente la retta di taratura è necessario disporre di
almeno due punti di riferimento, del tipo (canale-energia), ad energie note. Per alte energie
- 66 -
sono stati scelti i punti di “punch through” di alcuni isotopi, ovvero quelle particelle che,
attraversato il Si-∆E1, si fermano appena superato il Si-∆E2. Il valore di energia da
associare a tali punti può essere calcolato, noti gli spessori di Si-∆E1 e Si-∆E2 ed il tipo di
isotopo, tramite un programma di calcolo di perdita di energia.
Per la regione a bassi valori di energia, sono stati scelti quei punti nelle matrici ∆E1-∆E2
aventi ∆E2=0, corrispondenti quindi alle particelle che hanno perso tutta la loro energia nel
Si-∆Ε1, arrestandosi subito dopo averne attraversato lo spessore.
Avvalendosi così di questi valori in canali ad energie note, sono stati determinati, tramite
“Best-fit” e per ciascun Silicio da 50 µm dell’odoscopio, i coefficienti a1 e b1 che
compaiono nell’equazione della retta (5.1) con una stima di errore intorno al 2%.
Un iter analogo viene seguito per la calibrazione del primo rivelatore di ogni telescopio
dell’Hodo Small. È da notare che nei telescopi dell’Hodo Small non si osserva “punch
through”, poiché i frammenti perdono tutta la loro energia nello scintillatore pertanto nella
procedura di calibrazione sono state scelte come riferimento ad energie note quelle
particelle che dissipano tutta la loro energia nel rivelatore al Silicio.
5.1.3 IDENTIFICAZIONE IN CARICA E MASSA DEI
FRAMMENTI
Il passo successivo nella calibrazione dell’odoscopio consiste nell’identificare le particelle
acquisite da ciascun rivelatore, ossia assegnare ad ognuna di esse il numero di carica Z e di
massa A. In particolare ogni isotopo è identificato univocamente da un numero intero
positivo chiamato PID, vale a dire “Particle IDentificator”, in modo che alle particelle
identificate come protoni corrisponda il valore di PID uguale a 1, ai deutoni il valore 2 e
così via.
La stessa procedura è stata applicata ai rivelatori dell’Hodo Big ed a quelli
dell’Hodo Small.
Al fine di rendere più agevole il processo di identificazione, si effettua una
“linearizzazione” grafica delle bande osservate nelle matrici ∆E-E (cioè ∆E1-∆E2 e ∆E2-
CsI nel caso di Hodo Big e solo ∆E-CsI nel caso di Hodo Small) tramite la funzione:
- 67 -
( ) Ε⋅−Ε⋅+∆Ε= log65.0log10.0log 2fpid , (5.2)
dove ∆E ed E sono espresse in canali. Se si grafica “fpid” in funzione di “logE” si può
notare come venga eliminata gran parte della curvatura delle bande che risultano adesso
più “raddrizzate” rispetto alla matrice originale. In questo modo, inoltre, ad un generico
punto sperimentale di coordinate (E, ∆E) corrisponde nella nuova matrice il punto di
coordinate (logE, fpid) .
Lavorando dunque sulla matrice “fpid-logE” è possibile “fittare” graficamente i punti di
ogni banda tracciando su ciascuna di essa una spezzata (che, nella migliore delle ipotesi,
coinciderà con una retta) con un numero fissato di vertici (cinque in questo caso).
È stato realizzato un programma che permette di definire una variabile z reale e
positiva di modo che ai punti di una data spezzata associ uno stesso valore di z e che a
spezzate distinte corrispondano valori di z sufficientemente distanti tra loro, così da evitare,
in seguito, una possibile sovrapposizione dei punti sperimentali. Il “software” associa ad
ogni punto sperimentale il valore di z della spezzata più vicina aggiungendo o sottraendo la
sua distanza dalla spezzata medesima a seconda che il punto si trovi, rispettivamente, al di
sopra o al di sotto della medesima.
Se a questo punto si effettua un grafico di z in funzione di ∆E+E si osserveranno, se il “fit”
dei punti sperimentali è stato ben eseguito, tante bande orizzontali pari al numero di
isotopi, centrate nei valori di z individuati dalle spezzate.
Mediante l’utilizzo di un altro programma è possibile proiettare i punti sperimentali
sull’asse z ottenendo delle distribuzioni, una per ogni isotopo, di tipo “gaussiano” centrate
nei valori di z corrispondenti alle spezzate. Il programma consente di selezionare
graficamente i limiti, inferiore e superiore, entro i quali si estenderebbe ogni “gaussiana”
ed associa al valore centrale di ogni distribuzione un numero intero positivo, che definisce
il PIDN (Figura 5.2). Infine, ad ogni punto sperimentale il programma associa un valore di
PIDN a seconda che esso cada all’interno dell’intervallo di una certa “gaussiana” definito
dai limiti precedentemente fissati o meno. La scelta di tali intervalli permette quindi di
escludere dal processo d’identificazione quei punti, provocati ad esempio dal rumore di
fondo, non associabili ad alcun isotopo e che sono riconoscibili da un esame visivo della
matrice ∆E-E.
- 68 -
5.1.4 CALIBRAZIONE IN ENERGIA DEL
RIVELATORE ∆E2
Questa tecnica di taratura si applica esclusivamente ai rivelatori al Silicio da 300 µm
dell’Hodo Big ed è denominata indiretta in quanto si avvale della calibrazione del
rivelatore da 50 µm e dell’identificazione in Z ed A delle particelle rivelate. Noti, infatti, la
perdita di energia ∆E1 ed il tipo di isotopo incidente (quindi il valore di PIDN), mediante
un programma di calcolo di perdita di energia, è possibile determinare l’energia Einc con
cui una particella è arrivata sul telescopio. Da questa si ricava l’energia residua Eres con la
quale la particella incide sul secondo Silicio data da: Eres = Einc-∆E1. (5.3)
Per tutti i punti sperimentali della matrice ∆E1(MeV)-∆E2(canali) che si trovano prima del
punto di “punch through”, vale a dire, quelle particelle che, attraversato il Silicio da 50
z
Con
tegg
i
z
Con
tegg
i
Figura 5.2: Distribuzioni “gaussiane” dei punti sperimentali in funzione della variabile z. Ogni “gaussiana” è centrata nel valore di z corrispondente ad una certa spezzata e, quindi, ad un determinato isotopo.
- 69 -
micron, perdono tutta la restante energia nel 300 µm, ∆E2 coincide proprio con Eres. In tal
modo è pertanto possibile ricostruire la correlazione canali-energia per ∆E2. È stato già
osservato come tale relazione sia lineare e non dipenda dal tipo di ione che attraversa il
Silicio, ciò implica che la retta di calibrazione sia la stessa per tutti gli isotopi.
Eseguendo dunque un “Best fit” lineare si ottiene l’equazione della retta di calibrazione del
rivelatore ∆E2:
2222 EChba ∆+=∆Ε , (5.4)
dove gli errori sui coefficienti a2 e b2 sono stati stimati intorno al 3%.
È importante notare come, essendo questa una tecnica di taratura di tipo indiretto,
una buona calibrazione del ∆E2 fornisca un’immediata verifica anche della buona
calibrazione del rivelatore ∆E1, alla quale la prima è strettamente legata.
5.1.5 CALIBRAZIONE IN ENERGIA DEL
RIVELATORE C SI(Tl)
L’ultima fase della procedura di taratura di un generico telescopio dell’odoscopio consiste
nella calibrazione del rivelatore CsI(Tl), ossia nella determinazione della funzione
L(E,Z,A) di risposta in luce del cristallo per i diversi ioni incidenti.
Anche questa tecnica di calibrazione è di tipo indiretto in quanto sfrutta i risultati in
energia precedentemente ottenuti su ∆E1 e ∆E2 nonché l’identificazione delle particelle
incidenti sui rivelatori.
Impiegando ancora una volta un programma di calcolo di perdita di energia, noti gli
spessori di Silicio attraversati ed i corrispondenti valori in MeV di ∆E1 e ∆E2, si risale
all’energia con cui un certo ione è giunto su un dato telescopio. L’energia residua della
particella incidente sul cristallo allora si esprime come:
Eres = Einc-∆E1-∆E2. (5.5)
- 70 -
Dal momento che la particella dissipa tutta l’energia residua nello scintillatore, è possibile
correlare il segnale in luce, prodotto dal CsI(Tl), con l’energia depositata dallo ione in
esso. Tale relazione funzionale, come già notato, non è lineare e varia al variare della
carica e massa delle particelle rivelate; occorre pertanto eseguire un “fit” per ogni tipo di
ione. La curva che permette di determinare i “fit” prende il nome di “Burkard”. La sua
equazione è data da:
CsI
CsICsI Chd
cChba
++⋅+=Ε , (5.6)
nella quale ECsI rappresenta l’energia in MeV depositata nel CsI(Tl), ChCsI il corrispondente
valore in canali della luce emessa dal cristallo ed a, b, c e d sono dei coefficienti
determinati, per ciascun scintillatore, al variare di Z ed A dei frammenti rivelati.
È necessario osservare che, in generale, il risultato del “fit” dipende dalla massa
dello ione incidente solo per particelle leggere; all’aumentare di Z la dipendenza dalla
massa si riduce. In questo, trova giustificazione la scelta di determinare una sola curva di
“fit” rispettivamente per gli isotopi del Boro e del Carbonio.
Eseguita l’intera procedura di taratura su ciascun telescopio si è in grado di
conoscere, oltre che carica e massa di ogni frammento rivelato, l’energia cinetica incidente,
data da:
Etot= ∆E1+∆E2+ECsI. (5.7)
L’errore complessivo sulla calibrazione di Etot è stato stimato intorno al 6%.
In Figura 5.3 è mostrato un esempio di matrice a termine dell’intera procedura di
calibrazione in energia ed identificazione dei frammenti.
- 71 -
5.2 STIMA DELLA SEZIONE D’URTO
L’intervallo di energie intermedie, come visto nel Capitolo 3, costituisce una sorta di
“regione di transizione” tra le basse e le alte energie. Infatti, nell’intervallo 20÷200 MeV
sono ancora presenti fenomeni, come le reazioni dirette di “transfer”, tipici delle energie al
di sotto dell’energia di Fermi. All’aumentare dell’energia incidente la sezione d’urto di
questi processi diminuisce, ma la loro presenza provoca comunque delle deviazioni al
processo di “abrasione”. Si osserva, infatti, che i prodotti di reazione rivelati mostrano
ECsI [MeV]
∆Ε
2 [M
eV]
ECsI [MeV]
∆Ε
2 [M
eV]
Figura 5.3: Matrice ∆Ε-Ε, relativa ad un generico telescopio dell’Hodo Big, al termine della procedura di calibrazione in energia ed identificazione dei frammenti. Si noti che compaiono esclusivamente i punti sperimentali associati agli isotopi identificati.
- 72 -
H2H3H
3He4He6He
6Li7Li
7Be9Be
β β
β β
H2H3H
3He4He6He
6Li7Li
7Be9Be
β β
β β
Figura 5.4: Spettri in velocità degli isotopi di H, He, Li e Be, rivelati da un telescopio posto a °= 2.8ϑ .
velocità medie inferiori rispetto a quella del fascio incidente e che gli spettri in energia
presentano delle “code” a bassa energia. Questi effetti sono visibili anche nelle misure qui
presentate.
In Figura 5.4 e 5.5 sono riportati gli spettri in velocità di alcuni frammenti rivelati
da un telescopio posto a °= 2.8ϑ rispetto alla direzione d’incidenza del fascio.
- 73 -
10B 11B
β β
10B 11B
β β
Figura 5.5: Spettri in velocità dei frammenti di 10B e 11B rivelati da un telescopio posto a °= 2.8ϑ .
La velocità è espressa in termini di c
v=β , dove smc 299792458= è la velocità della
luce, mentre v quella del frammento in esame. Gli ioni 12C emergono dal bersaglio di Oro
avendo perso, nell’interazione elettromagnetica con gli elettroni della targhetta, circa 41
MeV. Ciò significa che avranno un’energia residua pari a circa 703 MeV (si ricordi che
l’energia del fascio incidente era 744 MeV), corrispondente al valore β~ ≈ 0.355. Dagli
spettri è possibile vedere che, mentre i frammenti più leggeri del 10B presentano valori di
β medio inferiori a β~ , mentre per gli altri è β ≈ β~ . Da questo si deduce che i processi
dissipativi più probabili sono quelli che portano alla formazione dei prodotti più leggeri.
Osservando gli spettri determinati durante l’analisi, è facile notare che presentano tutti una
piccola “coda” nella regione di basse energie non riproducibile da una pura distribuzione
Gaussiana. Questa coda rappresenta quelle particelle che si sono formate in seguito a
frammentazione, ma che, nel processo stesso, hanno già perso parte della loro energia,
deformando perciò l’andamento della Gaussiana a bassa energia. Queste, pertanto, non
possono essere trascurate nella procedura di “fit” e dunque nel calcolo degli integrali degli
spettri. Perciò per ogni isotopo sono state considerate due curve Gaussiane: una più grande
centrata al picco di energia di frammentazione del 12C ed una più piccola, centrata ad
energie più basse. Il “fit” è stato così eseguito considerando la somma delle due curve. In
realtà, poiché i frammenti non perdono sempre la stessa quantità di energia, due sole
Gaussiane non basterebbero a spiegare la distribuzione sperimentale degli spettri, ma
- 74 -
sarebbe più corretto l’utilizzo di una convoluzione di Gaussiane centrate ad energie
diverse. Tuttavia, al fine di questa analisi, l’utilizzo di una convoluzione di curve risulta
superfluo, dal momento che, a causa degli errori, non vi è differenza tra i valori degli
integrali calcolati nei due casi.
Un diverso approccio è stato utilizzato per i frammenti aventi Z=1 (protoni, deutoni
e trizio). In questo caso, infatti, la parte a bassa energia della Gaussiana degli spettri si
sovrappone alla distribuzione generata da altri processi, differenti dalla frammentazione tra
cui ad esempio il rumore elettronico. Per tali isotopi è stato allora eseguito un “fit” con una
sola Gaussiana perché già sufficiente per i nostri scopi.
L’integrazione dei “fit” degli spettri di energia fornisce i conteggi, cioè il numero di
particelle rivelate dai telescopi. Per ottenere l’andamento in funzione dell’angolo della
sezione d’urto differenziale di frammentazione è necessario sommare i conteggi di tutti i
telescopi posizionati allo stesso angolo ϑ rispetto all’asse del fascio e dividere questa
somma per il corrispondente angolo solido, tenendo conto dell’efficienza del rivelatore.
In Tabella 5.1 sono riportati, per tutti i frammenti rivelati, i conteggi per angolo solido,
misurati in sr-1, per sei differenti angoli.
ϑ (gradi) 3.34 3.71 8.62 11.38 15.17 18.97
1H 316256 185984 270440 277600 205000 161080
2H 201664 100864 90780 139280 99680 53360
3H 80640 47360 53080 32400 42880 20120
3He 575232 146560 602720 58032 211440 134560
4He 4150400 1204480 3676800 295040 1010400 587280
6He 47040 13440 34568 1880 6080 5680
6Li 284608 137216 157820 78424 27672 16704
7Li 468032 196544 169180 91240 36092 18264
7Be 238112 118656 80320 38368 1093,2 8320
9Be 171904 68224 40700 13556 3640 2920
10B 294112 62080 40086 21572 3120 1320
11B 386976 160704 53266 3184 2160 1000
11C 60160 20480 17456 1822,8 240 240
12C 43433600 10329600 554940 20480 1360 520
13C 8320 3840 2040 800 200 360
Tabella 5.1: Numero di conteggi per angolo solido per sei differenti angoli, al variare dell’isotopo rivelato.
- 75 -
In Figura 5.6 è mostrato un grafico, in scala semi-logaritmica, ottenuto sommando
i conteggi per angolo solido, riportati in Tabella 5.1, relativi ad un dato angolo, per
particelle aventi lo stesso valore di Z, e normalizzando le somme così ottenute al valore
della somma corrispondente all’angolo più piccolo, per quel fissato gruppo di isotopi. Gli
errori sono stati stimati mediante le leggi di propagazione degli errori, avendo valutato
l’errore sui conteggi pari alla loro radice quadrata, supponendo valida la distribuzione
statistica di Poisson. L’errore sull’angolo, dato dalla semiapertura angolare del cono avente
come vertice il bersaglio e base la superficie esposta del telescopio considerato, è stato
calcolato pari a °=∆ 36.0ϑ per i telescopi appartenenti all’Hodo Small e °=∆ 43.1ϑ per
quelli dell’Hodo Big.
Sui punti sperimentali riportati in Figura 5.6 è stato quindi eseguito un “fit” lineare
utilizzando la tecnica del “Best-fit”. Nel grafico sono anche mostrati i valori dei
coefficienti di correlazione lineare r e si può notare come, per particelle più pesanti
dell’Elio, la correlazione sia molto buona con valori di 92.0≥r , mentre le particelle
d’Idrogeno ed Elio presentano una correlazione peggiore. Questo probabilmente è dovuto
al metodo utilizzato nel calcolo degli integrali, in particolar modo nella determinazione del
“fit” Gaussiano, poiché, come osservato in precedenza, non è facile distinguere negli
spettri di energia le particelle prodotte dal processo puro di frammentazione da quelle
formatesi in seguito ad altre interazioni nucleari.
In ogni modo, è possibile affermare che la distribuzione angolare di produzione dei
frammenti decresce esponenzialmente con l’angolo di rivelazione. Questo andamento è in
accordo con quanto ci si attende a queste energie (cfr. §3.1) per il sistema studiato, secondo
cui i frammenti prodotti sono emessi principalmente in avanti, entro un ristretto cono
angolare, attorno alla direzione del fascio incidente.
- 76 -
Figura 5.6: “Fit” lineari delle somme dei conteggi, al variare di Z, normalizzate rispetto all’angolo più piccolo e valore del coefficiente di correlazione lineare nei vari casi. Le barre di errore sui conteggi non sono visualizzate perché trascurabili.
1,E-06
1,E-05
1,E-04
1,E-03
1,E-02
1,E-01
1,E+00
1,E+01
0,00 5,00 10,00 15,00 20,00 25,00
Angolo (gradi)
Con
tegg
i per
ang
olo
solid
o no
rmal
izza
ti
H -r = 0.76
He -r = 0.59
Li -r = 0.95
Be -r = 0.92
B -r = 0.98
C -r = 0.97
Nei dati qui analizzati, non è stato possibile calcolare in modo diretto la sezione
d’urto assoluta, poiché, a causa di impedimenti tecnici durante la fase sperimentale, non è
stato possibile misurare il numero totale di ioni Carbonio incidenti sul bersaglio.
Per questa ragione è possibile solo ricavare una stima della sezione d’urto assoluta seppur
molto qualitativa poiché, come si vedrà in seguito, affetta da un elevato errore percentuale,
intorno al 20%.
Il metodo di derivazione utilizzato a questo scopo, si basa sul confronto tra il
numero di ioni 12C per angolo solido provenienti da diffusione elastica, rivelati ad angoli
ϑ più piccoli dell’angolo di “grazing” (che, in tal caso, vale circa 4.9°60), e la sezione
60 L’angolo di “grazing” per una fissata reazione è calcolato tramite programmi di simulazione, noti i parametri cinematici ed il tipo di proiettile che intervengono nella reazione.
- 77 -
d’urto di Rutherford per angolo solido, calcolata allo stesso angolo. Da questo confronto si
può determinare un “fattore di Calibrazione” che permette di convertire i conteggi per
angolo solido (sr-1) in sezione d’urto per angolo solido (barn/sr) [Hod78]. In particolare,
per nuclei con alto Z, la distribuzione angolare delle particelle rivelate assume un
andamento molto simile a quello dato dalla formula di diffrazione di Fresnel. Così si avrà
una sezione d’urto praticamente uguale a quella di Rutherford ad angoli minori di quello di
“grazing” ed ad angoli maggiori la distribuzione crollerà esponenzialmente a zero61.
Le particelle che hanno subito “scattering” elastico sono immediatamente
riconoscibili da un esame visivo della matrice ∆Ε-Ε. Essendo il processo molto probabile a
piccoli angoli di rivelazione e poiché tali particelle risultano essere le più energetiche tra
tutti i prodotti di reazione, gli ioni 12C della diffusione elastica si troveranno tutti addensati
nella parte terminale (la regione di alta energia) della banda corrispondente a PID=14, vale
a dire Z=6 e A=12, nella matrice calibrata ∆Ε-Ε, formando una sorta di “spot” circolare.
Poiché tali nuclei hanno tutti la stessa energia, i corrispondenti spettri saranno delle
funzioni Delta di Dirac centrate nel valore 703 MeV.
In Figura 5.7 è riportato il rapporto tra il numero N di conteggi per angolo solido
degli ioni 12C e la sezione d’urto differenziale di Rutherford in funzione dell’angolo ϑ (i
valori di ϑ sono gli stessi riportati in Tabella 5.1) ed i rapporti sono stati normalizzati
rispetto all’angolo più piccolo.
61 Al crescere dell’energia incidente la decrescita della distribuzione angolare diventa meno rapida.
- 78 -
Figura 5.7: Rapporto tra il numero N di conteggi per angolo solido degli ioni 12C, che hanno subito scattering elastico, e la sezione d’urto differenziale di Rutherford in funzione dell’angolo ϑ . Tali rapporti sono stati normalizzati rispetto all’angolo più piccolo.
1,0E-03
1,0E-02
1,0E-01
1,0E+00
1,0E+01
0 2 4 6 8 10 12 14 16 18 20 22
Angolo nel CM (gradi)
Con
tegg
i/Sez
ione
d'u
rto
Rut
herf
ord
- N
orm
aliz
zati
Osservando il grafico, si nota che vi sono due soli punti i cui angoli (ϑ =3.34° e
ϑ =3.71°) sono inferiori a quello di “grazing”, pertanto è ragionevole considerare il loro
valor medio ϑ ed il valor medio Ν dei corrispondenti conteggi per angolo solido N1 e N2
di ioni 12C rivelati. Naturalmente questo implica una grande indeterminazione su Ν poiché
N1 e N2 non sono due misure della stessa grandezza, corrispondendo ad angoli distinti.
Pertanto Ν non rappresenta una stima del “valore vero” sulle misure, dal momento che,
quest’ultimo, risulta compreso tra 11 Ν+Ν δ e 22 Ν−Ν δ (dove 1Νδ e 1Νδ sono gli errori
su N1 e N2 ed avendo supposto N1>N2). L’errore su Ν è quindi dato da:
( )2
)( 2211 Ν−Ν−Ν+Ν=Ν δδδ (5.8)
Una volta convertito ϑ nel sistema di riferimento del centro di massa CMϑ , è
possibile calcolare il corrispondente valore della sezione d’urto differenziale di Rutherford,
secondo la formula:
- 79 -
24
4
2
10
2sin
1
4×
=
Ω CME
zZk
sr
barn
d
dϑ
σ, (5.9)
dove Z e z rappresentano rispettivamente la carica, in unità di e, di proiettile e bersaglio, E
l’energia cinetica delle particelle incidenti, mentre la costante k è data da
cmMeVe
k ⋅×== −13
0
2
10439976.14πε
Il fattore 2410 permette, infine, di convertire il valore di Ωd
dσ da cm2/sr a barn/sr (1
barn = 22410 cm− ).
L’errore sulla sezione d’urto di Rutherford è stato determinato propagando gli
errori sull’angolo e sull’energia, utilizzando le leggi di propagazione. Eseguiti i calcoli, è
risultato che a 26881600 conteggi per angolo solido, corrisponde una sezione d’urto
differenziale pari a 576 (barn/sr), valore già convertito nel sistema di riferimento del
laboratorio. Da questo è quindi possibile ricavare il fattore di calibrazione, che permette di
convertire i conteggi/sr in barn/sr. Le sezioni d’urto differenziali così determinate sono
riportate in Tabella 5.2 al variare dell’angolo, per ogni isotopo rivelato.
ϑ (gradi) 3.34 3.71 8.62 11.38 15.17 18.97
1H 6.777 3.985 5.795 5.949 4.393 3.452
2H 4.321 2.161 1.945 2.985 2.136 1.143
3H 1.728 1.015 1.137 0.694 0.919 0.431
3He 12.326 3.141 12.915 1.244 4.531 2.883
4He 88.937 25.810 78.788 6.322 21.651 12.585
6He 1.008 0.288 0.741 0.040 0.130 0.122
6Li 6.099 2.940 3.382 1.681 0.593 0.358
7Li 10.029 4.212 3.625 1.955 0.773 0.391
7Be 5.102 2.543 1.721 0.822 0.023 0.178
9Be 3.684 1.462 0.872 0.290 0.078 0.063
10B 6.302 1.330 0.859 0.462 0.067 0.028
11B 8.292 3.444 1.141 0.068 0.046 0.021
11C 1.289 0.439 0.374 0.039 0.005 0.005
12C 930.717 221.348 11.892 0.439 0.029 0.011
13C 0.178 0.082 0.044 0.017 0.004 0.008
Tabella 5.2: Stime della sezione d’urto differenziale (espresse in barn/sr) al variare di ϑ e per ogni tipo di isotopo rivelato.
- 80 -
Figura 5.8: Andamento della sezione d’urto differenziale di produzione di protoni al variare dell’angolo di rivelazione.
1,0E-01
1,0E+00
1,0E+01
1,0E+02
0 2 4 6 8 10 12 14 16 18 20 22
Angolo (gradi)
Sez
ione
d'u
rto
diffe
renz
iale
(ba
rn/s
r)
Protoni: r = 0.68
Nelle Figure 5.8-13 sono riportati i valori così ricavati di Ωd
dσ in funzione di ϑ ,
relativamente ad alcuni frammenti rivelati. I grafici sono presentati in scala semi-
logaritmica e, per ogni distribuzione, è stato eseguito un “fit” lineare, i corrispondenti
valori del coefficiente di correlazione lineare r sono anch’essi riportati nei grafici. Da essi
si evince come, nonostante l’elevata indeterminazione cui sono affette tali stime, la
correlazione lineare tra i punti sia abbastanza buona per i frammenti che hanno Z>2,
confermando quanto detto precedentemente. Inoltre, mentre all’aumentare dell’angolo
prevale la produzione di frammenti leggeri, al diminuire di questo predomina la
formazione di frammenti più pesanti.
- 81 -
Figura 5.9: Andamento della sezione d’urto differenziale di produzione di particelle alfa al variare dell’angolo di rivelazione.
1,0E+00
1,0E+01
1,0E+02
1,0E+03
0 2 4 6 8 10 12 14 16 18 20 22
Angolo (gradi)
Sez
ione
d'u
rto
diffe
renz
iale
(ba
rn/s
r)Alfa: r = 0.62
Figura 5.10: Andamento della sezione d’urto differenziale di produzione di 7Li al variare dell’angolo di rivelazione.
1,0E-01
1,0E+00
1,0E+01
1,0E+02
0 2 4 6 8 10 12 14 16 18 20 22
Angolo (gradi)
Sez
ione
d'u
rto
diffe
renz
iale
(ba
rn/s
r)
Li7: r = 0.97
- 82 -
Figura 5.11: Andamento della sezione d’urto differenziale di produzione di 7Be al variare dell’angolo di rivelazione.
1,0E-02
1,0E-01
1,0E+00
1,0E+01
0 2 4 6 8 10 12 14 16 18 20 22
Angolo (gradi)
Sez
ione
d'u
rto
diffe
renz
iale
(ba
rn/s
r)Be7: r = 0.92
Figura 5.12: Andamento della sezione d’urto differenziale di produzione di 10B al variare dell’angolo di rivelazione.
1,0E-02
1,0E-01
1,0E+00
1,0E+01
0 2 4 6 8 10 12 14 16 18 20 22
Angolo (gradi)
Sez
ione
d'u
rto
diffe
renz
iale
(ba
rn/s
r)
B10: r = 0.97
- 83 -
Figura 5.13: Andamento della sezione d’urto differenziale di produzione di 12C al variare dell’angolo di rivelazione.
1,0E-03
1,0E-02
1,0E-01
1,0E+00
1,0E+01
1,0E+02
1,0E+03
1,0E+04
0 2 4 6 8 10 12 14 16 18 20 22
Angolo (gradi)
Sez
ione
d'u
rto
diffe
renz
iale
(ba
rn/s
r)C12: r = 0.98
In maniera analoga al procedimento appena descritto è stata ricavata una stima della
sezione d’urto differenziale ed assoluta del Carbonio su Piombo a 32 AMeV, elaborata su
dati acquisisti in una campagna sperimentale precedente.
È stato possibile eseguire un confronto tra i due sistemi considerati alle diverse
energie, nonostante gli errori risultino piuttosto elevati, stimando in modo significativo
l’ordine di grandezza delle sezioni d’urto relative ai diversi elementi prodotti nelle due
reazioni. Tale confronto con i risultati ottenuti saranno presentati nel prossimo paragrafo.
Anche da un semplice esame visivo delle matrici ∆Ε-Ε è facile notare che la
maggior parte dei frammenti prodotti nell’interazione degli ioni Carbonio con il bersaglio
di Oro sono particelle alfa. La grande produzione di particelle alfa è determinata dal ruolo
fondamentale giocato da questi nuclei nei fenomeni di “clustering”. Le particelle alfa,
infatti, sono nuclei estremamente stabili a causa della loro elevata energia di legame pari a
circa 28.3 MeV) e del livello energetico del primo stato eccitato (circa 20.21 MeV rispetto
allo stato fondamentale). Gli ioni Carbonio (12C) possono essere considerati come una
struttura a “cluster” di particelle alfa e nel processo di frammentazione, la loro rottura in tre
alfa risulta estremamente probabile.
- 84 -
1,E+00
1,E+01
1,E+02
1,E+03
1,E+04
1,E+05
1,E+06
1,E+07
0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16
PID (1-15)
Par
tice
lle r
ivel
ate
per
ang
olo
solid
o (1
/sr)
3.34±0.363.71±0.368.62±1.4311.38±1.4315.17±1.4318.97±1.43
Legenda PID:
1 = 1H2 = 2H3 =3H 4 = 3He5 = 4He6 = 6He7 = 6Li8 = 7Li9 = 7Be10 = 9Be11 = 10B12 = 11B13 = 11C14 = 12C15 = 13C
1,E+00
1,E+01
1,E+02
1,E+03
1,E+04
1,E+05
1,E+06
1,E+07
0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16
PID (1-15)
Par
tice
lle r
ivel
ate
per
ang
olo
solid
o (1
/sr)
3.34±0.363.71±0.368.62±1.4311.38±1.4315.17±1.4318.97±1.43
Legenda PID:
1 = 1H2 = 2H3 =3H 4 = 3He5 = 4He6 = 6He7 = 6Li8 = 7Li9 = 7Be10 = 9Be11 = 10B12 = 11B13 = 11C14 = 12C15 = 13C
Figura 5.14: Numero di particelle rivelate a sei angoli differenti (da 3.34° a 18.97°), corretti per l’angolo solido coperto dai telescopi, in funzione del PID. La legenda sulla sinistra mostra le posizioni angolari dei rivelatori con i corrispondenti errori.
La figura che segue mostra il numero di particelle rivelate a sei angoli distinti (da
3.34° a 18.97°), corretti per l’angolo solido coperto dai telescopi, in funzione del “Particle
Identificator” (PID, cfr. §5.1.3). Dal grafico è immediato notare che, per tutti gli angoli di
rivelazione, il numero di particelle alfa è almeno di un ordine di grandezza maggiore degli
altri isotopi (eccetto che per gli ioni 12C che subiscono diffusione elastica).
- 85 -
5.3 DISCUSSIONE DATI Allo scopo di osservare eventuali dipendenze dai bersagli e dall’energia incidente nella
produzione dei frammenti, sono stati confrontati i dati relativi alle due reazioni 12C + 197Au
a 62 AMeV e 12C + 207Pb a 32 AMeV62 (il bersaglio di Piombo aveva uno spessore di 100
µm).
Nei grafici di Figure 5.15-16 sono riportate, a tale scopo, le sezioni d’urto
differenziali, rispettivamente, per i due sistemi al variare dell’angolo di rivelazione
calcolato nel sistema di riferimento del centro di massa (C.M.), per compensare gli effetti
cinematici.
L’andamento delle distribuzioni angolari è simile per le due energie considerate,
come ci si aspetta, dato che i bersagli sono molto simili in massa e carica . Tuttavia, come
si può notare, la distribuzione angolare relativa all’energia più alta appare più focalizzata
agli angoli in avanti.
62 I dati di questa seconda acquisizione sono riferiti ad una precedente campagna sperimentale, avvenuta nel Maggio 2006 presso i Laboratori Nazionali del Sud.
Figura 5.15: Distribuzione angolare della sezione d’urto differenziale relativa ai prodotti di frammentazione della reazione Carbonio su Oro (113.5 µm) a 62 AMeV.
2 4 6 8 10 12 14 16 18 20 22
10-1
100
101
102
103
H He Li Be B C
Sez
ione
d'u
rto
diffe
renz
iale
(ba
rn/s
r)
Angolo nel C.M. (gradi)
- 86 -
In Tabella 5.3 è sono riportati i valori delle sezioni d’urto di produzione assolute,
in barn, ricavate come esposto nel paragrafo precedente, su entrambi i sistemi considerati.
Il loro confronto è mostrato in Figura 5.17.
Z 12C+207Pb (32AMeV)
12C+197Au (62AMeV)
H 0,0799 1,512
He 0,236 5,621
Li 0,0208 0,496
Be 0,0164 0,161
B 0,0724 0,131
C 1,853 3,97
Tabella 5.3: Valori, misurati in barn, delle sezioni d’urto di produzione assolute per le reazioni: 12C+197Au (62AMeV) e 12C+207Pb (32AMeV)
Figura 5.16: Distribuzione angolare della sezione d’urto differenziale relativa ai prodotti di frammentazione della reazione Carbonio su Piombo (100 µm) a 32 AMeV.
2 4 6 8 10 12 14 16 18 20 22
10-1
100
101
102
103
H He Li Be B C
Sez
ione
d'u
rto
diffe
renz
iale
(ba
rn/s
r)
Angolo nel C.M. (gradi)
- 87 -
Figura 5.17: Sezione d’urto di produzione isotopica per le reazioni Carbonio su Oro a 62 AMeV e Carbonio su Piombo a 32 AMeV.
H He Li Be B C
0,01
0,1
1
12C+197Au (62 AMeV)
12C+207Pb (32 AMeV)
Sez
ione
d'u
rto
asso
luta
(ba
rn)
Prodotti di reazione (Z)
Il risultato più evidente che emerge da tale confronto è che raddoppiando l’energia
del fascio di 12C, considerati i bersagli simili, le sezioni d’urto di tutti i frammenti prodotti
aumentano di un fattore circa dieci. Inoltre il contributo principale alla sezione d’urto di
frammentazione è dovuto all’Elio ed a seguire all’Idrogeno.
Dal punto di vista del danno biologico le particelle alfa sono le più pericolose,
avendo un fattore di peso ben quattro volte maggiore rispetto a quello dei protoni (vedi
Tabella 2.1), quindi il loro contributo alla dose, dovuta al Carbonio presente nella
radiazione dello spazio profondo, ricevuta da astronauti e strumentazione è fondamentale
per la progettazione degli schermi.
Al fine di determinare una stima del contributo di dose dovuto alle particelle α, prodotte
nella frammentazione di un fascio di Carbonio sul corpo umano, è stato valutato il rapporto
- 88 -
fra le distribuzioni dose-profondità di 12C e particelle α in un fantoccio, costituito
prevalentemente d’acqua, come lo è il corpo umano.
Per effettuare tale stima, occorre conoscere il numero di ioni 12C incidenti sul bersaglio ed
il numero totale corrispondente di particelle α prodotte.
Nel calcolo del numero totale di ioni 12C è stata impiegata la formula della sezione d’urto
sperimentale, data da:
][][
.]..[266
2msr
cm
gxnCQ
uamANZ
sr
mbarn
d
d eff
∆Ω
∆=
Ω µσ
(5.10)
dove N è il numero di particelle rivelate, Q la carica totale del fascio incidente sul
bersaglio, Zeff la carica incidente efficace di ogni ione del fascio, A il numero di massa del
bersaglio, ∆Ω l’angolo solido e ∆x lo spessore del bersaglio. I valori di queste grandezze,
eccetto l’incognita rappresentata da Q, sono state valutate in base a calcoli effettuati in
precedenza.
Il numero di ioni 12C incidenti, dato dal rapporto tra Q ed il prodotto di Zeff per la
carica e dell’elettrone, considerando una distanza di 80 cm da un ipotetico bersaglio di
superficie circolare di raggio 1 cm, è risultata pari a 695986361, tenendo conto che si tratta
solo di eseguire una stima approssimativa a puro titolo esemplificativo.
Il numero di particelle α è stato stimato estrapolando la curva di distribuzione angolare di
produzione per unità di angolo solido, di andamento esponenziale, fino alla posizione
angolare 5.0=ϑ gradi e moltiplicando il valore ottenuto per l’angolo solido
corrispondente al cono di apertura richiesta. Infine è stato calcolato il rapporto tra il
numero di ioni Carbonio ed il numero di particelle α: il valore trovato è tale che
6104/ −⋅≈CNNα .
Il gruppo di ricerca dei LNS, coinvolto nello sviluppo del codice di simulazione
Geant4, ha elaborato un programma per la stima della distribuzione di dose entro un
fantoccio di acqua dovuta sia ai 1010 ioni 12C, diffusi elasticamente dal bersaglio, con
energia E = 703 ± 5 MeV, che al corrispondente numero di particelle α prodotte
nell’interazione con il bersaglio, di energia E = 235 ± 10 MeV, al fine di valutare soltanto
il contributo di dose dei frammenti prodotti nel bersaglio di Oro.
In Figura 5.18 sono mostrate le distribuzioni di dose con la profondità, a passi da 10 µm,
riferiti al 12C, alle particelle α ed al rapporto fra queste distribuzioni. La scala
semilogaritmica è stata utilizzata per rendere visibile la curva relativa alle particelle alfa,
- 89 -
1
10
100
1000
10000
100000
1000000
10000000
100000000
1000000000
10000000000
0 5 10 15 20 25 30 35
Profondità in acqua (mm)
Dos
e (A
.U.)
Distribuzione dose-profondità delle particelle α
Rapporto fra le distribuzioni dose-profondità di 12C e particelle α
Distribuzione dose-profondità degli ioni 12C
Figura 5.18: Distribuzioni di dose con la profondità di penetrazione in acqua per ioni 12C da 703 MeV(blu), particelle α da 235 MeV (rosa) e rapporto fra le due distribuzioni (giallo).
che alla profondità corrispondente al proprio massimo è comunque circa 800 volte più
bassa di quella del Carbonio.
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6. CONCLUSIONI
La finalità di questo lavoro di tesi è stata la misura delle distribuzioni angolari dei
frammenti e delle sezioni d’urto assolute prodotte nelle reazioni:
12C + 197Au a 62 AMeV e 12C + 207Pb a 32 AMeV.
L’interesse generale per questo tipo di misure è ampio: dalla ricerca di base alle
applicazioni, che comprendono sia il campo dell’adroterapia, con l’utilizzo di fasci di 12C
per la cura dei tumori, che la radioprotezione nello spazio, cui le future missioni
interplanetarie hanno dato nuovo impulso ed a cui sono mirate le misure analizzate in
questo lavoro di tesi.
Esistono diversi acceleratori nel mondo presso i quali sono in corso esperimenti
legati alla radioprotezione nello spazio e spesso si tratta di macchine che funzionano presso
Laboratori, nei quali si svolge una ricerca radiobiologia, legata alla radioterapia oncologica
con particelle cariche, come ai Laboratori Nazionali del Sud dell’INFN di Catania, pionieri
in Italia, per la terapia della cura dei tumori con fasci di protoni.
Le reazioni studiate, la cui analisi dati è stata curata in questa tesi, sono
caratterizzate dall’utilizzo di un fascio di Carbonio, elemento presente a diverse energie
nello spazio profondo, a due energie differenti su bersagli pesanti, tra loro simili.
In entrambi gli esperimenti abbiamo misurato le distribuzioni angolari dei
frammenti prodotti e ricavato le rispettive sezioni d’urto.
In sintesi, dal confronto tra le reazioni studiate si può affermare che:
− L’andamento delle distribuzioni angolari delle sezioni d’urto assolute nei
due casi risultano simili fra loro, mostrando una maggiore focalizzazione
agli angoli più in avanti per i dati relativi all’energia incidente più elevata.
− Raddoppiare l’energia del fascio ha determinato un aumento delle sezioni
d’urto di tutti i frammenti di un fattore circa 10.
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− Il contributo principale alla produzione di frammenti è generato dalle
particelle alfa ed, a seguire, dai protoni.
Dal momento che le particelle alfa possiedono un fattore di peso per la radiazione
wR molto più grande rispetto ai protoni, difatti, wR vale 20 nel primo caso e 5 nel secondo
(vedi i dati riportati in Tabella 2.1), questo implica che, in termini di dose equivalente, le
prime risultano molto più pericolose delle seconde.
Nonostante le misure eseguite costituiscano solo il primo passo di una ricerca più
approfondita e capillare nell’ambito della radioprotezione spaziale, in vista della
progettazione di uno schermo appropriato atto alla protezione degli astronauti nelle
missioni interplanetarie, è dunque di fondamentale importanza focalizzare l’attenzione sul
rischio di radiazioni legato all’esposizione a particelle alfa prodotte dalla frammentazione
di Carbonio.
Per questo, dal punto di vista della radioprotezione nello spazio profondo
occorrerebbe considerare, per gli schermi, materiali con un alto potere frenante per
particelle alfa. Inoltre, poiché, come abbiamo visto in precedenza, lo spettro della
radiazione varia in un ampio intervallo di energie, è di fondamentale importanza
proseguire lo studio qui intrapreso anche ad energie più elevate per una valutazione
accurata dell’evoluzione della sezione d’urto dei frammenti, che, dai risultati ottenuti, non
si può banalmente estrapolare alle energie più elevate.
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RINGRAZIAMENTI
Non so proprio da che parte cominciare. Sono davvero tante le persone che mi sono state
vicino. Ognuna di loro, a modo proprio, è riuscita a darmi un sostegno, un sorriso, una
parola dolce al momento giusto.
I ringraziamenti più grandi vanno alla mia famiglia, mamma, papà e Letizia, ed alla
persona che ha cambiato la mia vita (… fino a Settembre ha lui l’esclusiva…), Isacco. Si
sono tutti presi cura di me come non mai, incoraggiandomi sempre e non facendomi
mancare mai nulla. Che fortuna averli vicino! So di non trovare le parole giuste per
esprimere tutto quello che provo per loro, ma il mio cuore si riempie al loro pensiero. Non
voglio essere, però, troppo “smielata” quindi vado oltre.
Un ringraziamento particolare va alla mia amica, compagna di tante avventure e
sventure di tutti questi anni. Grazie, Stefania, perché mi hai sopportato, aiutandomi sempre
quando ne avevi l’occasione. Non so se sono riuscita a ricambiare quello che tu hai fatto
per me (anzi, temo proprio di no), ma sono davvero felice di averti conosciuta in quel
giorno di Ottobre, vicino l’Aula Nord del vecchio dipartimento.
E che dire di Piero? Ti ho conosciuto solo poco tempo fa, ma a me sembra da
sempre. Sei stato un aiuto preziosissimo e non solo per la tesi.
Grazie a tutti i ragazzi dei LNS. Tra questi ci sono ovviamente i ragazzi della sala
tesisti: Ciccio Pasticcio, Francesco, Roberta, Peppe, Sara, Giacomo. Stiamo tutti sulla
stessa barca e per questo c’è tanta complicità tra di noi. Abbiamo condiviso emozioni,
risate, e mi hanno aiutato a superare i momenti (tanti) di sconforto. Senza di loro questo
lavoro di tesi sarebbe stato troppo per me ed avrei mollato tutto. Grazie a quei ragazzi che
tesisti non lo sono più, i dottorandi, i dottorati, i ricercatori e non. Spero di non perdervi di
vista dopo la laurea, anche se sarà strano vedersi al di fuori delle mura del laboratorio. Non
vedo l’ora di fare la famosa gita che in primavera mi sono persa.
Un grazie speciale va alle persone che hanno voluto che mi laureassi a Luglio,
nonostante io volessi rinunciare. Grazie alla Dottoressa Agodi ed al Dottor Cuttone,
persone diverse, ma capaci e determinate. Il loro aiuto è stato davvero determinante.
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Grazie al professore Raciti ed a tutto il suo gruppo, Elisa, Francesca e Marzio, per
l’occasione che mi hanno dato di conoscere da vicino il mondo della Ricerca scientifica.
Soltanto quando si è dentro ci si rende conto delle difficoltà, dei sacrifici che richiede
essere un ricercatore nella vita. Non è facile e non so sinceramente se sia questa la mia
strada.
Non posso certo dimenticare in questa carrellata il resto della mia famiglia,
specialmente le mie nonne che non hanno mai smesso di incoraggiarmi. So che le loro
preghiere sono arrivate a destinazione. Grazie ai miei zii, alle mie cugine ed ai miei cugini,
sempre premurosi e tanto cari. Grazie ad Assunta e Vittorio che mi hanno accolto nella
loro famiglia ed anche da lontano non mi fanno mancare il loro affetto.
Grazie a tutti i miei amici di infanzia, i miei cari amici b…, che forse non
credevano più che sarei riuscita a laurearmi… neanch’io, per la verità!!! Adesso vi
toccherà raccogliere i soldi per farmi il regalo!
Un grazie particolare anche alle mie ex colleghe, ormai “super-dottoresse del
mondo”, Rosalba, Giusi, Nadia, Lucia che non mi hanno mai perso di vista. Siete delle
vere amiche.
Grazie a tutti i ragazzi del gruppo CATANA: siete stati di grandissimo aiuto. Siete
stati una vera scoperta per me e mi mancheranno i nostri pranzi in sala mensa, gli scherzi e
le prese in giro. Alla fine, niente fenicotteri rosa nella mia tesi, a quanto pare.
Grazie a Luca e Lucia, degli amici davvero speciali, capaci di tirati su e sostenerti
anche da duemila chilometri di distanza.
Grazie a chi da lassù non si è mai scordato di me, nonostante le mie debolezze ed i
miei difetti (e sono tanti).
Un ultimo grazie va a chi deve ancora arrivare e già è riuscito a farsi voler bene. È
stato bravissimo in questi mesi e spero davvero di non deluderlo come mamma.
Spero di non aver dimenticato nessuno. Se malauguratamente ciò fosse successo
perdonatemi, è la stanchezza, ma siete stati in tantissimi a starmi vicino, in un modo o
nell’altro, e non l’avrei mai creduto possibile. Grazie davvero a tutti, di cuore.