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1 Università degli Studi dell’Insubria Dipartimento di Economia – Clem Seminario Studenti meritevoli Varese, 15 e 16 novembre 2013 Prof. Lelio Demichelis Dalla catena di montaggio alla rete. Dal fordismo-taylorismo e dalla modernità pesante di ieri al post-fordismo, alla modernità liquida e all’economia della conoscenza di oggi. Dalla società fordista alla società in rete. Evoluzione, rivoluzione o involuzione? E dunque, il fordismo: termine con cui si definisce un modello di produzione e di organizzazione del lavoro che ha caratterizzato gran parte del ‘900. Spesso è associato a taylorismo. Comunemente si ritiene che a partire dagli anni ’70 del secolo scorso questo modello sarebbe stato progressivamente superato da nuovi modelli di organizzazione, ricondotti al meta-concetto di post-fordismo, arrivando poi alla rete qui intesa quale modello e forma di nuova organizzazione del lavoro. La rete: mezzo per fare, conoscere, apprendere, creare; ma anche qualcosa di più e di diverso, dal poter fare rete al dover essere connessi, dall’essere insieme in rete a esserlo da soli, dalla cooperazione volontaria e consapevole al dover collaborare e condividere con l’apparato del lavoro in rete, dall’essere in rete come soggetti autonomi all’essere presi dalla rete come parti di un tutto. Ovvero, il difficile rapporto – nel mondo del lavoro e del consumo - tra auto-nomia ed etero-nomia, tra individuo e conformismo, tra libertà e controllo. Rete e nuovo lavoro variamente definito con questi termini: lavoro immateriale, capitalismo cognitivo, capitalismo intellettuale, economia della conoscenza, wikinomics, ecc. Il Seminario vuole analizzare in primo luogo quali erano i caratteri distintivi del fordismo-taylorismo; poi quali sono invece i caratteri oggi del lavoro in rete per poi capire/valutare se il fordismo è davvero finito oppure se è rinato in rete sotto nuove forme, portando alcuni a parlare di un nuovo taylorismo digitale e a equiparare la rete (nei suoi fondamentali di organizzazione del lavoro) alla vecchia catena di montaggio. E allo stesso tempo a parlare di uscita del modello fordista dalle fabbriche per contaminare di sé la società intera, mettendo al lavoro i territori e la vita delle persone, ovvero: dalla piccola impresa al lavoro autonomo di prima o Premessa. Dal f f o o r r d d i i s s m m o o alla rete. E ritorno.

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Università degli Studi dell’Insubria

Dipartimento di Economia – Clem

Seminario Studenti meritevoli

Varese, 15 e 16 novembre 2013

Prof. Lelio Demichelis

Dalla catena di montaggio alla rete. Dal fordismo-taylorismo e dalla modernità pesante di ieri al post-fordismo, alla modernità liquida e all’economia della conoscenza di oggi. Dalla società fordista alla società in rete. Evoluzione, rivoluzione o involuzione? E dunque, il fordismo: termine con cui si definisce un modello di produzione e di organizzazione del lavoro che ha caratterizzato gran parte del ‘900. Spesso è associato a taylorismo. Comunemente si ritiene che a partire dagli anni ’70 del secolo scorso questo modello sarebbe stato progressivamente superato da nuovi modelli di organizzazione, ricondotti al meta-concetto di post-fordismo, arrivando poi alla rete qui intesa quale modello e forma di nuova organizzazione del lavoro. La rete: mezzo per fare, conoscere, apprendere, creare; ma anche qualcosa di più e di diverso, dal poter fare rete al dover essere connessi, dall’essere insieme in rete a esserlo da soli, dalla cooperazione volontaria e consapevole al dover collaborare e condividere con l’apparato del lavoro in rete, dall’essere in rete come soggetti autonomi all’essere presi dalla rete come parti di un tutto. Ovvero, il difficile rapporto – nel mondo del lavoro e del consumo - tra auto-nomia ed etero-nomia, tra individuo e conformismo, tra libertà e controllo.

Rete e nuovo lavoro variamente definito con questi termini: lavoro immateriale, capitalismo cognitivo, capitalismo intellettuale, economia della conoscenza, wikinomics, ecc.

Il Seminario vuole analizzare in primo luogo quali erano i caratteri distintivi del fordismo-taylorismo; poi quali sono invece i caratteri oggi del lavoro in rete per poi capire/valutare se il fordismo è davvero finito oppure se è rinato in rete sotto nuove forme, portando alcuni a parlare di un nuovo taylorismo digitale e a equiparare la rete (nei suoi fondamentali di organizzazione del lavoro) alla vecchia catena di montaggio. E allo stesso tempo a parlare di uscita del modello fordista dalle fabbriche per contaminare di sé la società intera, mettendo al lavoro i territori e la vita delle persone, ovvero: dalla piccola impresa al lavoro autonomo di prima o

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Dal ffoorrddiissmmoo alla rete. E ritorno.

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di seconda generazione, dal capitalismo personale al lavoro free-lance e alle partite iva, dal lavoro flessibile al lavoro precario.

Parlare di modelli organizzativi del lavoro vecchi e nuovi quando in Italia e in Europa la disoccupazione – cioè il non-lavoro - sta raggiungendo livelli socialmente critici (26 milioni di disoccupati nell’Europa a 28 e quasi 20 nella sola Euro-zona) può sembrare un paradosso. Eppure questa disoccupazione che colpisce soprattutto i giovani (in Grecia, il 60% degli under 35 anni è disoccupato; in Italia il 40%) è effetto inevitabile non solo delle politiche di austerità imposte a molti paesi dopo lo scoppio della crisi del 2007/2008 (politiche che invece di essere anti-cicliche sono state pro-cicliche, aggravando la congiuntura negativa e riportando in recessione tutto il Sud Europa), quanto delle trasformazioni avvenute negli ultimi 30 anni proprio nell’organizzazione del lavoro (infra).Per cui, valutare questi mutamenti diventa la pre-condizione per ogni ulteriore riflessione.

In sintesi, per fordismo (termine introdotto per la prima volta da Antonio Gramsci, fondatore del Partito comunista d’Italia, nei suoi Quaderni del carcere, scritti politici ed economici redatti durante la sua prigionia durante il fascismo) si intende il modello di produzione e di consumo ideato cento anni fa da Henry Ford e basato essenzialmente sulla catena di montaggio e la grande fabbrica; sulla suddivisione, semplificazione e ripetitività delle mansioni di lavoro; sulla standardizzazione dei prodotti e sui consumi di massa. Per estensione, il termine fordismo designa anche quella fase di organizzazione dell’economia e della politica – la società fordista - caratterizzata appunto dalla grande fabbrica, dalle grandi masse popolari, dai grandi partiti di massa e dai consumi di massa.

Il fordismo è inoltre da considerare come una fase ulteriore - se si vuole di affinamento - di quella rivoluzione industriale iniziata dalla metà del Settecento in Inghilterra e poi progressivamente diffusasi tra Europa e Stati Uniti. Rivoluzione industriale che ha modificato in forme sempre più potenti e pervasive il modo di lavorare, l’organizzazione del lavoro e di conseguenza della società; rivoluzione industriale che si perfeziona nell’Ottocento per poi dilagare appunto nel secolo scorso. Un Ottocento che ha visto il trionfo di nuove tecnologie (macchina a vapore, poi l’elettricità e la chimica industriale), di un nuovo mito del Progresso (si pensi alle Esposizioni Universali).

Scriveva già Platone: “Se un agricoltore decidesse di vendere personalmente al mercato le proprie merci, aspettando in ozio i compratori, costui non sarebbe più un agricoltore”. E ancora: “Una cosa riesce meglio se una sola persona attende ad una sola tecnica invece che a molte”. “E’ allora opportuno che ciascuno di

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noi, che ha una natura sua non certo uguale alle altre, attenda, secondo le caratteristiche, ad un’opera diversa dalle altre”.

Divisione del lavoro poi ridefinita da Adam Smith (1723-1790), utilizzando la metafora della fabbricazione degli spilli: “Un operaio non addestrato in questa attività, né abituato all’uso delle macchine potrebbe forse a malapena, impegnandosi al massimo, fare uno spillo al giorno e certamente non potrebbe farne venti. (…). Ma nel modo in cui ora viene svolta, non soltanto questa attività è un lavoro specializzato, ma è divisa in molti rami, la maggior parte dei quali parimenti specializzati. Un uomo svolge il filo metallico, un altro lo drizza, un terzo lo taglia, un quarto lo appuntisce… (…). La fabbricazione di uno spillo è così divisa in circa diciotto distinte operazioni. (…) Ogni operaio, facendo la decima parte di quarantottomila spilli, faceva quindi in media quattromilaottocento spilli in un giorno. (…). La divisione del lavoro, nella misura in cui può essere introdotta, determina in ogni arte un aumento proporzionale della capacità produttiva del lavoro”.

 

Eppure, tra la divisione del lavoro indicata da Platone e quella ridefinita da Smith c’è una profonda differenza: al tempo degli antichi greci questa divisione era semplice e il lavoro era comunque ancora in capo a colui che decideva di produrre/vendere qualcosa (agricoltore, artigiano, commerciante). E la divisione dei compiti era legata alla natura (carattere, interessi, professionalità, attività svolta) di ciascuno. E tuttavia, Platone aveva già ben compreso che questa divisione del lavoro era indotta dalla natura stessa della tecnica usata, tecnica (il fare usando apparati/mezzi tecnici) che presuppone e richiede un sapere specializzato, che a sua volta deve integrarsi con quello di altri lavoratori specializzati per poter realizzare e produrre qualcosa. Il lavoro deve dunque essere specializzato e insieme deve essere suddiviso in parti diverse e specializzate. Ma quanto specializzate? E soprattutto: chi o cosa determina questa suddivisione del lavoro? Gli uomini: che insieme decidono di costruire qualcosa e che dunque hanno bisogno di mettere insieme competenze diverse, nessuno potendo avere in sé il sapere necessario per farlo? Oppure l’organizzazione del lavoro è qualcosa che ad un certo punto trascende la volontà e la deliberazione volontaria degli uomini per divenire un apparato tecnico che prescinde dagli uomini e dalla loro volontà e chi lavora in fabbrica o in un ufficio non conosce per intero l’apparato organizzativo per il quale lavora; e la sua specializzazione e la sua attività sono un pezzo di una sorta di grande macchina organizzativa in cui però l’individualità delle persone viene di fatto emarginata, ridotta, tradotta in una mera competenza a fare una parte - e solo una parte - del lavoro complessivo? Se prima della rivoluzione industriale il lavoro era anche una forma di relazione sociale, di volontaria e consapevole cooperazione tra gli uomini per realizzare insieme qualcosa che non era solo un prodotto/merce ma appunto anche una relazione, poi con la rivoluzione industriale il lavoro diviene sempre più una merce, ceduta da chi non ha altri mezzi di sostentamento (il lavoratore) a chi ha la proprietà dei mezzi di produzione (il capitalista).

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Alcuni esempi (estratti da L. Demichelis, Bio-Tecnica, Liguori, 2008): il primo, quello di un nuovo modo di produrre i calci dei fucili. E con un meccanico, tra i tanti, di nome Thomas Blanchard. Siamo agli albori della società industriale, ma in America e non in Inghilterra. Quando iniziava a nascere quello che è stato definito l’American system, il sistema di produzione basato sulla intercambiabilità dei pezzi. La produzione dei fucili, per l’esercito americano era realizzata, ancora nel 1804, nell’impianto di Springfield, secondo un’articolazione di costruzione in quattro attività principali. Ma tra il 1815 e il 1825 la divisione del lavoro arrivò a sommare cento differenti specializzazioni. Ed è proprio Blanchard a mettere a punto, tra il 1820 e il 1826, un sistema di 14 macchine utensili in grado di produrre un calcio di fucile in venti minuti.

Utile allora porsi la domanda se nasca prima l’industria come fare o il management come organizzare. Il management (un embrione del management moderno, ovviamente) è davvero la risposta alle esigenze delle imprese - agli albori della rivoluzione industriale - di creare una struttura di controllo e di potere capace di gestire e organizzare gerarchicamente le capacità umane e il flusso di informazioni e di attività dentro una struttura industriale? Secondo Neil Postman, (esperto di tecnologia e di comunicazione): “non è stata l’industria moderna a inventare la gestione, bensì il contrario”. Di più - e questo spiegherebbe molte cose legate all’organizzazione industriale del lavoro, alla sua forma gerarchica, alla sua catena di comando e di controllo: “Le vere radici del management” – ancora Postman – “si possono infatti rintracciare in un nuovo sistema d’istruzione, introdotto nel 1817 nella United States Military Academy dal suo quarto sovrintendente, Sylvanus Thayer, autore di due innovazioni, specifiche e rivoluzionarie. La prima, presa in prestito dalla Ecole Polytechnique di Parigi, fu l’uso di esprimere il risultato degli esami con valori numerici. (…) Per dirla con Foucault, l’essere umano diventa una ‘persona calcolabile’. La seconda innovazione di Thayer fu un sistema di divisione dell’Accademia in due sezioni, sezione personale e sezione ufficiali, ciascuna con una sua organizzazione gerarchica. (…) si dovevano preparare, tutti per iscritto, rapporti giornalieri, settimanali e mensili. C’era un continuo scambio di comunicazioni e di ordini scritti, dalla base al vertice di ogni linea gerarchica, che alla fine venivano riuniti e passati allo Stato Maggiore”. Ovvero, il nuovo modello escludeva la tradizione dell’ordine diretto ed esplicito, per passare ad una organizzazione in cui il comando avesse un ruolo meno diretto, ma non per questo meno efficace, anzi: tutto essendo governato e controllato attraverso rapporti scritti, diagrammi e appunti, archivi e procedure di funzionamento.

Dall’organizzazione militare all’industria? Lo scrivevano Marx ed Engels nel Manifesto del partito comunista: “Masse di operai addensate nelle fabbriche vengono organizzate militarmente. Come soldati semplici dell’industria essi vengono sottoposti alla sorveglianza di tutta una gerarchia di sottufficiali e di ufficiali”. E Frederick Taylor, padre del taylorismo: “Gli ordini vengono trasmessi dal generale ai soldati tramite colonnelli, maggiori, capitani, sottotenenti e sott’ufficiali. Allo stesso modo gli ordini negli stabilimenti industriali passano dal direttore agli

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operai tramite sovrintendenti, capi officina, assistenti capi officina e capi reparto”.

Fucili. E automobili. Nel 1901, negli Usa, esistevano 85 fabbriche di automobili, ma circolavano solo 4mila vetture, tre quarti delle quali elettriche o a vapore. Nel 1903, le fabbriche erano divenute 137, ma un anno dopo ne fallirono 63. Sempre nel 1904 nasceva la Ford Motor Company. Nel 1908 Henry Ford decise di abbandonare la produzione di lusso, fatta cioè per una ristretta clientela, cominciando a produrre auto per la massa, una massa ovviamente ancora ristretta. Ford voleva democratizzare l’automobile. Inoltre, fare un solo modello (o pochi) semplificava l’organizzazione industriale. Allora gli operai lavoravano in squadre attorno ad un’auto, svolgendo ciascuno più operazioni. Ford decise – per accorciare i tempi di produzione (e fu questa un’altra piccola-grande rivoluzione) – che ogni operaio avrebbe movimentato sempre lo stesso pezzo, spostandosi da un’auto all’altra. Con questa nuova tecnica di organizzazione le cose migliorarono, ma per montare un’auto occorrevano ancora 12,5 ore di lavoro. Troppo. Era necessario abbassare i costi di produzione e accrescere la produttività. Per questo servivano nuove forme di organizzazione del lavoro. In molti si erano concentrati su questo obiettivo già dall’Ottocento, con studi minuziosi sui cicli lavorativi e la loro organizzazione. Per questa nuova organizzazione produttiva era necessario soprattutto il controllo dei tempi di lavoro, in nome della velocità come nuovo mito/ambiente/contesto sociale – la velocità come valore socialmente positivo e condiviso.

Nel 1913 la catena di montaggio fa il suo ingresso negli stabilimenti Ford di Highland Park. Invece di far muovere gli operai da un’auto all’altra, Ford e i suoi ingegneri decisero di far muovere le auto da un operaio all’altro. All’inizio, questo spostamento lungo la catena avveniva manualmente, con altri operai che – sempre sotto il controllo ferreo dell’orologio di chi dettava il tempo di lavoro – spostavano le auto lungo la linea, tirandole con delle corde. Presto il sistema venne però meccanizzato. Ma la catena di montaggio non è nata in casa Ford, l’idea sembra sia venuta prendendo spunto dall’organizzazione del lavoro ai macelli di Chicago. In verità, altre catene di montaggio, semplici e primitive, erano già nate nel corso dell’Ottocento. Ma è certamente Ford a compiere la grande trasformazione. Il modello della catena viene progressivamente copiato e si diffonde. E in casa Ford si passa da 82mila auto prodotte nel 1912 pre-catena di montaggio, a quasi 600mila del 1916. E il prezzo di un’auto passa da 600 dollari nel 1912, a 360 dollari nel 1916. Celebre lo slogan per vendere la famosa Ford T: sceglietela del colore che volete, purché sia nero.

La meccanizzazione del ciclo produttivo fu la grande innovazione di Ford. Con un elemento ulteriore: per far funzionare la catena di montaggio non servivano operai qualificati, non servivano conoscenze ed esperienza. Alla Ford serviva

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gente capace di lavorare e di faticare, senza porsi troppe domande. “Io” – diceva Ford – “non riuscirei mai a fare la stessa cosa tutti i giorni, ma per altri le operazioni ripetitive non sono un motivo di orrore. L’operaio medio, mi spiace doverlo dire, desidera un lavoro nel quale non debba erogare molta energia fisica, ma soprattutto desidera un lavoro nel quale non debba pensare”. Eppure, alla Ford, gli operai non accettarono entusiasti la nuova organizzazione del lavoro: nel corso del 1913 il turn-over è altissimo (date le pessime condizioni di lavoro) e per avere alla fine cento operai stabili in più la Ford dovette assumerne 960. Gli immigrati poi, in quegli anni, rappresentano una fonte quasi inesauribile di manodopera, disponibile e a basso costo, con l’immigrazione interna agli Usa, con quella dall’estero, con grandi spostamenti di gente dalle campagne verso le città. Un’altra similitudine con l’oggi è il livello dei salari: molto bassi, tanto bassi che per sostenere una famiglia occorreva spesso l’apporto di lavoro e di reddito di tutti i suoi componenti.

E’ nel 1914 che Ford raddoppia la paga ai suoi operai, portando il salario a 5 dollari al giorno, scatenando le ire dei suoi colleghi industriali. Ma l’obiettivo non era tanto quello di consentire agli operai di poter comprare un giorno una delle auto Ford – come sostiene il mito industrialista e consumistico legato a questa decisione di Ford – bensì, nell’immediato, quello di bloccare o almeno contenere il turn-over trasformando gli operai da precari (non sopportando tempi e metodi del lavoro nelle fabbriche Ford) in lavoratori stabili dentro al meccanismo industriale di produzione. Certo, salari più alti significarono ovviamente anche uno stimolo indiretto al consumo e al consumare, ma la possibilità di avere i 5 dollari al giorno era subordinata ad una permanenza in fabbrica di almeno sei mesi e ad un ferreo sistema di controllo, basato su due condizioni vincolanti: sapere l’inglese, cosa ovvia trattandosi spesso di immigrati europei; e la Sezione sociologica o Sociology Department, istituito nel 1914, composto all’inizio da 30 investigatori (presto divenuti un centinaio), poi denominati consiglieri. La sezione sociologica – secondo lo storico americano David Montgomery – indagava “sul comportamento personale e sulla vita familiare del lavoratore. Ogni operaio diventava oggetto di indagine da parte della sezione, per verificare i suoi comportamenti, per vedere se andava a messa la domenica, se andava tutti i giorni in fabbrica. Questo era a suo favore. Metteva denaro in banca? Questo era a suo favore. Mandava soldi ai parenti in Europa? Questo era contro di lui. La moglie lavorava? Questo era contro di lui. I figli frequentavano i boyscout? Questo era a favore. Un punteggio veniva attribuito a ciascun lavoratore per decidere se era degno dei cinque dollari. I cinque dollari implicavano un giudizio sulla personalità, sul carattere, sull’obbedienza, non riguardavano l’abilità di fare un lavoro. Questo non aveva nessuna importanza, era la macchina che faceva il lavoro”.

Compito della Sezione sociologica, secondo lo storico Giuseppe Ortoleva “per dirla in termini brutali ma chiari, era quello di estendere il controllo di Ford dalla fabbrica alla vita privata dei suoi operai, alle loro case, cucina e camera da letto incluse, anzi prime fra tutto. Se il capo doveva vigilare sull’osservanza delle regole

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di produzione, l’investigatore doveva vigilare sull’osservanza delle regole morali, innanzi tutto il divieto di bere e il rispetto della morale sessuale”.

E dunque, il fordismo. Un insieme di elementi lo caratterizzano e diventano la base della sua diffusione: forte accumulazione unita a innovazione; la catena di montaggio, ma anche tutto ciò che ne consegue necessariamente, come la standardizzazione del prodotto; la diminuzione dei costi di produzione e quindi del prezzo dei prodotti finali; l’aumento dei salari e la creazione di una nuova domanda di consumo, che a sua volta stimola la produzione, quindi la distribuzione di nuovo reddito da far consumare.

Trasformerà l’industria, il fordismo; e soprattutto trasformerà la società. L’industria diventa il fattore prevalente di modellizzazione sociale, accrescendo il suo ruolo sulle e nella società, moltiplicando la produzione e il consumo ma soprattutto organizzando stabilmente e sempre più intensamente il lavoro nella forma della sua suddivisione. Nel 1916, B. Fisher, dirigente dell’unione industriali di Detroit, riassumeva così quella che riteneva la principale lezione di Ford: ‘espandere l’influenza della fabbrica a tutti gli aspetti della vita dell’operaio’. E nel 1915, un imprenditore di Boston, Meyer Bloomfield, parlava di ‘una nuova professione, quella di gestire gli uomini’ e sottolineava che ‘i dirigenti più saggi si rendono conto di quanto sia opportuno organizzare la forza-lavoro alla fonte’. Era quindi un’esigenza generale del capitalismo americano ma non solamente sua, quella di governare la vita delle persone per organizzare meglio il lavoro di fabbrica.

“Il modello fordista” – ha scritto il sociologo Zygmunt Bauman – “fu un cantiere epistemologico su cui poggiava un’intera visione del mondo e dal quale torreggiava maestosamente sulla totalità dell’esperienza di vita. (…) La fabbrica fordista – con la sua meticolosa separazione fra pianificazione e realizzazione, iniziativa ed esecuzione degli ordini, libertà e ubbidienza, invenzione e determinazione, con la sua rigida sincronizzazione degli opposti all’interno di ciascuna di tali opposizioni binarie e la fluida trasmissione del comando dal primo elemento di ciascuna coppia al secondo – fu senza dubbio il più grande successo di ingegneria sociale orientata all’ordine mai ottenuto fino a oggi”. (Cantiere epistemologico, ovvero: un modo per

costruire e diffondere significati sociali, modi di vivere, sistemi di pensiero e di conoscenza). Sul lavoro alla catena di montaggio, celebre il film Tempi moderni, di Chaplin – 1936.

Frederick Taylor (1865-1915), esperto di organizzazione industriale, teorico dell’organizzazione scientifica del lavoro, ha dato il suo nome a un determinato modello organizzativo, appunto il taylorismo, che ha caratterizzato, confondendosi spesso con il fordismo, gran parte del ‘900. “L’organizzazione scientifica del lavoro consiste soprattutto nel preparare i compiti produttivi e nel farli eseguire”. E: “Fra i singoli elementi del sistema moderno a base scientifica, quello preminente è forse il

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principio di assegnare al lavoratore un compito ben definito. Il lavoro viene stabilito dalla direzione in tutti i suoi dettagli almeno il giorno prima e nella maggior parte dei casi ogni esecutore riceve complete istruzioni scritte, che descrivono dettagliatamente il compito affidato, come pure gli utensili di cui dovrà servirsi. One best way: ovvero, per produrre qualsiasi cosa esiste un metodo migliore degli altri e quello, una volta individuato dopo attenta sperimentazione, deve essere applicato. Il lavoro così stabilito costituisce un incarico che deve essere portato a termine non solo dall’esecutore materiale, ma dagli sforzi congiunti della direzione e della mano d’opera”. Ovvero la fabbrica come sistema, come macchina produttiva e organizzante. Legare insieme era il temine usato da Taylor, legare insieme scienza e operaio, tecnica e persona: elemento imprescindibile per il buon funzionamento dell’organizzazione d’impresa.

Ma è evidente che qui non di tratta di una capacità di cooperare tra soggetti di pari potere, ma di un incarico, di una sorta di ordine di lavoro (un lavoro, appunto subordinato alla volontà della direzione dell’impresa), anche se poi lo stesso Taylor prevedeva una collaborazione – per di più cordiale - tra direzione dell’impresa e lavoratori. Una collaborazione molto particolare: essendo di fatto una im-posizione, un in-carico appunto (e l’etimologia del termine incarico – gravare qualcuno di una incombenza – rimanda a qualcosa di messo in carico su qualcuno che però ed evidentemente non può essere inteso come un collaboratore ma solo o prevalentemente come un esecutore, al quale vengono imposte anche le tecniche – gli utensili - da usare e il come usarli.

L’organizzazione scientifica del lavoro di Taylor si basava su quattro assunti: 1) “chi dirige, deve eseguire, per ogni operazione di qualsiasi lavoro manuale,

uno studio scientifico, che sostituisca il vecchio procedimento empirico” e deve raccogliere e classificare, ordinandoli, tutti i saperi di lavoro esistenti e per ogni mansione/attività vi deve essere una e una sola one best way (ovvero, le competenze e le conoscenze venivano accentrate dalla direzione, il lavoratore veniva di fatto espropriato delle proprie conoscenze trasformandosi in esecutore di mansioni razionalizzate scientificamente nei movimenti e nei tempi di esecuzione);

2) chi dirige deve poi “selezionare la mano d’opera con metodi scientifici, prepararla, istruirla e perfezionarla, mentre in passato ogni individuo sceglieva per proprio conto il lavoro e vi si specializzava da sé come meglio poteva”, quindi organizzazione scientifica anche della formazione professionale e svalutazione delle attitudini personali;

3) chi dirige deve appunto “cordialmente collaborare con i dipendenti” (e però questo collaborare non è tra soggetti paritari, ma tra un sopra e un sotto, tra chi organizza e controlla i saperi e chi esegue);

4) e il lavoro e la relativa responsabilità “sono ripartiti in misura quasi uguale tra la direzione e la mano d’opera”.

Dunque: suddivisione esasperata e scientifica del lavoro e controllo del come e del quando del lavoro. Secondo le teorie (e la pratica) di Taylor, “adottando il metodo scientifico, l’iniziativa di chi lavora – cioè lavoro intenso, buon volere ed ingegnosità – la

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si ottiene in modo assolutamente uniforme ed in grado superiore a quanto sia possibile con il sistema tradizionale; accanto a questo miglioramento delle prestazioni della mano d’opera, i dirigenti si assumono nuovi compiti, oneri nuovi e responsabilità mai sognate nel passato. Chi ha mansioni direttive si assume, ad esempio, l’incarico di raccogliere tutte le nozioni tradizionali possedute in precedenza dalla mano d’opera, e di classificarle, ordinarle in tabelle e sintetizzarle in prescrizioni, leggi e formule, che riescono immensamente utili al lavoratore nella sua attività quotidiana”. Difficile – ancora - poter parlare di vera cooperazione, quando il lavoro viene organizzato in questo modo. Eppure il termine cooperazione – a riprova dei molti significati che questo termine può contenere – era usato diffusamente da Taylor. Ad esempio là dove definiva la sua organizzazione scientifica del lavoro come simile all’organizzazione di una squadra sportiva, in particolare di baseball: perché nessuna impresa, come nessuna squadra può vincere, diceva “se ciascun uomo della squadra non obbedisce ai segnali o agli ordini dell’istruttore con la maggiore rapidità possibile; ovverosia senza l’intima cooperazione tra tutti i membri della squadra e della direzione”. Ma appunto: obbedire non può essere sinonimo di collaborare. E in una organizzazione del lavoro come quella tayloristica, per quanto scientifica, questo obbedire metteva il lavoratore in un ruolo appunto passivo, sub-ordinato. E davvero è difficile poter considerare il lavoratore taylorista come parte di una squadra. Meglio la similitudine con esercito.

Se infatti la fabbrica è grande, sosteneva Taylor, occorrerà creare una struttura di comando apposita e la persona incaricata dell’introduzione del nuovo sistema di organizzazione dovrà destinare un suo assistente ad ognuna delle funzioni richieste dall’organizzazione. Molti di questi assistenti saranno a stretto contatto con gli operai, i quali, in questo modo, “si abitueranno gradualmente a vedere realizzate delle innovazioni; così i loro sospetti, tanto sui nuovi uomini, quanto sui nuovi metodi, saranno già talmente dissipati prima ancora dell’introduzione di ogni innovazione che li interessi da vicino, che essi non saranno più in grado di effettuare un’apprezzabile opposizione preventiva”. Ovvero, addestramento e insieme rimozione di ogni possibile opposizione/conflitto dentro la fabbrica.

E ancora: il nuovo sistema taylorista si crea grazie alla costruzione di un sapere mirato alla sostituzione “di conoscenze scientifiche alle opinioni personali dell’operaio; con la selezione e la preparazione scientifica della mano d’opera, per cui ogni lavoratore” (…) “viene esaminato, istruito, addestrato, fatto oggetto, si potrebbe dire, di un esperimento, invece di essere lasciato libero di scegliere un lavoro e di perfezionarsi in maniera fortuita; con l’intima collaborazione fra dirigenti e mano d’opera, in modo che quest’ultima esegua il lavoro secondo leggi scientifiche previamente determinate, in contrasto col sistema di abbandonare la soluzione del problema nelle mani del singolo lavoratore”.

Scriveva il filosofo francese Michel Foucault (1926-1984), citando un’ordinanza sulle esercitazioni della fanteria del 1755 - ricordando così, ancora una volta, quanto fossero (e siano) stretti i legami e le similitudini tra mondo militare e

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mondo industriale (così come tra mondo religioso e mondo produttivo, quanto a organizzazione e disciplina del tempo e dello spazio): “I soldati verranno istruiti dapprima ‘uno ad uno, poi due a due, in seguito in un numero maggiore… Per il maneggio delle armi, si avrà cura, quando i soldati saranno stati istruiti separatamente, di farlo loro eseguire due a due e di far loro cambiare posto alternativamente affinché quello di sinistra impari a regolarsi su quello di destra’. Il corpo si costruisce come elemento di una macchina multisegmentaria”. Fino all’organizzazione scientifica del lavoro. Un’autentica “rivoluzione mentale”, secondo lo stesso Taylor.

Non esente però da critiche, anche pesanti, già al tempo del suo nascere. Nel 1915, ad esempio, negli Stati Uniti, un’inchiesta sui modi di organizzare il lavoro, nota come Inchiesta Hoxie, metteva in dubbio pesantemente la scientificità del taylorismo, richiamando l’attenzione “sugli inconvenienti psicologici, morali e sociali della selezione in base al rendimento e della degradazione del lavoro qualificato” nonché della rimozione e dell’annullamento dell’intelligenza degli operai. E due anni prima, Hugo Munsterberg, uno dei precursori della psicologia industriale, aveva cominciato a ragionare sulle motivazioni psicologiche per la misurazione del rendimento operaio:

Non dobbiamo dimenticare che l’aumento del rendimento dell’industria mediante l’adattamento psicologico e il miglioramento delle condizioni psicofisiologiche non si realizza soltanto nell’interesse degli imprenditori, ma ancor più in quello dei loro addetti, il cui tempo di lavoro può essere ridotto, i salari aumentati, il livello di vita elevato. Ma soprattutto, cosa anche più importante del vantaggio materiale delle due parti, dal momento in cui il singolo può essere assegnato al posto che permette alle sue energie migliori di svolgersi e gli assicura il massimo di soddisfazione personale, è tutta la vita economica della nazione che ne deriva un vantaggio. La psicologia sperimentale dell’industria non offre idea più affascinante di questo reciproco adattamento del lavoro e dello spirito, grazie al quale l’insoddisfazione, la depressione mentale e lo scoraggiamento possono cedere il passo a una corrente di gioia e ad un’armonia perfetta tra i suoi elementi” (G. Friedmann, Problemi umani del macchinismo industriale, Einaudi).

Ovvero, un’attenzione alla psicologia del lavoratore, all’ambiente di lavoro, alle motivazioni da stimolare. Creando un lavoro meno meccanico, più intellettivo e maggiormente partecipato/partecipativo, un lavoro il più possibile vario e non monotono/ripetitivo, per cercare di mettere al lavoro l’intelligenza e non solo il corpo, per creare soprattutto un forte senso di appartenenza tra l’operaio e la sua fabbrica/luogo di lavoro/comunità. Governando la vita dei lavoratori non più solo con ordini e discipline, ma con motivazioni di senso e stimolazioni psicologiche.

E allora, avvio di una attenzione nuova all’organizzazione del lavoro, partendo dagli studi sulla fatica e sulla noia nel lavoro fordista/taylorista: perché occorreva trovare nuove motivazioni per mettere al lavoro le persone, non solo il denaro ma

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ancora di più il coinvolgimento emotivo degli individui, anche attraverso una struttura informale di relazioni interpersonali, una maggiore umanizzazione del lavoro, riempiendolo di senso e riducendo i processi di anomia e di alienazione, giocando sul senso di appartenenza ai gruppi, sulla stima di sé da potenziare e sviluppare, sull’intensificazione dei canali di comunicazione all’interno della fabbrica e su una diversa forma del collaborare definito da Taylor. E basta aprire oggi un manuale di gestione delle risorse umane per rendersi conto di quanto la conoscenza della psicologia del fattore umano sia divenuta importante per l’organizzazione del lavoro, di quanta psicologia e di quanto studio della vita dei dipendenti (come singoli e come popolazione di fabbrica) vi sia per la produzione di comportamenti funzionali all’organizzazione.

Il lavoratore – comunque, sia ieri che oggi - non crea il suo lavoro in modo individuale, soggettivo, personale, non partecipa, non co-decide, non co-gestisce il lavoro, ma semplicemente lo e-segue in modo co-ordinato; il senso del lavorare è divenuto appunto quello del collaborare: “un collaborare organizzato dall’azienda e inserito nell’azienda”, perché “il nostro fare odierno non è che un conformistico collaborare, dato che si svolge nell’ambito di complessi aziendali di cui non possiamo avere una visione d’insieme, ma che sono vincolanti per noi”, scriveva il filosofo Gunther Anders nel primo volume de L’uomo è antiquato. Lavoro come collaborazione con l’impresa, dunque; e collaborare significa qualcosa di più e di molto diverso da una semplice esecuzione passiva. L’impresa non è più solo un luogo di lavoro, ma espressione - sotto forma di lavoro - di una collaborazione. Oggi si parla addirittura di complicità (l’ex-ministro Sacconi) tra lavoratori e impresa, avendo entrambi una comunanza di interessi e di destini.

E a partire da allora, cento e più anni di psicologia del lavoro e di psicologia industriale hanno cercato di attenuare quella che veniva declinata come alienazione del lavoro, puntando a costruire luoghi, tempi e soprattutto relazioni interne ai luoghi di lavoro il più possibile meno conflittuali e sempre più collaborativi e cooperativi, puntando a costruire una crescente integrazione e soprattutto identificazione del lavoratore con la sua impresa. Elemento necessario per costruire un sistema ben funzionante di lavoro. Questo è stato il toyotismo, dove il lavoratore aveva sì ampi margini di autonomia e di responsabilità (definita auto-attivazione o autonomazione), ma dove la sua collaborazione era appunto nel senso di una identificazione quasi totale con la fabbrica, il luogo di lavoro divenendo una comunità di lavoro e non semplicemente un luogo dove si eseguiva una prestazione di lavoro.

Nel corso del tempo il fordismo-taylorismo era divenuto sempre meno efficiente: allora, ecco la ricerca di nuovi modi di produrre e di organizzare il lavoro e i lavoratori. Come il toyotismo. Modello giapponese di successo (avviato negli anni ’70) di cui in Italia ci si accorse con ritardo, solo quando l’allora (1989) ad di Fiat,

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Cesare Romiti convocò tutto il management della multinazionale torinese per lanciare l’allarme sul fallimento competitivo della Fiat a causa della eccessiva burocrazia interna, della scarsa qualità dei prodotti e dalla rigidità della tecnologia adottata. Toyotismo, ovvero: fabbrica integrata. Un modello cui la Toyota doveva il suo crescente successo: dagli 11mila veicoli prodotti nel 1950 – GM ne produceva oltre 4milioni – agli oltre 3,5milioni dalla fine degli anni ‘70. Nella sua dimensione tecnica, ricorda il sociologo Marco Revelli nella Introduzione a Lo spirito Toyota (Einaudi) di Taiichi Ohno (‘padre’ appunto del toyotismo: entrato in Toyota come impiegato nel 1932 e divenutone vicepresidente nel 1975, una vita applicata a cercare le tecniche migliori per contenere i costi e rendere sempre più flessibile la produzione), significava la cosiddetta fabbrica a sei zeri. Ma anche fabbrica che accentua l’integrazione, l’identificazione, la connessione tra loro delle parti che la compongono, soprattutto gli uomini. Toyotismo, e quindi: just in time, ciò che serve deve arrivare in linea solo al momento giusto; e autonomazione, ovvero: potere delle macchine ma anche la capacità e la possibilità, per gli operai di intervenire in tempo reale nel correggere eventuali difetti nel ciclo di produzione (ulteriore fattore di riduzione dei costi). Due sistemi organizzativi che agiscono, scrive Revelli, “attraverso un sostanziale riavvicinamento della funzione umana – del ruolo del lavoro vivo – al processo lavorativo; una sua più evidente ‘presa diretta’ con la concretezza del ciclo produttivo”. Dunque, una accresciuta messa al lavoro della mente dei lavoratori, non solo del loro corpo.

Continuità tra fordismo, taylorismo e toyotismo per almeno due aspetti, secondo Revelli. Da una parte, il sogno produttivo anche di Ford di una fabbrica sincronica, sincronizzata perfettamente. Dall’altra parte il sogno di Taylor di una forza lavoro a produttività totale. “Il mito dell’one best way taylorista aveva al proprio centro l’idea di saturare interamente la giornata lavorativa ottenendo dall’operaio il massimo della propria capacità produttiva. Ebbene, Ohno (il cui modello per il concetto di just in time erano stati i supermercati americani, con gli scaffali mai vuoi di merci, così come i macelli di Chicago erano stati il modello per Ford), non fa che trasferire questo principio dai singoli individui all’organizzazione dell’intera impresa. Egli tratta l’organizzazione esattamente come Taylor trattava gli uomini”. E’ una nuova fase, accresciuta, dell’organizzazione tecnica, dell’integrazione e della ri-com-posizione delle parti sud-divise. Perché anche nel toyotismo esiste (persiste) la sud-divisione del lavoro, ma si accresce la totalizzazione della prestazione, coinvolgendo i lavoratori in misura accentuata, rafforzando il loro senso di appartenenza (cosa, come visto, non nuova) e il loro co-involgimento emotivo/esperienziale nella produzione e nel suo controllo. Meccanismo che apparentemente sembra cancellare l’alienazione marxiana.

Non solo (Revelli ancora): “la teoria della fabbrica integrata presuppone, filosoficamente, l’idea di una struttura produttiva monistica. Di una comunità di fabbrica unificata e omologata, in cui il lavoratore deve consapevolmente e volontariamente sciogliere la propria intelligenza nel processo lavorativo, coniugando funzioni esecutive con prestazioni di controllo e di progettazione…

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Tra sistema della forza lavoro e direzione d’impresa corre una continuità culturale, esistenziale, un comune sentire, che non ammette fratture. Se la fabbrica tayloristica si fondava sul dispotismo, questa aspira all’egemonia. Se quella usava la costrizione, questa gioca sull’appartenenza”. Obiettivo: “fare dell’appartenenza all’Impresa l’unica soggettività possibile. Il rovesciamento non potrebbe essere più radicale”, secondo Revelli. Se la fabbrica deve vivere con il mercato, allora non ci si poteva affidare “ad una forza lavoro passiva. Occorreva stimolarne l’autoattivazione, coinvolgerla nella realizzazione delle politiche aziendali, politicizzare aziendalmente il lavoro direttamente produttivo. Occorreva, in una parola, esercitare egemonia sull’antico avversario di classe”. E l’egemonia è qualcosa di politico, più che di disciplinare, di mentale più che fisico. Ma lo scopo è il medesimo: controllare, governare il lavoro e le condotte/coscienze dei lavoratori.

Toyotismo. Secondo la logica della fabbrica a sei zeri, ovvero di una fabbrica che cerca di avvicinarsi all’ottenimento di: zero difetti nei prodotti, zero magazzino, zero tempi morti di produzione, zero burocrazia inutile, zero conflitto sindacale, zero tempi di attesa per il cliente.

E anche per Taiichi Ohno valeva il paragone (sempre ricorrente in termini di organizzazione del lavoro) tra impresa e una squadra di baseball: “Una grande squadra sa valorizzare i talenti individuali di ciascun elemento attraverso una giusta tattica collettiva ben coordinata. Nel baseball l’auto-attivazione corrisponde all’abilità e al talento dei singoli, mentre il just in time corrisponde al coinvolgimento della squadra nel raggiungimento della meta prefissata”. Una identità collettiva e un senso di appartenenza alla comunità di lavoro dell’impresa che in Italia ha trovato forme specifiche nelle piccole e medie imprese, nel rapporto appunto comunitario e partecipativo (quasi tra uguali) - anche se sempre subordinato e comunque all’interno di una gerarchia interna - che in esse spesso si crea tra imprenditore/padrone e dipendenti. La fabbrica dunque non è più organizzata come una caserma (così era stata definita la Fiat degli anni ’50), ma come una nazione, come un sistema in lotta con altri sistemi d’impresa e in questo sistema o apparato organizzativo tutti i suoi membri vi si devono riconoscere accettando la comune missione, quella di vincere nella grande macchina della competizione-guerra economica. Ovviamente, in un tale sistema il conflitto – individuale o sindacale – diventa qualcosa non solo di nocivo ma di perturbatore dell’ordine comunitario, e infatti uno dei sei zeri del toyotismo era appunto quello di eliminare ogni forma di conflitto interno.

Ovvero: sono mutati i modi con cui si può attivare la collaborazione tra soggetti diversi. Agendo su motivazioni diverse da quelle strettamente monetarie (vendere il lavoro in cambio di un salario, semmai lottando per accrescere questo salario e migliorare le condizioni di lavoro) e puntando su motivazioni non-monetarie ma

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relazionali, ambientali, comunitarie, arrivando a stipulare di fatto (anche se non formalmente) con i lavoratori non solo un contratto di lavoro ma un contratto psicologico, di adesione/partecipazione ai valori e/o alla mission dell’impresa.

Scrive Bauman: “Fino a pochissimo tempo fa il concetto di organizzazione era entrato a far parte dell’uso comune associato a grafici, diagrammi, organigrammi, dipartimenti, tempistiche, regolamenti: alla vittoria dell’ordine sul caos; alle quattro C (continuità, costanza, coerenza, coesione); al primato della struttura su ciò che viene strutturato, della cornice sul suo contenuto, della totalità sugli individui, degli obiettivi manageriali sul comportamento di ciò che viene gestito”. Fino a pochissimo tempo fa, perché oggi tutto sembrerebbe mutato. Oggi molte scuole di organizzazione pongono l’accento non sul management in senso stretto (basato su controllo ed efficienza), ma su un nuovo spirito imprenditoriale basato sull’esperienza “e su valori come: immediatezza, spirito ludico, soggettività e performatività”. Ancora Bauman: “Per alcuni osservatori la profonda revisione delle organizzazioni è un grande passo verso l’emancipazione e l’autonomia dei dipendenti; altri invece la presentano come un mutamento che conduce sia i subalterni sia i capi a invischiarsi e aggrovigliarsi in una rete di dipendenze generate dal lavoro. Alcuni parlano di nuovo e rilevante guadagno in termini di libertà, altri di ennesima forma di dominio, ancora più avido, spietato e diffuso; alcuni di improvviso tramonto dell’irreggimentazione e della routine disumanizzante, altri di invasione e conquista dei pochi spazi rimasti di autonomia e di riservatezza; alcuni di imminente restaurazione e affermazione dei diritti dei dipendenti all’autogestione e all’autoaffermazione, altri di un ulteriore passo verso l’esproprio delle loro caratteristiche private e personali, dei loro punti di forza e dei loro interessi. Ognuna di queste caratterizzazioni del processo, contraddittorie e in apparenza incompatibili tra loro, suona almeno in parte vera”. (Zygmunt Bauman, L’arte della vita, Laterza, 2009, pag. 161).

In realtà, la parte negativa del processo sembra essere quella più veritiera e maggiormente verosimile, ovvero: non maggiore autonomia ma eteronomia, e ancora: maggiore integrazione, interdipendenza e soprattutto aumento di potenza dell’apparato di organizzazione (quale che sia) che porta i soggetti che vi partecipano a diverso titolo a identificarsi sempre di più con l’apparato. Una sorta di relazione d’amore tra dipendente e apparato/organizzazione, anche se si tratta di una relazione intensa ma non necessariamente di lunga durata, semmai spesso liquida, sempre pronta a rompersi per ricostituirsi altrove, magari in modalità ancora più intense. Ancora Bauman: il passaggio dal lavoro-matrimonio con l’impresa al lavoro-campeggio in tempi di globalizzazione e precarietà. Una relazione in cui la collaborazione cresce di intensità, ma si tratta di una collaborazione sempre più funzionale alla competizione anche dentro all’organizzazione, che massimizza gli effetti (successo, integrazione, mission) ma a scapito delle relazioni di lungo periodo. Effetto, questo, del passaggio dal fordismo al post-fordismo, alla rete e alla wikinomics.

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Nasce di fatto un potere sui corpi e sulla vita, in questo caso dei lavoratori che si evolve nel tempo e si perfeziona, sempre secondo il già citato Michel Foucault): prima una fase disciplinare, poi quella bio-politica, due modi diversi ma non antitetici che “costituiscono piuttosto due poli di sviluppo legati da tutto un fascio intermedio di relazioni”. Il primo polo (discipline) si è formato dall’idea del corpo-macchina. Se il corpo è inteso come una macchina, infatti, allora “il potenziamento delle sue attitudini, l’estorsione delle sue forze, la crescita parallela della sua utilità e docilità, la sua integrazione a sistemi di controllo efficaci ed economici, tutto ciò è stato assicurato da meccanismi di potere che caratterizzano le discipline: anatomo-politica del corpo umano. Il secondo, che si è formato un po’ più tardi, verso la metà del XVIII secolo, è invece centrato sul corpo-specie, sul corpo come vivente: la procreazione, la nascita, la mortalità, la salute, la durata di vita”; il loro controllo, il loro governo si realizza “attraverso tutta una serie di interventi e di controlli regolatori: una bio-politica delle popolazione. Le discipline del corpo e le regolazioni della vita sono i due poli attraversi i quali si è sviluppata l’organizzazione del potere sulla vita”. Le istituzioni mediante le quali si sviluppa e si diffonde il potere disciplinare sono soprattutto la scuola, l’ospedale, l’esercito, l’officina, la prigione. Qui, secondo Foucault, nasce una nuova meccanica del potere, “che verte soprattutto sui corpi e su quel che essi fanno”. Ovvero: addestrare all’uso delle armi e alla disciplina di reparto nel caso dell’esercito, fare di una classe di allievi della scuola un insieme disciplinato e ordinato, fare di una officina un luogo e un tempo in cui ciascuno abbia il proprio ruolo, la propria posizione, i tempi di esecuzione del lavoro di produzione, fare della prigione un luogo di sorveglianza e di rieducazione. “Si tratta di un meccanismo di potere che permette di estrarre dai corpi tempo e lavoro, un tipo di potere che si esercita continuamente attraverso la sorveglianza e non in maniera discontinua, per mezzo di sistemi di tassazione e obbligazioni distribuite nel tempo; che suppone un fitto reticolato di coercizioni materiali, più che l’esistenza fisica di un sovrano, e definisce una nuova economia del potere che si fonda sul principio secondo cui si devono far crescere contemporaneamente le forze assoggettate e la forza e l’efficacia di ciò che le assoggetta”. Ovvero, a scuola il maestro è importante, ma lo è anche l’insieme delle regole da rispettare e il modo dell’insegnamento; in fabbrica, il padrone è uno, ma nel lavoro il potere viene esercitato mediante le regole che lo organizzano (suddivisione, successione delle fasi, attrezzi da usare, compiti da svolgere, ecc.); in ospedale, ogni malato è classificato, analizzato, curato e lo stesso ospedale è organizzato fisicamente in un certo modo (stanze, sale operatorie, isolamento); lo stesso in prigione. Il corpo deve diventare qualcosa di utile e di produttivo (non solo in termini economici) e questo è possibile solo quando è assoggettato. Questo assoggettamento o subordinazione affinché diventi utile e docile, è possibile sia in modo violento e duro, con la forza, col terrore o con le armi; sia in modi molto più calcolati, verbali, persuasivi. Il potere diventa un esercizio del potere. Non è un possesso su qualcosa/qualcuno ma una strategia di organizzazione dei corpi (esercito, fabbrica,

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scuola, prigione). Una strategia di organizzazione che passa attraverso due fasi, tra loro complementari: l’individualizzazione, la suddivisione del lavoro e delle mansioni, la separazione di fatto dei lavoratori tra loro, ciascuno assegnato ad un posto determinato, appunto nella logica ferrea della suddivisione del lavoro vista sopra; e poi la totalizzazione, ovvero la ricomposizione delle parti e del loro lavoro (uomini e macchine) prima separate, in qualcosa che sia superiore alla semplice somma delle parti. Ogni forma di organizzazione riproduce di fatto questa modalità, sia la vecchia catena di montaggio così come oggi la rete.

La microfisica del potere (come la definisce sempre Foucault) è fatta di “disposizioni, manovre, tattiche, tecniche, funzionamenti”. Che producono una rete di relazioni sempre tese, sempre in attività, sempre più coinvolgenti. Queste relazioni, questa rete di relazioni/rapporti/connessioni entrano in profondità all’interno della società, non sono localizzate unicamente nel rapporto tra lo Stato e i cittadini. Questo potere è diverso ad esempio dal potere della legge emanata dal potere sovrano: le regole dell’organizzazione del lavoro, dell’esercito o degli ospedali sono diverse da quelle aventi valore di legge, spesso persino più forti e cogenti. Il diritto può persino essere aggirato/violato dalle pratiche disciplinari (in fabbrica il diritto entra a regolare i rapporti di lavoro in via generale, non particolare e non agisce sulla norma che regola l’organizzazione; nell’esercito lo stesso, eccetera). Tuttavia, diritto e discipline sono complementari. Così come sono complementari le politiche disciplinari e le bio-politiche, ovvero (sintetizzando) l’azione sui corpi e il governo della vita messa al lavoro.

Dalla fase disciplinare all’epoca del bio-potere, del potere che non solo disciplina, ma che governa la vita. “Dal lato della disciplina, si tratta di istituzioni come l’esercito o la scuola; di riflessioni sulla tattica, sull’apprendimento, sull’educazione, sull’ordine della società. Dal lato delle regolazioni di popolazione si tratta di demografia, di stima del rapporto tra risorse e abitanti, di circolazione delle merci e delle ricchezze, ecc. Ovvero, in primo luogo, di natalità, morbilità, abilità e ambiente.

Questo bio-potere, secondo Foucault, è stato inoltre uno degli elementi indispensabili allo sviluppo del capitalismo, esso stesso definibile come biopolitica (e prima ancora come disciplina) avendo come obiettivo il governo (la governamentalizzazione), la manipolazione e l’orientamento (valori, scopi, relazioni, comportamenti) della vita individuale e sociale. Questo grazie all’inserimento “controllato dei corpi nell’apparato di produzione, e grazie ad un adattamento dei fenomeni di popolazione ai processi economici. Di più: gli è stata necessaria la crescita degli uni e degli altri, il loro rafforzamento come la loro utilizzabilità e la loro docilità”… per maggiorare le forze, le attitudini, la vita in generale, senza renderle più difficili da assoggettare.

“Se lo sviluppo dei grandi apparati di Stato, come istituzioni di potere, ha assicurato il mantenimento dei rapporti di produzione, i rudimenti di anatomo e di bio-politica inventati nel XVIII secolo come tecniche di potere presenti a tutti i livelli del corpo sociale e usati da istituzioni molto diverse (la famiglia come l’esercito, la scuola o la polizia, la medicina individuale o l’amministrazione delle

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collettività) hanno agito a livello dei processi economici, del loro sviluppo; hanno operato anche come fattori di gerarchizzazione sociale, garantendo rapporti di dominazione ed effetti di egemonia; l’adeguarsi dell’accumulazione degli uomini a quella del capitale; l’espansione delle forze produttive” e il crescere della popolazione; “la ripartizione differenziale del profitto” – tutto questo è stato possibile in parte grazie al nuovo bio-potere. Che appunto trasforma progressivamente lo Stato, il sovrano, da ciò che controlla un territorio (la sovranità) a ciò che governa (la governamentalità) una popolazione.

Ed è la stessa logica che si svilupperà poi nella rete, nell’economia della conoscenza, nel capitalismo cognitivo. Grazie proprio all’estensione della forma reticolare, in cui le gerarchie sviluppate sono tutte interne ai singoli nodi e tra i diversi nodi della rete. Il dispositivo di comando di foucaultiana memoria” – sostiene l’economista Andrea Fumagalli, richiamando le discipline di Foucault – “imposto dall’esterno tende ad essere sempre più internalizzato dagli individui”. Perché la standardizzazione delle procedure comunicative tramite strumenti informatici ha di fatto comportato, e non poteva non comportare “una sorta di taylorizzazione della prestazione intellettuale”, anche se questo non può essere esteso a tutte le attività. Perché il controllo dei lavoratori è concetto centrale, imprescindibile di tutte le forme di organizzazione del lavoro (di ogni organizzazione comunque). E oggi le tecnologie dell’informazione e della comunicazione (Fumagalli) “permettono non solamente di sorvegliare i comportamenti, le realizzazioni e i risultati dei lavoratori, ma anche di sopprimere a poco a poco tutti gli spazi fuori dal controllo, indebolendo la separazione tra lavoro e tempo libero, tra vite pubbliche e private. (…) Nei settori emblematici della nuova economia, la decentralizzazione delle responsabilità, la polivalenza e il lavoro in squadra non tendono in alcun modo a diminuire la pressione sui salariati. Al contrario invece, queste tendono ad appesantirsi”.

La rete – se applicata al lavoro, al consumo, al divertimento - connette i molti nodi disseminati ovunque, è luogo integrato e di integrazione di produzione e di consumo, legando compiti e funzioni. La rete, come modello/metafora di organizzazione non abolisce la catena di montaggio ma la estende e la rende globale passando dal lineare al reticolare. La rete – il concetto di rete - è molto più antica di Internet. E anche nella rete esiste una struttura gerarchica a piramide, la rete non abolisce le gerarchie, le imprese globalizzate hanno specifiche catene/piramidi di comando. La piramide del potere gerarchico non è stata cancellata dalla rete. Semmai è (forse solo apparentemente) meno alta rispetto al passato, la base è forse più larga, ma sempre di piramide si tratta. Per gestire la complessità, i modelli di organizzazione a rete devono accrescere il loro controllo e la loro inter-dipendenza. Lo dimostrano le strategie di organizzazione aziendale, sempre più giocate sulla finzione dell’autonomia funzionale delle strutture/divisioni; sulla presunta de-strutturazione dell’organizzazione centralistica e centralizzata e sulla sua ri-organizzazione attraverso la divisione delle imprese in combinazioni prodotto/mercato il più possibile indipendenti; sulla (ancora presunta) delega di responsabilità a unità specializzate per prodotto e per

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mercato; sul decentramento e sulla forma orizzontale/reticolare per le diverse divisioni funzionali create all’interno dell’impresa.

Oggi, dunque: economia della conoscenza, capitalismo cognitivo, capitalismo intellettuale. Evoluzione della precedente società o economia dell’informazione. Per un capitalismo di nuovo tipo, che vive attraverso l’esplicitazione del nesso tra sapere, produzione e profitto, mettendo al lavoro e a profitto la conoscenza. La conoscenza diventa così il vero valore aggiunto, cessa di avere un valore d’uso (conoscere, sapere), per acquisire un valore di scambio, tanto maggiore quanto più la conoscenza è sfruttabile economicamente, ovvero quanto più questa conoscenza è utile al processo economico e/o finanziario. Una conoscenza – qualcosa di immateriale che designa questa nuova forma di lavoro immateriale - che transita soprattutto attraverso la rete, ma non solo, potendo essere acquisita e messa al lavoro nelle forme più diverse, per esempio attraverso la figura del prosumer (il consumatore che diventa parte del processo produttivo o commerciale del produttore, dando consigli, opinioni, critiche, eccetera, di fatto integrandosi nel processo di produzione/consumo), o attraverso le brand community. Quello che è certo è che questa economia della conoscenza o questo capitalismo cognitivo/intellettuale necessitano di una forte retorica della condivisione, senza la quale non si genererebbe questa possibilità di acquisire conoscenza e competenze utili a generare profitto. Una condivisione quindi (e ancora) non tra soggetti che liberamente condividono le loro conoscenza, ma indotta dall’organizzazione d’impresa per poter acquisire conoscenza anche senza pagarla. Ultima annotazione: ovviamente questa conoscenza è solo quella utile a produrre profitto. La conoscenza giudicata inutile per questo scopo viene invece progressivamente emarginata e appunto considerata inutile (come l’arte, la filosofia, la storia, la poesia, gli studi classici, eccetera).

Capitalismo cognitivo o intellettuale che si baserebbe su questi elementi:

il capitale umano, cioè le persone che detengono e generano le conoscenze; il capitale di relazione, ovvero l’insieme delle relazioni interne che i singoli individui costruiscono per raggiungere prestazioni di ordine superiore; il capitale strutturale, che rende efficaci ed efficienti gli elementi organizzativi e tangibili più immediatamente utilizzabili per produrre; e, da ultimo, il capitale sociale, cioè l’insieme delle reti relazionali che si creano con l’esterno” (A. Deiana, Il capitalismo intellettuale, Sperling & Kupfer).

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Le reti (le vecchie reti ferroviarie, stradali, aeree, gli oleodotti e i gasdotti, tutte reti) e le relazioni sociali sono ovviamente sempre esistite, ma la rete oggi consentirebbe nuove possibilità di espansione/connessione. Internet, infatti sarebbe un insieme di pezzi diversi, gestiti da soggetti anch’essi diversi, unificata solo da uno standard comune di trasmissione e di connessione. Mentre un sistema è relativamente facile da costruire e da far funzionare, una rete non lo è, perché le reti sarebbero composte da individui, da parti singole, che rivendicherebbero una propria auto-nomia, difficile (se non impossibile) da tradurre in sistema.

IIll llaavvoorroo aall tteemmppoo ddeellllaa rreettee.. RReettii vveecccchhiiee ee nnuuoovvee..

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Dunque, la rete sarebbe più libera, più democratica, più auto-noma rispetto al sistema/apparato, modello che fino ad oggi avrebbe determinato la costruzione di ogni modello organizzativo. Per cui ieri si diceva che un’impresa, uno stato, una nazione dovevano fare sistema. Mentre oggi prevarrebbe la logica della rete, del fare rete. In realtà anche la rete è un apparato tecnico, che cresce sempre di più (principio di auto-accrescimento); dominato anch’esso dalla regola: se si può fare si deve fare; fondato sulla standardizzazione (windows, motori di ricerca e informazioni on line), semplificazione (sms, Twitter), individualizzazione (ciascuno davanti al pc, solitario anche se connesso) e soprattutto connessione, legare insieme, collaborazione tra le parti. Perché la rete individualizza, produce qualcosa forse di simile al solismo indicato da Anders, ma poi, come ogni apparato deve connettere, integrare, totalizzare. La rete esiste grazie a questa connessione/integrazione di tutti in rete. Ponendo una serie di problemi alla libertà degli individui, alla democrazia come la si è costruita nel tempo. Perché ogni società nasce dalla collaborazione e dalla condivisione di cose, idee, processi tra gli uomini che la compongono, ma questa collaborazione e condivisione è una scelta, più o meno consapevole; in rete, sembra che sia invece lo stesso apparato/rete a determinare/produrre questa collaborazione/condivisione.

La struttura delle reti determina dunque anche il comportamento globale e sociale di chi vi partecipa. E allora, anche la rete sembra fare sistema: è un sistema, dove vige sempre la logica del sud-dividere per poi ri-comporre, del bringing together di tayloristica memoria, dell’integrazione delle parti. La rete, se è tale, è fatta di connessioni, la stessa metafora dei nodi definisce una struttura comunque legata insieme, connessa, integrata nelle sue diverse parti/nodi. In fondo, non molto diversa dalla logica del sistema. E anche la rete ha un disegno prestabilito, che è dato dall’architettura complessiva della rete stessa, talmente perfetta ed auto-referenziale (che sempre conferma se stessa) che è possibile legare sempre nuove connessioni/nodi senza che il disegno complessivo venga meno, anzi, disegno/rete che anzi si rafforza integrando a sé ogni nuova connessione, ogni nodo della rete.

Inoltre, anche la rete è fatta da parti separate. Semmai, ancor più separate/sud-divise rispetto al sistema classico del fordismo e del toyotismo. La distanza reale tra le parti (si può essere connessi con altre parti distanti molti chilometri) è superata dalla loro vicinanza nel virtuale, in questo ambiente artificiale che è la rete, luogo immateriale dove però si svolge la maggior parte del lavoro, dove oggi si forma la maggior parte dei legami, delle relazioni sociali. Cancellando la vicinanza fisica, la rete crea una vicinanza virtuale, ma questa vicinanza è fatta da distanze reali tra i diversi soggetti della rete (manca il contatto fisico, non si è di fronte agli altri, si può alterare la propria identità, una vicinanza virtuale è diversa da una vicinanza fisica). Se la televisione, secondo Anders, portava il mondo di fuori nella casa di ciascuno, questo meccanismo si è ulteriormente accentuato con la rete. Se la tv era essenzialmente una ricezione passiva di questo mondo esterno, con la rete crescerebbe invece l’attività e la partecipazione attiva (con la rete si comunica,

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attraverso la rete si dialoga), ma cresce soprattutto l’illusione della partecipazione attiva, tra soggetti sempre più solistici (Anders), distanti, separati. E difficilmente, con la rete, l’ampiezza del movimento o della comunità (la connessione tra uguali) che si crea riesce a superare certe dimensioni, come dimostrano molti movimenti sociali o di protesta nati in rete ma lì rimasti, senza una vera capacità di incidere sulla realtà-reale. La logica del solismo - ciascuno a casa propria, ciascuno davanti al proprio pc, e quindi individualismo senza capacità di essere in-comune, rimozione dei legami e delle connessioni fisiche, assenza di capacità progettuale a medio-lungo termine sopraffatta dalla istantaneità di cui vive la rete - blocca o limita ogni possibilità di organizzazione fisica e reale della società, che sempre più rimane in una condizione virtuale.

La rete è allora definibile come un insieme di nodi tra loro interconnessi. Sempre interconnessi, perché la rete vive solo se ciascun nodo è continuamente connesso, se è in rete con gli altri, sempre e ovunque. Termine che, accanto a quello di condivisione rappresenta ed esprime il senso e allo stesso tempo il funzionamento della rete, dove quindi massima dovrebbe essere la fiducia tra i soggetti/nodi, fiducia senza la quale ogni forma di cooperazione e soprattutto di condivisione verrebbe meno (ma con il paradosso per cui nella società reale di oggi, minima è la fiducia esistente tra i soggetti che vi partecipano, mentre massima sarebbe la fiducia in rete, tanto alta questa fiducia da portare i soggetti/nodi a rinunciare anche alla stessa privacy).

Il valore di scambio – e il valore di scambio che la rete permette di ottenere – è assai elevato. Altrettanto elevato sembrerebbe essere anche il suo valore d’uso, anche se questo valore d’uso viene sopraffatto sempre più dal valore di scambio o meglio dal valore di connessione che la rete permette (più alto è il numero dei soggetti in rete/in community, maggiore è il valore di scambio dei dati e delle informazioni esistenti – e Facebook non è un social network, ma un business network, per il numero di profili che riesce a vendere alle imprese interessate a profilare meglio, ad esempio, i consumatori).

La distinzione tra valore d’uso e valore di scambio è stata definita da Adam Smith e soprattutto da Karl Marx. Per valore d’uso si intende che i beni o i servizi prodotti servono a soddisfare (è il loro uso) i bisogni dell’uomo. Ovvero, l’uomo – i suoi bisogni, le sue necessità – è il fine verso cui si organizza la produzione di cose, beni, servizi. Le cose, i beni servono all’uomo. Sono mezzi per soddisfare un bisogno (il fine). E scopo del lavoro è appunto la soddisfazione dei bisogni umani. La cooperazione e la collaborazione tra soggetti diversi nasce dalla necessità di dividersi il lavoro per soddisfare determinati bisogni attraverso la produzione di determinati beni. Il cui valore è dato dall’uso per il quale vengono costruiti. Il valore di scambio rovescia questo rapporto tra mezzi e fini: con il sistema di mercato il valore di scambio prevale sul valore d’uso e il valore di beni/merci e servizi è dato dalla loro capacità di produrre denaro/profitto. I beni non servono più principalmente per soddisfare i bisogni dell’uomo ma per la produzione di denaro. E per questo, anche i bisogni possono

VVaalloorree dd’’uussoo ee vvaalloorree ddii ssccaammbbiioo..

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essere prodotti e indotti. Il valore di un bene non è dato dal suo uso ma dal denaro che genera il suo scambio. Per cui (esempio classico): una patata ha un alto valore d’uso ma un bassissimo valore di scambio, mentre un diamante ha un bassissimo valore d’uso ma un elevatissimo valore di scambio (oltre che di identità e di posizionamento sociale). Il lavoro – e la sua divisione e il collaborare e cooperare tra gli uomini per produrre qualcosa di utile a soddisfare bisogni - diventa allora qualcosa di funzionale alla massimizzazione del valore di scambio, non del valore di uso. Ma in questo modo anche l’idea del collaborare e cooperare muta e cessa di essere qualcosa di finalizzato ad uno scopo di uso acquisendo la funzione di produrre un elevato valore di scambio. Il lavoro cessa di essere una relazione sociale finalizzata alla produzione di cose utili per il loro uso e diventa un’attività organizzata e finalizzata alla produzione di valore di scambio. Ma in questo modo, secondo Marx, anche i rapporti sociali mutano, in quanto ogni persona entra in relazione con gli altri solo in quanto produttore o consumatore, ovvero in base al suo ruolo all’interno del meccanismo di creazione di valore di scambio. Anche il lavoro tende a diventare una merce, sottoposta alla massimizzazione del valore di scambio. E il valore della vita delle persone è data dal valore di scambio delle cose che possiedono (le cose valgono per se stesse e per il valore di scambio che le persone attribuiscono loro, non per l’uso cui sono destinate e non per il bisogno che devono soddisfare). L’inutilità diventa un vizio, l’utilità accresce il valore.

IIl modello della rete informatica tende (o meglio tendeva) a produrre questi effetti: ogni nodo aveva un proprio potere rispetto al centro ipotetico della rete; le gerarchie tendevano a perdere di importanza; la rete produceva (H. Rheingold) delle forme comunitarie, piccoli sistemi sociali (o ecosistemi) dove vengono create delle esperienze reali, grazie anche alla costruzione di forti identità comuni. Inoltre, forte sarebbe il capitale sociale, ovvero la capacità di accogliere nella comunità anche gli sconosciuti (a differenza delle comunità reali, che invece tendono ad escludere/emarginare il diverso dagli identici della comunità) e il sapere diffuso e condiviso; e diffusi sarebbero inoltre il capitale di conoscenze e la comunione sociale, ovvero la tendenza a sostenere gli altri in caso di bisogno.

 

Se queste erano le premesse su cui è stata poi costruita la grande retorica della rete come luogo aperto, democratico, creativo, partecipativo, comunitario, gli avvenimenti successivi e specialmente i primi dieci anni del nuovo secolo hanno dimostrato che la rete ha attraversato invece processi in gran parte diversi: il capitale sociale si è ridotto al crescere di un comunitarismo di rete sempre più chiuso e auto-referenziale; il trionfo del business in rete ha trasformato la rete da luogo di conoscenza da condividere e quindi accrescere mediante collaborazione e condivisione a luogo degli affari, con la trasformazione della rete da mondo sempre aperto e libero a mondo sempre più privatizzato e orientato al profitto, chiuso tra uguali/identici (i motori di ricerca che controllano l’informazione di massa, le grandi società che fanno profitto soprattutto attraverso il mondo delle app, e la privatizzazione della conoscenza diffusa - quella che Pierre Levy aveva definito, utilizzando un concetto di

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Marx, intelligenza collettiva della/nella rete, intelligenza oggi sempre meno collettiva e sempre più privatizzata; e infine, la costruzione di comunità chiuse e non aperte come invece immaginato agli inizi della rete.

 

Ancora l’idea di intelligenza collettiva: secondo il filosofo della rete Pierre Levy, la rete avrebbe permesso – potenza del medium – di avere una intelligenza - ovvero una conoscenza – distribuita, appunto collettiva, continuamente aggiornata e a disposizione di tutti in tempo reale. Dove ciascuno sarebbe nello stesso tempo emittente e ricevente di informazioni/conoscenze. Offrendo la possibilità di costruire in modo cooperativo un contesto comune, un discorso comune, una memoria comune.

 

L’evoluzione degli ultimi anni ha evidenziato che questa intelligenza collettiva è in realtà mal distribuita, che alcuni producono informazione e altri ne sono fruitori passivi, che le retoriche della cooperazione/condivisione nascondono in realtà nuove gerarchie, nuove subordinazioni e che anche in rete si riproduce la tradizionale divisione del lavoro di stampo fordista, semmai accentuandone le forme e le modalità di organizzazione (individualizzazione del lavoro e sua totalizzazione nella rete-apparato), portando a definire correttamente la rete come una evoluzione della vecchia catena di montaggio e quindi il nuovo sistema di organizzazione introdotto recentemente alla Fiat (Wcm) come la vecchia catena di montaggio con l’aggiunta della rete.

Il lavoro è sempre stato, nella modernità iniziata poco più di due secoli fa, il fattore principale per la creazione di società. Tanto importante il lavoro e soprattutto la sua organizzazione industriale, che la società viene definita soprattutto in termini di lavoro: società fordista, poi post-fordista, oggi a rete. Avere un lavoro, a torto o a ragione, spesso viene inoltre identificato con l’essere cittadini, con l’essere soggetti sociali – arrivando, con la Costituzione italiana a definire la stessa Repubblica come democratica in quanto fondata sul lavoro.

Il lavoro ha definito l’identità, il carattere sociale, la forma non solo della società ma anche degli individui, ciascuno riconoscibile socialmente e posizionato socialmente solo se lavoratore e in base al lavoro svolto (si è ciò che si fa o non fa). Quella che è stata definita da Zygmunt Bauman appunto come modernità pesante – la società del lavoro fordista, stabile, dove il conflitto tra capitale e lavoro non escludeva comunque una sorta di matrimonio di interesse tra il capitale e lo stesso lavoro – ovvero un luogo/tempo per la costruzione di un determinato senso sociale – di valori, di appartenenza, di scopo comune, di identità – mediato e costruito appunto dal lavoro e dal lavoro in fabbrica. E per tutti i 30 anni seguiti alla seconda guerra mondiale l’obiettivo della piena occupazione, del lavoro come diritto e dei diritti sociali da accrescere anche e soprattutto all’interno dei luoghi di lavoro era stato un obiettivo comune e largamente condiviso sia della

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componente liberale del quadro politico europeo (William Beveridge e John Maynard Keynes), sia di quella cristiano-sociale (la Dc in Italia e la Cdu-Csu in Germania), sia di larga parte della sinistra anche comunista e del movimento sindacale europeo. Il cosiddetto post-fordismo, la produzione snella, la modernità che passerebbe da pesante a liquida (in cui cioè tutto ciò che prima era stabile e duraturo diventa instabile, mobile, liquido appunto) soprattutto la rete informatica e la possibilità di connettere facilmente e velocemente individui e spazi geografici, di impresa, ma anche spazi sociali prima lontani tra loro, e poi la globalizzazione e poi ancora la finanziarizzazione dell’economia hanno dunque modificato radicalmente il modo di essere dell’economia e del lavoro. E per quanto l’organizzazione del lavoro sia sempre sostanzialmente basata – come visto - anche nel post-fordismo e nella rete sui criteri classici e immutabili del lavoro moderno-industriale, ovvero sulla suddivisione del lavoro e sulla sua successiva totalizzazione/ricomposizione in un apparato di produzione maggiore, le forme dell’organizzazione del lavoro sono profondamente mutate, a loro volta rovesciando come un guanto la stessa società costruita sulla precedente modalità di lavoro fordista. Se ieri il lavoro era un diritto, oggi non lo è più; se i diritti sociali erano un vanto delle società europee oggi sono considerati un ostacolo alla competitività globale e alla flessibilizzazione della produzione e del consumo; se ieri la disuguaglianza era un problema da risolvere, oggi è lo scopo della nuova organizzazione del lavoro e delle politiche pubbliche dei governi europei (disuguaglianze crescenti); se ieri il liberale inglese William Beveridge diceva (1942) che nel rapporto di lavoro si deve difendere sempre la parte debole, cioè il lavoratore, oggi le politiche pubbliche e la dottrina economica sostengono che a dover essere difesa è la parte forte del rapporto, ovvero l’impresa. Fondare una democrazia sul lavoro come diritto ha oggi una significato decisamente diverso, quasi incomprensibile rispetto al 1948 – tanto è mutato il senso comune o il modo di intendere il lavoro, la cittadinanza, l’essere in società - e anzi sembra che questo principio fondativo (quindi fondamentale) sia stato del tutto dimenticato, capovolto e il lavoro sia meno protetto perché questo chiedono imprese e mercati e mass media – e paradossalmente è meno protetto in misura crescente al crescere della gravità della crisi sociale.

Premesso che appare molto difficile, come anticipato, parlare di nuovo lavoro e di post-fordismo – nonostante le molte retoriche sul nuovo che sarebbe intervenuto negli ultimi trent’anni, come new-economy, net-economy, wikinomics, capitalismo cognitivo/intellettuale, lavoro immateriale, eccetera – in realtà i nuovi modi di lavorare anche in rete non sembrano essere così diversi dai vecchi modi di lavorare alla catena di montaggio o in quella che appunto Zygmunt Bauman ha definito modernità pesante (vedi anche oltre, paragrafo su Amazon). La distinzione comunemente accettata da economisti e sociologi tra fordismo (il vecchio) e post-fordismo (il nuovo) sembra essere contraddetta dai fatti.

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1) flessibilizzazione del mercato del lavoro e nell’utilizzo del lavoro e dei lavoratori (contratti atipici ormai diventati tipici, flessibilità spesso confusa con precarietà, de-localizzazioni, esternalizzazioni, subappalti, lavoro finto-autonomo, collaborazioni a progetto, agenzie interinali, eccetera);

2) just-in-time come regola anche per l’utilizzo della forza lavoro; 3) allungamento degli orari di lavoro e intensificazione dei ritmi di lavoro (contraddicendo la

tendenza quasi secolare alla riduzione degli uni e degli altri) – per chi un lavoro lo ha; 4) spostamento del rischio - legato ai cicli economici e all’andamento del mercato - dall’impresa al

lavoratore; 5) riduzione – come effetto/conseguenza del punto 1) - del ruolo/potere delle organizzazioni

sindacali, riduzione dei diritti sindacali e politici all’interno dei luoghi di lavoro e recupero di potere/autorità sul mercato del lavoro e sulla sua organizzazione interna da parte dell’impresa (meno concertazione, maggiore collaborazione/subordinazione verso l’impresa, meno spazi sindacali – Fiat come modello di riferimento);

6) tendenza - per il mutamento di cui al punto 5) - alla perdita di importanza/ruolo del contratto collettivo di lavoro, in favore del contratto aziendale o individuale (ancora: individualizzazione del rapporto di lavoro);

7) spostamento del baricentro politico e sociale dal lavoro come diritto e come fondamento della stessa democrazia (Italia) al lavoro come merce; e passaggio dal principio per cui il lavoro ha/sia un valore in sé al principio per cui il valore del lavoro è il suo valore di scambio (per di più tendente al ribasso – con l’ultima crisi, molti paesi europei non potendo più svalutare le loro monete nazionali, oggi sostituite dall’Euro, hanno di fatto svalutato il lavoro e il reddito da lavoro, cercando così di recuperare competitività);

8) spostamento delle retoriche sociali e del senso comune condiviso dal lavoro dipendente (il passato) all’essere imprenditori di se stessi e a fare da sé (il nuovo), anche se spesso l’essere imprenditori di se stessi è solo una maschera a nuove forme di di-pendenza e di sub-ordinazione all’impresa committente;

9) competizione al ribasso sul costo del lavoro, come effetto della globalizzazione e con messa in competizione dei lavoratori dell’occidente con i lavoratori a basso/bassissimo costo del resto del mondo e tra lavoratori dello stesso occidente (punto 7);

10) riduzione dello stato sociale e della sua azione a favore del lavoro e della (tendenza alla ricerca della) piena occupazione; spostamento verso il principio della sussidiarietà, della privatizzazione anche delle prestazioni sociali;

11) riduzione dei redditi da lavoro, riduzione generale dei redditi: secondo dati Ocse, nel periodo 1976-2006, quindi pre-crisi, la quota salari, cioè l’incidenza sul Pil dei redditi da lavoro si è generalmente abbassata, calando in media di dieci punti (dal 68 al 58% del Pil; in Italia ancora di più, scendendo al 53%) per i quindici paesi più ricchi appartenenti alla stessa Organizzazione. Lo spostamento è stato a vantaggio della rendita finanziaria e ai profitti, solitamente tassati meno del lavoro dipendente;

12) frammentazione del mercato del lavoro in una molteplicità di mercati del lavoro - ancora punto 1); in particolare: mercato del lavoro di conoscenza/immateriale da un lato, mercato del lavoro di bassa qualità dall’altro, più mercato del lavoro precario/in nero;

13) ampliamento delle disuguaglianze sociali e di reddito [vedi punti 7) e 11)], re-distribuzione del reddito non più dall’alto verso il basso (lo stato sociale, i diritti sociali, l’ampliamento del ceto medio, la diffusione del benessere nei 30 anni seguenti al 1945) ma dal basso verso l’alto, mediante sistemi fiscali che hanno privilegiato la riduzione delle tasse ai ricchi come spinta a (o come speranza di) un aumento degli investimenti (cosa non accaduta, se non per l’investimento finanziario e speculativo);

14) disarticolazione delle vecchie classi sociali, impoverimento del ceto medio e di quella che un tempo era la classe operaia e nascita della cosiddetta superclasse dei ricchi;

15) abbandono dei giovani a una condizione prevalente di precarietà (di lavoro e di vita, come evidenziato dal tasso di disoccupazione);

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16) riduzione dell’investimento in conoscenza e in sapere, sia pubblico che da parte delle imprese (nonostante le retoriche insistite sulla società della conoscenza), tagli all’istruzione e all’Università;

17) per l’Italia, competizione giocata soprattutto sulla riduzione del costo del lavoro, molto meno sulla capacità di innovazione e di investimento in ricerca e sviluppo delle imprese.

Flessibilità: è la parola che da almeno tre decenni definisce le nuove esigenze del mercato del lavoro. In Europa e nel mondo, in particolare in Italia dove, a detta di molti, questo mercato sarebbe troppo rigido e poco (appunto) flessibile. Se il mercato diventa sempre più flessibile, con la globalizzazione e la competizione globale e se l’offerta deve adattarsi sempre più velocemente alla domanda in modo rapido e veloce (senza chiedersi però chi determina la domanda e come), allora a sua volta deve esserlo anche il mercato del lavoro: così però rovesciando la logica e la distinzione tra mezzi e fini che aveva dominato le società occidentali per gran parte del ‘900, ovvero, l’economia e il mercato erano mezzi per la società e non viceversa come accade oggi quando è al lavoro e alle persone che si chiede di adattarsi (di essere mezzo) per assecondare le mutate condizioni del mercato (il fine). Il termine flessibilità, in verità, contiene molte facce, alcune positive (essere flessibili, non irrigidirsi davanti al nuovo, accettare il cambiamento e insieme produrlo) e alcune negative (la flessibilità che diventa sinonimo di precarietà, di insicurezza, di rischio non calcolabile, di impossibilità di pensare al domani).

Secondo il sociologo Luciano Gallino, “si usano definire flessibili, in generale, o così si sottintendono, i lavori o meglio le occupazioni che richiedono alla persona di adattare ripetutamente l’organizzazione della propria esistenza – nell’arco della vita, dell’anno, sovente del mese o della settimana – alle esigenze mutevoli della o delle organizzazioni produttive che la occupano o si offrono di occuparla, private o pubbliche che siano. Tali modi di lavorare o di essere occupati impongono alla gran maggioranza di coloro che vi sono esposti per lunghi periodi un rilevante costo umano, poiché sono capaci di modificare o sconvolgere, seppure in varia misura, oltre alle condizioni della prestazione lavorativa, anche il mondo della vita, il complesso dell’esistenza personale e familiare” (Gallino, Il lavoro non è una merce, Laterza, 2007).

Per definire meglio il processo, Gallino distingue tra flessibilità dell’occupazione e flessibilità della prestazione. La prima consiste, appunto in una sorta di just-in-time delle risorse umane, “nella possibilità, da parte di un’impresa, di far variare in più o in meno la quantità di forza lavoro utilizzata, possibilità che si realizza ovviamente quanto maggiore è la facilità di licenziare o di occupare salariati con contratti atipici e di breve durata”. La flessibilità della prestazione si riferisce invece “all’eventuale modulazione, da parte dell’impresa, di vari parametri” quali “l’articolazione differenziale dei salari, praticata per ancorarli ai meriti individuali o alla produttività di reparto o di impresa, la modificazione degli

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orari, il lavoro a turni, gli orari slittanti, quelli annualizzati, l’uso degli straordinari”.

La richiesta di una sempre maggiore flessibilità è una conseguenza anche del processo di organizzazione in rete e a rete dell’economia, dalla produzione ai servizi al consumo, alla finanza. Ma anche di un diverso modo di operare dell’impresa nei confronti della società: anche qui si assiste ad un rovesciamento delle pratiche che a lungo hanno dominato il secolo scorso, quando l’impresa – in quando soggetto forte e soprattutto dotato di risorse non solo tecnologiche ma anche finanziarie - si assumeva appunto il rischio d’impresa, rischio che ora invece è stato trasferito in gran parte sull’esterno e in particolare sui lavoratori, pensati come soggetti di pari potere contrattuale con l’impresa anche quando non lo sono (e lo sono sempre meno proprio in conseguenza dei processi di flessibilità): “oggi la quasi totalità delle imprese” – ancora l’opinione di Gallino – “reputa e anzi teorizza che non spetti a loro occuparsi del destino di chi perde il lavoro o subisce lunghi periodi di non occupazione. La loro prima preoccupazione è la competitività. A porre rimedio alla precarietà dell’occupazione debbono pensare lo Stato, gli enti locali, il terzo settore – ma in primo luogo la persona interessata. I lavori flessibili da un lato riflettono, dall’altro contribuiscono a siffatto trasferimento di responsabilità”. La flessibilità, altrove, è stata costruita mettendo in campo anche adeguate reti di protezione sociale – come in Danimarca secondo il modello della flexsecurity – cosa che in Italia non è accaduta; anche se pure in Danimarca, secondo gli ultimi dati (2011) dell’Ocse, le disuguaglianze sono cresciute, come a dimostrare che neppure la flexsecurity garantisce equità sociale e parità (almeno parità) di condizioni tra lavoro e impresa. In più, la flessibilità è un meccanismo di azione politica che determina una frammentazione delle classi lavoratrici (di quelle che un tempo erano definite come classi lavoratrici) e delle loro forme associative, indebolendo ancora di più le forme organizzate di tutela del lavoro. Come effetti collaterali della flessibilità: minore investimento dell’impresa su innovazione e formazione professionale; minore possibilità per il lavoratore di accrescere le proprie competenze professionali; rincorsa al ribasso sul costo del lavoro e distrazione di attenzione da ricerca e sviluppo.

Precarietà: figlia legittima (o illegittima) della flessibilità e della flessibilizzazione del lavoro è la precarietà. Ancora Gallino: “Il termine precarietà non connota la natura del singolo contratto atipico, bensì la condizione umana e sociale che deriva da una sequenza di essi, nonché la probabilità, progressivamente più elevata a mano a mano che la sequenza si allunga, di non arrivare mai a uscirne. Nessun settore dell’economia e del mercato del lavoro sfugge a tale regola. La precarietà oggi è dappertutto, scriveva già tempo addietro il sociologo francese Pierre Bourdieu. Il lavoro precario ha provveduto a riportare indietro di generazioni” il mondo del lavoro. (Gallino). Precarietà - di lavoro che diventa precarietà di vita - significa infatti impossibilità di programmare/progettare la vita, sia individuale che familiare e soprattutto esistenziale; significa essere soggetti al caso e all’impossibilità di calcolare i rischi; significa doversi assumere in proprio il

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rischio d’impresa, non avendo però gli strumenti per poterlo gestire; significa non avere futuro, quell’idea di futuro e di progresso che pure è stata alla base della rivoluzione liberale della modernità. Nel 1999, nel corso dell’assemblea annuale dell’Organizzazione internazionale del lavoro venne presentato un rapporto in cui si definivano sette forme base di sicurezza economica e sociale, per poter definire come decente un certo lavoro: sicurezza dell’occupazione, sicurezza professionale, sicurezza sui luoghi di lavoro, sicurezza di reddito, sicurezza di tutela sindacale, sicurezza previdenziale. Solo con riferimento al reddito, una ricerca effettuata nel 2005 indicava come i dipendenti a tempo determinato guadagnassero in media l’80% della retribuzione netta di quelli a tempo indeterminato.

Essere imprenditori di se stessi: è la modalità intesa come virtuosa dell’idea di flessibilità, ovvero la flessibilità che permette a ciascuno, solo volendolo, di poter costruire una propria storia di lavoro e professionale in modo libero, autonomo, indipendente, creativo. Un’idea di lavoro che comprende molte forme: lavoro a progetto, autonomo, partite iva; quello che è stato definito come capitalismo personale (Bonomi-Rullani, Il capitalismo personale, Einaudi, 2005) ovvero “quel capitalismo basato sulle persone e sulla loro capacità di intraprendere, condividendo progetti, assumendo rischi, investendo risorse personali e familiari”; ma anche quel lavoro da free lance (Bologna-Banfi, Vita da free-lance, Feltrinelli, 2011) dove “il tipico individualismo dal lavoratore indipendente, chiuso nella sua casa-ufficio e collegato al mondo solo per via remota, subisce un profondo cambiamento in virtù di una nuova spinta all’associazionismo, alla coalizione, alla community”, una realtà che sarebbe fatta “da milioni di lavoratori in perenne tensione fra libertà e vincoli, tra creatività e conformismo, tra sapere tacito e saperi standardizzati”. A sua volta evoluzione di quello che sempre Bologna aveva definito come lavoro autonomo di seconda generazione (editoria, media, comunicazione e marketing, progettazione e design, logistica, servizi alle imprese, turismo, cultura) – diverso quindi da quello di prima generazione o tradizionale (commercianti, artigiani). Un lavoro autonomo da intendere come forme di self employment fortemente connesse e integrate in rete, siano esse reti locali o globali, sia nei servizi che nel manifatturiero e basate su un modello cooperativo e relazionale collegato alle nuove professioni (lavoro autonomo, consulenza, eccetera) e alla nuova domanda (esternalizzazione) di lavoro derivante dalle imprese della cosiddetta network economy. Scomponendosi e flessibilizzandosi, il lavoro si individualizza e si struttura in forme quasi-imprenditoriali. Come effetto non solo della deregolamentazione del mercato del lavoro ma anche, secondo i teorici del lavoro autonomo e del lavoro appunto quasi-imprenditoriale, di un trend crescente verso la de-burocratizzazione del lavoro e la sua imprenditorializzazione, riducendo il peso del taylorismo e producendo invece una crescente sussunzione di conoscenza all’interno del lavoro e dei lavoratori (i lavoratori della conoscenza, appunto), addirittura smaterializzando il lavoro (il nuovo lavoro immateriale in rete contro il vecchio lavoro materiale fordista-taylorista). In realtà, al di là di alcune punte più o meno

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virtuose, oggi in parte ridotte dalla stessa crisi economica e finanziaria, spesso l’essere imprenditori di se stessi è una maschera, come anticipato, per nuove forme di sub-ordinazione e di lavoro finto-autonomo. E la conoscenza presente nel cosiddetto lavoro intellettuale tende in realtà a ridursi e a standardizzarsi, lasciando agire (mettendo al lavoro) solo una conoscenza funzionale, perdendo ogni carica di creatività e di sovversione culturale presente in rete ai suoi inizi.

Taylorismo digitale: vedi parte conclusiva.

Wikinomics: il lato positivo del lavoro in rete è stato codificato ad esempio nel neologismo di wikinomics (Tapscott-Williams, Wikinomics, Etas-Rizzoli, 2007), ovvero l’idea di una collaborazione di massa, nel lavoro e non solo, che starebbe cambiando il mondo. Un mondo in cui “milioni di persone interconnesse tramite e-mail, blog, network, community e chat usano internet come la prima piattaforma globale di scambio. E’ dunque il mondo della collaborazione, della comunità, dell’auto-organizzazione che si trasformano in forza economica collettiva di dimensioni globali. Un luogo dove consumatori, lavoratori, fornitori e business partner e anche concorrenti sfruttano la tecnologia per innovare insieme. (…) Una nuova partecipazione all’economia (peer production)”. “I dipendenti delle imprese incentivano la loro performance collaborando con i peer, ovvero i loro pari, al di là dei confini organizzativi, dando vita a quella che viene definita come wikimpresa. Mentre i clienti si trasformano da consumer in prosumer, collaborando alla creazione di beni e servizi invece di limitarsi a consumare il prodotto finito”.

Secondo la Costituzione (art. 1), l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. In questo senso, il lavoro è inteso come un diritto, come qualcosa che permette a chi lo ha di essere e non solo di avere, di essere cittadino e non solo produttore o consumatore. Ma la Repubblica richiede anche (art. 2) l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale: ovvero i doveri di solidarietà sono inderogabili e costituiscono non solo la base della cittadinanza attiva (il dovere di essere solidali) ma anche della costruzione della società. Per questo (art. 3), è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Dal che si deduce che devono essere rimossi – ovvero che ogni governo deve rimuovere (e non crearli, ad esempio accrescendo la precarietà del lavoro, riducendo i redditi) - gli ostacoli di ordine economico e sociale, ostacoli che in sé limitano la libertà e l’uguaglianza (libertà e uguaglianza vanno insieme, producendo il terzo elemento dell’illuminismo, la fraternità) e impediscono il pieno sviluppo della

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persona umana (persona, e non solo individuo), impedendo la partecipazione di tutti all’organizzazione del Paese. Il fatto poi che il lavoro sia e debba essere considerato un diritto è affermato ed esplicitato all’art. 4: La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha inoltre il dovere (art. 4, secondo comma) di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società: ancora il principio di solidarietà, ciascuno svolgendo secondo le proprie possibilità e soprattutto per propria scelta (la libertà di scegliere e non il dovere di subire) una attività o una certa funzione utile alla società e al suo progresso (progresso, quindi, ovvero una tendenza al miglioramento). Inoltre, art. 9, primo comma, la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica, ovvero è lo Stato che si deve fare carico di promuovere (e non il contrario, riducendo investimenti e spesa), direttamente o indirettamente, la ricerca scientifica e tecnica. Art. 31: La Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia. Art. 35, ancora il lavoro: la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni; ogni lavoratore (art. 36) ha quindi diritto (un diritto, ancora) ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa; la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. E ancora: i lavoratori (art.38) hanno diritto a che siano assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria. L’organizzazione sindacale è libera (art. 39) e lo sciopero è un diritto, da esercitarsi nell’ambito delle leggi che lo regolano. E quindi (art. 41): l’iniziativa economica privata è libera, ma non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale (e in caso di conflitto, l’interesse privato deve quindi essere subordinato all’utilità sociale), o in modo da non arrecare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana. Non solo: la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali – ovvero l’economia non deve essere un fine, la società pre-valendo sull’impresa e sull’economia in generale. Ancora: si riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata; il diritto (ancora un diritto) dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende; mentre si afferma (art. 47) che la Repubblica non solo incoraggia ma tutela il risparmio in tutte le sue forme e soprattutto disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito. Adriano Olivetti (1901-1960) è stata una delle figure più influenti e singolari, ma anche emarginata e presto dimenticata del ‘900 italiano. Imprenditore, intellettuale e politico (suo il Movimento di Comunità), editore (le Edizioni di

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Comunità), innovatore delle scienze sociali e precursore dell’urbanistica, fautore di una forte responsabilità sociale dell’impresa verso il territorio di riferimento e verso le sue popolazioni, autore di un virtuoso sistema di welfare aziendale e della diffusione della cultura e della conoscenza (non necessariamente finalizzata al lavoro in fabbrica) anche tra gli operai, tra il 1930 e il 1960 ha guidato la sua fabbrica di macchine da scrivere fino a farla diventare un punto di riferimento mondiale per la ricerca sull’informatica e lo sviluppo dei primi personal computer. Imprenditore illuminato e non paternalista, fautore di una impresa che avesse gli uomini e i lavoratori come baricentro, chiamò alla Olivetti sociologi (Gallino, Ferrarotti), psicologi del lavoro (Novara), scrittori (Volponi, Ottieni, Soavi), designer (Sottsass).

A proposito di lavoro, di seguito alcuni passi tratti dal volume Ai Lavoratori, da poco pubblicato per le rinate Edizioni di Comunità. “Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profitti? Non vi è, al di là del ritmo apparente, qualcosa di più affascinante, una destinazione, una vocazione anche nella vita di una fabbrica?” “Il tentativo fatto nella fabbrica di Ivrea, tentativo che non esito a dire ancor del tutto incompiuto , risponde ad una semplice idea: creare un’impresa di tipo nuovo al di là del socialismo e del capitalismo giacché i tempi avvertono con urgenza che nelle forme estreme in cui i due termini della questione sociale sono posti, l’uno contro l’altro, non riescono a risolvere i problemi dell’uomo e della società moderna. La fabbrica di Ivrea ha svolto i suoi fini e le sue maggiori preoccupazioni all’elevazione materiale, culturale, sociale del luogo ove fu chiamata ad operare… La nostra Società crede perciò nei valori spirituali, nei valori della scienza, crede nei valori dell’arte, della cultura, crede infine che gli ideali di giustizia non possano essere estraniati dalle contese ancora ineliminabili tra capitale e lavoro”. “La fabbrica fu quindi concepita alla misura dell’uomo perché questi trovasse nel suo ordinato posto di lavoro uno strumento di riscatto e non un congegno di sofferenza. Per questo abbiamo voluto le finestre basse e i cortili aperti e gli alberi nel giardino ad escludere definitivamente l’idea di una costrizione e di una chiusura ostile”. “Mio padre Camillo, diceva: Tu puoi fare qualunque cosa tranne licenziare qualcuno per motivo dell’introduzione di nuovi macchinari o tecnologie o di nuovi metodi di lavoro, perché la disoccupazione involontaria è il male più terribile che affligga la classe operaia”. “Per dar vita a questo mondo nuovo, i ricchi e i potenti dovranno rinunciare alla corsa sconsiderata e indiscriminata verso una ricchezza sempre maggiore, alla vanità del potere e della sua effimera gloria”. Possono l’economia della conoscenza, il post-fordismo, la rete e l’innovazione tecnologica convivere con forme organizzative tipiche del fordismo, o peggio

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del lavoro servile? Una prima risposta è già stata data. Si potrebbero aggiungere i casi dei lavoratori tessili del Bangla Desh, autentici lavoratori schiavi messi in produzione dalle grandi case di moda o di distribuzione dell’occidente. O i lavoratori cinesi della Foxconn, produttrice degli apparati di Apple. Lavoratori che vanno a costituire il nuovo proletariato industriale del capitalismo asiatico. Di seguito invece, tratte da una inchiesta di Le Monde Diplomatique (novembre 2013) alcune citazioni relative alle modalità di organizzazione del lavoro presso Amazon, in una sua filiale tedesca.

“Al terzo piano del reparto Fra-1, non ci sono finestre, nessuna apertura e nemmeno l’aria condizionata. In estate la temperatura supera i 40 gradi e i malori sono frequenti. (…) In Francia è stato invece il freddo a colpire nel 2011 gli operai del magazzino di Montélimar, obbligati a lavorare con le giacche a vento, guanti e berretti finché una decina di loro non ha fatto sciopero ottenendo l’accensione del riscaldamento. (…) La manodopera è quasi tutta non qualificata, assunta per un’unica ragione: per ora costa meno dei robot. Ma non sarà così a lungo: dopo aver acquisito nel 2012, per 775 milioni di dollari la società di robotica Kiva Systems, Amazon prepara la messa in funzione nei suoi magazzini di piccoli automi mobili. (…) Si tratta di ridurre a soli 20 minuti il lasso di tempo tra l’invio dell’ordine da parte del cliente e la spedizione. Bezos ha un obiettivo diventato leggendario: proporre e vendere qualunque merce consegnandola ovunque lo stesso giorno dell’ordine. (…) I centri logistici presentano una architettura e un’organizzazione del lavoro simili. Collocati nelle vicinanze degli svincoli autostradali e al tempo stesso in aree in cui il tasso di disoccupazione supera la media nazionale, sono protetti da società di sorveglianza. (…) La profusione di prodotti proposti ai 150 milioni di clienti del sito si materializza nei magazzini nei quali, tra foreste di scaffali metallici, sgobbano i lavoratori, costretti al silenzio dal regolamento interno. Tutti, considerati come potenziali lestofanti sono sottoposti a minuziosi controlli da parte dei vigilantes: passano per varchi di sicurezza quando escono non solo la sera ma anche durante la pausa pranzo, accorciata tra l’altro da questo tipo di controllo”. “Nell’unità di ricevimento gli operai eachers (riceventi) svuotano i bancali dai camion e classificano la merce. Gli stowers (stoccatori) sistemano gli articoli dove possono sugli scaffali, realizzando un bazar repertoriato solo da uno scanner wu-fi lettore di codice a barre. Nell’unità di produzione, i pickers (raccoglitori) vanno avanti e indietro tra gli scaffali e per prendere continuamente articoli percorrono circa 20 chilometri per ogni turno di lavoro. (…) Quando il muletto trasportatore è pieno, i pickers lo portano ai packers (imballatori). Questi imballano a catena i prodotti, per poi spingere i pacchi su enormi convogliatori informatizzati, i quali pesano i pacchi decorati con il sorriso di Amazon, incollano gli indirizzi eccetera”. “I lavoratori di Amazon hanno quasi tutti contratti interinali e per trattare queste migliaia di contratti sono state assunte segretarie cinesi. L’anno scorso

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lavoravano in una grande stanza vuota, senza mobili, impilando i contratti sul pavimento, uno alla volta”. “Per onorare il suo motto – lavora tanto, divertiti, fai la storia, affisso nei centri logistici - Amazon inquadra i dipendenti con una tecnica di management ispirata alle fabbriche automobilistiche giapponesi. (…) Durante le feste hanno diffuso, per stimolare il lavoro, velocizzarlo e aumentare la produttività, della musica rock a tutto volume. Quando ho chiesto al capo di abbassare il volume perché mi era venuto il mal di testa, il capo si è preso gioco di me perché avevo 50 anni, dicendomi che questa era un’impresa per giovani. (…) I ritmi sono spossanti. E in cambio che cosa ci offrono? Un po’ di have fun: tombole durante le pause, distribuzione di cioccolatini e caramelle… E poi, sulla base di temi scelti dai manager, i dipendenti sono regolarmente invitati ad andare al lavoro mascherati da streghe o giocatori di basket. Ci chiedono di essere dei top performers, di superare noi stessi, battere continuamente i nostri record di produttività. Dal mese di giugno 2013 i manager ci fanno anche fare collettivamente degli esercizi di riscaldamento e ginnastica prima di iniziare il lavoro. (…) Ma i media preferiscono commentare con toni elogiativi i successi borsistici di Amazon, la storia del suo fondatore o la costruzione di nuovi centri logistici; si vanta la creazione di nuovi posti di lavoro precari e invisibili che però ne distruggono altrettanti nel commercio di prossimità”. E infine: dal fordismo-taylorismo e dalla catena di montaggio al nuovo/vecchio taylorismo digitale. Ancora la rete dunque; che è sempre vista come un luogo e un tempo ad alta creatività, conoscenza, intelligenza collettiva, libera condivisione e collaborazione, addirittura come una comunità. Ma la rete non ha permesso solo di rendere il lavoro più leggero, liquido, immateriale, meglio integrato e più razionale. La rete, con i suoi meccanismi di funzionamento (ancora: suddivisione e individualizzazione da un lato e totalizzazione in sé come rete dall’altro) e gli effetti sociali che ha prodotto, ha determinato anche la nascita di un modo di lavorare dove ad esempio la proprietà intellettuale sulla conoscenza è spesso vanificata, dove la collaborazione e la messa al lavoro delle persone avviene in modalità tanto informali ma fortemente relazionali e motivanti da determinare di fatto un esproprio di conoscenza e di lavoro da parte dell’impresa. Le imprese si sono fatte sempre più snelle e flessibili (vedi sopra), ma lo hanno fatto, grazie alla rete, anche rinunciando a una parte significativa delle conoscenze, della creatività che in passato coltivavano dentro di sé, come proprio valore aggiunto: oggi, molte di queste risorse/capacità/conoscenze possono essere prese direttamente dalla rete, spesso a costo zero, grazie ai processi di collaborazione e di condivisione indotti dalla stessa rete, processi di aggregazione che possono essere utilizzati dalle imprese inducendo migliaia di

DDaall ffoorrddiissmmoo aallllaa rreettee.. EE rriittoorrnnoo.. CCoonncclluussiioonnii..

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persone a collaborare a progetti comuni, utili all’impresa. Grazie a questi meccanismi, “migliaia di individui e di piccole o piccolissime imprese riescono oggi a co-creare i loro prodotti, ad accedere ai mercati e a soddisfare i clienti come in passato solo le grandi imprese potevano fare; e grazie a questo meccanismo, consumatori e utenti assumono a loro volta un ruolo attivo nel ciclo di creazione del valore” (Formenti, Felici e sfruttati, Egea, 2011), tutto questo tuttavia producendo di fatto un taylorismo mentale o digitale che suddivide il lavoro, lo frammenta in attività parziali, per poi ricomporlo appunto in sistemi maggiori, governati dalle imprese capaci di farlo. La rete cioè, che pure prometteva liberazione del lavoro e dal lavoro oggi sembra avere prodotto non tanto una re-distribuzione democratica dei mezzi di produzione e una disarticolazione delle vecchie gerarchie pesanti del lavoro fordista in nome di network orizzontali e virtuosi di produttori&consumatori (i prosumers), ma uno sfruttamento diffuso del lavoro di conoscenza (e non solo) e una messa al lavoro esasperata – ma presentata come se fosse una forma comunitaria quindi virtuosa, di lavoro e di scambio - degli individui, tanto da avere fatto cadere la vecchia distinzione tra tempo di lavoro e tempo di non lavoro.

Quella che a molti (Negri-Hardt) sembrava addirittura l’inizio di una sorta di comunismo in rete e di socializzazione del capitalismo, si sta tramutando nel suo opposto. Da una lato una velocissima concentrazione monopolistica o oligopolistica della rete e in rete (la cosiddetta banda dei quattro: Google, Amazon, Apple e Facebook, che insieme controllano la quasi totalità dei mercati di hardware, software ed e-commerce); dall’altro la trasformazione di quelli che erano lavoratori della conoscenza in operai della conoscenza, il cui obiettivo “non è più fare concorrenza alle corporation hi-tech, bensì attirarne l’attenzione per farsi acquistare” (Formenti, Utopie letali, 2013), con la fine di molte start-up del settore. La stessa retorica, insistita, sul fare da sé, sull’essere imprenditori di se stessi, spesso nasconde effetti perversi e un ulteriore peggioramento delle condizioni di lavoro e di reddito. Inoltre, le mansioni svolte al computer sono sempre più ripetitive, codificate, standardizzate, ovvero replicano ancora una volta il modello fordista-taylorista. Anche il controllo della forza lavoro si è accentuato, grazie alla rete: “oggi le imprese possono tracciare costantemente e in tempo reale, i comportamenti dei dipendenti allo scopo di elaborare modelli ideali di organizzazione spazio-temporale dell’attività produttiva. E’ un taylorismo digitale che esce dal luogo di lavoro e si protende nello spazio virtuale della rete, dove la raccolta di dati e di informazioni di ogni genere sui lavoratori è propedeutica alla selezione dei candidati, all’assunzione, allo sviluppo di carriere e percorsi professionali, nonché al miglioramento di procedure e metodi di lavoro. Infine, la personalizzazione che le tecnologie digitali avrebbero introdotto al posto dell’uniformità standardizzata della produzione meccanizzata si riduce alla possibilità di modulare infinite variazioni su un tema predefinito dal software: la creatività dell’intellettualità di massa digitale consiste in una banale pratica di remissaggio di vecchi contenuti; e di lavoro vivo non è mai stato tanto subordinato

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alla macchina (anche se in questo casi si tratta di una macchina immateriale, fatta di codici informatici)” (ivi). Di più: questo lavoro di conoscenza ha come materia prima soprattutto i Big Data, una grande quantità di informazioni e di dati personali incrociati con altri dati prodotti dal tracciamento dei percorsi in rete fatti da ciascun utente/utilizzatore. Dati cercati in rete ma anche forniti direttamente anche se inconsapevolmente da ciascun utente e che diventano il valore aggiunto del capitalismo digitale (è questa la vera conoscenza messa a profitto in rete): dagli algoritmi che permettono di vendere agli inserzionisti annunci pubblicitari rivolti al singolo individuo/consumatore, alla ricostruzione dei profili e delle identità di milioni di persone partendo semplicemente dai like postati su Facebook. “Per somma ironia, tutto ciò avviene in ossequio a quei valori di trasparenza, accessibilità, condivisione gratuita che, qualche anno fa, venivano invocati per profetizzare l’empowerment dei consumatori” (ivi), il loro diventare soggetti del mercato e non oggetto/target della pubblicità e del marketing.

Il lavoro è dunque cambiato e profondamente negli ultimi 30 anni. In meglio per alcuni (pochi: i lavoratori della vera conoscenza, i creativi della rete, coloro che riescono a fare start-up innovative), in peggio per moltissimi altri (precarizzazione del lavoro in occidente e disoccupazione crescente, neo-fordismo o taylorismo digitale, proletariato asiatico, eccetera.). Ovvero: dal fordismo alla rete. E ritorno. Al passato. Bibliografia essenziale.

Anders G., L’uomo è antiquato, 2 voll., Bollati Boringhieri Bauman Z., La modernità liquida, Laterza Demichelis L., Società o comunità, Carocci. Fitoussi J-P., Il teorema del lampione, Einaudi Formenti C., Felici e sfruttati, Egea Formenti C., Utopie letali, Jaca Book Foucault M., Sorvegliare e punire, Einaudi Foucault M., Sicurezza, territorio, popolazione, Feltrinelli Gallino L., Finanzcapitalismo, Einaudi Gallino L., Il lavoro non è una merce, Laterza Revelli M., Oltre il Novecento, Einaudi Streek W., Tempo guadagnato, Einaudi