Università degli Studi di Bergamo storia... · 2016. 2. 9. · Antologia di testi per il corso di...

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Università degli Studi di Bergamo Corso di studi triennale in Scienze dell’educazione – A.A. 2015-2016 Antologia di testi per il corso di Storia della pedagogia 2B a cura di Evelina Scaglia

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    Corso di studi triennale in Scienze dell’educazione – A.A. 2015-2016

    Antologia di testi per il corso di Storia della pedagogia 2B

    a cura di Evelina Scaglia

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    Sommario

    JEAN JACQUES ROUSSEAU (1712-1778) ................................................................................................. 5

    JOHANN HEINRICH PESTALOZZI (1746-1827) ........................................................................................ 6

    JOHANN FRIEDRICH HERBART (1776-1841) ......................................................................................... 11

    FERRANTE APORTI (1791-1858) .............................................................................................................. 16

    FRIEDRICH FROEBEL (1782-1852) .......................................................................................................... 18

    ARISTIDE GABELLI (1830-1891) ............................................................................................................... 23

    ROSA AGAZZI (1866-1951) ........................................................................................................................ 28

    JOHN DEWEY (1859-1952)......................................................................................................................... 31

    ADOLPHE FERRIÈRE (1879-1960) ........................................................................................................... 36

    MARIA MONTESSORI (1870-1952) ........................................................................................................... 40

    GIOVANNI GENTILE (1875-1944) .............................................................................................................. 43

    GIUSEPPE LOMBARDO RADICE (1879-1938) ........................................................................................ 45

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    JEAN JACQUES ROUSSEAU (1712-1778)

    J.J. Rousseau, Emilio o dell’educazione, [1762], tr. it., Mondadori, Milano 2007.

    Libro II (pp. 81- 95)

    «L’uomo saggio sa restare al suo posto, ma il fanciullo, che non conosce il proprio, non ne è capace.

    Nella nostra società gli si offrono mille occasioni di sviarsi dalla sua condizione puerile. Spetta a quelli

    che lo allevano mantenervelo e non è compito facile. Bisogna che non sia né una sorta di piccolo

    animale né un adulto, ma un fanciullo; deve avvertire la propria debolezza, non soffrirne; deve

    dipendere, non obbedire, deve domandare, non comandare. Egli è sottomesso unicamente a causa dei

    suoi bisogni, in quanto gli altri vedono meglio di lui che cosa gli sia utile, che cosa giovi o nuoccia alla

    sua conservazione. Nessuno ha il diritto, neppure il padre, di comandare al fanciullo qualcosa che non

    abbia per lui alcuna utilità.

    Prima che i pregiudizi e le istituzioni degli uomini abbiano alterato le nostre inclinazioni naturali, la

    felicità dei fanciulli come degli uomini consiste nell’uso della libertà; ma nei primi questa libertà è

    limitata dalla debolezza. Chiunque fa ciò che vuole è felice, se basta a se stesso, ed è quanto accade

    all’uomo che vive nello stato di natura.

    […]

    Fate che il fanciullo esperimenti soltanto la dipendenza dalle cose ed avrete seguito l’ordine naturale

    nel processo della sua educazione. Ad ogni suo capriccioso atto di volontà opponete unicamente

    ostacoli fisici o punizioni che nascano dalle azioni stesse e di cui si rammenti al momento opportuno;

    non è necessario vietargli di agire male, basta impedirglielo. Solo l’esperienza e l’impotenza debbono

    servirgli di legge. Non concedete nulla ai suoi desideri solo perché ve lo chiede, ma perché ne ha

    realmente bisogno. […] Senta in egual misura la sua libertà nelle sue azioni e nelle vostre. Supplite alla

    forza che gli manca, ma nell’esatta misura in cui ne ha bisogno per esser libero, non per diventar

    prepotente; provi anzi una sorta di umiliazione nel ricevere i vostri servigi e aneli al momento in cui

    potrà farne a meno ed aver l’onore di provvedere a se stesso.

    […]

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    La natura vuole che i fanciulli siano fanciulli prima di essere uomini. Se vogliamo sovvertire

    quest’ordine, produrremo frutti precoci, che non avranno maturità né sapore e non tarderanno a

    guastarsi; avremo sapientoni in tenera età e bambini vecchi decrepiti. L’infanzia ha modi di vedere, di

    pensare, di sentire esclusivamente suoi; nulla è più stolto che pretendere di sostituirli coi nostri.

    […]

    Trattate l’allievo secondo la sua età. Collocatelo innanzi tutto nella sua reale condizione e in quella

    costantemente mantenetelo, finché non si senta più tentato di evaderne. Così, prima ancora di sapere

    che cosa sia la saggezza, ne metterà in pratica il più importante precetto. Non comandategli mai nulla,

    per nessuna ragione al mondo: assolutamente nulla.

    […]

    Oserò qui esporre che cosa prescriva la più grande, la più importante, la più preziosa regola di tutta

    l’educazione? Non di guadagnar tempo, ma di perderne!

    […]

    La prima educazione deve essere dunque puramente negativa. Non consiste affatto nell’insegnare la

    virtù o la verità, ma nel tutelare il cuore dal vizio e la mente dall’errore. Se poteste non far nulla e nulla

    lasciar fare agli altri, se poteste condurre il vostro allievo sano e robusto all’età di dodici anni, senza

    che sappia distinguere la mano destra dalla sinistra, fin dalle vostre prime lezioni gli occhi del suo

    intelletto si schiuderebbero alla ragione; senza pregiudizi, senza abitudini, nulla vi sarebbe in lui che

    possa contrastare l’effetto della vostra opera. Ben presto diverrebbe tra le vostre mani il più saggio

    degli uomini e così, cominciando col non far nulla, avreste realizzato un miracolo di educazione».

    JOHANN HEINRICH PESTALOZZI (1746-1827)

    J.H. Pestalozzi, Scopo e piano di un'istituzione educativa per poveri, riprodotto in J.H. Pestalozzi,

    Popolo, lavoro, educazione, a cura di E. Becchi, La Nuova Italia, Firenze 1974, Parte II, Istruzione

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    professionale e princìpi illuminati, pp. 200-223.

    «Il mio scopo è fondare un'istituzione la quale possa costituire un esempio di quanto è necessario, in

    genere, per la educazione dei poveri e possa preparare e assicurare, con la massima estensione e cura, i

    mezzi per rendere progressivamente partecipi di tale istituzione i poveri del contado.

    La realizzazione di questo scopo comporta anzitutto la educazione di un certo numero di bambini

    poveri affinché siano, in primis per se stessi, degli uomini energici, buoni, autonomi. In secondo luogo

    essa serve all'utilizzazione, per uno scopo speciale, dei bambini che si distinguono da questa massa

    diligente, vale a dire essa deve generalizzare l'educazione migliore del popolo, elevare a tale grado e

    dare un tale orientamento ai talenti che eccellono dimostrati da questi bambini sia nel campo

    intellettuale sia in quello professionale, che essi si orientino da se stessi a usare questi talenti come

    maestri e maestre, vuoi in materie ordinarie di scuola, vuoi anche nella vita domestica attraverso

    l'influsso privato sull'educazione degli uomini con cui vengono a contatto per la loro professione. Lo

    scopo è appunto quello di costruire un seminario di bambini poveri, nel quale non ci si limiti a educarli

    bene, ma dove venga tenuta presente, con rispetto e attenzione, e usata con amore, secondo la volontà

    di Dio, per il servizio di Dio e dell'umanità, anche la differenza che c'è nelle disposizioni che ha dato

    loro il Creatore.

    [...]

    Non ci si deve illudere; l'educazione umana dei poveri e dei ricchi esige essenzialmente gli stessi

    mezzi, ché la natura umana è la stessa sia nel povero che nel ricco. Per rendere il povero competente,

    benevolo e giudizioso per ogni attività pratica e capace di impegno, ci vogliono gli stessi mezzi di cui

    c'è bisogno per l'educazione del ricco, in vista di questo medesimo scopo.

    [...]

    Lo sviluppo generale delle capacità umane dev'essere quindi considerato il fondamento dell'istituzione

    che noi proponiamo ed è soltanto quando questo sarà realizzato solidamente, sia in generale sia in

    particolare, che potranno venir presi in considerazione gli scopi più specifici della distinzione di singoli

    bambini come maestri di scuola oppure come istruttori e istruttrici in istituzioni professionali più o

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    meno grandi.

    Lo sviluppo elementare delle capacità umane è, secondo la sua natura, triplice. Esso è fisico, morale e

    intellettuale. Tutti e tre gli aspetti di questo sviluppo stanno però in intima connessione reciproca; e

    anche se la formazione di una singola di queste tre capacità potrebbe sviluppare una parte delle capacità

    umane, un tale sviluppo unilaterale non sarebbe affatto soddisfacente per i bisogni e lo scopo

    dell'educazione dell'uomo. L'uomo viene avvicinato alla sua perfezione soltanto grazie alla formazione

    armonica e complessiva di tutte le sue capacità. Egli deve venir portato, sia per quanto riguarda il fisico

    che il morale che l'intellettuale, al punto che le sue disposizioni si traducano in capacità, la

    consapevolezza delle quali gli assicuri, in ogni caso, fiducia in se stesso, libertà, coraggio e destrezza.

    [...]

    L'educazione professionale non è educazione alla miseria di una singola capacità professionale. L'idea

    elevata, ma non perfezionata dell'educazione professionale del popolo non è se non un'applicazione

    dell'educazione dell'umanità in generale alla materia specifica del suo sostentamento e diventa

    autentica educazione professionale solo quando parte dalla fruizione completa di tutto ciò che esige di

    per sé l'educazione dell'uomo. Una formazione per un lavoro industriale è tanto poco un'educazione

    professionale, quanto la formazione al servizio di chi aiuta nell'irrigazione, di un garzone di stalla o di

    uno che lavora solo con l'aratro è la formazione agricola in generale. Si può senz'altro essere un

    contadino miserevole e nello stesso tempo un buon garzone di stalla o un buon lavoratore dell'aratro.

    Come la educazione agricola presuppone tutto ciò che esige l'agricoltura, nello stesso modo

    l'educazione professionale presuppone l'intero complesso di tutto ciò su cui si basa - in maniera non

    meramente accidentale e relativa alle singole materie, ma in modo generale e necessario - lo spirito e la

    forza dell'industria.

    [...]

    Attività dell'intelletto e attività del cuore devono essere il fondamento delle capacità che vanno poste

    nelle loro mani e nelle loro braccia. Il loro guadagno non dev'essere affatto il risultato di una

    formazione esasperata in un settore singolo e unilaterale dell'industria. Come la capacità superiore della

    educazione dell'intelletto e del cuore deriva dagli elementi eterni e può esser realizzata grazie a degli

    esercizi che si susseguono in modo continuo e graduale, così anche la formazione professionale deriva

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    da elementi eterni e immutabili e si può attuare soltanto grazie a esercizi che si eseguono in modo

    continuo e graduale. Nella sua essenza, essa non è niente altro se non un'applicazione dell'educazione

    fisica a fine specifico del proprio sostentamento e deve quindi venir messa in sintonia con l'intero

    complesso dell'educazione fisica e con le esigenze generali dell'educazione intellettuale e del cuore.

    Senza uno sviluppo generale e armonico dell'intero complesso delle capacità fisiche non si può pensare

    ad un'educazione professionale del popolo, elevata e sicura, che va necessariamente accompagnata

    dallo sviluppo delle capacità dell'intelletto e del cuore».

    J.H. Pestalozzi, Madre e figlio. L’educazione dei bambini, [1818], tr. it. di G. Sanna, III ediz., La

    Nuova Italia, Firenze 1933, pp. 15-18.

    II.

    «3 ottobre 1818

    Mio caro Greaves,

    Il nostro grande intento è lo sviluppo dell'anima infantile, e il nostro grande mezzo l'azione della

    madre.

    Da ciò nasce, sin dall'inizio delle nostre ricerche, un quesito importante: possiede la madre le facoltà

    necessarie all'assolvimento dei doveri e dei compiti, che noi le assegniamo? Mi sento in obbligo di

    esaminare a fondo tale questione, e dare possibilmente una risposta decisiva. La prego di fermare la sua

    attenzione su quest'argomento, essendo io convinto che se le mie opinioni concordano con le sue, Ella

    consentirà anche nelle conclusioni che io, fondandomi sulla mia esperienza, ne traggo.

    Sì! Posso dirlo: la madre ha la capacità, ha ricevuto dal Creatore stesso la capacità di divenir l'agente

    più energico dello sviluppo infantile. Già nel suo cuore è spontaneamente radicato il desiderio più

    ardente del bene del figlio: e qual forza può esser più attiva, più incalzante dell'amore materno, la forza

    più soave e al tempo stesso più imperterrita che si trovi in tutto l'ordine della natura? Sì, la madre è

    capace, perché la Provvidenza l'ha fornita delle attitudini che si richiedono per l'assolvimento del suo

    compito.

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    E a questo punto mi sembra di dover chiarire quale sia il compito, che io ritengo a lei particolarmente

    riservato. Ciò che io richiederei da lei, non è affatto cosa, che oltrepassi la sua sfera d'azione, non è un

    certo grado od ordine di conoscenze, e neppure ciò che comunemente si racchiude nel concetto di

    coltura "finita"; sebbene ove per caso ella possegga tali conoscenze, verrà il giorno in cui aprirà il suo

    forziere e ne sceglierà tesori per i suoi figli. Ma nel periodo, di cui ci occupiamo, le conoscenze

    acquisite con la più raffinata educazione non le faciliterebbero per nulla il compito: giacché quello che

    io desidererei da lei è soltanto - amore pensoso. E' naturale che io ponga come prima condizione

    l'amore, che sempre comparirà spontaneamente - soltanto io lo vorrei supporre diversamente e

    variamente informato. Tutto ciò io domanderei a una madre, sarebbe che ella facesse operare il suo

    amore con la maggior forza possibile, e tuttavia lo regolasse con la riflessione. - E vorrei realmente

    pregare una madre, in nome di tutto l'amore che ella alberga in sé per i suoi figli, di dedicare un istante

    di calma riflessione alla natura dei suoi doveri. Non penso già d'introdurla in un'artificiosa disamina:

    nel labirinto delle ricerche filosofiche potrebbe smarrirsi l'amor materno. Ma nel suo sentire v'è qualche

    cosa, che può condurla al vero per la via più breve e mediante un processo immediato. A questo

    qualche cosa io vorrei fare appello. Non le si deve celare, che i suoi doveri sono a un tempo facili e

    difficili; ma io spero non esservi una madre, che in una questione simile non trovi la sua più elevata

    ricompensa appunto nel superare le difficoltà; e l'interesse dei suoi doveri le si svelerà a poco a poco, se

    ella si atterrà ad un semplice e tuttavia sublime e grandioso pensiero: i miei figli sono generati per

    l'eternità e affidati a me appunto perché io li educhi ad esser figli di Dio.

    "Madre" vorrei dirle, "madre responsabile! Guardati intorno! Quale diversità di sforzi, quale

    molteplicità di vocazioni! Gli uni si agitano nel vortice d'una vita senza tregua; gli altri cercano la

    tranquillità traendosi indietro. Fra tutti i modi d'agire, che osservi intorno a te, quale ti sembra il più

    solenne, il più maestoso, il più sacro?". "Senza dubbio", mi risponderai prontamente, "la vocazione

    dell'uomo che dedica la propria vita a favorire spiritualmente lo sviluppo della natura umana. Come

    deve esser felice colui, che si sente chiamato a guidare gli altri verso la felicità, verso la felicità

    eterna!". Ottimamente! Madre felice! La sua missione è anche la tua. Non lasciarti intimorire da tal

    pensiero, - non tremare di tal confronto. Non credere ch'io voglia attribuirti un ufficio superiore alla tua

    attitudine, - non temere che nella mia offerta si celino conati di vanità, - ma eleva il tuo cuore grato

    verso Colui, che ti ha affidato un ufficio così elevato, - cerca di mostrarti degna della fiducia che in te è

    stata riposta. Non parlare di insufficienza delle tue conoscenze, - l'amore la compenserà; - di scarsità

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    dei tuoi mezzi, - la Provvidenza li amplierà; - di debolezza della tua volontà, - lo Spirito stesso della

    forza la rinsalderà: - eleva il tuo sguardo a questo Spirito per chiedergli tutto ciò che ti manca e

    specialmente le due cose più sublimi ed importanti: coraggio ed umiltà».

    JOHANN FRIEDRICH HERBART (1776-1841)

    J. F. Herbart, Pedagogia generale derivata dal fine dell'educazione, [1806], tr. it. a cura di I. Volpicelli,

    La Nuova Italia, Firenze 1997.

    Pedagogia generale- Libro primo, pp. 30-48

    I- Fine del governo dei fanciulli

    «Il bambino viene al mondo privo di volontà: incapace quindi di ogni rapporto morale. Perciò i

    genitori, (sia di loro iniziativa, sia per conformarsi alle esigenze della società) possono esercitare il

    loro potere su di lui, come se si trattasse di una cosa. Certamente essi sanno bene che nella creatura che

    ora trattano a loro discrezione, senza consultarla, con l'andar del tempo sorgerà una volontà, che

    bisognerà aver conquistata se si vorranno evitare gli inconvenienti di un conflitto inammissibile da

    entrambe le parti. Ma prima di arrivare a questo punto ce ne vuole di tempo; nel fanciullo, da prima, al

    posto di una vera e propria volontà, capace di prendere una decisione, si sviluppa semplicemente una

    irruenza selvaggia, che lo trascina ora in un senso ora in un altro, che è un principio di disordine, tale

    da ledere le disposizioni degli adulti ed esporre la personalità futura dello stesso fanciullo a ogni sorta

    di pericolo. Questa irruenza deve venire repressa; altrimenti il disordine sarebbe imputabile come una

    colpa a coloro che hanno in custodia il fanciullo. La repressione si ottiene mediante l'uso della forza; e

    bisogna che la forza sia sufficiente e che sia esercitata abbastanza spesso affinché riesca a conseguire

    pienamente il risultato prefisso, prima che nel fanciullo si manifestino le tracce di una volontà

    autentica. Questo esigono i principi basilari della filosofia pratica.

    Ma i germi di questa cieca irruenza, i rozzi appetiti, permangono nel fanciullo; anzi si moltiplicano e si

    rafforzano con l'andare degli anni. Affinché non diano alla volontà, che si sviluppa in mezzo a loro, un

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    indirizzo antisociale, è necessario tenerli costantemente soggetti ad una continua sensibile pressione.

    L'adulto, giunto all'uso della ragione, assume su di sé, col tempo, il compito di autogovernarsi. Ma vi

    sono anche degli uomini che non arrivano mai a questo punto: questi sono tenuti dalla società sotto una

    costante tutela e vengono designati, in parte, col nome di imbecilli e di prodighi. [...]

    Come si vede, il fine del governo dei fanciulli è vario: da una parte si tratta di evitare il danno, per gli

    altri e per il fanciullo stesso, sia per il presente che per l'avvenire; dall'altra si tratta di evitare il

    conflitto, il quale costituisce per se stesso un inconveniente; da un'altra, infine, si tratta di evitare la

    collisione in cui la società, senza esserne completamente autorizzata, si vedrebbe costretta al conflitto.

    Ma tutto ciò ci porta a concludere che un tale governo non mira a raggiungere alcun fine nell'animo del

    fanciullo, e non ha altra pretesa che di creare ordine. Ciò nondimeno ben presto si constaterà che il

    governo non può assolutamente essere indifferente nei confronti della cultura dell'anima infantile.

    [...]

    II- Multilateralità dell'interesse. Forza del carattere della moralità.

    1. Come può l'educatore in anticipo far propri i fini futuri, semplicemente possibili, dell'allievo?

    L'aspetto oggettivo di questi fini, come cosa pertinente al semplice arbitrio, non ha alcun interesse per

    l'educatore. Soltanto il volere dell'uomo futuro in sé e per sé, e quindi la somma delle esigenze che, in

    questo volere e per esso, egli eleverà verso se stesso, costituisce l'oggetto della benevolenza

    dell'educatore; e l'energia, la gioia primitiva, l'attività con le quali quell'uomo saprà soddisfare le

    proprie esigenze, questo è ciò che costituisce per l'educatore l'oggetto di un giudizio basato sull'idea

    della perfezione. In questo caso dunque ciò di fronte a cui ci troviamo non è un certo numero di fini

    particolari, (che del resto non possiamo conoscere in anticipo), ma, in generale, l'attività dell'uomo che

    si va sviluppando, il quantum della sua intima, immediata vitalità e vivacità. Quanto più grande è

    questo quantum, quanto più intenso, esteso, ed in sé armonico, tanto più è perfetto e tanta maggior

    sicurezza offre alla nostra benevolenza.

    Soltanto, il fiore non deve spezzare il suo calice, la ricchezza non deve degenerare in debolezza per un

    eccesso di dispersione in tutti i sensi. Da lungo tempo la società umana ha trovato necessaria la

    divisione del lavoro, affinché ciascuno possa far bene ciò che fa. Ma quanto più ciò che si fa è

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    delimitato, quanto più il lavoro è diviso, tanto più si accresce la varietà delle cose che ciascuno riceve

    da tutti gli altri. Ora, siccome la recettività spirituale si basa sulla affinità spirituale, e questa sopra

    esercizi spirituali consimili: si comprende allora che nel dominio superiore dell'umanità vera e propria i

    lavori non debbono essere isolati al punto da ignorarsi reciprocamente. Tutti debbono avere amore per

    tutto, ciascuno deve essere virtuoso in un campo specifico. Ma la virtuosità particolare riguarda la

    libera scelta; invece la ricettività molteplice e varia, che può derivare soltanto da molteplici iniziative

    dovute al nostro sforzo personale, compete all'educazione. Noi, perciò, indichiamo la prima parte del

    fine pedagogico con l'espressione: multilateralità dell'interesse, la quale deve essere distinta dalla sua

    esagerazione, la molteplicità delle occupazioni. E poiché tra gli oggetti del volere, tra le stesse

    particolari direzioni, non ve ne è alcuno che ci interessi più dell'altro, allora noi, affinché non ci

    dispiaccia di vedere accanto alla forza, la debolezza, completeremo la nostra espressione, dicendo:

    multilateralità ben equilibrata. In tal modo si giungerà a cogliere il senso dell'espressione corrente:

    sviluppo armonico di tutte le forze; a proposito della quale ci sarebbe da chiedersi che cosa si intende

    per pluralità di forze dell'anima? E che cosa debba significare armonia di forze eterogenee?

    [...]

    III- Individualità dell'allievo, come punto d'incidenza

    L'educatore mira al generale, ma l'allievo è un individuo particolare.

    Senza fare dell'anima un miscuglio di facoltà eterogenee, e senza costruire il cervello con organi

    positivamente ausiliari, che potrebbero esonerare lo spirito di una parte del suo lavoro: dobbiamo pur

    riconoscere, senza contestazioni e in tutta la loro portata, le esperienze in base alle quali l'essenza

    spirituale, associata a tale o ad altra forma corporea, incontra tali o tali altre difficoltà, e,

    corrispondentemente, delle relative agevolazioni nelle proprie funzioni.

    Ora, per quanto noi si sia indotti a mettere alla prova, attraverso tentativi, la pieghevolezza di queste

    disposizioni naturali e a non scusare affatto la nostra pigrizia col pretesto della superiorità della loro

    forza, pure prevediamo che anche la rappresentazione più pura e perfetta dell'umanità non potrà mai

    fare a meno di riferirsi, in pari tempo, ad un uomo particolare; anzi noi avvertiamo altresì che è

    necessario che l'individualità risalti affinché il semplice esemplare della specie non appaia meschino di

    fronte alla specie stessa e non svanisca come cosa insignificante; noi sappiamo infine quale beneficio

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    traggano gli uomini dal fatto che individui diversi si preparino e si destinino a compiti differenti.

    L'individualità caratteristica del giovane si va via via sempre di più palesando anche in mezzo alle cure

    e agli sforzi dell'educatore; abbastanza felicemente se non si oppone loro direttamente, oppure se,

    urtandovi di fianco, non provochi l'insorgere di un terzo elemento, parimenti dannoso all'allievo e

    all'educatore! Cosa che accade quasi sempre a coloro che in generale non sanno trattare con gli uomini

    e quindi non sanno neppure cogliere nel fanciullo l'uomo che già vi si trova.

    Da tutto ciò risulta per il fine dell'educazione una regola negativa, che è altrettanto importante quanto

    difficile da osservarsi; cioè questa: bisogna lasciare per quanto è possibile intatta l'individualità. A tal

    uopo si esige soprattutto che l'educatore distingua bene i caratteri accidentali che gli sono propri e stia

    ben attento ai casi in cui egli desidera in un modo e l'allievo agisce in un altro, senza che vi sia alcun

    vantaggio essenziale da un lato o dall'altro. In questi casi l'educatore deve immediatamente recedere dal

    suo desiderio; bisogna, se possibile, addirittura reprimerne la manifestazione. Cerchino pure i genitori

    privi di senno di acconciare i loro figli e le loro figlie secondo il proprio gusto, stendano pure sopra il

    legno non piallato vernici d'ogni sorta; questa vernice, negli anni della raggiunta indipendenza, sarà

    violentemente scrostata, e certamente non senza dolore e senza danno; il vero educatore, se non può

    impedirlo, per lo meno non vi prenderà parte; egli è impegnato a costruire il suo edificio, per il quale

    trova sempre nelle anime infantili un ampio spazio libero. Egli si guarderà bene dall'intraprendere cose

    che non gli possano meritare alcuna gratitudine; egli lascia volentieri integro all'individualità l'unico

    vanto di cui è suscettibile, ossia d'essere nettamente delineata e riconoscibile a prima vista; per sé, egli

    ambisce un solo onore, che si scorga intatta nell'uomo che fu soggetto alla sua volontà l'impronta pura

    della persona, della famiglia, della nascita e della nazione".

    Libro secondo, pp. 69-72

    4) L'istruzione

    E' una follia voler abbandonare l'uomo alla natura o addirittura voler ricondurvelo ed educarlo in questo

    senso: che cos'è infatti la natura dell'uomo? Per gli stoici come per gli epicurei essa fu parimenti il

    comodo sostegno dei loro sistemi. La naturale disposizione dell'uomo, che sembra calcolata in funzione

    di condizioni fra loro assai diverse, oscilla in una tale generalità che la determinazione prossima, il

    compimento rimangono assolutamente affidati alla specie. La nave, costruita con somma maestria per

    poter secondare con tutte le possibili oscillazioni le onde ed i venti, attende ora il nocchiero che le

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    indicherà la meta e la dirigerà nel suo viaggio secondo le circostanze.

    Noi conosciamo il nostro fine. La natura fa parecchie cose che possono esserci d'aiuto, e l'umanità, sul

    cammino che essa già percorse, ha accumulato molte esperienze; noi dobbiamo combinarle le une colle

    altre.

    I- L'istruzione come integrazione dell'esperienza e del contatto umano

    L'uomo, tramite l'esperienza, perviene naturalmente alla conoscenza e, tramite il contatto umano, alla

    partecipazione. L'esperienza, sebbene sia durante tutta la vita la nostra maestra, non ci dà che un

    minimo frammento di un gran tutto; tempi e spazi infiniti celano a noi una possibile esperienza

    infinitamente più grande. Forse il contatto con gli uomini è relativamente meno povero; i sentimenti di

    quelli che noi conosciamo somigliano infatti in generale ai sentimenti di tutti gli uomini. Ma la

    partecipazione risente delle più delicate distinzioni e la sua unilateralità è molto peggiore

    dell'unilateralità della conoscenza. Pertanto le lacune che il contatto con gli uomini lascia sussistere

    nella piccola sfera dei sentimenti, e quelle lasciate dall'esperienza nella cerchia ben maggiore del

    sapere, sono per noi pressoché equivalenti; ed in entrambi i casi occorrerà accogliere di buon grado

    ogni tentativo di integrarle mediante l'istruzione.

    [...]

    Di fatto, chi mai potrebbe fare a meno dell'esperienza e del contatto umano nell'educazione? Sarebbe

    come se ci si dovesse privare della luce del giorno, per contentarsi del lume della candela! Ricchezza,

    forza, determinazione individuale per tutte le nostre rappresentazioni, pratica nell'applicare il generale,

    aderenza alla realtà, al proprio paese, al proprio tempo, tolleranza verso gli uomini come essi sono:

    tutto questo deve esser attinto a quelle sorgenti primigenie della vita spirituale.

    [...]

    Ma infine, se ci richiamiamo nuovamente al nostro scopo, cioè alla multilateralità dell'interesse, risulta

    evidente come siano limitate le opportunità che dipendono dal luogo cui si è legati, e come e con

    quanta ampiezza lo spirito autenticamente colto le trascenda. Anche il sito più favorevole ha dei limiti

    così ristretti che nessuno potrebbe mai assumersi la responsabilità di rinchiudervi la formazione

    culturale di un giovane, a meno che non vi sia costretto dalla necessità. Se il giovane ha tempo

  • 16

    disponibile e un insegnante, nulla allora dispensa quest'ultimo dall'estendersi nello spazio mediante

    descrizioni, dall'andare a prendere dal tempo la luce del passato, e dall'aprire ai concetti il regno del

    soprasensibile.

    [...]

    In verità, l'esperienza e il contatto umano spesso ci vengono a noia, e talvolta siamo costretti a

    sopportarli. Ma bisogna che l'allievo non abbia a soffrire un simile inconveniente per opera

    dell'insegnante. Esser noiosa è il peccato più grave dell'istruzione! La sua prerogativa è quella di

    sorvolare steppe e paludi; se non le è sempre possibile procedere in valli amene, per compenso

    s'esercita in ascensioni alpine e ricompensa con l'ampiezza dei panorami».

    FERRANTE APORTI (1791-1858)

    F. Aporti, Manuale di educazione ed ammaestramento per le scuole infantili, Tipografia della Svizzera

    italiana, Lugano 1846, in Id., Scritti pedagogici editi e inediti, a cura di A. Gambaro, Chiantore, Torino

    1944, vol. I, pp. 22-24.

    [L’educazione deve essere fisica, intellettuale e morale]

    «L’uomo ha una lunga infanzia di tutte le sue facoltà, e come assai cure è necessità adoperare allo

    sviluppo delle sue forze fisiche ed a renderle robuste, altrettanto almeno adoperar si deve per le sue

    facoltà intellettuali e morali. Come cresce e si fa robusto nel corpo (che è strumento delle sue

    operazioni intellettuali e morali), così deve accrescere e farsi robusto nell’anima, educando a verità la

    mente, e il cuore a virtù. Dalle mancate o false direzioni ed istruzioni, le sue facoltà stesse rimangono

    quasi ottenebrate e ottuse.

    L’arte che insegna a sviluppare le facoltà del fanciullo ed a dirigerle colla maggior efficacia e sicurezza

    alla debita perfezione chiamasi educazione. E poiché le facoltà dell’uomo sono di triplice ordine,

    fisiche, morali ed intellettuali, così di tre specie è pure l’educazione, cioè fisica, morale ed intellettuale.

  • 17

    L’arte poi che insegna a comunicare alla mente dei fanciulli cognizioni ed abilità tali da poter agire da

    sé colle proprie facoltà chiamasi istruzione. Anche l’istruzione può dividersi in fisica, morale ed

    intellettuale, giusta le abilità parziali che si comunicano ai sensi, o all’intelletto, od al cuore. […] L’arte

    pertanto che dirige il maestro a ben educare ed istruire i fanciulli è quella che noi diciamo pedagogia.

    Ove si consideri che all’istitutore dell’infanzia si consegnano da istruire fanciulli digiuni ancora d’ogni

    cognizione, imperiti dell’arte di acquistarne, infermi di ragione, deboli di corpo, si scorge tosto che non

    potrà egli impartire con successo l’ammaestramento, se prima non prepari convenevolmente le facoltà

    del fanciullo a riceverlo. Perciò si deduce che egli abbisogna di due arti: l’una che lo diriga a

    sviluppare a dovere le facoltà de’ suoi alunni, l’altra che lo guidi a fornirli delle proporzionate e

    convenienti abilità intellettuali e morali».

    F. Aporti, Sulle scuole di Lombardia e principalmente sulle infantili, in Id., Scritti pedagogici editi e

    inediti, a cura di A. Gambaro, Chiantore, Torino 1944, vol. I, pp. 201-206.

    [Motivi storici e sociali che favorirono o intralciarono il sorgere delle scuole materne]

    «Distrutte o rese inefficaci presso che tutte le forze morali e d’opinione dei secoli precedenti, per le

    rivoluzioni che agitarono il mondo sul declinare del XVIII secolo e il principiare del nostro, nessun

    altro appoggio rimaneva all’ordine sociale (parlo della Lombardia) tranne le istruzioni e pratiche

    religiose diligentemente esercitate dai parrochi ne’ dì festivi […]. Di qui derivò in gran parte nel

    popolo nostro quella crassa ignoranza d’ogni verità che è fondamento e conforto alla virtù e pietà vera:

    ignoranza che minacciava di precipitare nella più spaventevole degradazione il pubblico costume.

    Il Governo nostro sapientemente adottò l’unico rimedio atto a sanare radicalmente le piaghe morali di

    un popolo, e quindi si fece ordinatore e propagatore dell’istruzione popolare erigendo le scuole

    pubbliche elementari. Nel 1821 pertanto si videro aperte a carico del R. Erario le scuole maggiori

    maschili e femminili in ogni città capoluogo di provincia […]. V’ebbero nei primi anni i detrattori del

    sistema di popolare istruzione; i più, perché argomentavano i pericoli per soverchio esaltamento

    dell’umana mente, e non pochi (i furbi) perché travedevano nella dissipata ignoranza del volgo scemati

    i mezzi del loro turpe guadagno […]. Ma i buoni cessarono dal temere, dappoiché videro che ove nella

    pubblica istruzione si faccia progredire di pari passo la cultura morale ed intellettuale della gioventù,

  • 18

    ove i maestri siano educatori ed istruttori insieme di fanciulli, allora le scuole popolari diventano

    medicina e preservativo dalla infezione de’ vizi. Si vide poi come i fanciulli allevati nelle scuole, e

    giusta i metodi prescritti, son divenuti umani, intelligenti, pii, devoti; come invece rimangono rozzi e

    violenti quei che non le frequentano; e come in fine non v’abbia altro mezzo, fuor questo, onde

    prevenire tutti i danni che derivano al pubblico costume, e quindi alla religione pratica, dalla ignoranza

    o dalla negligenza o dalla corruzione dei genitori incapaci di essere abili educatori della prole.

    Ma nel generale impulso dato allo spirito di comune religiosa e letteraria educazione, ben presto si

    ravvisò che per male avvertite cagioni il frutto delle pubbliche scuole non riusciva sì ubertoso, quale

    sembrava riprometterlo e la ragionevolezza dei metodi, e l’utilità somma delle materie da insegnarsi, e

    lo zelo dei maestri abilissimi; si presentarono ai pubblici istituti fanciulli già guasti nelle inclinazioni e

    nell’intelletto, ovvero del tutto storditi, e questi era sommamente difficile di raddrizzare e condurli al

    grado di progresso possibile all’età loro. Se ne indagarono più da vicino le cagioni, e si riconobbero

    evidenti nel sistema vizioso delle così dette Scuole delle Maestre, alle quali suolsi fra noi consegnare i

    fanciulli appena che sappiano camminare, e più ancora in molte parti della educazione domestica».

    FRIEDRICH FROEBEL (1782-1852)

    F. Froebel, L'educazione dell'uomo e altri scritti, [1826], tr. it. a cura di A. Saloni, La Nuova Italia,

    Firenze 1960.

    L'educazione dell'uomo, pp. 3-11

    «In tutte le cose è riposta, agisce e domina una legge eterna. Questa si rivelò e si rivela, sempre

    ugualmente chiara e determinata, all'esterno, nella natura, e all'interno, nello spirito, e nella vita che

    insieme li congiunge. [...] Base necessaria di questa legge dovunque imperante è necessariamente una

    Unità dovunque operante, chiara a se stessa, vivente, autocosciente, e quindi eterna. Tale fatto è, a sua

    volta, come l'Unità stessa, riconosciuto al medesimo modo o attraverso la fede o attraverso la

    contemplazione e con uguale vivezza, profondità ed estensione [...]

  • 19

    Questa Unità è Dio.

    Tutto si è originato dal divino, da Dio, tutto è unicamente condizionato dal divino, da Dio; in Dio è il

    fondamento unico di tutte le cose.

    In tutto riposa, agisce, domina il divino, Dio.

    Tutto riposa, vive, sussiste nel divino, in Dio, e mediante il divino, mediante Dio.

    Tutte le cose esistono, solo perché il divino opera in esse.

    Il divino operante in ogni cosa ne costituisce l'essenza.

    [...]

    Lo stimolo, l'azione esercitata sull'uomo come essere che diviene consapevole di sé, pensante,

    intelligente, verso la rappresentazione pura e incontaminata della legge interiore, del divino, con

    coscienza e libertà, e l'indicargli la via e i mezzi che vi conducono, questo costituisce l'educazione

    dell'uomo.

    La conoscenza, la consapevolezza di quella legge eterna, la penetrazione del suo fondamento, della sua

    essenza, del complesso, della relazione e vitalità dei suoi effetti, la conoscenza dalla vita e della vita nel

    suo insieme è scienza, è scienza della vita, e trasportata dall'essere cosciente, pensante, intelligente alla

    rappresentazione e all'esercizio per sé e in sé, questa è la scienza della educazione.

    I precetti che derivano dalla conoscenza, dalla penetrazione in essa, per l'essere pensante e intelligente,

    così che acquisti consapevolezza della propria missione e attui il proprio destino, costituiscono la

    dottrina dell'educazione.

    L'applicazione spontaneamente attiva di questa conoscenza e di questa penetrazione, di questo sapere

    per l'immediato sviluppo e perfezionamento di esseri ragionevoli, affinché raggiungano la propria

    destinazione, costituisce l'arte dell'educazione.

    Il fine dell'educazione è la rappresentazione di una vita fedele al suo compito, pura, incontaminata e

    perciò santa.

    La conoscenza e l'applicazione, la consapevolezza e la rappresentazione insieme congiunte,

  • 20

    unificandosi nella vita per una vita fedele al suo compito, pura e santa, sono la saggezza della vita, sono

    la saggezza in sé.

    Essere saggio è la più alta aspirazione dell'uomo, la realizzazione massima dell'autodeterminazione

    dell'uomo.

    Educare se stessi ed altri con coscienza, libertà e spontaneità, questo è il duplice compito della

    saggezza. Esso ebbe il suo inizio col primo apparire dei singoli uomini sulla terra e si affermò col

    primo apparire della completa autocoscienza dell'essere singolo, ed ora comincia ad esprimersi come

    umana esigenza necessaria, universale, e come tale a trovare ascolto ed applicazione.

    [...]

    Il divino dunque che è nell'uomo, la sua essenza, deve nell'uomo stesso attraverso l'educazione venire

    sviluppato, rappresentato fino alla consapevolezza, ed egli, l'uomo, deve essere elevato ad una libera,

    cosciente vita ad esso conforme, alla libera rappresentazione di questo divino in lui operante.

    Il divino, lo spirituale, l'eterno che è nella natura intorno all'uomo, che costituisce l'essenza della natura

    e in essa senza posa si manifesta, questo devono l'educazione, l'istruzione portare all'intuizione

    dell'uomo e farglielo riconoscere, così come in vitale reciproca azione e unite all'insegnamento devono

    esprimere e rappresentare l'identità delle leggi che regolano la natura e l'uomo.

    L'educazione nel suo complesso, attraverso l'educazione propriamente detta, l'istruzione e

    l'insegnamento, deve destare nell'uomo, e renderla attiva nella vita, la consapevolezza che l'uomo e la

    natura procedono da Dio, sono da Dio condizionati, in Dio trovano il proprio riposo.

    L'educazione deve guidare e condurre l'uomo alla chiarezza su di sé e in se stesso, alla pace con la

    natura e all'unione con Dio. Perciò deve innalzare l'uomo alla conoscenza di se stesso e dell'uomo, alla

    conoscenza di Dio e della natura e alla vita pura e santa da essa condizionata.

    Ma in tutte queste esigenze l'educazione si basa sull'interno, sull'intimo e su questo riposa.

    Tutto quanto è interiore viene conosciuto passando dall'interno all'esterno e per mezzo dell'esterno.

    L'essenza, lo spirito, il divino delle cose e dell'uomo viene conosciuto nelle sue e nelle loro

    manifestazioni. E sebbene, secondo questo, le manifestazioni dell'uomo e delle cose siano ciò a cui si

  • 21

    riallaccia ogni educazione, ogni istruzione, ogni insegnamento, ogni vita come testimonianza della

    libertà, e partendo dall'esterno agisca sull'interno e in esso si conchiuda, non può tuttavia l'educazione,

    e non deve, conchiudere assolutamente dall'esterno all'interno, la natura delle cose esige che si

    conchiuda sempre, in qualsiasi rapporto, inversamente, dall'esterno all'interno e dall'interno all'esterno.

    Così dalla molteplicità e dalla pluralità della natura non si deve conchiudere a una pluralità della

    condizione ultima della natura stessa, non ad una pluralità degli dei, e neppure si deve dall'unità di Dio

    conchiudere a una unità della natura, ma in tutti e due i casi si deve invece dalla molteplicità della

    natura conchiudere all'unità del suo principio ultimo, Dio, e dall'unità di Dio alla molteplicità degli

    sviluppi naturali, procedente in eterno.

    Il non applicare tale verità ora enunciata, e ancora più il continuo peccare contro di essa, il conchiudere

    assolutamente da certe manifestazioni esterne nella vita dei bambini e dei fanciulli al loro interno, è il

    motivo più essenziale delle evidenti lotte e contraddizioni, degli errori così frequenti nella vita e

    nell'educazione. In questo ha la sua certa base la conoscenza infinitamente falsa dei bambini, dei

    ragazzi e dei giovanetti, da questo derivano la riuscita tanto pessima dell'educazione dei bambini, tanti

    malintesi tra genitori e figli, sia da una parte che dall'altra, tanti inutili lamenti, e così pure l'orgoglio

    inopportuno e la folle speranza nei fanciulli. Perciò questa verità nella sua applicazione è tanto

    importante per i genitori, gli educatori e i maestri, che essi tutti insieme dovrebbero adoperarsi per

    famigliarizzarsi con tale sua applicazione fin nel minimo particolare. [...]

    Perciò l'educazione, l'istruzione e l'insegnamento fin dall'inizio e nei loro primi elementi devono

    necessariamente lasciar fare, assecondare (solo preservando, proteggendo) e non prescrivere,

    determinare, intromettersi.

    Ma l'educazione tale deve essere anche in se stessa, perché l'azione del divino è necessariamente buona

    ove non sia disturbata, deve essere buona, non può essere altro che buona. Questa necessità deve

    presupporre che l'uomo ancor giovane, quasi nella prima formazione, anche se ancora inconsapevole

    come un prodotto della natura, tuttavia con risolutezza e sicurezza voglia il meglio in sé e per sé, ed

    oltre questo in una forma a lui del tutto adatta, quale egli sente che rappresenta anche tutte le sue

    disposizioni, le sue forze e le sue capacità.

    [...]

  • 22

    Veramente di rado la natura ci mostra, specie nell'uomo, il suo stato integro, originario; ma tanto più

    deve questo essere presupposto specialmente in ogni singolo uomo, fino a che il contrario non si

    manifesti con certezza, se no lo stato integro originario, là dove si potrebbe trovare ancora sano,

    potrebbe anche facilmente essere distrutto. Ma se dal complesso dell'uomo da educare sorge la certezza

    dell'alterazione dell'elemento originario, se tale alterazione proviene sicuramente dall'interno e dal tutto

    esterno, allora interviene precisamente in tutta la sua energia quella forma di educazione che determina

    e pretende.

    Ma non sempre si può, anzi spesso è difficile, dimostrare con certezza il corrotto manifestarsi

    dell'interno, o almeno il punto, la fonte dalla quale la manifestata corruzione ebbe l'origine, il principio,

    la direzione che ha preso. Per di più l'ultima pietra di paragone, infallibile per la sua natura, è posta

    riguardo a ciò proprio e solo nell'uomo stesso. Perciò anche da questo punto di vista l'educazione,

    l'insegnamento ed ogni istruzione devono di gran lunga tollerare, assecondare, più che determinare e

    prescrivere, poiché attraverso quest'ultimo procedimento andrebbe purtroppo perduto il puro continuo

    svolgimento, il sicuro e costante perfezionamento del genere umano, vale a dire la rappresentazione

    con libertà e spontaneità del divino nell'uomo e mediante la vita dell'uomo, il che costituisce l'unica

    mira e la sola aspirazione di ogni educazione e di ogni vita, come pure l'unica destinazione dell'uomo.

    Perciò la forma di educazione dell'uomo, la quale puramente determina, esige e prescrive, comincia

    propriamente quando comincia la consapevolezza di sé, quando comincia l'unione di vita tra Dio e

    l'uomo, quando ha principio la comprensione e la comunità di vita tra padre e figlio, tra giovane e

    maestro, perché allora si può dedurre e riconoscere la verità dall'essenza del tutto e dalla natura del

    singolo.

    Prima dunque che il turbamento e la corruzione dell'originario, sano stato dell'educando sia in

    particolare dimostrata nell'origine e nella direzione e riconosciuta con certezza, non rimane altro da fare

    che collocare lo stesso educando in rapporti ed ambienti che lo riguardino da ogni punto di vista, dove

    la sua condotta gli si rifletta da diversi lati attraverso se stessa come in uno specchio ed egli la

    riconosca con facilità e rapidità nei suoi effetti e conseguenze, dove il suo vero stato possa essere

    facilmente riconosciuto da lui stesso e da altri, e dove il prorompere e il manifestarsi dell'interno

    turbamento della vita nuocciano il meno possibile».

  • 23

    ARISTIDE GABELLI (1830-1891)

    A. Gabelli, Il metodo d'insegnamento nelle scuole elementari d’Italia, [1880], La Nuova Italia, Firenze

    1992.

    III, pp. 71-72

    «Tutto il segreto della buona riuscita della scuola sta nel saper trar profitto dell'istruzione che

    qualunque bambino ha ricevuto prima di entrarvi, nel seguitare cioè dentro di essa, in luogo di rompere,

    il filo delle idee che egli raccolse fuori. Quanto minore sarà il distacco tra la scuola e la vita che il

    bambino condusse fino al giorno in cui vi mise piede, quanto più l'insegnamento del maestro

    somiglierà alla istruzione ch'egli ricevette dalla natura, tanto maggiore sarà il suo piacere e perciò il suo

    profitto. Noi non abbiamo infatti, né potremmo avere curiosità dell'ignoto. Bisogna che una cosa ci sia

    nota a metà, perché ci venga il desiderio di conoscerla intera. In altre parole, impariamo volentieri

    soltanto quando ci si lascia credere che presso a poco già sapevamo quello che ci si insegna. Allora la

    compiacenza che scatta subito dall'amor proprio ravviva e tien desta la nostra attenzione, e con questo

    solo si è già fatto mezzo il cammino.

    Ma qual è la vita che il bambino fece prima di entrare alla scuola? Quella dei sensi, che furono, si può

    dire, i soli suoi maestri. Continuiamo dunque questa prima istruzione della natura, in luogo

    d'interromperla in guisa ch'egli ne resti confuso e umiliato, e insieme cerchiamo di secondare quant'è

    più possibile i suoi utili istinti e le sue inclinazioni.

    I fanciulli giocano dunque dei giochi che rammentino loro le cose vedute in casa, per le strade, in

    campagna, che attraggano la loro curiosità, e insieme procaccino loro il piacere di far da sé qualche

    cosa».

    IV, pp. 79-81

    «[…] Siccome poi delle cose sensibili l’idea più chiara si acquista per mezzo dei sensi, così non si

    descrive soltanto, e meno ancora si definisce, ciò che può far vedere e toccare, ma si presenta agli

    scolari o in natura, se è fattibile, o, se no, in plastica o in disegno, l’oggetto stesso su cui è caduto il

    discorso. Si parla, suppongasi, dell'elefante. Il maestro, e il maestro campagnuolo principalmente,

  • 24

    volendo spiegare che cosa significhi questo nome, ha un bel sudare co' suoi contadinelli, predicando

    loro che è un animale ben grande, di colore cenerognolo, grosso di testa, col dorso in arco, con quattro

    gambe massicce a guisa di colonne e un lungo naso elastico penzoloni fra due enormi denti bianchi

    sporgenti in fuori. Che conchiudono tutte queste parole? Che è questo strano naso? Che questi denti, ai

    quali nessuno vide mai cosa simile? Malgrado questa e qualunque altra molto miglior descrizione,

    entrerà, come a dire, una nuvola nella testa di quei poveri fanciulli, tanto che ognuno di essi si fingerà

    quest'animale alla sua maniera e in ultimo, meno il nome, ne saprà all'incirca come prima. Fate invece

    che il maestro, dopo di avere abitualmente stuzzicato la loro curiosità, tragga fuori una tavola in cui

    l'elefante sia dipinto: eccovi tutti gli occhi sospesi in quella con una così bramosa curiosità, che

    l'immagine va ad imprimersi profondissima nella memoria e non si cancella per tutta la vita.

    Quell'immagine offerta appena è come una rivelazione, dissipa tutti gli errori, tutte le idee preconcette,

    tutti i pregiudizi, è la viridica parlante, e non lascerà luogo mai più a fole, a vane meraviglie, a

    esagerazioni.

    Ma il maestro ha poi finito col mettere fuori all'occasione un oggetto qualunque in plastica o dipinto

    sopra un cartone e farlo vedere a’ suoi alunni? Quest'ufficio sarebbe in verità troppo semplice, e la

    pedagogia non se ne accontenta. Che bell'occasione, quando la curiosità è desta, quando c'è

    un'immagine precisa e netta davanti agli occhi che raccoglie tutta l'attenzione, quando tutti quei visini

    stanno là attenti e silenziosi rivolti al loro maestro, che bell'occasione per lui, diciamo, di mettere delle

    idee nuove in quelle menti aperte e vogliose, di fecondare quella prima impressione, di tirar dentro

    storia, geografia, costumi di popoli, tutto, e rimandare a casa i suoi bimbi con ben altro bottino che

    quelle regole della grammatica imparate a memoria senza capirle a forza di rimbrotti e di castighi. Ma

    l'elefante! É quell'animale che Pirro condusse in Italia, quando ci venne per muover guerra ai Romani e

    di cui i Romani in principio avevano tanta paura. Del resto, l'elefante c'è in molti paesi, c'è in Asia e c'è

    in Africa; in Asia mansueto, in Africa invece selvaggio; selvaggio, ma non per questo inutile all'uomo.

    Anche dove non lo si adopera per gli usi della vita quasi come da noi l'asino e il bue, gli si dà la caccia

    per averne l'avorio, di cui si fa un commercio misterioso, per via di molte tribù intermediarie,

    cogl'indigeni del centro dell'Africa ancora poco conosciuti. E qui all'uopo nuove tavole cogl'Indiani che

    caricano gli elefanti, e le case, le piante. Gli aspetti dei paesi di cui si parla. Al bisogno, il maestro si

    leva e disegna sulla lavagna il bacino di un fiume, una capanna, un canotto. Tutti gli occhi son lì

    sospesi a quella tavola nera; che silenzio da sentir volare una mosca, che attenzione, che rispetto per

  • 25

    quel bravo maestro, che scuola!».

    A. Gabelli, L'istruzione e l'educazione in Italia, [1891], La Nuova Italia, Firenze 1950.

    XII- Sul lavoro manuale nelle scuole di Germania, pp. 201-213 (si tratta di un saggio già pubblicato da

    Gabelli nella rivista «Risveglio educativo» del gennaio 1887).

    I.

    «Il lavoro fu senza dubbio da tempi immemorabili oggetto di insegnamento. Certamente si insegnò a

    lavorare molto prima che non a leggere, poiché la vita civile non incomincia altrimenti. Ma non per

    questo mi fermerò a cercarne le origini nei primordi della civiltà e neppure in Egitto, od in Babilonia.

    Noterò soltanto che il lavoro s'è insegnato fra noi lungo tutto il medioevo da alcune corporazioni

    religiose e da istituti di beneficienza, e s'insegna ancora oggi negli orfanotrofi, negli istituti dei ciechi e

    dei sordomuti e infine nelle scuole degli artieri e nelle industriali e professionali. Però tutto questo

    lavoro, che pure fu ed è oggetto di insegnamento anche nelle scuole, non ha a che fare con quel lavoro

    che chiamasi manuale e di cui si parla al presente.

    Bisogna infatti distinguere il lavoro che costituisce l'oggetto speciale, o almeno il principale di una data

    scuola, ch'è fine a se stesso, che mira al guadagno, da quel lavoro che in una scuola viene aggiunto alle

    altre materie di studio coll'intento puramente pedagogico di sviluppare in modo armonico tutte le

    attitudini umane e di rendere men incompiuta l'educazione. Soltanto di questa seconda specie di lavoro,

    che non è un fine ma un mezzo, e si adopera soprattutto come correttivo di un'istruzione intellettuale,

    che indebolisce il corpo e a cui si congiungono pure non pochi danni, può essere discorso qui. Ciò

    segnatamente parlando della Germania, dove le istituzioni che insegnano invece quell'altro lavoro, che

    avvia ad un'arte e mira direttamente alla vita, sono, oltreché molto anteriori di origine, così varie di

    intento e copiose di numero, da non bastare a renderne conto anche fuggevolmente, un volume.

    Per verità neppure il lavoro pedagogico, il lavoro cioè che va introducendosi nelle scuole come

    contrappeso, se così si può dire, all'istruzione intellettuale, o come strumento educativo, si può

    chiamare del tutto nuovo. L'idea almeno non è nuova, tanto che ne parlarono chiarissimamente, come

    del mezzo più adatto a formar l'uomo tutto intero, Bacone, Montaigne, Comenius, Locke, Rousseau,

  • 26

    Basedow, Salzmann, Pestalozzi e più efficacemente di tutti Froebel. Ma il cammino dell'umanità non

    sarebbe così faticoso e così lento, se le idee non abbisognassero di un tempo assai lungo, per passare

    dall'uno ai molti e dal dominio del pensiero a quello dei fatti. Come di tante altre cose, così avvenne

    anche dell'introduzione del lavoro nelle scuole. Benché da tre secoli, col risorgere degli studi classici e

    dell'ammirazione per l'antichità, si sia cominciato a farne parola da alcuni solitari pensatori, benché da

    allora si scorga nella storia della pedagogia una traccia non interrotta della medesima idea, quest'idea

    non si vede produrre il suo effetto ed entrare in pratica se non da pochi anni.

    A farla trapassare dai libri nella vita contribuì più di tutti il Froebel, in quanto guidato dal suo concetto

    dell'educazione armonica e compiendo il metodo del suo maestro, il Pestalozzi, a destare la curiosità e

    l'attenzione e a fornire idee chiare delle cose, infliggendole profondamente nella memoria, non credette

    bastevole il vedere e il toccare. A questi fini stessi, oltreché a secondare il naturale istinto dei fanciulli,

    a trar partito dalla loro alacre irrequietezza, a variare gradevolmente l'insegnamento procurando loro un

    sano sollievo, a prepararli, esercitando per tempo l'occhio e la mano, alla vita, egli credette dover

    conferire sopra tutto il lavoro, o in altri termini, non già soltanto il vedere o il toccare, secondo il

    metodo del Pestalozzi, ma il fare».

    [...]

    II.

    «Esposti i fatti, vediamo se sia possibile trarne qualche conclusione non del tutto inutile per noi.

    Dalla storia della pedagogia si vede chiaro, che gli sforzi di tutti i riformatori mirarono in ogni tempo a

    un unico intento, a ringiovanire la scuola e riaccostarla alla vita. I mezzi da essi proposti differirono

    grandemente, ma il fine fu sempre lo stesso e uno solo.

    La storia dei mezzi posti innanzi a questo intento è in conchiusione la storia della pedagogia. Inutile

    quindi avvertire che qui non è luogo neppur di accennarli. Dirò soltanto che il mezzo, non già proposto,

    poiché, come fu avvertito, la proposta è antica, ma sperimentato più di recente, è il lavoro manuale.

    Le ragioni teoriche molte e gravi, che lo raccomandano, combinano, fu già notato, colle condizioni

    economiche e industriali del nostro tempo. Ma appunto perciò non si può non vedere, che sospinta

    com'è dal duplice impulso delle teorie pedagogiche e delle inclinazioni del tempo, la cosa procede a

  • 27

    passo stentato e assai lento. In Germania, infatti, un paese tutt'altro che restio alla novità in materia di

    istruzione e dove il Froebel era già corso innanzi ad aprir la via, quest'opera è incominciata da più di

    venti anni e ancora oggi non vi si parla se non di prove, di esperimenti e di saggi. Le scuole in cui è

    introdotto il lavoro sono assai poche in paragone alle altre, forse una o due in cento; anche in queste gli

    alunni ammessi al lavoro si riducono a un piccolo numero rispetto agli iscritti alla scuola; infine il

    lavoro è sempre una materia facoltativa aggiunta alle altre fuori delle ore di studio, come si potrebbe

    aggiungervi la scherma o un altro esercizio, talvolta in un locale che non è neppure annesso alla scuola,

    e tal altra senza legame alcuno coll'istruzione intellettuale.

    [...]

    Il lento procedere del lavoro manuale come materia aggiunta all'istruzione intellettuale nelle scuole

    ordinarie, ha le sue grandi ragioni, perché tanto son forti le considerazioni teoretiche con cui si suole

    raccomandarlo, altrettanto gravi sono le difficoltà da superare nel porlo in pratica. Il lavoro quale è

    oggi, e prescindendo da espedienti che fino ad ora non furono trovati, non può essere insegnato che

    individualmente, all'incirca come si fa ai garzoni nelle officine e nelle botteghe. Ciò limita a un piccolo

    numero gli alunni ammissibili contemporaneamente nelle officine, tanto più che non è facile il

    mantenere, durante il moto e lo strepito del lavoro, la disciplina; donde la necessità di un considerevole

    numero di locali e di un numero proporzionato di maestri, e una spesa che i governi, né per la maggior

    parte i comuni, sono disposti a sostenere. Ma a ciò sono da aggiungere le discrepanze intorno al

    metodo, che varia infinitamente per la qualità e l'ordine dei lavori e del quale si può quasi dire per ora

    che ognuno ha il suo.

    In Germania prevale un metodo eclettico venuto su in parte dal Froebel (il cartonaggio), in parte tolto

    dall'esempio della Svezia (oggetti in legno di uso domestico), o inventato e in via di continuo

    miglioramento (costruzione di strumenti scolastici). Ma poi chi accetta la modellatura in creta e chi no,

    chi aggiunge al lavoro del legno quello dei metalli e chi l'esclude, chi considerando la scuola come uno

    strumento di preparazione alla vita, vorrebbe dare al lavoro un indirizzo più usuale, più direttamente

    proficuo, e un intento più industriale, chi ritenendo che la scuola debba predisporre le attitudini,

    anziché farle fruttificare, preferisce una parte o l'altra del lavoro, secondo che questa o quella viene

    giudicata conferir meglio al fine desiderato.

    Che se usciamo dai confini della Germania, le discrepanze diventano molto maggiori. In Francia, per

  • 28

    esempio, è addirittura un altro modo, tanto che non mi par inutile di notare almeno fuggevolmente le

    differenze principali».

    ROSA AGAZZI (1866-1951)

    R. Agazzi, Guida per le educatrici dell'infanzia (dalla rivista "Pro Infantia", annata 1929-1930),

    [1932], II ristampa, La Scuola, Brescia 1959.

    L'assistenza dei maggiori ai minori, pp. 42-43

    «Quando noi mettiamo un bambino di cinque anni nella condizione di osservare un altro bambino

    inferiore a lui per età e per intelligenza, e gli diciamo: vedi, egli qui in alto non può arrivare, perché è

    basso di statura; vuoi tu aiutarlo? Egli non sa quello che tu sai; vuoi insegnargli qualche bella cosa?

    Egli è debole e tu sei forte; vuoi tu proteggerlo?

    Quando noi facciamo questo, applichiamo un principio della morale cristiana - l'amore per il prossimo -

    mettiamo cioè le basi del sentimento della fratellanza. Chi non vede tutta la bellezza spirituale che in sé

    racchiude l'incontro di due minuscole esistenze, di cui una prova l'impressione della propria pochezza,

    l'altra la gioia nell'intuire che, avendo già superato quello stato di debolezza, si sente in grado di

    insegnare ad altri a superarlo? Il maggiore dei due guidato dall'educatrice a ricordare il cammino

    percorso. "E' vero", pensa: "Io pure un giorno ero piccolo di corpo e di mente, io pure ebbi chi mi aiutò

    a intendere; poi appresi a fare da me solo; ora posso anche insegnare a chi non sa".

    Ecco che il bambino si accorge di percorrere una via che lo conduce verso un progressivo

    miglioramento della propria individualità; ogni giorno che passa egli vede dietro di sé un altro se stesso

    in proporzioni ridotte. Questo fatto può risolversi per l'educando in salutare compiacimento, quando

    l'educatrice sappia farlo rivivere nei rapporti di benevolenza fra il maggiore e il suo pupillo.

    "Vedi? Questo lavoro che tu hai fatto, ieri non lo sapevi fare; ma oggi la tua mano, un poco meno

    ignorante di ieri, ha imparato a muoversi con destrezza; gli occhi, più attenti, hanno veduto meglio; e

    sei stato tu a comandare alla mano e agli occhi di essere un po’ più bravini, perché oggi anche tu hai un

  • 29

    pò più di giudizio di ieri... Il tuo piccolo nel vedere questo lavoretto penserà: 'Oh, guarda, il mio grande

    cosa sa fare!... Lui sì, io no!...'.

    Si inizia, per tal modo, la virtù della longanimità.

    Come avviene di ogni esercizio che più si ripete e più lascia traccia di sé, la frequente vicinanza del

    maggiore al minore alimenta in ambedue il vincolo di una fraterna simpatia. Nulla di più bello del

    vedere i bambini di tre anni intenti ad ammirare, nelle pose più varie, i loro tutori in faccende a

    preparare un giocattolo proprio per loro uso. Guardano in silenzio, compresi delle azioni che vedon

    succedersi nella fabbricazione del modesto oggetto, compresi anzitutto della bravura di chi lo compie.

    Nulla di più grazioso di un maggiore che insegna al piccolo a innaffiare, senza bagnarsi, una

    pianticella; a sollevarlo, perché possa con più agio osservare un disegno sulla lavagna; a rimboccargli

    le maniche prima della lavatura; a insegnargli a pronunciare il nome di un fiore, ad allacciargli il

    bavaglino, a spezzargli il pane; a vestirlo, a condurlo in guardaroba a riporre cose con ordine; a

    segnargli il tempo mentre gli insegna un passo ritmico.

    L'educatrice, anziché cercare di ridurre le occasioni di codesti avvicinamenti, dovrebbe proporsi di

    moltiplicarle: ridurle, significa rinunciare a innumerevoli occasioni di aiutare la sensibilità affettiva de'

    suoi alunni, mentre è specialmente dallo svolgersi di questa convivenza che ella dovrebbe far scaturire

    il programma di una morale in azione. Con fine accorgimento ella porterebbe alla ribalta, senza darsi

    l'aria di colpire, difetti e pregi della sua coorte, guidata sempre dall'intento di sottrarre i piccoli cuori

    alle scorie dell'istinto, per renderli atti a intendere la gioia che ogni anima nobile prova volendo bene e

    giovando al proprio simile».

    Ordine, libertà e intraprendenza negli esercizi di vita pratica. (Ricordando l'asilo di Mompiano), pp.

    265-268

    «Quell'insigne educatore e didatta che era il Prof. Pietro Pasquali (di cui fortunatamente potei essere

    discepola), lasciò scritto: "Tutti siamo convinti che l'ordine materiale influisce potentemente sull'ordine

    morale, perché agisce direttamente sulla intelligenza, sull'igiene, sui costumi, sulla condotta, sul

    carattere. Il disordine è causa di deplorevoli conseguenze; la vita disordinata sparge intorno miserie,

  • 30

    guai, dolori. Lo sappiamo tutti, ma non tutti sappiamo quali mezzi si devono mettere in opera.

    Partiamo da un principio pedagogico: per far acquistare delle abitudini all'educando, bisogna farlo

    agire: per farlo agire, occorrono cose e condizioni favorevoli. Questa è norma di scuola nuova, in

    sostituzione del vecchio sistema, tutto precetti e massime.

    L'esercizio dell'ordine è possibile solo dove persone, cose e azioni rendono probabile il disordine.

    "Quali cose dobbiamo porre intorno al bambino della scuola materna per educarlo al senso dell'ordine?

    Naturalmente le cose che gli occorrono nella vita domestica, poi nella vita collettiva; sono le cose che

    rispondono ai suoi bisogni; egli ha bisogno di tenersi pulito, di nutrirsi, d'imparare a vestirsi e

    spogliarsi, di giocare e lavorare; ha bisogno d'apprendere il rispetto alla roba altrui; ed ecco la necessità

    d'un corredo abbondante di indumenti, d'un materiale ad uso di pulizia ed arredi da refettorio, e

    giocattoli e strumenti da lavoro. Quante saranno le cose? Fatene voi l'inventario, dividendole in due

    categorie: cose permanenti, di cui si rende necessaria l'opera di manutenzione; e cose di consumo, che

    richiedono la continua rinnovazione. Avute le cose, bisogna fissare a ciascuna il suo posto: ed ecco gli

    esercizi d'ordine: uso, manutenzione, movimento, collocamento, e via"1.

    Provveduto un numero considerevole di cose attinenti alla vita, stabilito nell'ambiente un ordine

    inappuntabile, organizzate le azioni dei bambini a base rigorosamente logica e naturale, viene bandito

    ogni convenzionalismo per far posto alla libertà di parola e d'azione, condizione indispensabile per

    mettere il bambino in rapporto diretto coll'educatrice e manifestarle tutto l'essere suo.

    In un ambiente educativo dove il moto è libero e la libertà è diretta dalla responsabilità personale,

    l'intelligenza ha parte attivissima. Osservazioni di mezzo e di fine, di causa e di effetto, di principio e di

    conseguenza, confronti, impulsi d'iniziativa nascono ad ogni momento, promuovendo nei bambini

    l'azione, la riflessione, il linguaggio.

    Nell'opera citata, il Prof. Pasquali dice ancora: "Si nota, ed è naturale, che i bambini sono

    intraprendenti dove maggiore è la libertà che loro concede di sperimentare l'uso delle cose. Per

    esempio, chi è bene esercitato ad empire, vuotare e trasportare vasche, è pure addestrato a maneggiare

    tali recipienti in modo da non versare l'acqua sui piedi; e dove sarà necessario l'aiuto di forza e

    1 Cfr. P. Pasquali, Il nuovo spirito dell'Asilo, ed. Vallardi, La Voce delle maestre d’asilo Unione Tipografica, Milano 1910.

  • 31

    destrezza, sarà quello stesso il primo ad accorrere; chi è solito tuffare e sciacquare catinelle, ha

    imparato l'arte di tuffarle meglio e presto, felice quando in tale faccenda occorrerà la prontezza

    dell'opera sua. Anche nei piccoli atti il bimbo dà a scorgere le acquistate abilità; a veder con quale

    accorgimento le sue manine si prestano a staccar fiori col gambo lungo, a non pungersi dove ci sono

    spine, a non rovinare bottoncini, a entrare fra i cespi con grazia, si dice subito: questo bimbo è stato

    esercitato, ha imparato ed è solito coglier fiori, anche da solo.

    Le prime lezioni d'iniziativa e d'intraprendenza, a base di abilità, non sono pane per tutti i denti e non

    s'imparano sui libri; bisogna che l'educatrice faccia a proposito uno studio speciale".

    Tra gli esercizi di vita pratica che maggiormente rispondono ai suesposti concetti, hanno il primato le

    lavature con arredi di mobili e la preparazione delle mense. E' veramente meraviglioso questo andare e

    venire disciplinato e gaio di bambini che stanno preparando un refettorio per il pranzo e una sala per le

    lavature.

    Io credo che il più apatico degli individui dovrebbe sentirsi scosso davanti a quel succedersi di azioni

    dove l'intelligenza, la spontaneità, la grazia, il buon senso si danno la mano nell'addestrare una società

    infantile e conciliare la libertà coll'ordine.

    Una educatrice che sa raggiungere questa finalità non può che avere ben chiaro il concetto della propria

    missione, e se il profano che vede non è in grado di capire quanto ognuna di quelle azioni che il

    bambino compie sia il risultato di intelligente ricerca e di pazienti prove da parte dell'educatrice, chi

    non ignora l'arte di educare dovrebbe nonché approvare, gustare e ammirare. Talvolta invece è

    accaduto che questo miracolo dell'educazione venisse da presunti educatori accolto col sorriso dello

    scherno. Ma oggi chi non sa quale importanza hanno assunto nella scuola materna gli esercizi di vita

    pratica? [...]».

    JOHN DEWEY (1859-1952)

    J. Dewey, Il mio credo pedagogico, in Id., Il mio credo pedagogico. Antologia di scritti

  • 32

    sull’educazione, [1897], tr. it., La Nuova Italia, Firenze 2004, pp. 3-31.

    Articolo I- Cos’è l’educazione, pp. 3-9

    «Io credo che

    - ogni educazione deriva dalla partecipazione dell’individuo alla coscienza sociale della specie. Questo

    processo s’inizia inconsapevolmente quasi dalla nascita e plasma continuamente le facoltà

    dell’individuo, saturando la sua coscienza, formando i suoi abiti, esercitando le sue idee e destando i

    suoi sentimenti e le sue emozioni. Mediante questa educazione inconsapevole l’individuo giunge

    gradualmente a condividere le risorse intellettuali e morali che l’umanità è riuscita ad accumulare. Egli

    diventa un erede del capitale consolidato della civiltà. L’educazione più formale e tecnica che esista al

    mondo non può sottrarsi senza rischio a questo processo generale. Può soltanto organizzarlo o

    trasformarlo in qualche direzione particolare.

    - La sola vera educazione avviene mediante lo stimolo esercitato sulle facoltà del ragazzo da parte delle

    esigenze della situazione sociale nella quale esso si trova. Tali esigenze lo stimolano ad agire come

    membro di un’unità, a uscire dalla sua originaria angustia di azione e di sentire, e a pensare a se stesso

    dal punto di vista del benessere del gruppo del quale fa parte. Attraverso le reazioni degli altri alle sue

    attività esso arriva a capire che cosa queste significano in termini sociali. Ad esse ritorna riflesso il

    valore che esse hanno. Ad esempio, attraverso la risposta che si fa all’istintivo balbettare del fanciullo

    questi giunge a comprendere il significato di questo balbettio. Esso si trasforma in linguaggio articolato

    e in tal modo il fanciullo ha accesso alle ricchezze di idee e di emozioni che sono accumulate e

    consolidate nel linguaggio.

    - Il processo educativo ha due aspetti, l’uno psicologico e l’altro sociologico, e che nessuno dei due può

    venire subordinato all’altro o trascurato senza che ne conseguano cattivi risultati. Di questi due aspetti

    quello psicologico è basilare. Gli istinti e i poteri medesimi del fanciullo forniscono il materiale e

    danno l’avvio a tutta l’educazione. Se gli sforzi dell’educatore non si riallacciano a qualche attività che

    il fanciullo compie di sua propria iniziativa indipendentemente dall’educatore stesso, l’educazione si

    riduce a una pressione dall’esterno. Essa può dare dei risultati esterni, ma non può essere veracemente

    chiamata educativa. Senza una penetrazione della struttura e delle attività psichiche dell’individuo il

    processo educativo sarà, perciò, accidentale e arbitrario. Se coincide fortuitamente coll’attività del

  • 33

    fanciullo, ne verrà stimolato; altrimenti risulterà in un ostacolo o in un agente di disintegrazione o di

    arresto della natura del fanciullo.

    - La conoscenza delle condizioni sociali, o dello stato attuale della civiltà, è necessaria per potere

    interpretare esattamente i poteri del fanciullo. Questi possiede i suoi istinti e le sue tendenze, ma noi ne

    ignoriamo il significato finché non possiamo tradurli nei loro equivalenti sociali. Dobbiamo essere

    capaci di riportarli ad un passato sociale e di vederli come l’eredità di precedenti attività della specie.

    Dobbiamo essere capaci altresì di proiettarli nel futuro per vedere quel che sarà il loro risultato e il loro

    fine. Riferendoci all’esempio fatto sopra, è la capacità di scorgere nel balbettio del fanciullo la

    promessa e la potenza di una futura attività di contatti e scambi sociali che permette di tenere in giusto

    conto quell’istinto.

    - L’aspetto psicologico e quello sociale stanno fra loro in un rapporto organico e che l’educazione non

    può venir considerata come un compromesso fra i due aspetti o come una sovrapposizione dell’uno

    sull’altro. Si afferma che la definizione psicologica dell’educazione è nuda e formale, che ci dà soltanto

    l’idea dello sviluppo di tutti i poteri della mente senza darci nessuna idea del loro impiego. D’altra

    parte si insiste che la definizione sociale dell’educazione come “adattamento” alla civiltà ne fa un

    processo forzato ed esterno e conduce a subordinare la libertà dell’individuo a una situazione sociale e

    politica presupposta.

    - Ciascuna di queste obiezioni è vera quando viene affacciata contro uno dei due aspetti isolato

    dall’altro. Per conoscere quel che è veramente una facoltà dobbiamo conoscerne il fine, l’impiego o la

    funzione, e ciò non è possibile se non si concepisce l’individuo come attivo nei rapporti sociali. Ma

    d’altra parte il solo possibile “adattamento” che possiamo dare al fanciullo nelle condizioni esistenti è

    quello che deriva dal porlo in possesso completo di tutte le sue facoltà. Coll’avvento della democrazia e

    delle moderne condizioni industriali è impossibile predire con precisione cosa sarà la civiltà da qui a

    venti anni. È perciò impossibile preparare il fanciullo a un ordine preciso di condizioni. Prepararlo alla

    vita futura significa dargli la padronanza di se stesso; significa educarlo in modo che egli arrivi a

    conseguire l’impiego intero e pronto di tutte le sue capacità; che il suo occhio, il suo orecchio e la sua

    mano possano essere pronti strumenti di comando, che il suo giudizio possa essere capace di afferrare

    le condizioni nelle quali deve lavorare e le forze che egli deve sviluppare per poter agire

    economicamente ed efficientemente. È impossibile raggiungere questo adattamento se non si tien conto

  • 34

    di continuo dei poteri, dei gusti, e degli interessi propri dell’individuo, cioè se l’educazione non è

    costantemente convertita in termini psicologici.

    Riassumendo, io credo che l’individuo che deve essere educato è un individuo sociale e che la società è

    un’unione organica di individui. Se eliminiamo il fatto sociale dal fanciullo si resta solo con

    un’astrazione; se eliminiamo il fatto individuale dalla società, si resta solo con una massa inerte e senza

    vita. Perciò l’educazione deve iniziarsi con una penetrazione psicologica delle capacità del fanciullo,

    dei suoi interessi e delle sue abitudini. Essa deve essere controllata ad ogni punto con riferimento a

    queste stesse considerazioni. Tali facoltà, interessi e abitudini devono essere continuamente

    interpretate; noi dobbiamo sapere qual è il loro significato. Esse devono esser tradotte nei loro

    equivalenti sociali e mostrare la loro capacità come organi di servizio sociale».

    J. Dewey, Democrazia e educazione, [1916], tr. it., La Nuova Italia, Firenze 2000.

    Cap. XXIII, L’educazione professionale, pp. 393-395

    1. Il significato di professione

    «Attualmente il conflitto delle teorie filosofiche è concentrato sulla discussione circa il posto e la

    funzione che hanno i fattori professionali nell’educazione. L’affermazione nuda e cruda che le

    differenze significative nelle concezioni filosofiche fondamentali hanno in questo argomento il loro

    punto focale può risvegliare l’incredulità; sembra che vi sia una separazione troppo grande fra i termini

    astratti e generali in cui sono formulate le idee filosofiche, e i dettagli pratici e concreti dell’educazione

    professionale. Ma un esame mentale dei presupposti intellettuali che stanno alla base dell’opposizione

    nel campo educativo fra lavoro e svago, fra la teoria e la pratica, fra il corpo e la mente, mostrerà che

    essi culminano nell’antitesi fra l’educazione professionale e la culturale. Tradizionalmente, la cultura

    liberale è stata congiunta con le idee di otium, di conoscenza puramente contemplativa, e di un’attività

    spirituale che non implicava l’uso attivo degli organi del corpo. La cultura ha anche teso, ultimamente,

    ad essere associata a un raffinamento puramente privato, la coltivazione di certi stati ed atteggiamenti

    di coscienza, separati tanto dall’interesse che dalla funzione sociale. È stata un’evasione dal primo e un

    conforto all’ineluttabilità del secondo.

  • 35

    Questi dualismi filosofici sono così profondamente intrecciati con tutto l’argomento dell’educazione

    professionale, che si rende necessario definire il significato di professione in modo abbastanza

    completo da poter evitare l’impressione che un’educazione che si concentri su di essa sia ristrettamente

    pratica, se non puramente pecuniaria. Professione non significa altro che direzione delle attività della

    vita in un senso che le renda percepibilmente significative per chi le pratica in virtù delle loro

    conseguenze, ed anche utili ai suoi associati. Il contrario di attività professionale non è né l’ozio né la

    cultura, ma la mancanza di scopo, il capriccio, l’assenza di acquisizioni cumulative nell’esperienza, dal

    lato personale, e, dal lato sociale, il lusso vano, la dipendenza parassitaria dagli altri. Occupazione è un

    termine concreto per continuità. Include tanto lo sviluppo della capacità artistica di ogni genere,

    dell’abilità scientifica specializzata, dell’interesse politico attivo, quanto le professioni e gli affari, per

    non parlare del lavoro meccanico o delle occupazioni lucrative.

    Dobbiamo evitare non solo che per occupazione s’intenda qualcosa di limitato alle occupazioni che

    producono cose utili immediatamente tangibili, ma occorre evitare anche l’idea che le professioni siano

    distribuite in modo esclusivo, di guisa che una persona non possa averne che una sola. Uno specialismo

    così ristretto è impossibile; niente potrebbe essere più assurdo che cercare di educare gli individui ad un

    unico genere di attività. In primo luogo, ogni individuo ha necessariamente una varietà di aspirazioni

    cui può dare opera intelligente; e in secondo luogo qualsiasi occupazione perde il suo valore e diventa

    una routine che asservisce a una data cosa, nella misura in cui è isolata dagli altri interessi.

    1) Nessuno è solamente artista e niente altro, e quanto più uno si avvicina a questa condizione, tanto

    più lo fa a detrimento della sua umanità; è una specie di mostro. In qualche periodo della sua vita egli

    deve essere membro di una famiglia, deve avere amici e compagni; deve essere o finanziariamente

    indipendente o dipendente da altri, e perciò occuparsi di affari. Egli è membro di qualche unità politica

    organizzata, e così via. Naturalmente noi lo qualifichiamo professionalmente in base a quella delle sue

    occupazioni che lo distingue, piuttosto che in base a quelle che ha in comune con tutti gli altri. Ma non

    dovremmo lasciarci talmente legare dalle parole, da ignorare e virtualmente negare le altre sue

    occupazioni, quando si tratta di considerare gli aspetti professionali dell’educazione.

    2) Come l’attività di un artista professionista rappresenta il momento specialistico di una gamma di

    attività professionali, così la validità della sua arte sul piano umano è determinata dalla sua connessione

    con altri interessi. Uno deve avere esperienze, deve vivere, se la sua arte deve essere qualcosa di più di

  • 36

    un risultato tecnico. Egli non può trovare l’argomento della sua attività artistica nella sua arte; questa

    deve essere un’espressione di quel che egli soffre e gode in altre relazioni, e questo dipende a sua volta

    dalla prontezza e dalla vivezza dei suoi interessi. Ciò che è vero per un artista è vero anche per

    qualsiasi altra forma speciale di attività. Senza dubbio ogni professione distintiva tende (conforme alla

    legge dell’abitudine) a divenire troppo predominante, troppo esclusiva e troppo assorbente nel suo

    aspetto specializzato. Il che significa che viene accentuata specialmente la prassi, l’aspetto tecnico, a

    scapito del significato. Perciò compito dell’educazione non è già di incoraggiare questa tendenza, ma

    piuttosto di mettere in guardia contro di essa, di modo che ricercatore scientifico non sia semplicemente

    lo scienziato, maestro semplicemente il pedagogo, sacerdote chi indossa la tonaca e così via».

    ADOLPHE FERRIÈRE (1879-1960)

    A. Ferrière, La scuola attiva, [1920], tr. it., V ediz., Marzocco, Firenze 1950.

    Cap. 1- Le fondamenta psicologiche su ci si edifica la scuola attiva, pp. 24-26

    […]

    II

    «Lo slancio vitale dello spirito sta alla radice della vita, è la sorgente di ogni attività degna di questo

    nome; senza di esso trionfa il meccanismo; in lui tutto è splendore, calore, amore e luce. Vi è forse un

    tesoro più prezioso in tutti gli esseri viventi? Rispettiamolo, adunque, nell’uomo! Maxima debetur

    puero reverentia! Questo impulso alla vita, questa forza che dirige la vita dello spirito è già, per noi,

    non soltanto un fenomeno conosciuto e studiato, ma è ormai l’oggetto d’ogni nostra cura in educazione;

    il suo sviluppo è un fine da raggiungersi e, al tempo stesso, rappresenta il solo mezzo che l’uomo

    possegga per avvicinarsi sempre di più alla meta suprema: l’arricchimento delle proprie energie

    spirituali, il potenziamento di se stesso. Nelle pagine seguenti noi vedremo quanto sia importante per

    l’educazione conservare ed accrescere questa sorgente di vita che è in noi, ma non potremmo

    accingerci a questa ricerca senza prima porci un altro problema, tentando di risolverlo: come si

  • 37

    manifesta questo potentissimo impulso? Per quali vie, con quali mezzi esso opera e si fa palese? In

    fondo, rispondere a queste domande, posto che per noi il “progresso” è questo cammino in avanti verso

    l’arricchimento delle proprie energie spirituali, non significa rispondere all’altra, quale sia la legge del

    progresso? Non esaminerò, qui, il problema dal punto di vista biologico e fisiologico come ho già fatto

    lungamente nell’opera già citata. Ivi il lettore troverà descritto come l’esperienza, che è, poi, il contatto

    tra l’individuo ed il mondo esteriore, operi, per mezzo del piacere o del dolore che essa porta con sé,

    una scelta tra le reazioni; come la reazione, incerta dapprima sulla direzione da prendere, divenga poi

    appropriata, tale, cioè, da contribuire all’adattamento dell’individuo all’ambiente; in quale modo la

    nostra reazione si fissi, si meccanizzi, si imprima nell’incosciente così da liberare la forza vitale

    consentendole nuovi adattamenti; per che vie lo slancio vitale discerna sempre meglio e sempre meglio

    impieghi a suo profitto quello che di costante si nasconde sotto l’apparente molteplicità dei fenomeni.

    Fare questa conoscenza empirica, appropriarsela, arricchendosi per suo mezzo sempre di più; crearsi

    delle possibilità d’azione sempre più svariate; guardarsi e difendersi sempre meglio dalle cause di

    distruzione; ecco quello che si vuol significare con l’espressione legge del progresso. Essa, dunque,

    vuol compendiare due elementi complementari: 1°) la divisione del lavoro che si stabilisce tra le varie

    attività, siano esse di percezione, di discriminazione o d’azione; 2°) quel potere di unificazione sempre

    crescente che riunisce in un sol fascio tutte le forze dell’organismo altrimenti divergenti.

    Per chiarire il processo con una immagine, si può dire che la differenziazione, o divisione del lavoro, va

    dal centro alla periferia, mentre la concentrazione, od unificazione, va dalla periferia al centro. Così si

    forma lentamente, ma con un progresso continuo, il nostro spirito; le varie funzioni al suo servizio

    formano una gerarchia che potremmo dire a piramide e così pure potremmo raffigurarci la gerarchia dei

    valori nel seno stesso dello spirito. Io non posso ripetere qui tutto quello che ho già scritto; basti aver

    ricordato, poiché parliamo di educazione, che la legge del progresso, vale a dire l’equilibrarsi della

    differenziazione e della concentrazione, vige anche in psicologia».

    […]

    Cap. 3- L’attività manuale nella scuola attiva, pp. 96-99

    «Fon