Università degli Studi di Bergamo storia... · 2016. 2. 9. · Antologia di testi per il corso di...
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Università degli Studi di Bergamo
Corso di studi triennale in Scienze dell’educazione – A.A. 2015-2016
Antologia di testi per il corso di Storia della pedagogia 2B
a cura di Evelina Scaglia
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Sommario
JEAN JACQUES ROUSSEAU (1712-1778) ................................................................................................. 5
JOHANN HEINRICH PESTALOZZI (1746-1827) ........................................................................................ 6
JOHANN FRIEDRICH HERBART (1776-1841) ......................................................................................... 11
FERRANTE APORTI (1791-1858) .............................................................................................................. 16
FRIEDRICH FROEBEL (1782-1852) .......................................................................................................... 18
ARISTIDE GABELLI (1830-1891) ............................................................................................................... 23
ROSA AGAZZI (1866-1951) ........................................................................................................................ 28
JOHN DEWEY (1859-1952)......................................................................................................................... 31
ADOLPHE FERRIÈRE (1879-1960) ........................................................................................................... 36
MARIA MONTESSORI (1870-1952) ........................................................................................................... 40
GIOVANNI GENTILE (1875-1944) .............................................................................................................. 43
GIUSEPPE LOMBARDO RADICE (1879-1938) ........................................................................................ 45
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JEAN JACQUES ROUSSEAU (1712-1778)
J.J. Rousseau, Emilio o dell’educazione, [1762], tr. it., Mondadori, Milano 2007.
Libro II (pp. 81- 95)
«L’uomo saggio sa restare al suo posto, ma il fanciullo, che non conosce il proprio, non ne è capace.
Nella nostra società gli si offrono mille occasioni di sviarsi dalla sua condizione puerile. Spetta a quelli
che lo allevano mantenervelo e non è compito facile. Bisogna che non sia né una sorta di piccolo
animale né un adulto, ma un fanciullo; deve avvertire la propria debolezza, non soffrirne; deve
dipendere, non obbedire, deve domandare, non comandare. Egli è sottomesso unicamente a causa dei
suoi bisogni, in quanto gli altri vedono meglio di lui che cosa gli sia utile, che cosa giovi o nuoccia alla
sua conservazione. Nessuno ha il diritto, neppure il padre, di comandare al fanciullo qualcosa che non
abbia per lui alcuna utilità.
Prima che i pregiudizi e le istituzioni degli uomini abbiano alterato le nostre inclinazioni naturali, la
felicità dei fanciulli come degli uomini consiste nell’uso della libertà; ma nei primi questa libertà è
limitata dalla debolezza. Chiunque fa ciò che vuole è felice, se basta a se stesso, ed è quanto accade
all’uomo che vive nello stato di natura.
[…]
Fate che il fanciullo esperimenti soltanto la dipendenza dalle cose ed avrete seguito l’ordine naturale
nel processo della sua educazione. Ad ogni suo capriccioso atto di volontà opponete unicamente
ostacoli fisici o punizioni che nascano dalle azioni stesse e di cui si rammenti al momento opportuno;
non è necessario vietargli di agire male, basta impedirglielo. Solo l’esperienza e l’impotenza debbono
servirgli di legge. Non concedete nulla ai suoi desideri solo perché ve lo chiede, ma perché ne ha
realmente bisogno. […] Senta in egual misura la sua libertà nelle sue azioni e nelle vostre. Supplite alla
forza che gli manca, ma nell’esatta misura in cui ne ha bisogno per esser libero, non per diventar
prepotente; provi anzi una sorta di umiliazione nel ricevere i vostri servigi e aneli al momento in cui
potrà farne a meno ed aver l’onore di provvedere a se stesso.
[…]
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La natura vuole che i fanciulli siano fanciulli prima di essere uomini. Se vogliamo sovvertire
quest’ordine, produrremo frutti precoci, che non avranno maturità né sapore e non tarderanno a
guastarsi; avremo sapientoni in tenera età e bambini vecchi decrepiti. L’infanzia ha modi di vedere, di
pensare, di sentire esclusivamente suoi; nulla è più stolto che pretendere di sostituirli coi nostri.
[…]
Trattate l’allievo secondo la sua età. Collocatelo innanzi tutto nella sua reale condizione e in quella
costantemente mantenetelo, finché non si senta più tentato di evaderne. Così, prima ancora di sapere
che cosa sia la saggezza, ne metterà in pratica il più importante precetto. Non comandategli mai nulla,
per nessuna ragione al mondo: assolutamente nulla.
[…]
Oserò qui esporre che cosa prescriva la più grande, la più importante, la più preziosa regola di tutta
l’educazione? Non di guadagnar tempo, ma di perderne!
[…]
La prima educazione deve essere dunque puramente negativa. Non consiste affatto nell’insegnare la
virtù o la verità, ma nel tutelare il cuore dal vizio e la mente dall’errore. Se poteste non far nulla e nulla
lasciar fare agli altri, se poteste condurre il vostro allievo sano e robusto all’età di dodici anni, senza
che sappia distinguere la mano destra dalla sinistra, fin dalle vostre prime lezioni gli occhi del suo
intelletto si schiuderebbero alla ragione; senza pregiudizi, senza abitudini, nulla vi sarebbe in lui che
possa contrastare l’effetto della vostra opera. Ben presto diverrebbe tra le vostre mani il più saggio
degli uomini e così, cominciando col non far nulla, avreste realizzato un miracolo di educazione».
JOHANN HEINRICH PESTALOZZI (1746-1827)
J.H. Pestalozzi, Scopo e piano di un'istituzione educativa per poveri, riprodotto in J.H. Pestalozzi,
Popolo, lavoro, educazione, a cura di E. Becchi, La Nuova Italia, Firenze 1974, Parte II, Istruzione
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professionale e princìpi illuminati, pp. 200-223.
«Il mio scopo è fondare un'istituzione la quale possa costituire un esempio di quanto è necessario, in
genere, per la educazione dei poveri e possa preparare e assicurare, con la massima estensione e cura, i
mezzi per rendere progressivamente partecipi di tale istituzione i poveri del contado.
La realizzazione di questo scopo comporta anzitutto la educazione di un certo numero di bambini
poveri affinché siano, in primis per se stessi, degli uomini energici, buoni, autonomi. In secondo luogo
essa serve all'utilizzazione, per uno scopo speciale, dei bambini che si distinguono da questa massa
diligente, vale a dire essa deve generalizzare l'educazione migliore del popolo, elevare a tale grado e
dare un tale orientamento ai talenti che eccellono dimostrati da questi bambini sia nel campo
intellettuale sia in quello professionale, che essi si orientino da se stessi a usare questi talenti come
maestri e maestre, vuoi in materie ordinarie di scuola, vuoi anche nella vita domestica attraverso
l'influsso privato sull'educazione degli uomini con cui vengono a contatto per la loro professione. Lo
scopo è appunto quello di costruire un seminario di bambini poveri, nel quale non ci si limiti a educarli
bene, ma dove venga tenuta presente, con rispetto e attenzione, e usata con amore, secondo la volontà
di Dio, per il servizio di Dio e dell'umanità, anche la differenza che c'è nelle disposizioni che ha dato
loro il Creatore.
[...]
Non ci si deve illudere; l'educazione umana dei poveri e dei ricchi esige essenzialmente gli stessi
mezzi, ché la natura umana è la stessa sia nel povero che nel ricco. Per rendere il povero competente,
benevolo e giudizioso per ogni attività pratica e capace di impegno, ci vogliono gli stessi mezzi di cui
c'è bisogno per l'educazione del ricco, in vista di questo medesimo scopo.
[...]
Lo sviluppo generale delle capacità umane dev'essere quindi considerato il fondamento dell'istituzione
che noi proponiamo ed è soltanto quando questo sarà realizzato solidamente, sia in generale sia in
particolare, che potranno venir presi in considerazione gli scopi più specifici della distinzione di singoli
bambini come maestri di scuola oppure come istruttori e istruttrici in istituzioni professionali più o
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meno grandi.
Lo sviluppo elementare delle capacità umane è, secondo la sua natura, triplice. Esso è fisico, morale e
intellettuale. Tutti e tre gli aspetti di questo sviluppo stanno però in intima connessione reciproca; e
anche se la formazione di una singola di queste tre capacità potrebbe sviluppare una parte delle capacità
umane, un tale sviluppo unilaterale non sarebbe affatto soddisfacente per i bisogni e lo scopo
dell'educazione dell'uomo. L'uomo viene avvicinato alla sua perfezione soltanto grazie alla formazione
armonica e complessiva di tutte le sue capacità. Egli deve venir portato, sia per quanto riguarda il fisico
che il morale che l'intellettuale, al punto che le sue disposizioni si traducano in capacità, la
consapevolezza delle quali gli assicuri, in ogni caso, fiducia in se stesso, libertà, coraggio e destrezza.
[...]
L'educazione professionale non è educazione alla miseria di una singola capacità professionale. L'idea
elevata, ma non perfezionata dell'educazione professionale del popolo non è se non un'applicazione
dell'educazione dell'umanità in generale alla materia specifica del suo sostentamento e diventa
autentica educazione professionale solo quando parte dalla fruizione completa di tutto ciò che esige di
per sé l'educazione dell'uomo. Una formazione per un lavoro industriale è tanto poco un'educazione
professionale, quanto la formazione al servizio di chi aiuta nell'irrigazione, di un garzone di stalla o di
uno che lavora solo con l'aratro è la formazione agricola in generale. Si può senz'altro essere un
contadino miserevole e nello stesso tempo un buon garzone di stalla o un buon lavoratore dell'aratro.
Come la educazione agricola presuppone tutto ciò che esige l'agricoltura, nello stesso modo
l'educazione professionale presuppone l'intero complesso di tutto ciò su cui si basa - in maniera non
meramente accidentale e relativa alle singole materie, ma in modo generale e necessario - lo spirito e la
forza dell'industria.
[...]
Attività dell'intelletto e attività del cuore devono essere il fondamento delle capacità che vanno poste
nelle loro mani e nelle loro braccia. Il loro guadagno non dev'essere affatto il risultato di una
formazione esasperata in un settore singolo e unilaterale dell'industria. Come la capacità superiore della
educazione dell'intelletto e del cuore deriva dagli elementi eterni e può esser realizzata grazie a degli
esercizi che si susseguono in modo continuo e graduale, così anche la formazione professionale deriva
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da elementi eterni e immutabili e si può attuare soltanto grazie a esercizi che si eseguono in modo
continuo e graduale. Nella sua essenza, essa non è niente altro se non un'applicazione dell'educazione
fisica a fine specifico del proprio sostentamento e deve quindi venir messa in sintonia con l'intero
complesso dell'educazione fisica e con le esigenze generali dell'educazione intellettuale e del cuore.
Senza uno sviluppo generale e armonico dell'intero complesso delle capacità fisiche non si può pensare
ad un'educazione professionale del popolo, elevata e sicura, che va necessariamente accompagnata
dallo sviluppo delle capacità dell'intelletto e del cuore».
J.H. Pestalozzi, Madre e figlio. L’educazione dei bambini, [1818], tr. it. di G. Sanna, III ediz., La
Nuova Italia, Firenze 1933, pp. 15-18.
II.
«3 ottobre 1818
Mio caro Greaves,
Il nostro grande intento è lo sviluppo dell'anima infantile, e il nostro grande mezzo l'azione della
madre.
Da ciò nasce, sin dall'inizio delle nostre ricerche, un quesito importante: possiede la madre le facoltà
necessarie all'assolvimento dei doveri e dei compiti, che noi le assegniamo? Mi sento in obbligo di
esaminare a fondo tale questione, e dare possibilmente una risposta decisiva. La prego di fermare la sua
attenzione su quest'argomento, essendo io convinto che se le mie opinioni concordano con le sue, Ella
consentirà anche nelle conclusioni che io, fondandomi sulla mia esperienza, ne traggo.
Sì! Posso dirlo: la madre ha la capacità, ha ricevuto dal Creatore stesso la capacità di divenir l'agente
più energico dello sviluppo infantile. Già nel suo cuore è spontaneamente radicato il desiderio più
ardente del bene del figlio: e qual forza può esser più attiva, più incalzante dell'amore materno, la forza
più soave e al tempo stesso più imperterrita che si trovi in tutto l'ordine della natura? Sì, la madre è
capace, perché la Provvidenza l'ha fornita delle attitudini che si richiedono per l'assolvimento del suo
compito.
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E a questo punto mi sembra di dover chiarire quale sia il compito, che io ritengo a lei particolarmente
riservato. Ciò che io richiederei da lei, non è affatto cosa, che oltrepassi la sua sfera d'azione, non è un
certo grado od ordine di conoscenze, e neppure ciò che comunemente si racchiude nel concetto di
coltura "finita"; sebbene ove per caso ella possegga tali conoscenze, verrà il giorno in cui aprirà il suo
forziere e ne sceglierà tesori per i suoi figli. Ma nel periodo, di cui ci occupiamo, le conoscenze
acquisite con la più raffinata educazione non le faciliterebbero per nulla il compito: giacché quello che
io desidererei da lei è soltanto - amore pensoso. E' naturale che io ponga come prima condizione
l'amore, che sempre comparirà spontaneamente - soltanto io lo vorrei supporre diversamente e
variamente informato. Tutto ciò io domanderei a una madre, sarebbe che ella facesse operare il suo
amore con la maggior forza possibile, e tuttavia lo regolasse con la riflessione. - E vorrei realmente
pregare una madre, in nome di tutto l'amore che ella alberga in sé per i suoi figli, di dedicare un istante
di calma riflessione alla natura dei suoi doveri. Non penso già d'introdurla in un'artificiosa disamina:
nel labirinto delle ricerche filosofiche potrebbe smarrirsi l'amor materno. Ma nel suo sentire v'è qualche
cosa, che può condurla al vero per la via più breve e mediante un processo immediato. A questo
qualche cosa io vorrei fare appello. Non le si deve celare, che i suoi doveri sono a un tempo facili e
difficili; ma io spero non esservi una madre, che in una questione simile non trovi la sua più elevata
ricompensa appunto nel superare le difficoltà; e l'interesse dei suoi doveri le si svelerà a poco a poco, se
ella si atterrà ad un semplice e tuttavia sublime e grandioso pensiero: i miei figli sono generati per
l'eternità e affidati a me appunto perché io li educhi ad esser figli di Dio.
"Madre" vorrei dirle, "madre responsabile! Guardati intorno! Quale diversità di sforzi, quale
molteplicità di vocazioni! Gli uni si agitano nel vortice d'una vita senza tregua; gli altri cercano la
tranquillità traendosi indietro. Fra tutti i modi d'agire, che osservi intorno a te, quale ti sembra il più
solenne, il più maestoso, il più sacro?". "Senza dubbio", mi risponderai prontamente, "la vocazione
dell'uomo che dedica la propria vita a favorire spiritualmente lo sviluppo della natura umana. Come
deve esser felice colui, che si sente chiamato a guidare gli altri verso la felicità, verso la felicità
eterna!". Ottimamente! Madre felice! La sua missione è anche la tua. Non lasciarti intimorire da tal
pensiero, - non tremare di tal confronto. Non credere ch'io voglia attribuirti un ufficio superiore alla tua
attitudine, - non temere che nella mia offerta si celino conati di vanità, - ma eleva il tuo cuore grato
verso Colui, che ti ha affidato un ufficio così elevato, - cerca di mostrarti degna della fiducia che in te è
stata riposta. Non parlare di insufficienza delle tue conoscenze, - l'amore la compenserà; - di scarsità
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dei tuoi mezzi, - la Provvidenza li amplierà; - di debolezza della tua volontà, - lo Spirito stesso della
forza la rinsalderà: - eleva il tuo sguardo a questo Spirito per chiedergli tutto ciò che ti manca e
specialmente le due cose più sublimi ed importanti: coraggio ed umiltà».
JOHANN FRIEDRICH HERBART (1776-1841)
J. F. Herbart, Pedagogia generale derivata dal fine dell'educazione, [1806], tr. it. a cura di I. Volpicelli,
La Nuova Italia, Firenze 1997.
Pedagogia generale- Libro primo, pp. 30-48
I- Fine del governo dei fanciulli
«Il bambino viene al mondo privo di volontà: incapace quindi di ogni rapporto morale. Perciò i
genitori, (sia di loro iniziativa, sia per conformarsi alle esigenze della società) possono esercitare il
loro potere su di lui, come se si trattasse di una cosa. Certamente essi sanno bene che nella creatura che
ora trattano a loro discrezione, senza consultarla, con l'andar del tempo sorgerà una volontà, che
bisognerà aver conquistata se si vorranno evitare gli inconvenienti di un conflitto inammissibile da
entrambe le parti. Ma prima di arrivare a questo punto ce ne vuole di tempo; nel fanciullo, da prima, al
posto di una vera e propria volontà, capace di prendere una decisione, si sviluppa semplicemente una
irruenza selvaggia, che lo trascina ora in un senso ora in un altro, che è un principio di disordine, tale
da ledere le disposizioni degli adulti ed esporre la personalità futura dello stesso fanciullo a ogni sorta
di pericolo. Questa irruenza deve venire repressa; altrimenti il disordine sarebbe imputabile come una
colpa a coloro che hanno in custodia il fanciullo. La repressione si ottiene mediante l'uso della forza; e
bisogna che la forza sia sufficiente e che sia esercitata abbastanza spesso affinché riesca a conseguire
pienamente il risultato prefisso, prima che nel fanciullo si manifestino le tracce di una volontà
autentica. Questo esigono i principi basilari della filosofia pratica.
Ma i germi di questa cieca irruenza, i rozzi appetiti, permangono nel fanciullo; anzi si moltiplicano e si
rafforzano con l'andare degli anni. Affinché non diano alla volontà, che si sviluppa in mezzo a loro, un
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indirizzo antisociale, è necessario tenerli costantemente soggetti ad una continua sensibile pressione.
L'adulto, giunto all'uso della ragione, assume su di sé, col tempo, il compito di autogovernarsi. Ma vi
sono anche degli uomini che non arrivano mai a questo punto: questi sono tenuti dalla società sotto una
costante tutela e vengono designati, in parte, col nome di imbecilli e di prodighi. [...]
Come si vede, il fine del governo dei fanciulli è vario: da una parte si tratta di evitare il danno, per gli
altri e per il fanciullo stesso, sia per il presente che per l'avvenire; dall'altra si tratta di evitare il
conflitto, il quale costituisce per se stesso un inconveniente; da un'altra, infine, si tratta di evitare la
collisione in cui la società, senza esserne completamente autorizzata, si vedrebbe costretta al conflitto.
Ma tutto ciò ci porta a concludere che un tale governo non mira a raggiungere alcun fine nell'animo del
fanciullo, e non ha altra pretesa che di creare ordine. Ciò nondimeno ben presto si constaterà che il
governo non può assolutamente essere indifferente nei confronti della cultura dell'anima infantile.
[...]
II- Multilateralità dell'interesse. Forza del carattere della moralità.
1. Come può l'educatore in anticipo far propri i fini futuri, semplicemente possibili, dell'allievo?
L'aspetto oggettivo di questi fini, come cosa pertinente al semplice arbitrio, non ha alcun interesse per
l'educatore. Soltanto il volere dell'uomo futuro in sé e per sé, e quindi la somma delle esigenze che, in
questo volere e per esso, egli eleverà verso se stesso, costituisce l'oggetto della benevolenza
dell'educatore; e l'energia, la gioia primitiva, l'attività con le quali quell'uomo saprà soddisfare le
proprie esigenze, questo è ciò che costituisce per l'educatore l'oggetto di un giudizio basato sull'idea
della perfezione. In questo caso dunque ciò di fronte a cui ci troviamo non è un certo numero di fini
particolari, (che del resto non possiamo conoscere in anticipo), ma, in generale, l'attività dell'uomo che
si va sviluppando, il quantum della sua intima, immediata vitalità e vivacità. Quanto più grande è
questo quantum, quanto più intenso, esteso, ed in sé armonico, tanto più è perfetto e tanta maggior
sicurezza offre alla nostra benevolenza.
Soltanto, il fiore non deve spezzare il suo calice, la ricchezza non deve degenerare in debolezza per un
eccesso di dispersione in tutti i sensi. Da lungo tempo la società umana ha trovato necessaria la
divisione del lavoro, affinché ciascuno possa far bene ciò che fa. Ma quanto più ciò che si fa è
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delimitato, quanto più il lavoro è diviso, tanto più si accresce la varietà delle cose che ciascuno riceve
da tutti gli altri. Ora, siccome la recettività spirituale si basa sulla affinità spirituale, e questa sopra
esercizi spirituali consimili: si comprende allora che nel dominio superiore dell'umanità vera e propria i
lavori non debbono essere isolati al punto da ignorarsi reciprocamente. Tutti debbono avere amore per
tutto, ciascuno deve essere virtuoso in un campo specifico. Ma la virtuosità particolare riguarda la
libera scelta; invece la ricettività molteplice e varia, che può derivare soltanto da molteplici iniziative
dovute al nostro sforzo personale, compete all'educazione. Noi, perciò, indichiamo la prima parte del
fine pedagogico con l'espressione: multilateralità dell'interesse, la quale deve essere distinta dalla sua
esagerazione, la molteplicità delle occupazioni. E poiché tra gli oggetti del volere, tra le stesse
particolari direzioni, non ve ne è alcuno che ci interessi più dell'altro, allora noi, affinché non ci
dispiaccia di vedere accanto alla forza, la debolezza, completeremo la nostra espressione, dicendo:
multilateralità ben equilibrata. In tal modo si giungerà a cogliere il senso dell'espressione corrente:
sviluppo armonico di tutte le forze; a proposito della quale ci sarebbe da chiedersi che cosa si intende
per pluralità di forze dell'anima? E che cosa debba significare armonia di forze eterogenee?
[...]
III- Individualità dell'allievo, come punto d'incidenza
L'educatore mira al generale, ma l'allievo è un individuo particolare.
Senza fare dell'anima un miscuglio di facoltà eterogenee, e senza costruire il cervello con organi
positivamente ausiliari, che potrebbero esonerare lo spirito di una parte del suo lavoro: dobbiamo pur
riconoscere, senza contestazioni e in tutta la loro portata, le esperienze in base alle quali l'essenza
spirituale, associata a tale o ad altra forma corporea, incontra tali o tali altre difficoltà, e,
corrispondentemente, delle relative agevolazioni nelle proprie funzioni.
Ora, per quanto noi si sia indotti a mettere alla prova, attraverso tentativi, la pieghevolezza di queste
disposizioni naturali e a non scusare affatto la nostra pigrizia col pretesto della superiorità della loro
forza, pure prevediamo che anche la rappresentazione più pura e perfetta dell'umanità non potrà mai
fare a meno di riferirsi, in pari tempo, ad un uomo particolare; anzi noi avvertiamo altresì che è
necessario che l'individualità risalti affinché il semplice esemplare della specie non appaia meschino di
fronte alla specie stessa e non svanisca come cosa insignificante; noi sappiamo infine quale beneficio
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traggano gli uomini dal fatto che individui diversi si preparino e si destinino a compiti differenti.
L'individualità caratteristica del giovane si va via via sempre di più palesando anche in mezzo alle cure
e agli sforzi dell'educatore; abbastanza felicemente se non si oppone loro direttamente, oppure se,
urtandovi di fianco, non provochi l'insorgere di un terzo elemento, parimenti dannoso all'allievo e
all'educatore! Cosa che accade quasi sempre a coloro che in generale non sanno trattare con gli uomini
e quindi non sanno neppure cogliere nel fanciullo l'uomo che già vi si trova.
Da tutto ciò risulta per il fine dell'educazione una regola negativa, che è altrettanto importante quanto
difficile da osservarsi; cioè questa: bisogna lasciare per quanto è possibile intatta l'individualità. A tal
uopo si esige soprattutto che l'educatore distingua bene i caratteri accidentali che gli sono propri e stia
ben attento ai casi in cui egli desidera in un modo e l'allievo agisce in un altro, senza che vi sia alcun
vantaggio essenziale da un lato o dall'altro. In questi casi l'educatore deve immediatamente recedere dal
suo desiderio; bisogna, se possibile, addirittura reprimerne la manifestazione. Cerchino pure i genitori
privi di senno di acconciare i loro figli e le loro figlie secondo il proprio gusto, stendano pure sopra il
legno non piallato vernici d'ogni sorta; questa vernice, negli anni della raggiunta indipendenza, sarà
violentemente scrostata, e certamente non senza dolore e senza danno; il vero educatore, se non può
impedirlo, per lo meno non vi prenderà parte; egli è impegnato a costruire il suo edificio, per il quale
trova sempre nelle anime infantili un ampio spazio libero. Egli si guarderà bene dall'intraprendere cose
che non gli possano meritare alcuna gratitudine; egli lascia volentieri integro all'individualità l'unico
vanto di cui è suscettibile, ossia d'essere nettamente delineata e riconoscibile a prima vista; per sé, egli
ambisce un solo onore, che si scorga intatta nell'uomo che fu soggetto alla sua volontà l'impronta pura
della persona, della famiglia, della nascita e della nazione".
Libro secondo, pp. 69-72
4) L'istruzione
E' una follia voler abbandonare l'uomo alla natura o addirittura voler ricondurvelo ed educarlo in questo
senso: che cos'è infatti la natura dell'uomo? Per gli stoici come per gli epicurei essa fu parimenti il
comodo sostegno dei loro sistemi. La naturale disposizione dell'uomo, che sembra calcolata in funzione
di condizioni fra loro assai diverse, oscilla in una tale generalità che la determinazione prossima, il
compimento rimangono assolutamente affidati alla specie. La nave, costruita con somma maestria per
poter secondare con tutte le possibili oscillazioni le onde ed i venti, attende ora il nocchiero che le
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indicherà la meta e la dirigerà nel suo viaggio secondo le circostanze.
Noi conosciamo il nostro fine. La natura fa parecchie cose che possono esserci d'aiuto, e l'umanità, sul
cammino che essa già percorse, ha accumulato molte esperienze; noi dobbiamo combinarle le une colle
altre.
I- L'istruzione come integrazione dell'esperienza e del contatto umano
L'uomo, tramite l'esperienza, perviene naturalmente alla conoscenza e, tramite il contatto umano, alla
partecipazione. L'esperienza, sebbene sia durante tutta la vita la nostra maestra, non ci dà che un
minimo frammento di un gran tutto; tempi e spazi infiniti celano a noi una possibile esperienza
infinitamente più grande. Forse il contatto con gli uomini è relativamente meno povero; i sentimenti di
quelli che noi conosciamo somigliano infatti in generale ai sentimenti di tutti gli uomini. Ma la
partecipazione risente delle più delicate distinzioni e la sua unilateralità è molto peggiore
dell'unilateralità della conoscenza. Pertanto le lacune che il contatto con gli uomini lascia sussistere
nella piccola sfera dei sentimenti, e quelle lasciate dall'esperienza nella cerchia ben maggiore del
sapere, sono per noi pressoché equivalenti; ed in entrambi i casi occorrerà accogliere di buon grado
ogni tentativo di integrarle mediante l'istruzione.
[...]
Di fatto, chi mai potrebbe fare a meno dell'esperienza e del contatto umano nell'educazione? Sarebbe
come se ci si dovesse privare della luce del giorno, per contentarsi del lume della candela! Ricchezza,
forza, determinazione individuale per tutte le nostre rappresentazioni, pratica nell'applicare il generale,
aderenza alla realtà, al proprio paese, al proprio tempo, tolleranza verso gli uomini come essi sono:
tutto questo deve esser attinto a quelle sorgenti primigenie della vita spirituale.
[...]
Ma infine, se ci richiamiamo nuovamente al nostro scopo, cioè alla multilateralità dell'interesse, risulta
evidente come siano limitate le opportunità che dipendono dal luogo cui si è legati, e come e con
quanta ampiezza lo spirito autenticamente colto le trascenda. Anche il sito più favorevole ha dei limiti
così ristretti che nessuno potrebbe mai assumersi la responsabilità di rinchiudervi la formazione
culturale di un giovane, a meno che non vi sia costretto dalla necessità. Se il giovane ha tempo
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disponibile e un insegnante, nulla allora dispensa quest'ultimo dall'estendersi nello spazio mediante
descrizioni, dall'andare a prendere dal tempo la luce del passato, e dall'aprire ai concetti il regno del
soprasensibile.
[...]
In verità, l'esperienza e il contatto umano spesso ci vengono a noia, e talvolta siamo costretti a
sopportarli. Ma bisogna che l'allievo non abbia a soffrire un simile inconveniente per opera
dell'insegnante. Esser noiosa è il peccato più grave dell'istruzione! La sua prerogativa è quella di
sorvolare steppe e paludi; se non le è sempre possibile procedere in valli amene, per compenso
s'esercita in ascensioni alpine e ricompensa con l'ampiezza dei panorami».
FERRANTE APORTI (1791-1858)
F. Aporti, Manuale di educazione ed ammaestramento per le scuole infantili, Tipografia della Svizzera
italiana, Lugano 1846, in Id., Scritti pedagogici editi e inediti, a cura di A. Gambaro, Chiantore, Torino
1944, vol. I, pp. 22-24.
[L’educazione deve essere fisica, intellettuale e morale]
«L’uomo ha una lunga infanzia di tutte le sue facoltà, e come assai cure è necessità adoperare allo
sviluppo delle sue forze fisiche ed a renderle robuste, altrettanto almeno adoperar si deve per le sue
facoltà intellettuali e morali. Come cresce e si fa robusto nel corpo (che è strumento delle sue
operazioni intellettuali e morali), così deve accrescere e farsi robusto nell’anima, educando a verità la
mente, e il cuore a virtù. Dalle mancate o false direzioni ed istruzioni, le sue facoltà stesse rimangono
quasi ottenebrate e ottuse.
L’arte che insegna a sviluppare le facoltà del fanciullo ed a dirigerle colla maggior efficacia e sicurezza
alla debita perfezione chiamasi educazione. E poiché le facoltà dell’uomo sono di triplice ordine,
fisiche, morali ed intellettuali, così di tre specie è pure l’educazione, cioè fisica, morale ed intellettuale.
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L’arte poi che insegna a comunicare alla mente dei fanciulli cognizioni ed abilità tali da poter agire da
sé colle proprie facoltà chiamasi istruzione. Anche l’istruzione può dividersi in fisica, morale ed
intellettuale, giusta le abilità parziali che si comunicano ai sensi, o all’intelletto, od al cuore. […] L’arte
pertanto che dirige il maestro a ben educare ed istruire i fanciulli è quella che noi diciamo pedagogia.
Ove si consideri che all’istitutore dell’infanzia si consegnano da istruire fanciulli digiuni ancora d’ogni
cognizione, imperiti dell’arte di acquistarne, infermi di ragione, deboli di corpo, si scorge tosto che non
potrà egli impartire con successo l’ammaestramento, se prima non prepari convenevolmente le facoltà
del fanciullo a riceverlo. Perciò si deduce che egli abbisogna di due arti: l’una che lo diriga a
sviluppare a dovere le facoltà de’ suoi alunni, l’altra che lo guidi a fornirli delle proporzionate e
convenienti abilità intellettuali e morali».
F. Aporti, Sulle scuole di Lombardia e principalmente sulle infantili, in Id., Scritti pedagogici editi e
inediti, a cura di A. Gambaro, Chiantore, Torino 1944, vol. I, pp. 201-206.
[Motivi storici e sociali che favorirono o intralciarono il sorgere delle scuole materne]
«Distrutte o rese inefficaci presso che tutte le forze morali e d’opinione dei secoli precedenti, per le
rivoluzioni che agitarono il mondo sul declinare del XVIII secolo e il principiare del nostro, nessun
altro appoggio rimaneva all’ordine sociale (parlo della Lombardia) tranne le istruzioni e pratiche
religiose diligentemente esercitate dai parrochi ne’ dì festivi […]. Di qui derivò in gran parte nel
popolo nostro quella crassa ignoranza d’ogni verità che è fondamento e conforto alla virtù e pietà vera:
ignoranza che minacciava di precipitare nella più spaventevole degradazione il pubblico costume.
Il Governo nostro sapientemente adottò l’unico rimedio atto a sanare radicalmente le piaghe morali di
un popolo, e quindi si fece ordinatore e propagatore dell’istruzione popolare erigendo le scuole
pubbliche elementari. Nel 1821 pertanto si videro aperte a carico del R. Erario le scuole maggiori
maschili e femminili in ogni città capoluogo di provincia […]. V’ebbero nei primi anni i detrattori del
sistema di popolare istruzione; i più, perché argomentavano i pericoli per soverchio esaltamento
dell’umana mente, e non pochi (i furbi) perché travedevano nella dissipata ignoranza del volgo scemati
i mezzi del loro turpe guadagno […]. Ma i buoni cessarono dal temere, dappoiché videro che ove nella
pubblica istruzione si faccia progredire di pari passo la cultura morale ed intellettuale della gioventù,
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ove i maestri siano educatori ed istruttori insieme di fanciulli, allora le scuole popolari diventano
medicina e preservativo dalla infezione de’ vizi. Si vide poi come i fanciulli allevati nelle scuole, e
giusta i metodi prescritti, son divenuti umani, intelligenti, pii, devoti; come invece rimangono rozzi e
violenti quei che non le frequentano; e come in fine non v’abbia altro mezzo, fuor questo, onde
prevenire tutti i danni che derivano al pubblico costume, e quindi alla religione pratica, dalla ignoranza
o dalla negligenza o dalla corruzione dei genitori incapaci di essere abili educatori della prole.
Ma nel generale impulso dato allo spirito di comune religiosa e letteraria educazione, ben presto si
ravvisò che per male avvertite cagioni il frutto delle pubbliche scuole non riusciva sì ubertoso, quale
sembrava riprometterlo e la ragionevolezza dei metodi, e l’utilità somma delle materie da insegnarsi, e
lo zelo dei maestri abilissimi; si presentarono ai pubblici istituti fanciulli già guasti nelle inclinazioni e
nell’intelletto, ovvero del tutto storditi, e questi era sommamente difficile di raddrizzare e condurli al
grado di progresso possibile all’età loro. Se ne indagarono più da vicino le cagioni, e si riconobbero
evidenti nel sistema vizioso delle così dette Scuole delle Maestre, alle quali suolsi fra noi consegnare i
fanciulli appena che sappiano camminare, e più ancora in molte parti della educazione domestica».
FRIEDRICH FROEBEL (1782-1852)
F. Froebel, L'educazione dell'uomo e altri scritti, [1826], tr. it. a cura di A. Saloni, La Nuova Italia,
Firenze 1960.
L'educazione dell'uomo, pp. 3-11
«In tutte le cose è riposta, agisce e domina una legge eterna. Questa si rivelò e si rivela, sempre
ugualmente chiara e determinata, all'esterno, nella natura, e all'interno, nello spirito, e nella vita che
insieme li congiunge. [...] Base necessaria di questa legge dovunque imperante è necessariamente una
Unità dovunque operante, chiara a se stessa, vivente, autocosciente, e quindi eterna. Tale fatto è, a sua
volta, come l'Unità stessa, riconosciuto al medesimo modo o attraverso la fede o attraverso la
contemplazione e con uguale vivezza, profondità ed estensione [...]
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Questa Unità è Dio.
Tutto si è originato dal divino, da Dio, tutto è unicamente condizionato dal divino, da Dio; in Dio è il
fondamento unico di tutte le cose.
In tutto riposa, agisce, domina il divino, Dio.
Tutto riposa, vive, sussiste nel divino, in Dio, e mediante il divino, mediante Dio.
Tutte le cose esistono, solo perché il divino opera in esse.
Il divino operante in ogni cosa ne costituisce l'essenza.
[...]
Lo stimolo, l'azione esercitata sull'uomo come essere che diviene consapevole di sé, pensante,
intelligente, verso la rappresentazione pura e incontaminata della legge interiore, del divino, con
coscienza e libertà, e l'indicargli la via e i mezzi che vi conducono, questo costituisce l'educazione
dell'uomo.
La conoscenza, la consapevolezza di quella legge eterna, la penetrazione del suo fondamento, della sua
essenza, del complesso, della relazione e vitalità dei suoi effetti, la conoscenza dalla vita e della vita nel
suo insieme è scienza, è scienza della vita, e trasportata dall'essere cosciente, pensante, intelligente alla
rappresentazione e all'esercizio per sé e in sé, questa è la scienza della educazione.
I precetti che derivano dalla conoscenza, dalla penetrazione in essa, per l'essere pensante e intelligente,
così che acquisti consapevolezza della propria missione e attui il proprio destino, costituiscono la
dottrina dell'educazione.
L'applicazione spontaneamente attiva di questa conoscenza e di questa penetrazione, di questo sapere
per l'immediato sviluppo e perfezionamento di esseri ragionevoli, affinché raggiungano la propria
destinazione, costituisce l'arte dell'educazione.
Il fine dell'educazione è la rappresentazione di una vita fedele al suo compito, pura, incontaminata e
perciò santa.
La conoscenza e l'applicazione, la consapevolezza e la rappresentazione insieme congiunte,
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unificandosi nella vita per una vita fedele al suo compito, pura e santa, sono la saggezza della vita, sono
la saggezza in sé.
Essere saggio è la più alta aspirazione dell'uomo, la realizzazione massima dell'autodeterminazione
dell'uomo.
Educare se stessi ed altri con coscienza, libertà e spontaneità, questo è il duplice compito della
saggezza. Esso ebbe il suo inizio col primo apparire dei singoli uomini sulla terra e si affermò col
primo apparire della completa autocoscienza dell'essere singolo, ed ora comincia ad esprimersi come
umana esigenza necessaria, universale, e come tale a trovare ascolto ed applicazione.
[...]
Il divino dunque che è nell'uomo, la sua essenza, deve nell'uomo stesso attraverso l'educazione venire
sviluppato, rappresentato fino alla consapevolezza, ed egli, l'uomo, deve essere elevato ad una libera,
cosciente vita ad esso conforme, alla libera rappresentazione di questo divino in lui operante.
Il divino, lo spirituale, l'eterno che è nella natura intorno all'uomo, che costituisce l'essenza della natura
e in essa senza posa si manifesta, questo devono l'educazione, l'istruzione portare all'intuizione
dell'uomo e farglielo riconoscere, così come in vitale reciproca azione e unite all'insegnamento devono
esprimere e rappresentare l'identità delle leggi che regolano la natura e l'uomo.
L'educazione nel suo complesso, attraverso l'educazione propriamente detta, l'istruzione e
l'insegnamento, deve destare nell'uomo, e renderla attiva nella vita, la consapevolezza che l'uomo e la
natura procedono da Dio, sono da Dio condizionati, in Dio trovano il proprio riposo.
L'educazione deve guidare e condurre l'uomo alla chiarezza su di sé e in se stesso, alla pace con la
natura e all'unione con Dio. Perciò deve innalzare l'uomo alla conoscenza di se stesso e dell'uomo, alla
conoscenza di Dio e della natura e alla vita pura e santa da essa condizionata.
Ma in tutte queste esigenze l'educazione si basa sull'interno, sull'intimo e su questo riposa.
Tutto quanto è interiore viene conosciuto passando dall'interno all'esterno e per mezzo dell'esterno.
L'essenza, lo spirito, il divino delle cose e dell'uomo viene conosciuto nelle sue e nelle loro
manifestazioni. E sebbene, secondo questo, le manifestazioni dell'uomo e delle cose siano ciò a cui si
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riallaccia ogni educazione, ogni istruzione, ogni insegnamento, ogni vita come testimonianza della
libertà, e partendo dall'esterno agisca sull'interno e in esso si conchiuda, non può tuttavia l'educazione,
e non deve, conchiudere assolutamente dall'esterno all'interno, la natura delle cose esige che si
conchiuda sempre, in qualsiasi rapporto, inversamente, dall'esterno all'interno e dall'interno all'esterno.
Così dalla molteplicità e dalla pluralità della natura non si deve conchiudere a una pluralità della
condizione ultima della natura stessa, non ad una pluralità degli dei, e neppure si deve dall'unità di Dio
conchiudere a una unità della natura, ma in tutti e due i casi si deve invece dalla molteplicità della
natura conchiudere all'unità del suo principio ultimo, Dio, e dall'unità di Dio alla molteplicità degli
sviluppi naturali, procedente in eterno.
Il non applicare tale verità ora enunciata, e ancora più il continuo peccare contro di essa, il conchiudere
assolutamente da certe manifestazioni esterne nella vita dei bambini e dei fanciulli al loro interno, è il
motivo più essenziale delle evidenti lotte e contraddizioni, degli errori così frequenti nella vita e
nell'educazione. In questo ha la sua certa base la conoscenza infinitamente falsa dei bambini, dei
ragazzi e dei giovanetti, da questo derivano la riuscita tanto pessima dell'educazione dei bambini, tanti
malintesi tra genitori e figli, sia da una parte che dall'altra, tanti inutili lamenti, e così pure l'orgoglio
inopportuno e la folle speranza nei fanciulli. Perciò questa verità nella sua applicazione è tanto
importante per i genitori, gli educatori e i maestri, che essi tutti insieme dovrebbero adoperarsi per
famigliarizzarsi con tale sua applicazione fin nel minimo particolare. [...]
Perciò l'educazione, l'istruzione e l'insegnamento fin dall'inizio e nei loro primi elementi devono
necessariamente lasciar fare, assecondare (solo preservando, proteggendo) e non prescrivere,
determinare, intromettersi.
Ma l'educazione tale deve essere anche in se stessa, perché l'azione del divino è necessariamente buona
ove non sia disturbata, deve essere buona, non può essere altro che buona. Questa necessità deve
presupporre che l'uomo ancor giovane, quasi nella prima formazione, anche se ancora inconsapevole
come un prodotto della natura, tuttavia con risolutezza e sicurezza voglia il meglio in sé e per sé, ed
oltre questo in una forma a lui del tutto adatta, quale egli sente che rappresenta anche tutte le sue
disposizioni, le sue forze e le sue capacità.
[...]
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Veramente di rado la natura ci mostra, specie nell'uomo, il suo stato integro, originario; ma tanto più
deve questo essere presupposto specialmente in ogni singolo uomo, fino a che il contrario non si
manifesti con certezza, se no lo stato integro originario, là dove si potrebbe trovare ancora sano,
potrebbe anche facilmente essere distrutto. Ma se dal complesso dell'uomo da educare sorge la certezza
dell'alterazione dell'elemento originario, se tale alterazione proviene sicuramente dall'interno e dal tutto
esterno, allora interviene precisamente in tutta la sua energia quella forma di educazione che determina
e pretende.
Ma non sempre si può, anzi spesso è difficile, dimostrare con certezza il corrotto manifestarsi
dell'interno, o almeno il punto, la fonte dalla quale la manifestata corruzione ebbe l'origine, il principio,
la direzione che ha preso. Per di più l'ultima pietra di paragone, infallibile per la sua natura, è posta
riguardo a ciò proprio e solo nell'uomo stesso. Perciò anche da questo punto di vista l'educazione,
l'insegnamento ed ogni istruzione devono di gran lunga tollerare, assecondare, più che determinare e
prescrivere, poiché attraverso quest'ultimo procedimento andrebbe purtroppo perduto il puro continuo
svolgimento, il sicuro e costante perfezionamento del genere umano, vale a dire la rappresentazione
con libertà e spontaneità del divino nell'uomo e mediante la vita dell'uomo, il che costituisce l'unica
mira e la sola aspirazione di ogni educazione e di ogni vita, come pure l'unica destinazione dell'uomo.
Perciò la forma di educazione dell'uomo, la quale puramente determina, esige e prescrive, comincia
propriamente quando comincia la consapevolezza di sé, quando comincia l'unione di vita tra Dio e
l'uomo, quando ha principio la comprensione e la comunità di vita tra padre e figlio, tra giovane e
maestro, perché allora si può dedurre e riconoscere la verità dall'essenza del tutto e dalla natura del
singolo.
Prima dunque che il turbamento e la corruzione dell'originario, sano stato dell'educando sia in
particolare dimostrata nell'origine e nella direzione e riconosciuta con certezza, non rimane altro da fare
che collocare lo stesso educando in rapporti ed ambienti che lo riguardino da ogni punto di vista, dove
la sua condotta gli si rifletta da diversi lati attraverso se stessa come in uno specchio ed egli la
riconosca con facilità e rapidità nei suoi effetti e conseguenze, dove il suo vero stato possa essere
facilmente riconosciuto da lui stesso e da altri, e dove il prorompere e il manifestarsi dell'interno
turbamento della vita nuocciano il meno possibile».
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ARISTIDE GABELLI (1830-1891)
A. Gabelli, Il metodo d'insegnamento nelle scuole elementari d’Italia, [1880], La Nuova Italia, Firenze
1992.
III, pp. 71-72
«Tutto il segreto della buona riuscita della scuola sta nel saper trar profitto dell'istruzione che
qualunque bambino ha ricevuto prima di entrarvi, nel seguitare cioè dentro di essa, in luogo di rompere,
il filo delle idee che egli raccolse fuori. Quanto minore sarà il distacco tra la scuola e la vita che il
bambino condusse fino al giorno in cui vi mise piede, quanto più l'insegnamento del maestro
somiglierà alla istruzione ch'egli ricevette dalla natura, tanto maggiore sarà il suo piacere e perciò il suo
profitto. Noi non abbiamo infatti, né potremmo avere curiosità dell'ignoto. Bisogna che una cosa ci sia
nota a metà, perché ci venga il desiderio di conoscerla intera. In altre parole, impariamo volentieri
soltanto quando ci si lascia credere che presso a poco già sapevamo quello che ci si insegna. Allora la
compiacenza che scatta subito dall'amor proprio ravviva e tien desta la nostra attenzione, e con questo
solo si è già fatto mezzo il cammino.
Ma qual è la vita che il bambino fece prima di entrare alla scuola? Quella dei sensi, che furono, si può
dire, i soli suoi maestri. Continuiamo dunque questa prima istruzione della natura, in luogo
d'interromperla in guisa ch'egli ne resti confuso e umiliato, e insieme cerchiamo di secondare quant'è
più possibile i suoi utili istinti e le sue inclinazioni.
I fanciulli giocano dunque dei giochi che rammentino loro le cose vedute in casa, per le strade, in
campagna, che attraggano la loro curiosità, e insieme procaccino loro il piacere di far da sé qualche
cosa».
IV, pp. 79-81
«[…] Siccome poi delle cose sensibili l’idea più chiara si acquista per mezzo dei sensi, così non si
descrive soltanto, e meno ancora si definisce, ciò che può far vedere e toccare, ma si presenta agli
scolari o in natura, se è fattibile, o, se no, in plastica o in disegno, l’oggetto stesso su cui è caduto il
discorso. Si parla, suppongasi, dell'elefante. Il maestro, e il maestro campagnuolo principalmente,
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volendo spiegare che cosa significhi questo nome, ha un bel sudare co' suoi contadinelli, predicando
loro che è un animale ben grande, di colore cenerognolo, grosso di testa, col dorso in arco, con quattro
gambe massicce a guisa di colonne e un lungo naso elastico penzoloni fra due enormi denti bianchi
sporgenti in fuori. Che conchiudono tutte queste parole? Che è questo strano naso? Che questi denti, ai
quali nessuno vide mai cosa simile? Malgrado questa e qualunque altra molto miglior descrizione,
entrerà, come a dire, una nuvola nella testa di quei poveri fanciulli, tanto che ognuno di essi si fingerà
quest'animale alla sua maniera e in ultimo, meno il nome, ne saprà all'incirca come prima. Fate invece
che il maestro, dopo di avere abitualmente stuzzicato la loro curiosità, tragga fuori una tavola in cui
l'elefante sia dipinto: eccovi tutti gli occhi sospesi in quella con una così bramosa curiosità, che
l'immagine va ad imprimersi profondissima nella memoria e non si cancella per tutta la vita.
Quell'immagine offerta appena è come una rivelazione, dissipa tutti gli errori, tutte le idee preconcette,
tutti i pregiudizi, è la viridica parlante, e non lascerà luogo mai più a fole, a vane meraviglie, a
esagerazioni.
Ma il maestro ha poi finito col mettere fuori all'occasione un oggetto qualunque in plastica o dipinto
sopra un cartone e farlo vedere a’ suoi alunni? Quest'ufficio sarebbe in verità troppo semplice, e la
pedagogia non se ne accontenta. Che bell'occasione, quando la curiosità è desta, quando c'è
un'immagine precisa e netta davanti agli occhi che raccoglie tutta l'attenzione, quando tutti quei visini
stanno là attenti e silenziosi rivolti al loro maestro, che bell'occasione per lui, diciamo, di mettere delle
idee nuove in quelle menti aperte e vogliose, di fecondare quella prima impressione, di tirar dentro
storia, geografia, costumi di popoli, tutto, e rimandare a casa i suoi bimbi con ben altro bottino che
quelle regole della grammatica imparate a memoria senza capirle a forza di rimbrotti e di castighi. Ma
l'elefante! É quell'animale che Pirro condusse in Italia, quando ci venne per muover guerra ai Romani e
di cui i Romani in principio avevano tanta paura. Del resto, l'elefante c'è in molti paesi, c'è in Asia e c'è
in Africa; in Asia mansueto, in Africa invece selvaggio; selvaggio, ma non per questo inutile all'uomo.
Anche dove non lo si adopera per gli usi della vita quasi come da noi l'asino e il bue, gli si dà la caccia
per averne l'avorio, di cui si fa un commercio misterioso, per via di molte tribù intermediarie,
cogl'indigeni del centro dell'Africa ancora poco conosciuti. E qui all'uopo nuove tavole cogl'Indiani che
caricano gli elefanti, e le case, le piante. Gli aspetti dei paesi di cui si parla. Al bisogno, il maestro si
leva e disegna sulla lavagna il bacino di un fiume, una capanna, un canotto. Tutti gli occhi son lì
sospesi a quella tavola nera; che silenzio da sentir volare una mosca, che attenzione, che rispetto per
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quel bravo maestro, che scuola!».
A. Gabelli, L'istruzione e l'educazione in Italia, [1891], La Nuova Italia, Firenze 1950.
XII- Sul lavoro manuale nelle scuole di Germania, pp. 201-213 (si tratta di un saggio già pubblicato da
Gabelli nella rivista «Risveglio educativo» del gennaio 1887).
I.
«Il lavoro fu senza dubbio da tempi immemorabili oggetto di insegnamento. Certamente si insegnò a
lavorare molto prima che non a leggere, poiché la vita civile non incomincia altrimenti. Ma non per
questo mi fermerò a cercarne le origini nei primordi della civiltà e neppure in Egitto, od in Babilonia.
Noterò soltanto che il lavoro s'è insegnato fra noi lungo tutto il medioevo da alcune corporazioni
religiose e da istituti di beneficienza, e s'insegna ancora oggi negli orfanotrofi, negli istituti dei ciechi e
dei sordomuti e infine nelle scuole degli artieri e nelle industriali e professionali. Però tutto questo
lavoro, che pure fu ed è oggetto di insegnamento anche nelle scuole, non ha a che fare con quel lavoro
che chiamasi manuale e di cui si parla al presente.
Bisogna infatti distinguere il lavoro che costituisce l'oggetto speciale, o almeno il principale di una data
scuola, ch'è fine a se stesso, che mira al guadagno, da quel lavoro che in una scuola viene aggiunto alle
altre materie di studio coll'intento puramente pedagogico di sviluppare in modo armonico tutte le
attitudini umane e di rendere men incompiuta l'educazione. Soltanto di questa seconda specie di lavoro,
che non è un fine ma un mezzo, e si adopera soprattutto come correttivo di un'istruzione intellettuale,
che indebolisce il corpo e a cui si congiungono pure non pochi danni, può essere discorso qui. Ciò
segnatamente parlando della Germania, dove le istituzioni che insegnano invece quell'altro lavoro, che
avvia ad un'arte e mira direttamente alla vita, sono, oltreché molto anteriori di origine, così varie di
intento e copiose di numero, da non bastare a renderne conto anche fuggevolmente, un volume.
Per verità neppure il lavoro pedagogico, il lavoro cioè che va introducendosi nelle scuole come
contrappeso, se così si può dire, all'istruzione intellettuale, o come strumento educativo, si può
chiamare del tutto nuovo. L'idea almeno non è nuova, tanto che ne parlarono chiarissimamente, come
del mezzo più adatto a formar l'uomo tutto intero, Bacone, Montaigne, Comenius, Locke, Rousseau,
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Basedow, Salzmann, Pestalozzi e più efficacemente di tutti Froebel. Ma il cammino dell'umanità non
sarebbe così faticoso e così lento, se le idee non abbisognassero di un tempo assai lungo, per passare
dall'uno ai molti e dal dominio del pensiero a quello dei fatti. Come di tante altre cose, così avvenne
anche dell'introduzione del lavoro nelle scuole. Benché da tre secoli, col risorgere degli studi classici e
dell'ammirazione per l'antichità, si sia cominciato a farne parola da alcuni solitari pensatori, benché da
allora si scorga nella storia della pedagogia una traccia non interrotta della medesima idea, quest'idea
non si vede produrre il suo effetto ed entrare in pratica se non da pochi anni.
A farla trapassare dai libri nella vita contribuì più di tutti il Froebel, in quanto guidato dal suo concetto
dell'educazione armonica e compiendo il metodo del suo maestro, il Pestalozzi, a destare la curiosità e
l'attenzione e a fornire idee chiare delle cose, infliggendole profondamente nella memoria, non credette
bastevole il vedere e il toccare. A questi fini stessi, oltreché a secondare il naturale istinto dei fanciulli,
a trar partito dalla loro alacre irrequietezza, a variare gradevolmente l'insegnamento procurando loro un
sano sollievo, a prepararli, esercitando per tempo l'occhio e la mano, alla vita, egli credette dover
conferire sopra tutto il lavoro, o in altri termini, non già soltanto il vedere o il toccare, secondo il
metodo del Pestalozzi, ma il fare».
[...]
II.
«Esposti i fatti, vediamo se sia possibile trarne qualche conclusione non del tutto inutile per noi.
Dalla storia della pedagogia si vede chiaro, che gli sforzi di tutti i riformatori mirarono in ogni tempo a
un unico intento, a ringiovanire la scuola e riaccostarla alla vita. I mezzi da essi proposti differirono
grandemente, ma il fine fu sempre lo stesso e uno solo.
La storia dei mezzi posti innanzi a questo intento è in conchiusione la storia della pedagogia. Inutile
quindi avvertire che qui non è luogo neppur di accennarli. Dirò soltanto che il mezzo, non già proposto,
poiché, come fu avvertito, la proposta è antica, ma sperimentato più di recente, è il lavoro manuale.
Le ragioni teoriche molte e gravi, che lo raccomandano, combinano, fu già notato, colle condizioni
economiche e industriali del nostro tempo. Ma appunto perciò non si può non vedere, che sospinta
com'è dal duplice impulso delle teorie pedagogiche e delle inclinazioni del tempo, la cosa procede a
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passo stentato e assai lento. In Germania, infatti, un paese tutt'altro che restio alla novità in materia di
istruzione e dove il Froebel era già corso innanzi ad aprir la via, quest'opera è incominciata da più di
venti anni e ancora oggi non vi si parla se non di prove, di esperimenti e di saggi. Le scuole in cui è
introdotto il lavoro sono assai poche in paragone alle altre, forse una o due in cento; anche in queste gli
alunni ammessi al lavoro si riducono a un piccolo numero rispetto agli iscritti alla scuola; infine il
lavoro è sempre una materia facoltativa aggiunta alle altre fuori delle ore di studio, come si potrebbe
aggiungervi la scherma o un altro esercizio, talvolta in un locale che non è neppure annesso alla scuola,
e tal altra senza legame alcuno coll'istruzione intellettuale.
[...]
Il lento procedere del lavoro manuale come materia aggiunta all'istruzione intellettuale nelle scuole
ordinarie, ha le sue grandi ragioni, perché tanto son forti le considerazioni teoretiche con cui si suole
raccomandarlo, altrettanto gravi sono le difficoltà da superare nel porlo in pratica. Il lavoro quale è
oggi, e prescindendo da espedienti che fino ad ora non furono trovati, non può essere insegnato che
individualmente, all'incirca come si fa ai garzoni nelle officine e nelle botteghe. Ciò limita a un piccolo
numero gli alunni ammissibili contemporaneamente nelle officine, tanto più che non è facile il
mantenere, durante il moto e lo strepito del lavoro, la disciplina; donde la necessità di un considerevole
numero di locali e di un numero proporzionato di maestri, e una spesa che i governi, né per la maggior
parte i comuni, sono disposti a sostenere. Ma a ciò sono da aggiungere le discrepanze intorno al
metodo, che varia infinitamente per la qualità e l'ordine dei lavori e del quale si può quasi dire per ora
che ognuno ha il suo.
In Germania prevale un metodo eclettico venuto su in parte dal Froebel (il cartonaggio), in parte tolto
dall'esempio della Svezia (oggetti in legno di uso domestico), o inventato e in via di continuo
miglioramento (costruzione di strumenti scolastici). Ma poi chi accetta la modellatura in creta e chi no,
chi aggiunge al lavoro del legno quello dei metalli e chi l'esclude, chi considerando la scuola come uno
strumento di preparazione alla vita, vorrebbe dare al lavoro un indirizzo più usuale, più direttamente
proficuo, e un intento più industriale, chi ritenendo che la scuola debba predisporre le attitudini,
anziché farle fruttificare, preferisce una parte o l'altra del lavoro, secondo che questa o quella viene
giudicata conferir meglio al fine desiderato.
Che se usciamo dai confini della Germania, le discrepanze diventano molto maggiori. In Francia, per
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esempio, è addirittura un altro modo, tanto che non mi par inutile di notare almeno fuggevolmente le
differenze principali».
ROSA AGAZZI (1866-1951)
R. Agazzi, Guida per le educatrici dell'infanzia (dalla rivista "Pro Infantia", annata 1929-1930),
[1932], II ristampa, La Scuola, Brescia 1959.
L'assistenza dei maggiori ai minori, pp. 42-43
«Quando noi mettiamo un bambino di cinque anni nella condizione di osservare un altro bambino
inferiore a lui per età e per intelligenza, e gli diciamo: vedi, egli qui in alto non può arrivare, perché è
basso di statura; vuoi tu aiutarlo? Egli non sa quello che tu sai; vuoi insegnargli qualche bella cosa?
Egli è debole e tu sei forte; vuoi tu proteggerlo?
Quando noi facciamo questo, applichiamo un principio della morale cristiana - l'amore per il prossimo -
mettiamo cioè le basi del sentimento della fratellanza. Chi non vede tutta la bellezza spirituale che in sé
racchiude l'incontro di due minuscole esistenze, di cui una prova l'impressione della propria pochezza,
l'altra la gioia nell'intuire che, avendo già superato quello stato di debolezza, si sente in grado di
insegnare ad altri a superarlo? Il maggiore dei due guidato dall'educatrice a ricordare il cammino
percorso. "E' vero", pensa: "Io pure un giorno ero piccolo di corpo e di mente, io pure ebbi chi mi aiutò
a intendere; poi appresi a fare da me solo; ora posso anche insegnare a chi non sa".
Ecco che il bambino si accorge di percorrere una via che lo conduce verso un progressivo
miglioramento della propria individualità; ogni giorno che passa egli vede dietro di sé un altro se stesso
in proporzioni ridotte. Questo fatto può risolversi per l'educando in salutare compiacimento, quando
l'educatrice sappia farlo rivivere nei rapporti di benevolenza fra il maggiore e il suo pupillo.
"Vedi? Questo lavoro che tu hai fatto, ieri non lo sapevi fare; ma oggi la tua mano, un poco meno
ignorante di ieri, ha imparato a muoversi con destrezza; gli occhi, più attenti, hanno veduto meglio; e
sei stato tu a comandare alla mano e agli occhi di essere un po’ più bravini, perché oggi anche tu hai un
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pò più di giudizio di ieri... Il tuo piccolo nel vedere questo lavoretto penserà: 'Oh, guarda, il mio grande
cosa sa fare!... Lui sì, io no!...'.
Si inizia, per tal modo, la virtù della longanimità.
Come avviene di ogni esercizio che più si ripete e più lascia traccia di sé, la frequente vicinanza del
maggiore al minore alimenta in ambedue il vincolo di una fraterna simpatia. Nulla di più bello del
vedere i bambini di tre anni intenti ad ammirare, nelle pose più varie, i loro tutori in faccende a
preparare un giocattolo proprio per loro uso. Guardano in silenzio, compresi delle azioni che vedon
succedersi nella fabbricazione del modesto oggetto, compresi anzitutto della bravura di chi lo compie.
Nulla di più grazioso di un maggiore che insegna al piccolo a innaffiare, senza bagnarsi, una
pianticella; a sollevarlo, perché possa con più agio osservare un disegno sulla lavagna; a rimboccargli
le maniche prima della lavatura; a insegnargli a pronunciare il nome di un fiore, ad allacciargli il
bavaglino, a spezzargli il pane; a vestirlo, a condurlo in guardaroba a riporre cose con ordine; a
segnargli il tempo mentre gli insegna un passo ritmico.
L'educatrice, anziché cercare di ridurre le occasioni di codesti avvicinamenti, dovrebbe proporsi di
moltiplicarle: ridurle, significa rinunciare a innumerevoli occasioni di aiutare la sensibilità affettiva de'
suoi alunni, mentre è specialmente dallo svolgersi di questa convivenza che ella dovrebbe far scaturire
il programma di una morale in azione. Con fine accorgimento ella porterebbe alla ribalta, senza darsi
l'aria di colpire, difetti e pregi della sua coorte, guidata sempre dall'intento di sottrarre i piccoli cuori
alle scorie dell'istinto, per renderli atti a intendere la gioia che ogni anima nobile prova volendo bene e
giovando al proprio simile».
Ordine, libertà e intraprendenza negli esercizi di vita pratica. (Ricordando l'asilo di Mompiano), pp.
265-268
«Quell'insigne educatore e didatta che era il Prof. Pietro Pasquali (di cui fortunatamente potei essere
discepola), lasciò scritto: "Tutti siamo convinti che l'ordine materiale influisce potentemente sull'ordine
morale, perché agisce direttamente sulla intelligenza, sull'igiene, sui costumi, sulla condotta, sul
carattere. Il disordine è causa di deplorevoli conseguenze; la vita disordinata sparge intorno miserie,
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guai, dolori. Lo sappiamo tutti, ma non tutti sappiamo quali mezzi si devono mettere in opera.
Partiamo da un principio pedagogico: per far acquistare delle abitudini all'educando, bisogna farlo
agire: per farlo agire, occorrono cose e condizioni favorevoli. Questa è norma di scuola nuova, in
sostituzione del vecchio sistema, tutto precetti e massime.
L'esercizio dell'ordine è possibile solo dove persone, cose e azioni rendono probabile il disordine.
"Quali cose dobbiamo porre intorno al bambino della scuola materna per educarlo al senso dell'ordine?
Naturalmente le cose che gli occorrono nella vita domestica, poi nella vita collettiva; sono le cose che
rispondono ai suoi bisogni; egli ha bisogno di tenersi pulito, di nutrirsi, d'imparare a vestirsi e
spogliarsi, di giocare e lavorare; ha bisogno d'apprendere il rispetto alla roba altrui; ed ecco la necessità
d'un corredo abbondante di indumenti, d'un materiale ad uso di pulizia ed arredi da refettorio, e
giocattoli e strumenti da lavoro. Quante saranno le cose? Fatene voi l'inventario, dividendole in due
categorie: cose permanenti, di cui si rende necessaria l'opera di manutenzione; e cose di consumo, che
richiedono la continua rinnovazione. Avute le cose, bisogna fissare a ciascuna il suo posto: ed ecco gli
esercizi d'ordine: uso, manutenzione, movimento, collocamento, e via"1.
Provveduto un numero considerevole di cose attinenti alla vita, stabilito nell'ambiente un ordine
inappuntabile, organizzate le azioni dei bambini a base rigorosamente logica e naturale, viene bandito
ogni convenzionalismo per far posto alla libertà di parola e d'azione, condizione indispensabile per
mettere il bambino in rapporto diretto coll'educatrice e manifestarle tutto l'essere suo.
In un ambiente educativo dove il moto è libero e la libertà è diretta dalla responsabilità personale,
l'intelligenza ha parte attivissima. Osservazioni di mezzo e di fine, di causa e di effetto, di principio e di
conseguenza, confronti, impulsi d'iniziativa nascono ad ogni momento, promuovendo nei bambini
l'azione, la riflessione, il linguaggio.
Nell'opera citata, il Prof. Pasquali dice ancora: "Si nota, ed è naturale, che i bambini sono
intraprendenti dove maggiore è la libertà che loro concede di sperimentare l'uso delle cose. Per
esempio, chi è bene esercitato ad empire, vuotare e trasportare vasche, è pure addestrato a maneggiare
tali recipienti in modo da non versare l'acqua sui piedi; e dove sarà necessario l'aiuto di forza e
1 Cfr. P. Pasquali, Il nuovo spirito dell'Asilo, ed. Vallardi, La Voce delle maestre d’asilo Unione Tipografica, Milano 1910.
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destrezza, sarà quello stesso il primo ad accorrere; chi è solito tuffare e sciacquare catinelle, ha
imparato l'arte di tuffarle meglio e presto, felice quando in tale faccenda occorrerà la prontezza
dell'opera sua. Anche nei piccoli atti il bimbo dà a scorgere le acquistate abilità; a veder con quale
accorgimento le sue manine si prestano a staccar fiori col gambo lungo, a non pungersi dove ci sono
spine, a non rovinare bottoncini, a entrare fra i cespi con grazia, si dice subito: questo bimbo è stato
esercitato, ha imparato ed è solito coglier fiori, anche da solo.
Le prime lezioni d'iniziativa e d'intraprendenza, a base di abilità, non sono pane per tutti i denti e non
s'imparano sui libri; bisogna che l'educatrice faccia a proposito uno studio speciale".
Tra gli esercizi di vita pratica che maggiormente rispondono ai suesposti concetti, hanno il primato le
lavature con arredi di mobili e la preparazione delle mense. E' veramente meraviglioso questo andare e
venire disciplinato e gaio di bambini che stanno preparando un refettorio per il pranzo e una sala per le
lavature.
Io credo che il più apatico degli individui dovrebbe sentirsi scosso davanti a quel succedersi di azioni
dove l'intelligenza, la spontaneità, la grazia, il buon senso si danno la mano nell'addestrare una società
infantile e conciliare la libertà coll'ordine.
Una educatrice che sa raggiungere questa finalità non può che avere ben chiaro il concetto della propria
missione, e se il profano che vede non è in grado di capire quanto ognuna di quelle azioni che il
bambino compie sia il risultato di intelligente ricerca e di pazienti prove da parte dell'educatrice, chi
non ignora l'arte di educare dovrebbe nonché approvare, gustare e ammirare. Talvolta invece è
accaduto che questo miracolo dell'educazione venisse da presunti educatori accolto col sorriso dello
scherno. Ma oggi chi non sa quale importanza hanno assunto nella scuola materna gli esercizi di vita
pratica? [...]».
JOHN DEWEY (1859-1952)
J. Dewey, Il mio credo pedagogico, in Id., Il mio credo pedagogico. Antologia di scritti
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sull’educazione, [1897], tr. it., La Nuova Italia, Firenze 2004, pp. 3-31.
Articolo I- Cos’è l’educazione, pp. 3-9
«Io credo che
- ogni educazione deriva dalla partecipazione dell’individuo alla coscienza sociale della specie. Questo
processo s’inizia inconsapevolmente quasi dalla nascita e plasma continuamente le facoltà
dell’individuo, saturando la sua coscienza, formando i suoi abiti, esercitando le sue idee e destando i
suoi sentimenti e le sue emozioni. Mediante questa educazione inconsapevole l’individuo giunge
gradualmente a condividere le risorse intellettuali e morali che l’umanità è riuscita ad accumulare. Egli
diventa un erede del capitale consolidato della civiltà. L’educazione più formale e tecnica che esista al
mondo non può sottrarsi senza rischio a questo processo generale. Può soltanto organizzarlo o
trasformarlo in qualche direzione particolare.
- La sola vera educazione avviene mediante lo stimolo esercitato sulle facoltà del ragazzo da parte delle
esigenze della situazione sociale nella quale esso si trova. Tali esigenze lo stimolano ad agire come
membro di un’unità, a uscire dalla sua originaria angustia di azione e di sentire, e a pensare a se stesso
dal punto di vista del benessere del gruppo del quale fa parte. Attraverso le reazioni degli altri alle sue
attività esso arriva a capire che cosa queste significano in termini sociali. Ad esse ritorna riflesso il
valore che esse hanno. Ad esempio, attraverso la risposta che si fa all’istintivo balbettare del fanciullo
questi giunge a comprendere il significato di questo balbettio. Esso si trasforma in linguaggio articolato
e in tal modo il fanciullo ha accesso alle ricchezze di idee e di emozioni che sono accumulate e
consolidate nel linguaggio.
- Il processo educativo ha due aspetti, l’uno psicologico e l’altro sociologico, e che nessuno dei due può
venire subordinato all’altro o trascurato senza che ne conseguano cattivi risultati. Di questi due aspetti
quello psicologico è basilare. Gli istinti e i poteri medesimi del fanciullo forniscono il materiale e
danno l’avvio a tutta l’educazione. Se gli sforzi dell’educatore non si riallacciano a qualche attività che
il fanciullo compie di sua propria iniziativa indipendentemente dall’educatore stesso, l’educazione si
riduce a una pressione dall’esterno. Essa può dare dei risultati esterni, ma non può essere veracemente
chiamata educativa. Senza una penetrazione della struttura e delle attività psichiche dell’individuo il
processo educativo sarà, perciò, accidentale e arbitrario. Se coincide fortuitamente coll’attività del
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fanciullo, ne verrà stimolato; altrimenti risulterà in un ostacolo o in un agente di disintegrazione o di
arresto della natura del fanciullo.
- La conoscenza delle condizioni sociali, o dello stato attuale della civiltà, è necessaria per potere
interpretare esattamente i poteri del fanciullo. Questi possiede i suoi istinti e le sue tendenze, ma noi ne
ignoriamo il significato finché non possiamo tradurli nei loro equivalenti sociali. Dobbiamo essere
capaci di riportarli ad un passato sociale e di vederli come l’eredità di precedenti attività della specie.
Dobbiamo essere capaci altresì di proiettarli nel futuro per vedere quel che sarà il loro risultato e il loro
fine. Riferendoci all’esempio fatto sopra, è la capacità di scorgere nel balbettio del fanciullo la
promessa e la potenza di una futura attività di contatti e scambi sociali che permette di tenere in giusto
conto quell’istinto.
- L’aspetto psicologico e quello sociale stanno fra loro in un rapporto organico e che l’educazione non
può venir considerata come un compromesso fra i due aspetti o come una sovrapposizione dell’uno
sull’altro. Si afferma che la definizione psicologica dell’educazione è nuda e formale, che ci dà soltanto
l’idea dello sviluppo di tutti i poteri della mente senza darci nessuna idea del loro impiego. D’altra
parte si insiste che la definizione sociale dell’educazione come “adattamento” alla civiltà ne fa un
processo forzato ed esterno e conduce a subordinare la libertà dell’individuo a una situazione sociale e
politica presupposta.
- Ciascuna di queste obiezioni è vera quando viene affacciata contro uno dei due aspetti isolato
dall’altro. Per conoscere quel che è veramente una facoltà dobbiamo conoscerne il fine, l’impiego o la
funzione, e ciò non è possibile se non si concepisce l’individuo come attivo nei rapporti sociali. Ma
d’altra parte il solo possibile “adattamento” che possiamo dare al fanciullo nelle condizioni esistenti è
quello che deriva dal porlo in possesso completo di tutte le sue facoltà. Coll’avvento della democrazia e
delle moderne condizioni industriali è impossibile predire con precisione cosa sarà la civiltà da qui a
venti anni. È perciò impossibile preparare il fanciullo a un ordine preciso di condizioni. Prepararlo alla
vita futura significa dargli la padronanza di se stesso; significa educarlo in modo che egli arrivi a
conseguire l’impiego intero e pronto di tutte le sue capacità; che il suo occhio, il suo orecchio e la sua
mano possano essere pronti strumenti di comando, che il suo giudizio possa essere capace di afferrare
le condizioni nelle quali deve lavorare e le forze che egli deve sviluppare per poter agire
economicamente ed efficientemente. È impossibile raggiungere questo adattamento se non si tien conto
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di continuo dei poteri, dei gusti, e degli interessi propri dell’individuo, cioè se l’educazione non è
costantemente convertita in termini psicologici.
Riassumendo, io credo che l’individuo che deve essere educato è un individuo sociale e che la società è
un’unione organica di individui. Se eliminiamo il fatto sociale dal fanciullo si resta solo con
un’astrazione; se eliminiamo il fatto individuale dalla società, si resta solo con una massa inerte e senza
vita. Perciò l’educazione deve iniziarsi con una penetrazione psicologica delle capacità del fanciullo,
dei suoi interessi e delle sue abitudini. Essa deve essere controllata ad ogni punto con riferimento a
queste stesse considerazioni. Tali facoltà, interessi e abitudini devono essere continuamente
interpretate; noi dobbiamo sapere qual è il loro significato. Esse devono esser tradotte nei loro
equivalenti sociali e mostrare la loro capacità come organi di servizio sociale».
J. Dewey, Democrazia e educazione, [1916], tr. it., La Nuova Italia, Firenze 2000.
Cap. XXIII, L’educazione professionale, pp. 393-395
1. Il significato di professione
«Attualmente il conflitto delle teorie filosofiche è concentrato sulla discussione circa il posto e la
funzione che hanno i fattori professionali nell’educazione. L’affermazione nuda e cruda che le
differenze significative nelle concezioni filosofiche fondamentali hanno in questo argomento il loro
punto focale può risvegliare l’incredulità; sembra che vi sia una separazione troppo grande fra i termini
astratti e generali in cui sono formulate le idee filosofiche, e i dettagli pratici e concreti dell’educazione
professionale. Ma un esame mentale dei presupposti intellettuali che stanno alla base dell’opposizione
nel campo educativo fra lavoro e svago, fra la teoria e la pratica, fra il corpo e la mente, mostrerà che
essi culminano nell’antitesi fra l’educazione professionale e la culturale. Tradizionalmente, la cultura
liberale è stata congiunta con le idee di otium, di conoscenza puramente contemplativa, e di un’attività
spirituale che non implicava l’uso attivo degli organi del corpo. La cultura ha anche teso, ultimamente,
ad essere associata a un raffinamento puramente privato, la coltivazione di certi stati ed atteggiamenti
di coscienza, separati tanto dall’interesse che dalla funzione sociale. È stata un’evasione dal primo e un
conforto all’ineluttabilità del secondo.
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Questi dualismi filosofici sono così profondamente intrecciati con tutto l’argomento dell’educazione
professionale, che si rende necessario definire il significato di professione in modo abbastanza
completo da poter evitare l’impressione che un’educazione che si concentri su di essa sia ristrettamente
pratica, se non puramente pecuniaria. Professione non significa altro che direzione delle attività della
vita in un senso che le renda percepibilmente significative per chi le pratica in virtù delle loro
conseguenze, ed anche utili ai suoi associati. Il contrario di attività professionale non è né l’ozio né la
cultura, ma la mancanza di scopo, il capriccio, l’assenza di acquisizioni cumulative nell’esperienza, dal
lato personale, e, dal lato sociale, il lusso vano, la dipendenza parassitaria dagli altri. Occupazione è un
termine concreto per continuità. Include tanto lo sviluppo della capacità artistica di ogni genere,
dell’abilità scientifica specializzata, dell’interesse politico attivo, quanto le professioni e gli affari, per
non parlare del lavoro meccanico o delle occupazioni lucrative.
Dobbiamo evitare non solo che per occupazione s’intenda qualcosa di limitato alle occupazioni che
producono cose utili immediatamente tangibili, ma occorre evitare anche l’idea che le professioni siano
distribuite in modo esclusivo, di guisa che una persona non possa averne che una sola. Uno specialismo
così ristretto è impossibile; niente potrebbe essere più assurdo che cercare di educare gli individui ad un
unico genere di attività. In primo luogo, ogni individuo ha necessariamente una varietà di aspirazioni
cui può dare opera intelligente; e in secondo luogo qualsiasi occupazione perde il suo valore e diventa
una routine che asservisce a una data cosa, nella misura in cui è isolata dagli altri interessi.
1) Nessuno è solamente artista e niente altro, e quanto più uno si avvicina a questa condizione, tanto
più lo fa a detrimento della sua umanità; è una specie di mostro. In qualche periodo della sua vita egli
deve essere membro di una famiglia, deve avere amici e compagni; deve essere o finanziariamente
indipendente o dipendente da altri, e perciò occuparsi di affari. Egli è membro di qualche unità politica
organizzata, e così via. Naturalmente noi lo qualifichiamo professionalmente in base a quella delle sue
occupazioni che lo distingue, piuttosto che in base a quelle che ha in comune con tutti gli altri. Ma non
dovremmo lasciarci talmente legare dalle parole, da ignorare e virtualmente negare le altre sue
occupazioni, quando si tratta di considerare gli aspetti professionali dell’educazione.
2) Come l’attività di un artista professionista rappresenta il momento specialistico di una gamma di
attività professionali, così la validità della sua arte sul piano umano è determinata dalla sua connessione
con altri interessi. Uno deve avere esperienze, deve vivere, se la sua arte deve essere qualcosa di più di
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un risultato tecnico. Egli non può trovare l’argomento della sua attività artistica nella sua arte; questa
deve essere un’espressione di quel che egli soffre e gode in altre relazioni, e questo dipende a sua volta
dalla prontezza e dalla vivezza dei suoi interessi. Ciò che è vero per un artista è vero anche per
qualsiasi altra forma speciale di attività. Senza dubbio ogni professione distintiva tende (conforme alla
legge dell’abitudine) a divenire troppo predominante, troppo esclusiva e troppo assorbente nel suo
aspetto specializzato. Il che significa che viene accentuata specialmente la prassi, l’aspetto tecnico, a
scapito del significato. Perciò compito dell’educazione non è già di incoraggiare questa tendenza, ma
piuttosto di mettere in guardia contro di essa, di modo che ricercatore scientifico non sia semplicemente
lo scienziato, maestro semplicemente il pedagogo, sacerdote chi indossa la tonaca e così via».
ADOLPHE FERRIÈRE (1879-1960)
A. Ferrière, La scuola attiva, [1920], tr. it., V ediz., Marzocco, Firenze 1950.
Cap. 1- Le fondamenta psicologiche su ci si edifica la scuola attiva, pp. 24-26
[…]
II
«Lo slancio vitale dello spirito sta alla radice della vita, è la sorgente di ogni attività degna di questo
nome; senza di esso trionfa il meccanismo; in lui tutto è splendore, calore, amore e luce. Vi è forse un
tesoro più prezioso in tutti gli esseri viventi? Rispettiamolo, adunque, nell’uomo! Maxima debetur
puero reverentia! Questo impulso alla vita, questa forza che dirige la vita dello spirito è già, per noi,
non soltanto un fenomeno conosciuto e studiato, ma è ormai l’oggetto d’ogni nostra cura in educazione;
il suo sviluppo è un fine da raggiungersi e, al tempo stesso, rappresenta il solo mezzo che l’uomo
possegga per avvicinarsi sempre di più alla meta suprema: l’arricchimento delle proprie energie
spirituali, il potenziamento di se stesso. Nelle pagine seguenti noi vedremo quanto sia importante per
l’educazione conservare ed accrescere questa sorgente di vita che è in noi, ma non potremmo
accingerci a questa ricerca senza prima porci un altro problema, tentando di risolverlo: come si
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manifesta questo potentissimo impulso? Per quali vie, con quali mezzi esso opera e si fa palese? In
fondo, rispondere a queste domande, posto che per noi il “progresso” è questo cammino in avanti verso
l’arricchimento delle proprie energie spirituali, non significa rispondere all’altra, quale sia la legge del
progresso? Non esaminerò, qui, il problema dal punto di vista biologico e fisiologico come ho già fatto
lungamente nell’opera già citata. Ivi il lettore troverà descritto come l’esperienza, che è, poi, il contatto
tra l’individuo ed il mondo esteriore, operi, per mezzo del piacere o del dolore che essa porta con sé,
una scelta tra le reazioni; come la reazione, incerta dapprima sulla direzione da prendere, divenga poi
appropriata, tale, cioè, da contribuire all’adattamento dell’individuo all’ambiente; in quale modo la
nostra reazione si fissi, si meccanizzi, si imprima nell’incosciente così da liberare la forza vitale
consentendole nuovi adattamenti; per che vie lo slancio vitale discerna sempre meglio e sempre meglio
impieghi a suo profitto quello che di costante si nasconde sotto l’apparente molteplicità dei fenomeni.
Fare questa conoscenza empirica, appropriarsela, arricchendosi per suo mezzo sempre di più; crearsi
delle possibilità d’azione sempre più svariate; guardarsi e difendersi sempre meglio dalle cause di
distruzione; ecco quello che si vuol significare con l’espressione legge del progresso. Essa, dunque,
vuol compendiare due elementi complementari: 1°) la divisione del lavoro che si stabilisce tra le varie
attività, siano esse di percezione, di discriminazione o d’azione; 2°) quel potere di unificazione sempre
crescente che riunisce in un sol fascio tutte le forze dell’organismo altrimenti divergenti.
Per chiarire il processo con una immagine, si può dire che la differenziazione, o divisione del lavoro, va
dal centro alla periferia, mentre la concentrazione, od unificazione, va dalla periferia al centro. Così si
forma lentamente, ma con un progresso continuo, il nostro spirito; le varie funzioni al suo servizio
formano una gerarchia che potremmo dire a piramide e così pure potremmo raffigurarci la gerarchia dei
valori nel seno stesso dello spirito. Io non posso ripetere qui tutto quello che ho già scritto; basti aver
ricordato, poiché parliamo di educazione, che la legge del progresso, vale a dire l’equilibrarsi della
differenziazione e della concentrazione, vige anche in psicologia».
[…]
Cap. 3- L’attività manuale nella scuola attiva, pp. 96-99
«Fon